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mensile - anno 2 numero 10 - ottobre 2008

3 euro

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

La menzogna svelata dell’Ossezia del Sud Stati Uniti D’America Algeria Colombia Ruanda Italia Mondo

Gino Strada

Nero e non solo A costo di finire in prigione L’angelo della notte Caccia ai sopravvissuti Tortura, colpevole rinvio di Lino Buscemi Inserto speciale: Acqua, una volta era un bene comune Libia, Spagna, Paralimpiadi, Brasile

Il nostro razzismo

Il dodicesimo fascicolo dell’atlante: la nuova guerra fredda


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La pace non può essere ottenuta con la forza. Si può raggiungere solo con la reciproca comprensione. Albert Einstein

ottobre 2008

L’editoriale

mensile - anno 2, numero 10

di Maso Notarianni

Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Christian Elia Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Stella Spinelli Naoki Tomasini Alessandro Ursic

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Blue & Joy Lino Buscemi Sara Della Bella Gabriele Del Grande Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Matteo Fagotto Nicola Falcinella Paolo Lezziero Sergio Lotti Emilio Molinari Claudio Sabelli Fioretti Vauro Senesi Gino Strada

Progetto grafico Guido Scarabottolo Segreteria di redazione Silvina Grippaldi Relazioni esterne Marco Formigoni

Hanno collaborato per le foto

Redazione e amministrazione Via Meravigli 12 20123 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net

Stefano Barazzetta Cristiano Bendinelli Alexei Pivoravov/Prospekt Massimo Di Nonno/Prospekt Samuele Pellecchia/Prospekt Nicola Sessa

Stampa Graphicscalve Amministrazione Loc. Ponte Formello - 24020 Annalisa Braga Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 30 settembre 2008 Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Pubblicità Via Meravigli 12 - 20123 Milano Via Meravigli 12 Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07 20123 Milano Tel (+39) 02 801534 Fax (+39) 02 80581999 Foto di copertina: peacereporter@peacereporter.net Tre generazioni Ossezia del Sud, 2008. Nicola Sessa©PeaceReporter

Le verità bugiarde l reportage di apertura, questo mese, è particolarmente importante. Sia perché PeaceReporter è stato l’unico giornale italiano ad andare in Ossezia del Sud per vivere insieme alla popolazione locale gli effetti di un attacco militare tanto brutale quanto devastante, sia perché svela i meccanismi che scattano durante le guerre. Altri giornali (e anche alcune televisioni) hanno millantato la loro presenza in territorio sud-osseto. Qualcuno invece c’è stato, ma ha fatto in quei territori una “toccata e fuga”. La stampa mondiale ha trattato il conflitto tra Georgia e Ossezia del Sud un po’ come Berlusconi ha trattato la vicenda Alitalia. A furia di ripetere una bugia, quella bugia è diventata verità e conoscenza comune. Per Berlusconi (e per tanta parte della stampa italiana), la colpa del disastro Alitalia è stata tutta dei piloti e dei sindacati. In testa la Cgil, ovviamente. E morire se qualche giornale o qualche televisione si sia preso la briga di rileggere o ripubblicare l’offerta che a suo tempo aveva fatto Air France e che proprio Berlusconi aveva fatto naufragare: nessun debito a carico dei contribuenti (a fronte di un milliardo e mezzo di euro che rimarranno sulle spalle di noi italiani), molti meno esuberi (duemilacinquecento quelli previsti da Air France, oltre seimila quelli previsti dalla cordata di Berlusconi) e - non trascurabile - una proprietà con una enorme esperienza nel settore al posto di un gruppo di banchieri e magliari. Per il conflitto tra Georgia e Ossezia del Sud, la pioggia di bugie e mistificazioni è stata altrettanto fitta e purtroppo altrettanto efficace. La Georgia è stata invasa dalla Russia: questo è quel che è passato. La liberale, democratica, europea Georgia è stata brutalmente attaccata da Mosca. Nessuno ha detto che a cominciare i bombardamenti è stato un presidente squilibrato, Mikhail Saakashvili. Nessuno ha detto che quel presidente squilibrato aveva ottenuto garanzie e appoggi militari dall’occidente, dagli Stati Uniti e da Israele in particolare. Nessuno ha detto che quello squilibrato presidente, evidentemente pericoloso per il fragile e delicato “ordine mondiale” e non diverso dai tanti presidenti-dittatori dell’arcipelago ex-sovietico, è diventato europeo, occidentale e liberale, in una parola amico nostro, solo perché ha in mano la gestione degli oleodotti che portano il petrolio in Europa e perché averlo come partner nella Nato permette alla Alleanza atlantica di schierare i suoi missili e i suoi soldati vicino al nemico russo. Ancora una volta, dunque, una clamorosa serie di bugie sono diventate sentire comune nella pubblica opinione. Sono diventate conoscenza, e dunque, in qualche modo, verità. Questi sono i meccanismi che la stampa dovrebbe sempre combattere, e non oliare. Questi sono i meccanismi che PeaceReporter cerca di smontare.

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Stati Uniti d’America a pagina 10

Migranti a pagina 24 Ossezia del Sud a pagina 4

Distribuzione in libreria Joo Distribuzione - via F. Argelati 35, 20143 Milano - Tel 028375671

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Ruanda a pagina 18

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Algeria a pagina 14

Scritti, disegni e fotografie anche se non pubblicati non verranno resi.

Colombia a pagina 16

Italia a pagina 22 3


Il reportage Ossezia del Sud

Georgia, la menzogna svelata dal nostro inviato Enrico Piovesana

“Se non arrivavano i russi, a quest’ora saremmo tutti morti”. Valentin butta il mozzicone di sigaretta tra i calcinacci che ricoprono il pavimento del suo appartamento, all’ultimo piano di un grande condominio alla periferia di Tskhinvali. uri e soffitti sono anneriti dal fuoco e sventrati dalle cannonate georgiane. Alle fiamme sono sopravvissute solo le reti contorte dei letti e i cocci delle stoviglie di ceramica. “Questo palazzo è stato colpito dai missili Grad, dalle bombe aeree e dai carri armati. I georgiani hanno usato contro di noi tutte le armi che avevano. Solo in questa scala sono morte due persone. In duecento, per tre notti e tre giorni, abbiamo vissuto nelle cantine, senza luce, acqua né cibo. E ci è andata bene: in centro i soldati georgiani aprivano le botole dei rifugi e ci lanciavano dentro le bombe a mano”. Nel cortile condominiale, dove alcune donne lavano i piatti con l’acqua del pozzo, incontriamo Murat. Ha appesa al taschino della camicia, con un fiocco nero, la foto di suo figlio Fiddar. “Era un combattente, lo hanno ucciso qui vicino i georgiani mentre cercava con alcuni compagni di liberare dei civili presi in ostaggio”. Ci porta nel suo appartamento, nel condominio di fronte, per mostrarci la foto del figlio incorniciata, pronta per la cerimonia funebre dell’indomani. Sono passati quaranta giorni dall’attacco georgiano, e in tutta l’Ossezia del Sud sono iniziate le tradizionali cerimonie di commemorazione delle centinaia di vittime, quasi tutte civili. Non c’è ancora un bilancio definitivo, il loro numero cresce a decine ogni giorno, mano a mano che si riesumano i cadaveri dalle improvvisate fosse. Tra morti e dispersi si superano comunque le millecinquecento persone. “La festa per il mio Fiddar sarà dopodomani. Ora sto andando a un’altra cerimonia, in ricordo di un suo amico, Sergi. Volete venire?”. Saliamo sulla sua vecchia Volga e raggiungiamo il cortiletto di una palazzina, affollato da almeno duecento persone: anziani con la coppola, donne ben vestite, giovani e meno giovani ancora in mimetica, vecchie con foulard neri in testa. Tanti portano le foto dei loro cari spillate al petto come Murat. Tutti piangono in silenzio, con i fazzoletti in mano. Solo i bambini giocano e ridono correndo tra le gambe delle persone che si abbracciano scambiandosi le condoglianze. In un angolo ribollono enormi pentoloni pieni di carne per il banchetto. Il lamento straziante della madre di Sergi inizia a sentirsi fin dalle scale, aumentando man mano che si avvicina al portone, da cui esce, di nero vestita, mostrando a tutti la foto del figlio, ucciso alla guida della sua auto dalla mitragliatrice di un tank georgiano. Il suo pianto disperato contagia tutte le donne che le stanno attorno in un tragico coro che fa da sottofondo al discorso del marito, che maledice la barbarie della guerra e dei georgiani. Poi la famiglia sale in macchina alla volta del cimitero, mentre gli invitati rimangono, prendendo posto attorno a due lunghi tavolacci imbanditi con montagne di piroghì alla carne e con centinaia di bottiglie di vino rosso e vodka. Vecislav, un vecchio amico di Murat, insiste perché ci sediamo al tavolo degli uomini e ci invita l’indomani alla cerimonia in memoria di sua nipote Elina, che sorride felice da un piccola foto in bianco e nero all’occhiello della sua giacca. “È bruciata viva con sua madre. La loro casa è stata colpita da un Grad georgiano. Ora tra quelle mura non ci vivrà più nessuno, perché suo padre e suo fratello erano già stati uccisi dai georgiani nella guerra del ’91”. Anche a casa di Soslan, nella centrale via Stalin, iniziano a radunarsi paren-

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ti e amici per un’altra cerimonia di commemorazione: quella di sua madre Liana e di sua nonna Elena, uccise da un Grad georgiano mentre erano risalite in casa dal rifugio per prendere del cibo. Sono sepolte sotto un unico tumulo di terra nell’orto dietro casa, tra i pomodori e i cetrioli. “In città si combatteva, non potevamo seppellirle al cimitero. Lo facciamo oggi”. Tutto è pronto per la riesumazione: pale, corone di fiori e due grandi croci ortodosse di legno. Mancano solo le bare. onostante la velocità con cui le centinaia di operaie e operai ceceni delle imprese edili russe stanno ricostruendo e ripulendo la città, Tskhinvali mostra ancora, dopo oltre un mese, tutti i segni dell'attacco georgiano. Gran parte degli edifici del centro - trecento abitazioni civili, scuole, asili, università, biblioteche, palazzi governativi - sono completamente distrutti dalle bombe e dalle fiamme, ricoperti da teli verdi che pare vogliano pudicamente nascondere la violenza subita. Tutte le altre costruzioni sono crivellate dagli spari delle mitragliatrici o squarciati dalle cannonate. L'asfalto delle strade del centro città, ora percorse da auto scassate e mezzi militari russi, è lacerato dalle tracce dei cingoli dei carri armati georgiani, dei quali sono rimasti ormai solo pochi rottami sparsi qua e là. Tra questi, la torretta di un tank colpito da un lanciarazzi, saltata in aria e ricaduta a terra con il cannone completamente infilzato nel suolo. Perfino gli alberi della città sono feriti: rami spezzati, tronchi sfregiati dalle pallottole, molti bruciati o abbattuti. Ma ciò che più lascia esterrefatti è la vista dell’unico ospedale della città, anch’esso semidistrutto dalle cannonate e dalle mitragliatrici georgiane. “Nemmeno i nazisti sparavano di proposito contro gli ospedali!”, si sfoga Tina, l’anziana capoinfermiera, con due occhi celesti ancora arrossati dalla stanchezza. Mostrandoci gli umidi sotterranei dove durante i bombardamenti sono stati trasferiti e curati centinaia di feriti, ci racconta la sua esperienza di quei giorni. “Lavoravamo senza macchinari e senza luce, con pochissime medicine. Sopra di noi continuavano a cadere le bombe. Io non mi sono fermata un minuto, non ho dormito mai, non c’era tempo. Ma ora non mi sento molto bene”, dice iniziando a piangere. “Quando siamo riemersi da quell’inferno - continua con la voce rotta - c’è stata una cosa che ci ha fatto più male delle bombe: scoprire che le televisioni internazionali parlavano solo della Georgia e non dicevano una parola della tragedia che abbiamo vissuto qui. Vi prego, almeno voi raccontatela, dite la verità”. La rabbia dei sudosseti per come la guerra d’agosto è stata raccontata dai mass-media occidentali è più che motivata. Al silenzio sui crimini di guerra georgiani si è sommata la beffa della distorsione della verità. Nell’ex quartiere ebraico di Tskhinvali, raso al suolo dall’artiglieria georgiana appostata sulla collina di fronte, un’anziana che ci vede filmare le macerie si avvicina, chiedendoci per favore di non fare come quella televisione europea che

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Madre di un miliziano ucciso. Tskhinvali, Ossezia del Sud 2008. Alexei Pivoravov/Prospekt


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aveva mandato in onda le drammatiche immagini del quartiere distrutto dicendo che si trattava di Gori, in Georgia. Josiph, laureato in legge, lavorava per l’Osce. “I georgiani hanno sparato anche contro la sede dell’organizzazione e contro le loro auto. Erano venti funzionari stranieri. Il pomeriggio dell’8 agosto i georgiani hanno concesso loro di lasciare la città e quelli, arrivati a Vladikavkaz, in conferenza stampa hanno detto che non avevano informazioni su quanto stava accadendo qui! Ma perché i vostri governi hanno appoggiato il regime fascista e criminale di Saakashvili? Perché le vostre istruite opinioni pubbliche non hanno protestato per l’aggressione georgiana contro di noi?”, domanda Josiph con sincero interesse e nostro grande imbarazzo. “Vi rendete conto che i georgiani hanno commesso gravissimi crimini di guerra? Hanno bombardato a tappeto una città piena di civili, a freddo, anzi a tradimento, perché un’ora prima avevano detto che non avrebbero mai attaccato. E lo hanno fatto di notte, mentre la gente dormiva nei propri letti. Una volta entrati in città, hanno aperto il fuoco deliberatamente contro obiettivi civili: abitazioni, scuole, ospedali. Hanno buttato granate nei rifugi. Hanno sparato con tank e cecchini contro le colonne di auto cariche di civili che cercavano di lasciare la città: tantissima gente è morta così! Non vi dice niente che il nome dell’operazione militare georgiana era ‘Campo Pulito’? Volevano sterminarci, cancellarci come popolo! E ci sarebbero riusciti se non fosse stato per i russi!”. lan è un membro delle forze speciali sudossete. Fuma tanto, ma non beve vodka. “I georgiani sono entrati in città la mattina dell’8 agosto, dopo un’intera notte di bombardamenti. Sono arrivati in forze a bordo di blindati americani Scorpion e carri T-72 nuovi di fabbricazione ucraina, armati di fucili M-16 e altre armi americane. Li abbiamo fronteggiati da soli alle porte della città e poi in centro. Dopo ore di duri combattimenti, siamo riusciti a fermare la loro avanzata, salvando dalla distruzione almeno i quartieri più settentrionali. Intorno alle cinque del pomeriggio hanno iniziato a ripiegare verso il confine e sono ricominciati i bombardamenti, fino al mattino successivo, quando hanno tentato di infiltrare dei commando in città. Finalmente, verso la mezzanotte del 9 agosto è entrata in città l’armata russa, che ha poi inseguito i georgiani fino alle porte di Tbilisi. I georgiani erano meglio armati e preparati per l’attacco, ma non per la difesa, perché pensavano di vincere subito e che la Russia non sarebbe intervenuta. Altrimenti, come prima cosa, avrebbero bombardato il traforo di Roki per impedire l’ingresso delle forze russe”. La casa a due piani di Malvina, in pieno centro, è stata completamente distrutta da un missile Grad. Suo marito Pavel solleva la carcassa del micidiale ordigno e ci mostra l’unica stanza ancora intatta: un ripostiglio senza finestre, riadattato a camera da letto. “Quella sera del 7 agosto - racconta Malvina - eravamo a cena e guardavamo la televisione: c’era il presidente georgiano Saakashvili che, in diretta, diceva che non avrebbe mai ordinato un attacco contro i suoi concittadini. Un’ora e mezzo dopo, alle undici e mezza circa, si è scatenato l’inferno. Siamo corsi giù in cantina. La terra non smetteva di tremare, le esplosioni erano continue. È durato fino a metà mattina. Quando siamo usciti, la nostra casa non c’era più. Guardate qui - dice piangendo e mostrandoci cocci di piatti e bicchieri - era il corredo per mia figlia: il suo matrimonio era fissato per il 17 agosto. Anche il suo vestito da sposa è andato bruciato. Era bellissimo. Ora non abbiamo più niente”, dice scoppiando in lacrime. Zaira trema ancora come una foglia: a distanza di oltre un mese è ancora sotto shock. Si aggira con gli occhi spiritati tra le macerie della sua casa, distrutta fino alle fondamenta da una bomba sganciata da un caccia georgiano. Dove c’era la cucina ora c’è solo un cratere largo un paio di metri. “Abbiamo perso tutto per colpa dei georgiani. Siamo vivi per miracolo. Sono degli animali! Io prima avevo tanti amici georgiani, ma ora non voglio più vedere quella gente, non voglio più sentir parlare la loro lingua!”. Le dure parole di Zaira ci vengono tradotte dall’osseto all’inglese da Eika, una ragazza di padre osseto e madre georgiana, che a Tbilisi studia all’università, ha parenti e amici. “Questa guerra ha scavato un solco profondo tra osseti e georgiani. Perfino mio padre ha cominciato a litigare con mia madre. E io, quando sento al telefono i miei parenti, evito l’argomento perché ho paura di quello che direbbero. Però, vedendo cos’ha subito questa gente,

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bisogna capirli. L’odio nasce dalla paura. È per paura, per esempio, che dopo la guerra gli osseti hanno distrutto i villaggi dell’enclave georgiana a nord di qui. Il 23 agosto - racconta Eika - un mio amico, un soldato sudosseto, mi ha chiamato dal villaggio georgiano di Kekhvi mentre stavano appiccando il fuoco alle case per dirmi che avevano trovato un bulldozer con cui raderle al suolo più velocemente. Quei villaggi erano abbandonati: nei giorni precedenti l’attacco georgiano, la popolazione era stata gradualmente evacuata. L’enclave era stata occupata dai georgiani durante la prima guerra, nel ’91. E da allora, gli osseti che provavano ad attraversarla venivano presi a fucilate”. Per fortuna il velenoso seme dell’odio etnico sembra non attecchire in terra osseta. “Una cosa è quel bastardo di Saakashvili e il suo bestiale esercito addestrato dagli americani. Un’altra sono i georgiani in generale, la gente georgiana: quelli sono dei poveracci come noi”, dice Jamal, combattente delle milizie ossete, che indossa una divisa ‘fatta in casa’ con una tuta da lavoro cinese su cui ha cucito le mostrine della polizia russa. “Io ho tanti amici georgiani. Tanti georgiani di Tskhinvali e dei villaggi hanno combattuto al nostro fianco in quei giorni contro l’esercito di Saakashvili. Chiedete in giro!”. Troviamo conferma di questo ad Arkneti, una quindicina di chilometri a ovest di Tskhinvali, uno dei tanti villaggi ‘misti’ dove convivono da sempre osseti e georgiani. “Certo che ho combattuto contro i soldati georgiani!”, racconta un georgiano al tavolo dell’unico bar del villaggio. Non vuole dire il suo nome perché ha paura di essere ricercato dalle autorità di Tbilisi come traditore. “Sono georgiano anch’io, ma se attaccano il mio villaggio, la mia casa, cosa dovrei fare? Io sono nato qui, la mia vita è qui e i miei amici sono qui, osseti e georgiani”. nal è un rubicondo giornalista locale, poeta a tempo perso. “Voi occidentali ci chiamate ‘separatisti’, come fanno i georgiani. Ma se si guarda alla storia di questo conflitto e al diritto internazionale è chiaro che i separatisti sono i georgiani, non noi. Nel settembre del 1990, quando c’era ancora l’Unione Sovietica, la regione autonoma dell’Ossezia del Sud, che all’epoca era parte della Repubblica sovietica georgiana, decise di rimanere a far parte dell’Urss. Questa scelta, del tutto legittima e legale, fu poi sancita nel marzo ‘91 da un referendum che si tenne in tutta l’Unione Sovietica. Un mese dopo, in aprile, la Georgia dichiarò la propria indipendenza da Mosca, pretendendo di mantenere la sovranità sull’Ossezia del Sud con la forza. Tbilisi dichiarò lo stato d’emergenza e ci attaccò: vennero bruciati più di cento villaggi e uccise oltre duemila persone. In trentamila fuggirono in Ossezia del Nord. Solo nel gennaio del ‘92, dopo la caduta dell’Urss, l’Ossezia del Sud si proclamò Stato indipendente, nella speranza di mettersi al riparo dalle aggressioni georgiane. Che invece ricominciarono dopo la seconda breve guerra del 2004, proseguendo fino al barbaro attacco di agosto”. Il vecchio Ilia, classe ‘24, ex insegnante di matematica e fisica che ha combattuto a Odessa contro i tedeschi nella Seconda Guerra mondiale, incarna la memoria storica di questo conflitto. “Dopo la Rivoluzione d’Ottobre - spiega Ilia come un nonno che racconta una favola ai nipotini - quindicimila bolscevichi sudosseti furono massacrati dai menscevichi georgiani. In sessantamila fuggirono oltre le montagne. Quelli che rimasero, come la mia famiglia, furono sempre trattati come cittadini inferiori: agli osseti di Georgia fu vietato di avere più di due figli, di usare la nostra lingua e di accedere ai lavori statali. Le cose sono migliorate un poco solo dopo la morte di Stalin”. La campana della vecchia chiesetta ortodossa di Santa Maria, l’unica della città, suona a morto. Dentro, nella penombra e nel silenzio, le fiammelle di centinaia di candele accese in ricordo delle vittime di questa guerra illuminano le icone dorate che tappezzano le pareti. I devoti rendono grazie a San Giorgio, il santo - molto venerato da queste parti - che uccise il drago simbolo del male. Sul muro fuori dalla chiesa, dipinte a vernice, le parole di un ringraziamento più terreno: Spasìba Rossìa, grazie Russia.

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In alto: Gli effetti dei bombardamenti e delle mitragliate georgiane sull’università di Tskhinvali. Alexei Pivoravov/Prospekt. In basso: Una macchina degli osservatori Onu colpita dalle truppe georgiane. Ossezia del Sud 2008. Archivio PeaceReporter


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I cinque sensi dell’Ossezia del Sud

Tatto Il frantumarsi dei vetri sotto i piedi mentre si cammina tra le rovine degli edifici distrutti dalle bombe georgiane. Il freddo metallo dei bossoli di proiettile che ancora giacciono a migliaia per le strade di Tskhinvali, molti inesplosi.

Vista Il tricolore bianco-giallo-rosso della bandiera dell’Ossezia del Sud. Il nero delle carcasse carbonizzate delle auto dei profughi sudosseti colpite dai tank

georgiani. Il bianco delle nevi perenni sulle vette del Caucaso e il verde incontaminato dei prati e dei boschi di montagna.

Udito I tamburi, le fisarmoniche e i flauti della musica tradizionale osseta. Lo sferragliare dei cingoli dei carri armati russi sulle strade di Tskhinvali. I suoni duri e aspirati della lingua osseta, di ceppo iranico, simile al curdo e al pashto.

Gusto I sapori del piatto tipico ossetino, il piroghì: una focaccia ripiena di carne tritata oppure di patate o di formaggio. La vodka insapore che scorre a fiumi in ogni occasione conviviale e accompagna i pasti.

Olfatto L’odore di bruciato nelle case distrutte dagli incendi provocati dai bombardamenti. La puzza di escrementi nelle cantine e nei rifugi dove la popolazione ha vissuto per giorni durante l’attacco georgiano. 9


Il reportage USA

Nero e non solo Dal nostro inviato Alessandro Ursic Quanta strada hanno fatto gli Stati Uniti in mezzo secolo lo puoi capire anche da un incrocio nel centro di Montgomery, la capitale dell'Alabama. Nella città dove negli anni Cinquanta Rosa Parks si rifiutò di lasciare il suo posto sull'autobus a favore di un bianco, dove Martin Luther King iniziò la sua campagna contro la segregazione e la discriminazione razziale, davanti al museo che celebra il movimento per i diritti civili troneggia il Civil Rights Memorial. u un cerchio di granito nero sono incisi i nomi di quaranta persone che hanno pagato con la vita il colore della loro pelle, tra il 1954 e il 1968. L'acqua scivola lenta ma senza sosta, come fa scendendo lungo la frase di King “finché la giustizia non scorrerà come l'acqua e il diritto come un fiume possente”, che fa da sfondo al monumento. Quella frase è uno dei punti più toccanti del discorso I have a dream pronunciato dal reverendo a Washington il 28 agosto 1963. Esattamente quarantacinque anni dopo, in uno stadio di Denver, un afro-americano che all'epoca era appena nato è diventato il candidato del Partito democratico alla presidenza degli Stati Uniti, delineando davanti a ottantamila persone e trentotto milioni di telespettatori la sua visione dell'America. Come Mlk, è un mirabile oratore che con la retorica fa appassionare le folle, suscitando la speranza di un futuro migliore. Già la sua candidatura è il segno di una nuova epoca: “Mai, mai in vita mia avrei pensato di poter vedere un nero contendersi la Casa Bianca”, dice il reverendo (bianco) Robert Graetz, attivo nel Civil rights movement al fianco di King. Alzi la mano chi l'avrebbe previsto anche solo quattro anni fa. Ma il 4 novembre Barack Obama, il figlio di uno studente del Kenya e di un'antropologa del Kansas, ha serie possibilità di diventare il quarantaquattresimo presidente della nazione più potente del mondo. Può vincere, in un paese dove i bianchi cristiani di origine anglosassone sono ancora due terzi della popolazione, un mulatto che di secondo nome fa Hussein, figlio di un musulmano non praticante, con un'infanzia passata in Indonesia assieme a un patrigno anche lui fedele all'Islam, e diventato adolescente alle Hawaii? Fino a qualche mese fa, da quando ha battuto Hillary Clinton nelle primarie, la sua vittoria sembrava quasi scontata. D'altronde, se la politica avesse una logica, qualunque candidato democratico vincerebbe facilmente. Dopo otto anni, George W. Bush ha il più basso tasso di popolarità per un presidente dai tempi di Nixon, meno del trenta percento; otto americani su dieci credono che il paese stia andando nella direzione sbagliata. Eppure la sfida per la presidenza è apertissima. La “Obama-mania” si è pian piano sgonfiata, tanto che a inizio settembre il repubblicano John McCain è passato in testa nei sondaggi. Chi ha sempre pensato “non faranno mai vincere un nero” ora teme di veder avverata la sua profezia. Che l'America non sia “pronta” per Obama? Dire che gli Stati Uniti sono cambiati è un'ovvietà, e l'evoluzione del “profondo Sud” ne è un esempio. Ancora negli anni Sessanta, dal Mississippi al North Carolina i neri subivano intimidazioni di ogni tipo per non votare: vere e proprie violenze fisiche, o domande assurde come la famosa “Quante bolle ci sono in una saponetta?”, finché nel 1965 il Voting Rights Act eliminò queste pratiche discriminatorie. La società segregata per legge non c'è più. Ma è anche vero che nella vita di ogni giorno, nelle amicizie, le vecchie consuetudini sono dure a morire. Tra bianchi e afroamericani permane un dislivello socio-economico che divide scuole, posti di lavoro, zone residenziali, e di conseguenza vite. Negli anni, progressivamente sempre più bianchi hanno scelto di mandare i loro figli nelle scuole

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private, in quelle pubbliche ci vanno solo i più poveri, quindi in prevalenza afro-americani. E anche all'interno di quegli istituti, spesso si formano gruppi in base al colore della pelle. “Qui in Louisiana fanno due balli di fine anno diversi. White proms and black proms”, racconta una madre cinquantenne di Baton Rouge. Neanche due anni fa, proprio in una high school della Louisiana, nella piccola città di Jena, alcune matricole afro-americane “osarono” sedersi sotto un albero dove tradizionalmente si incontravano gli studenti bianchi. Il giorno dopo, dai rami di quell'albero penzolavano tre cappi. La stessa Montgomery, comunque una città di duecentomila abitanti e quindi in teoria più “evoluta” rispetto a un qualsiasi piccolo centro dell'Alabama o del Mississippi, è divisa in una parte orientale più ricca e bianca, e una occidentale più povera e nera. Facendo la spesa in un Wal-Mart “al confine” tra le due zone, una signora bionda confessa di conoscere “molte persone che non verrebbero mai in questo supermercato, perché lo frequentano molti neri e si dice che il parcheggio sia pericoloso”. Oltre alla diffidenza, c'è anche il fastidio se le barriere vengono superate, come capita quando le famiglie afro-americane vanno nei parchi delle zone bianche. Il contrario, assicurano a Montgomery, non avviene mai. l razzismo, in sostanza, non è affatto sparito. E di conseguenza, specie nel Sud, esistono persone che non voterebbero mai Obama perché è nero. Ma dirlo apertamente, o esprimere pensieri razzisti, è diventato un tabù sociale. “Chi ha vissuto abbastanza da vederne tante, come me, sa che molti bianchi trovano mille scuse per non votare Obama perché l'idea di votare un nero li spaventa. Ma non lo ammettono neanche a loro stessi”, dice Francina McWilliams, che cura un museo sull'emancipazione degli afro-americani a Dotham, Alabama, nell'edificio che una volta era la stazione dei bus con ingressi e bagni separati per bianchi e neri. Quantificare il peso di questo tabù a livello nazionale è impossibile, ma già i sondaggi sulle intenzioni di voto dimostrano che qualcosa non quadra. A luglio, uno di questi ha evidenziato che il novantaquattro percento degli americani si dice disposto a votare per un presidente afro-americano. Ma il venticinque percento dice di conoscere molte persone che non lo farebbero. E solo il sessantotto percento pensa che il paese sia pronto a vedere la Casa Bianca guidata da un nero. Nel Sud dal passato segregazionista, dove il Civil Rights Act del 1964 ha in pratica - come previsto dall'allora presidente democratico Lyndon Johnson - consegnato tutti gli ex stati segregazionisti ai repubblicani, la diffidenza verso Obama raggiunge i picchi tra i bianchi di medio-basso reddito. Edward Vaughn, rappresentante per quattro mandati al Congresso del Michigan e ora ritornato nella nativa Alabama, traccia un parallelo tra le scelte politiche dei bianchi poveri di oggi con quelle dell'epoca della schia-

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In alto: Il Civil Rights Memorial di Montgomery. In basso: Gadget per Obama. Usa 2008. Alessandro Ursic ©PeaceReporter


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vitù. “L'intero sistema li ha addestrati così, da quando i proprietari delle piantagioni sfruttavano il loro risentimento contro i neri, che rubavano loro potenziali posti di lavoro perché costavano meno”, spiega nella sala principale della sua casa-museo dedicata alla storia degli afro-americani. Vaughn è un aperto sostenitore del candidato democratico, gira con un cappellino “Obama 2008” in città, e si dice ottimista perché a Dotham conosce tanti bianchi che dicono di voler votare per lui. Ma non lo fanno sapere troppo in giro. “La pressione sociale qui rimane forte. Se attaccassero adesivi per Obama sull'auto, o piantassero cartelli in giardino, molti li vedrebbero come 'traditori'. I cartelli non durerebbero troppo, e la probabilità di trovarsi la macchina rigata sarebbe alta”, aggiunge. l fatto che Obama sia nero, ma che farlo notare rimanga politicamente scorretto, per molti diventa così - consapevolmente o meno - un pretesto per rimarcare tutto quello che di lui non convince. Che è giovane e inesperto, per esempio, anche se Bill Clinton aveva un anno in meno quando venne eletto. Che è snob e un elitist perché parla troppo da professorino saccente (si è laureato ad Harvard, l'università più prestigiosa ma anche la più “disprezzata” dai conservatori che si vedono assediati dagli intellettuali liberal), pur venendo da una famiglia media e con la possibilità di frequentare scuole e università costose solo grazie a borse di studio per merito. L'ignoranza fa il resto. Nella middle America, non si fatica molto a trovare qualcuno che ha sentito strane voci su Obama: è nato in Africa, forse è gay, si rifiuta di giurare lealtà alla bandiera a stelle e strisce, è musulmano. In un centro commerciale di Montgomery, una coppia di giovani bianchi ammette che voterà per McCain. “No, non per Obama... forse la prossima volta”, abbozza lui imbarazzato. La fidanzata concorda con un risolino, facilmente interpretabile come un “non succederà mai, almeno per noi”. Quando le viene chiesto se il loro voto è influenzato dal colore della pelle di Obama, il disagio a parlarne è evidente. “No, certo che no”, dicono entrambi arretrando e contorcendosi le mani. “Ma ci sono troppe cose che non so di lui, e ho sentito che è musulmano”, aggiunge lei. Di fronte al giornalista che la “tranquillizza” dicendole che non è così - dopotutto, Obama viene associato ancora oggi ai commenti antipatriottici del suo ex reverendo Jeremiah Wright - la ragazza non sembra convinta: “Ne sei sicuro?”, chiede. Per combattere le voci false, lo staff di Obama ha istituito un sito apposito, Fight the Smears. E quando il candidato democratico ha voluto spezzare questo meccanismo scherzandoci su, dicendo in un comizio che i conservatori non parlano apertamente delle sue origini miste ma fanno notare che “non è come gli altri presidenti sulle banconote dei dollari”, i repubblicani lo hanno accusato di giocare scorrettamente la carta della razza. In un certo senso, è vero invece il contrario. Il ragazzino magro dal nome buffo, the skinny boy with a funny name, come si è autodefinito Obama descrivendo la sua incredibile storia, è una novità anche perché non si è mai voluto presentare come “il candidato nero”. Farlo, essere percepito come un rancoroso difensore delle istanze afro-americane al pari dei reverendi Jesse Jackson e Al Sharpton, avrebbe significato andare incontro a una sicura sconfitta già nelle primarie. Invece, Obama si è sempre posto come la faccia di una “nuova America”, post-razziale, più inserita nel mondo. Come il candidato presidente degli Usa al tempo della globalizzazione. Dopotutto, parlando di fronte a duecentomila persone a Berlino, lo scorso luglio non ha forse detto “Sono qui da cittadino del mondo”? Se fosse così, se tutto il pianeta potesse votare per la presidenza statunitense, Obama trionferebbe senza problemi: in Europa raggiunge consensi intorno al novanta percento. Ci piace perché rappresenta il volto della “America che vorremmo”: una nazione - come ha detto l'ex presidente Bill Clinton nel suo discorso alla convention dei democratici - “che affascina il mondo con la forza del proprio esempio, non con l'esempio della propria forza”, un chiaro riferimento a Bush. La pensano così anche gli americani contagiati dalla Obama-mania. “Quando viaggio, ormai mi vergogno di dire che vengo dagli Usa”, spiega sconsolato Chris, uno studente del Mississippi con due viaggi in Europa alle spalle. Ma quelli come Chris, gli americani che viaggiando si confrontano con stranieri, sono una ristretta minoranza. Si stima che solo il venticinque percento sia munito di passaporto; ed è una percentuale quasi raddoppiata in pochi anni, da quando è necessario averlo per entrare in

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Canada e Messico. Un paese tradizionalmente abituato a considerarsi “la città splendente sulla collina”, il punto di riferimento a cui guardano gli altri, tende a pensare che il resto del mondo non abbia granché da offrire. Se poi sei cresciuto nella nazione che da settant'anni è una superpotenza mondiale, è facile non vedere la necessità di venire incontro al punto di vista degli stranieri su come “dovrebbe” essere l'America. Così, gli elementi che portano molti europei a tifare per Obama sono gli stessi che spingono milioni di americani a guardarlo con diffidenza. La forza di Obama è anche la sua debolezza. Per la maggioranza degli americani di una città qualsiasi tra le due coste sarà comunque più istintivo identificarsi con Sarah Palin, la governatrice dell'Alaska scelta da McCain come sua vice: una madre di cinque figli che ha richiesto il passaporto solo l'anno scorso, quando le serviva per andare a trovare le truppe della Guardia Nazionale in Kuwait. su questo, per quanto non con i toni usati ora dai repubblicani, ha fatto perno anche la campagna di Hillary Clinton durante le primarie. In un memorandum interno dello scorso marzo intitolato La strategia per vincere, l'allora capo dello staff dell'ex first lady, Mark Penn, delineava così l'attacco a Obama: “Tutti questi articoli sulla sua infanzia in Indonesia e la sua vita alle Hawaii vogliono mostrare che il suo background è vario, multiculturale. Che se lo tengano per il 2050... Non riesco a immaginare un'America che elegge un presidente, in tempo di guerra, che non sia fondamentalmente americano nel suo modo di pensare e nei suoi valori”. Anche la campagna dei repubblicani ha voluto giocare su questa contrapposizione. Da una parte Obama, il professorino che parla senza accenti regionali, che ammalia le folle e pensa di avere una soluzione a tutto con il suo appello per il change. Dall'altra McCain il soldato, legnoso nei comizi ma in fondo sincero, paterno, “più comune” nella sua intonazione; e americano vero, capace di farsi torturare per il suo paese, nei suoi cinque anni e mezzo di prigionia in Vietnam. Country first, come il suo slogan. La patria prima di tutto. Per capire che questa non è una campagna elettorale come un'altra, bastava guardare la composizione della platea durante le convention dei due partiti. Il quarantuno percento dei delegati democratici era nero, ispanico, asiatico o afro-americano; tra i repubblicani, mentre parlava McCain, le facce non bianche erano sparute eccezioni. Anche alla luce di un recente rapporto, che ha indicato nel 2042 l'anno in cui i bianchi non di origine ispanica non saranno più la maggioranza negli Usa, la sfida del 4 novembre appare sempre più come una sfida tra due idee diverse di America, anche demografiche. Il change, insomma, è già in atto. Progressisti e conservatori prendono le rispettive posizioni, in elezioni che sono ormai diventate un referendum - non a caso, si parla di Oba-maniacs contro “Nobama” - su un candidato che ha cambiato il modo di fare politica negli Usa, coinvolgendo in particolare i giovani. La variabile imprevista potrebbe essere rappresentata proprio dagli under 30. C'è chi fa notare che i sondaggi non possono fotografare le intenzioni di voto di questa fascia di giovani “mobili”, perché vengono chiamate solo le persone che hanno un telefono fisso. L'immensa rete di volontari di Obama ha fatto registrare centinaia di migliaia di nuovi elettori. Testimone in prima persona dei cambiamenti degli Usa negli ultimi cinquanta anni, da Montgomery il reverendo Graetz vede un'America che è pronta per Obama. “La società è cambiata perché diverse sono le persone. I giovani di oggi hanno una mentalità molto più aperta di quelli degli anni Cinquanta. I semi di Martin Luther King, sparsi tanti anni fa, hanno attecchito”, dice. Come King, come Che Guevara, come un cantante rock rivoluzionario, Obama è già diventato un'icona: nei negozi di New York il volto di Obama riempie Tshirt di ogni tipo. Naomi Klein, l'autrice di No Logo, ha parlato del “marchio Barack Obama”. Ma anche se la sua favola e il suo messaggio hanno fatto sognare milioni di persone, il candidato democratico deve stare attento. Perché le icone che finiscono sulle magliette, pur avendo contribuito a cambiare il mondo, di solito condividono un aspetto: in un modo o nell'altro, hanno perso.

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In alto: Obamamania. In basso: Una chiesa evangelica. Usa 2008 Alessandro Ursic ©PeaceReporter


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L’intervista Algeria

A costo di finire in prigione Di Christian Elia Cherifa Kheddar è una donna algerina, presidente di Djazairouna, associazione che si occupa, tra le altre cose, del sostegno economico e psicologico ai bambini orfani del terrorismo, membro della Federazione Internazionale Associazioni Vittime del terrorismo, presente in Algeria, Francia, Spagna, Irlanda. Cherifa il terrorismo lo conosce bene: nel 1996, suo fratello, industriale, e sua sorella, avvocato, sono stati torturati e assassinati davanti ai suoi occhi. Abbiamo fondato l'associazione nel 1996, con l’obiettivo di difendere le famiglie colpite dal terrorismo, perché i parenti delle vittime restavano completamente soli. Vengono supportate nei loro bisogni morali e materiali. Inoltre cerchiamo di attirare l’attenzione dei media e di fare presente a tutto il mondo quello che accade, di fare aprire gli occhi all’opinione pubblica. È importante far sapere alle famiglie vittime del terrorismo che sono supportate, che esistono altre persone pronte a sostenerle e aiutarle, psicologicamente e materialmente. La nostra attività, inoltre, assieme a quella di altre associazioni, è finalizzata a garantire giustizia, dignità e il valore della memoria alle vittime e a coloro che sono sopravvissuti agli atti di terrorismo, portandone conseguenze per tutta la vita. I figli e le generazioni a venire devono crescere con la consapevolezza che qualcuno ha combattuto per la dignità e la giustizia del loro popolo e del loro Paese. Hanno bisogno di riconoscere la responsabilità dei mandanti degli attentati nei quali i loro padri hanno perso la vita, di capire perché certi atti sono stati compiuti e quindi di far luce su quanto accaduto. Insomma si tratta di garantire loro il diritto alla verità. Lei è una delle voci critiche nei confronti della Riconciliazione nazionale voluta dal presidente Bouteflika, e approvata da un referendum popolare, che garantiva l'impunità ai combattenti che avessero deposto le armi. Adesso, in Algeria, dove dall'inizio dell'anno sono morte più di duecento persone, in tanti sono critici verso il 'colpo di spugna'. Qual è, per lei, la soluzione per porre fine alla violenza nel suo Paese? Le vittime della guerra civile sono state per la maggior parte civili. Insegnanti e intellettuali, che non appartenevano ad alcuna parte politica, non possedevano armi per combattere e per difendersi, vivevano senza protezione. Queste persone erano il bersaglio principale. È per loro che il lavoro delle associazioni esiste: far luce sulla verità, rispondere ai mille perché rimasti ancora senza risposta dopo tanti anni. Questa sarebbe stata la soluzione per uscire dalla violenza. Bisognava dare l’occasione alla popolazione di vivere in sicurezza, fornire un sistema educativo che creasse generazioni nuove, cittadini del mondo pronti a vivere una nuova vita, e non creare nuovi soldati islamici pronti al combattimento. Questo è il sistema “non educativo” che ancora oggi vige in Algeria, rischiando di farla capitolare in una nuova epoca di violenza. E oggi, purtroppo, i giovani non hanno molte alternative: o l’emigrazione in Europa, e un destino incerto, o le armi, ovvero darsi alla macchia, diventare guerriglieri. La politica della Riconciliazione ha attribuito a ogni terrorista che si è arreso un incentivo di due milioni di dinari (moneta algerina, ndr). Sarebbe stato utile investire quel denaro in un sistema educativo che desse valori e speranza per il futuro, una cultura del racconto e della storia che aiuti a elaborare la memoria delle violenze accadute nel Paese. Senza tutto questo non si volterà mai pagina. Con l'amnesia storica sottesa al progetto della Riconciliazione nazionale il Paese rischia di sprofondare nuovamente senza rendersene conto. Per questo l’associazione rifiuta la riconciliazione nazionale. Simbolicamente il giorno del referendum le donne si sono recate nei cimiteri per gridare il loro diritto al voto. 14

Questo è il nostro modo di protestare contro una politica che non porterà a nulla, né alla pace, né alla stabilità del Paese. Ma la violenza è solo frutto dell'azione dei fondamentalisti islamici? Non ha mai creduto che dietro di loro si muovessero interessi più grandi? Guardi, decine di miliardari sono comparsi nel Paese durante e dopo la strage degli anni Novanta. Io direi che girano molti interessi e profitti intorno al terrorismo e alla violenza. C’è chi approfitta del terrorismo e chi ne crea le basi. Politici che hanno mantenuto il loro potere anche dopo quell'evento e che si sono arricchiti. E oggi al potere ci sono sempre loro. La stessa cricca del regime nato nel 1962, erano presenti prima, durante e dopo la guerra civile. Quindi, sì, molti hanno approfittato della situazione, incrementando un’aria di terrore generale. Non si può ignorare questa promozione politica che fomenta la violenza. Emiri fondamentalisti si ritrovano miliardari. Ospiti dei ministri algerini. Crede che all'estero ci sia una percezione chiara di quello che accade in Algeria? Negli ultimi anni gli atti di terrorismo vengono mediatizzati di più. C’è stata una tendenza nella comunità internazionale a girare attorno al problema e a non approfondire la situazione nel Paese. Nessuno si è impegnato a fondo per evitare le decine di migliaia di morti, nessuno è intervenuto. Il fenomeno terroristico non è specificamente algerino: se la comunità internazionale non farà nulla per l’Algeria, questo fenomeno si estenderà a livello planetario. L’Algeria è un laboratorio per l’instaurazione di uno stato islamico su scala mondiale: questo è lo scopo dei terroristi, e l’Algeria rappresentava il terreno più fertile per dare il via al programma. Se il terrorismo esiste è perché la comunità internazionale ha ignorato deliberatamente ciò che è accaduto in Algeria. Le sue posizioni molto critiche nei confronti del governo le hanno creato problemi? Il mio lavoro mi ha sempre messa a dura prova, sia a livello professionale che personale. I servizi di sicurezza hanno addirittura aperto un dossier su di me, e l'associazione viene continuamente screditata. Accuse ingiuste, come l'appropriazione indebita del denaro dell’associazione per scopi personali. Ma non mollo, perché le autorità in Algeria devono rendersi conto che la politica di riconciliazione nazionale è stata un fallimento totale. Continuerò anche a costo di finire in prigione, perché la Costituzione algerina garantisce il diritto di avere un'opinione, di esprimerla e di difenderla. E continuerò a lottare, perché il futuro del Paese appare cupo per la maggioranza degli algerini. Nella casbah della capitale. Algeria 2007. Stefano Barazzetta per PeaceReporter


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Qualcosa di personale Colombia

L’angelo della notte Dalla nostra inviata Stella Spinelli Distribuisce preservativi e sorrisi, facendo la spola fino a notte fonda fra quartieri malfamati e locali lussuosi, le due facce di una Cartagena de Indias che ogni settimana è presa d’assalto da turisti in cerca di divertimento estremo a basso costo. ra strette di mano alternate a consigli sparati a muso duro alle prostitute che osano sdegnare il cappuccio salvavita, adocchia le bambine, anime fragili nascoste maldestramente dietro maschere di trucco e lustrini, che mal celano la tenera età. E con loro si trasforma: è la dolcezza carica di rispetto dell’educatrice che tenta di offrire ai minori di questa spietata quanto bella città colombiana una scelta, il biglietto per una nuova vita. Si chiama Leyla, ha trent’anni e tanti chilometri nelle gambe. Suo figlio, di dieci, vive con i nonni a Baranquilla, cittadina a un’ora di pullman verso nord, risalendo la costa caraibica. “Sono una mamma assente, lo so, vedo mio figlio solo il fine settimana, ma sento che un giorno capirà”. Dal lunedì al venerdì, ogni notte, Leyla è l’angelo della notte. Accompagnata dal suo fedele collega Donaldo, psicologo mite ed equilibrato, cammina per ore “fino a che il fisico regge” per seminare fra la gente, nei vicoli zeppi di vite dimenticate da dio, il rispetto per i minori. “Almeno loro, che vengano risparmiati”, sussurra, sguardo al cielo. Lo sfruttamento sessuale minorile in questo angolo di mondo è oramai tradizione e a peggiorarlo è la sete di soldi facili portati dal business dei turisti in cerca di trasgressione. Se la bella Cartagena, a occhi distratti, sembra ben altro rispetto al resto della Colombia, dov’è guerra aperta da oltre quarant’anni fra gruppi rivoluzionari e potere costituito, a chi ha cuore e pazienza il quadro reale si mostra sotto altre tinte. La bellezza dei luoghi e il cordone di sicurezza creato intorno alla cittadina dalle grandi mura coloniali tengono lontani i kalashnikov della guerriglia, ma il conflitto si manifesta sotto altre sembianze: casupole stracolme di sfollati, morti ammazzati per un pezzo di pane, delinquenza, traffici illeciti e bande criminali che si contendono fette di territorio. In mezzo a tutto questo, il business della prostituzione, e poco importa se a esserne coinvolte sono bambine dai dieci anni in su. “Il dolore e la violenza che ognuna di queste persone ha dovuto vedere e sopportare hanno corrotto le loro anime. Sono malati di morte”, spiega fredda Leyla. Che fare, dunque, per salvare giovani vite da destini segnati? Cercare di gettare germogli di speranza nel letame, battere metro per metro gli slums più angusti e parlare con i più vulnerabili, giorno dopo giorno, per intaccare paure, ignoranza, corruzione, omertà, distintivi di una società per la quale violare una bambina è la norma. “Colpa sua, va in giro randagia. Colpa dei suoi, non la seguono. Queste le frasi più ricorrenti – riprende – in un mondo dove le ragazzine sfruttate non sono vittime, ma colpevoli più di chi ne abusa”. Eccola Cartagena,

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orgoglio del turismo colombiano, gioiello architettonico corroso da una cultura machista incattivita da secoli di schiavismo (di cui era la porta di entrata), e incancrenita da decenni di guerra. Il compito degli angeli della notte è duro e solitario. Giovani laureati che hanno scelto di sacrificare le proprie vite per un altro mondo possibile. Leyla, per poter continuare a tendere una mano a “tutte quelle piccole anime perse che ancora possono essere salvate”, non solo ha rinunciato a vedere suo figlio, ma non ha una vita privata. “È una condanna – sorride – ogni volta che scelgo di fidarmi di un uomo, prima o poi lo incontro nei locali erotici dove distribuisco preservativi. Qui, chi non cade in tentazione è perla rara”. Ma lei non si abbatte. “Il mio scopo è offrire loro una possibilità”. Una volta individuata fra le luci della notte, Leyla si avvicina alla bambina stretta in abitini sexy, la guarda con occhi abbaglianti e le parla per interminabili minuti. Solitamente esili, nere, occhi grandi, con loro sfodera istinto materno e pacata chiarezza. Ormai la conoscono, ma per vederle apparire al centro Renacer, il luogo dove vengono accolte, aiutate, istruite e accompagnate per mano verso una nuova vita, occorre tempo, pazienza. Quella ragazza piccola e riccia, con i capelli ribelli stretti in foulard colorati e appesa all’immancabile tracolla zeppa di condom è ormai punto di riferimento nella notte cartagenera. È la porta d’accesso, l’alternativa. Ma il coraggio di cambiare è diffidente e arriva raramente. “Finora sono una trentina gli ospiti del nostro dormitorio, quelli inseriti nei nostri corsi, un centinaio – spiega – ma questo losco affare coinvolge migliaia di vite, dobbiamo arricciarci le maniche e lavorare”. Con un pelo sullo stomaco inestirpabile, la donna si è fatta amica dei gestori dei night, dei capi gang degli slums e di qualche magnaccia. “Pur di arrivare alle bambine, questo e altro”, ammette serena. Leyla offre strade concrete, non solo parole. Renacer, coordinata dalle Ong italiane Cisp e Coopi, ha messo a punto un programma che sta dando risultati straordinari, quindi poco importa se per strappare dalla strada anche un solo minore occorre essere gentili con il “bastardo di turno”. Prevenzione, lotta e recupero dunque, con una priorità: garantire la libertà individuale. “Libertà dalla rabbia, dalla paura, dalla solitudine, dalla povertà – precisa Leya - la libertà di dire no all’assuefazione alla violenza, che piega vittime e carnefici”. Ragazza di strada. Cartagena, Colombia 2008. Cristiano Bendinelli per PeaceReporter


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La storia Ruanda

Caccia ai sopravvissuti di Matteo Fagotto

Generosa Mukanyonga si trovava nel giardino della sua casa alle porte della capitale ruandese Kigali quando, lo scorso maggio, alcuni uomini le hanno fatto visita. opo averla aggredita e pugnalata più volte, gli assalitori hanno chiuso la novantenne ancora viva in casa, prima di dare fuoco all'abitazione. La morte della donna ha suscitato un moto di orrore in tutto il Paese, ma in particolar modo tra i Tutsi sopravvissuti al genocidio del 1994. Generosa era una di loro. Secondo le associazioni per i diritti umani ruandesi, la sua morte fa salire a dodici il numero dei sopravvissuti al genocidio uccisi nel 2008. Una cifra simile a quella dell'anno scorso, ma inferiore al 2006, quando i morti furono più di venti. Le associazioni che difendono i diritti dei Tutsi e degli Hutu moderati scampati ai massacri del 1994, quando in cento giorni le milizie Hutu uccisero più di ottocentomila persone, hanno lanciato l'allarme su questa sorta di regolamento dei conti postumo che ha preso piede nel Paese. Non che il fenomeno sia nuovo: la morte dei sopravvissuti al genocidio è ormai una costante causata dai motivi più disparati. Vendette, voglia di eliminare testimoni scomodi o di porre fini a processi lunghi anni. Nel caso di Generosa sembra che la vecchia donna, che durante il genocidio perse il marito e tutti i figli, stesse tentando di ottenere un risarcimento per le proprietà perse e i danni subiti durante i cento giorni più terribili della storia del Ruanda. Quattro dei suoi assalitori avevano già confessato di aver preso parte al genocidio. Ma il caso di Generosa non è l'unico. Colpa anche di un sistema giudiziario che, dopo quattordici anni, è ancora oberato dai processi contro i presunti responsabili del genocidio. Se i vertici politici e militari sono stati giudicati dall'apposito Tribunale Internazionale con sede ad Arusha, in Tanzania, alla giustizia ruandese sono rimasti centinaia di migliaia di casi minori, che rischiano di avvelenare il futuro del Paese se non dovessero essere risolti. Per sgravare di lavoro la giustizia ordinaria, il governo ruandese ha creato nel 2006 le corti gacaca, una sorta di tribunali locali le cui sentenze hanno però valore legale. Ed è stata proprio la loro creazione a far aumentare il numero degli assassinii. Se infatti prima i responsabili del genocidio potevano sperare nella lentezza della giustizia ordinaria per coprire i propri crimini, i tribunali gacaca avrebbero rovinato i loro piani. Secondo l'associazione per i diritti umani Human Rights Watch, i sopravvissuti alle violenze del genocidio ruandese sono circa trecentosessantamila,

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in maggioranza donne e bambini. Buona parte vive in condizioni difficili a causa del loro status di vedove o orfani e della scarsa assistenza da parte del governo. L'esecutivo destina il cinque percento del proprio bilancio ai sopravvissuti, una percentuale che in teoria potrebbe essere giudicata alta, se non fosse che le risorse sono limitate, nonostante il boom economico che sta vivendo il Paese. Senza assistenza economica, i sopravvissuti non possono neanche sperare di essere protetti dalle forze dell'ordine: garantire la sicurezza di un tale numero di persone va oltre le possibilità dello stato. Tanto che, recentemente, il ministro degli Interni non ha potuto far altro che consigliare ai sopravvissuti di uscire in gruppo e di ritirarsi presto, in una sorta di coprifuoco autoimposto, per scampare alle violenze. Dichiarazioni che hanno fatto imbufalire associazioni come Ibuka, rappresentante degli scampati al genocidio, che hanno chiesto al presidente Paul Kagame di istituire una commissione d'inchiesta per indagare sugli omicidi. l disinteresse verso il fenomeno ha spinto parte dell’opinione pubblica ad accusare il governo di collusione con i genocidaires. Un ironico contrappasso per il presidente Paul Kagame, nel 1994 comandante dei ribelli del Rwandan Patriotic Front che presero il potere dopo aver sconfitto la giunta Hutu responsabile dei massacri. Da allora, il presidente ha lavorato senza sosta per creare l’immagine di un Ruanda che ha chiuso i conti col proprio passato, e in cui Hutu e Tutsi vivono finalmente in armonia. Un’immagine incrinata non solo dagli omicidi dei sopravvissuti, ma anche dalla giustizia francese, la quale ha recentemente chiesto l’arresto di nove stretti collaboratori di Kagame per indagare sulle loro presunte responsabilità nell’avvio del genocidio. Una mossa a cui il governo ruandese ha risposto interrompendo le relazioni diplomatiche con Parigi e pubblicando recentemente un rapporto, redatto da una commissione d’inchiesta, che a sua volta accusa l’allora governo francese (alleato degli Hutu) di responsabilità nell’armamento e nell’addestramento delle milizie genocidaires. Scomode verità o semplici ripicche politiche tra stati? Quale che sia la risposta, passerà ancora molto tempo prima che il Ruanda diventi un’isola felice.

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In alto e in basso: Nati dopo il genocidio. Ruanda 2007. Archivio PeaceReporter


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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

Le buone nuove Cile: finalmente il trattato per la tutela dei i diritti civili degli indigeni Dopo diciassette anni di discussioni in Parlamento, il Cile ha ratificato la Convenzione n. 169 dell'Organizzazione mondiale per il lavoro, unico trattato internazionale per la tutela dei diritti degli indigeni, che in America Latina è stato già approvato da dodici Paesi. La firma della Convenzione rientra nella politica della 'Concertazione Democratica', coalizione di centrosinistra al governo dopo la caduta del regime di Pinochet, che viene denominata “Ri-conoscere: patto sociale per la multiculturalità”. Il capo di stato Michelle Bachelet ha rispettato un impegno del suo predecessore Patricio Alwyn, e con la ratifica della Convenzione viene garantita la tutela dei diritti politici, consuetudinari, economici, culturali dei popoli indigeni. Un aspetto importante per gli autoctoni cileni è il riconoscimento formale del diritto collettivo di proprietà delle terre basato su titoli ancestrali e di utilizzo, amministrazione e conservazione delle risorse naturali.

America Latina, in arrivo finalmente la scuola per tutti Entro il 2021 i paesi iberoamericani non dovrebbero avere più problemi legati all'istruzione dei loro cittadini. Un progetto di proporzioni enormi coinvolge tutti i paesi dell'area. Si chiama Metas educativas 2021: la educacion que queremos para la generacion de los bicentenarios e si propone di debellare l'analfabetismo dilagante nel continente americano. I dati relativi ai paesi della regione, se paragonati con quelli europei, sono da mani nei capelli. Si scopre infatti che in Guatemala e Nicaragua solo il 68 percento dei ragazzi termina la scuola primaria. Differente il dato che riguarda Cuba e Ecuador che arrivano a sfiorare il 95 percento. A Panama, solo lo 0,3 percento degli studenti provenienti da famiglie povere termina il liceo mentre oltre il 90 percento dei figli delle famiglie benestanti compie tutto il programma di studi. I presidenti dei 21 paesi dell'area hanno creato un fondo comune di due miliardi di euro: con questo i paesi più ricchi finanzieranno il 40 percento delle necessità relative all'educazione dei paesi più poveri. 20

Libia, Gheddafi incassa due successi

Spagna, la legge della memoria

Il colonnello muove Una ferita aperta e vince ancora dal 1939 I U

l 30 agosto scorso, a Bengasi, il leader libico ha firmato con il premier italiano Silvio Berlusconi l'Accordo di cooperazione e amicizia tra Roma e Tripoli. L'Italia verserà alla Libia cinque miliardi di dollari nei prossimi 25 anni, a titolo di risarcimento per il passato coloniale. Gheddafi ha ottenuto quello che, da anni, chiedeva all'Italia e, perché il trionfo fosse completo, ha scelto per la cerimonia della firma l'edificio che ospitava a Bengasi il quartier generale del governo italiano durante l'occupazione coloniale. Nella stessa città dove, nel 2006, alcuni manifestanti assaltarono il consolato italiano per protestare contro le vignette su Maometto mostrate dall'allora ministro Calderoli in tv. La polizia libica aprì il fuoco e undici persone persero la vita. Il governo Berlusconi era obbligato a firmare, messo in scacco da un'ondata record di migranti arrivati in Italia con barche che partono dalla Libia. Gheddafi sa come l'opinione pubblica italiana sia diventata sensibile all'argomento e ha incassato un lauto premio. Adesso, c'è da giurarci, gli sbarchi diminuiranno come per magia. Non contento del risultato, Gheddafi ha reso noto un passaggio dell'accordo, tenuto segreto, che impegna l'Italia a non concedere l'uso delle sue basi Nato per un eventuale attacco alla Libia. Si è rischiato un incidente diplomatico, con il governo di Roma che si è affannato in tardive e confuse smentite. A quel punto era plausibile una censura degli Stati Uniti, ma il colonnello non parla mai a caso. Gheddafi sa bene che gli Usa sono impantanati in Afghanistan e Iraq, mentre scotta il dossier Iran. E l'Occidente ha troppo bisogno del petrolio libico, soprattutto adesso che i rapporti con la Russia sono ai minimi storici. Invece di polemizzare con l'Italia, il segretario di Stato Usa, Condoleezza Rice, visita Tripoli. Da cinquanta anni un funzionario di Washington così importante non visitava la Libia. Sono lontani i tempi in cui Gheddafi era, per la diplomazia Usa, il principale sponsor del terrorismo internazionale. E sono lontani i tempi in cui il presidente Ronald Reagan, nel 1986, ordinò ai bombardieri Usa di colpire la Libia, uccidendo tra gli altri anche una figlia di Gheddafi. I bombardieri erano partiti dall'Italia. Il colonnello ha vinto ancora. C. E.

n passato che non passa. il nervo scoperto, ancora oggi, nella Spagna democratica va sotto due semplici parole: guerra civil. Perché il giudice più famoso della penisola iberica, Baltasar Garzón Real, ha chiesto liste di desaparecidos e fosse comuni delle vittime del franchismo a ministeri, municipi di piccole e grandi città, istituti storiografici, fino ad arrivare alle capillari parrocchie che ancora oggi conservano i registri anagrafici del passato. Ma la sortita di Garzon, che in realtà ha emanato l'ordinanza per prendere tempo nel decidere se spettasse proprio a lui la competenza di questa inchiesta, ha riaperto lo scontro con la destra conservatrice, ieri di José Maria Aznar e oggi di Mariano Rajoy. La destra spagnola non vuole riaprire i termini di un dibattito che sperava di veder chiuso con la promulgazione della Ley de la Memoria historica. Una legge a firma socialista, contestata da decine di associazioni: “Perché non riconosce giuridicamente le vittime del franchismo - afferma Gregorio Dyonis di Radio Nizkor - dichiara legale la legislazione franchista e non menziona le vittime spagnole nella seconda guerra mondiale, nei campi di sterminio, e i ragazzini che combatterono con gli eserciti alleati. E non si è legalizzata la situazione degli archivi documentali, il che permette la sparizione delle prove”. Il gesto di Garzon è stato salutato in maniera positiva dal premier Zapatero e dagli editoriali del gruppo Prisa (El Pais, Cadena ser e altre decine di testate). Mentre l'attacco più violento è venuto dalla penna di Pedro J. Ramirez, il direttore di El Mundo, che ha titolato il suo articolo Truculenta garzonada, incolpando il magistrato di protagonismo e di aver istruito spesso in maniera superficiale processi che poi non sono mai arrivati a sentenza. La divisione della società spagnola, alla vigilia del settantesimo anniversario della guerra fratricida, non è scomparsa. Forse un semplice esempio può essere chiarificatore: il capo dei pubblici ministeri, il Fiscal general de l'Estado, aveva chiesto che quell'inchiesta fosse archiviata. Il padre del magistrato era franchista, così come il nonno. Non è un caso isolato: coinvolge un'enorme fetta di società che stenta a scrivere una parola chiara sulla memoria. Dei vinti e dei vincitori.


MONDO La nuova guerra fredda

cco un confronto tra il mondo com’era ieri, all’epoca della Guerra Fredda, e com’è oggi, con un bipolarismo di sfere d’influenza che ricorda molto da vicino i due blocchi contrapposti del passato. Oggi come ieri, i due poli aggreganti sono Usa-Europa da una parte e Russia-Cina dall’altra, più una serie di paesi neutrali. Immutati rispetto al passato sono anche gli interessi strategici contrapposti di questi due schieramenti (accesso a risorse energetiche e materie prime) e quindi le loro politiche di potenza e i loro appetiti territoriali. Confrontando i due mondi di ieri e di oggi, la cosa più evidente è la notevole riduzione della sfera d’influenza di Mosca, sia in Europa che nel Caucaso. I paesi europei dell’ex Patto di Varsavia sono passati tutti al campo occidentale, così come quelli est-europei e baltici che facevano parte dell’Urss (con le eccezioni di Bielorussia, Kaliningrad e Transnistria). Lo stesso è avvenuto per i paesi balcanici, oggi tutti filo-occidentali (tranne la Serbia) e per i paesi sud-caucasici che facevano parte dell’Urss (salvo Armenia, Nagorno-Karabakh, Ossezia del Sud e Abkhazia). Sono invece rimasti legati a Mosca quasi tutti i paesi centro-asiatici che facevano parte dell’Urss (salvo il Turkmenistan).

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In Medio Oriente, la Russia ha perso l’Iraq, ma ha guadagnato l’Iran. Completa, invece, la sconfitta di Mosca nel continente africano: tutti i paesi un tempo filo-sovietici o non allineati sono tornati nel campo occidentale, in un trionfo di spinte neo-colonialiste. Oggi, l’unico paese africano apertamente anti-occidentale (a parte i non filo-occidentali come Libia, Zimbabwe ed Eritrea) è il Sudan, alleato della Cina. Ma va detto che la Cina sta aumentando considerevolmente gli investimenti infrastrutturali e economici e le attività commerciali in tutti i Paesi africani, di cui in molti casi è diventato il principale partner economico. L’Occidente ha guadagnato molto terreno anche in Asia: dall’Afghanistan, all’India, all’Indocina (esclusa la Birmania, passata al campo cinese). L’unico continente dove l’influenza statunitense è nettamente retrocessa è proprio quello americano: diversi paesi dell’America Latina (Nicaragua, Ecuador, Brasile, Bolivia, Paraguay. Uruguay) si sono svincolati dalle tradizionali alleanze con Washington, e il Venezuela è diventato addirittura un paese anti-statunitense. Infine un’annotazione sull’Europa occidentale: i paesi un tempo non allineati o neutrali, sono oggi tutti – di fatto o di diritto – partner della Nato.


La nuova guerra fredda


Paesi filo-occidentali Paesi filo-russi Paesi neutrali


La nuova guerra fredda


Campioni olimpionici di normale diversità

Brasile, via alla corsa all'oro nero

Paralimpiadi, c’è ancora pudore

Lula, concorrente Un mese di guerre di Chavez

eno male che c'è Oscar Pistorius. Prima escluso dalle Olimpiadi del 2008, perché le sue gambe di fibra di carbonio gli avrebbero garantito un vantaggio sugli avversari, poi riammesso. Infine rimasto fuori dai Giochi per aver fatto un tempo insufficiente su pista al. Senza quelle leve imprendibili, forse i giochi per disabili nella bandiera con i cinque cerchi sarebbero passati anche questa volta un po' più inosservati per il grande pubblico. Il dibattitto su sport e disabilità è ormai maturo, nell'interesse e grazie agli sforzi che contraddistinguono il mondo delle associazioni, Ma anche quest’anno la copertura delle Paraolimpiadi da parte del servizio pubblico è stata fatta con il contagocce e quasi solo per i canali satellitari. La differenza con le normolimpiadi c'è e si fa vedere e sentire, come è purtroppo inevitabile. Anche restando nel mondo del politically correct, non c'è un qualche pudore - anche inconscio – nell'assistere a gare di basket in carrozzella, saltatori senza una gamba, o sportivi senza un braccio? C'è un dato culturale della compassione che ancora prevale e ci acceca verso chi è “diversamente abile”, un'espressione ricamata, che però dice un concetto importante. Abili lo sono: basta pensare ai miseri risultati che chi si sente “normale” potrebbe conseguire messo in gara con chi partecipa alle Paralimpiadi. Eppure la difficoltà sta nell'accettare la diversità come fatto di normalità. Alla fine, comunque, grande successo per i colori italiani, che hanno è portato a casa 18 medaglie totali (4 medaglie d’oro, 7 medaglie d’argento, 7 medaglie di bronzo). E appuntamento alla prossima, per un'iniziativa che ha preso il via fin dal 1948 sotto diversa forma, fino ad arrivare all'approvazione del Cio, il Comitato olimpico internazionale, che riconobbe i Giochi paralimpici nel 1984. Solo dal 2001 i Giochi sono ormai abbinati sistematicamente a quelli Olimpici veri e propri, dopo un accordo tra il Cio ed il Comitato Paralimpico Internazionale (Ipc).

entododici miliardi di dollari d'investimenti per estrarre dal sottosuolo brasiliano più o meno trentatré miliardi di barili di petrolio. Numeri eccezionali per quello che potrebbe diventare l'investimento finanziario del secolo. Stiamo parlando degli enormi giacimenti di greggio che il governo del presidente Lula si ritrova nel sottosuolo, e che pensa di sfruttare. Nel corso degli ultimi tempi la società petrolifera statale brasiliana, la Petrobras, ha investito un miliardo di dollari e compiuto almeno diciotto operazioni di perforazione lungo la costa del paese: in tutti i casi è stato trovato petrolio. Quanto, non è dato saperlo, anche se si suppone che sia molto. Alcuni giacimenti, infatti, si trovano a tali profondità che gli esperti non possono quantificare quanto greggio contengano. E all'orizzonte c'è anche un altro progetto ambizioso: creare una seconda compagnia petrolifera statale i cui proventi andrebbero a finanziare progetti sociali. Tutto in stile Lula, il presidente operaio che ha sempre avuto un occhio di riguardo per la popolazione indigente del suo Paese. Un investimento come quello pensato dai brasiliani, cosa mai vista prima d'ora nel continente americano, potrebbe entrare di diritto nel guinness dei primati. E la quantità di greggio presente sotto terra potrebbe far arrossire anche il presidente venezuelano Hugo Chavez e ridimensionare i giacimenti della Faja del Orinoco, considerati fino ad oggi fra i più grandi del mondo. La conferma arriva dal numero uno di Petrobras, José Sergio Gabrielli, che con soddisfazione ha dichiarato: “Il giacimento della baia di Tupi ha riserve pari a otto miliardi di barili. Non ci è possibile fare valutazioni precise su tutti gli altri giacimenti come Jubarte, Caramba, Jupiter”. C'è un dato da non sottovalutare, però: i benefici di questi giacimenti si potranno vedere solo fra qualche anno. Forse dieci, dicono in molti. Rinnovare le strutture esistenti, anche se Petrobras è all'avanguardia nel mondo, crearne di nuove e iniziare a pompare al massimo, non è un lavoro semplice né veloce.

M

C

Il numero dei morti dal 15 agosto al 17 settembre

PAESE

MORTI

Pakistan talebani Afghanistan Sri lanka Iraq Georgia-Sud Ossezia* Filippine Abu Sayyaf/Milf Somalia Sudan India Kashmir Algeria Nord Caucaso India nordest Nigeria India naxaliti Burundi Turchia Pakistan Beluchistan Thailandia del sud Filippine Npa Ciad Israele-Palestina Colombia Uganda Bangladesh

1.316 891 879 798 412 241 134 125 89 86 70 69 67 48 45 30 25 24 23 18 14 8 4 2

TOTALE

5.418

*Il numero delle vittime è provvisorio, si veda articolo a pagina 4

I dati che qui riportiamo sono dati ufficiali, raccolti da agenzie di stampa internazionali o locali. Per cui sono da intendersi sempre per difetto: in molti paesi del mondo non si contano i vivi, figuriamoci i morti.

Alessandro Grandi 21


Italia

Colpevole rinvio Di Lino Buscemi*

Manca nel codice penale italiano il reato di tortura a difesa della dignità della persona e dei diritti umani. n Italia, da almeno venti anni, malgrado gli sforzi compiuti non si riesce a produrre un atto legislativo a testimonianza dell’affermarsi di sensibilità nuove nel campo dei diritti e della intoccabilità della persona nel corpo e nella mente. Il clima da “caccia alle streghe” che oggi si respira nel Paese, in nome della questione sicurezza, non favorisce comportamenti virtuosi e pragmatici quanto meno a livello decisionale. Anzi, non è una minoranza quella che propugna, nel governo, “irrigidimenti” normativi lesivi dei diritti di libertà, delle garanzie costituzionali e degli accordi sottoscritti dall’Italia in sede europea e internazionale. Non saranno, comunque, i demagogici richiami all’uso del “pugno di ferro” da parte di un manipolo di nostalgici a fermare il corso degli eventi e a introdurre elementi di civiltà giuridica nell’organizzazione statuale. Eventi, a pensarci bene, che non sembrano subire troppo la “pressione autoritaria” se in Parlamento, senza distinzione di schieramenti politici, c’è chi si è impegnato a presentare organiche proposte per trasformare la tortura in reato. Si dirà: ma è soltanto l’agitarsi di uno sparuto numero di parlamentari appartenenti a tutti i raggruppamenti. Meglio, comunque, del silenzio assordante che farebbe saltare definitivamente dall’agenda dei lavori ogni proposito inducendo, non solo gli osservatori più attenti, a pensare che sui diritti umani le belle parole sovrastano le concrete decisioni. I primi ad agire sono stati (ma non i soli), i senatori del Pdl Salvo Fleres (che è anche in Sicilia il Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti) e Mario Ferrara, che hanno sottoscritto la proposta n° 264 (presentata il 29 aprile 2008, vale a dire lo stesso giorno in cui ha avuto inizio l’attuale XVI legislatura) recante “Introduzione dell’articolo 613 bis del codice penale ed altre disposizioni in materia di tortura”. Non è un male che l’iniziativa venga presa da settori del centro-destra, dopo anni di colpevoli rinvii la cui responsabilità va divisa equamente fra tutti i gruppi parlamentari. Nella sostanza si tratta di una proposta che mira ad adeguare la “normativa interna a quella di carattere sopranazionale, colmando insufficienze del diritto interno a garanzia dei diritti umani”. A mio avviso bisogna partire da questa proposta, senza escludere le altre nel frattempo presentate, anche per la necessità di onorare impegni internazionali, giacché l’Italia, fin dal novembre 1988, ha ratificato la Convenzione dell’ONU contro la tortura (del 1984) e sottoscritta l’apposita Convenzione europea. Il termine “tortura” designa “qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni. Di punirla, intimidirla, infliggendo sofferenze per mano di un funzionario pubblico o di qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale. Nella storia del diritto la tortura è definita come un complesso dei mezzi di coercizione personale, tanto fisica che morale, impiegati nel processo (e, al di fuori di esso, nell’attività di polizia che lo precede e accompagna) per accertare la responsabilità degli imputati, al fine di provocarne la confessione. In senso diver-

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so, ma non meno rilevante nella storia del diritto criminale, si connette alla nozione di tortura anche il complesso delle sevizie esercitate sui condannati durante la espiazione della pena, come mezzo continuativo di aggravamento del trattamento detentivo (ceppi, catene, custodia in ambienti insalubri tali da pregiudicare la sopravvivenza a qualsiasi essere umano). Naturalmente il tema dell’entità della pena da infliggere non può essere un tabù ed è, dunque, necessario che sul punto i legislatori trovino un accordo ampio affinché la punizione sia severa e proporzionata alla gravità degli atti posti in essere. Soprattutto è necessario non “annacquare” la previsione (già ben inserita nel testo discusso in commissione nella passata legislatura) di un considerevole aumento di pena se la condotta delittuosa è opera di pubblici ufficiali. Fatti recenti, assai drammatici, hanno messo a nudo taluni comportamenti di soggetti che, abusando della loro qualifica, “ne hanno fatte di tutti i colori” con ferocia e spavalderia, quasi dessero per scontata l’impunità. Coerente con la più avveduta giurisprudenza (anche internazionale) e con i modelli in vigore negli altri Paesi, appare la proposta di istituire presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri una commissione (“per la riabilitazione delle vittime della tortura”) con il compito di gestire un fondo a favore delle persone che hanno subito tortura, per il risarcimento dei danni subiti e l’erogazione di contributi per garantire una completa riabilitazione psico-fisica. Il reato di tortura e le conseguenti sanzioni, se da un lato colmerebbero un vuoto ordinamentale, dall’altro costituirebbero validi elementi di dissuasione nei confronti di non pochi soggetti, che, nell’esercizio di un potere, non hanno alcuna remora di ledere la dignità dell’uomo per riaffermare una sorta di delirio di potenza molto spesso conseguenza di un deserto morale e culturale. In questa legislatura il reato di tortura può diventare tale se si mettono da parte ideologismi e interpretazioni settarie e si compie, alla luce del sole, un serrato dibattito dove prevalga la coesione, il civile confronto e la consapevolezza di rendere un servizio alla causa della giustizia e della sua modernizzazione nel solco di una grande tradizione filosofica e giuridica. Sapranno i nostri governanti, i deputati e i senatori, una volta tanto, distogliere la loro attenzione dalla sterile polemica politica quotidiana per impegnarsi a fondo sul versante della positiva tutela dei diritti dell’uomo? Malgrado tutto, essere fiduciosi talvolta può essere espressione di saggezza.

*Segretario Generale della Conferenza nazionale dei garanti regionali dei diritti dei detenuti e Presidente nazionale del comitato scientifico della Associazione nazionale difensori civici italiani.

In alto: Litografia francese. Fulgence Girard, in Le Monde illustré 1858. In basso: Le donne dacie torturano prigionieri romani. Particolare della colonna traiana


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Migranti

Vite sequestrate di Gabriele Del Grande Più sbarchi, più stragi. Raddoppiano le vittime dell'immigrazione in Sicilia, di pari passo con l'aumento degli arrivi. Sempre più grave il bollettino dalle frontiere Ue: 270 i morti ad agosto, 179 dei quali tra Libia e Italia. il bilancio più grave del 2008. Vittime anche in Algeria (14), Spagna (45), Grecia (1), Egitto (1) e Iran (30). Prosegue il nostro viaggio attraverso la frontiera Mediterraneo. Dopo Grecia, Israele e Turchia, l’inchiesta di Fortress Europe ci porta sull’isola di Cipro. Per raccontare le vite sospese delle migliaia di rifugiati politici che vivono a Nicosia, in situazioni drammatiche e ai più sconosciute. La guerra civile in Sierra Leone, tra il 1991 e il 2001, si lasciò alle spalle almeno 50mila morti e centinaia di migliaia di sfollati e rifugiati. Outhman era uno di loro. Fuggì nel 2000, verso il Senegal, dove riuscì a comprare un passaporto con un visto per il Libano. Un anno dopo approdava con altre 23 persone sulle coste nord dell’isola di Cipro. Outhman è uno dei circa 11.000 richiedenti asilo politico che vivono a Cipro. In trappola. Lo aveva intervistato nel 2006 Sergio Serraino, riuscendo a entrare nel braccio della prigione centrale di Nicosia dedicata alla detenzione amministrativa dei migranti senza documenti, il famigerato Block 10. A due anni di distanza, siamo riusciti a incontrato nel cortile dell’associazione per i rifugiati Kisa, nella zona greca della capitale cipriota. Dal Block 10 è uscito a maggio 2008. Dopo 39 mesi di detenzione e tre tentativi di rimpatrio non riusciti. La sua domanda d’asilo ha avuto una prima risposta negativa. Il caso pende adesso davanti alla Corte europea dei diritti umani. Lo hanno rimesso in libertà una settimana prima della visita al carcere del Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio europeo. Con lui sono usciti tutti quelli che erano dentro il Block 10 da oltre sei mesi. Potrebbe essere il segnale di un cambiamento in uno Stato dove la detenzione amministrativa dei migranti non ha limiti di tempo. Ma intanto Outhman non è più lo stesso.

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li chiedo di ricordare, ma fa fatica. La memoria ha rimosso gran parte di quei tre anni che lo Stato cipriota gli ha sequestrato alla vita. Anni spersonalizzanti, dolorosi, e interminabili. Poi, man mano che parliamo, la mente ritorna al passato. Outhman dice di aver visto deportare molti potenziali rifugiati. Un congolese della Rdc, nel 2006, di cui ad oggi la famiglia non ha più notizie. Una famiglia di curdi turchi, padre, madre e cinque figli. E uno srilankese, rimpatriato nonostante la moglie vivesse regolarmente a Cipro. Un capitolo a parte è quello della salute mentale dei detenuti. Outhman ci ritorna più volte. Ne ha visti di uomini piangere come bambini, e perdersi d’animo. Lui stesso più volte ha tentato il suicidio. Dopotutto era l’u-

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nico modo per scappare. L’altra opzione era impazzire. Ali, l’iraniano, era lucidissimo quando lo arrestarono. Quando, un anno dopo, la famiglia venne a visitarlo, passava il giorno a delirare e a lavarsi le mani, di continuo. Morì un mese dopo il rimpatrio. Un altro iraniano, Sajjad, soffriva di paranoia. Vedeva ovunque complotti contro la sua persona. Era irascibile. Lo portarono all’ospedale psichiatrico di Athalassa, a Nicosia. Non se ne è più saputo niente. Anche Khalid il palestinese, fu ricoverato. Girava nudo per il corridoio e veniva alle mani per la minima ragione. Adesso è stato rilasciato, pare stia meglio. Un altro ragazzo palestinese invece, Mohamed, approfittava di ogni occasione per tagliarsi i polsi. Diceva che non voleva più vivere. Viveva a Cipro sin da ragazzo, senza documenti. lock 10 è una sezione della prigione centrale di Nicosia. Mi ci reco la mattina. Riesco ad entrare facilmente, spacciandomi per un amico di C., uno dei detenuti con cui Outhman mi ha messo in contatto telefonicamente. La polizia non fa storie. Entro insieme a un georgiano in visita a un parente. Le celle sono disposte sui lati di un lungo corridoio, chiuso da una porta blindata. Nel corridoio c’è un televisore, i tavoli per la mensa e l’aria condizionata. Le celle sono di due metri per due metri e cinquanta. Con un unico letto a castello. I due materassi distano meno di un metro uno dall’altro. Nelle celle non c’è aria condizionata né riscaldamento. I detenuti sono una cinquantina. Sono liberi di uscire nello stretto corridoio. Nel cortile invece vengono lasciati andare solo una volta al giorno. Per l’ora d’aria. I poliziotti sono incuriositi dalla mia visita. C. infatti da due settimane rifiuta di incontrare la moglie e i bambini. In segno di protesta. È al Block 10 da sette mesi. Viene dalla Nigeria, e vive a Cipro dal 2001. La sua richiesta d’asilo è stata rigettata lo scorso 16 maggio e adesso non ha i soldi per pagare un avvocato per il ricorso. Ma non è per questo che è arrabbiato col mondo. C. è sposato con una donna filippina che vive qui a Nicosia. Hanno due figli di 5 e 3 anni. E il più grande, due settimane fa, gli ha chiesto perché… Perché sta in prigione? È un uomo cattivo? Oppure è perché non vuole più bene alla mamma? C. non gli ha ancora saputo rispondere.

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In alto: Si costruisce il palco per i Rolling Stones. Stadio San Siro, Milano 2008. Alexey Pivovarov / Prospekt. In basso: Torino, il comune ha dato il voto agli immigrati. Massimo Di Nonno / Prospekt

Cipro dista 70 chilometri dalla Turchia e 100 chilometri dalla Siria. L'isola è occupata per circa i due terzi della superficie dalla Repubblica di Cipro, che dal primo maggio 2004 fa parte dell'Unione Europea. Il restante territorio, a nord, è occupato dalla Repubblica Turca di Cipro Nord proclamata dopo l'intervento militare turco nel 1974. Sull’isola vivono circa 800mila abitanti e 170mila immigrati. Circa 30.000 sono cittadini Ue, 60mila non comunitari (filippini, pakistani, srilankesi) impiegati nei lavori domestici e nella ristorazione, 20.000 greci del caucaso e circa 50.000 senza documenti, soprattutto siriani e turchi. I richiedenti asilo sono circa 11.000. Sono soprattutto siriani, srilankesi, indiani, pakistani, bangladeshi, iracheni, palestinesi, iraniani, georgiani. Una cifra esigua, che però fa di Cipro il primo Paese nell’Ue per l’incidenza del numero di richiedenti asilo sul numero di abitanti. Ad oggi i rifugiati riconosciuti sono circa 500, il 95 percento dei quali iracheni e palestinesi. Nel 2007 il tasso di riconoscimento dei rifugiati è stato dell’1,25 percento. Uno dei più bassi in Europa. E le espulsioni circa 2.500 l’anno. Il welfare prevede un’assistenza di 500 euro mensili ai richiedenti asilo, ma nel 2007 ne hanno usufruito soltanto 300 persone su 11.000. I posti letto nell’unico centro di accoglienza, a Kophinou, sono 43. E i tempi di attesa per il riconoscimento dello status sono di tre, quattro anni. Nel frattempo i richiedenti asilo possono lavorare soltanto nell’agricoltura. Ogni altro impiego è considerato illegale. Peccato che il settore dell’agricoltura sia in crisi e non necessiti di nuova forza lavoro. I contratti nazionali del settore inoltre non superano i 300 euro mensili, meno dell’assegno sociale, in un paese dove un caffè costa tre euro. 24


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Dossier Acqua

Era un bene Comune Di Emilio Molinari* Gran brutto paese il nostro, dove con un articolo all’interno di un decreto convertito in legge si è privatizzata la gestione di tutti i servizi pubblici locali che fino a quel momento era facoltà degli enti locali gestire direttamente. ggi quella facoltà diventa marginale. Anche i servizi idrici, contro la cui privatizzazione un ampio movimento di cittadini, insegnanti, sindaci, sindacati, parroci e persino vescovi, ha raccolto quattrocentomila firme per una legge di iniziativa popolare. Tutto azzerato. In sol colpo la mercificazione dell’acqua diventa nel nostro Paese legge dello Stato e il diritto universale all’acqua è cancellato nella cultura e nelle leggi assieme a un pezzo di storia della democrazia, quella delle municipalizzate. Con l’acqua cadono i diritti di prima e seconda generazione e cade anche il diritto naturale nel senso più spirituale e religioso del termine: l’acqua come vita, come dono di Dio, il perentorio richiamo, dare da bere agli assetati. Chiuso, e con voto bipartisan di tutto il Parlamento, il sei di agosto, il mese degli agguati istituzionali. Il perché è semplice: perché l’articolo 23bis pone almeno quattro questioni su cui dovremmo riflettere. La prima è nel merito della legge che introduce vere e proprie rotture nella cultura giuridica e legislativa italiana. Per la prima volta si decreta sul piano nazionale che l’acqua potabile, i servizi sanitari, la rete fognaria eccetera, sono servizi di rilevanza economica. In una parola, non possono più avere quel preminente interesse generale, previsto con estrema chiarezza dall’articolo 43 della Costituzione Italiana in virtù del quale dovevano essere gestiti secondo i criteri del bene comune. Nessuna legge dello Stato aveva osato tanto: né la legge Galli, né la finanziaria del 2003 e nemmeno la legislazione europea, la quale lascia ad ogni singolo Stato la facoltà di scegliere. Solo alcune regioni, la Lombardia per prima, s’erano mosse in tal senso. Al momento stesso in cui l’Onu dichiara la crisi idrica mondiale e si temono ovunque conflitti idrici, la politica italiana all’unanimità decreta che l’essenza giuridica di questo bene non è più il diritto, ma il mercato. Introducendo un altro criterio, quello dell’obbligo a tutti gli enti locali di adeguarsi a tale disposizione. Ancora una volta il contrasto con la Costituzione che definisce Comuni Province e Regioni “autonome componenti dello Stato” e il Titolo V che attribuisce loro funzioni in materia di gestione dei servizi, è palese. La seconda questione è che con questo voto unanime si spezza ogni canale tra politica e la società civile del paese, così che restano aperti solo i canali delle paure e delle chiusure egoistiche e corporative della gente. In tutto il Paese si sono costituiti comitati per l’acqua pubblica, che sviluppano campagne, seminari, convegni sul diritto all’acqua, sull’uso dell’acqua del rubinetto, contro l’aumento delle tariffe provocato dalla privatizzazione. Si fanno le case dell’acqua, corsi nelle scuole, e tante altre iniziative. Ad Aprilia, Viterbo, Leonfonte, i cittadini fanno lo sciopero contro i rincari esorbitanti delle bollette dell’acqua voluti dalle imprese private. Acqualatina sospende l’erogazione dell’acqua a chi non paga le bollette e insorgono il comitato di vigilanza e l’assessore della regione Lazio. In Umbria si lotta contro l’imbottigliamento dell’acqua del Rio Fergia da parte della Rocchetta. In Abruzzo è lotta contro le istituzioni che hanno occultato acquedotti e fiumi inquinati. In Lombardia centoquaranta sindaci promuovono un referendum contro la Regione che intende, anticipando l’attuale legge nazionale, obbligare tutti i comuni a privatizzare. In Sicilia è contestazione ovunque e a Ragusa si mobilitano gli studenti e i sindaci tentano la strada della ripubblicizzazione completa. In definitiva sessantaquattro Authority locali su novantuno mantengono ancora una

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gestione pubblica. Ma tutte queste cose vengono ignorate. La terza questione è che la scelta italiana va in controtendenza con quanto si afferma in tutto il mondo. In America Latina si cambiano le Costituzioni, dalla Bolivia all’Equador all’Uruguay e costituzionalmente l’acqua diventa un bene pubblico. In Argentina le multinazionali francesi vengono cacciate. Negli USA i servizi idrici sono gelosamente gestiti dalle municipalità. A Parigi, patria di Veolia e Suez, Lyonnes Des Eaux ritorna alla gestione pubblica, la Svizzera di Davos dichiara per legge che i servizi sono monopolio di Stato, il Belgio, l’Olanda, la Svezia, il Lussemburgo, l’Austria legiferano per la gestione pubblica. La politica italiana? A quanto pare fa da testa d’ariete alle multinazionali. a quarta questione è l’affermarsi di un modello che travalica i connotati politici di destra e di sinistra e gli stessi concetti di pubblico e privato. Servizi, territorio, cemento, grandi opere e privatizzazioni nel nostro paese ruotano ormai attorno ad un unico grumo di interessi bipartisan, che vede il patrimonio pubblico svenduto e intrecciato con gli interessi di un gruppo di imprenditori, sempre quelli, da tangentopoli in poi. Tutte le privatizzazioni hanno questo segno: Telecom, Alitalia, Autostrade, centrali del latte. Ora tutti i servizi pubblici locali, domani Enel ed Eni. Tutta la privatizzazione dei servizi idrici ruota attorno al cartello delle ex municipalizzate Acea, Hera, A2A, Amga e delle francesi Suez e Veolia. Fusioni societarie al limite dell’illegalità, come suggerisce l’antitrust, con il fine di costituire multiutility e conquistare tutti i servizi pubblici italiani, dalla Toscana alla Sicilia. Al centro sempre le francesi e le banche, come il Monte dei Paschi, Merry Linch, Intesa, la svizzera Pictet e i soliti imprenditori: Caltagirone, Pisante, Scaroni e company. Oggi il vero problema è chiedersi cosa sia il privato. Quello di cui si vagheggia sono i derivati, subpride, i fondi pensione, i futures. Sono Enrom, Parmalat, Cirio, Telecom, Alitalia, le finanziarie dei mutui. Sono il capitale finanziario e quello criminale. Al posto delle grandi e piccole famiglie, ci sono le multinazionali, c’è Suez e Vivendi il cui presidente Mercier è condannato per corruzione di sindaci e di governi in mezzo mondo. Ci sono i furbetti del quartierino: Fiorani, Ricucci, Consorte. Ci sono i Tronchetti Provera, i Colaninno, i Ligresti, i Gavio, Tanzi eccetera. Ma soprattutto il privato oggi è quella forma oligarchica senza confini, sul crinale del conflitto di interessi, che privatizza la politica, che trasforma gli amministratori in liquidatori del patrimonio pubblico e dei beni comuni, i sindaci in giocatori d’azzardo, tutti clienti della borsa, di quel grande casinò che è diventata l’economia mondiale. Una mutazione profonda: il vero pericolo per la democrazia. Il movimento dell’acqua e dei beni comuni si rimetterà in moto con la consapevolezza che, oltre al diritto all’acqua, dovrà conquistare anche le alternative a questo disastro della politica.

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*Presidente del comitato italiano per un contratto mondiale dell’acqua In alto: Acqua pubblica a Milano. Alexey Pivovarov/prospekt. Milano 2005 In basso: Un uomo prende l'acqua ad un fontana. Massimo Di Nonno/prospekt. Sicilia 2005


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Dossier Acqua

Non datela a bere Di Sara Dellabella

L’acqua è un diritto e non una merce, dice sostanzialmente uno dei passaggi delle sentenze del Tar dell’Umbria che nel maggio scorso ha accolto i cinque ricorsi dei comitati in difesa del Rio Fergia e del Forum umbro dell’Acqua. a comunità è in lotta contro la multinazionale Rocchetta, che dal 1993 al 2004 ha imbottigliato circa quattrocento milioni di litri d’acqua, prosciugando le risorse idriche della regione. La multinazionale dal suo arrivo operò quasi indisturbata fino al 2003, quando gli abitanti di Boschetto, una frazione tra Gualdo Tadino e Nocera Umbra notarono che le acque del loro fiume erano marroni. Da subito si mobilitarono presso le autorità per scoprire che la Rocchetta, attraverso una società collegata, la Idrea, aveva ricevuto una seconda concessione per lo scavo di tre pozzi tra i cinquecento e i trecento metri di profondità. Alla luce di questa scoperta, il comune di Nocera Umbra, incaricò il Prof. Luigi Tulipano dell’Università La Sapienza di Roma di effettuare uno studio del territorio per verificare l’impatto dei pozzi, giungendo all’amara constatazione che gli scavi avevano toccato il bacino imbrifero sottostante alle sorgenti, con il rischio concreto di un danno ambientale irreparabile. Probabilmente Rocchetta aveva ricevuto le concessioni con la sommaria e consenziente supervisione dell’Arpa. E così, mentre il comune di Gualdo continuava a rimanere dalla parte della Regione, senza ostacolare il lavoro della multinazionale, quello di Nocera presentava il primo ricorso alla Regione sulla base dello studio del professore. A questo seguirono altri cinque ricorsi. Una battaglia che, oltre ad avvalersi di strumenti giuridici e scientifici, ha portato più volte i cittadini in strada, l’anno scorso, opponendosi alle ruspe di Idrea, bloccandone i lavori fino a raggiungere un accordo tacito con il prefetto, che avrebbe sospeso le attività della società fino alla pronuncia del Tar. “A maggio abbiamo avuto una bella vittoria. I ricorsi sono stati tutti accolti. La regione Umbria e il comune di Gualdo Tadino hanno incassato in silenzio senza minacciare ricorso al Consiglio di Stato”, esulta Elisabetta De Persio, una delle responsabili del movimento umbro per l’acqua.

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l gruppo Rocchetta investe circa quarantacinque milioni di euro, di cui trenta finiscono in pubblicità, quindici nella gestione degli impianti. A 14.500 euro ammonta l’obolo della concessione annua, cinquanta centesimi ogni metro cubo d’acqua. Fatti due conti, un metro cubo d’acqua equivale a mille litri, che vengono venduti alla multinazionale allo stesso prezzo al quale noi compriamo una bottiglietta da mezzo litro. A quel prezzo Rocchetta imbottiglia ben duemila bottigliette. Un vero affare, praticamente a costo zero! E

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intanto l’Umbria rimane a secco, perché due anni fa il comune di Gualdo Tadino dovette razionalizzare l’acqua per gli utenti privati e chiedere lo stato di emergenza idrica per il quale ancora oggi riceve dei fondi statali. È lampante, a detta dei comitati, la relazione tra il feroce prelievo della multinazionale e la scarsità idrica che sta colpendo tutta la regione. L’acqua dai rubinetti esce, ma questo non vuol dire che le sorgenti non siano stressate, tanto che nella sua relazione Tulipano mise in evidenza che i pozzi di Nocera Umbra erano completamente asciutti. Sottolineando che i contratti di concessione alle imprese delle acque minerali prevedono che esse possano prelevare un quantitativo di acqua pari a quattro milioni di litri in un tempo non definito, con la conseguenza che i prelievi si concentrano nei periodi di grassa, soprattutto in primavera, lasciando poi le sorgenti completamente all’asciutto nei periodi più aridi. Viene così totalmente alterato il ciclo dell’acqua con una naturale ripercussione sull’uso domestico della risorsa. Inoltre non esiste alcun bilancio idrico della Regione come previsto dalla legge Galli, per cui è difficile anche dimostrare i danni che la concessione sta creando al territorio umbro. Ogni regione, nella previsione della legge, avrebbe dovuto valutare le proprie risorse idriche in base ai bacini, invece gli Ambiti Territoriali Ottimali del Ciclo Idrico Integrato (Ato) sono stati creati su base meramente amministrativa e non su una reale valutazione delle risorse. Quella di Gualdo Tadino è soprattutto una storia di attacco mediatico, perché i testimonial e i milioni di euro spesi nel tempo hanno calato un sipario di benessere su una situazione che nella realtà è tutt’altro che rosea, perché dove c’è un’impresa che imbottiglia si rischia davvero di non fare più “tanta plin plin” come rassicura Del Piero in uno dei suoi spot. Per non parlare della Chiabotto e il suo “Belli fuori, puliti dentro”, anche se bastava dire più semplicemente “ripuliti fuori e dentro”. In tutto questo il prezzo più alto lo pagano le comunità locali, che da questo businness non hanno alcun tipo di indotto e che poi si dichiarano pronti a non “contrattare un diritto, soprattutto se si rischia la siccità”. Parola di comitato. In alto: Fontana vicino a Gela dove gli abitanti prendono aqcua potabile. Massimo Di Nonno/Prospekt. Sicilia 2005 In basso: Fontanella di acqua potabile, una persona riempie le taniche per irrigare l’orto. Alexey Pivovarov/Prospekt. Casale Monferrato (Alessandria) 2005


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Le case dell'acqua Di Christian Elia

Mentre l'Italia è attraversata dal dibattito attorno alla privatizzazione dell'acqua, tra comunità locali che resistono e aziende che si leccano i baffi, in Lombardia si lavora a un progetto rivoluzionario, come appaiono oggi tutte le cose normali. l progetto è della Tutela Ambientale Sud Milanese (Tasm), azienda pubblica che gestisce gli impianti di depurazione delle acque civili e industriali nella parte meridionale del capoluogo lombardo. Piccoli edifici, nelle piazze dei paesi, dove l'acqua è gratis. Le hanno chiamate Case dell'acqua, come spiega Tiziano Butturini, presidente della Tasm. “Piccole strutture, realizzate nei giardini pubblici, a disposizione di quelli che vogliono bere e portarsi l'acqua a casa”.“Acqua naturale, oppure refrigerata o addirittura frizzante. A disposizione di tutti coloro che passano da là, a piedi o in bicicletta, che fanno quattro chiacchiere in piazza e intanto fanno il pieno di acqua da portarsi a casa. Ne abbiamo costruite sette, l'ottava verrà inaugurata domenica 21 settembre, e ne faremo altre tre entro Natale”. Quando è partito il progetto? “Tutto è cominciato a maggio dello scorso anno e, ormai, si può trarre un primo bilancio, molto positivo”, spiega Butturini. “Il nostro obiettivo, fin dal principio, era quello di valorizzare l'acqua pubblica, perché l'acqua che distribuiamo è quella della rete idrica cittadina, non un'acqua speciale. La valorizziamo, rendendola vicina ai gusti dei cittadini, fresca o frizzante, e utilizzandola così com'è, perché a volte la qualità dell'acqua della rete idrica cittadina è svilita da reti idriche condominiali non all'altezza, magari perché particolarmente vetuste”. Dopo più di un anno si può dunque fare un bilancio. “Abbiamo verificato che l'iniziativa funziona: nelle case dell'acqua eroghiamo da tremila a quattromila ottocento litri giorno. E sono tanti quelli che hanno smesso di comprare l'acqua in bottiglia – spiega il presidente della Tasm - Lo fanno per risparmiare, ma anche perché la qualità dell'acqua della rete idrica è ottima. Per tutto questo il bilancio non può che essere positivo: abbiamo realizzato un'operazione ecologica, perché ci sono meno bottiglie di plastica in circolazione e se ne ridurrà la produzione, e un'operazione economica, perché le famiglie risparmiano. Valorizzando l'acqua pubblica, che è la nostra missione”.

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Le Case dell'acqua dovrebbero essere già in tutta Italia. Cos'è che ne blocca la diffusione? Magari i costi elevati per le casse comunali? “I costi sono irrisori. Il costo vero della Casa dell'acqua è solo quello dell’anidride carbonica, per renderla frizzante. E questo costo dipende da quanta ne viene consumata, tanto che alcuni comuni, se i conti non tornano, sono intenzionati a chiedere cinque centesimi a litro per l'acqua frizzante. Per il resto l'acqua costa meno di un euro a metro cubo e il costo energia è abbastanza marginale”, spiega Butturini. “Per quanto riguarda la costruzione dell'edificio non si può stabilire un costo fisso, perché nell'edificio di proprietà del Comune, anche se piccolo, si può installare solo l'apparecchiatura dell'acqua o fare un edificio molto differente e in quel caso i costi lievitano. Ma l'impianto base, compresa la manutenzione, costa davvero poco”. an Donato Milanese, Pieve Emanuele, Buccinasco, Cesano Boscone, Trezzano sul Naviglio, Corsico: scorrendo l'elenco delle cittadine dove sono state costruite le Case viene il dubbio che questo bel progetto non sia a misura di grande città. “Non è così, anzi è assolutamente fattibile”, risponde il presidente della Tasm, con l'accento milanese del dirigente abituato a una filosofia del 'fare', “l'unico problema è che ci vuole qualcuno che se ne occupi. Perché non vengano fatte e abbandonate. Basta un luogo protetto e ben illuminato di notte. E garantire la corretta e costante manutenzione dell'impianto”. Costa poco agli enti locali, i cittadini rispondono entusiasti, fa bene all'ambiente e alle tasche dei contribuenti. I mezzi d'informazione avranno fatto a gara per raccontare questa storia. O no? “In alcuni casi c'è stato un vero e proprio 'muro di gomma'. Gli organi d'informazione, in particolare la tv, sono partiti entusiasti, ma poi hanno preferito glissare sull'argomento”, racconta Butturini. “D’altronde le grandi aziende dell'acqua minerale sono tra i principali inserzionisti dei mezzi d'informazione. Un modo sottile di contenere la diffusione di questa notizia”.

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Aprilia, contatori con il lucchetto Di Sara Dellabella

C’è chi va in vacanza chiudendo bene la propria casa e chi per stare più sicuro mette anche un lucchetto al contatore dell’acqua. Già, perché da un paio d’anni la società Acqualatina Spa irrompe in pieno ferragosto con modi consoni a sceriffi western a controllare e staccare i contatori dei propri utenti. n modo di fare che ha indotto i cittadini di Aprilia a organizzarsi con catene e lucchetti. “Ne usciranno con le ossa rotte” era una delle dichiarazioni candidamente espresse dall’amministratore delegato Silvano Morandi, della società Acqualatina, gestore del servizio idrico nell’Ato4 (denominata Lazio meridionale - Latina). Per ora di certo Morandi è stato al centro di una vicenda che nel gennaio scorso lo ha visto agli arresti per svariate ipotesi di reato, tra cui l’associazione per delinquere finalizzata alla truffa aggravata. Si parlava, infatti, di appalti “in-house” per 15 milioni di euro, con danno erariale superiore ai 5 milioni di euro. Una vicenda, questa, che non gli ha impedito di essere riconfermato all’amministrazione qualche mese più tardi, perché i patti parasociali conferiscono ampi poteri all’Amministratore, nominato da privati e per questo scelto più per fedeltà politica che per meriti specifici. E la politica ogni tanto, si sa, chiude un occhio. Questa è l’atmosfera vacanziera e rilassata in cui vivono gli abitanti di Aprilia, in una sorta di Far West all’italiana, dove chi ha in mano la gestione di un servizio pubblico essenziale si permette di minacciare e vessare coloro che invece dovrebbe tutelare.

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cqualatina nasce nel 2002, è una società mista, il 51 percento delle quote appartiene a 35 dei 38 comuni che formano l’ambito idrico di Latina. Rimangono fuori dalla gestione Aprilia, Pontinia e Bassiano. Quest’ultimo conta circa 3mila abitanti, che fin dall’inizio contestano il modo in cui è nata la società, i metodi di gestione e l’iter amministrativo. Il comune di Aprilia cedette i suoi impianti nel luglio 2004, circa un anno e mezzo dopo rispetto agli altri comuni della zona, ma il cambio di gestione avvenne nel totale silenzio, senza avviso alcuno agli utenti. Importante sottolineare che la cessione non venne deliberata da nessuna seduta del consiglio comunale, che non si è mai espresso nel merito. Ad ogni modo gli utenti ebbero modo di accorgersi di questo passaggio ingrato nel maggio 2005, quando cominciarono a essere recapitate le prime fatture. Sorprese da cardiopalma per gli abitanti di Aprilia, che trovarono in bolletta aumenti del 50 - 70 fino al 330 percento su quello che era il servizio di un’abita-

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zione normale, per non parlare degli aumenti per gli artigiani e gli agricoltori della zona. Inutile dire che da quel momento i cittadini si unirono nel comitato cittadino contro Acqualatina, organizzando convegni, divenendo protagonisti di manifestazioni locali e nazionali e testimoni di una vertenza nazionale per il diritto all’acqua. A tutt’oggi c’è un giudizio pendente davanti al tribunale civile perché si ritiene che l’atto costitutivo di Acqualatina non sia stato fatto secondo le regole. Nei primi due anni della società il presidente dell’Ato, che doveva vigilare sul gestore, era allo stesso tempo il presidente della società Acqualatina, cioè controllore e controllato erano la stessa persona, in un evidente conflitto d’interesse. Una serie di irregolarità e vessazioni che fanno dubitare a tutti gli effetti della bontà di questo passaggio, senza contare che i membri della società non vennero scelti in base alle competenze tecniche, ma per colore della casacca, per cui tutti appartenenti ai partiti dell’ex centrodestra (in prevalenza AN – Forza Italia). Dal 2005 a oggi, circa 7mila famiglie apriliane contestano questa gestione, non riconoscendo il passaggio ad Acqualatina, e chiedono la ripubblicizzazione dell’acqua continuando a pagare le bollette al comune e non alla società. Finora hanno versato all’ente comunale 1 milione e 100 mila euro. “Paghiamo, ma paghiamo al comune, questa è la nostra contestazione, che formalmente riteniamo corretta”, spiega Alberto De Monaco, portavoce di questa protesta. uesta vicenda interessa un ampio territorio a 40 chilometri a sud della capitale, dove da anni si dice che si stia creando il ponte della mafia verso la città. Una zona interessata da ampie strutture industriali che sfruttano la vicinanza della via Pontina, che collega Roma con il sud dando lavoro a una zona già interessata da tanti problemi. Ma è anche una società dove ancora molti lavorano la terra sia a livello aziendale che familiare. Insomma si tratta un territorio dove ci si arrangia come si può e che di certo non avrebbe bisogno di altri problemi e gestioni scellerate. Qualcuno si sta chiedendo cosa fa il Sindaco, che ad Aprilia chiamano Ponzio Pilato, perché se ne lava le mani. Ma chissà quanto gli costa.

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Sull'acqua non si scherza Di Christian Elia

Qualche tempo fa Ascoli Piceno è finita sulle prime pagine di tutti i giornali. Dopo che l'ex ministro dello Sviluppo Economico Pierluigi Bersani ha introdotto nella legislazione italiana la possibilità di dare vita ad azioni legali collettive, le cosiddette 'class action', si è fatto un gran parlare della querelle tra la gente di Ascoli e il consorzio che gestisce l'acqua comunale. os'è accaduto lo spiega Massimo Rossi, presidente della provincia di Ascoli Piceno. “Tra Natale e Capodanno dello scorso anno la zona di Ascoli Piceno, per una rottura nella rete, è rimasta a secco. La popolazione si è costituita in comitato per chiedere i danni, nel caso emergessero responsabilità. Adesso si vedrà, ma va bene così, perché la gente dimostra che sull'acqua non si scherza!”. Ma come, un amministratore pubblico che è contento di un'azione collettiva contro la società per azioni composta dai comuni del Piceno che gestiscono le risorse idriche? “Certo che è un bene. La comunità, su un tema chiave per la sua vita come l'acqua, deve partecipare in prima persona, facendo valere i propri diritti. La cittadinanza deve essere parte attiva della gestione delle risorse pubbliche, non porsi nella mentalità cliente – fornitore”, spiega il presidente. La storia personale di Massimo Rossi parla per lui. L'acqua è sempre stata al centro del suo operato politico: relatore nel Forum Sociale Europeo di Firenze, è stato tra i fondatori della Rete del Nuovo Municipio e ha aderito fin dall'inizio al Contratto mondiale per l'acqua. Un bene da non mercificare. “In passato, come tutti, siamo stati oggetto di un'aggressione a livello locale da parte del legislatore. All'inizio con il primo governo Prodi, poi dal governo Berlusconi, che nell'articolo 35 della Finanziaria 2001 modificò il testo unico degli enti locali introducendo una sorta di obbligo alla liberalizzazione del servizio idrico”, spiega Rossi. “Questo causò un forte impatto sulle comunità locali. All'epoca più di cinquanta comuni erano aggregati per la gestione integrata delle risorse idriche che avevano dato vita al Consorzio Idrico Intercomunale del Piceno. C'era e c'è una gestione soddisfacente. E' ovvio che ci siano dei problemi, ma mai i comuni avevano valutato l'ipotesi di mettere sul mercato un bene primario come l'acqua. Il percorso previsto prevedeva la trasformazione dei consorzi, come quello del quale eravamo parte, in società per azioni e, infine, la liberalizzazione del servizio”. Ed è iniziata la 'resistenza' dei cittadini. “All'epoca ero sindaco a Grottammare e, con altri sindaci, abbiamo dato vita a una protesta. Un conto è lasciare ai comuni l'opportunità di prendere una decisione per la comunità, un conto è obbligarli a farlo. Abbiamo dato vita a una battaglia dura: abbiamo dovuto cedere alla trasformazione del Consorzio in spa, perché era un obbligo di legge, ma siamo riusciti a mantenere pubblico il capitale della stessa, non lasciando alcuna possibilità all'ingresso dei privati, blindando poi questo concetto nello Statuto istitutivo”, racconta soddisfatto il presidente. “Nel 2003, grazie all'impegno dei movimenti, si riuscì a incidere sulla materia ottenendo un ripensamento e vennero individuate tre modalità di gestione delle risorse idriche, a scelta degli enti locali: affido a privati con gara, gestione mista pubblico – privato (a maggioranza pubblica) oppure tutto nell'ambito di società gestite dagli stessi enti locali. Abbiamo lavorato per quest'ultima ipo-

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tesi. Ci siamo riusciti due anni fa, ottenendo l'affidamento diretto delle risorse idriche del territorio del Piceno per venticinque anni. È stato un processo molto positivo, che coinvolgeva cinquantanove comuni, i quali hanno dato vita a un piano d'investimenti di circa 300 milioni di euro in quindici anni per migliorare il servizio, ridurre le perdite e l'impatto ambientale. Un ottimo lavoro, votato all'unanimità, dove i singoli sindaci hanno capito che il tema è delicato e hanno lavorato al bene comune, senza preoccuparsi solo delle rispettive problematiche. E sono convinto che questo atteggiamento costruttivo dei sindaci sia nato dall'esperienza della lotta condotta per resistere alla privatizzazione dell'acqua. Siamo riusciti a far diventare il concetto di gara per l'appalto esterno un tabù, nonostante pressioni per privatizzare, da destra e da sinistra”, racconta soddisfatto Rossi. Ma non è finita. “Adesso sono molto preoccupato. Il decreto legge 112, poi convertito in legge, ha per l'ennesima volta rimesso le mani su questa materia. Questo dimostra che non bisogna mai abbassare la guardia di fronte all'idea, assurda, che l'acqua sia una merce. In pratica si rimette mano alla materia sostenendo che solo la gara pubblica è lo strumento per assegnare la gestione delle risorse idriche, il che significa che non decidono più gli enti locali. Si fa un'eccezione solo nei casi peculiari. In pratica viene detto che se ci sono problemi gravi, e il mercato non ci guadagna, l'acqua resta pubblica. Una cosa vergognosa e inderogabile, perché il progetto di legge chiarisce che tutte le situazioni dove sono state prese decisioni senza gara pubblica cessano la loro efficacia entro il 31 dicembre 2010. Quindi tutto il nostro lavoro di programmazione e concertazione democratica tra gli enti locali va perduto, compresi i tavoli con le realtà locali che avevamo istituito. Potrebbe arrivare qualcuno che fa il bello e il cattivo tempo sulla pelle dei cittadini”, denuncia Massimo Rossi. E adesso? “Sarebbe una sciagura, ma torneremo a lottare, riattivando il movimento che in passato ha già dato prova di tenacia”, risponde il presidente della provincia di Ascoli. “Oggi bisogna che si riaffermi un concetto nuovo di interesse pubblico, dove i cittadini devono essere coinvolti in prima persona. Chi critica le gestioni pubbliche ha ragione, ci sono stati pessimi esempi. Almeno tanti quanti ce ne sono stati nel privato. E comunque la soluzione è un pubblico di cittadini che partecipano in modo responsabile, con il coinvolgimento delle realtà della comunità. Questa è la strada per un bene come l'acqua, non potrà mai essere un mero rapporto cliente fornitore. La gente, per strada, mi ferma e mi dice: Tenete duro, sull'acqua”. In alto: Pozzo per l'acqua. Samuele Pellecchia/Prospekt. Montecastello, Italia 2007. In basso: Abitanti di Agrigento che riempiono taniche di acqua potabile. Massimo di Nonno/Prospekt. Sicilia, Italia 2005.


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Rubriche

In edicola di Claudio Sabelli Fioretti

Ma così ha deciso, l’editore? In tivù di Sergio Lotti

Problemi di gente vera In questo autunno iniziato sotto la minaccia della recessione, accompagnata da pericolosi segni di disgregazione sociale, le uniche certezze le offre la televisione: telegiornali ovattati e sempre più simili uno all’altro, intervallati da talk show in cui dopo le vacanze estive ministri ed esponenti della maggioranza continuano come se niente fosse a mandare in onda spot che parlano di soluzioni a problemi che si aggravano, fingendo di litigare con i rappresentanti della non opposizione sotto gli occhi di imperturbabili conduttori. Allora si è tentati di dare un’occhiata a programmi diversi, concepiti per la gente vera, quella da cui la politica si è allontanata. Prendiamo per esempio Forum, condotto ogni mattina alle undici da Rita Dalla Chiesa. Qui vengono istruiti processi in cui può capitare di vedere due coniugi separati che litigano davanti a un giudice perché la mamma non vuole che i figli frequentino il nonno paterno, di professione lanciatore di coltelli. Problema di grande impatto sociale, che assilla le famiglie di mezzo pianeta. Il pubblico in sala... pardon, in aula, ovviamente si appassiona. Un giovane chiede: ma quante volte ha sbagliato il lancio, questo nonno, ferendo il suo bersaglio vivente? Mai. E allora, di cosa si preoccupa la mamma? Una signora, saggiamente, fa presente che è sufficiente far capire ai figli che con le armi non si scherza. E se invece si fa sul serio? Di questo non frega niente a nessuno, forse è un concetto troppo difficile per gli otto anni. Alla fine il giudice dà ragione al padre, i suoi figli possono continuare a vedere il nonno, che saprà come preservarli dai rischi. In un altro processo il giudice respinge il ricorso di una madre che vuole cambiare sezione al figlio, perché nella sua classe di prima liceo molti compagni fumano, forse persino qualche spinello, ma la preside non lo considera un motivo valido. Il pubblico sembrerebbe in prevalenza d’accordo con la madre: uno studente del classico deve assolutamente essere allontanato dai cattivi esempi, dice una ragazza senza però specificare su quale pianeta. Una madre sostiene addirittura che gli alunni dovrebbero essere accompagnati anche al cesso. Pensare che i critici della trasmissione avanzano il dubbio che non sempre si tratti di personaggi reali e fatti realmente accaduti. Ma cosa cambia? Qui compaiono. 34

A volte mi domando perché i giornali siano così. Così come? Così. Belli, brutti, pieni di notizie, superficiali, precisi, sciattoni, a colori, in bianco e nero, piccoli, grossi. Perché si sceglie di fare un giornale pieno di incidenti stradali o di notizie di affari esteri? La risposta potrebbe essere semplice: perché così ha deciso l'editore. Troppo semplice. L'editore (sempre che non abbia altri interessi, politici, industriali, economici, da far prevalere) sceglie una formula o l'altra perché pensa alla riuscita dell'impresa. Ma come fa a sapere quale scelta sarà la più redditizia? Sempre più spesso con indagini di mercato. Ho una sana perplessità riguardo alle indagini di mercato. Io ho cominciato a lavorare nel Panorama settimanale di Lamberto Sechi. Lamberto, su richiesta della Mondadori, aveva preso il Panorama mensile e lo aveva trasformato in news magazine. Il mensile era pieno di fotografie e di articoli lunghi. Il settimanale aveva foto piccole e articoli piccoli, anche di una sola colonna. Dopo qualche numero si decise di fare un'indagine di mercato. Cosa vi piace del nuovo settimanale? Che cosa rimpiangete del vecchio mensile? Alla prima domanda i lettori risposero pressappoco così: ci piace questa nuova maniera di porgere le notizie, nervosa, sincopata, precisa, essenziale. Alla seconda le

A teatro di Silvia Del Pozzo

Morti insensate Vanno in scena lo stesso giorno, uno a Torino e l’altro a Milano. E se per tematica sono due spettacoli diversissimi, in controluce sono venati entrambi dalla luce livida dell’attualità più crudele, carica di violenza e di morte. Pippo del Bono, nel suo nuovo spettacolo “La menzogna” trae ispirazione dalla drammatica vicenda della Thyssen Krupp - e dalle ormai quotidiane morti bianche - per una riflessione etico-politica di respiro universale. Questa coscienza del dolore, dolore privato e dolore collettivo che nella guerra trova la sua dimensione macroscopica, ha profondamente influenzato Sarah Kane - drammaturga inglese morta suicida nel ‘99 a soli ventott’anni - in “Blasted”, scritta quando infuriava la guerra in Bosnia. È la vicenda di un giornalista razzista, malato di cancro, che in un rabbioso bisogno di “vita” recupera la sua ex amante e in una camera di albergo la aggredisce fino al punto di usarle violenza. Ma un soldato fa irruzione e “restituisce” all’uomo gli abusi da lui

risposte furono: rimpiangiamo quei vecchi articoli lunghi, riposati, sereni, tranquillizzanti. Sechi lesse i risultati e disse: “Questa è l'ultima volta che butto via dei soldi per fare una ricerca di mercato”. Esistono ricerche raffinate e forse credibili. Ma nella mia esperienza ho ricordi quasi esclusivamente di risultati che accontentavano il committente. L'editore voleva dare una svolta seria al suo giornale? I lettori interpellati dicevano: ottima idea. L'editore voleva ravanare in basso per aumentare le vendite? I lettori rispondevano con entusiasmo. Per quanto riguarda i risultati, poi, vedere alla voce clamorosi fallimenti. C'è una costante. I lettori in genere vogliono fare vedere di essere migliori di quanto non siano. Nessuno ha il coraggio di chiedere donne nude in copertina. Ma quando Panorama ne metteva qualcuna un po' discinta le vendite salivano del venti per cento. Tutti, o quasi, a domanda rispondevano che erano appassionati di economia e di esteri. Ma i giornali che li accontentavano dovevano poi accontentarsi di una ristretta nicchia mentre quelli che ammiccavano al gossip avevano stravolgente successo. E allora? Allora niente. Se avessi la soluzione sarei un grande editore. Ma l'impressione che ho è che i grandi successi siano quasi sempre frutto di un intuito. E quindi entriamo nel mistero.


inflitti alla donna… fino al finale metaforico di un’esplosione che tutto e tutti annienta. L’idea della Kane è che “ il seme della guerra si trova nella società in tempo di pace” . Ed Elio De Capitani (Premio Idi 2008 con Ferdinando Bruni per “Angels in America”), regista di “Blasted”, lo conferma:” Il triangolo di sopraffazione e violenza tra Ian, Cate e il soldato per me è anche lo specchio di un disfacimento che riguarda tutto l’Occidente”.

Vauro

“La menzogna”, Fonderie Teatrali Limoni di Moncalieri (TO), dal 21/10 al 2/11. “Blasted”, Milano, Teatro dell’Elfo, dal 21/10 al 16/11

Musica di Claudio Agostoni

Chiwoniso “Rebel woman” (Cumbancha/Ishtar)

Chiwoniso, titolare di un sound che richiama il fuoco di Angelique Kidjo, l'inspirazione di Oliver Mtukudzi, la ribellione di Tommaso Mapfumo e il soul di India. Irie, oltre che una delle migliori protagoniste della scena musicale dello Zimbabwe, è una incredibile fonte di informazioni. “Io sono come un specchio” è solita dichiarare Chiwoniso, “Scrivo e canto riferendomi agli eventi che vedo accadere nel mio mondo. Se qualcuno lungo la strada mi chiede dei soldi, io canterò questo fatto. Se le persone stanno varcando confini perché la loro situazione economica è troppo difficile, io canterò questo avvenimento. Se la polizia sta picchiando delle persone per intimi-

dirle, io canterò queste violenze”. Dalle nostre parti la drammatica situazione sociale e politica dello Zimbabwe finisce raramente nelle cronache internazionali dei nostri giornali. Come cittadina di Harare, la capitale, Chiwoniso vive nell’occhio del ciclone, e sperimenta in prima persona i frutti del colonialismo, della guerra, dell’ineguaglianza sociale e dell’oppressione politica. Esperienze che troviamo, pari pari, nelle composizioni di “Rebel Woman”. Canzoni che echeggiano con forza provocatoria e tenerezza profonda.

Assalti Frontali “Un’intesa perfetta” (Manifesto)

Settimo album di Assalti Frontali, nuovo sigillo delle rime metropolitane di Militant A, voce e cuore della band, sostenute dall’ironia di Pol G e Glasnost, ex Brutopop. Alle basi anche questa

volta Bonnot, la post produzione è targata Casasonica. Abbiamo parlato di settimo album, ma sarebbe più opportuno parlare di settimo arrembaggio. Il linguaggio è forgiato da anni di pirateggio urbano. E, come un vascello in mezzo a onde altissime, l’equipaggio alza la bandiera con il teschio, il Jolly Roger, simbolo di libertà da ogni potere, per andare ad assaltare il proprio tempo, un presente e un futuro da catturare e trasformare al più presto. Canzoni come “È come respirare”, “Mappe della libertà” e “C’est la banlieu” sono perle di rap che raccontano delle strade di periferia che cambiano e di vite che nascono, di rifiuto di rappresentanza politica, di difesa di basi sociali e conquista di territori alternativi. È la vita nelle banlieu che inventa nuove forme di resistenza e si fa poesia. 35


Al cinema di Nicola Falcinella

La classe Palma d’oro meritata all’ultimo Festival di Cannes, arriva in Italia “La classe” di Laurent Cantet. Il regista transalpino di “Risorse umane” e “Verso sud” ha girato in una scuola media parigina con gli studenti dell’istituto e lo scrittore Francois Begaudeau nel ruolo del professore di francese. Begaudeau è l’autore del libro (pubblicato da Gallimard editions Verticales nel 2006 e premiatissimo in patria) che ha ispirato l’opera. Un film, come rende bene il titolo, quasi tutto girato dentro un’aula, che diventa un microcosmo rappresentativo della Francia odierna. Cantet e Begaudeau hanno scelto una scuola (la Francoise Dolto nel 20° arrondissement) che non è del centro e non è delle banlieu. Le tensioni tra ragazzi di diverse estrazioni esistono, ma non sono esplosive e non forzano verso un’interpretazione cronachistica e banale un discorso che Cantet vuole molto più universale. Un discorso che riguarda il rapporto professori – studenti, la scuola come luogo di incontro e trasmissione della cultura, come momento per creare una base comune per giovani cittadini di provenienze e abitudini diverse. Il risultato è una pellicola fresca, dinamica, molto parlata, capace di ritrarre il mondo della scuola, le dinamiche interpersonali, le fasi cruciali della crescita (i ragazzi hanno 13-14 anni) e la società multiculturale. Ci sono ragazzi (ne sono stati scelti 25 sui 50

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che hanno partecipato a un workshop preparatorio) di famiglia cinese, sudamericana e africana, il professore cerca di capirli, di conoscerli incontrando anche i loro genitori (che spesso parlano male il francese), di trovare modi per stimolarli o provocarli. Lo stile di ripresa è quasi documentaristico e molto vicino ai volti e ai corpi, in ogni inquadratura compaiono delle persone tranne nella sequenza finale con i banchi vuoti alla fine dell’anno scolastico. Come “Gomorra”, l’altro vincitore di Cannes, “La classe” parte da un libro che descrive la realtà e lo reinventa restando fedele allo spirito dell’originale, trovando una forma filmica autonoma e nuova nel rappresentare il mondo in cui viviamo.

In libreria di Marco Formigoni

McMafia di Misha Glenny Se siete abituati a cercare di capire le logiche del mondo attraverso le parole di politici e statisti, c’è un libro che può aprirvi nuovi orizzonti di comprensione. Si intitola McMafia e lo ha scritto un giornalista della Bbc, Misha Glenny: è un giro del mondo dell’economia criminale, una nuova geografia del potere. In questo mondo si commercia di tutto: armi, droga, esseri umani (meglio se donne), ma anche petrolio, diamanti, sigarette e caviale. Il viaggio di Glenny, che scrive un reportage che sa di romanzo, comincia dalla Romania e dai Balcani per arrivare nell’universo frastagliato dell’ex Unione Sovietica. Si spinge in India, Giappone e Cina, per passare poi a Israele, Nigeria e Sudafrica. Varca l’oceano per sbarcare in Brasile, Colombia e nella British Columbia. Quattrocento e rotte pagine che regalano al lettore una galleria di personaggi a tratti affascinanti. Pericolosamente potenti, se nel frattempo non li hanno fatti fuori. Come Ilja Pavlov, che nasce in Bulgaria, cameriere e lottatore. Fonda una polizia privata quando crolla il regime e si ritrova capofila del nuovo capitalismo bulgaro degli anni Novanta. Pazienza per i metodi spicci e la presenza in canotta e catena al congresso che sancisce la nascita della


classe imprenditoriale bulgara. Perché al suo funerale, assieme agli ex colleghi Teschio, Becco, Dimi il russo e il Dottore, ci sono artisti, calciatori, varie miss Bulgaria, ministri e parlamentari. O come Victor Kulivar, il gangster più amato di Odessa: una specie di bandito-eroe che i suoi concittadini ringraziano per aver impedito che la città cadesse nell’anarchia. Lo chiamavano Karabas e ancora oggi portano fiori e soldi sulla targa che lo ricorda. La lezione di Glenny è che “nel commercio e nella finanza i criminali operano assai più vicino a noi di quel che crediamo”. Meglio saperlo e tenerselo a mente. PS: Vale la pena di dare un’occhiata all’elenco delle fonti. Ci sono ottimi consigli per gli acquisti. Mondadori, Strade Blu. 432 pagg, € 18.00

lettere a un chirurgo confuso scrivi a chirurgo@peacereporter.net

Il nostro razzismo Caro Gino, Milano, la morte di Abba. E poi Caserta, dove i camorristi fanno il tiro al piccione sugli immigrati. E poi le parole dei politici, della Lega e non solo, che esprimono disprezzo e paura, ma anche violenza nei confronti degli immigrati. E ovunque, nel nostro Paese, si nota una crescente paura nei confronti dei “diversi” che spesso si trasforma in razzismo. Ma ha un senso avere paura degli immigrati? È anche vero che sempre più, sui giornali, si legge di reati commessi da stranieri... Franca, Genova

In rete di Arturo Di Corinto

Il gioco del Darfur Chi l'ha detto che i videogiochi fanno sempre male? Psicologi e massmediologi non si sono ancora messi d’accordo circa gli effetti negativi dell’esposizione a contenuti violenti generati da uno schermo, sia esso un televisore o un computer, ma il senso comune li ritiene comunque pericolosi. Adesso che si è verificato il sorpasso della tv da parte della rete internet, il dibattito è ancora più acceso. Peccato che prescinda dai contenuti. Infatti, se è facile essere d’accordo che i tipici giochi shot’em’up, i cosiddetti “sparatutto”, non siano il massimo per l’educazione, è tempo di aprire un discorso sui radical games e gli educational in rete, dove il mezzo, il design, l’interattività, possono essere usati per favorire una presa di coscienza di fronte a contenuti etici e sociali. In Italia hanno fatto da apripista i videogames

Cara Franca, credo che il razzismo, oggi, abbia molte facce. Una è quella che ho visto pochi giorni fa in metropolitana, a Milano. Giornata di pioggia, un ragazzo che vende ombrelli al mezzanino, e due milanesissime signore che si chiedono “Lo compriamo l’ombrello dal negretto?”. Era cingalese, quel ragazzo, ma poco importa: è diverso, un poveraccio, uno che per vivere vende ombrelli. Un “negretto”, e questo basta. Una faccia del razzismo, una delle più banali, e forse anche tra le più innocue, in fin dei conti. Più preoccupante è il razzismo da prima pagina: ‘uomo nero uccide donna bianca’ merita i titoli di apertura dei giornali, per giorni. ‘Donna nera trovata morta in un fosso’ merita solo un trafiletto in spalla. E nel titolo non è più una donna: fateci caso, nel titolo sarà “Prostituta trovata morta in un fosso”, o qualcosa del genere. Allo stesso modo, sulle prime pagine dei giornali potreste trovare “Albanese uccide un’anziana”. Ma non troverete “Bergamasco spara a un vicino di casa”. Perché? Poi c’è ancora un altro tipo di razzismo: è il razzismo che ci fa dire ‘siamo tutti americani’ davanti

“politici” del sito Molleindustria.org (http://molleindustria.org) che da anni ormai si misura con fatti di forte rilevanza sociale come la precarietà, le guerre di religione, la deforestazione, l’avarizia delle corporations. Ma in giro per la rete se ne trovano di tutti i tipi. Un videogame di particolare significato è quello che appare sul sito “Il Darfur sta morendo” (http://www.darfurisdying.com/). Si tratta di un videogioco virale che consente di condividere virtualmente la terribile esperienza di due milioni e mezzo di rifugiati scapati dalla regione sudanese

alla tragedia dell’undici settembre, ma che non ci fa dire ‘siamo tutti afgani’ davanti ai quattordicimila morti provocati dai bombardamenti americani nei primi mesi dopo l’attentato alle Torri Gemelle. Perché? Mi chiedi se credo che gli stranieri siano davvero un pericolo per l’Italia. No, non lo credo. E mi permetto una piccola provocazione, girando la domanda: l’Italia è un pericolo per gli stranieri? A volte sembra di sì. Ingegneri camerunesi che raccolgono pomodori in Puglia per uno stipendio da fame. In nero, ovviamente. Quanti migranti muoiono in incidenti sul lavoro, ogni anno in Italia, e nessuno ne saprà mai niente, magari perché sono clandestini? O perché il loro padrone – è successo e succede – abbandona il loro corpo sul ciglio della strada, sperando che la polizia pensi a un incidente stradale, e che non vada a fare ispezioni nel suo cantiere? Quanti rispettabilissimi italiani sfruttano le ragazze sulle strade? Quante decine di migliaia di disperati in fuga dalla miseria lasciano nel loro paese i loro genitori e i loro figli per venire qui, ad occuparsi dei nostri genitori, dei nostri figli? La nostra società ne ha un bisogno disperato, sei giorni alla settimana: la domenica, però, non vogliamo vederli in giro. E questo è razzismo. Ed è pericoloso. Gino Strada

del Darfur. Ogni giocatore, impersonando un profugo, deve contribuire alla sopravvivenza del proprio campo base raccogliendo acqua e irrigando i campi, nella costante paura del prossimo attacco della milizia Janjaweed. In questo modo i giocatori non solo potranno sperimentare un transfer di esperienza identificandosi con Jaia, Rahman o Sittina, i protagonisti del gioco, ma anche imparare quello che c’è da sapere sul dramma del Darfur, finora costato centinaia di migliaia di vite umane, e magari trovare il modo di attivarsi per mettere fine a questo disastro umanitario. 37


Per saperne di più Ossezia del Sud

Pagina inglese di Wikipedia sul conflitto sudosseto-georgiano del 1991-1992. Alcune informazioni differiscono da quelle da noi raccolte sul campo. http://en.wikipedia.org/wiki/2008_South_Osseti a_war

LIBRI

Pagina inglese di Wikipedia sul conflitto sudosseto-georgiano di agosto. Alcune informazioni differiscono da quelle da noi raccolte sul campo.

FERRARI ALDO, Breve storia del Caucaso, 2007. Carocci Per millenni il Caucaso ha rappresentato, non solo in senso geografico, il confine tra due mondi assai diversi, anche se tra loro comunicanti: quello del Vicino Oriente e quello delle steppe eurasiatiche dominate dai popoli nomadi.

http://ossetians.com/eng/index.php Dalla musica tradizionale alla cucina, passando dai grandi campioni olimpionici e dalle stelle del circo, una sorta di enciclopedia online sull’Ossezia (non solo del Sud). Peccato sia solo in russo, osseto ed inglese. Ci sono però tanti contenuti multimediali.

FERRARI ALDO, Caucaso, popoli e conflitti di una frontiera europea, 2005. Edizioni Lavoro Dopo un rapido inquadramento della sua struttura etnicoo-culturale, il libro descrive le tappe fondamentali della storia del Caucaso sino all'inserimento nell'orbita russa e sovietica, con particolare attenzione ai numerosi conflitti inter-etnici scoppiati dopo la dissoluzione dell'Urss. BUYSSCHAERT MARTINE, J.A. LONGOWORTH VERESCAGIN, ESSAD BEY, Ossezia, Cecenia, Due Cabarde e altre contrade caucasiche circostanti la Strada Militare di Georgia, 1988. FMR-Franco Maria Ricci editore. Per intenditori e appassionati, il Caucaso ottocentesco: un mosaico di tribù selvatiche e cavalleresche occupate in interminabili faide e in una secolare guerra con l’orso russo. Quel mondo di montanari feroci e ospitali è qui descritto da un ineffabile viaggiatore inglese che nel 1839 si recò avventurosamente in quella remota e pericolosa contrada, spinto dalla simpatia per la lotta del Davide circasso contro il Golia zarista e attirato dal fascino di un Oriente assai diverso dai languori di Costantinopoli e della Persia. Un testo del più famoso pittore russo dell’Ottocento ci conduce invece a passeggiare fra le bellezze e le stranezze del Caucaso conquistato e pacificato. Il volume è illustrato con incisioni acquarellate tratte dall’Atlante annesso al Voyage dans la Russie méridionale del Pallas SITI INTERNET http://cominf.org/english

Versione inglese del sito d'informazione del governo dell'Ossezia del Sud http://it.wikipedia.org/wiki/Ossezia_del_Sud

Pagina di Wikipedia sull'Ossezia del Sud. Alcune informazioni differiscono da quelle da noi raccolte sul campo. http://en.wikipedia.org/wiki/Alania

Pagina di Wikipedia sull'Alania, l'antico regno degli alani da cui discendono gli odierni osseti. http://en.wikipedia.org/wiki/GeorgianOssetian_conflict_(1918-1920)

Pagina inglese di Wikipedia sul conflitto sudosseto-georgiano del 1918-1920. Alcune informazioni differiscono da quelle da noi raccolte sul campo. http://en.wikipedia.org/wiki/19911992_South_Ossetia_War 38

USA FILM

dell'assalto a Obama da parte dei conservatori. Con un astuto gioco di parole tra “la nazione di Obama” e “abomination”, fa le pulci al candidato democratico su tutto quello che i grandi media, a detta dell'autore, preferiscono chiudere un occhio: amicizie imbarazzanti, i suoi legami con l'Islam. È un insieme di mezze verità e interpretazioni presentate in modo da appagare la diffidenza dei “Nobama”. Ma, già autore di un libro che contribuì a danneggiare John Kerry nelle elezioni del 2004 favorendo Bush, Corsi ci riprova.

JOSHUA MICHAEL STERN, «Swing Vote», 2008 Con Kevin Costner, uscito in agosto negli Usa. La storia (inventata) di un elettore il cui voto è decisivo nell'eleggere l'uno o l'altro dei due candidati. Neanche così lontano dalla realtà, dato che nel 2000 Bush conquistò la Florida, e quindi la presidenza, per 537 voti di differenza su Gore.

JOE QUINT, «72 Things Younger than John McCain», 2008, Simon & Schuster Un pamphlet per sorridere sull'età del candidato repubblicano, che se eletto diventerebbe il più vecchio presidente Usa al primo mandato. Tra le cose più giovani di lui: l'Alaska e Dick Cheney.

OLIVER STONE, «W.», 2008. In uscita il 17 ottobre negli Usa, tre settimane prima delle elezioni, il ritratto dell'attuale presidente da parte di Stone promette

http://my.barackobama.com/page/content /fightthesmearshome/ La pagina creata dallo staff di Obama per contrastare le tante voci false su di lui, dalla sua religione al fatto che non è fedele alla bandiera a stelle e strisce.

di non essere esattamente celebrativo.

LIBRI JOHN MICKLETHWAIT e ADRIAN WOOLDRIDGE, «The Right Nation: Why America is Different», 2004, Penguin (Tradotto in italiano con l'inopinato titolo “La destra giusta”, Mondadori) Una mirabile descrizione della politica statunitense, per capire come mai su molti argomenti – la pena di morte, l'aborto, la sanità, il diritto a possedere armi, l'individualismo economico e gli ammortizzatori sociali – l'America è più conservatrice dell'Europa e dEl resto del mondo. THOMAS FRANK, «What's the Matter with Kansas? How Conservatives Won the Heart of America», 2004, Metropolitan Books Analizzando lo Stato più centrale degli Usa, in senso geografico ma anche in quanto emblema della middle America, l'autore – nato in Kansas – analizza cosa è cambiato nella politica nazionale statunitense negli ultimi quindici anni. E come è possibile che i “valori” contino più delle scelte economiche nell'indirizzare il voto degli elettori. JEROME CORSI, «The Obama Nation: Leftist Politics and the Cult of Personality», 2008, Simon & Schuster Uscito la scorsa estate, è il libro-simbolo

SITI INTERNET

http://www.politico.com/politics08/ Utilissimo per seguire tutti gli aggiornamenti nei sondaggi e gli ultimi sviluppi nel dibattito politico della campagna elettorale. Pieno di approfondimenti e rivelazioni in anteprima. http://www.opensecrets.org/ Il sito di riferimento per tutto quello che concerne le spese della campagna elettorale e i finanziamenti privati ricevuti dai due candidati. http://www.youtube.com Sì, anche il sito più popolare di video su Internet. Per seguire gli spot dei candidati, le interviste e i dibattiti che infuocheranno l'ultimo mese di campagna elettorale. http://www.dailykos.com/ Nato come un semplice blog politico, è ormai il luogo di discussione privilegiato degli “Obama-maniacs”. E per questo, viene considerato dai conservatori come un conciliabolo di comunisti che odiano l'America. http://www.drudgereport.com/ Il “Dagospia” americano, pieno di retroscena inediti e ogni tanto veri e propri scoop in anticipo sui media mainstream.




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