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mensile - anno 4 numero 10 - ottobre 2010

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Parigi ban-lieu I volti di Lampedusa Carcere, il volto della società Usa Il cocktail della Morte Paraguay Soia di classe Cina Shanghai underground Migranti I forzati di Gel’alo

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

Italia

Portfolio: Unione europea, confine est



La pace non è semplicemente un obiettivo al quale tendere. La pace è il mezzo attraverso il quale raggiungere quell’obiettivo. Martin Luther King

ottobre 2010 mensile - anno 4, numero 10

Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Christian Elia Luca Galassi Alessandro Grandi Benedetta Guerriero Enrico Piovesana Nicola Sessa Stella Spinelli

Hanno collaborato per i testi Nicola Aporti Blue & Joy Sara Chiodaroli Gabriele Del Grande Arturo Di Corinto Nicola Falcinella Licia Lanza Paolo Lezziero Antonio Marafioti Alberto Tundo

Progetto grafico Guido Scarabottolo Oliviero Fiori Segreteria di redazione Silvina Grippaldi

Hanno collaborato per le foto Nicola Aporti Sara Chiodaroli Filippo Massellani Amedeo Novelli/Witness Journal Alessio Maximiliam Schroder

Amministrazione Annalisa Braga Redazione e amministrazione Via Bagutta 12 20121 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net

Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Bagutta 12 - 20121 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07

Foto di copertina: Stampa Graphicscalve Bambini nel quartiere Karl Marx Loc. Ponte Formello - 24020 di Bobigny, Parigi 2010. Foto di Vilminore di Scalve (Bg) Luca Galassi©PeaceReporter Finito di stampare 30 settembre 2010 Pubblicità Via Bagutta 12 20121 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net

L’editoriale di Maso Notarianni

Emergency e la politica anno un grande lavoro, quelli di Emergency, certo che se stessero in silenzio come fanno tutti...”. Oppure: “Emergency? Sono bravi, ma fanno politica”. Ma Emergency fa o non fa politica? Sullo statuto della associazione, si legge che gli scopi di Emergency sono due: la cura e la riabilitazione delle vittime della guerra e della povertà e la diffusione della cultura di pace. “Lavoriamo ogni giorno per smettere di esistere”, dicono spesso i suoi rappresentanti più autorevoli. E questo lavoro, che ha come fine ultimo quello di fare in modo che l’uomo - finalmente - abolisca la guerra, si può fare solo raccontando quello che la guerra è e che quasi nessuno dice: uno strumento barbaro, un crimine contro l’umanità che “puzza di sangue e merda”. Ma questo, oggi non basta più. Perché la cultura della guerra ci ha in larga parte conquistati. Perché è diventato tollerabile, anzi normale, che delle persone vengano buttate a mare mentre scappano dalla miseria, dalla persecuzione politica o da un conflitto. È tornato normale che si deportino persone solo perché appartengono ad una cultura e ad una razza (questo è quel che si pensa) diversa dalla nostra. È diventato normale e tollerabile che nelle galere del nostro Paese si muoia senza spiegazioni sensate. È diventato normale che un signore si svegli la mattina e dica che un contratto nazionale sia carta straccia che per lui non vale nulla. È diventato normale che nelle nostre scuole pubbliche non ci siano i fondi per comprare la carta igienica, per pagare i supplenti o gli insegnanti di sostegno mentre i padroni delle scuole private si arricchiscono con i fondi pubblici. Ed è normale, a volte persino auspicabile come in Puglia, che i padroni della sanità privata lucrino sui bisogni di chi soffre. Per questo parlare degli effetti della guerra non basta più. E per questo Emergency ha deciso di parlare di diritti e di uguaglianza con il Manifesto che pubblichiamo a pagina 28. Ben venga dunque una associazione che faccia Politica, se questo si intende con le accuse che si rivolgono a Gino Strada. Politica con la p maiuscola, mentre nei palazzi del potere si gioca a Monopoli© fregandosene bellamente dei problemi e dei bisogni dei cittadini. Ben venga chiunque ci ricordi che non può esistere la libertà senza l’uguaglianza, come avevano già capito i rivoluzionari di Francia. Non è un caso che i grandi mezzi di comunicazione - di questa o quella parte politica - abbiano scelto di ignorare le prese di posizione di Emergency: il potere ha paura. E quando il potere ha paura non si può che essere contenti.

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USA a pagina 14

Francia a pagina 4

Cina a pagina 20

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Italia a pagina 10 e 22

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Eritrea a pagina 24

Paraguay a pagina 18 3


Il reportage Francia

Ban-lieu di Luca Galassi

“Qui non è tutto negativo. No, non è per niente tutto negativo”. Jonathan Fourdrinier ha ventidue anni. È di ceppo bretone, quasi una rarità in banlieue. Gioca a rugby, ma nei modi e nell’aspetto non ha alcuna asprezza. Solo quella forza interiore, che si legge nello sguardo, che si costruisce quando l’infanzia e l’adolescenza sono state vissute in strada. a sua infanzia Jonathan l’ha passata al Karl Marx di Bobigny, settecentocinquanta appartamenti per duemilaseicento abitanti, torri di cemento e mattoni rosa e bianchi, a mezz’ora da Parigi. Anche questa è una Zus, una zona urbana sensibile, degradata e con alti livelli di disoccupazione, criminalità e violenza. “Vivere qui forgia il carattere - racconta Jonathan mentre ripercorre i luoghi della sua infanzia - e al Karl Marx ho imparato più di quanto avrei fatto in un tranquillo quartiere del centro. Sono molto fiero di essere di qui. Qui ho le mie radici. E qui tornerò ad abitare, nonostante i problemi”. Camminiamo tra le torri con Jonathan. Passata la scuola (“una buona istruzione, eravamo tutti diversi ma il professore riusciva a tenerci tutti uniti”), ci avviciniamo al parco giochi, dove ragazzini non ancora maggiorenni si divertono attorno a un tavolo da ping-pong in cemento. Pochi bianchi, poche bambine. I giovani, ricorda Jonathan, hanno voglia di parlare, vogliono che si parli con loro. Ma quando, con cautela e riguardo, chiediamo a tre ragazzi sui vent’anni cosa ne pensano della vita nel quartiere, si sentono dei ‘che palle’, ‘rompicoglioni’, ‘giornalisti di merda’. Prima di andarcene, uno di loro, il capo, uscendo dalla macchina fa: “Aspettate, fateli parlare”. Vinta la diffidenza, i tre, dietro indicazione di Jonathan, spiegano perché qui “non è tutto negativo”. “La verità è che abitare qui non è facile - dice il capo, che non vuole rivelare il nome -, finché si è bambini ci si diverte, li vedi quelli lì che giocano, e chi li ammazza... Finché non diventi grande è una pacchia. Poi bisogna arrangiarsi. Non c’è lo stile di vita del sedicesimo (arrondissement, ndr), ma insomma, ci si arrangia. Siamo fieri di vivere qui”. Jonathan li imbocca: “Anch’io sono fiero di venire dal Karl Marx, me ne sono andato per studiare, ma rimango orgoglioso di provenire da questo luogo”. Uno dei tre raccoglie la palla e prosegue: “Un ragazzo che se la cava qui vale diecimila volte un ragazzo che viene da Parigi. Noi siamo stati allevati nel cemento, abbiamo mangiato cemento. Loro hanno assaggiato la roba dei ricchi. Quando ce la caviamo, noi ce la caviamo per sempre, e ce la caviamo tutti”. “Studiate ancora?”, chiedo. “No, abbiamo smesso. Per frequentare la scuola bisogna andare a Epinay, un’ora da qui. Non vogliamo andare via dal nostro quartiere solo perché dobbiamo studiare. Preferiamo restare qui”. “Se poteste farlo, ve ne andreste da Bobigny?” - “Qui è solo un problema di soldi, tutti vogliono i soldi, se ci sono i soldi i problemi scompaiono”. “Con i soldi andresti via?” - “No, starei a vivere qui, qui mi sento bene. Se avessi i soldi farei andar via i miei genitori”. “Non si trovano bene?” - “Non è il paradiso, per loro. Altrove potrebbero riposare di più. Se vuoi riposare e senti rumori di moto, o un rumore di armi, che fanno un casino pazzesco, se ti si rompe l’ascensore e abiti al diciottesi-

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mo piano, e loro abitano al diciottesimo piano, come cavolo fai? Non c’è assistenza, non ci sono le istituzioni”. Il carattere delle banlieues si declina sulla toponomastica. Tutti sanno cosa ci si può aspettare girando di notte a Tremblay, a Bobigny, a Villiers le Bel. Ma chi abita questi luoghi si affanna a sdrammatizzare, a disinnescare. Molti lavorano affinché l’equazione si rovesci, e la banlieue non sia più condannata al suo destino di periferia dell’impero. Purtroppo non sono le istituzioni a rimboccarsi le maniche, bensì i residenti stessi. Dopo i moti del 2005 e del 2007, il Plan Espoir Banlieues, l’ambizioso progetto di Fadela Amara, Segretario di Stato con delega alle politiche cittadine, ha dissipato un miliardo di euro per uno sviluppo che non c’è mai stato. o non conosco alcuna associazione che abbia ricevuto un euro in più dopo il 2005”, dice Florence Methia, tecnico del suono. “Non ho la più pallida idea di dove siano finiti i quattrini del Plan Espoir Banlieues”. Florence, antillana, ha fondato una radio in un bâtiment dei quartieri più difficili di Parigi, il Saussaie di Saint-Denis, “Per riabilitarlo, per creare delle attività, perché non muoia”. Femminista convinta, sostiene che la direzione di un’associazione come la sua debba essere composta, come infatti è, prevalentemente da donne. “Le donne hanno autorità, colpiscono i giovani. Per le ragazze, la presenza femminile rende i nostri locali luoghi sicuri, dove sanno che verranno accolte bene, che non saranno discriminate o insultate. Qui vincono il triplo handicap che il genere, l’appartenenza etnica e l’origine sociale frappongono alla promozione e all’affermazione individuale”. Radio Declic lavora da dieci anni con i giovani del quartiere, usando la musica dei ghetti come il rap e l’hip-hop per parlare di questioni di discriminazione, di temi sociali, di precarietà. “Le nuove generazioni hanno problemi identitari. Prendiamo ad esempio le Antille, oggi un dipartimento francese che per molto tempo è stata una colonia. Come si sente un’antillana che è stata fatta venire negli anni sessanta dietro promessa di alloggio e impiego e alla fine si è ritrovata a fare la domestica? È stato perpetuato quel meccanismo di sottomissione che ancora vige nella considerazione della gente di quei luoghi. È accaduto alla prima generazione di immigrati. La seconda è oggi smarrita, sente parlare di Africa e di schiavitù ma non sa bene cosa chiedere, quali rivendicazioni portare avanti. Una rabbia di fondo caratterizza questi giovani, ma l’unico bersaglio è purtroppo la polizia”. Insuccesso scolastico, alti tassi di delinquenza, disoccupazione, abuso e

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Bambini nel quartiere Karl Marx di Bobigny. Francia 2010. Foto di Luca Galassi© PeaceReporter


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spaccio di droga contribuiscono a emarginare, a relegare, a rendere fisicamente distanti dal centro e dalle istituzioni le periferie e i loro abitanti. Mentre Florence racconta sfilano lungo i viali di cemento i palazzi. L’assenza di negozi, di centri culturali, di bar accresce la frustrazione e la sfiducia di chi abita questi luoghi. Il governo centrale è invisibile, lo Stato, quello vero, è un’entità astratta e lontana per la quale molti giovani residenti provano odio, un odio che consuma e distrugge. Perché se lo Stato si presenta solo con la sua faccia più cattiva, quella della polizia, il poliziotto diventa il nemico. E viene fatto oggetto di insulti, sassaiole, tiri d’arma da fuoco. Non solo da parte di criminali comuni, e non solo in risposta a qualcosa. Ma proprio a causa di un odio covato per anni. ra coloro che lavorano per tutelare la propria comunità, in special modo dalle mistificazioni giornalistiche, c’è Christelle Evita, di Villiers le Bel. Vive a Parigi e lavora nell’ufficio stampa di una grande compagnia energetica, ma viene da uno dei luoghi dove nel 2007 polizia e giovani immigrati si fronteggiarono per giorni. Cinque giovani tra i ventitrè e i ventinove anni sono stati recentemente condannati fino a quindici anni di carcere perché ritenuti responsabili delle violenze e del ferimento di decine di poliziotti. La rivolta esplose dopo che due ragazzini si schiantarono in moto contro un’auto della polizia. Gli agenti vennero scagionati, mentre i presunti responsabili dei moti sono stati condannati grazie a testimoni anonimi, che molti ritengono essere stati pagati per dichiarare il falso. Per questo, a Villiers si è parlato di un processo di classe, terreno ideale per applicare sanzioni esemplari, nel solco delle politiche ultra-securitarie adottate per vent’anni da tutta la classe politica francese, sia di destra sia di sinistra. Christelle ha fondato un’associazione che analizza il comportamento dei media nella trattazione di eventi come quello del 2007. “La gente deve sapersi difendere dai giornalisti. Noi aiutiamo i giovani a decriptare l’immagine mediatica, a subirla di meno, insegniamo loro a essere preparati quando si trovano davanti un microfono o una telecamera. L’associazione si chiama Influences, l’ho fondata con mia sorella e alcuni amici di Villiers”. Anni addietro, ci viene spiegato, la geografia della periferia era diversa. Oggi, in qualsiasi luogo può accendersi una miccia. Una volta era Sarcelles, contigua a Villiers le Bel, il luogo che, al solo nominarlo, evocava terrore. Si diceva ‘Villiers le Bel, vicino a Sarcelles’. Oggi è invece ‘Sarcelles, vicino a Villiers le Bel’, in un’inversione sintattica che ne esalta la cattiva fama. “È questa nomea a precederci - spiega Christelle - l’immagine del nostro quartiere sarà ancora per lungo tempo macchiata dagli eventi del 2007. I media hanno fatto tanto per rovinarla. Per questo l’ostilità nei confronti dei giornalisti non si attenuerà mai. I media ne sono affascinati perchè la banlieue popolare fa vendere. Fa vendere perché lì si consumano delle mini-guerre, e da sempre la guerra attrae morbosamente i giornalisti. Oggi, per un giornalista, è impossibile recarsi lì senza rischiare. Io non vi porterò lì, né vi farò conoscere i miei amici. Non vi farò conoscere il mio quartiere perché ho fatto un patto con i miei concittadini”. Nella sua durezza, Christelle sa che non tutti i media sono uguali, ma non si fa convincere. Le comunichiamo che andremo lì da soli, a nostro rischio e pericolo. Alza le spalle come a dire: fatti vostri. Un’ora dopo, mentre riflettiamo se davvero sia il caso di prendere la Rer, il treno suburbano che collega tutta l’Ile de France, per sbarcare in un posto che non abbiamo mai visto senza tutele, protezioni o contatti, riceviamo una telefonata : “Sono la sorella di Christelle, domani siete invitati nell’ufficio di gabinetto del sindaco di Villiers le Bel, dove lavoro. Potrete parlare con qualcuno del luogo e girare per il quartiere”. Forse nella diffidenza di Christelle verso i giornalisti si è aperta una crepa. O più probabilmente ha davvero diffidato del fatto che, non essendo embedded, andando a Villiers da soli avremmo potuto fornire esattamente quell’immagine viziata e preconcetta che lei e la sua associazione tentano quotidianamente di smontare. Il centro di Villiers le Bel è tutto eccetto che degradato. L’edificio comunale su cui campeggia il motto ‘Liberté, égalité, fraternité’ è una casa a tre piani di mattoni rossi con le fioriere alle finestre. Alla fine della strada si staglia la facciata di una chiesa gotica del XIII secolo, poi campi, orti, fiori dappertutto. Accompagnato da Celine, che si presenta, ci sorride Nicolas Carrier, portavoce del sindaco, scusandosi per l’assenza del primo cittadino. È vacanza, e Villiers è deserta. Carrier fornisce un quadro realistico di questo piccolo cen-

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tro urbano. “Questa città è nello stesso tempo uguale e diversa dalle altre. È come le altre perché ha ventisettemila abitanti che conducono una vita normale. Allevano i propri figli, svolgono il proprio lavoro, vanno al cinema. È diversa perché qui la metà delle persone vive in edilizia residenziale popolare. È diversa perché qui c’è il venti percento di disoccupazione. Non c’è una classe agiata. Se sei povero sei il primo a venire colpito dalla crisi. E l’ultimo a uscirne. Villiers le Bel è un concentrato di difficoltà sociali, le carriere scolastiche sono meno fortunate che altrove, quelle lavorative quasi assenti. Qui, rispetto ad altrove, ci sono disuguaglianze alla nascita. Queste diventano disuguaglianze nei destini individuali”. La piazzetta del centro abbandona la sua apparenza bucolica subito dopo l’incontro con il portavoce del sindaco. Veniamo rapinati proprio davanti al municipio. Un ragazzo afferra la sacca con la videocamera e scappa. Lo rincorriamo, ma altri giovani, suoi complici, bloccano la nostra corsa con una bomboletta di gas urticante. Prima di partire, mentre maturavano le idee per il reportage, avevamo pensato di seguire la polizia nelle sortite nei quartieri. Nostro malgrado, veniamo infilati a forza in due macchine con agenti della Crs in borghese. La Crs (Compagnies Républicaines de Sécurité) è la nuova ‘polizia di prossimità’, l’equivalente del nostro poliziotto di quartiere. Un lascito dei governi socialisti, rimodellato da Sarkozy per presidiare le banlieues in tenuta antisommossa. Sono loro che fronteggiano le rivolte. Loro picchiano. E a volte vengono picchiati. nella manciata di secondi del furto e nei successivi quarantacinque minuti di inutile e spavalda caccia al ladro per il quartiere che si è rivelata la triste geografia di povertà di Villiers le Bel, la fatiscenza dei suoi palazzi. In questi due eventi si è dispiegata la dinamica dei rapporti tra poliziotti e residenti, la paura e l’odio reciproci. La paura del giovane che, voltatosi mentre fuggiva con la sacca, si vedeva braccato da due insoliti inseguitori, anziché dai poliziotti. L’odio negli occhi dei giovani adolescenti che fissano gli agenti dagli angoli dei palazzi, promettendogli vendetta per tutte le botte prese, e anche per quelle non prese. La paura di un ragazzo fermato, perquisito e ammanettato senza ragione e infilato a testa bassa nella ‘nostra’ macchina. L’odio dei poliziotti che ci chiedono il colore della pelle dei ladri. “Tutti neri, vero?” - “Sì”. - “Ovvio, tutti neri ‘sti delinquenti”. La paura, nostra, nel sentirci bersaglio, paradossalmente tanto più esposti al pericolo quanto più ‘protetti’ in una macchina della polizia. È quasi sera. Già prendere il treno per tornare a Parigi comunica un senso di sollievo. È surreale poter rientrare nella ville lumière in appena mezz’ora. Due mondi opposti e separati, tra i quali non esiste alcuna barriera geografica. Le banlieues non sono ghetti, ma cantieri. Luoghi dove c’è molto da fare, e molto da apprendere. Banlieue non è solo periferia, mala fama, marginalità. Ban-lieu come luogo del bando, dei banditi. La faccia brutta e cattiva di una capitale scintillante e sontuosa. Banlieue è anche e soprattutto un condensato di contraddizioni, una ragnatela dove sono catturati coloro che sopportano il peso di due grandi ingiustizie: quella sociale e quella razziale. Come già diceva lo storico Fernand Braudel, fondatore della Scuola di alti studi in scienze sociali, “in queste zone la vita degli uomini evoca spesso il Purgatorio, o anche l’Inferno”. Qual è la ricetta per non far sprofondare le banlieues in una spirale che le vuole sempre più vicine all’inferno? Lo abbiamo chiesto al sociologo Robert Castel, attuale direttore della Scuola di alti studi e autore del libro sulle banlieues, “La discriminazione negativa”. “Nel sistema capitalistico - ha spiegato - c’è una relazione asimmetrica del centro con le sue periferie. Questa relazione non è solo un rapporto verso regioni straniere. Il ‘sud del mondo’ della Francia potrebbe essere oggi la banlieue, la faccia in ombra della sua società: povertà, violenza, razzismo, insicurezza sociale e civile. Oggi nella banlieue si giocano sfide che concernono l’avvenire della società francese nel suo insieme. Solo elaborando veramente una Repubblica pluriculturale e plurietnica e solo ripristinando le condizioni per una cittadinanza politica e sociale si potrà scongiurare, definitivamente, la minaccia di una sua secessione dal tessuto sociale del Paese”.

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In alto: I ‘termitai’ di Nanterre. In basso: Municipio di Bobigny. Francia 2010. Foto di Luca Galassi© PeaceReporter


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I cinque sensi di Parigi

Udito Il vociare dei bambini che scorrazzano per le strade dei quartieri, un suono quasi dimenticato nelle grandi città. Nella banlieue la vita si impara in strada, e parla lingue diverse: arabo, wolof, creolo. Lo scoppiettare delle motorette con cui i giovani boss dei quartieri si spostano per controllare il territorio. Lo sferragliare dei vagoni di metropolitana e treni suburbani che coprono tutto il territorio dell'Ile de France, monumento a una mobilità efficiente e razionale ma contemporaneamente paradosso di una divisione, di una distanza: alla libertà di viaggiare dei residenti delle periferie non corrisponde altrettanta libertà di accedere a un lavoro. Nelle destinazioni alla fine delle corse metropolitane si può talvolta scoprire di essere i soli bianchi all'interno del vagone.

Vista Schiere di palazzi edificate negli anni Sessanta per accogliere centinaia di migliaia di ex-cittadini francesi provenienti da un impero ormai sfaldato. Teorie di solidi di cemento ripetute in serie in ogni periferia parigina. La corona che cinge la capitale francese non ha nulla di nobile alla vista. Tutt'altro: uniformi nei colori e nella struttura, le banlieues comunicano un senso di desolazione e di abbandono, destinate, per una precisa scelta urbanistica, ad essere marginali socialmente ancor prima che geograficamente.

Stagliata contro il cielo in una monotona sequela di forme, la banlieue non lascia libertà, imprigiona in una triste uguaglianza e condanna a una parziale fraternità: quella della comunità etnica alla quale si appartiene, dappertutto.

Gusto La cucina delle periferie è la cucina degli immigrati. Reca con sé sapori di ogni angolo del mondo: Marocco, Libano, Antille, Sud Est asiatico. Nei negozi di alimentari, nei ristoranti, come nelle case, si sprigiona l'odore della carne, cotta alla brace, rosolata nei kebap, stufata nei tajin. In ogni periferia si può trovare ogni tipo di cucina. Predomina quella africana, con piatti come il poulet aux plantains, pollo cotto insieme a banane platano precedentemente fritte, il fondo di cottura legato con burro di arachidi. Oppure gli sosaties, spiedini grigliati e serviti in salsa agrodolce. Per dolce, una specialità tipica del Madagscar, le gallette du manioca au rum, frittelle preparate con manioca tagliata a fiammifero, zucchero, burro, vaniglia e rum, e dorate in padella. Un altro dessert tipico africano è l'ananas gratiné, polpa di ananas mischiata ad albume montato, zucchero e aromi e gratinata in forno.

Olfatto Le mille essenze che una comunità multietnica riesce a sprigionare si alternano

nelle vicinanze delle stazioni metropolitane delle periferie. A Bobigny, Saint Denis, Sarcelles, Nanterre, Tremblay en France, La Corneuve, Clichy sous Bois luoghi ad alta densità di immigrati, si diffondono potenti gli aromi speziati della cucina d'Oltremare. Poeticamente, nei mercati rionali, dove gli effluvi dei cibi cucinati fanno da contraltare al profumo del cumino, dello zafferano, del curry, della cannella e del peperoncino. Si possono chiudere gli occhi immaginando un altrove non europeo. Prosaicamente, la periferia colpisce per l'odore del cemento e dell'asfalto. È un odore uguale ovunque, che rimane anche chiudendo gli occhi. Anche lasciando la periferia per sempre.

Tatto La stretta di mano forte e rituale dei ragazzi delle periferie, nel loro saluto tipico che si conclude pugno contro pugno, nocca contro nocca, a sancire l'appartenenza a una comunità. Le treccine, i rasta, i capelli di spuma dei bambini figli di immigrati di seconda generazione, che ad accarezzarli sono soffici e densi come zucchero filato. I ciondoli d'oro, pesanti e levigati, sono ostentati in special modo dai caraibici. Oltre alla forma del Paese di provenienza (Martinica, Guadalupa, Haiti, Guyana Francese, per citarne alcuni), hanno tutti anche il nome inciso sul retro. Ogni lettera è distintamente percorribile al tatto, affinché la profondità del segno rechi con sé un'identità altrettanto profonda: cittadini francesi, ma con le radici al di là del mare. 9


Il reportage Italia

I volti di Lampedusa di Sara Chiodaroli

Lampedusa, zona centro. Via Roma, la strada principale della città, è vicina, ma in questo angolo il brusio della gente e dei turisti che affollano i negozi e le botteghe si fa lontano. iacomo Sferlazzo si annuncia attraversando la soglia della rosticceria dove lavora; dopo poco scompare nuovamente nel buio del locale appena aperto e infine ricompare con un grande schedario blu tra le mani e lo posa ancora chiuso su un tavolo. Inserite accuratamente in cartellette di plastica nuove di zecca, all’apertura del raccoglitore emergono subito due lettere, pagine di una scrittura fitta in alfabeto tigrino, datate 1999. Giacomo, uno dei fondatori di Arci Askavusa, attiva dal 2008, raccolse personalmente gli oggetti personali dei migranti approdati sull’isola tra ciò che restava delle imbarcazioni abbandonate nella discarica della città. Il frutto delle sue ricerche, tra le macerie del mare, si trova ora in queste pagine. In questo baule della memoria si ritrovano fogli di carta segnati da cifre e appunti sparsi, probabilmente coordinate nautiche e riferimenti per i viaggiatori una volta giunti a terra, documenti d’identità poco rovinati dall’effetto della salsedine, dove è ancora possibile leggere i nomi, le date di nascita e i volti dei loro possessori. Sulla copertina di un’agendina telefonica tascabile, un’icona: un giovane Gabriel Batistuta con la maglia viola della Fiorentina, evidentemente un eroe d’oltremare nella sua tenuta in maglia viola, un gadget rappresentativo di un mondo “altro” al quale si vorrebbe appartenere. E ancora pezzi di carta stracciata, dove visibile è solo qualche numero, un indirizzo e-mail lacerato e ormai non più utilizzabile, foto tessere scolorite. È il bianco a prevalere in questo piccolo manuale museale, carta comune usata come supporto per la memoria di dati, ma andando più a fondo si scopre un mondo di colori: splendide fotografie plastificate di famiglia con bordi dalle tinte brillanti, una cartolina nera e indaco raffigurante uno dei nomi di Allah e altro ancora. È Paola La Rosa, avvocatessa civilista, a raccontarmi del lavoro dell’Associazione Arci. Fondata dall’idea di un gruppo di amici, cittadini di Lampedusa accomunati dall’impegno civile e dalla passione per la cultura. La migrazione era, all’inizio, soltanto uno dei temi che venivano affrontati dal collettivo, ma con il passare del tempo ha acquisito sempre maggior forza. È a questo punto che le storie di migrazione sono entrate a far parte dell’attività dell’Arci, cercando di tessere un legame con la popolazione locale stessa in un momento critico come quello del gennaio 2009, periodo in cui il Ministro Maroni prevedeva di costituire un CIE oltre al già esistente Centro di accoglienza temporanea. Quella decisione avrebbe reso l’isola una prigione a cielo aperto modificando totalmente lo stato della breve permanenza dei migranti sull’isola e trasformandola in una sede di espulsione diretta. Memorabile la marcia cittadina del 24 gennaio dello stesso anno alla quale aderì trasversalmente l’intera comunità, al grido di “no-CIE”, gli stessi migranti che erano fuggiti dal Centro per accorrere dai manifestanti e il sindaco De Rubeis, all’epoca distaccatosi dalle posizioni maroniane di

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Angela Maraventano, sua vice in sede comunale. Paola spiega che l’unione della comunità poggiava sulla consapevolezza che il nemico non erano i migranti, ma “era altrove”, nella politica che andava militarizzando la vita quotidiana della popolazione. È l’incontro con l’ “altro” che può far crescere l’animo di una comunità, ed è da questa idea che nasce l’idea di “Lampedusa in Festival”, concorso cinematografico dedicato alle “migrazioni”, non solo in senso stretto. L’evento, alla sua II edizione, ha ospitato corto-lungometraggi selezionati in sede di concorso, concernenti il tema dell’“Altro” nelle sue varie declinazioni. Lampedusa è isola di passaggio di innumerevoli specie animali provenienti dall’Africa e culla delle piccole tartarughe Caretta, da anni curate e seguite da Legambiente. È terra di incontri commerciali dall’anno 700, periodo in cui l’isola era zona franca per le navi in transito provenienti da luoghi diversi, oltre a essere area obbligata di tregua anche per imbarcazioni provenienti da Paesi in guerra tra loro. Nel XVI secolo il Santuario della Madonna di Porto Salvo, dove era sepolto un marabutto turco, veniva utilizzato come luogo sacro da cristiani e turchi grazie a un eremita che, a seconda della provenienza del fedele di turno, innalzava di volta in volta la bandiera con la mezzaluna islamica o una croce. Le migrazioni di uomini, che hanno caratterizzato tragicamente le pagine dell’isola negli ultimi vent’anni, sono soltanto un aspetto di quello che la storia secolare di accoglienza e di interculturalità ha depositato sulle sue coste. Tuttavia, quello che emerge dalle dichiarazioni degli amministratori municipali, come l’Assessore al Turismo, Pietro Busetta, è una criminalizzazione di fondo del fenomeno migratorio, vissuto dall’isola nel corso degli ultimi anni come origine di una cattiva pubblicità delle isole di Lampedusa e Linosa. L’arrivo dei migranti infatti si sarebbe trasformato in deterrente per il richiamo turistico dell’arcipelago, ed è proprio in virtù di ciò che oggi lo stesso assessore chiederebbe allo Stato un “risarcimento” per ripagare il territorio del danno mediatico. A tal proposito il politico locale propose come indennizzo la costruzione di un casinò e, solo in seconda battuta, la realizzazione di un campo da golf. Curiose le proposte di Busetta, le quali non sembrerebbero considerare le principali mancanze strutturali del territorio, quali l’inefficienza di un sistema fognario capace di andare incontro alle necessità basilari non solo delle migliaia di turisti che l’isola si prefigge di richiamare durante la stagione estiva, ma pure quelle della comunità locale. Mentre la popolazione continua a manifestare l’assenza dei servizi essenziali, tra i quali si aggiungono l’emergenza acqua, lo smaltimento rifiuti e la scuola, la politica mediatica del Ministero dell’Interno sposta i rifletPorta d'Europa, di Mimmo Paladino. Lampedusa, Italia 2008. Foto di Sara Chiodaroli per PeaceReporter


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tori dall’isola, assicurando l’effettiva diminuzione degli arrivi sull’isola di Lampedusa e minimizzando, invece, sugli sbarchi effettivamente verificatisi nel corso dei mesi estivi di luglio e agosto. Paradossalmente, la presenza della Protezione civile nei momenti di picco degli arrivi rappresentava, nel suo carattere emergenziale, l’unica possibilità per vedersi realizzati dei servizi strutturali altrimenti assenti sul territorio. E tuttavia ciò continua ad accadere, come nel caso del progetto di ripristino del depuratore di Cavallo Bianco, in zona Porto, che, ancora una volta, rientrerà nelle mansioni della Protezione Civile e non dell’amministrazione locale. n una delle serate del Festival, tenutosi dal 19 al 25 luglio, Hassan Maamri, responsabile immigrazione di Arci Sicilia, racconta una storia sull’interculturalità popolare degli isolani, riprendendo il lavoro di Chiara Sassi, “Trasite, favorite” (Carta, Intra Moenia, 2009), dedicato a esperienze di accoglienza verso i migranti che alcuni Comuni della Locride hanno scelto di intraprendere integrando rifugiati e richiedenti asilo. Hassan racconta che la cala di Porto Salvo ospita una grotta che, per la posizione favorevole, offre riparo dal vento e dal mare mosso per le imbarcazioni in transito. Da sempre vi si riparavano i pescatori locali e tunisini che si trovavano in difficoltà. Durante le ore di sosta, in attesa di condizioni migliori, la grotta era luogo per riposare e ristorarsi con delle vivande preparate dalle donne per il viaggio dei mariti. Si racconta che i pescatori di passaggio lasciassero sempre qualcosa da mangiare per coloro che sarebbe giunti successivamente. I pescatori siciliani, conoscendo le abitudini alimentari dei compagni tunisini, cercavano di lasciare loro in offerta del cibo privo di carne di maiale. Nel rispetto della cultura del mare che offre incondizionatamente soccorso e aiuto a chi lo richiede, quel gesto traduceva in più un avvicinamento alla cultura dell’ “altro”, risultato della pratica quotidiana dell’incontro. Arci Askavusa è promotore di un progetto che prevede la realizzazione di un Museo delle Migrazioni, diretto a ospitare i volti degli innumerevoli viaggiatori che hanno poggiato i loro piedi o le loro ali sull’isola. Oltre a coinvolgere esperienze di tutela paesaggistica e naturale, il museo accoglierà gli oggetti che testimoniano l’arrivo dei migranti. Se un Museo delle Migrazioni potrebbe rischiare di diventare una teca per tracce di esistenze cancellate dal mare, in realtà il proposito dei suoi ideatori è esattamente l’opposto. Quei resti sono “la pelle di serpente”, dice Paola, “di quelli che ce l’hanno fatta”, di coloro che si sono salvati, ma non dal mare, bensì da ciò che le leggi anti-migratorie impongono loro. Quegli oggetti sono il grido di vittoria per una “rinascita”, per un viaggio che è potuto continuare grazie alla costa dell’isola che ha permesso loro di sopravvivere. Quando il viaggiatore approda da un viaggio agonico in mare, per prima cosa abbandona la sua seconda pelle, i vestiti bagnati, scomodi per l’umidità accumulata e segno di un trasbordo avvenuto da una sponda all’altra di due mondi. Ciò che resta di questo abbandono sono le tracce che si possono recuperare sulle coste del Sud dell’Europa, Canarie, Andalusia, Sardegna, Puglia, gesto iniziatico fondamentale per l’approdo verso una nuova esistenza. Altra occasione di riflessione intorno a quanto questo luogo sia attraversato dagli oggetti della memoria è il cimitero delle barche, o meglio i cimiteri. L’isola ne ospita due: uno, nonché il primo a essere così definito, si trova accanto al Porto Nuovo e a oggi ospita due barche appartenute a sette pescatori tunisini che, nell’agosto del 2007, avevano soccorso in mare dei migranti in difficoltà, a trentasei miglia dalla costa lampedusana. Una volta giunti a terra, i due furono accusati di favoreggiamento all’immigrazione clandestina e furono confiscate loro le barche in attesa della risoluzione del processo; tuttavia, nonostante l’assoluzione, quel che resta delle imbarcazioni giace sotto il sole abbandonato, mostrando ancora vividamente le scritte in arabo dei proprietari. Dove invece si possono trovare i resti delle carrette del mare, trasportate dalle amministrazioni pubbliche per via della quantità e per via dei lavori di smaltimento, è la discarica situata in Contrada Imbriacole, nel centro dell’isola. Percorrendo la strada panoramica che costeggia la costa nord-occidentale, tra muretti a secco, campi di ulivi e distese di pietra bianca, accecante per il sole di mezzogiorno, si giunge a una strada in discesa dalla quale si iniziano a intravedere cumuli indistinti di macerie e rifiuti accatastati.

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È Vito Giordana a guidare l’entrata in questo insolito luogo della memoria. Una vita trascorsa sui pescherecci in acque mediterranee e atlantiche, come la Brasilia Quinci, nota nella memoria storica dei lampedusani, per aver dato lavoro fino alla fine degli anni sessanta ai giovani dell’isola. Tre mesi di alto mare, direzione Marocco, grazie alla ricchezza delle sue coste atlantiche, unica tappa intermedia a Las Palmas nelle Canarie; una volta fatto il carico di pescato si rientrava in Sicilia. Dopo altri anni trascorsi a lavorare come carbonaio, ora Vito svolge il servizio di guardiano in discarica. Davanti a una catasta imponente di assi di legno, ciò che resta di alcune imbarcazioni demolite, sono visibili una decina di barche quasi intatte di varie dimensioni. Ci troviamo nel cuore dell’isola, il mare è lontano, eppure il blu di queste assi richiama senza ritegno il loro habitat naturale. “Barche robuste” dice Vito, “usate apposta per resistere al mare grosso. Qualcuno avrebbe potuto rimetterle in sesto e fare in modo che venissero riutilizzate, d’altronde, è molto più laborioso e costoso farle demolire”. Vito spiega che per ogni barca da smantellare viene inviata in loco una macchina demolitrice pagata dallo Stato e non dalle amministrazioni locali. Chiacchierando con lui emergono altri particolari curiosi sulla questione rifiuti dell’isola. Sono tre le aziende incaricate alla raccolta e al trasporto dei rifiuti, Sap, Seap e Iseda. L’isola non possiede un inceneritore locale, quindi, la spazzatura dei lampedusani deve essere caricata su camion ed essere trasportata via mare in Sicilia. e imbarcazioni ancora intatte sono come giganti arenati senza vita in luogo che non appartiene loro, la terra e la polvere. Qualche traccia di vita ancora resta ai piedi o all’interno di questi baluardi del mare, un tubetto di dentifricio, bottigliette di plastica con iscrizioni in arabo, coperte e cuscini usati per ripararsi durante la traversata, sacchi colmi di vestiti, ma ciò che di più significativo è stato “tratto in salvo” dell’oblio sono i materiali recuperati e conservati da Giacomo. “L’oggetto trattiene l’emozione di una vita, trattiene energia in base al proprio vissuto”, spiega, “ed è soprattutto attraverso il recupero di oggetti abbandonati in un luogo dell’esclusione, come una discarica, che essi possono riacquisire il potere della loro storia”. Essi troveranno presto un luogo per poter raccontare la storia dei loro possessori nel Museo delle Migrazione progettato dall’Arci. Un archivio della storia contemporanea che tesse un legame imprescindibile tra il nostro passato di emigranti, spesso rimosso nel silenzio, e un presente di accoglienza, ora contrassegnato dalla politica dei respingimenti, ma soprattutto un bagaglio di memoria per i nuovi cittadini italiani di domani. Viaggiando verso il sud dell’isola, a poche centinaia di metri da Cala Francese, da un orizzonte di pietre e mare, emerge la Porta d’Europa, installazione di Mimmo Paladino, dedicata ai migranti in mare. Presentata e inaugurata nel 2008, l’opera è realizzata in rame e ceramica refrattaria e rappresenta una porta aperta verso il cielo. Dal mare, attraverso lo spazio ricavato dall’arco si può guardare la terra, mentre dalla terraferma ci si può vedere il mare. Due volti di uno spazio, che è creato dalla natura nella sua libertà, ma che nello stesso tempo riemerge con ossessione dalle politiche di contenimento migratorio che visualizzano frontiere sempre meno visibili, ma effettive tra luoghi che divisioni non dovrebbero avere. Nonostante le linee di frontiere stabilite dall’uomo questa porta sta a richiamare il rapporto di stretta sorellanza tra mare e terra, nel loro reciproco dare e ricevere. Una porta è pur sempre una struttura delimitativa, ma in questo caso la sua soglia consente di essere attraversata nei due sensi, annullando l’effetto della linea di confine evocata. A decorare le due superfici parallele dell’opera ci sono riproduzioni di oggetti, scarpe, scodelle, cappelli, utensili. Ancora una volta è l’oggetto a esprimere l’esistenza dei migranti, in tal caso, cancellata dalla furia del mare. Il monumento è stato eretto, infatti, in memoria di coloro che sono morti in mare, ma traslando i racconti di Paola e Giacomo, anche questi oggetti potrebbero essere guardati non come tracce di non-esistenze, bensì come strumenti di vita per coloro che invece sono riusciti ad approdare sull’isola e che hanno potuto proseguire il loro viaggio.

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In alto: Barche e rottami in discarica. In basso: Dentro una barca Lampedusa, Italia 2010. Foto di Sara Chiodaroli per PeaceReporter


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La storia USA

Il cocktail della Morte di Antonio Marafioti

La guerra in Iraq è finita da due mesi ma c'è chi, fra i soldati statunitensi, rischia ancora di morire. In patria. Il terribile nemico si chiama Ptsd (Disturbo post-traumatico da stress) e colpisce coloro che tornano dal fronte. a malattia in sé non è mortale. Le medicine prescritte dai medici dell'esercito per contrastarla, sì. È quanto si apprende da una serie di decessi sospetti che hanno coinvolto in poco meno di un decennio centinaia di militari Usa curati con cocktail di farmaci in cui era presente l'antipsicotico “Seroquel”, prodotto dal colosso farmaceutico inglese AstraZeneca. Fra i “figli della patria” curati col Seroquel c'era anche Andrew White, ex marine, di ventitré anni di Cross Lane in West Virginia. Al ritorno da una missione di nove mesi in Iraq ad Andrew era stato diagnosticato il Ptsd, provocato, fra l'altro, dalla morte del fratello maggiore Robert, sergente dell'esercito ucciso da un razzo mentre si trovava a bordo del suo Humvee. La terapia quotidiana prescritta dai dottori del Dipartimento Affari dei Veterani (Vad) consisteva in venti milligrammi di Paxil (antidepressivo ndr), quattro milligrammi di Klonopin (benzodiazepina) e cinquanta milligrammi di Seroquel (antipsicotico). Un mix rivelatosi inefficace che aveva portato i sanitari ad aumentarne il dosaggio - invece di interromperlo - fino a raggiungere, solo col Seroquel, milleseicento milligrammi al giorno: il doppio del limite massimo consentito per un paziente affetto da schizofrenia. A poche settimane dall'inizio della cura White manifestava tutti gli effetti collaterali dell'antipsicotico: aumento di peso (diciotto chili), tremori, costipazione grave, rigonfiamento delle ghiandole mammarie, disorientamento, mal di testa e bocca secca. Tutti sintomi che avevano suggerito al suo medico di affidare il giovane alle cure di un endocrinologo per effettuare dei test di accertamento. Andrew White non arrivò mai a quell’appuntamento: i genitori lo trovarono morto nel suo letto la mattina del 12 febbraio di due anni fa. Non fu suicidio, né assunzione di medicinali fuori dalle prescrizioni mediche. Il referto autoptico non poteva essere più chiaro: “Intossicazione accidentale da Seroquel, Paxil e antidolorifici”. Dopo la morte del figlio, Stan e Shirley White hanno iniziato una battaglia mediatica per far luce sul dramma che ha colpito la loro famiglia. “Fa ancora più male perdere un figlio in casa dopo che è tornato sano e salvo dalla guerra”, ha sostenuto Stan, ex preside in pensione. Nelle settimane che hanno seguito la scomparsa di Andrew, altri sei soldati affetti da Ptsd, tre del West Virginia, sono morti nel sonno per intossicazione da mix di farmaci. Anch'essi erano stati sottoposti a “cura standard”. Anch'essi avevano assunto il Seroquel. “Questa è solo la punta dell'iceberg si è detto convinto il signor White”, dobbiamo trovare altri che hanno perso coloro che amavano e sono in cerca di risposte”. Come Andrew, si sono spenti per “morte improvvisa” Eric Layne e Chad Oligshlaeger di anni ventuno. Il primo, dopo aver iniziato la terapia col Seroquel, cominciò a soffrire “d'in-

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continenza, depressione acuta e continui mal di testa - ha raccontato la moglie Janett, il suo respiro era affannoso e accusava attacchi di apnea notturna”. Oligshlaeger, rinvenuto nella sua branda di Camp Pendleton in California, ingurgitava, in base alle cure prescritte, sei farmaci differenti che, in base al rapporto del coroner, ne avrebbero causato il decesso. ono tante le ombre che si addensano intorno al Seroquel approvato nel 1997 dalla Food and Drug Administration (Fda, ente governativo per la regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici ndr). In primo luogo l'impiego, che dovrebbe essere limitato alla cura della schizofrenia. Nel corso degli anni i medici, sotto la pressione dei rappresentanti di commercio dell'azienda, hanno iniziato a firmare prescrizioni “offlabel” (fuori dall'uso previsto) allargando di fatto la cura a patologie come l'insonnia, la depressione e, ovviamente, il Ptsd. Una pratica, questa, che ha anche fatto balzare alle stelle le vendite del farmaco dall'inizio della guerra in Afghanistan. Secondo prodotto più venduto della AstraZeneca, gli incassi del commercio del Seroquel hanno toccato nel 2009 quota 4,2 miliardi di dollari negli Stati Uniti. Solamente nella lista dei farmaci più acquistati dal Vad il Seroquel si è piazzato al secondo posto, dopo l'antiaggregante Plavix, con 125,4 milioni di dollari contro i 14,4 milioni del 2001. A favore delle vendite - più settecento percento dal 2001 - ha giocato una strategia di promozione spinta oltre i limiti della legalità e che, in tredici anni, ha portato a otto scandali per corruzione. Basti ricordare per tutti il caso di Richard Borison, ex capo di psichiatria al Charlie Norwood Medical Center, che ha perso la sua licenza medica, è stato multato di 4,26 milioni di dollari ed è finito in prigione per essere stato coinvolto in una truffa sugli studi originali del Seroquel. A poco sono servite le decine di migliaia di denunce che hanno, comunque, costretto l'azienda londinese a sborsare 520 mila dollari per comporre una causa contro il governo degli Stati Uniti e aggiustare il tiro sui pericoli riguardanti l'assunzione del farmaco. Niente, invece, hanno appreso le autorità sanitarie della morte di Rebecca Riley, una bambina di quattro anni del Massachusetts curata col farmaco in questione. Oltre ad aver permesso che il Seroquel venisse usato per curare uno spettro di malattie sempre più ampio, l'Fda non si è minimamente opposta all'operato dell'AstraZeneca che lo scorso dicembre ha silenziosamente, e unilateralmente, approvato la terapia per bambini tra i dieci e i diciassette anni affetti da manie bipolari e per quelli tra i tredici e i diciassette anni malati di schizofrenia.

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Foto archivio PeaceReporter


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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

Filippine

Russia-Georgia

Le buone nuove

Speranze di pace a Mindanao

La guerra del Pacifico

Argentina: ritrovato un altro nipote

avvento al potere del nuovo presidente filippino, Benigno 'Noynoy' Aquino, ha aperto nuovi spiragli di pace nel sud musulmano dell'arcipelago, da oltre trent'anni teatro di una guerra civile che ha causato almeno centocinquantamila morti. Dopo quasi dieci anni di stallo negoziale, culminati nei sanguinosi scontri armati del 2008, il processo di pace tra il governo cristiano di Manila e gli indipendentisti islamici del Fronte Moro di Liberazione (Milf) sembra sul punto di ripartire. Il capo-negoziatore dei ribelli musulmani, Mohagher Iqbal, ha annunciato la volontà del Milf di riprendere al più presto i colloqui di pace. Tra le due parti si sono già tenuti incontri preliminari per verificare la possibilità di superare l'ostacolo che due anni fa aveva definitivamente affossato i negoziati: la questione territoriale. Nel 2008 la firma del trattato di pace sembrava a portata di mano: dopo estenuanti trattative, la presidente Gloria Macapagal Arroyo si era dichiarata pronta a concedere al Milf il riconoscimento dell'autonomia del cosiddetto 'Dominio Ancestrale', ovvero di tutto il territorio storicamente rivendicato dai Moro (i musulmani filippini), comprendente la parte meridionale e occidentale dell'isola di Mindanao, l'arcipelago di Sulu e l'isola di Palawan. Un'area geografica ben più estesa della Regione Musulmana Autonoma di Mindanao (Armm), già concessa agli indipendentisti nel 1989 e comprendente solo l'arcipelago di Sulu e tre distretti occidentali di Mindanao. Su pressione degli influenti proprietari terrieri cristiani di Mindanao e dei vertici militari nazionali che con la fine del conflitto temono di perdere la loro influenza politica e i loro loschi affari - la Corte Suprema di Manila aveva decretato l'incostituzionalità di qualsiasi accordo che prevedesse una tale cessione di sovranità territoriale. L'ennesimo fallimento del negoziato aveva scatenato la reazione delle frange più irrequiete del Milf, provocando la ripresa degli scontri armati tra esercito e guerriglieri: in pochi mesi si erano avuti oltre quattrocento morti e settecentocinquantamila sfollati.

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Ha 32 anni e ha appena scoperto la sua vera identità attraverso l'analisi del Dna: si tratta di un giovane figlio di desaparecidos, uccisi durante la dittatura argentina (1976-1983). L'organizzazione Abuelas de Plaza de Mayo ha così identificato il bambino numero 102, risalendo alla sua vera identità. Il nome del giovane non è stato pubblicato, perchè secondo quanto affermato dalla presidentessa dell'organizzazione, Estela Barnes de Carlotto, sta 'metabolizzando' la notizia. Il ragazzo è un avvocato specializzato in temi ambientali, e lavora come impiegato statale. Il giovane è nato nel novembre 1977 nei locali dell'Esma, la scuola per la formazione degli ufficiali della marina argentina che durante il regime si trasformò nel maggior centro di detenzione illegale e tortura. Gli esami genetici sono terminati con il 99,99 percento di certezza che i suoi genitori siano Maria Graciela Tauro e Jorge Daniel Rochistein, sequestrati nel 1977 quando la donna era al quarto mese di gravidanza.

Botswana: no ai licenziamenti per Aids Un emendamento all'Employment Act sancisce l'illegalità della prassi per cui i lavoratori omosessuali o affetti da Hiv vengono licenziati. Stop ai licenziamenti legati all'orientamento sessuale o allo stato di positività al test per l'Hiv. È quanto introdotto in Botswana da un emendamento all'Employment Act. Esultano gli attivisti per i diritti umani del Paese dell'Africa meridionale. È solo un primo passo, afferma Gadzani Mhotsha, leader del Botswana Federation of Trade Unions (Bftu), l'ombrello sotto il quale si raccolgono le sigle sindacali del Paese: "C'è ancora molto da fare per quanto riguarda il modo in cui è affrontato il tema dell'Aids sul posto di lavoro". Ci vorrebbe una legge specifica, che qualcuno già chiama Hiv/Aids Employment Law. Un passo alla volta. L'emendamento è già una dimostrazione che una consapevolezza del problema comincia a diffondersi. 16

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Enrico Piovesana

auru è la più piccola repubblica insulare del mondo: ventun chilometri quadrati per quattordicimila abitanti, sperduti nel Pacifico meridionale. Detiene comunque un voto alle Nazioni Unite. Il 15 dicembre 2009, il suo ministro degli Esteri, Kieren Keke, riconosceva l'indipendenza dell'Abkhazia - ormai protettorato russo de facto - dalla Georgia. Immediatamente dopo chiedeva alla sua controparte russa, Sergei Lavrov, aiuti finanziari per cinquanta milioni di dollari. Pare infatti che l'export di fosfati prodotti dal guano degli uccelli risorsa principale dell'isolotto micronesiano non tirasse più sul mercato internazionale. Oggi, Tbilisi passa al contrattacco. Il 10 settembre, il vice Primo ministro georgiano, Sergi Kanapadze, ha annunciato l'invio di medicinali “per un valore di circa dodicimila dollari” a Tuvalu, Stato di atolli sparsi per ventisei chilometri quadrati e dodicimila abitanti a nord delle Fiji: fa un dollaro per abitante. E, puntualmente, il 12 settembre, Tuvalu ha votato a favore di una risoluzione dell'Onu che chiede il ritorno nelle repubbliche separatiste di Abkhazia e Ossezia del Sud dei georgiani sfollati ai tempi della guerra del 2008. Kanapadze ha parlato di “assistenza umanitaria per un Paese bisognoso” e ha negato ogni collegamento con l'alzata di mano pro-Georgia, ma di sicuro la caccia ai micro-Stati con diritto di voto è cominciata. La Russia ha però più risorse da spendere e infatti si è già conquistata l'appoggio di pesi massimi come Venezuela e Nicaragua. Oltre a quello della fedelissima Nauru, naturalmente: lo zelante Kieren Keke è perfino volato fino a Tskhinvali, capitale dell'Ossezia del Sud, per incontrare il leader separatista Eduard Kokoity. E ha votato contro il ritorno dei georgiani. Sull'altro fronte, la Georgia - lei stessa meta di aiuti internazionali per 4,5 miliardi di dollari non si dà comunque per vinta e prosegue sulla sua strada: ha già rapporti diplomatici con Maldive, Fiji e Samoa e punta a relazioni con oltre cinquanta Stati membri delle Nazioni Unite. Alberto Tundo


Portfolio

Unione europea Confine est Fotografie di Alessio Maximiliam Schroder, testo a cura di Nicola Sessa

li cigani slovacchi, come i rom serbi, ungheresi o macedoni, hanno rinunciato al nomadismo scegliendo una vita stanziale. Sono per lo più localizzati nella regione orientale di Košice, a ridosso del confine con l’Ucraina. Partendo dalla strada provinciale che da Michaelovce va a est verso Uzhgorod in Ucraina i villaggi zingari si contano a decine. Hanno occupato i “blocchi” di cemento dell’edilizia socialista di stile sovietico lasciati liberi dagli slovacchi che in cerca di lavoro hanno lasciato la depressa area orientale per cercare lavoro a Bratislava o in altri Paesi dell’Unione Europea. Di questo flusso migratorio, in qualche misura, fanno parte anche alcuni giovani cigani, tra i diciotto e venticinque anni, che lasciano le famiglie per lavorare nelle fabbriche dell’ovest o - più raramente - per studiare all’università. La vita nei villaggi scorre secondo ritmi “zingari”: nessuna fretta di

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fare qualsiasi cosa. Si mangia quel che si trova nelle immediate vicinanze e si aspetta l’ultimo del mese per andare alle poste a ritirare i sussidi. Il risparmio non è di certo una priorità: non appena gli uomini entrano in possesso del denaro lo spendono tutto in bevute nei bar in città. Benché nella regione di Košice si è parlato a più riprese di costruire muri (e in qualche caso è stato fatto) per isolare le comunità di cigani dal resto dei cittadini, le relazioni possono definirsi comunque normali. Alcune organizzazioni slovacche si preoccupano di seguire l’educazione dei bambini, almeno fino alle medie. Stando ai dati forniti da un direttore didattico, il rapporto di natalità tra bambini cigani e bambini slovacchi supera i dieci a uno. In quanto cittadini slovacchi, gli cigani di Košice hanno diritto all’assistenza sanitaria ma per loro - molte volte - il miglior rimedio a qualsiasi malattia è una zuppa di pollo molto piccante.





Notizie che di solito non fanno notizia

Le buone nuove India: indigeni battono multinazionale Costa d'Avorio

Turkmenistan

Aspettando il voto La nuova caduta per ricominciare degli dei ra uno dei paradisi africani: ricco, stabile ed evoluto. Poi l'incantesimo si è rotto e la Costa d'Avorio è precipitata in un incubo d'instabilità politica, violenza, povertà e corruzione. Il 31 ottobre si terranno le elezioni presidenziali, anche se forse sarebbe meglio usare il condizionale, perché avrebbero dovuto svolgersi già nel 2005, ma sono state continuamente rimandate dal presidente Laurent Gbagbo e dal suo Fronte Popolare Ivoriano (Ipf). "Per restare al potere", accusano i leader dell'opposizione, Henri Konan Bédié del Partito democratico della Costa d'Avorio-Raggruppamento democratico africano (Pdci-Rda) e l'ex premier Alassane Ouattara del Raggruppamento dei democratici (Rdr), due nomi di primo piano della scena politica ivoriana che nel 2008 hanno stretto un patto, promettendosi appoggio reciproco al secondo turno contro Gbagbo. Quest’ultimo sostiene di aver posticipato il voto per ragioni di sicurezza. Comprensibile, a dire il vero, se si pensa alla guerra civile scoppiata nel piccolo Stato africano tra il 2002 e il 2004, e rimasta a covare sotto la cenere fino all'accordo del 2007 tra il governo legittimo e le Nouvelles Forces (Nf) che controllano il nord del Paese. Alla radice del conflitto, ci sono ragioni etniche. La Costa d'Avorio, infatti, negli anni del benessere, portato dalle enormi esportazioni di cacao, è stata meta di un consistente flusso migratorio dai più poveri Mali e Burkina Faso. Questioni di etnia ma anche di possesso delle terre, che hanno generato problemi più concreti come la composizione delle liste elettorali, con Gbagbo che per anni ha depennato cittadini sospettati di essere irregolari e i suoi oppositori che vi leggevano un repulisti di potenziali loro elettori. Ora la Commissione elettorale ha raggiunto un accordo con le parti. Resta la questione del disarmo delle Nf: è essenziale per la riuscita del voto? Per Gbagbo, si. I cittadini aspettano impazienti ma anche sfiduciati. La stabilità politica potrà richiamare gli investimenti internazionali ma le elezioni, di per sé, non sono una panacea.

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Alberto Tundo

on si sa se sia stato per invidia o per un reale moto di cambiamento che il presidente Gurbanguly Berdymukhamedov abbia deciso di smantellare l’Arco della Neutralità sulla cui sommità era piazzata la statua dorata del suo predecessore, Saparmurat Niyazov “Turkmenbashi”, il padre di tutti i turkmeni. Gli operai lavorano senza sosta dalla fine di agosto per smontare il monumento di marmo alto settantacinque metri, per trasportarlo e rimontarlo nella periferia di Ashgabat. Ancora non è dato sapere se la statua di Turkmenbashi ritornerà al suo posto oppure no. Appena insediatosi, nel 2007, Berdymuk-hamedov ha aperto il Turkmenistan a una nuova stagione di riforme e il primo passo è stato dichiarare guerra al radicatissimo culto della personalità che Niyazov aveva saputo costruire intorno a sé. Nominato Primo segretario del Partito Comunista Turkmeno nel 1985, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, Niyazov è stato il primo Presidente del Turkmenistan “libero” fino al 21 dicembre 2006, quando è stato colpito da infarto. Sotto il suo dominio, il Turkmenistan è stato uno dei Paesi più isolati al mondo: Turkmenbashi aveva messo al bando l’insegnamento della lingua inglese, l’informazione straniera, le barbe e le autoradio. Secondo il suo parere le librerie in campagna andavano chiuse perché “i contadini non leggono” e il teatro dell’Opera di Ashgabat non serviva considerato che “La Tosca e La Traviata non hanno più senso”. Aveva invece più senso che il suo volto fosse ovunque in giro nel Paese, sotto forma di statue e di gigantografie, e che i mesi dell’anno portassero il nome suo e quello dei suoi famigliari. Tutto intorno a un uomo e al suo pensiero. Perfino il Corano (i turkmeni sono moderatamente musulmani) non aveva abbastanza da insegnare quanto il “Ruhnama”, il libro scritto di suo pugno che doveva essere letto obbligatoriamente sin dai primi anni della scuola. E nel 1998 il grande progetto dell’Arco della Neutralità, con la grande statua alta quindici metri che ruotava seguendo il sole. Ma c’è da scommettere che Niyazov, dio in terra, fosse convinto del contrario.

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Nicola Sessa

La multinazionale inglese Vedanta non potrà estrarre bauxite in un distretto orientale dello stato indiano di Orissa. Lo ha comunicato oggi il ministero dell'Ambiente indiano. Il progetto, infatti, viola la legge sulle foreste e i diritti umani delle popolazioni indigene. Il progetto era stato promosso da Vedanta attraverso la sua filiale indiana, e aveva ricevuto il via libera delle Corte Suprema nel 2008. Secondo l'associazione ambientalista Survival International, la tribù dei Dongria Kondh, che vive nell'area interessata dal progetto, conta circa 8mila persone. La comunità si considera protettrice della montagna sacra e dei fiumi. La prossima battaglia per i diritti delle popolazioni indigene potrebbe essere quella di un'acciaieria della società sudcoreana Posco, fortemente osteggiato dalla popolazione locale.

Gran Bretagna: più facili le cause ambientali Una commissione della Nazioni Unite impone a Downing Street di ridurre i costi processuali per le Ong. Lo ha stabilito una commissione delle Nazioni Unite, richiamando il governo britannico al rispetto dei principi contenuti nella Convenzione di Aarhus. Secondo la convenzione, sottoscritta sotto l'egida dell'Unece (United Nations Economic Commission for Europe) nel 1998 e ratificata dalla Gran Bretagna nel 2005, il governo è obbligato a garantire ai cittadini l'accesso indiscriminato alla giustizia in materia ambientale, rimuovendo tutti gli ostacoli - informativi e finanziari - che possono intralciare il diritto di difesa. In altre parole, le alte spese legali sostenute per intentare un procedimento penale a favore dell'ambiente non devono rappresentare una barriera al rispetto della legge, come invece accadeva sino a ieri in Inghilterra.

Perù: annullata la legge della vergogna Il Parlamento peruviano ha annullato l'amnistia destinata agli aguzzini della guerra civile. Si tratta di un decreto legislativo che imponeva una sorta di prescrizione per tutti quei processi contro militari e poliziotti accusati di violazioni dei diritti umani durante gli anni della guerra civile. Il decreto 1097, approvato dal presidente Alan García in luglio, avrebbe lasciato impunita la maggioranza dei colpevoli. Ma è arrivata la frettolosa marcia indietro che ha obbligato lo stesso presidente a chiedere al Congresso di abolire la legge. Una mossa che si spiega solo considerando la gigantesca polemica scatenatasi in tutto il paese con la levata di scudi di molte organizzazioni dei diritti umani e con la plateale rinuncia dello scrittore Mario Vargas Llosa alla presidenza onoraria del Museo della Memoria. 17


Qualcosa di personale Paraguay

Soia di classe di Tomás Zayas Testo raccolto da Alessandro Grandi

“È una lotta impari quella che combattono i campesinos contro le multinazionali del settore agricolo e in particolare della soia nel mio Paese. È una lotta che sapevamo sarebbe stata dura, difficile da combattere. non avevamo nemmeno la speranza che l'arrivo di un uomo capace e comprensivo come Lugo, potesse da un giorno all'altro risolvere tutti i problemi relativi ai lavoratori della terra. Ha sicuramente dato uno spazio maggiore alla tutela dei diritti dei lavoratori. Ma c'è ancora molto, molto lavoro da fare. Troppe volte sono stato testimone di violenze e soprusi verso i miei compagni. Un'infinità di volte le mie orecchie hanno dovuto ascoltare storie di prevaricazioni e abusi. Anche e soprattutto per questo nel 1984 ho deciso di fondare insieme a altri compagni la “Asagrapa”, Asociación de agricultores del Alta Paraná e nel 1985 la Coordinadora nacional de productores agricolas (Conapa) . Poi l'esperienza ci ha consigliato di fondare un vero e proprio partito politico, il Partido de Trabajadores. Ma la nostra storia di lotta contadina inizia davvero nella Comunidad el Triunfo, nel distretto di Minga Guazù, dove attualmente risiedo. Era il 1989. in quel periodo abbiamo occupato le terre incolte e abbiamo iniziato a lavorare. La nostra lotta è iniziata con la prima zappata. Abbiamo avuto tutti contro, soprattutto le grandi multinazionali che si volevano impossessare delle terre. La stragrande maggioranza delle violenze è rimasta impunita. Anche quando ha causato morte. In questo Paese troppo spesso l'unica legge che vale è quella del più forte. Portare aiuto alle classi sociali più deboli può, spesso, essere molto pericoloso. Il nostro lavoro con le comunità contadine, il nostro modo di esporci in prima persona in difesa dei diritti dei lavoratori, è sempre stato considerato dai potenti come qualcosa da combattere, da eliminare. Anche grazie all'atteggiamento remissivo della popolazione e a uno scarso livello di preparazione culturale, il Paraguay ha vissuto decenni di sottosviluppo che ha creato le migliori condizioni per l'instaurazione di una violenta dittatura, supportata da quelle già presenti nei Paesi del cono sud del continente. Io stesso sono stato minacciato di morte per molto tempo. Avevo anche paura di spostarmi per le strade di Asuncion. Ancora oggi mi guardo le spalle e talvolta incrocio qualche sguardo che mi dice qualcosa. Magari sono suggestioni. Magari no. Sta di fatto che mi capita di vedere gente che credo possa essere il mio killer. Non sarebbe la prima volta che un sindacalista, un uomo legato alla sinistra, un compagno, perde la vita in seguito a un attentato. Di questi casi se ne contano a centinaia. E spesso non fanno notizia. Non è più una questione politica, ormai. Questo è un fatto culturale, sociale. I contadini del nostro Paese devono imparare a capire che sono 'padroni' dei loro diritti e che nessuno si può permettere di calpestarli. Bisogna costruire una nuova mentalità dalla base, dalle scuole primarie. Dai libri e dalle multiculturalità intellettuali. Non dobbiamo avere

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paura delle cose nuove che avvengono. L'informatizzazione, ad esempio. Se utilizzata con intelligenza può esser loro solo d'aiuto. Restare in contatto con il resto del mondo, confrontarsi magari con altre entità contadine straniere, mettere sul tavolo i problemi, scoprire che magari ne hanno di comuni. E di conseguenza organizzarsi a livello internazionale. In questo modo potrebbero, anzi potremmo sentirci tutti più coinvolti nel processo di sviluppo del Paese e in quello mondiale. a come detto il lavoro è lungo, ci vorrà ancora molto tempo. E per prima cosa dobbiamo iniziare a renderci conto che l'un percento della popolazione possiede il settantasette percento delle terre coltivabili. E sono quasi tutte multinazionali come la Monsanto, Cargillm, Shell. Si credono i padroni della terra e fanno di tutto per cacciare le comunità di contadini. È una delle tante prerogative del nostro continente. Succede anche in Brasile e in altre nazioni del continente. Il gioco sporco delle multinazionali ha causato anche l'aumento indiscriminato della popolazione delle città. Addirittura uno studio del Banco Interamericano de Desarrollo è arrivato alla conclusione che i venditori ambulanti di caramelle e i giovani che lavano i vetri delle macchine al semaforo, vivono meglio che i contadini. Io e i miei compagni abbiamo solo deciso di dire basta. Lo sfruttamento non aiuta lo sviluppo della nazione e l'emancipazione dei contadini. Che in questo meraviglioso Paese sono una risorsa. Sono in molti qui ad Asuncion, ma anche all’interno della comunità campesina che dicono che assomiglio al grande Trostky. Diciamo che mi piace quello che pensa e che forse un po’ ci assomigliamo. E all’interno del Pt (il Partito dei lavoratori) ci sono la sua foto e l’effigie del grande Marx. Un tempo tutto questo non sarebbe stato possibile. La dittatura ci ha perseguitato, umiliato, incarcerato. Molti dei miei compagni negli anni di Stroessner non ce l'hanno fatta. Chissà dove sono stati sepolti. È davvero desolante, e fa molto arrabbiare, sapere che un tuo compagno con cui hai condiviso idee e lotta, tutto d'un tratto non c'è più. E non sai dove sia. E non lo rivedrai mai più. Molti, moltissimi dei ragazzi considerati pericolosi militanti dei movimenti di sinistra sono stati uccisi in modo barbaro, dopo strazianti torture. Ci sono ancora molti lati oscuri da approfondire per capire a fondo la situazione di questo Paese che i più non sanno nemmeno dove sia”.

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Tomás Zayas, presidente di Asagrapa. Asunción, Paraguay 2010. Foto di Alessandro Grandi© PeaceReporter


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La storia Cina

Shanghai underground Di Nicola Aporti

Luci al neon blu e verdi fanno capolino in mezzo alla coltre di fumo. Sul bancone del bar un buddha di ottone sembra osservare sorridente la pista da ballo dove decine di ragazzi stanno “pogando”. Le candele appoggiate su quei tavoli bassi di legno - qui noti come “sofà da oppio” - rischiarano quel tanto che basta per poter leggere i graffiti che centinaia di ragazzi hanno lasciato sui muri del locale, in ogni lingua. Benvenuti al Logo Bar, l’altra faccia della luna di Shanghai. n una metropoli che si propone sempre più come regina dell’eccellenza e del glamour, la città degli espatriati e dei suoi locali patinati sul Bund, nel lusso dei grandi hotel o nella civetteria della concessione francese, un altro mondo sta lentamente nascendo. Un mondo fatto di locali di nicchia, alternativi, zone franche in cui tutto - o molto - è tollerato. Il Logo Bar è una vera e propria istituzione nella Shanghai underground, un piccolo locale a due stanze dove si esibiscono Dj locali - o divenuti ormai shanghaiesi di adozione - davanti a una folla che occupa la piccola pista da ballo. Rap al lunedì, raggae al venerdì, musica elettronica gli altri giorni. Chi non “poga” in pista magari gioca allo scassatissimo calcetto, oppure fuma erba - incurante del divieto di droghe sul cartello all’ingresso - sui sofà da oppio, o magari guarda inebetito il documentario su Bob Marley proiettato sulla parete alle spalle del Dj. Naturalmente, ogni sera il numero di graffiti aumenta. Punto di riferimento per un ambiente anche di artisti - fotografi, musicisti ecc. - di sottobosco, il Logo Bar è ormai uno solo dei locali sotterranei di Shanghai. Underground è la definizione perfetta se andiamo allo Shelter, piccolo santuario della musica elettronica situato nel cuore della concessione francese a due passi da locali molto “fighetti”, ma interrato in un ex bunker antiatomico. L’ingresso sembra una discesa agli inferi, un tunnel curvo, basso e completamente oscuro ci porta nella sala principale, dal soffitto piuttosto basso e perennemente affollata di giovani che si scatenano sulle note elettroniche e minimaliste dei Dj di turno. Ma forse è ancora più speciale il C’s. Situato anch’esso nel seminterrato di un normale condominio, il C’s è un labirinto di stanze e corridoi, completamente coperto di graffiti di vario grado, di volgarità e oscenità; un Dj propone sempre musica rap o reggae molto commerciale, mentre orde di cinesi affollano i tavolini per giocare a dadi e bere brocche intere di tè verde mischiato a whisky. Se siete claustrofobici o sensibili all’odore di chiuso, state alla larga da questo posto: è al tempo stesso uno dei locali più strani, divertenti e sporchi mai visti! Le birre a un euro, o le caraffe a cinque, scorrono a fiumi, sui muri i numeri di telefono degli spacciatori si

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nascondono sotto alcuni graffiti. Gli amanti della musica rock in tutti i suoi generi e folk dal vivo invece vanno almeno una volta la settimana allo Yuyintang, praticamente un centro sociale situato in un parco nel centro di Shanghai. Ogni week-end si esibiscono qui rock band cinesi e talora straniere (giapponesi, mongole o anche europee) che fanno riempire il piccolo locale ben oltre il limite della capienza; il parco circostante permette di smaltire la sbornia o bivaccare come è d’obbligo a ogni concerto che si rispetti. Naturalmente siamo in Cina, e quindi i concerti iniziano alle 7 di sera e finiscono non dopo le 9. ocali come questi a Shanghai si stanno diffondendo sempre di più, e sono sempre più un richiamo per un certo tipo di clientela. Innanzitutto, per quella ristretta nicchia di giovani - cinesi e non artisti, sognatori o anticonformisti che magari sognano libertà, viaggi e easy life piuttosto che la corsa all’oro che sta ossessionando la nuova generazione di cinesi. Oppure quelli che non vogliono, o non possono, spendere otto euro per ubriacarsi con la birra piuttosto che per bere un martini sul Bund. Ma la Shanghai underground attira ormai anche un certo numero di colletti bianchi, in cerca di una valvola di sfogo cheap e informale dallo stress quotidiano del lavoro. Come dire, una discesa agli inferi fumosa, sporca e affollata ma catartica per la psiche, lo ying per completare lo yang. Come ci ha detto il proprietario dello Yuyintang: “Tengo aperto questo posto perché la musica dal vivo è una mia passione, e voglio dare una palcoscenico a giovani band emergenti. Se lo Yuyintang mi fa ricco? No, lo Yuyintang ogni mese è in perdita, ma fortunatamente ho altre attività che mi permettono di continuare a coltivare questo mio piccolo sogno”. Ogni tanto arriva qualche cinese che abita nei paraggi e si lamenta per il rumore o per il consumo di “sostanze strane”. Magari viene anche la polizia: qualche multa, il locale chiuso per una settimana, ma poi tutto riparte come prima.

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Shangai, Cina 2010. Foto di Nicola Aporti per PeaceReporter


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Italia

Carcere come barometro della società di Angelo Miotto Sessantottomila. Il record italiano dei detenuti incarcerati in Italia. La ricetta del governo: nuova edilizia penitenziaria, uno splendido affare. Franco Corleone, Garante dei detenuti a Firenze, rilancia la proposta di diversificare modi e luoghi per scontare le pene. Il ministro della Giustizia parla di nuovi istituti, non di circuiti alternativi. Un record destinato a salire? Se non ci fosse stato l’indulto oggi saremmo già a quella cifra pazzesca di ottantamila carcerati. La cifra che preconizza il ministro Angelino Alfano, che ha promesso celle per quella capienza, dimostrando di avere un’idea di una incarcerazione di massa di tutti i soggetti deboli o disturbatori della società ‘per bene’, che si definisce onesta. Il ragionamento che io mi affanno a far comprendere è che già con sessantottomila detenuti siamo fuori dalla Costituzione, fuori dall’ordinamento penitenziario, perché abbiamo seicento persone in regime di 41-bis e settemila in quello di massima sicurezza, cioè reati gravi con spessore criminale significativo. Il resto sono tossici, immigrati, poveri, immigrati che hanno disobbedito alla sentenza di espulsione, persone in carcere per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale. Bisogna mettersi d’accordo se il carcere è per tossicodipendenti e poveri o destinato a chi ha compiuto gravi crimini contro l’ambiente, la pubblica amministrazione e reati finanziari. In questo c’è una visione classista del governo? Anche se sembra fuori moda parlare di giustizia di classe, penso che siamo in questo quadro. La colpa è molto antica e deriva dal fatto che in Italia non si è messo come priorità di lavorare a un nuovo codice penale. La grande stagione delle riforme in Italia è finita con la Costituzione. La priorità del nuovo codice penale non c’è stata, neppure nelle stagioni di centro sinistra. Fino agli ultimi tentativi della commissione Grosso, Pisapia, Nordio. Esiste un problema riguardo al perché e come costruire nuovi istituti ? Non dico che alcuni istituti non debbano essere costruiti. Per esempio, a Savona c’è ancora il carcere in cui era stato recluso Sandro Pertini; le celle sono sottoterra. È chiaro che lì ne va costruito uno nuovo. Il problema è che tipo di carcere e se sia rispettoso della Costituzione, in cui le pene devono tendere alla rieducazione e al reinserimento, oppure no. Sarebbe importante poter discutere di quale carcere per quali pene. Tutto questo non si fa e vogliono costruire nuovi istituti dando l’idea che quello che interessa è mettere in piedi un grande affare. È disdicevole. I suicidi impongono una riflessione rapida sulle condizioni di vita e sui rapporti con il personale carcerario. In carcere c’è un numero di suicidi troppo alto. Ovviamente il suicidio ha anche motivi che sono difficili da indagare, impenetrabili, come accade anche per le persone in libertà. Ma quello che accade nel carcere pone sempre il tema dello 22

Stato padrone dei corpi delle persone. E ha a che fare con l’ingresso e l’uscita dal carcere che sono i due momenti più difficili, per l’ignoto che rappresentano. In merito alla qualità del personale credo che il ruolo della polizia penitenziaria sia da ripensare. Deve essere presente per i detenuti del 41-bis, per le traduzioni, per funzione di controllo, per rivolte ed evasioni. Mentre per quanto riguarda il resto del carcere si dovrebbe adottare l’opzione catalana: un corpo stile educatori. E per la grande parte dei detenuti pensare a persone che aiutino in un processo di reinserimento sociale. Ma tutto questo costa. E non rende elettoralmente investire in una parte della società che il governo vorrebbe nascondere. Il problema è che anche la recidiva e la continuazione dei reati costa in termini sociali. È come il Pil che non si sa bene se sia l’elemento qualificante del benessere dello Stato. Una società che punta all’inclusione e a ridurre l’emarginazione, e quindi i reati e i delitti anche contro le persone più deboli, può avere un costo, ma le ricadute anche sociali e culturali e della convivenza, come possono essere quantificate? Io penso che abbia un grande valore. Il carcere a me interessa non perché sono buono e mi occupo dei deboli, ma perché è lo specchio del funzionamento della giustizia. E questo funzionamento è legato a quello che è il patto sociale. Ci sono persone che si occupano del carcere, come i volontari con la loro straordinaria attività. E io me ne occupo e lo considero un modo per capire la nostra società, dove va a parare. E in questo momento andiamo male. Perchè non esiste il garante nazionale? Credo per resistenze e pigrizie di apparato. Alfano è contrario in nome del federalismo, anche se di garanti regionali ce ne sono pochi. Una autorità indipendente nei controlli e con indicazioni di riforma con la relazione annuale al Parlamento è un interlocutore scomodo, probabilmente sarebbe un alter ego rispetto al ministro e una spina nel fianco per l’amministrazione penitenziaria, per esempio nei casi come quello di Stefano Cucchi. Teniamo conto che non ci sono solo i suicidi in carcere, ma anche i tentati suicidi. In Toscana l’anno scorso ci sono stati nove suicidi, ma centocinquantacinque tentati suicidi e più di mille casi di autolesionismo. Il carcere è un luogo in cui il sangue scorre specialmente di notte e la gente si ferisce. Di questo non si parla, ma penso che si dovrebbe partire da quei corpi imprigionati di persone senza voce che rispondono solo colpendo se stesse.

Foto di Amedeo Novelli / Witness Journal


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Migranti

I forzati di Gel’alo di Gabriele Del Grande

L’Eritrea sta investendo molto nel turismo. Lungo il mar Rosso, ad esempio, a metà strada tra Massawa e Assab, c’è un albergo a Gel’alo che nessun turista dovrebbe perdersi, specialmente se italiano. Se non altro perché è stato costruito da esuli eritrei costretti ai lavori forzati dopo essere stati arrestati sulla rotta per Lampedusa e rimpatriati dalla Libia su voli finanziati dall’Italia. roprio così. Non chiedete spiegazioni all’ambasciata eritrea, potrebbero fraintendere. Secondo la propaganda della dittatura infatti, quel hotel è frutto del coraggio della gioventù eritrea, e in particolare delle forze armate, dal 2002 impegnate in un programma di sviluppo del Paese, denominato Warsay Yeka’alo. Noi invece le spiegazioni siamo andate a chiederle agli unici tre che da quell’inferno sono riusciti a scappare e che oggi vivono in Europa. Hanno accettato di parlarci, ma sotto anonimato e a patto di non svelare la città dove oggi vivono sotto protezione internazionale. I fatti risalgono al maggio del 2004. Un vecchio peschereccio diretto a Lampedusa con centosettantadue passeggeri, in maggior parte eritrei, invertì la rotta dopo essere finito alla deriva e si arenò davanti alla costa libica. Nel panico generale si dettero tutti alla fuga, ma la maggior parte fu arrestata. Dopo un mese nel carcere di Misratah, vennero trasferiti in una prigione di Tripoli. C. aveva ancora le piaghe delle ferite aperte. Insieme a due amici erano stati picchiati e torturati per tre giorni in cella di isolamento per un fallito tentativo di evasione. Un giorno di buon mattino si presentò un’unità speciale dell’esercito: “Caricarono un gruppo di eritrei su un camion, nessuno di noi immaginava cosa sarebbe accaduto, pensavamo si trattasse dell’ennesimo trasferimento”. E invece no. Erano diretti all’aeroporto militare di Tripoli. Dove ad attenderli c’era un aereo della Air Libya Tibesti. Era il 21 luglio del 2004. Nel giro di quarantotto ore, sotto l’occhio discreto dell’ambasciatore eritreo a Tripoli, partirono altri tre aerei, che rimpatriarono un totale di centonove esuli. Ad attenderli all’aeroporto di Asmara c’era l’esercito. Dopo un rapido appello furono caricati su camion militari e portati a Gel’alo, sul mar Rosso. Non era un carcere, ma un campo di lavori forzati. Fuori città, in una zona arida e isolata. La struttura era circondata da un fitto bosco di arbusti spinosi, che rendevano impossibile ogni tentativo di fuga. Mantenuti sotto strettissima sorveglianza, ogni giorno marciavano scortati dai militari armati per lavorare al cantiere del nuovo albergo di Gel’alo, simbolo del progresso dell’economia del Paese. I prigionieri erano circa cinquecento. C’erano i cento deportati dalla Libia e i duecento deportati da Malta due anni prima, nel 2002. Gli altri erano disertori dell’esercito arrestati lungo la frontiera mentre tentavano di fuggire clandestinamente dall’Eritrea verso il Sudan. La giornata tipo iniziava con l’appello, alle cinque del mattino e poi dalle sei al lavoro nei cantieri, sorvegliati e bastonati dai militari, scalzi e denutriti, in una delle zone più calde del deserto eritreo, dove le temperature sovente superano i 45°. Per pranzo e per cena il menù era pane e acqua. Rimasero in quelle condizioni per dieci mesi, fino al 30 mag-

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gio del 2005. Dopodichè furono trasferiti nel campo di addestramento militare di Wi’yah per essere reintegrati nell’esercito, per il servizio di leva a vita. Tutto questo senza essere autorizzati a ricevere visite o telefonate dei propri familiari, tenuti all’oscuro del loro destino. La loro storia è confermata da un quarto testimone. Si tratta di uno dei duecentotrentadue esuli eritrei rimpatriati da Malta nel settembre del 2002 e intervistato dalla documentarista eritrea Elsa Chyrum nell’agosto del 2005. Testimone oculare della morte di alcuni dei prigionieri per la durezza delle condizioni di lavoro, la denutrizione e la mancanza di cure. “Tutti sanno - dice - che Alazar Gebrenegus, del gruppo dei deportati da Malta, morì per la mancanza di cure, implorando un’arancia”. “E se la fame, la sete e il caldo non erano abbastanza”, racconta il rifugiato, “i prigionieri erano continuamente picchiati”. nche questa notizia trova conferma in una terza fonte. Nel rapporto “Service for Life”, pubblicato lo scorso 20 aprile da Human Rights Watch, c’è un intero capitolo dedicato alle torture. Elicottero, otto, ferro, Gesù Cristo, gomma. I nomi in italiano delle tecniche di tortura lasciano supporre che siano eredità delle nostre forze coloniali. Il rapporto conferma che un gruppo di centonove eritrei venne rimpatriato nel 2004 dalla Libia e si sofferma anche sul destino dei rimpatriati da Malta nel 2002. Vennero rinchiusi nel carcere di massima sicurezza sull’isola di Dahlak Kebir, in celle sotterranee, in condizioni di estremo sovraffollamento, e tenuti alla fame. Quasi tutti i tremila eritrei sbarcati nel 2008 in Italia hanno ottenuto un permesso di soggiorno di protezione internazionale. Eppure l’Italia fa di tutto per bloccarli prima. E non è soltanto la storia dei settantasei eritrei respinti in Libia lo scorso primo luglio. Né dei settecento che da tre anni sono nel carcere di Misratah, in Libia. È una storia che inizia proprio con F., C. e L. Già, perché i quattro voli che deportarono il gruppo di centonove rifugiati furono commissionati e pagati dall’Italia, all’interno degli accordi di cooperazione contro l’immigrazione firmati nel 2003 con Gheddafi. Lo dice un documento riservato della Commissione Europea. C’era anche un quinto volo, ma non arrivò mai a destinazione. Perché fu dirottato. Proprio così. Era il 27 agosto del 2004. Gli ottantaquattro passeggeri presero il controllo dell’aereo e atterrarono a Khartoum, dove vennero riconosciuti come rifugiati politici dalle Nazioni Unite. Peccato, avrebbero potuto contribuire anche loro al Warsay Yeka’alo Program.

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Foto di Filippo Massellani.


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Rubriche

di Castel Volturno per garantire il diritto alla salute dei migranti. Ad est dell’equatore, 2010, pagg. 192, €12,00

In libreria di Licia Lanza

In libreria di Licia Lanza

Ilaria Alpi e Miran Hrovatin Mogadiscio, 20 marzo 1994. La giornalista Ilaria Alpi e l'operatore televisivo Miran Hrovatin, inviati dal Tg3 per documentare la guerra civile somala a seguito della missione internazionale ONU “Restore Hope”, vengono freddati a colpi di kalashnikov mentre percorrono a bordo di un fuoristrada la zona nord della città. Ilaria e Miran avevano raccolto testimonianze inedite sul traffico internazionale di veleni e rifiuti tossici e radioattivi prodotti nei Paesi industrializzati – tra cui presumibilmente l'Italia – e stivati nei Paesi più poveri dell'Africa in cambio di armi e di denaro.

Ilaria Alpi, il prezzo della verità di Leonora Sartori e Andrea Vivaldo di Marco Rizzo e Francesco Ripoli con la prefazione di Giovanna Botteri Edizioni BeccoGiallo beccogiallo.it

Sono passati più di sedici anni, dal marzo 1994. Sedici anni senza verità sugli assassini e i loro mandanti, con la convinzione che Ilaria e Miran siano stati uccisi per il lavoro d'inchiesta che stavano svolgendo, per la loro attività di giornalisti. dall'intervento di Mariangela Gritta Grainer

A distanza d’offesa (a cura di) Antonio Esposito e Luigia Melillo Come si approccia il nostro Paese all’Altro, al Diverso, allo Straniero? È questa la domanda fondamentale che percorre ogni capitolo del libro, nato dalle attività di ricerca della cattedra di bioetica interculturale dell’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. Esaminando a fondo le politiche e le pratiche di accoglienza di Europa e Italia versi i migranti emerge l’accettazione di braccia e il rifiuto di uomini da tenere lontani dalla vita quotidiana. Raccontando lo schiavismo delle nostre campagne, la detenzione nei Centri di Identificazione ed Espulsione, la continua tratta di persone, il libro si rivela uno strumento indispensabile per comprendere a fondo la realtà attuale, fatta di donne, uomini e bambini la cui unica colpa è quella di essere stranieri. Fornendo elementi oggettivi mette nero su bianco un sentimento di vergogna per un Paese che accetta lo schiavismo, le morti, la negazione dei fondamentali diritti umani. I diritti d’autore del libro sono interamente destinati all’associazione di volontariato Jerry Essan Masslo, che opera sul territorio

Giorni di neve, giorni di sole di Fabrizio e Nicola Valsecchi Il fascismo in Italia, i desaparecidos in Argentina, l’emigrazione e la nostalgia per il proprio Paese, il valore della famiglia e il bisogno di ritrovare le proprie radici, questi i temi narrati a quattro mani dai gemelli Valsecchi. Raccontano la storia vera dell’emigrante Alfonso Dell’Orto che dopo più di settan’anni trascorsi in Argentina decide di tornare in Italia per lasciare un segno della breve vita della figlia Patricia, finita a soli ventuno anni nell’elenco dei desaparecidos. Durante il lungo viaggio verso Piazza Santo Stefano, Alfonso rivede la sua vita di emigrato, il suo non accettare la morte della figlia, il suo reclamare un corpo da seppellire come le tante madri di Plaza de Mayo e infine il suo desiderio di far rivivere la memoria di Patricia. “I desaparecidos sono lì presenti per reclamare che la coscienza, i valori e la dignità del popolo non desiderano l’impunità né l’oblio” scrive Adolfo Perez Esquivel, Premio Nobel per la Pace 1980, nella prefazione al romanzo. Con l’ultimo atto di Alfonso nel Paese natale, gli autori ci consegnano un momento fondamentale al ricordo delle trentamila persone scomparse sotto la dittatura di Videla. Casa Editrice Marna, 2009, pagg. 128, €12,00

Fabrizio e Nicola Valsecchi

GIORNI DI NEVE, GIORNI DI SOLE Prefazione di Adolfo Perez Esquivel Premio Nobel per la pace 1980

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EMERGENCY è una libera associazione di persone impegnate nella cura delle vittime della guerra e della povertà e nella promozione di una cultura di pace. Questo impegno nasce da una frequentazione quotidiana della sofferenza e dalla condivisione di un’idea: che esiste un’unica e sola umanità. Il lavoro di EMERGENCY – che in 16 anni ha curato oltre 4 milioni di persone – è una pratica di rapporti umani giusti e solidali, ispirati ai principi di eguaglianza, di qualità delle cure, di gratuità per tutti i feriti e gli ammalati.

Il mondo che vogliamo Crediamo nella eguaglianza di tutti gli esseri umani a prescindere dalle opinioni, dal sesso, dalla razza, dalla appartenenza etnica, politica, religiosa, dalla loro condizione sociale ed economica. Ripudiamo la violenza, il terrorismo e la guerra come strumenti per risolvere le contese tra gli uomini, i popoli e gli stati. Vogliamo un mondo basato sulla giustizia sociale, sulla solidarietà, sul rispetto reciproco, sul dialogo, su un’equa distribuzione delle risorse. Vogliamo un mondo in cui i governi garantiscano l’eguaglianza di base di tutti i membri della società, il diritto a cure mediche di elevata qualità e gratuite, il diritto a una istruzione pubblica che sviluppi la persona umana e ne arricchisca le conoscenze, il diritto a una libera informazione. Nel nostro Paese assistiamo invece, da molti anni, alla progressiva e sistematica demolizione di ogni principio di convivenza civile. Una gravissima deriva di barbarie è davanti ai nostri occhi. In nome delle “alleanze internazionali”, la classe politica italiana ha scelto la guerra e l’aggressione di altri Paesi. In nome della “libertà”, la classe politica italiana ha scelto la guerra contro i propri cittadini costruendo un sistema di privilegi, basato sull’esclusione e sulla discriminazione, un sistema di arrogante prevaricazione, di ordinaria corruzione. In nome della “sicurezza”, la classe politica italiana ha scelto la guerra contro chi è venuto in Italia per sopravvivere, incitando all’odio e al razzismo. È questa una democrazia? Solo perché include tecniche elettorali di rappresentatività? Basta che in un Paese si voti perché lo si possa definire “democratico”? Noi consideriamo democratico un sistema politico che lavori per il bene comune privilegiando nel proprio agire i bisogni dei meno abbienti e dei gruppi sociali più deboli, per migliorarne le condizioni di vita, perché si possa essere una società di cittadini. È questo il mondo che vogliamo. Per noi, per tutti noi. Un mondo di eguaglianza.

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Al cinema di Nicola Falcinella

Fair Game Unico film americano in gara all’ultimo Festival di Cannes, “Fair Game” di Doug Liman racconta una storia vera. Siamo nel 2002, Joe Wilson e Valerie Plume (la pellicola è tratta dal suo romanzo autobiografico) sono marito e moglie. Il primo è un ex ambasciatore americano coinvolto nelle indagini per sostenere la presunta vendita di uranio arricchito dal Niger all’Iraq. La donna è invece un’agente Cia sotto copertura la cui carriera è rovinata da una fuga di notizie. I coniugi si trovano quasi uno contro l’altro e rischia di andare in pezzi anche la loro relazione. Ma quando Wilson scrive sul New York Times un editoriale che chiama in causa l’amministrazione Bush e la costringe a uscire allo scoperto i due si ritrovano dalla stessa parte. La coppia va in tribunale a testimoniare contro il governo e porta le prove delle bugie dell’amministrazione Bush sulle inesistenti armi nucleari di Saddam Hussein. Il regista di “The Bourne Identity” realizza, con il contributo significativo dei due attori protagonisti Sean Penn e Naomi Watts, un buon lavoro, abbastanza convenzionale nella forma ma mai banale, con un bel finale. Il monologo di Penn è un invito argomentato, citando Roosevelt, al prendersi le proprie responsabilità di cittadini rispetto ai governanti, quanto mai attuale anche per l’Italia. Parla di Usa nell’era post 9/11 anche l’indiano “My Name Is Khan” di Karan Johar. La storia di Rizwan Khan, bambino pakistano con la sindrome di Asperger che si trasferisce a San Francisco con la madre. Cresciuto si innamora di una donna indù, ma dopo gli attentati si trova alle prese con una situazione assurda, sospettato di essere un terrorista e accusato di ciò che non ha fatto solo per il nome che porta. Così cerca in tutti i modi di riuscire a parlare con George W. Bush per dirgli: “Mi chiamo Khan ma non sono un terrorista!”. La pellicola, molto lunga (più di due ore e mezza), alterna elementi interessanti ad altri improbabili e il protagonista si muove come un “Forrest Gump” dell’era globalizzata.

In rete di Arturo Di Corinto

Wikileaks: quando trapela la notiza Amnesty International ha insignito nel 2009 Wikileaks del premio “ International Media Awards” riconoscendone la meritoria azione informativa nel campo dei diritti umani. Wikileaks è un sito che pubblica informazioni che i governi tendono a mantenere segrete e per questo si autorappresenta come un sito anticorruzione. Fondato da un gruppo di giornalisti e attivisti per i diritti umani europei e americani, teologi della liberazione brasiliani e dissidenti cinesi e iraniani, Wikileaks è stato spesso alla ribalta anche per le modalità di raccolta di informazioni privilegiate e top secret che possono essere inviate al suo sito in assoluta segretezza grazie all’uso della crittografia. Un team di volontari organizza e pubblica queste notizie garantendo la segretezza, l’affidabilità e la sicurezza delle fonti, mentre un gruppo di hacker distribuito ai quattro angoli del pianeta si occupa della sicurezza del sito e di chi lo contatta. Wikileaks due mesi fa ha pubblicato gli “Afghan war diaries” che hanno messo in grande imbarazzo l’amministrazione Usa rendendo noti settantaseimila documenti di intelligence circa le (pessime) modalità di gestione del conflitto afgano. Ed è subito scoppiata la polemica, ma senza che nessuno mettesse in dubbio direttamente la veridicità dei contenuti pubblicati. C’è stato chi ha accusato Wikileaks di “intelligenza con il nemico”, chi di ingenuità e manipolazione, scorrettezza giornalistica e finanche attentato alla sicurezza dello Stato. Mentre i suoi sostenitori e lettori aumentavano di numero, è stata avviata una vera e propria campagna di delegittimazione nei confronti dell’organizzazione no profit e del più celebre dei suoi fondatori, l’australiano Julian Assange, accusato di stupro da due

donne che hanno poi ritrattato. Ma se indagare sulla fondatezza dell’accusa di stupro ci porta nel terreno delle più classiche cospirazioni, la seconda accusa necessita di essere approfondita. L’accusa infamante per un sito che fa della trasparenza la sua missione principale è che non essendo noto chi finanzia Wikileaks - che dichiara una necessità di cassa di quattrocentomila dollari annui per server e personale - non ci si possa fidare. Per questo, nell’epoca del giornalismo partecipativo che compete con quello dei media mainstream, gli viene chiesto di operare come le testate giornalistiche tradizionali, rendendo pubblici bilanci e finanziamenti. Ma il parallelo è sbagliato. In Italia, ad esempio, la Corte Costituzionale ha più volte spiegato che il ‘mercato’ dell’informazione necessita di regole a garanzia del pluralismo di fonti e contenuti per un motivo preciso: alti costi di produzione, scarsità di risorse, oligopoli e concentrazioni possono determinare ‘difetti’ informativi e il pericolo della manipolazione dell’opinione pubblica. Una situazione che evidentemente non è applicabile al web che ha bassi costi di accesso, risorse di pubblicazione virtualmente infinite e grande dispersione delle fonti visto che ognuno è editore di se stesso e può trasformarsi se lo vuole in ‘giornalista per caso’. Ma se è lecito chiedere trasparenza a chi offre informazioni, il parallelo è comunque sbagliato. Come ha notato Vittorio Pasteris - curatore del Festival Internazionale del giornalismo di Perugia - la prima osservazione da fare è che la trasparenza vera dei media tradizionali non si risolve con la pubblicazione sintetica dei loro bilanci. A parte che sono molto sintetici e di difficile interpretazione, “è un po’ come conoscere i componenti di un alimento o di un farmaco per decidere se mangiare un pasto o scegliere di auto-somministrarsi un farmaco”. I due fatti, l’accusa di stupro e molestie sessuali verso due donne inizialmente consenzienti e quella di scarsa trasparenza fanno sorgere il sospetto che si voglia spostare l’attenzione dai fatti denunciati al denunciante, con buona pace della ricerca della verità. Se così non fosse bisognerebbe chiedere la stessa trasparenza per tutti i finanziatori delle aziende editoriali su Internet e chiedere conto della proprietà di giornali che con le sole vendite e la pubblicità certo non starebbero in piedi, invece di discutere di un sito che per sua stessa ammissione si autofinanzia chiedendo a tutti di contribuire. A proposito: se proprio volete seguire il principio del “to follow the money” per sapere a chi risponde Wikileaks, basta fare una piccola ricerca in rete e leggerne bene il sito per sapere che le spese vengono pagate come rimborsi a piè di lista da diverse fondazioni: tra queste la Wau Holland Foundation con sede in Germania e che secondo la legge non deve rendere noti i suoi finanziatori. Ma Wikileaks è anche registrata come charity negli Usa, come giornale in Francia, come biblioteca in Australia, eccetera. Una molteplicità di fonti che già di per sé è garanzia di pluralismo. 29


Per saperne di più FRANCIA LIBRI ROBERT CASTEL, «La discriminazione negativi. Cittadini o indigeni?», a cura di Ciro Tarantino e Ciro Pizzo, Quodlibet, 2008. Prologo di Yann Moulier Boutang Parlare di discriminazione negativa non è un pleonasmo. Esistono forme di discriminazione positiva che consistono nel fare di più per coloro che hanno meno. Non è discriminatorio, per esempio, se non in senso positivo, mettere in pratica una pedagogia speciale per studenti in ritardo scolastico, onde evitare che ripetano l’anno, o predisporre una formazione professionale adeguata per lavoratori poco qualificati, per evitare che diventino inoccupabili. Può essere utile, e forse indispensabile, prendere di mira popolazioni segnate da una differenza, che è per esse un handicap, con l’obiettivo di ridurre o annullare tale differenza. Ritornando sui moti dell’autunno 2005, Robert Castel analizza i meccanismi di stigmatizzazione e di relegazione al margine di una piena e completa cittadinanza, a dispetto dei principi fondamentali della Repubblica. Se si vogliono chiamare le cose col proprio nome, quello cui si sta assistendo oggi è fuor di dubbio un ritorno della razza sulla scena politica e sociale. MABROUCK RACHEDI, «Il peso di un'anima», Stampa alternativa, 2010 Romanzo picaresco metropolitano. Alle otto del mattino, il diciottenne Lounès si prepara per andare a scuola. Non sa ancora che qualche ora dopo finirà in carcere, accusato a torto di essere un terrorista. Una serie di micro-eventi innesca una bomba ad orologeria che travolge Lounès e trascina il lettore fino all’ultima pagina, dove lo attende un finale inaspettato, che svela il senso del misterioso titolo. Un romanzo d’esordio profetico, con la suspense di un giallo e che non è solo il racconto della situazione critica delle banlieue parigine, ma anche una riflessione profonda sul caso, sulle coincidenze e sul valore di ogni singolo atto compiuto.

FILM E DOCUMENTARI LUC BESSON, «Banlieue 13», Francia 2004. Parigi, anno 2010. Un muro d'isolamento circonda il ghetto della periferia, il quartiere 13, ovvero l'area periferica dei grandi agglomerati urbani francesi. Leïto, un abitante del quartiere cerca di fermare lo spaccio di droga delle bande criminali che controllano il ghetto, ma dopo una rocambolesca fuga, la polizia, temendo le gang, preferirà arrestare lui piuttosto che il boss Taha Bemamud. Quest’ultimo entra in possesso di una potente arma, una bomba, che intende far esplodere nel centro di Parigi. Damien Tomaso, capitano della polizia francese, viene mandato nel quartiere per recuperare l'ordigno. Avrà però bisogno di Leïto, per poter compiere la missione in un territorio a lui ostile e sconosciuto. MATHIEU KASSOVITZ, «L’odio (La haine)», Francia 1995 Commedia nera secondo la migliore tradizione balcanica. Una cittadina della provincia bosniaca, prostrata dalla corruzione, dalla criminalità e dagli odi etnici, riceve la notizia della visita imminente del presidente statunitense e si sforza di presentare la realtà locale come un perfetto esempio di ricostruzione e riconciliazione. 30

FEDERICO FERRONE, FRANCESCO RAGAZZI, CONSTANCER RIVIERE, "Banlieue-Banliyo", Italia/Francia 2005 L'opera mostra "in nuce", esposti attraverso la voce dei suoi protagonisti di origine turca, tutti i problemi alla base della rabbia delle banlieue: mancanza di riconoscimento, discriminazione, isolamento e dubbi d'identità. Attraverso le immagini di una "banlieue" francese, Surville, e di una comunità di origine turca i tre autori hanno cercato di penetrare il dilemma identitario dei suoi abitanti al di là delle difficoltà oggettive di tutti i giorni e al di là dell'episodio eclatante della violenza. Le persone incontrate durante la lavorazione, dall'ottobre 2003 al febbraio 2004, non vivono in un ghetto comunitario, ma non hanno nemmeno scelto di fondersi e "dimenticarsi" nella vita francese. “Forse - scrivono gli autori nella sinossi - cercano semplicemente di trovare una loro dimensione, in quanto turchi o in quanto francesi, senza sentirsi obbligati a scegliere fra le due identità".

SITI INTERNET http://yahoo.bondyblog.fr/ Un blog che si pone come obiettivo quello di raccontare i quartieri popolari e di far ascoltare la loro voce nel dibattito nazionale sulle banlieues. Ci lavorano una trentina di giovani residenti, la maggior parte dei quali residenti nel dipartimento di Seine-Saint-Denis. Il blog è stato aperto nel 2005, dopo i moti. http://riotsfrance.ssrc.org/ Un sito di approfondimento creato dal Social Science Research Council con il contributo di numerosi sociologi internazionali. Il sito si struttura come un forum dove i vari interventi si prefiggono lo scopo di riflettere sugli eventi delle banlieues nel loro svolgersi e sulla capacità del governo francese di affrontare il problema.

LAMPEDUSA LIBRI E REPORTAGE FABIO SANFILIPPO E ALICE SCAJOLA, «A Lampedusa», Infinito edizioni, 2010 Un’inchiesta sul business dei trafficanti di esseri umani sulla rotta mediterranea di Lampedusa, attraverso l’analisi del fenomeno degli sbarchi sull’isola nel corso del 2008, quando furono circa trentamila i migranti ad approdare sulle sue coste, la gestione dei centri di accoglienza, fino alla loro chiusura in concomitanza con l’inizio della politica dei respingimenti. MASSIMO CARLOTTO, «Cristiani di Allah», Edizioni E/O, 2008 Il romanzo di Massimo Carlotto ci riporta in un Mediterraneo braudeliano, una rete di culture e di nodi indissolubili. Al suo centro, Lampedusa, unico porto franco del mare di mezzo che assicura tregua e sosta tra nemici che si combattono in un’Europa del 1500, divisa da guerre di religione, ma nello stesso tempo culla di simboli di un’interculturalità quotidiana. FABRIZIO GATTI, «Io clandestino a Lampedusa», L’Espresso, 7 ottobre 2005 Il documentario del giornalista dell’Espresso descrive gli otto giorni di permanenza nel centro d’accoglienza di Lampedusa. Gatti, dopo essersi lanciato nelle acque dell’isola, ricompare sulla costa fingendosi un migrante. Attraverso il suo racconto le vivide immagini delle reali condizioni di un CPT. FERNAND BRAUDEL, «Il Mediterraneo. Lo spazio e la storia, gli uomini e la tradizione», Newton&Compton Editori, 2002

Un mare condiviso. Una prospettiva di ricerca che avvicina lo storico allo spazio geografico e culturale del Mediterraneo, un’area che non separa due emisferi di mondo, bensì che si caratterizza per una forza centripeta di attrazione. Non un bacino che alimenta divisioni, ma un contenitore di sguardi che si incontrano in grado di far emergere i punti di inevitabile contatto tra culture diverse.

FILM E DOCUMENTARI GIUSEPPE DI BERNARDO, «Viaggio a Lampedusa». Italia 2010. http://www.youtube.com/watch?v=9jI17GGfYXA Un documentario girato nel gennaio 2009, mese delle manifestazioni popolari e della rivolta dei migranti reclusi nel CIE di contrada Imbriacola. Quattro amici intraprendono un viaggio tra le voci dei lampedusani, tra verità, stereotipi e politica. A fare da sfondo a questo ritratto dell’isola, le voci contrastanti del Sindaco De Rubeis e della vice sindaco Maraventano. DAGMAWI YIMER, “Ritorno a Lampedusa”, Italia 2010 Dopo il primo documentario “Come un uomo sulla terra”, diretto da Andrea Segre, Dagmawi Yimer presenta una storia intessuta sulla propria personale esperienza: un ritorno nella stessa isola dove sbarcò come migrante nel 2006. Un racconto emotivo dell’incontro con una terra resa inospitale dalle politiche di confinamento migratorie, ma segnata dal volto umano dei suoi cittadini. ENRICO MONTALBANO, ANGELA GIARDINA E ILARIA SPOSITO, «La terra (e) strema», Italia 2010. http://terraestrema.blogspot.com/ Due anni di ricerca per offrire una lettura della campagna siciliana di oggi, attraverso le testimonianze dei braccianti, italiani e stranieri, all’opera nelle raccolte stagionali. Storie di una campagna stretta nella morsa dell’economia delle multinazionali e delle fagocitanti catene di distribuzione, di proprietari terrieri costretti a diventare braccianti per la mancanza di nuove generazioni. LORENZO GALEAZZI E DANILO MONTE, “O’Scia. La frontiera”, Italia 2010 Il documentario descrive il fenomeno dell’immigrazione a Lampedusa attraverso l’osservazione diretta delle prime fasi di soccorso dei migranti, appena sbarcati, da parte delle autorità locali e attraverso interviste ai cittadini dell’isola, spesso voce dell’insofferenza popolare nei confronti dello Stato che sempre più spesso cessa di far sentire la sua presenza sul territorio lampedusano. ANDREA SEGRE, «A Sud di Lampedusa», Italia 2006 Uno sguardo sul tragitto che precede il “viaggio” verso Lampedusa, nient’altro che l’ultimo tratto di un lungo percorso iniziato nel deserto del Sahara. Segre indaga sulle rotte che precedono le partenze dalle coste nordafricane e sulle pratiche dei rimpatri forzati effettuate dalle autorità libiche.

SITI INTERNET www.storiemigranti.org Un archivio di storie e di notizie sulle migrazioni in Italia e nel mondo, con particolare attenzione alle storie narrate in prima persona dagli stessi migranti in forma orale o scritta. http://fortresseurope.blogspot.com/ Blog nato dal progetto di Gabriele Del Grande.


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