mensile - anno 3 numero 10 - ottobre 2009
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Afghanistan, guerra ai contadini
Mongolia Francia Mediterraneo Sud Africa Italia Migranti
Tradizione e modernità La crisi e il club dei ricchi La mia Odissea Retaggi di apartheid Giudici coraggiosi L’estate calda dei Cie
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Che differenza può esserci per un morto, per un orfano, per chi rimane senza una casa, se la guerra è fatta in nome di un totalitarismo o di quelli, santi, della democrazia e della libertà? Ghandi
ottobre 2009 mensile - anno 3, numero 10
Direttore Maso Notarianni
Caporedattore Angelo Miotto
Redattori Christian Elia Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Nicola Sessa Stella Spinelli
Hanno collaborato per i testi Chiara Avesani Gabriele Battaglia Gabriele Del Grande Elena Ostanel
Progetto grafico Guido Scarabottolo Oliviero Fiori
Hanno collaborato per le foto Emanuele Cremaschi/Prospekt Alfredo D’Amato/Prospekt Umberto Fratini Andrea Pagliarulo/Prospekt Naoki Tomasini/Watwaat.com
Segreteria di redazione Silvina Grippaldi
Amministrazione Annalisa Braga Redazione e amministrazione Via Bagutta 12 20121 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net
Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Bagutta 12 - 20121 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07
Stampa Graphicscalve Loc. Ponte Formello - 24020 Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 2 ottobre 2009 Pubblicità Via Bagutta 12 20121 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net
Foto di copertina: Centro di riabilitazione per tossicodipendenti. Kabul 2009. Naoki Tomasini/Watwaat
L’editoriale di Maso Notarianni
Otto anni di guerra ttobre 2001. Era il sette, e cominciava la lunga, nostra, guerra afgana. Sono passati otto anni, la seconda guerra mondiale ne durò “solo” sei. Nessuno degli obiettivi che ci avevano detto di voler raggiungere è stato colto. “Le menti” dell’attentato dell’11 settembre sono ancora libere come l‘aria. Le donne sono ancora sotto il loro burqa. I talebani sono molto più forti, soprattutto politicamente, adesso che non allora. In compenso il 90 percento degli afgani è ancora senza acqua potabile. Le scuole non ci sono. Le strade costruite sono solo quelle che servivano ai militari occupanti per spostarsi. Abbiamo speso tanto, in Afghanistan. Oggi spendiamo, per mantenere i nostri militari che sono lì a fare la guerra, circa un milione e mezzo di euro al giorno. Quaranta sono i milioni spesi, invece, per la ricostruzione. In otto anni. La maggior parte dei quali sono tornati a casa sotto forma di consulenze e di appalti a società occidentali. Quanti morti in otto anni di guerra? I dati ufficiali parlano di ventuno soldati italiani, mille e quattrocento soldati alleati, seimila soldati e poliziotti afgani, circa venticinquemila “guerriglieri talebani” e quasi undicimila civili afgani (di cui oltre tremila vittime degli attacchi talebani e almeno settemila uccisi dalle truppe alleate - più di tremila civili morirono nei soli bombardamenti aerei del 2001-2002). Oltre quarantatremila vite umane perse, ufficialmente. Ma se pensiamo che ogni giorno sull’Afghanistan cadono decine di bombe da svariate tonnellate di peso, e che la stessa Nato ammette che “è impossibile contare il numero delle vittime dei bombardamenti”, ci vuole poco a capire che i morti civili sono molti, molti di più. Ah già, la democrazia, in nome della quale da otto anni ammazziamo persone: ci sono state due elezioni, una più farsesca dell’altra. Nell’ultima citiamo ad esempio il distretto di Nawa, nel sud, nella provincia dell’Helmand, a sud della capitale Lashkar-gah. C’erano cinquecento iscritti al voto. I voti conteggiati sono stati trentacinquemila. Ah già, l’oppio. Su questo versante, molto è stato fatto. Gli afgani adesso hanno imparato a produrre eroina. E c’è chi dice che le migliaia di miliardi di dollari prodotti da questo business siano servite a risanare il marciume delle banche statunitensi e non solo. Non lo dice Bin Laden. Lo dice Antonio Maria Costa, direttore dell’Ufficio delle Nazioni Unite che si occupa di traffico degli stupefacenti ed è sottosegretario generale dell’Onu.
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Migranti a pagina 24
Italia a pagina 22
Sudafrica a pagina 20 3
Il reportage Afghanistan
Guerra ai contadini Di Enrico Piovesana Lashkar-gah, provincia di Helmand, Afghanistan meridionale. Un sibilo cupo e un boato, seguito subito da un altro, più lontano. Nessuno si scompone, salvo il personale medico dell’ospedale di Emergency, che si prepara a ricevere eventuali feriti. Ne arriva solo uno, lieve. Anche questa volta è andata bene. razzi sono caduti in un campo e sul ciglio di una strada del centro dove in quel momento non c’era traffico. Solo poche ore prima eravamo passati in macchina proprio da quel punto dove ora c’è una cancellata divelta e un piccolo cratere. Qualche passante si ferma a guardare nel buco vuoto, ma la polizia ha già portata via i rottami del vecchio razzo katyusha. Li chiamano blind rockets, razzi ciechi, perché anche se i talebani li tirano verso i palazzi del governo e le basi delle truppe Nato, gli ordigni cadono alla cieca, colpendo dove capita. Le rampe di lancio artigianali si trovano pochi chilometri al di là del fiume Helmand, nei villaggi su cui sventola il vessillo bianco dei talebani con la shahada, la testimonianza di fede musulmana. A Lashkar-gah questa roulette russa si ripete quasi ogni giorno da quando le truppe anglo-americane hanno lanciato le grandi offensive estive in Helmand, ‘Colpo di Spada’ e ‘Artiglio di Pantera’, che dovevano ristabilire la presenza governativa nelle zone talebane in vista delle presidenziali di agosto. Il risultato di queste operazioni militari è stato un fallimento completo: nei distretti strappati ai talebani, i marines Usa e i parà britannici hanno aperto poche decine di seggi che, il giorno del voto, sono stati disertati dagli elettori. Certamente le minacce talebane di tagliare le dita ai votanti hanno dissuaso molte persone. Ma anche due mesi di bombardamenti e rastrellamenti delle truppe straniere hanno contribuito ad alimentare il disinteresse per una farsa dall’esito scontato: la riconferma di un governo fantoccio che non ha mai mosso un dito per difendere e aiutare questa gente. Non ha votato chi ha perso un parente sotto i bombardamenti della Nato. Non ha votato chi, sotto le bombe, ha perso anche la casa ed è stato costretto a fuggire nei campi profughi attorno a Lashkargah, che in pochi giorni sono stati invasi da oltre ventimila persone. Non ha votato chi si è ritrovato in un letto dell’ospedale di Emergency a lottare contro la morte dopo essere rimasto ferito dalle bombe della Nato o della guerriglia. “Il nostro villaggio era controllato dai talebani. Volevano da mangiare e picchiavano chi non glielo dava”, racconta Karim, occhi azzurro cielo e baffi arricciati in punta. “Quando abbiamo sentito arrivare gli elicotteri, noi civili siamo scappati via perché avevamo paura, ma ci hanno sparato contro con i missili. Molti di noi sono stati feriti e almeno cinque o sei sono morti”. Il giovane Rashid è seduto in carrozzina con un’amputazione al ginocchio. “Me ne stavo seduto con due amici davanti a casa mia quando i blindati stranieri appostati in cima alla collina di fronte hanno sparato un colpo contro di noi. Io sono rimasto ferito alle gambe, ma i miei due amici sono morti”. “Gli elicotteri stranieri hanno bombardato il mio villaggio. La mia stalla ha preso fuoco e mentre cercavo di spegnere l'incendio per salvare i nostri animali hanno bombardato ancora. Io sono rimasto ferito, ho perso la mano destra: ora chi me la ridà?”, protesta Farid, grande e grosso, indicando il moncherino fasciato. Wali fissa le pieghe delle lenzuola, parlando come se fosse in trance.
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“Riempivo le taniche per irrigare il nostro campo quando sono arrivati i soldati stranieri e mi hanno sparato. Sono caduto a terra e ho alzato una mano per dirgli di non sparare, ma loro hanno fatto fuoco un'altra volta. Dicono che ci vogliono difendere dai talebani e poi sparano a noi civili: bel modo di aiutarci!”. Anche chi è stato vittima degli attacchi talebani e dei loro attentati suicidi indirizza il suo risentimento contro le truppe straniere. Abdul, un bellissimo ragazzo dai capelli ricci, ha perso un braccio in un attacco suicida dei talebani a Grishk. “La presenza delle truppe straniere non ci aiuta. Anzi, ci mette tutti in pericolo. L'attentato suicida nel quale sono rimasto ferito non sarebbe avvenuto se nel mio villaggio non ci fossero stati i soldati stranieri”. “Questi attacchi suicidi che colpiscono anche noi civili sono fatti contro i soldati stranieri”, dice Saad agitando l’indice contro il soffitto. “Tutto questo non accadrebbe se loro non ci fossero. Sono venuti promettendoci la pace, ma ci hanno portato solo guerra. In questi otto anni non hanno fatto niente per noi!”. ’Helmand non è solo il fronte più caldo della guerra tra talebani e truppe della Nato. È anche la principale zona di produzione dell'oppio afgano, da cui deriva il novantatré per cento dell'eroina spacciata nei nostri paesi. I due terzi della produzione afgana di oppio provengono dalle piantagioni di papavero di questa sola provincia. Qui la guerra della Nato ai talebani significa anche guerra all'oppio, ma a farne le spese, pure in questo caso, è la popolazione civile, i contadini. “I militari stranieri sono entrati di notte a casa nostra ferendo mio nipote”, urla, forse perché sordo, forse perché arrabbiato, il nonno di un bimbo che ci guarda con timore da un letto dell’ospedale di Emergency. “Poi si sono portati via tutto il nostro raccolto di oppio. Ora che non abbiamo più niente da vendere con che soldi compriamo da mangiare ai nostri bambini? Ci devono dare un risarcimento oppure ci devono offrire un'alternativa aiutandoci a coltivare altre cose. Queste terre sono aride e vanno bene solo per i papaveri! Cosa vogliono, farci morire di fame?”. Il vecchio Najib, barba e turbante bianco, ha accompagnato in ospedale suo fratello. “Era mezzanotte quando abbiamo sentito gli elicotteri che atterravano attorno al nostro villaggio. I soldati stranieri sono piombati in casa con i cani, urlando, e ci hanno fatto uscire tutti in cortile, anche le donne e i bambini. Altre famiglie sono scappate verso il fiume e gli elicotteri hanno lanciato un missile contro di loro, uccidendo diverse persone, tra cui la moglie di mio fratello. Mentre perquisivano la nostra casa in cerca di oppio, per mezzo del loro interprete ci hanno detto che non dovevamo muoverci altrimenti ci avrebbero sparato”.
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Fumatore d’oppio. Afghanistan 2009. Foto di Naoki Tomasini (Watwaat)
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“Dopo il raccolto, una notte, i soldati stranieri sono arrivati nel mio villaggio a bordo di grandi elicotteri. Cercavano l'oppio”, racconta Mohammad con un filo di voce. “Sono entrati nelle nostre case sparandoci addosso. Io sono stato ferito. Le donne e i bambini erano terrorizzati. Alla fine si sono portati via l'intero raccolto. Noi lavoriamo duro nei campi, viviamo solo di questo. Non possono rubarci tutto: a noi non rimane niente!”. Uzair è venuto all’ospedale a trovare sua moglie, ferita in un bombardamento aereo. “Nel mio villaggio i soldati stranieri hanno cominciato a spararsi con i talebani e a bombardare le nostre case. E' andata avanti così per quattro giorni. Alla fine era tutto distrutto e c'erano decine di civili morti, anziani, donne e bambini. Mai vista una cosa del genere: nemmeno i russi facevano queste cose! Prima di andarsene hanno portato via tutto il nostro oppio appena raccolto”. E poi aggiunge: “Noi contadini poveri non abbiamo soldi per corrompere la polizia come invece fanno i coltivatori ricchi: a loro non sequestrano il raccolto e non distruggono le piantagioni”. Secondo Asadullah Shirzad, comandante provinciale della polizia di Helmand, questi fenomeni di corruzione erano molto diffusi in passato, ma ora, a suo dire, le cose sono cambiate. “Da quando qui comando io, questo grave problema è stato affrontato con fermezza e risolto. Abbiamo fatto pulizia. Ora nessuno dei miei uomini prende più tangenti”. Nonostante le rassicurazioni del comandante, però, tutti a Lashkar-gah ci confermano che la polizia chiede soldi ai contadini per lasciarli in pace, con tanto di tariffario. “Dalle mie parti – racconta Dagar, un contadino di Nadalì – la polizia chiede duecento dollari all'ettaro. Chi può pagare sta tranquillo, tutti gli altri rischiano di vedersi il campo distrutto o il raccolto sequestrato”. ontrastare la produzione di oppio colpendo solo i contadini poveri è, oltre che ingiusto, doppiamente controproducente: sia perché il loro risentimento verso le autorità governative e verso le truppe straniere gioca a favore dei talebani, sia perché prendendosela con i ‘pesci piccoli’ si ottengono risultati molto limitati. Il nuovo governatore di Helmand, Gulab Mangal, sembra averlo capito e, per questo, ha sperimentato una nuova strategia che, a quanto pare, sta già dando ottimi risultati. “Quest’anno la produzione di oppio qui in Helmand è diminuita soprattutto grazie al nostro innovativo programma locale delle ‘Zone Alimentari’ con il quale offriamo sementi alternative e sostegno alla vendita a tutti i coltivatori che abbandonano i papaveri. Finora hanno aderito oltre trentamila contadini”. Il governatore parla di trafficanti arrestati, laboratori distrutti ed eroina sequestrata, ma non fa cenno al programma di distruzione delle piantagioni di papavero, che invece nonostante le dure critiche dell'amministrazione Usa rimane al centro della strategia antidroga del governo Karzai. Come ci conferma a Kabul il suo ministro dell'Antinarcotici, generale Khodaidad, rivendicando l'efficacia e il successo del metodo fin qui applicato. “Noi abbiamo la nostra strategia qui in Afghanistan. Sulla lotta alla droga, il governo afgano si sta muovendo nella giusta direzione. Il numero delle province in cui si coltiva l'oppio diminuisce ogni anno, assieme all'estensione delle piantagioni e alla produzione. Questo significa che l'impegno di noi afgani è serio”. Non la pensa così il dottor Abdallah Abdallah, principale sfidante di Karzai alle elezioni presidenziali di agosto, che ci ha accolto nella sua lussuosa e superprotetta residenza privata nel centro di Kabul. Secondo lui, la strategia antidroga adottata finora è stata un fallimento. “No, non ha funzionato. Ci sono stati dei successi relativi in alcune zone, ma nel complesso non ha funzionato. Bisogna concentrarci veramente sui contadini, fornendo loro colture alternative, e colpire i narcotrafficanti e coloro che con questi traffici si arricchiscono. Non è più un segreto che tra questi ci sono anche persone collegate con alti, altissimi esponenti del governo”. Concorda in pieno Jean-Luc Lemahieu, direttore in Afghanistan dell'Unodc, il dipartimento antidroga delle Onu. “Dobbiamo dare la caccia a quelli che stanno in alto, dando il cattivo esempio agli altri, sui pesci grossi, non su quelli piccoli, come i poveri agenti di polizia o i contadini”. Lemahieu ci mostra i grafici che indicano la progressiva riduzione della produzione di oppio afgano dopo il record storico di due anni fa e il costante declino dei prezzi di mercato dell’oppio negli ultimi anni: “Stiamo assistendo a un calo di produzione perché si sta producendo più di quello che il mercato
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mondiale richiede. Questa riduzione continuerà fino a quando si ristabilirà l'equilibrio tra domanda e offerta. Per un contadino, cinque anni fa, coltivare oppio rendeva ventisette volte tanto che coltivare grano. Oggi gli rende solo il doppio. Per questo molti contadini sono passati ad altre colture”. La sovrapproduzione afgana di oppio rispetto alla domanda mondiale, verificatasi a partire dal 2004, ha provocato il crollo dei prezzi e quindi l'erosione dei margini di profitto di coltivatori e trafficanti, generando una frenata della produzione di oppio, ma anche un deleterio effetto collaterale. Se molti contadini hanno giudicato più conveniente e meno rischioso smettere di coltivare oppio, molti narcotrafficanti, in attesa che il calo di offerta faccia risalire i prezzi, hanno deciso di sfruttare la congiuntura, iniziando a svendere la droga in eccesso sul mercato interno afgano. “Un nuovo fenomeno – prosegue Lemahieu – è il consumo di droga in Afghanistan. La droga a basso costo ha invaso il mercato locale, con la conseguente esplosione del problema della tossicodipendenza. Basta pensare all'emergenza umanitaria creatasi all'ex centro culturale russo di Kabul. Tra quelle macerie si concentravano milleseicento tossicodipendenti, di cui seicentocinquanta che ci vivevano in pianta stabile e gli altri che ci andavano per drogarsi. Ogni notte ne morivano in media due o tre, per overdose, malnutrizione e altre malattie. Quando abbiamo scoperto questa situazione siamo intervenuti, prima portando assistenza sul posto, e due mesi fa sgomberando l'area e sistemando la maggior parte dei tossicodipendenti in centri di disintossicazione gestiti dal Ministero della Salute afgano. Ovviamente, nulla di paragonabile con gli standard europei, ne siamo ben lontani, soprattutto perché non ci sono fondi adeguati per affrontare questa emergenza. Un'emergenza pressante, perché se non interveniamo subito per arginare la tossicodipendenza, presto ci troveremo a fare i conti con la diffusione di malattie veneree come l'Hiv. Questo paese ha già abbastanza piaghe: l'ultima che gli auguro è l'Hiv. Dobbiamo impedirlo. Oggi siamo ancora in tempo per farlo, domani sarà troppo tardi”. l governo afgano però non sembra molto preoccupato dalla rapida diffusione della tossicodipendenza. Per contrastare questo fenomeno, che riguarda oltre due milioni di afgani (su una popolazione di poco più di trenta milioni) il Ministero della Salute ha creato un dipartimento ad hoc, che ha sede in un container e che non riceve fondi. Lo dirige il dottor Abdullah Wardak, un uomo pacato e gentile che ci riceve nel suo angusto ufficio. “Siamo partiti da zero e ora gestiamo diciassette centri di recupero per tossicodipendenti sparsi in diverse province dell'Afghanistan. Il più grande, cento posti letto, si trova qui a Kabul, nei locali di un’ex officina nel quartiere di Jangalak. Finora ne abbiamo trattati trecento, principalmente oppiomani ed eroinomani. Dopo un periodo preparatorio iniziale, durante il quale il paziente smette gradualmente di drogarsi grazie a una terapia psicologica motivazionale condotta dal nostro personale e dal mullah della clinica, comincia la terapia di disintossicazione all'interno della struttura, che dura un mese. In questo periodo il paziente non assume più droghe e svolge attività di gruppo. I nostri medici somministrano solo sedativi e analgesici. Non abbiamo soldi per terapie sostitutive come il metadone. Purtroppo siamo a corto di finanziamenti, al punto che dieci cliniche rischiano la chiusura già il prossimo anno. Se il fenomeno della tossicodipendenza non viene affrontato con strumenti adeguati il numero dei drogati aumenterà, avremo grossi problemi con malattie come l'Hiv e l'epatite”. Wardak ammette che i primi risultati di questo programma sono a dir poco deludenti: otto pazienti su dieci, di quelli trattati finora, hanno già ricominciato a drogarsi. Non stupisce: un mese di prediche e docce fredde non può far miracoli. Poi ci confida che i trafficanti lo vogliono morto e minacciano la sua famiglia e i suoi figli, che per questo da mesi non escono più di casa. E se la prende con le autorità che non lo proteggono, lasciandoci intendere che molti, anche nel governo, non gradiscono il suo lavoro. Un lavoro che, nonostante tutto, per ora rappresenta l’unica speranza per i tossicodipendenti afgani.
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In alto: Pastori in riva al fiume Kabul. In basso: Carico di papaveri da oppio secchi a Lashkar-gah. Afghanistan 2009. Foto di Naoki Tomasini (Watwaat)
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I cinque sensi dell’Afghanistan
Udito
Olfatto
Il ritmo aggressivo delle canzoni di Dj Besho, il più famoso rapper afgano che spopola tra le giovani generazioni benestanti di Kabul, odiato dai politici tradizionalisti e conservatori del governo di Kabul. Il sinistro sibilo seguito dal tuono dell’esplosione dei vecchi razzi katyusha che i talebani sparano sul centro di Lashkargah dalle zone rurali attorno alla città.
Il nauseabondo odore della carne esposta all’aria, quarti di manzo, teste di capra, nel Khafroshi Bazar: il marcato centrale di Kabul che si snoda tra i vicoli bui della città vecchia. L’odore di disinfettante dei pavimenti tirati a lucido nelle corsie degli ospedali di Emergency, in contrasto con la puzza di ferite e di urina nelle luride camerate delle cliniche governative.
Gusto
Tatto
I sapori dei piatti principali della cucina tipica afgana, non così diversi da quelli cui siamo abituati. Come i bulani, frittelle a mezzaluna ripiene di erba cipollina o di patate, o mantu, ravioloni ripieni di carne d’agnello e conditi con cipolle, pomodori e yougurt.
L’appiccicosa resina biancastra che spilla dai bulbi dei papaveri incisi e che, una volta essiccata, diventa una pasta scura chiamata taryàk: l’oppio grezzo da cui si ricava l’eroina che gli afgani hanno imparato a raffinare. La viscosità del tessuto sintetico con cui
vengono fabbricati i burqa ‘made in China’: molto più economici di quelli in cotone, ma anche meno freschi ed igienici.
Vista Le mitragliatrici puntate sui passanti dalle torrette dei blindati militari italiani che vanno in giro per il centro di Kabul sfrecciando in mezzo al caotico traffico della capitale. I visi magri impiastricciati di terra dei bambini che vivono nei quartieri più poveri della capitale afgana: non avendo l’acqua per compiere le abluzioni rituali prima della preghiera usano terra pulita, sabbia o polvere come prescritto dal Corano. La multicolore catasta di palloncini colorati per bambini trasportata da un barbuto venditore ambulante pashtun nel bazar di Lashkargah, capoluogo della roccaforte dei talebani nel sud dell’Afghanistan. 9
Il reportage Mongolia
Tradizione e modernità Di Gabriele Battaglia Quando arriviamo alla sua capanna, la sua ger, dopo una cavalcata al freddo e al gelo, lui non c’è. Dalban è partito di buon mattino seguendo le tracce nella neve. Poi ha trovato la tana, con i cuccioli, e li ha uccisi tutti. amma lupa aveva ammazzato alcune sue capre proprio per nutrire i piccoli, lui ha dovuto farlo. Ma la storia, probabilmente non finirà qui. La lupa farà altri cuccioli e insidierà ancora il gregge di Dalban. Questa è la Mongolia, dove l’ancestrale lotta uomo-lupo continua nel rispetto reciproco e con le spietate regole del gioco. È un’economia del riciclo realizzata, dove nulla si spreca: dai cavalli (ce ne sono trenta per ogni abitante), che diventano carne quando sono troppo vecchi per cavalcare, agli escrementi animali e umani, buoni per il falò e altri usi. Ma la Mongolia non è solo equilibrio uomo-natura. Pochi lo sanno, ma la crisi dei mutui subprime è arrivata fin qui, attraverso i prestiti ai pastori nomadi: soldi elargiti a raffica e debiti riconvertiti in derivati piazzati sul mercato internazionale delle obbligazioni, secondo l’ingegneria finanziaria così alla moda prima del botto. La garanzia era il prezzo del cashmere, quando il mercato tirava nel ricco Occidente. Ma con il crollo dei consumi dalle nostre parti, anche i mongoli si sono trovati con pecore “svalutate” e quindi con debiti insolvibili. Proprio come le case appena acquistate dal piccolo ceto medio di Cleveland o dell’Orange County. Così la ruota ha cominciato a girare al contrario. Ora la Khan Bank sta cercando di ristrutturare i prestiti, perché i pastori non ce la fanno a pagare e, anzi, necessitano di nuovo credito per tirare avanti: nei primi sei mesi dell’anno ha già messo mano a circa dodicimila prestiti, cioè il ventitrè percento di quelli finora concessi a questa gente. La globalizzazione è anche questo. “Khan” Bank, un nome, un programma: sintetizza perfettamente ciò che oggi è la Mongolia, a cavallo tra un passato incentrato sulla figura di Genghis e il futuro globalizzato, a cui ammicca un po' impaurita. Atterrando all'aeroporto Genghis Khan, si ammira una ciclopica sagoma incisa sulla montagna di fronte. Chi è? Genghis Khan. Se alla banca Khan il servizio non ci soddisfa, possiamo sempre rivolgerci alla concorrenza: la banca Genghis Khan. Chiedere informazioni alla reception del Genghis Khan Hotel. A Ulaanbaatar, la capitale, si può bere una birra Genghis Khan sgranocchiando patatine Khan nella catena di caffè Khan. Se ci piace il gioco duro, possiamo sostituire la birra con la vodka, naturalmente “Genghis Khan”. Certo, prima bisogna fare un salto ad ammirare la statua di Genghis che troneggia all'ingresso del palazzo del governo. Superfluo dire di chi sia la faccia stampata sulle banconote da mille tughrik. Siamo nei giorni delle elezioni presidenziali e chi vincerà dovrà occuparsi anche di questo: come dare sviluppo alla Mongolia rispettando l’ambiente e le tradizioni?
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Il Partito della rivoluzione (Maxh, ex comunista) e quello democratico si sfidano nelle persone di Nambariin Enkhbayar e Tsakhiagiin Elbegdorj. n giro non si trovano alcolici. Il fatto è che l’anno scorso, dopo la vittoria dei comunisti, Elbegdorj ha accusato i rivali di brogli. È scoppiata così la “rivolta della vodka”, in cui i suoi sostenitori hanno devastato le sedi del Maxh dopo essersi fatti coraggio con abbondanti libagioni: cinque morti tra i manifestanti e stato d’assedio. Quest’anno è meglio non correre rischi. La capitale ha vissuto un processo di urbanizzazione: dei due milioni e seicentomila abitanti della Mongolia, più di un milione ormai vive qui. In realtà esistono più Mongolie, c'è questa, poi c'è la Mongolia interna cinese dove vivono più mongoli che qui (ma sono comunque minoranza rispetto all'ottanta per cento di cinesi han) e infine la Mongolia diffusa delle genti sparse tra Russia e repubbliche centroasiatiche. Molti di quelli che sono calati su Ulaanbaatar restano nomadi dentro: si costruiscono la casetta di legno in una periferia che è già prateria e ci piazzano di fianco la ger dove, si capisce, passano la maggior parte del tempo. Il taxista che mi porta in centro città parla russo e ci tiene a dire che voterà democratico. Perché? “Perché speriamo che cambi”. Non si capisce cosa, ma è chiaro che la recessione ha colpito duro anche qui. I palazzi moderni che sorgono nel centro città non tolgono a Ulanbaatar il sapore di vecchio centro sovietico-siberiano e di recente le costruzioni hanno subito una battuta d'arresto. I salari medi sono calati del sessanta percento e le entrate dello Stato soffrono per via del crollo dei prezzi delle materie prime. Si parla di duecento milioni di dollari di deficit nell'ultimo anno e mezzo, il dodici percento di un Pil che è già il 164esimo al mondo, di poco superiore a quello della Striscia di Gaza. Un paradosso: la Mongolia importa energia da Cina e Russia nonostante sia ricchissima di corsi d'acqua, vento, sole e risorse minerarie. In realtà la politica non sembra appassionare tutti. Khuu, ventotto anni, volto sorridente e abbronzato, incorniciato dai lunghi capelli nerissimi delle donne asiatiche. È la mia guida. È forte. Non riesco a farmi dire se voterà e per chi: "Sono tutti uguali", un discorso già sentito. Lei fa da sola. Viene da una famiglia di pastori benestanti, sei ger e settanta cammelli nel deserto del Gobi, poi la mamma le ha comprato un diziona-
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In alto: Dalban, cacciatore di lupi, e sua moglie. In basso: Working Class. Mongolia, 2009. Gabriele Battaglia per PeaceReporter
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rio di inglese. E si è messa a studiare. Quelli dell'agenzia di viaggi l'hanno scoperta portando i turisti nella ger dei suoi, c'erano foglietti con le parole inglesi appesi dappertutto. Le hanno promesso un lavoro se avesse imparato bene. Detto fatto. Con il lavoro da guida ci paga l'università, vuole diventare insegnante, naturalmente di inglese. La prima volta che ha visto le montagne ha avuto un attacco di claustrofobia, per lei la terra è piatta e sabbiosa. Non le piace cucinare, ma cucina per i viaggiatori che scarrozza in giro. Cavalca come un'amazzone e continua a scambiarsi sms con un ragazzo che però "mi sta un po' troppo addosso". Pezzetto per pezzetto costruirà il suo futuro che non immagina in città: insegnerà in una scuola di villaggio. uesta è una storia a suo modo di successo, poi ci sono quelli che la modernità ha divorato. Nel 2006, una ricerca del ministero della Salute scoprì che il ventidueper cento degli uomini e il cinqueper cento delle donne erano alcolizzati, tre volte le percentuali europee. L'abuso di alcol è aumentato da quando la Mongolia ha smesso di essere un protettorato russo di fatto, all'inizio degli anni Novanta. L'apertura verso l'economia di mercato ha messo fuori gioco le vecchie industrie manifatturiere di Stato e per molti sono arrivati disoccupazione e povertà. Il settantadue percento dei crimini violenti è dovuto all'alcol e quasi un uomo su cinque beve pesantemente almeno una volta a settimana. Anche perché la materia prima si trova facilmente, in un Paese che ha una rivendita di alcolici ogni duecentosettanta abitanti, la più alta densità al mondo. Normale, perché stiamo parlando della maggiore fonte di ricchezza per lo Stato: tra il venti e il ventitre percento delle entrate dipende da tasse e imposte direttamente collegate alla vendita e al consumo di alcol. Bataa ha circa trent'anni, guida il furgone Uaz che mi porta nella Mongolia profonda e che qui chiamano Purgan. Quattro ruote motrici, due serbatoi di benzina - si gira una levetta, tipo riserva della moto, e si passa da uno all'altro - abitacolo sopraelevato e ruote da camion, è il veicolo più efficiente che conosca. Nella steppa e sulle piste sterrate si incontrano solo Uaz Purgan, grigio chiaro o verde militare. Lui lo accudisce come se fosse un cavallo, ma intanto ha la testa altrove: non si trova birra per via delle elezioni. Ci proviamo in ogni singolo minimarket, spaccio, bancarella, nel percorso che da Ulaanbaatar ci porta a ovest. Niente da fare. In una rivendita, l'enorme scaffale degli alcolici è totalmente avvolto dentro coperte serrate da catene. Alla fine arrivano i risultati delle elezioni: "Hanno vinto i democratici, cinquantatrè a quarantasette", dice Khuu. Anche a Bataa importa poco, ma finalmente si può comprare la birra. Tre giorni a cavallo, nella zona di Naiman Nuur, gli otto laghi. È il paesaggio “da Mongolia” dell'immaginario collettivo, verde intenso in basso, azzurro sopra la testa: prateria, colline, boschi, acqua, cavalli, falchi. Si può quasi immaginare il terrore che doveva suscitare un'orda di cavalieri mongoli che si staglia in cima a un pendio e poi ti cavalca contro. Dove diavolo scappi? Khuu indica un torrente e mi dice che l’anno scorso c’era più acqua. "Adesso è quasi in secca. Il deserto avanza". Secondo lei, lo stile di vita dei mongoli è comunque una garanzia ecologica, qualcosa che potrebbe insegnare molto a tutto il pianeta. La terra continua a chiamare. L’urbanizzazione sta già lasciando il posto a un movimento inverso, di ritorno alla vita nomade e alla steppa. Si mettono via due soldi a Ulaanbaatar - se si riesce - e poi si investono in cavalli, yak e capre da pascolare altrove. E pochi chilometri fuori dalla capitale le strade sono già sterrate. È già prateria. Bor, classe 1943, è tatuato sull'avanbraccio. Si faceva così durante il servizio militare. Tre ger addossate a un roccione sul quale il suo enorme gregge di capre si arrampica per la notte, cinque cammelli e una famiglia composta da quattro generazioni. Siamo duecento chilometri a sudovest della capitale, lui vive alla mongola, offre ai visitatori snuff, la polvere a base di spezie e tabacco che si sniffa e che qui si chiama hamryn tamhi e ospitalità. In più c'è il valore aggiunto dei cammelli tourism oriented. Un giretto nella pianura incastrati tra due
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gobbe, con lui che canticchia motivi tradizionali nel tipico stile armonico, facendo risuonare il tratto vocale. E il gioco è fatto. Sarà il turismo "gentile" il futuro della Mongolia? Ma non è il turismo stesso a sancire la fine di un ecosistema fatto di natura e cultura? Ancora Khuu, una che paradossalmente di turismo vive: "La gente è cambiata, prima c'era l'ospitalità gratuita, adesso ti chiedono soldi". Però non sempre. "Una volta sono capitata nella ger di una famiglia e alla fine volevo pagare qualcosa. Si sono quasi offesi. Qualcuno così lo trovi ancora". L'altra faccia dello sviluppo è forse ancora più problematica. Oyu Tolgoi, nella regione del Gobi, è il più grande giacimento di minerali del Paese: si calcola che possa produrre quattrocentoquarantamila tonnellate di rame e trecentotrentamila once d'oro all'anno per il prossimo mezzo secolo. Può dare lavoro a cinquemila minatori e a migliaia di altre persone nell'indotto. C'è già un accordo con la canadese Ivanhoe Mines. Khanbogd, il centro più vicino, diventerà una boomtown pronta ad accogliere chi calerà da queste parti in massa, trasformandosi da nomade in sedentario. Poi c'è Dornod, cioè uranio, nel nordest: qui il contratto è con la Russia. Quindi i pozzi di petrolio a est, su cui hanno già messo le mani i cinesi. C'è anche Uyanga, Mongolia centrale, teatro di una corsa all'oro in stile Klondyke, dove il terreno costellato di buche rivela la presenza di circa centomila ex pastori riconvertiti, che avvelenano il terreno con il cianuro necessario a separare l'oro dalla roccia. Sono chiamati "cercatori Ninjia". La Mongolia sta vendendo le proprie ricchezze, le conseguenze sociali e ambientali sono imprevedibili. a ricchissima scena musicale mongola rappresenta bene le contraddizioni tra vecchio e nuovo. Nella notte di Ulaanbaatar la battuta dritta della mongolian-techno esce prepotente dai locali, mentre sul nostro Uaz, Bataa ci impone canzoni melodiche con tanto di nitriti in sottofondo. Dopo due giorni mi scopro a canticchiarle (nitrito compreso). Ma in un Paese in cui il sessanta percento della popolazione ha meno di trent'anni, il codice privilegiato è l'hip hop che, secondo i suoi adepti, è la diretta filiazione dei canti sciamanici tradizionali. 4 Zug, una band che non ha nulla da invidiare ai peggiori gangsta rapper Usa: "Noi mongoli, che siamo diventati uomini seguendo i principi degli uomini, ci faremo umiliare da questi cinesi di merda? Chiama i cinesi, chiamali, chiamali, chiamali. E sparagli a tutti, tutti, tutti". Si intitola Buu Davar Hujaa Naraa (Non superate i limiti, cinesi) e i 4 Zug sono già stati definiti la faccia brutta dell'hip-hop mongolo. Ma si dice esprimano a modo loro preoccupazioni diffuse. È di nuovo la Mongolia che cerca la sua strada autonoma tra due vicini ingombranti. Dal lato opposto della contaminazione tra antico e moderno, ecco gli Egschiglen (bella melodia), progetto "colto" che da vent'anni adatta gli strumenti e lo stile canoro tradizionali al gusto contemporaneo. A chi abbia un minimo di frequentazione con il khöömii (canto di gola) suonerà strano, ma provi ad ascoltare Love will tear us apart dei Joy Division nella versione di Albert Kuvezin, cantante tuvano (russo) ma di cultura mongola. Un po' così canta anche Monhoon, trentasei anni, l'uomo dei cavalli che ci guida nel paesaggio incontaminato. Primo giorno, cinquanta chilometri percorsi e trenta gradi; bufera di neve nei due successivi e tappe forzate nel silenzio e nel bianco. Un accampamento di tre ger ci appare come un miraggio. Sfruttamento intensivo delle risorse, turismo, ritorno alla natura. Vita nomade e vita sedentaria, tradizione e modernità. In Mongolia si combatte una battaglia fondamentale ma nessuno se ne accorge. Dal suo esito capiremo se questa terra può darsi uno sviluppo "altro" che sia d'insegnamento per tutti o se andiamo inevitabilmente verso il mondo a una dimensione. Noi, riscaldandoci nella ger di Dalban, aspettiamo che lui torni dalla caccia ai lupi.
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In alto: Il macellaio. In basso: Vita di ger, la tenda mongola. Mongolia, 2009. Gabriele Battaglia per PeaceReporter
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L’intervista Francia
La crisi e il club dei ricchi Di Angelo Miotto
Hervé Kempf è un giornalista e scrittore francese. Ha analizzato la crisi internazionale anche attraverso la crisi dell'ecologia. E torna nei suoi scritti alle forme classiche di potere, denunciando un'oligarchia capitalista che ha trasformato persone in individualisti e gli scambi fra individui solo in nome del commercio. Come spiega questa crisi? È il risultato dell'evoluzione degli ultimi decenni del capitalismo, che per permettere l'acuirsi dell'ineguaglianza e dell'oligarchia ha prodotto una speculazione finanziaria e indebitamento esagerati. Ora siamo arrivati al momento in cui questa crisi finanziaria, che è il diretto risultato di questa oligarchia, ha provocato lo scoppio della crisi che sta distruggendo il sistema pezzo dopo pezzo. Questa è una crisi sociale e di ripartizione di ricchezza: dal punto di vista ecologico è molto importante notare che fra gli elementi scatenanti vi sono stati anche, ma non solo, l'aumento sfrenato del prezzo del petrolio, l'aumento esponenziale delle materie prime e dei prezzi alimentari con la conseguente crisi alimetare dei Paesi del Sud lungo tutto il 2008. E lì ci sono gli elementi che provengono dallo sfruttamento ecologico, vero e proprio disastro durante gli ultimi decenni di questo capitalismo.
importanti le persone, la solidarietà, la cooperazione. L'individualismo è stato esasperato.
Quando lei parla di oligarchia a cosa si riferisce esattamente? Sto parlando di un gruppo che rappresenta il cinque, dieci percento della popolazione dei Paesi occidentali. Ci sono delle fortune enormi che si sono costruite all'interno di queste oligarchie: gruppi sociali che, anche nei Paesi emergenti detengono il potere economico, spesso politico e spesso anche mediatico. Orientano, organizzano un sistema. Io uso il termine oligarchia nel senso classico, quello greco che definisce una forma di sistema politico opposto a quello della democrazia e al despotismo, che è il potere nelle mani di un solo soggetto, il totalitarismo. È il club dei ricchi che discute al suo interno sugli orientamenti politici delle persone che hanno i principali poteri nella società. Un sistema politico che rifugge il sistema democratico.
Qual è lo strumento migliore per mettere tutti in collegamento? Non ho una soluzione precisa. La società deve provare ad andare oltre. I giornali indipendenti non riescono a parlare al popolo perché i media sono in mano al capitalismo. Certo c'è internet, i movimenti che si mettono in rete e le manifestazioni. Non so come si possa fare. Ma credo che la società sta per mettere in marcia un altro sistema. Siamo nel bel mezzo di un momento storico. Credo che le forze nuove e piene di energia debbano evitare che vi sia un atteggiamento ancora più autoritario nel capitalismo. Evitare la dittatura del capitalismo.
Perché assistiamo solo oggi a un risveglio delle coscienze? Perché da una parte il sistema di opposizione al capitalismo, che era il marxismo dell'Unione sovietica, è completamente crollato. Non sono marxista, ma bisogna comprendere che il marxismo era un modello alternativo al capitalismo. Quando è crollato è stata una buona notizia, ma questo ha dato all'ideologia capitalista una forza straordnaria. L'ideologia capitalistica per me significa avere persone che diventano solo degli individui motivati unicamente dall'interesse: i rapporti sono fra individui che scambiano solo cose materiali, le commercializzazioni. Tutti siamo rimasti alienati da questa idea e per questo abbiamo dimenticato come fossero 14
Strumenti per evitare il caos totale? Meglio fare tabula rasa? Non sono dell'idea della tabula rasa, penso invece che paradossalmente abbiamo una forza nel movimento dei piccoli. Non so in Italia, ma in altri Paesi vediamo esperienze diverse, nuove economie, agricoltua biologica, cooperative di produzione, movimenti sociali che sono una alternativa, piccola, a un sistema che sembra troppo potente da cambiare. Penso che sia molto visibile dall'inizio del movimento no global 1989, quel movimento anticapitalista ha cercato una via diversa dall'alternativa marxista. Non si deve fare una tabula rasa, ma accompagnare la caduta del capitalismo. Tutte le alternative devono mettere in comune pensieri e volontà di resistenza.
Sta parlando dell'alter-mondialismo... Assolutamente sì. L'altermondialismo è un portatore di questa alternativa. Amo molto lo slogan che ormai ha dieci anni: un altro mondo è possibile, Che cosa pensa dei capitalisti che fanno autocritica? Fanno ridere. Come Sarkozy, che si fa bello della sua posizione anticapitalista. Le strade di questi personaggi e della gente sono parallele. Non hanno capito che la crisi ecologica è così importante da obbligarci a uscire dal modello della crescita e che ci spinge verso strade diverse rispetto alla produzione, ma più consone all'utilità sociale. Metropolitana di Mosca. Russia 2007. Foto di Luca Galassi ©PeaceReporter
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Mondo
Notizie che di solito non fanno notizia
Le buone nuove Onu: importanti progressi nella lotta all'Aids Un rapporto dell'Organizzazione Mondiale della Salute (Oms) annuncia importanti progressi nella lotta mondiale all'Aids. Il testo dichiara che oltre 4 milioni di persone stanno ricevendo trattamenti con anti-retrovirali: il maggior incremento si è avuto nell'Africa sub-sahariana, dove si verificano due terzi dei contagi mondiali. L'incremento è dovuto soprattutto a un significativo calo dei prezzi dei farmaci, il che vi ha reso possibile l'accesso a più persone, soprattutto donne e bambini. In crescita anche il numero di donne incinte che ricevono trattamenti per evitare la trasmissione al feto. Il direttore esecutivo di Unaids, Michel Sidibe, ha dichiarato però che "ci sono ancora 2,7 milioni di nuove infezioni. Questo significa che per ogni nuova persona in terapia ci sono tre nuove infezioni". Sidibe è perciò convinto che senza prevenzione il solo trattamento sia inutile. Nel 2010 le organizzazioni che lottano contro l'Aids avranno bisogno di 25 miliardi di dollari, con i quali suppongono di poter garantire il trattamento a 7 milioni di persone e promuovere la prevenzione nelle aree più colpite.
Usa, hotel, non carcere per migranti irregolari Janet Napolitano, ministro per la sicurezza interna, ha annunciato che i migranti irregolari in attesa di rimpatrio saranno tenuti sotto custodia in alberghi e non più in carcere , una volta vagliata la pericolosità del singolo soggetto. Secondo la funzionaria, questo provvedimento servirà a centralizzare, organizzare e fornire una supervisione con maggior responsabilità federale nella gestione dei sans papier. Nel 2008 oltre 380 mila persone sono state arrestate e detenute in attesa di essere rispedite al paese di provenienza. In alcuni casi il procedimento può durare svariati mesi se non anni. Attualmente gli 'illegali' sono reclusi in prigioni locali o federali. Al di là dei motivi umanitari, sono le cifre a spiegare il provvedimento: gli Stati Uniti spendono quotidianamente cento dollari per ogni migrante irregolare. Con il nuovo sistema questa cifra potrebbe abbassarsi fino a quattorici dollari. Janet Napolitano ha assicurato che i primi a essere trasferiti dalle prigioni agli hotel saranno i profughi, i non violenti e quanti non abbiano precedenti penali. 16
Cuba
Serbia
Bloqueo sì bloqueo no
Serbia, occasione mancata
igliaia di miliardi di dollari di danni causati all'economia cubana, interi settori industriali bloccati e un'intera isola “isolata” da quasi cinquant’anni. Questi i danni del bloqueo o come lo chiamano gli statunitensi embargo. Un blocco economico totale contro Cuba in vigore dal 3 febbraio 1962. E come ogni anno dal 1992 l'amministrazione cubana presenterà alla Assemblea generale delle Nazioni Unite la sua mozione contro il bloqueo che la stritola. Non è difficile immaginare come finirà la votazione all'Onu. Dal 1992, infatti, gli Usa non l'hanno mai spuntata. Gli stati dell'Onu hanno sempre condannato le misure restrittive nei confronti di Cuba, talvolta con risultati che definire plebisciti bulgari, è quasi un pacato eufemismo. Dalla prima presentazione della mozione avvenuta appunto nel 1992 solo quattro nazioni, Stati Uniti, Israele, Isole Marshall e Isole Palau, si sono sempre rifiutate di votare in favore di Cuba. Ma la mozione non ha valore vincolante e ogni anno l'Assemblea si conclude con un nulla di fatto. Quest'anno a rappresentare Cuba ci sarà il neocancelliere Bruno Rodriguez, dopo l'esclusione dalle gerarchie politiche cubane di Felipe Perez Roque. Rodriguez punterà il dito contro i miliardi di dollari di danni causati a Cuba e si soffermerà su cosa sarebbe potuta diventare l'Isla Grande senza le restrizioni imposte da Washington. Spazio ci sarà anche per conversare direttamente con gli Usa. Dopo l'elezione di Barack Obama in molti avrebbero scommesso che il bloqueo sarebbe terminato in breve tempo. Non è stato così e probabilmente non sarà così nemmeno per i prossimi mesi. Il primo inquilino della casa bianca la scorsa settimana ha apposto la sua firma per il prolungamento delle sanzioni ancora per un anno. Ferma la risposta cubana: “Obama ha la storica occasione di fare tutto quello che è in suo potere per fermare il bloqueo contro Cuba. Lui è l'uomo del cambio e gli statunitensi l'hanno votato per questo anche se per quanto riguarda le sanzioni contro il nostro popolo ancora nulla è cambiato”.
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Alessandro Grandi
l governo serbo aveva parlato con chiarezza: ''Nulla fermerà la pacifica manifestazione del Gay Pride a Belgrado''. Non è andata così e la manifestazione dell'orgoglio omosessuale in programma nella capitale della Serbia per domenica 20 settembre scorso è stata cancellata. Uno smacco per l'esecutivo europeista guidato da Boris Tadic che, alla vigilia del corteo, ha dovuto ammettere che sarebbe stato quasi impossibile garantire l'ordine pubblico. Una brutta notizia anche per Bruxelles, dove in tanti remano contro l'adesione della Serbia all'Unione Europea. In festa, invece, i movimenti di estrema destra serbi che, subito dopo l'annuncio del rinvio del Gay Pride, sono scesi in piazza per festeggiare. La polizia ha usato le maniere forti, disperdendo i manifestanti e arrestandone 35 tra i più facinorosi. Nell'elenco dei fermati figurano nomi quali Mladen Obradovic, leader del movimento xenofobo Obraz e Misa Vacic, leader del gruppo ultranazionalista 1389, noto per l'opposizione all'indipendenza del Kosovo. "Lo stato farà di tutto per proteggere i suoi cittadini, indipendentemente dal loro orientamento religioso, sessuale o politico" aveva dichiarato Tadic, dopo che i timori per la manifestazione erano stati paventati da tutti coloro che ricordavano i problemi nati dal Gay Pride in Croazia e Bosnia – Erzergovina. A marzo la Serbia ha approvato una legge contro la discriminazione sessuale, religiosa e politica, ultima condizione posta dall'Unione Europea per eliminare il visto ai cittadini serbi. I visti, da gennaio 2010, dovrebbero arrivare, il rispetto delle minoranze ancora no. Basta pensare che il movimento 1389 si era offerto di rendere pubbliche le foto dei partecipanti al Gay Pride per poi pubblicarle successivamente su un sito internet al fine di ''mettere in guardia i genitori e proteggere i loro bambini dalle persone sessualmente deviate". Benzina sul fuoco era arrivata anche dalla chiesa ortodossa, che gode di un notevole peso politico in Serbia, che si era opposta in tutti i modi alla parata, definita "Sodoma e Gomorra per le strade di Belgrado". Christian Elia
Grazie. Tere Il nostro ricordo di Teresa Sarti Strada, presidente di Emergency
Data: martedì 18 marzo 2003, 17.15.27 Oggetto:
Kabul, di cui tutti i nostri sono orgogliosissimi. Gino sta per tornare dall'Afganistan, così il 16 potremo partire per il Brasile, dove abbiamo appuntamento con Lula il 18; poi ci porteranno a visitare la zona che hanno valutato adatta al nostro intervento. Vi abbraccio con affetto.
Carissimi, qualche aggiornamento in queste ore in cui l'angoscia per la follia che si materializza non deve trasformarsi in scoramento, ma, al contrario, in impegno più che mai attivo e capillare. Tra l'altro, non c'è bisogno che sia io a farvi notare che l'obiettivo "fuori l'Italia dalla guerra" l'abbiamo raggiunto, a quanto pare, e non era certo scontato quando abbiamo lanciato questa parola d'ordine. Non che questo basti, naturalmente, ma ci consola la straordinaria crescita di coscienza civile (che ha indotto questo, seppur parziale, risultato) e di movimento per la pace, trasversale, consapevole, giunto, secondo me, a un punto di non ritorno: non è un movimento contro QUESTA guerra, ma contro LA guerra. Gino ha lasciato questa mattina Kabul per spostarsi in nord Iraq, dove sono già arrivati Ake e Mario Ninno. In queste ore è a Dubai. Il viaggio è un po' complesso, ma se tutto fila liscio dovrebbe entrare dalla Siria giovedì mattina, speriamo prima dell'inizio dei bombardamenti. E noi che facciamo? L'orientamento è sciopero (o fermate, anche solo simboliche) appena comincia la guerra, e manifestazioni in tutte le città il sabato successivo. Un 10 dicembre più triste, ma ancora più coinvolgente. Immagino stiate già lavorando a questo appuntamento. A proposito di sciopero, ho proposto alla CGIL Lombardia un coinvolgimento dei commercianti, che di solito sono poco presenti in questo tipo di iniziative. Io sono convinta che la città ferma, anche per poco tempo, dia il segno dell'angoscia e del lutto. Mi hanno risposto positivamente e stanno coinvolgendo le loro associazioni, sulla base di un appello che vi passeremo quando ci autorizzeranno a farlo. Voi cercate fin da subito di coinvolgere i commercianti amici, chiedete di abbassare nel momento delle sciopero le serrande, appiccicandoci sopra un cartello "chiuso per la pace" o una bandiera di pace. Convinceteli che potrebbe esserci un effetto a cascata, come per i balconi di pace. Sarebbe una "prima volta" che segna una tappa importante. Un abbraccio affettuoso, con tanta voglia di essere tutti insieme. Teresa
Data: martedì 12 agosto 2003, 18.11.54 Oggetto: Buone Notizie Carissimi, sono felice di potervi dare una buona notizia: siamo finalmente a Jenin. Ci abbiamo lavorato per mesi, come sapete, volevamo farlo con tutte le carte in regola, e da due giorni il progetto è attivo: abbiamo cominciato con la chirurgia ortopedica, come ci avevano chiesto, e poi valuteremo le altre necessità, che non mancano certo. In allegato vi mando una comunicazione più dettagliata preparata per voi da Donatella. Lunedì abbiamo inaugurato il reparto di Rianimazione e Terapia intensiva nell'ospedale di
Teresa
Data: venerdì 24 dicembre 2004, 16.29.33 Oggetto: più che auguri Carissimi, è un piacere ma anche una difficoltà farvi gli auguri per le prossime festività e per l'anno nuovo. La difficoltà consiste semplicemente nel rischio che i ringraziamenti risultino "d'obbligo" nelle circostanze canoniche. Ma voi mi conoscete e sapete che i ringraziamenti mi vengono sempre dalla pancia e dal cervello, senza formalità. Cominciamo dal cervello. Abbiamo concluso dieci anni in cui abbiamo fatto molto, tutti insieme, ciascuno al suo posto, dietro un banchetto (chiedo scusa ai toscani: banchino), o dietro un tavolo operatorio. Abbiamo potuto dare cura a tante persone e stimolato tante altre a prendere coscienza dell'assurdità della guerra. Abbiamo dibattuto e ci siamo confrontati (non abbastanza, dobbiamo fare di più) su molti temi e su molti problemi interni alla nostra organizzazione. Ringrazio quelli di voi che hanno avanzato obiezioni su alcune scelte e l'hanno fatto con coerenza rispetto a sè ma anche con amore, ne sono certa, nei confronti di Emergency. Risolveremo tutto, e ancora una volta tutti insieme. L'affetto intorno a Emergency continua ad esserci, come risulta dalle donazioni e dal numero sempre crescente di persone che intervengono alle nostre iniziative. Si aspettano molto da noi e io credo che siano proprio i gruppi di volontari a generare queste aspettative: vi vedono dappertutto, preparati, entusiasti, fantasiosi. Siete (siamo) ciò che intendo quando dico "la particolarità di Emergency è il coniugare il fare con il dire. Non ci basta denunciare, perchè abbiamo anche il privilegio di poter fare. Non ci basta fare, perchè abbiamo anche l'obbligo di dire". Sul fare e sul dire vi chiedo di essere sempre più propositivi nei confronti della "sede di Milano". Resto convinta che nei gruppi ci siano ricchezze non pienamente "sfruttate". E veniamo alla pancia. Sono nati tanti bambini quest'anno, e tanti sono in viaggio. La famiglia si è ampliata, siamo diventati genitori, zii, nonni. Non li nomino tutti, solo perchè ho paura di non essere informata di tutto ciò che succede o è successo. Mi sembra una gran bella cosa, e mi intenerisce il fatto che ci arrivino foto e annunci. Siamo una bella famiglia (guai a voi se leggete della retorica) e anche questo è un valore prezioso. Per quanto mi riguarda, ci sono stati momenti in cui il sentirmi intorno una famiglia vera e affettuosa mi ha cambiato la vita. E visto che siamo sul personale, grazie per il clima che respiro quando
vengo, anche se di corsa, tra i gruppi. E' come tenere una finestra aperta sulle Dolomiti (o sul mare della Sardegna o su... invitatemi, accidenti, così amplio gli esempi!) Vi sento, che state dicendo "da quanto tempo la (li) invitiamo?" Bene, il 2005 sarà dedicato agli incontri con i gruppi. L'ho voluto scrivere, così non ci saranno scuse di nessun genere. Ciao, ragazzi (avete notato che bello, che siamo trasversali fino agli 80 anni?), vi voglio proprio bene e vi auguro le migliori Feste e il fantastico 2005 che vi meritate. Gino da Kabul mi incarica di salutarvi e di ringraziarvi. Spero abbiate capito quanto è serio (cosa rara) quando dice che niente di ciò che succede in Emergency sarebbe possibile senza voi. Un abbraccio grande a voi e alle vostre famiglie pazienti. Teresa
Data: mercoledì 2 gennaio 2008, 12.08.04 Oggetto: buon anno Ciao, carissimi. Buon anno. Per mandarvi gli auguri più affettuosi ho aspettato che fosse finito l'orrido 2007, che potessimo guardarlo "da fuori", abbastanza forti da permetterci qualche considerazione. Emergency ha avuto in questi anni alcuni (parecchi?) momenti difficili. Ma l'anno che abbiamo appena buttato via ci ha riservato, per un periodo troppo lungo, un concentrato di ansie, di paura, di tristezze e di fatiche difficilmente sopportabili. Mi verrebbe da dire (ma più avanti mi correggerò) che se penso al 2007 di Emergency le immagini che mi si parano davanti sono quelle viste, a sorpresa, in televisione, una sera: i nostri infermieri, logisti, medici, fermi, con la testa bassa, davanti ai bagagli preparati per la partenza
dall'Afganistan. Coco Jalil che rientra in ospedale e chiude il cancello. Credo di aver speso lì tutta la riserva di lacrime che avevo in dotazione. Il giorno dopo mi sono detta "bene, mi farò dare la registrazione di questo TG, e la metteremo insieme alle immagini della riapertura prossima, e alle immagini del ritorno a Kabul nel 2001..." Era uno sforzo della volontà, quella cosa doveva succedere, ma non mi veniva certo facile crederci (ogni riferimento a una situazione personale e d'attualità è puramente...). Invece ce l'abbiamo fatta. L'immagine che ci possiamo tenere è l'abbraccio di Gino a Rahmat, all'uscita dal carcere, quando finalmente siamo usciti dall'incubo e abbiamo ricominciato a lavorare per il rientro in Afganistan e la riapertura degli ospedali. Durante quel periodo, insopportabilmente lungo, voi avete fatto una fatica supplementare rispetto alle mie: avete dovuto subire decisioni che andavano prese da pochissime persone, in tempo reale, sulla base di informazioni che non si potevano socializzare e fidandosi dell'esperienza e della conoscenza del Paese che solo Gino possiede in così alto grado. Immagino che alcuni o molti di voi abbiano avuto difficoltà ad accettare decisioni che non capivano. In quelle settimane non avevo tempo nè energie per scrivervi, ma mi pesava sapervi sconcertati dalle scelte che qualche volta vi arrivavano a sorpresa. Per fortuna il seguito della vicenda ha dimostrato che ci eravamo mossi nel giusto. Questa considerazione, adesso che ci penso, forse non l'abbiamo nemmeno esplicitata. Come nelle migliori famiglie, vanno bene le critiche e i mugugni, ma i complimenti sono cosa da sdolcinati (faccina con strizzatina d'occhi...). Nel frattempo succedevano altre cose belle. Il 3 maggio ho balbettato il discorso di inaugurazione del Centro Salam e ad ascoltarlo c'era Sunia, già guarita, in rappresentanza dei tanti, tantissimi, che troveranno normale, nei prossimi anni, quello che mai avevano potuto immaginare o sognare: semplicemente la possibilità di essere curati dalla malattia. Anche le poche immagini che ho evocato sono solo in rappresentanza delle
tro gli striscioni di Emergency, senza potermi sfogare con i tanti che erano intorno a me, io ho vissuto alcune delle ore più angoscianti della nostra storia. Sicura che non avremmo più potuto tornare là (a proposito, anche l'inaugurazione del Kabul Centre porta la data 25 aprile: buon compleanno!), e con la paura che forse non avreste capito le nostre decisioni, perchè vi mancavano dei pezzi del mosaico, e non per cattiva volontà da parte nostra. Bene, adesso mi sono rasserenata, perciò posso liberarvi da questa lunga lettura.
tante che ci arrivano dalla Sierra Leone, dalla Cambogia, dall'Iraq, da Palermo: senza trionfalismi, carissimi, ma anche senza false modestie, che belle cose stiamo facendo! Migliorabili, naturalmente, e abbiamo davanti tutto il 2008 per raggiungere grandi obiettivi. E adesso viene il difficile, perchè vi voglio abbracciare uno per uno, con affetto e riconoscenza grandi. Buon anno a voi e alle persone a cui volete bene. Teresa
Data: lunedì 28 aprile 2008, 16.33.34 Oggetto: 25 aprile Ciao, carissimi. Visto che mi sta venendo il magone perchè non posso andare alla celebrazione del 25 aprile sotto gli striscioni di Emergency, ho pensato di distrarmi con voi, raccontandovi qualche altro pezzettino, che non conoscete, della storia di questa nostra grande associazione (tranquilli, oggi non ci sono tavoli della cucina!). La prima immagine 25 aprile/ Emergency porta la data 1994. Vi sembrerà strano, visto che il compleanno dichiarato viene un po' dopo, il 15 maggio, ma da qualche mese, ovviamente, stavamo preparando la creatura. In quei giorni Cecilia e Alberto avevano dipinto un enorme striscione, mi pare di ricordare rosso, con il logo, rigorosamente sconosciuto e la misteriosa scritta Emergency, e con quello ci siamo mescolati alla folla arrivata a Milano da ogni parte d'Italia, che sfidava il diluvio con la passione e l'allegria di chi sembrava aver appena vinto le elezioni, anziché il contrario. Non avrei mai immaginato che negli anni successivi le persone dietro lo striscione sarebbero diventate decine, poi centinaia e in qualche occasione molte migliaia. Ma soprattutto non avrei immaginato la scena che anche voi conoscete: le persone ai lati del corteo che applaudono al passaggio dello spezzone di Emergency. E' il ricordo di questa immagine che stamane mi ha scatenato un piccolo torrente di lacrime senza argine. Ma questo è un magone buono. Poi l'ho buttata sul ridere, al ricordo delle numerose volte in cui non c'era Gino, e noi ci davamo di gomito dicendo "visto che ci applaudono comunque? non è che le altre volte applaudono perchè riconoscono Gino...". Eravamo cresciuti, la creatura era diventata una bella ragazza sana, amata, stimata. 25 aprile dell'anno scorso. In mattinata ho ricevuto la notizia che i nostri 5 internazionali tornati a Kabul per pagare lo stipendio del mese successivo allo staff afgano dei nostri ospedali, che eravamo stati costretti a chiudere, avevano ricevuto la visita della polizia afgana che pretendeva di ritirare i loro passaporti. Mi sono resa conto del pericolo che correvano quando una telefonata ha cercato di tranquillizzarmi dicendomi che la macchina dell'ambasciata italiana che era andata a prelevarli è territorio italiano, e perciò "sicuro". Ma l'ambasciatore ci ha raccomandato di non dare la notizia fino a quando tutti i nostri non fossero stati fuori dall'Afganistan. E quel pomeriggio, die-
E volete pure sapere come sto? Ho ripreso la chemioterapia, che chiamano profilattica, e ne avrò per altri due mesi, poi si vedrà. In questi giorni un ascesso a un dente e l'inevitabile terapia antibiotica non hanno certo giovato alle condizioni generali, ma oggi sembra andare un po' meglio. E siete pure curiosi del mio umore...Diciamo variabile, ma anche questo in miglioramento, lo prometto. Ciao, ragazzi. Per fortuna ci siete. Saluti anche da Gino, che è in Sudan. Lo vedrete da Fazio l'11 maggio, in una puntata tutta dedicata a Emergency. Un grande abbraccio, più che mai resistente, su molti piani. Teresa
Data: mercoledì 9 luglio 2008, 10.14.32 Oggetto: buona estate Ciao, carissimi. Vi aggiorno su come sta andando il braccio di ferro con l'ospite indesiderato (no, non Gino... Lui continua a essere prezioso, ma tra poco se ne tornerà a andare in giro per il mondo a fare il suo lavoro. Primo buon segno). L'altro buon segno viene dalla TAC fatta qualche giorno fa. Come sapete l'ospite se ne è andato via con l'intervento chirurgico e la TAC dice che in giro non c'è niente. Speriamo. Io ho cominciato la radioterapia, che mi terrà impegnata a Milano per tutto il mese di luglio. Ne approfitto per tornare a occupare il mio ufficio in sede. C'è molto da fare. Voi avete fatto un ottimo lavoro di sostegno, fondamentale per il mio umore e per darmi coraggio. Ehi, non andate in ferie del tutto, guardate che la strada è ancora lunga. Vi ringrazierò di persona a Riccione. Anzi, alla faccia della scaramanzia, ho chiesto di tenere il seminario sui gruppi. Fatevi trovare preparati, discutete tra di voi sulla base delle domande che vi sono state proposte: dobbiamo uscire dall'incontro con le idee più chiare sugli aspetti positivi e negativi del nostro lavoro, pronti a un salto di qualità. Ciao, carissimi. Buona estate a voi e alle vostre famiglie. Con il solito grandissimo affetto. Teresa
Americhe
Yemen
Europa
La crisi colpisce tutti
Yemen, lotta senza quartiere
Cittadini europei a tutti i costi
a crisi economica ha colpito tutti i continenti. Quello americano, però, si distingue grazie soprattutto agli enormi investimenti stranieri piovuti nell'area. Gli investimenti, nonostante il periodo nero della finanza, sono cresciuti del tredici percento rispetto al 2007 e si sono attestati intorno ai centoquarantacinque miliardi di dollari Usa. Una notizia molto positiva che permette ai paesi del continente di arrestare un po' la violenza della crisi. La notizia è stata diffusa durante la conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo, la più importante agenzia del mondo per gli affari legati al commercio e agli investimenti. Ed è in controtendenza con il resto del pianeta che ha visto gli investimenti in netto calo: meno quattordici percento. E nei primi tre mesi del 2009 il dato è andato ancora diminuendo clamorosamente sfiorando il meno quarantaquattro percento. Argentina, Brasile e Cile sono le nazioni che hanno visto il maggiore ingresso di investimenti provenienti dall'estero. Ma in generale tutti i paesi del Sudamerica hanno registrato risultati positivi in tema di investimenti. Proprio il Sudamerica è stato il motore che ha trainato l'economia continentale. I paesi del Centroamerica infatti, hanno avuto un lieve ribasso (meno sei percento) nell'ingresso di investimenti dettato soprattutto dalla presenza nell'area di una nazione come il Messico che per primo ha accusato il colpo della crisi statunitense. Nel solo Messico le autorità finanziarie hanno registrato cali di investimenti pari al venti percento. Il settore industriale più appetibile per gli investitori stranieri è stato quello dell'estrazione dei metalli preziosi. In netto calo petrolio e gas naturale. Male, anzi sarebbe bene dire malissimo, il settore manifatturiero troppo legato all'economia statunitense per salvarsi dalla crisi. Decine i miliardi di dollari Usa, invece, investiti dai paesi del Sudamerica all'estero. Il Brasile è il paese che investe di più con oltre venti miliardi di dollari: quasi il centonovanta percento in più rispetto al 2007.
econdo fonti governative sono almeno duecento le vittime dei combattimenti, ancora in corso. Obiettivo delle forze armate di Sa'ana è quello di debellare la guerriglia nelle zone settentrionali del Paese, iniziata nel 2005. L'esercito dello Yemen ha lanciato, l'11 agosto scorso, l'operazione Scorched Earth (terra bruciata), la più vasta offensiva militare contro i ribelli sciiti seguaci dell'imam al-Houthi nella regione di Sa'ada, nello Yemen del nord. I ribelli, chiamati zaidi o huthis, sono i miliziani sciiti seguaci di Hussein al-Houthi, predicatore ucciso nel 2005 e sostituito dal padre Badr al Din al-Houthi, al quale è succeduto come leader l'altro figlio Abdel Malek al-Houthi. Gli zaidi rappresentano una setta dell'islam sciita che vive prevalentemente nel nord dello Yemen, paese a maggioranza sunnita. Gli zaidi si battono contro il governo centrale di Sa'ana, del quale non riconoscono l'autorità nella persona del presidente-padrone Saleh, asceso al potere con un colpo di stato nel settembre del 1962, spodestando proprio un leader della setta. Il conflitto ha raggiunto la massima intensità tra il 2004 e il 2005: più di 700 persone persero la vita negli scontri tra ribelli ed esercito. Nell'aprile del 2005 il governo cantava vittoria, ma una forma di resistenza è sempre rimasta viva. Secondo il presidente dello Yemen Saleh, sarebbe l'Iran a finanziare la guerriglia. Mentre si combatte la situazione umanitaria è gravissima. Le agenzie Onu calcolano che i combattimenti abbiano provocato 150mila sfollati interni e ridotto in gravi condizioni d'indigenza almeno 75mila persone nei campi profughi del Paese. Almeno due tregue, mediate dalle Nazioni Unite, tra i ribelli e l'esercito, sono saltate dopo poche ore rendendo impossibile ai convogli umanitari l'accesso alle zone dove la popolazione civile è rimasta più colpita dagli effetti del conflitto.
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opo la vittoria del ‘Sì’ al secondo referendum irlandese e la scontata ratifica da parte polacca, manca solo la firma dell’euroscettico presidente ceco Vaclav Klaus perché entri in vigore il Trattato di Lisbona del 2007, versione rivista (nella forma più che nella sostanza) della Costituzione Europea che nel 2005 era stata bocciata dai referendum francese e olandese. Il nuovo testo costituzionale – che trasforma l'Unione europea in un superStato internazionale che limita la sovranità degli Stati membri e i diritti di cittadini e lavoratori, lasciando invece mano libera ai poteri forti delle multinazionali e dell'alta finanza – era già stato bocciato dagli irlandesi nel 2008, ma l’esito di quel primo referendum fu ignorato e il governo di Dublino è stato costretto a tenere un nuovo referendum che ribaltasse il risultato. Stavolta il ‘Sì’ ha vinto grazie a una massiccia campagna intimidatoria (sponsorizzata dalle grandi banche e aziende irlandesi, dalla stessa Ue e da multinazionali del calibro di Intel, Hewlett Packard e Microsoft) che ha efficacemente sfruttato la paura della recessione (l'Irlanda è stato il paese europeo più colpito dalla crisi mondiale). A fare campagna per il 'no' erano solo i nazionalisti dello Sinn Fein, i Socialista irlandesi e tutti i sindacati. A parte l’Irlanda, tutti gli altri paesi membri dell’Ue hanno ratificato il Trattato con voti parlamentari avvenuti senza troppa pubblicità: quello italiano lo ha approvato all’unanimità i primi d’agosto del 2008. Il ricorso ai referendum è stato evitato grazie a un trucco, candidamente ammesso dagli stessi estensori del Trattato. “Si è deciso che il documento fosse illeggibile, poiché così non sarebbe stato di rilevo costituzionale, altrimenti vi sarebbero state ragioni per sottoporlo a referendum” (Giuliano Amato, 12 luglio del 2007). “Il Trattato è uguale alla Costituzione bocciata nel 2005. Solo il formato è differente, per evitare i referendum” (Valéry Giscard D’Estaing, 27 ottobre 2007). Enrico Piovesana 17
Qualcosa di personale Mediterraneo
La mia Odissea Testo raccolto da Luca Galassi
Il viaggio della speranza di un giovane etiope che, grazie alla sua ostinazione, alla sua forza di volontà e alla sua umanità, è riuscito a trovare lavoro in Italia. E aiuta chi ogni giorno sbarca in un Paese sempre più ostile. accio il mediatore culturale, e lavoro al Poliambulatorio di Emergency a Palermo. Il mio primo contatto con l'organizzazione è avvenuto attraverso alcuni volontari, che mi hanno chiesto di fare da traduttore per un immigrato cardiopatico. Rispetto all'esperienza di lavoro precedente, lavoravo al Poliambulatorio di Agrigento, quella di Emergency mi ha stupito, e tutt'ora, da dipendente, ammiro i servizi e l'assistenza che offre ai migranti. Ricordo che ad Agrigento un paziente con dolori ai denti fu portato nell'ambulatorio di odontoiatria e il dentista, aprendogli solo la bocca, gli fece estrarre un dente. Così, senza visita, senza esaminare e valutare approfonditamente il suo caso. Per questo, quando incontravo qualcuno che aveva bisogno, lo mandavo a Palermo, da Emergency. Qui le visite oculistiche e odontoiatriche vengono fatte come se le facessero a un italiano. Quando i migranti arrivano in Italia le loro aspettative sono altissime. Scappano da una guerra e cercano di migliorare la loro esistenza, sperano di trovare un lavoro e costruirsi una famiglia. A Lampedusa mi chiedevano: ma anche tu sei arrivato in barca? Sì, dicevo loro, e adesso lavoro qua. La speranza si accendeva nei loro volti. Pensavano, magari anch'io trovo lavoro qua, e realizzo il mio sogno. Una volta sbarcati, portati in Questura, nei centri di identificazione, nelle città, fino ai campi dove chi riesce trova lavoro come stagionale, la loro speranza pian piano cala. A volte, nei campi, vedevo le stesse persone arrivate piene di entusiasmo a Lampedusa che avevano perso completamente questa speranza. Leggevo in loro il desiderio di tornare a casa.
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o sono stato fortunato. Vengo dall'Etiopia, la mia etnia è sempre stata sottomessa. Intimidazioni, arresti, minacce. Ho lasciato il mio Paese nel 2003 perchè non potevo più viverci. Lì c'è una dittatura. Volevo andare in Kenya e chiedere asilo politico all'ufficio per i rifugiati. Ma i conflitti interetnici mi hanno impedito di attraversare il confine. Così mi sono unito a un gruppo di somali che attraverso Sudan e Libia volevano andare in Italia. Un po' di soldi li avevano raccolti i miei, altri li avevo perchè per un po' ho fatto il falegname. Milleduecento dollari. Avevo abbastanza soldi per arrivare in Libia. Eravamo circa 75 persone su due pick-up, caricati fino allo stremo. Ogni giorno le macchine si rompevano, ogni giorno la gente si ammalava, ogni giorno le donne venivano violentate. Dopo dieci giorni arriviamo al confine libico, poi a Kufra. Qui i trafficanti si sono presi delle ragazze per una sera, riportandole la mattina dopo. A Tripoli passo qualche mese, per lavorare un po', ricevere qualche altro quattrino dai miei. Volevo partire. Contatto i trafficanti. Altri mille dollari. C'erano molti controlli, dopo il 2003, dopo gli accordi di Berlusconi con Gheddafi. Era molto pericoloso stare in giro. Siamo partiti in ottantacinque. Si compra acqua, cibo, un po' di tonno e
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formaggio, che rimane in custodia dei trafficanti fino all'imbarco. Ma la polizia sapeva dove eravamo, siamo costretti a fuggire in fretta e furia. La nostra acqua e il nostro cibo rimangono a terra. Alle tre di notte ci imbarcano. Era la prima volta per me. Avevo paura, ma dovevo arrivare in Italia. Tra noi c'erano diciotto donne e alcuni minorenni. Tutti somali o etiopi. Alle cinque partiamo. Uno, due giorni di viaggio, poi il motore si rompe. Andiamo alla deriva. La gente incomincia a star male, a morire. Il viaggio si allunga, passa una settimana, finché non vediamo delle barche in lontananza, che passavano, ci guardavano e se ne andavano. Probabilmente facevamo paura, ottantacinque persone moribonde su una barchetta malandata. Ne sono morte settanta. Siamo arrivati in quindici, con tredici cadaveri a bordo. Non avevamo la forza di gettare in mare anche loro. Poi, la salvezza. Ci vedono dei pescherecci. Eravamo tutti sdraiati sul fondo della barca, senza forze. Un ragazzo, il più giovane, il più resistente, riesce ad avvistare una barca che si avvicina, viene proprio verso di noi. Cominciamo ad alzarci, ci lanciano dell'acqua, un po' di pane. Credevo che se ne sarebbero andati. Invece, dopo qualche ora arriva la Guardia Costiera italiana. Saliamo sulla loro motovedetta. erra. Lampedusa. Io ero ancora lucido. Vedevo piccoli bagliori in lontananza, ambulanze, camminavo, mi tenevano per le braccia, ma la terra si muoveva sotto di me. Mi danno da mangiare ma vomito tutto. Mi portano a Palermo, con altri otto ragazzi. Sono rimasto venticinque giorni in ospedale, finchè non mi sono rimesso. Alla Questura ho fatto domanda di asilo e mi hanno ospitato in un centro valdese per alcuni mesi. La procedura allora era lunga, un anno, due, tre... Sono stato fortunato, ho aspettato 'solo' un anno. Tuttavia, da richiedenti asilo non avevamo nessun sostegno, non potevamo lavorare perchè non avevamo permesso di soggiorno. Alla fine, mi danno lo status di rifugiato. Ma anche col permesso di soggiorno non sapevo dove andare. Alcuni ragazzi di un centro sociale mi hanno aiutato a studiare, a parlare l'italiano, a esprimermi come riesco a fare oggi. Io ho la responsabilità di testimoniare ciò che è successo. Ce l'ho nei confronti degli altri. Un ragazzo somalo, molto giovane, dopo alcuni giorni di viaggio si era buttato in mare. Non ce la faceva più. Gli ho urlato 'ma che fai, torna qui, se devi morire devi morire in barca, non uccidendoti in mare'. Ha provato a nuotare verso di noi, si è accorto di aver sbagliato, ha tentato di rimediare a quel gesto avventato, impulsivo. Ma la barca si allontanava, e la corrente lo spingeva in direzione opposta. Devo anche a lui, che non c'è più, questo mio racconto, questa mia testimonianza.
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Nell’ex clinica S.Paolo. Torino, Italia 2008 Umberto Fratini per PeaceReporter
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La storia Sud Africa
Retaggi di apartheid Di Elena Ostanel
Quando lo spazio pubblico si decostruisce, quello privato diventa quotidiano. Se chiudo gli occhi, queste le parole per descrivere Johannesburg. a piazza diventa un centro commerciale con qualche spazio aperto: è qui che le persone si ritrovano, fra una vetrina e l’altra, seduti a un caffè. La casa diventa una proprietà enorme (per chi può accedervi) rigorosamente recintata (se non dentro una gated community) con tutti i confort utili per trascorrere la maggior parte della propria vita, se non si è al lavoro. La macchina diventa l’unico mezzo di locomozione, assolutamente privato. Di notte diventa regola non fermarsi al semaforo, se rosso. Queste le parole per descrivere una Johannesburg. “Una” perché di Johannesburg ce ne sono diverse, una dentro l’altra, ma separate: retaggi di apartheid. La popolazione migrante è stimata essere il 6.7 percento secondo l’ultimo censimento del 2001. Se nel 2007 il numero di migranti che accedono al Sud Africa sono 138.837, nel 2008 diventano 152.447. I migranti che provengono dall’Africa crescono del 5.6 percento nello stesso periodo. Il Sud Africa è l’Europa, l’America, del continente africano. La migrazione non forzata ha per lo più motivazioni economiche, alla ricerca di condizioni di vita migliori. La parte restante fugge da conflitti, persecuzioni politiche, rese di conti.
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migranti il fine settimana lavorano meno, o non lavorano. E i quartieri che li ospitano, come Rosettenville, Troyeville, Yoeville, vibrano alla luce del sole. A sinistra di un Mc Donald's, a Rosettenville, i giovani Mozambicani si ritrovano e discutono di quello che accade nel Paese natale e di come è andata la settimana a Johburg. “Maputo è molto più sicura di Johannesburg, puoi ancora passeggiare per le strade.” “La polizia mi ha fermato venerdì e senza chiedermi i documenti mi ha portato alla centrale. Solo dopo aver pagato duecento Rand sono uscito. Lo stesso per gli altri sette che erano con me, solo due di noi erano illegali”. Lo stesso si fa al Mafalala in Town, un pub gestito da mozambicani che è diventato un luogo di ritrovo: cibo tipico, fiumi di birra, un tavolo da biliardo. “Questo governo sta cercando di fare qualcosa per noi migranti. Con la fine dell’apartheid ha dato a molti di noi la possibilità di diventare cittadini con un’amnistia, ma oggi, dopo la “xenophobia” è diverso. Non mi sento Sud Africano anche se vivo qui dal 1987. Non posso sentirmi parte di una società che non ama la mia presenza. Pensano che stiamo rubando il lavoro ai Sud Africani, ma facciamo i lavori che loro non vogliono più fare. E per sopravvivere diventiamo creativi, loro invece sono immobili. Ci odiano, ma credo che la motivazione stia nella storia di questo Paese, non ancora pacificato”. A Yoeville il mercato è colorato, come negli altri giorni della settimana. Gli “street sellers” hanno da qualche anno uno spazio a pagamento dentro un mercato attrezzato, semi chiuso, perché “sulla strada disturbano il passaggio”. “Io vivo a Maputo, ma ogni settimana sono qui in città, da Lunedì a Venerdì. Poi prendo il bus e vado in Mozambico per comprare queste cose che vendo, olio di palma per esempio, che qui a Johannesburg non puoi trovare. Ogni mese faccio mettere il timbro sul mio visto, così è valido e sono legale. Faccio questa vita da quando mio marito è morto di cancro, lavorava
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nelle miniere e vivevamo insieme a Soweto. Se sono felice di questa vita? Sopravvivo. E sono felice perché non vivo a Johannesburg”. A Rosebank parcheggi l’auto in un parcheggio privato ed entri in un lucido parco dei divertimenti, con cinema, bar, ristoranti, negozi, e un po’ di pavé su cui passeggiare. A Rosebank puoi sentirti sicuro anche se fa buio. Anche la tua macchina è controllata a vista. Se cala il sole e non sei in una di queste isole felici, create ad hoc, è meglio raggiungere casa e chiudere due cancelli dietro di te, oltre alla porta. “Questo è il posto che amo di più qui a Johannesburg, è così tranquillo qui e mi sento sicura”. “Questo posto è così mixed: vedi, ci sono persone che provengono da ogni dove, non è facile per me, che sono Sud Africana, dire da dove vengo, mio nonno era lituano, credo, nessuno di noi qui ha radici certe, ognuno ha storie diverse e non è così facile dire: I’m pure South African”. a migrazione di oggi è molto diversa da quella di qualche decennio fa: il duro lavoro nelle miniere, prettamente maschile, era regolato da accordi Statali, fra il paese ricevente e quello che esporta la forza lavoro. Oggi la migrazione diventa un viaggio alla ricerca di una vita migliore, di un salario, di un mezzo per risparmiare qualche soldo e reinvestire nel Paese natale. La migrazione è un po’ più donna e molto più deregolarizzata. La migrazione è per la maggiore undocumented e unsafe. Anche che entra con un visto regolare, regolarmente rimane nel Paese per un periodo più lungo di quanto concesso. In una situazione simile, accedere al diritto alla città di Lefebvre diventa, nella pratica, quasi impossibile. Ancora di più in una Johannesburg che prova a essere post-apartheid. Ancora di più dopo le violenze (i migranti la chiamano “xenophobia”) dell’anno appena passato.
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e mi sento sicura? No, per nulla. Come vedi cerco in ogni modo di sembrare sud africana: come mi vesto, i capelli, non parlo mai la mia lingua nei mezzi pubblici. La polizia è solo corrotta, il mio ex marito mi ha quasi ammazzata perché la polizia ha accettato i suoi sporchi soldi ed è uscito di prigione, vedi questo taglio sulla fronte? Me l’ha fatto con un coltello, appena uscito di prigione” La notte cala, qui a Johannesburg. Io chiudo: il garage, il primo cancello, il secondo, e la porta. Rosebank inizia a svuotarsi in questo momento, alle undici. Le macchine escono in fila dal parcheggio. Le luci si spengono a mezzanotte. Il Mafalala chiude verso le due di notte, credo ci sia ancora qualcuno lì, davanti ad una birra. Il ritrovo alla sinistra del Mc Donald's si è sparso da qualche ora, appena prima del buio, invisibile, nella città.
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In alto e in basso: Strade di Johannesburg. Sud Africa 2009 Elena Ostanel per PeaceReporter
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Italia Lampedusa
Giudici coraggiosi Testo raccolto da Chiara Avesani
Immigrazione, magistrati e intellettuali a convegno sull'isola. Le loro frasi in un mosaico per denunciare l'illegittimità di pacchetto sicurezza e respingimenti, in nome della democrazia. I virgolettati che seguono sono stati scelti dalle registrazioni di alcuni dei partecipanti del convegno dell'11 settembre 2009: “La frontiera dei diritti. Il diritto della frontiera” organizzato da Magistratura Democratica Armando Spataro, Procuratore aggiunto a Milano e membro dell'Anm: “L'ipotesi che gli immigrati respinti possono richiedere in Libia l'asilo politico è una forma di ipocrisia. In Libia c'è un regime che palesemente non rispetta i diritti civili ed internazionali. Lo ha detto anche Gheddafi, accanto a Berlusconi, che quelle persone non hanno diritto d'asilo. Quell'accordo con la Libia è un gravissimo errore, del governo Berlusconi, ma anche di quello presieduto da Giuliano Amato, che firmò l'accordo”. “L’immigrazione clandestina porta terrorismo in Italia? È falso, nemmeno parzialmente vero, ma totalmente falso. I dati statistici mostrano che terroristi, cioè i condannati per associazione per finalità di terrorismo, nella quasi totalità vivevano nel nostro paese, non in clandestinità, ma regolarmente e con attività lavorative che si protraevano da parecchio tempo. È vero che i criminali e anche questo tipo di delinquenti entrano in Italia regolarmente con documenti falsi, con visti per turismo, non certo con carrette di cui si occupa la politica dei respingimenti. Il diritto alla sicurezza in Italia diventa la maschera di un vero e proprio razzismo, la giustificazione di una barbarie feroce. Il reato d’immigrazione clandestina è solo un brand, un marchio di fabbrica, perché non serve a nulla. Un marchio barbaro che si vuole ostentare e che fa si che l’Onu e l’Ue ci tengano sotto controllo”. Luigi Ferrajoli, Professore di Filosofia del diritto: “Queste norme si trovano in contraddizione profonda con i principi della tradizione liberale. Entro questa tradizione, il diritto di emigrare è il più antico dei diritti naturali risalente a prima delle teorizzazioni di Hobbes e Locke”. “Dopo cinque secoli di colonizzazioni e rapine non sono più gli europei a emigrare nei paesi poveri del mondo, ma sono al contrario le masse affamate di questi stessi paesi che premono alle nostre frontiere. Ma con questo rovesciamento si è prodotto anche un rovesciamento del diritto. “La 22
nuova normativa è indegna moralmente: chiede l’immunità delle nostre terre dall’immigrazione di altri ”. Guido Neppi Modona, ex vice presidente della Corte Costituzionale: “L’elenco dei diritti fondamentali e irrinunciabili che sarebbero assicurati anche agli immigrati irregolari diviene amara ironia se si pensa che, dopo le recenti leggi n. 38 e 94 del 2009, lo straniero illegale è destinato, quando non immediatamente espulso, a essere internato in quei gironi infernali che sono i Cie - centri di identificazione e di espulsione - per un periodo di sei mesi, rinnovabile anche più di una volta (sino a un massimo di diciotto mesi, alla stregua di una direttiva UE del 2008). In quei centri si sopravvive come bestie, privi anche di quella minima libertà di movimento che avevano i sospetti briganti, camorristi e mafiosi inviati al domicilio coatto nelle isole minori durante la seconda metà dell’800. L’unica via – aggiunge - è di capovolgere l’impianto dell’attuale disciplina giuridica dell’immigrazione, senza che questo significhi di consentire libero ingresso anche a chi viene in Italia per svolgere attività criminose. I professionisti del crimine non arrivano in Italia sulle carrette del mare o nascosti nei Tir che provengono dai paesi dell’ex Unione Sovietica o del Medio Oriente: entrano in Italia muniti di “regolari” documenti falsi o con visti turistici, lungo percorsi e circuiti che nulla hanno a che vedere con quelli seguiti dalle vittime sfruttate dagli spietati trafficanti dell’immigrazione clandestina.” Fernanda Contri, già membro della Corte Costituzionale e del Csm, ha concluso i lavori affermando: “Il nostro impegno personale, qualunque lavoro svolgiamo, è quello di far cambiare questo modo di sentire e legiferare, senza rabbia, ma conservando tutta intera la capacità di indignazione di cui siamo capaci, con fermezza. Per non mollare bisognerà avere giudici coraggiosi, anche giudici costituzionali coraggiosi, che hanno proprio il sacro dovere di essere coraggiosi, ispirandosi all’Art. 2, il faro di tutta la Costituzione.” Armando Spataro con Giancarlo Caselli. ©Andrea Pagliarulo/Prospekt
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Migranti
L’estate calda dei Cie Di Gabriele del Grande
Finalmente cattivi. Qualcuno deve aver preso sul serio le parole del ministro Maroni. E le ha applicate alla lettera. Almeno a giudicare dal numero di ematomi che si possono contare sui corpi degli immigrati detenuti nel centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Gradisca d’Isonzo. Siamo in provincia di Gorizia, a due passi dalla frontiera slovena. fatti risalgono a lunedì 21 settembre. Ma le prove sono arrivate soltanto ieri. Si tratta di un video girato di nascosto all'interno del Cie e diffuso su Youtube. È un montaggio di riprese fatte con un videofonino. Inizia con un primo piano sul volto tumefatto di un detenuto tunisino. “Guarda il polizia” ripete indicando l'ematoma sull'occhio. I pantaloni sono ancora imbrattati di sangue. E le gambe segnate dagli ematomi delle manganellate e in parte bendate. Il video prosegue mostrando le gabbie dove gli immigrati sono rinchiusi in attesa di essere espulsi, da ormai più di tre mesi. Ma il pezzo forte arriva alla fine. Si vede un uomo sdraiato a terra, esanime, tiene una mano sull’inguine, ha il volto sanguinante, il sangue ha macchiato anche il pavimento. Nel cortile una squadra di poliziotti e militari in tenuta antisommossa prepara un'altra carica. Dalle camerate si alzano cori di protesta. Ma quando i militari entrano, i detenuti non sanno come difendersi e scappano gridando “No, no!”. Ma cosa è successo davvero quel giorno?
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o abbiamo chiesto alla Prefettura di Gorizia. “Al Cie di Gradisca non c'è stato nessun pestaggio”, dice il capo di Gabinetto Massimo Mauro, “anzi l'unico a essere stato ricoverato è stato un operatore di polizia che si è preso un calcio in una gamba”. Ma allora qualche tafferuglio c'è stato! La versione della Prefettura parla di un tentativo di fuga di una trentina dei reclusi, la notte del 20 settembre, sventato dal personale di vigilanza senza particolari momenti di tensione. I problemi spiega ancora Mauro, sarebbero arrivati intorno all’una, quando un gruppo di trattenuti avrebbe rifiutato di rientrare nella camerata dopo il turno della mensa, “inscenando una protesta e lanciando bottiglie di plastica vuote contro il personale di polizia” che avrebbe quindi provveduto a farli rientrare con la forza. Le immagini diffuse su Youtube, Mauro non le ritiene attendibili. Chi dice che siano state a Gradisca? E chi dice che non sia materiale vecchio riciclato a uso e consumo di qualche associazione antirazzista? Abbiamo fatto le stesse domande a un detenuto di Gradisca. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente. Per motivi di sicurezza non sveleremo la sua identità. Questa persona, non soltanto ci ha confermato che il video era stato girato in quei giorni. Ma ci ha anche descritto nel dettaglio il tipo di ferite che si vedono nelle riprese. La sua versione dei fatti coincide con quella della Prefettura per quanto riguarda il fallito tentativo di evasione la notte e il rientro pacifico nelle camerate all’alba. Il resto però è tutta un’al-
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tra storia. All’una sarebbe iniziata una irrispettosa perquisizione. “Hanno rotto i carica batterie dei telefoni, ad alcuni hanno tagliato i vestiti, e in una camerata hanno strappato un Corano”. Un gesto quest’ultimo che avrebbe provocato l'ira dei detenuti, che hanno cominciato a inveire contro la polizia. “In una camerata hanno rotto le finestre e cominciato a lanciare cose”. Finché polizia e militari hanno deciso la carica. Nelle camerate numero tre, due e sei. Alla fine della rivolta, secondo il nostro testimone, dodici persone sarebbero finite in ospedale. E in ospedale tornerà il detenuto tunisino con l'occhio tumefatto: ha un appuntamento per un'operazione, all'ospedale di Udine. Chi ha ragione? La Prefettura? I detenuti? È presto per dirlo. Anche perché i detenuti vittime delle violenze si sono detti pronti a sporgere denuncia. E in quel caso sarebbe un giudice ad avere l’ultima parola. ntanto però le proteste si sono diffuse a macchia d’olio nei Cie di tutta Italia. Quella del 2009 è stata un’estate di rivolte, incendi, tentate fughe, scioperi della fame e in alcuni casi pestaggi e arresti. Tutto ha avuto inizio l’otto agosto. Il giorno in cui è entrato in vigore il cosiddetto “pacchetto sicurezza”, la legge 94/09, che ha portato da due a sei mesi il limite del trattenimento nei Cie ed è stata applicata in modo retroattivo anche a chi era già trattenuto nei centri. Il giorno stesso in due sezioni del centro di identificazione ed espulsione di via Corelli a Milano inizia uno sciopero della fame e della sete. Il giorno dopo, a Gorizia, metà degli oltre duecento trattenuti riescono a salire sui tetti del Cie inscenando una protesta contro il prolungamento della loro detenzione e provocando ingenti danni alle suppellettili e alla struttura. Una decina di persone tentano la fuga ma sono bloccati dalla polizia. Dal giorno dopo le sezioni del centro rimangono chiuse per isolare i trattenuti. Trenta rivoltosi sono trasferiti a Milano. Il 13 agosto è la volta di Torino, dove per due giorni consecutivi due sezioni del Cie rifiutano il cibo e protestano, fino ad arrivare a uno scontro con gli agenti di polizia il 14 agosto. Lo stesso giorno a Milano si verificano degli scontri tra la polizia e i trattenuti che appiccano il fuoco in una sezione del centro. Alla fine vengono arrestate quattordici persone (nove uomini e cinque donne nigeriane) e rinviate a giudizio per direttissima con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamenti.
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In alto: Casa Africa. Torino, Italia 2008. Emanuele Cremaschi/Prospekt In basso: Lampedusa. Italia 2008. Alfredo D'Amato/Prospekt
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Rubriche
A teatro di Silvia Del Pozzo
Angels in America Perestroika In tivù di Sergio Lotti
Cercasi contraddittorio
Stan Trek Dal giornalista americano finalista al premio Pulitzer Ted Rall, una folle, rocambolesca cavalcata nell'inferno degli "Stan". Ovvero tutto ciò che accade (a nostra insaputa) nelle ex repubbliche sovietiche.
Stan Trek di Ted Rall prefazione di Ahmed Rashid Edizioni BeccoGiallo beccogiallo.it
Percorrerò la Via della Seta in auto, da Pechino a Istanbul. Attraverserò Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Afghanistan, Iran e Turchia senza prima documentarmi: arriverò lì e accetterò tutto ciò che accade.
Se è vero che il buon nome di una casa dipende anche dalla qualità dei suoi servi, il presidente del Consiglio dovrebbe licenziarne parecchi. O quantomeno spiegare loro meglio come comportarsi in televisione. Non se ne può più di deputati, senatori, ministri, portaborse e giornalisti di famiglia che in ogni telegiornale o talk show continuano a far finta di non capire che il problema non è se sia morale che il premier abbia o no erezioni che vengano soddisfatte, ma se sia lecito che questi soddisfacimenti avvengano in palazzi con tanto di tricolore al vento e grazie alle amorevoli cure di professioniste ben retribuite che poi magari siano in grado di ricattarlo. Cose di cui la maggior parte degli italiani, grazie ai nostri telegiornali, non sanno quasi niente. Quindi hanno cominciato a cambiare canale davanti alla corte berlusconiana, come ha dimostrato il flop della discussa puntata di Porta a Porta sulla consegna delle prime case ai terremotati abruzzesi. Per trasmetterla in prima serata ed eliminare possibili concorrenti di audience, sono stati rivoluzionati all’ultimo momento i palinsesti di Rai e Mediaset, con il risultato di ridurre al tredici percento lo share, una cifra che in prima serata provocherebbe la soppressione di qualsiasi trasmissione e la defenestrazione dei responsabili. Fra l’altro, le case consegnate sono state progettate, costruite e pagate dalla Provincia di Trento con il contributo della Croce Rossa, particolare però vistosamente snobbato per tutta la trasmissione, senza che gli afasici giornalisti in studio ci trovassero qualcosa da ridire, fosse mai che potesse sembrare un embrione di contraddittorio al premier. In compenso qualche genio ha pensato di mettere un contraddittorio al giornalista Marco Travaglio nel salotto di Annozero, aprendo affascinanti interrogativi. Prima di tutto, Travaglio è di destra o di sinistra? Le sue passate frequentazioni montanelliane farebbero pensare che sia di destra, ma la sua mania di fare domande e stare sui fatti spinge a considerarlo un pericoloso comunista. Chi potrebbe essere, allora, il contraddittore? E i fatti veri della sua introduzione, come si possono contraddire, con notizie false o con pernacchie diversive? Purtroppo, al momento in cui questo giornale va in stampa, non si sa ancora com’è andata a finire.
Affascinante, visionario, ipnotico per l’intensità emotiva della messinscena. Ma anche crudo, duro, intensamente politico per le tematiche che affronta: quelle della società americana degli anni ’80 che ha molti riscontri con quella di oggi, e non solo statunitense. Scritto dal premio Pulitzer Tony Kushner negli anni della piaga dell’Aids, Angels in America va oltre la “fantasia gay su temi nazionali” come recita il sottotitolo. Ambientata in una New York febbrile e onnivora, è una saga provocatoria e insieme umana in cui si intrecciano i destini, le allucinazioni, i conflitti etnici, sessuali e sentimentali di molti personaggi, messi a nudo nei loro difetti, nelle debolezze, nelle fantasie paranoiche e nei rimorsi dal tragico spettro della malattia. La pièce si sviluppa in due parti: la prima (Si avvicina il millennio) è andata in scena e ha girato l’Italia per due stagioni con grande successo, raccogliendo molti applausi e premi (miglior spettacolo e miglior regia per gli Eti, migliore attore Elio De Capitani per gli Ubu). Il 22 ottobre va in scena al teatro dell’Elfo di Milano (che produce lo spettacolo) la seconda parte, Perestroika, sempre per la regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani, che una volta ancora veste i panni di Roy Cohn, avvocato newyorchese perverso e corrotto, personaggio storico che ebbe un ruolo non irrilevante nei processi contro “le attività anti-americane” del senatore Mac Carthy e nella condanna a morte dei coniugi Rosenberg. Non a caso il fantasma di Ethel tornerà a ossessionare le notti insonni di Cohn mentre lotta contro la morte, Aids anche per lui. La stessa peste che ha colpito Prior, visitato da tutti i fantasmi della sua storia familiare e dagli angeli, egocentrici e narcisi, che vogliono fargli aprire gli occhi - ma non solo a lui - su questa epoca “infelice e confusa, orfana di ideologie e di ideali” come dice il regista Bruni. Nel continuo sovrapporsi e sdoppiarsi di scene e personaggi, dove la posta in gioco è sempre la vita – la morte, c’è spazio anche per l’ironia e la commedia. Apocalittica. Su una trama di citazioni, allusioni, rimandi, tra Shakespeare e soap opera, Vecchio Testamento e Brecht. “Angels in America – Perestroika”. Milano, Teatro dell’Elfo (tel.02716791 ) dal 22 ottobre al 22 novembre.
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In libreria di Giorgio Gabbi
Il gruppo Bilderberg – La vera storia dei padroni del mondo di Daniel Estulin Diciamo la verità: il sottotitolo di questo poderoso volume è di quelli che provocano una smorfia di incredulità. Che ci siano in giro persone ricchissime e potentissime che si credono e si comportano padroni del mondo è un fatto, ma è altrettanto vero che la storia si diverte a mandare a gambe all’aria i piani più o meno segreti ed elaborati dei potenti e procede per colpi di scena. Esempi? Dal crollo del regime sovietico al trionfo del capitalismo in Cina, fino all’attuale crisi finanziaria mondiale. E allora: o i “padroni del mondo” si concedono troppe disattenzioni o forse il mondo non obbedisce tanto ai piani dei suoi “padroni”. Non la pensa così Estulin,l’autore del volume, che afferma di aver dedicato una vita per indagare i misteri e denunciare i piani del Gruppo Bilderberg, associazione di reali, governanti, finanzieri, industriali, editori, giornalisti, docenti universitari che dal 1954 organizza conferenze a cadenza annuale. Un centinaio alla volta, questi VIP si incontrano in posti favolosamente lussuosi e – vincolati alla riser-
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vatezza più rigorosa - discutono per due o tre giorni a porte rigorosamente chiuse, protetti da impenetrabili cordoni di polizia. Non si tratta propriamente di un’organizzazione segreta perché i nomi dei partecipanti sono noti e così pure i luoghi degli incontri. Di segreto c’è quel che si dicono. “Perché”, affermano i membri del gruppo, “vogliamo poter parlare in piena libertà: in pubblico dovremmo esprimerci come i comunicati stampa”. Per i suoi associati, dunque, il Bilderberg è un “think tank”, un “pensatoio” e non ha niente di tenebroso: chi prende parte alle sue conferenze, per il ruolo che svolge nella finanza, in politica e altrove, ha molte informazioni preziose da confidare agli altri. Nell’interesse di ciascuno e del vasto mondo. “Purtroppo”, scrive Estulin, “sembra che il gruppo Bilderberg, crescendo, sia andato oltre i propri idealistici propositi fino a diventare un governo ombra mondiale, che decide in totale segreto…come saranno realizzati i suoi piani. Minaccia di sottrarci i nostri diritti per dirigere i nostri destini…” E lancia un appello: “Non spetta a Dio farci uscire dalla ‘nuova età oscura’ pianificata per noi. Spetta a noi! Se verremo fuori dal secolo in uno stato di polizia elettronico globale o come esseri umani liberi, dipenderà delle azioni che faremo ora.” L’inchiesta di Estulin si legge anche come un libro di spionaggio. Non mancano momenti drammatici: per esempio quando l’autore, dopo un incontro con una sua segretissima “Fonte”, chiama
l’ascensore del grattacielo dove alloggia per scendere al garage. La porta dell’ascensore si apre, Estulin fa per entrare, ma la sua “Fonte” lo afferra per un braccio e lo tira indietro. Risparmiandogli un volo di 230 metri: il pavimento dell’ascensore era stato rimosso. Niente male come avvertimento a un giornalista troppo curioso (se di questo si è trattato). Arianna Editrice, 2009, 322 pagine, 18,50 euro.
In libreria di Licia Lanza
disidratazione, gettati in mare dagli scafisti. Storie che non potranno mai essere raccontate. Questo libro ci racconta che le migrazioni hanno un volto umano: visi e storie mai uguali, che troppo spesso si perdono nel mare o nell’indifferenza.
Al cinema di Nicola Falcinella
Good morning, Aman
Dall’Etiopia a Roma. Lettere alla madre di una migrante in fuga. A cura di Michele Colloca e Mussie Zerai Yosief Una storia vera e attualissima che con grande intensità racconta il percorso di Simret, dal piccolo villaggio alla periferia di Addis Abeba verso Roma e una nuova vita. Il primo viaggio di Simret ancora bambina è verso il Sudan in compagnia della madre, poi nel 2005 le due donne decidono di rimettersi in cammino per raggiungere l’Europa. E’ durante il viaggio nel deserto libico che la mamma di Simret muore, lasciando la figlia in balia di se stessa e del destino ed è qui che ha inizio la narrazione della giovane ragazza, che per sopportare il dolore della perdita inizia a scrivere lettere alla madre, aggiornandola sul suo percorso verso l’Europa. Il cammino è lungo e difficile, Simret conosce il carcere e le violenze ma anche amici che l’aiutano a proseguire il suo viaggio, che la porterà alla sua nuova vita a Roma. Quella di Simret potrebbe essere la storia di ciascuna delle persone che sfidano il mare a bordo di un’imbarcazione mai sicura e sempre sovraffollata: costretti ad abbandonare la propria terra, partiti senza la certezza di arrivare né quella di poter tornare indietro. Un viaggio tra soprusi, violenze, fame e sete, per arrivare in un luogo che spesso si immaginava diverso. Quella di Simret è una storia a lieto fine, molte altre non lo sono. Solo nel 2008 oltre 1.500 persone sono morte o risultano disperse nel Mediterraneo: individui annegati, uccisi dalla
“Da dove vieni?” “Dal Corviale”. A rispondere così, a un gruppo di uomini che lo guardano con curiosità e disprezzo e restano spiazzati dalla replica è Aman, ventenne di origine somala che parla romanesco e si sente romano a tutti gli effetti. Il film è “Good Morning, Aman”, esordio di Claudio Noce, già noto per i cortometraggi “Gas”, “Aria” e “Adil e Yusuf”, presentato a Venezia nella Settimana della critica. Un ragazzo che sogna di vendere auto ed è bravo. Lavora in una concessionaria a lavare le macchine, un giorno consiglia e convince un cliente su un nuovo acquisto ma il proprietario lo licenzia. L’insonnia di Aman (il bravo Said Sabrie) lo spinge a vagare la notte, anche sui tetti della zona dell’Esquilino, dove si imbatte in Teodoro (Valerio Mastandrea), quarantenne ex pugile con tanti problemi esistenziali e pure lui con problemi di sonno. Oltre all’amico di sempre Said, che a un certo punto parte per Londra e resta nella storia come presenza telefonica, l’altro legame del protagonista con il mondo è la bella Sara (Anita Caprioli): la incontra in zona Stazione Termini e se ne innamora. “Good Morning, Aman”, molto ben girato (forse anche con troppa ricercatezza), è un film sospeso tra realtà e sogno, di atmosfere rarefatte ma rapporti veri. Racconta un italiano d’origine straniera come ce ne sono molti, che domina la nuova lingua (pur su temi diversi ha qualcosa in comune con “Le ferie di Licu” di Vittorio Moroni) e ha sogni come tanti suoi coetanei. Uno dei pregi è l’evitare i luoghi comuni, lo stare lontano dagli episodi della cronaca e non essere indulgente con nessuno, a cominciare da certe battute ciniche che si scambiano i due nuovi amici. Teodoro e Aman si riconoscono su dolori esistenziali che li accomunano e li portano a capirsi al di là delle differenze, più generazionali (la disillusione di uno contro le speranze e l’esuberanza dell’altro) che di provenienza.
In rete di Arturo Di Corinto
Libera rete in libero stato Il pluralismo e la libertà d'informazione non abitano in Italia. E questo accade non solo per l'abnorme conflitto d'interessi che riguarda il suo premier, ma perché da sempre i mezzi d'informazione italiani sono soggetti alla pesante influenza dei propri editori, alle dinamiche perverse della raccolta pubblicitaria e alla scarsa cultura democratica dei legislatori. Le redazioni giornalistiche del servizio pubblico radiotelevisivo sono lottizzate dai partiti mentre quelle di radio e tv private sono selezionate in base a criteri familistici e clientelari. Nelle redazioni regnano indiscussi la censura e il conformismo preventivo, e le schiene dritte sono sempre di meno. C'è un'alternativa all'informazione blindata che si chiama Internet. Grazie alla rete ognuno può diventare editore di se stesso e anche piccole testate giornalistiche possono competere con i grandi gruppi quando riescono a trovare la strada verso il proprio pubblico di “prosumer”, produttori e consumatori d'informazione. Proprio per questo Internet disturba, e i legislatori sono sempre al lavoro per limitarne uso e portata. Come se già non bastasse il digital divide a creare gli “information rich” e gli “information poor”. Negli ultimi mesi il Parlamento e il Governo italiani si sono distinti in una campagna strisciante per limitare la libertà della comunicazione in rete. Proposte come quella di chiudere interi siti contenenti una sola frase ingiuriosa, o quelle volte a impedire l'anonimato in rete, a trasformare i provider in sceriffi digitali per individuare i potenziali criminali del peer to peer, hanno trovato il proprio corollario nel “Ddl intercettazioni”. Ripescando una norma fascista, nella proposta del ministro Alfano c'è infatti un articolo volto a obbligare ogni sito informatico a rettificare entro 48 ore le proprie informazioni, pena una multa fino a 12.500 euro, come accade per le testate giornalistiche registrate, ma senza che i siti ne abbiano le tutele e i finanziamenti, mettendo una pesante ipoteca al diritto, dovere, piacere, di produrre informazione amatoriale. In aggiunta a tutto questo, è ricominciata in Europa la battaglia sul famigerato Pacchetto Telecom, che ha l'obiettivo palese di ridisegnare il quadro comunitario delle telecomunicazioni favorendo ancora una volta le grandi compagnie e ridisegnando l'accesso ai servizi in rete su base censitaria. Attaccando uno dei pilastri su cui si è sempre fondata la democrazia di Internet: la net neutrality, cioè l'uguaglianza di accesso ai suoi contenuti, i grandi carrier di telecomunicazioni puntano a creare una rete a due velocità in base alla capacità di spesa di ognuno: solo se paghi vai veloce e scarichi tutto. Alla faccia della libertà. 29
Per saperne di più AFGHANISTAN LIBRI STEVE COLL, «La guerra segreta della CIA», Rizzoli 2004 Da venticinque anni, l'Afghanistan è il campo di battaglia dove si svolgono le guerre occulte dei servizi segreti. A partire dall'invasione sovietica, la moderna versione del "grande gioco" ha avuto per protagonisti la Cia, il Kgb, l'Isi pachistana e i servizi sauditi, tutti disposti a riversare armi e denaro sulle fazioni afgane in lotta, istituire campi di addestramento per guerriglieri, manipolare alleanze e scelte strategiche. Questo volume ricostruisce la storia di questa guerra e il ruolo della Cia nelle vicende afgane, il suo iniziale sostegno a Bin Laden e, in seguito, i tentativi di catturarlo e ucciderlo. ELISA GIUNCHI, Afghanistan. Storia e società nel cuore dell'Asia, Carocci, Roma 2007 Il cammino che ha portato una confederazione tribale collocata in un’area povera di risorse naturali e priva di sbocchi al mare a trasformarsi in uno Stato situato al centro dei calcoli geopolitici ed energetici mondiali. Dall'analisi storica emergono alcuni elementi ricorrenti - la debolezza dello Stato centrale, la polverizzazione del potere secondo logiche particolaristiche, le interferenze di piccole e grandi potenze che oggi ostacolano la trasformazione della società afgana secondo il modello di democratizzazione adottato, sul finire del 2001, alla conferenza internazionale di Bonn. JASON ELLIOT, «Una luce inattesa. Viaggio in Afghanistan», Neri Pozza, Milano 2007 Un bestseller negli Usa, frutto di due lunghi soggiorni del noto autore britannico di racconti di viaggio nella tormentata e meravigliosa terra afgana, prima del 2001. Dopo aver tentato di attraversare il territorio Hazara, dove nemmeno un pollo può passare senza essere preso a fucilate, Elliot penetra all'interno dell'Afghanistan, a Faizabad nel nord e a Herat a ovest. L'aspetto caratterisco del volume è senza dubbio la descrizione degli usi e dei costumi delle diverse etnie, dei paesaggi mozzafiato e del Sufismo, la dottrina spirituale più elevata dell'Islam. SIBA SHAKIB, «Afghanistan, dove Dio viene solo per piangere», Piemme, Milano 2008 Siba Shakib, regista e documentarista, racconta la storia di Shirin-Gol che viveva, da bambina, in uno sperduto villaggio afgano sulle montagne dell'Hindu Kush. Poi arrivarono i russi e iniziò una guerra stupida che si portò via padri, fratelli, mariti. Da allora Shirin-Gol non ha smesso di fuggire: dalla fame, dalla miseria, dalla negazione dei più elementari diritti umani, dai soldati dell'Armata Rossa, dai Mujahedin, dai Talebani, da decenni di efferate faide fratricide che hanno devastato l'anima del suo paese. Data in moglie a quattordici anni per onorare un debito di gioco ha dato alla luce i suoi figli, ha lottato per la sua famiglia, ha imparato a leggere, a scrivere, a pensare. MAURIZIO MORTARA, «Afghanistan. Dall’altra parte delle stelle», Editrice Impressioni Grafiche, Alessandria 2009 L'autore, che ha lavorato negli ospedali di Emergency in Afghanistan, racconta la realtà contemporanea di quel paese e del suo popolo attraverso un resoconto pacato di un’esperienza umanitaria coraggiosa e commovente. HUSSAIN NAZARI, Mi brucia il cuore! Viaggio di un hazara in Afghanistan, e ritorno. Edizioni Seb27, 30
Torino 2009 L’autore racconta la sua storia di immigrato afgano fuggito in Italia per scappare dalla guerra, il drammatico viaggio della speranza verso Occidente, ma soprattutto quello di ritorno nel suo paese, per ritrovare dopo sette anni la madre e condurla al sicuro.
FILM PETER MACDONALD, «Rambo III», Usa 1988 Il terzo film della saga guerrafondaia hollywoodiana, sponsorizzata dall'amministrazione Reagan, merita di essere rivisto come documento storico e spunto di riflessione per compiere un raffronto tra presente e passato. Sylvester Stallone combatte a fianco dei guerriglieri afgani (all'epoca chiamati "combattenti per la libertà") impegnati nella jihad antisovietica insegnando loro come sconfiggere un potente esercito d'occupazione. Lezione che oggi quegli stessi guerriglieri (ora chiamati "insorti" o "terroristi") mettono in pratica contro i nuovi occupanti, commilitoni di Rambo. SIDDIQ BARMAK, «Osama», Afghanistan/Giappone/Irlanda 2003 E' la storia di una bambina, di sua madre e di sua nonna, nel cupo Afghanistan dei talebani. Le tre donne sono condannate, dalla giungla di pregiudizi e proibizioni, alla morte per fame. Lo stratagemma è allora quello di tagliare i capelli alla più giovane, vestirla con abiti maschili e ribattezzarla Osama perché abbia la speranza di trovare lavoro e mantenere la famiglia.
SITI INTERNET http://www.foreignpolicy.com/afpak Sito gestito dalla famosa rivista statunitense Foreign Policy, dedicato alla guerra in ‘Afpak’, con interessanti articoli di approfondimento. http://www.e-ariana.com Questo sito afgano, prodotto dall'emittente televisiva Ariana di Kabul, offre una raccolta sempre aggiornata di articoli di informazione e approfondimento apparsi sulla stampa locale e mondiale sui temi della guerra, della politica e della società afgana. http://www.unodc.org/afg/index.html Sul sito ufficiale dell'Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e la Criminalità (Unodc) è possibile consultare tutti i rapporti annuali e stagionali dell'Onu sul della produzione e il commercio dell'oppio in Afghanistan.
MONGOLIA LIBRI ANONIMO, Storia segreta dei mongoli, TEA, 2000 Un classico. I mongoli che raccontano i mongoli, nella stesura di un anonimo del XIII secolo. E' la saga di Temüjin, cioè Gengis Khan, attraverso amori e battaglie, nascite e morti. L'unico, autentico, racconto epico del popolo mongolo, al pari dell'Iliade, delle chansons de geste o della Canzone dei Nibelunghi. La storia è "segreta" perché doveva essere riservata all'esclusiva lettura della famigia reale, per fortuna non è andata persa. Taglio estrememente realistico e, per questo motivo, assai verosimile. JIANG RONG, Il totem del lupo, Mondadori, 2006 E' Mongolia Interna (Cina), ma sempre Mongolia. Alcuni studenti pechinesi, inviati nella Mongolia Interna per “rieducarsi” come pastori ai tempi della Rivoluzione Culturale, compiono un percorso iniziatico al cospetto del re della prateria: il lupo. Odiato, amato, soprattutto rispettato, il lupo è il nemico ma
anche il totem dei nomadi mongoli, che gli affidano la tutela dell’ecosistema e finanche il proprio ultimo viaggio, quello verso il Tengger, il Cielo degli antenati. Il booktrailer, lo trovate qui: http://www.youtube.com/watch?v=6MxP_Z-MR3g
FILM BYAMBASUREN DAVAA, LUIGI FALORNI, La storia del cammello che piange, Germania–Mongolia, 2003 Storie nomadi. La cammella di una famiglia del Gobi partorisce un cucciolo albino, poi si rifiuta di allattarlo. Con pazienza infinita, i pastori le provano tutte per attaccare il cammellino ai seni della madre, finché sono costretti a ricorrere a un rito dei monaci lamaisti: nulla da fare. Dove non potè la religione, potè la musica: due ragazzini vengono spediti a cercare un suonatore di morin-khuur (violino mongolo) per compiere un rituale a base di musica folk. Sarà lui a riconciliare madre e figlio cammelli. Emozionante la presa diretta del parto della cammella, interessante il contrasto tra la Mongolia tradizionale e la modernità rappresentata dalla televisione. SERGEI BODROV, Mongol, Russia-KazakhstanGermania-Mongolia, 2007 La storia di Temüjin, dalla scelta in tenerissima età della prima consorte, Borte, fino alla riunificazione delle tribù delle steppe, pronto per conquistare il mondo. Filmone storico ben costruito, cast internazionale (Gengis adulto è Tanadobu Asano, giapponese) plurinominato e anche premiato. Qualche palese falso storico ci consegna un Temujin fin troppo giusto ed equanime con sottoposti e nemici. Ma il film è un ottimo bigino di storia del “Khan Oceanico”e, soprattutto, è divertente.
SITI INTERNET http://ubpost.mongolnews.mn/ UB Post, l'unico settimanale in lingua inglese indipendente della Mongolia. Udite, udite, c'è anche la versione del sito in italiano. E' proprietà del Mongol News Media Group, che controlla anche il quotidiano Onoodor. http://www.montsame.mn/ Sito dell'agenzia stampa di Stato, parzialmente in inglese. http://www.soyombo.it/ Associazione culturale per la diffusione della cultura mongola, con sede a Milano. Ottima introduzione al Paese e blog aggiornato (http://soyombo.splinder.com/) per seguire tutte le novità sulla Mongolia. Nel sito è reperibile anche un utile frasario italo-mongolo curato dall'associazione stessa. http://mongolianartist.com/ Notizie sulla Mongolia pescate da tutto il mondo, il nome non inganni: non c'è solo arte, ma tutte le sezioni di un vero giornale. Purtroppo, ultimamente non sembra aggiornato con regolarità.
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