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mensile - anno 2 numero 11 - novembre 2008

3 euro

Usa-Messico Il muro che non riesce a dividere Russia: Iran: Haiti: Ossezia del Sud: Italia:

Alll’ombra della svastica Ritratto di famiglia La playmate dei bambini L’eroe disarmato Razza umana (e nerazzurra)

Gino Strada

La crisi del settimo anno afgano

Il tredicesimo fascicolo dell’atlante: India



War does not determine who is right. Only who is left. Bertrand Russell

novembre 2008

L’editoriale

mensile - anno 2, numero 11

di Maso Notarianni

Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Christian Elia Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Nicola Sessa Stella Spinelli Naoki Tomasini Alessandro Ursic

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Blue & Joy Linda Chiaramonte Gabriele Del Grande Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Nicola Falcinella Giorgio Gabbi Paolo Lezziero Sergio Lotti Carolina Pasargiklian Claudio Sabelli Fioretti Vauro Senesi Gino Strada Susanna Wermelinger

Progetto grafico Guido Scarabottolo Segreteria di redazione Silvina Grippaldi Relazioni esterne Marco Formigoni Redazione e amministrazione Via Meravigli 12 20123 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net Stampa Graphicscalve Loc. Ponte Formello - 24020 Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 30 ottobre 2008

Pubblicità Sisifo Italia s.r.l. Via Don Luigi Soldà 8 36061 Bassano del Grappa Tel: (+39) 0424 505218 Fax: (+39) 0424 505136

Hanno collaborato per le foto Malekeh Nayiny Samuele Pellecchia/Prospekt

Amministrazione Annalisa Braga

Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Meravigli 12 - 20123 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07

Foto di copertina: Messico e nuvole Usa, 2008. Alessandro Ursic©PeaceReporter

Obama: cambierà davvero? bama ha vinto, Obama ha perso. Prima o poi doveva capitare anche a noi di dover chiudere il mensile nell’attesa di un momento che tutto il mondo giudica di cruciale importanza per le magnifiche sorti e progressive della specie umana. Non lo sappiamo oggi che stiamo scrivendo, e non sappiamo nemmeno se dare retta ai sondaggi che dicono che Obama, il candidato nero, per qualcuno l’uomo nero stravincerà le elezioni. Ma il punto è un altro. Obama è davvero l’uomo nero? Davvero la sua elezione cambierà il mondo? Speriamo tanto di si, perché il mondo ha bisogno di essere cambiato come forse mai nella storia dell’umanità. Ma ci sono troppe cose che ci fanno essere se non pessimisti, non così entusiasti per un cambio che non ce la sentiamo di definire epocale: se si guardano i finanziatori delle campagne elettorali degli sfidanti, ci si accorge che entrambi han preso quattrini dagli stessi elargitori. Segno che sia Obama che McCain devono rispondere agli stessi poteri forti. I sostenitori di Barack Obama non sono dei rivoluzionari. Uno dei più importanti finanziatori di Obama è stata la Exelon, il principale distributore di energia nucleare degli Stati Uniti. I sostenitori di Obama sono l’ex portavoce di Bush McClellan, sono Colin Powell, che è vero che non era del tutto d’accordo con le folli politiche internazionali di Bush, è vero, ma era pur sempre un suo uomo. Sono i grandi media, dal New York Times in giù. E i grandi media statunitensi non hanno mai fatto gli interessi dei popoli del mondo, e raramente - soprattutto negli ultimi anni - si sono interessati della sorte del popolo di casa loro preferendo sempre fare gli interessi dei loro proprietari e delle grandi lobbies finanziarie. Una cosa è del tutto misteriosa. L’assenza della guerra afgana, oramai certamente più cruenta di quella irachena, dalla campagna elettorale statunitense. Ma di una cosa si può stare certi: nonostante se ne sia parlato poco, Obama non ha mai mostrato di voler modificare la potitica statunitense in Afghanistan. Anzi, ha dichiarato che i soldati che verranno via dall’Iraq saranno utilizzati proprio nella guerra afgana. Possiamo dunque credere che con la vittoria di Obama il mondo possa cambiare (o sarebbe potuto, se le previsioni su cui stiamo basando fossero sbagliate)?

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Usa-Messico a pagina 4

Migranti a pagina 24

Russia a pagina 10

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Italia a pagina 22

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Iran a pagina 14

Scritti, disegni e fotografie anche se non pubblicati non verranno resi.

Haiti a pagina 18

Ossezia del Sud a pagina 20 3


Il reportage Usa-Messico

Il muro che non divide Dal nostro inviato Alessandro Ursic Tra un negozio di cianfrusaglie di Washington Street e una farmacia di Avenida Guerrero ci sono solo un ponte sul fiume, un cancelletto e un gettone da sessanta centesimi. Ci sarebbero anche due Paesi con abissali differenze economiche, culturali e linguistiche, divisi da un confine di oltre tremila chilometri che comincia, in sostanza, qui. n una città dal nome coloniale e un’altra chiamata come un eroe nazionale, le prime di una serie di sister cities, o pueblas hermanas, che andando verso ovest caratterizzano il confine texano tra Usa e Messico. Zone bilingui, o meglio: molto più ispaniche che anglofone. Con popolazioni che costituiscono un laboratorio per l’America del futuro. E che si oppongono alla costruzione del muro alla frontiera, un progetto già iniziato dall’amministrazione Bush e condiviso da molti americani. Le voci dei leghisti d’America sono davvero echi lontani, se ti trovi a Brownsville. Vedi insegne bilingui, e passanti ispanici nelle vie con nomi – Adams, Monroe, Jefferson – che richiamano la storia statunitense. Parli con gente che non capisce perché gli americani vedano posti così come i ground zero dell’immigrazione. Soprattutto, ti aspetteresti il solito confine impersonale, in periferia. Invece sta lì, nel centro storico. Quelle persone con le borse piene sono messicani che stanno tornando a casa, cioè in patria, alla fine di una giornata qualunque di lavoro e di shopping. Attraversano a piedi il ponte sul Rio Grande, e in pochi minuti arrivano nel centro di Matamoros. Così, mentre pensi che sei negli Usa ma è come se vedessi già il Messico, capisci troppo tardi che la barriera che si para improvvisamente davanti alla tua auto non è fatta per pagare un pedaggio qualsiasi. “Deve tornare indietro? Non si preoccupi, succede ogni giorno. Metta la retro, la facciamo uscire da lì”, invita gentile l’agente di frontiera, sotto un lampione dove ronzano nugoli di formiche volanti. Basterebbero comunque già le libellule giganti e le palme per ricordarti che qui, in questo angolo di Stati Uniti vicino all’Oceano Atlantico, siamo quasi sul Tropico del Cancro. Città del Messico è distante quanto Dallas, Washington è a duemilaquattrocento chilometri. In campagna elettorale il tema dell’immigrazione è stato anch’esso lontano, assente dal confronto tra Barack Obama e John McCain. Il nuovo presidente si troverà in eredità la prevista costruzione di una barriera lunga oltre mille chilometri, un terzo della frontiera. Il Secure Fence Act del 2006 disponeva il completamento del piano entro questo dicembre. All’epoca, in un anno di rielezione per il Congresso, la riforma del sistema dell’immigrazione sembrava la priorità assoluta. Si voleva rendere la frontiera più sicura, e al contempo fornire ai dodici milioni di clandestini un percorso verso la cittadinanza. Sullo sfondo c’erano le paure di un’America che si vedeva invasa da orde di immigrati messicani, infiltrata da terroristi stranieri e meta finale della droga sudamericana. Ma anche cosciente di non poter vivere senza i latinos che costruiscono le sue case, cucinano i suoi pasti, puliscono i suoi appartamenti, svolgono i lavori più umili nelle sue fabbriche. Sabotata dai repubblicani più estremi, la riforma sull’immigrazione è poi saltata. Ma la costruzione della border fence è andata avanti. Anche se a rilento, per problemi economici e tecnici. E soprattutto, almeno nel Texas, per l’opposizione della popolazione al confine, con proprietari di terreni da espropriare e amministrazioni locali che hanno fatto causa allo Stato. In inglese si dice Good fences make good neighbours, ossia “una buona staccionata fa buono anche il vicino”. Ma che tu sia a Brownsville, McAllen,

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Eagle Pass o tutte le altre città con una puebla hermana di fronte, l’opposizione al muro è la norma. Le due comunità hanno rapporti quotidiani, con dinamiche che si ripetono. I messicani entrano negli Usa per lavorare, studiare, comprare abbigliamento, scarpe e chincaglierie varie a buon prezzo, nelle schiere di negozi tutti uguali dalla parte Usa. Gli americani passano la frontiera per fare benzina, comprare medicine che costano quattro volte di meno, andare dal dentista per pagare anche meno; non a caso, le vie messicane alla frontiera sono una successione di farmacie e cliniche odontoiatriche. La maggioranza degli abitanti ha qualche parente nella città dall’altra parte. Un confine naturale c’è già: è il Rio Grande, che divide il Texas dal Messico. Ogni sister city ha almeno un ponte, per auto e pedoni, che la collega con l’altra sorella. Le varie amministrazioni locali hanno progetti di sviluppo comune. Qui il Nafta, l’accordo di libero commercio tra Usa, Messico e Canada, negli ultimi quindici anni ha funzionato come uno straordinario volano per l’economia: le città texane al confine hanno alcuni tra i tassi di crescita più alti di tutti gli Stati Uniti, e anche dalla parte messicana il tenore di vita è migliore rispetto al resto del Paese. Dal 1994 a oggi, il Messico ha quintuplicato le sue esportazioni verso gli Usa, e l’industria alla frontiera è in pieno boom. In un ambiente del genere, l’idea di una barriera di sei metri per tenere fuori “il marcio” che viene dal Messico non è solo inutile: è dannosa, e quasi offensiva. “È un cattivo messaggio che diamo ai nostri vicini”, dice Charlie Cobster, city manager di Brownsville, dal suo ufficio con vista sul ponte. “A cosa serve un muro? Per i clandestini? Il novantanove percento degli illegali è gente che vuole lavorare, e comunque puoi scavalcare una fence o passarci sotto. Per i terroristi? Quelli dell’11 settembre erano entrati dal Canada. Per la droga? Finché negli Usa ci sarà la domanda, esisterà anche l’offerta, e la roba arriva anche per aereo o per nave. Facciamo un muro in mare e nel cielo?”, si chiede, proponendo invece di potenziare i controlli, con una migliore tecnologia e più agenti. a un controllo completo è impossibile, anche dopo un decennio in cui Washington ha già investito tanto. Dal 1995 a oggi, il bilancio della Border Patrol è aumentato di dieci volte. Il numero di agenti passerà dai cinquemila dell’epoca ai ventunomila del 2010. Tratti ipertecnologici di virtual fence sono stati progettati, e posticipati per l’impennata dei costi. Certo, l’afflusso di immigrati clandestini – molti dei quali, comunque, rimangono semplicemente negli Usa oltre la scadenza del visto – è diminuito. A fine anni Novanta, specie più a ovest, sembrava davvero un’invasione: nel 1999 la contea di Cochise (Arizona), grande poco più della provincia di Siena, effettuava mille e cinquecento arresti di clandestini al giorno. Oggi, nonostante i maggiori controlli e la presenza del muro lungo centinaia di chilometri, in un anno negli Usa vengono comunque arrestati circa ottocentomila clandestini. In un rapporto di due anni fa, la Border Patrol sosteneva di avere il “controllo operativo” su quasi cinque-

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Tra un ballo e l’altro a Ciudad Juarez. Messico 2008. Alessandro Ursic ©PeaceReporter


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cento miglia di confine, meno di un quarto del totale. Per quanto riguarda la droga, basta dare un’occhiata a quel che (non) succede a Laredo. La città, quattro ore a nord-ovest di Brownsville, è il punto d’inizio della Interstate 35, l’autostrada che taglia gli Stati Uniti in due, dal Messico al Canada. Da qui passano il quaranta percento delle esportazioni messicane negli Usa: circa tredicimila camion al giorno, una costante coda in direzione nord. E anche se i cani poliziotto annusano qua e là, si può controllare per bene un flusso di un camion ogni sette secondi? Non a caso, si calcola che l’ottantacinque percento della droga che entra negli Usa passi sotto il naso dei doganieri. Alcuni di loro, in combutta con i narcotrafficanti, chiudono entrambi gli occhi. Si fanno dire il numero di targa del camion, l’ora di arrivo, e lo lasciano passare. Ne hanno beccati diversi di agenti corrotti, negli ultimi anni. on il vantaggio di essere un gringo ormai a suo agio tra due mondi, Keith Bowden è un attento osservatore del confine. Un professore di inglese al Laredo Community College con la passione della canoa, l’anno scorso è sceso lungo il Rio Grande per tutti i duemila chilometri di confine, da El Paso fino alla foce di Boca Chica. Ne è nato il libro The Tecate Journals. Un pomeriggio passato con lui sulla canoa, dalla periferia al centro di Laredo, è istruttivo. Neanche il tempo di parcheggiare vicino alla riva, che arrivano due agenti della Border Patrol. Non vedono spesso due bianchi sul Rio Grande, ma capiscono presto che non c’è niente di losco. Se ne vanno raccomandando “attenzione, perché oggi ci sono alcune activities sul fiume”. Che ci sarà da temere? “Niente, dicono sempre così”, spiega Bowden. Le “attività”, comunque, ci sono eccome. Tre ragazzi attraversano il Rio con l’aiuto dei salvagente, dopo aver portato dalla parte americana chissà quale carico, grazie alla protezione dell’impenetrabile barriera di canne sulla riva. Chissà se li hanno visti le telecamere della Border Patrol, montate su antenne alte decine di metri; in giro, comunque, non si vedono pattuglie. Gli agenti rispuntano quando Bowden e il giornalista suo ospite ritornano sulla terraferma, sotto il ponte pedonale tra Laredo e la messicana Nuevo Laredo. Un minuto dopo che se ne sono andati, dal fiume escono di fretta tre donne, che corrono a nascondersi dietro i cespugli. Se delle persone sono disposte a rischiare l’arresto entrando da clandestine in pieno giorno, sotto un ponte cittadino sorvegliato da agenti e telecamere, figurarsi se non ci provano nel disabitato deserto dell’Arizona, anche mettendo in pericolo la loro vita. Ma in fondo, una vita migliore è l’aspirazione di chiunque lasci il suo Paese. Finché gli Usa avranno bisogno di manovalanza a basso costo, ci saranno sempre latinos pronti alla fuga oltre confine. “Il muro? Gli americani non faranno in tempo a costruirlo, che i messicani l’avranno già buttato giù”, chiosa davanti a due burritos José, un messicano-americano negli Usa ormai da cinquant’anni. Il recente calo degli arresti di clandestini, come la diminuzione delle rimesse verso i familiari, si spiegano anche con la crisi economica negli Usa. Ma le differenze tra i due mondi e i due popoli restano. Lungo la frontiera, le radio in spagnolo passano canzoni che parlano di amori e di sogni, mentre quelle in inglese cantano i solidi valori americani, Dio e la famiglia. Sono diverse le due rive del Rio Grande, con quella messicana magari piena di immondizie ma almeno usata dalle persone, mentre la parte Usa è vuota, come se dal fiume non potesse venire nulla di buono. Sono diversi i valichi: gli agenti messicani a stento ti guardano, ma negli Usa un percorso obbligato ti porta agli sportelli della dogana. Sono diverse le città: in Messico pub, ristoranti e prostitute si trovano già a pochi metri dal confine, le vie sono piene di gente anche alla sera; dalla parte americana, una volta chiusi i negozi di frontiera, in giro non c’è anima viva. Contando anche il fatto che le pueblas hermanas messicane sono anche dieci volte più popolose delle rispettive sister cities, l’immagine è quella di un popolo che preme, si espande, contro un altro che si ritrae. E ha paura. Negli Usa, un Paese in fondo costruito da immigrati, parlare di questa paura è tabù. Chi chiede una frontiera più sicura incentra il suo discorso sull’illegalità dei clandestini, non sull’essere immigrati in quanto tali. I politici percepiti come razzisti perdono più voti di quanti ne guadagnino.

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Ma sullo sfondo c’è l’inquietudine di una nazione – come ha fatto notare Samuel Huntington nel libro La Nuova America – che per oltre duecento anni ha assorbito i nuovi arrivati in un modello linguistico-culturale anglosassone. E che nei latinos vede invece una forza crescente che non si integra nel modello ma lo trasforma, portandolo al bilinguismo. Il futuro, d’altronde, è già nei numeri. Gli ispanici hanno superato da qualche anno gli afro-americani, diventando la prima minoranza etnica negli Usa (sono oltre il quattordici percento). Due mesi fa, un rapporto ha indicato nel 2042 l’anno in cui i bianchi non saranno più la maggioranza nel Paese. Facendo da cicerone a Eagle Pass dal suo enorme Suv, il sindaco Chad Foster pronuncia la parola proibita scuotendo la testa: “È la paura del browning of America”, di un Paese che da bianco si vede diventare “marrone”. Con una voce da pubblicità della Marlboro e un cappello texano sempre con sé, Foster è il leader della Texas Border Coalition, il gruppo che riunisce le amministrazioni locali contrarie al muro. Racconta di aver imparato lo spagnolo “per autodifesa” ma ormai è bilingue, e usa parole spagnole come intercalare. “No señor”, dice riferendosi all’intenzioneimposizione di Washington di costruire il muro anche nella sua città, tagliando in due un parco e un campo da golf. Quando parla della puebla hermana Piedras Negras (“è qui che sono nati i nachos”), lo fa sempre al plurale. “Dico ‘noi’ perché siamo una cosa sola”, spiega. a al di là dei nachos con quejo – originali o no, buonissimi – di Piedras Negras, gli americani continuano a guardare il Messico con diffidenza. Keith Bowden, che ha bagnato la sua canoa nei fiumi di mezza America, ricorda bene l’aria più rilassata al confine con il Canada. Incerto nel trovarsi davanti una postazione vuota, e abituato a procedure severe quando rema sul Rio Grande, al ritorno dell’agente gli chiese se volesse vedere il passaporto. “Per fare canoa? Ma sei pazzo?”, gli rispose quello. Poco più avanti, Bowden si imbatté in un gruppo di giovani che fumavano marijuana sul fiume, attraversandolo liberamente. “Non c’è una frontiera lì, è come stare in mezzo al Kansas. Tutti i discorsi sulla sicurezza qui non riguardano il confine, ma con chi confiniamo”, dice. Certo, nelle città canadesi al confine non ci sono i cartelli della droga come a Ciudad Juarez o Nuevo Laredo, dove la lotta al narcotraffico lanciata dal presidente Felipe Calderòn ha scatenato una guerra – solo quest’anno a Juarez sono state uccise ottocento persone, su un milione e mezzo di abitanti. I trafficanti impongono ai tutori dell’ordine la scelta tra plata o plomo, una bustarella per fare il loro gioco o un proiettile di piombo se si oppongono. La situazione sembra fuori controllo: “E’ un gran casino, amico”, dice un giovane messicano-americano di El Paso, all’estremità occidentale del Texas, mentre attraversa il ponte per Juarez in cerca di una serata alcolica a basso prezzo. A cento metri dalla frontiera, all’entrata di una balera c’è il cartello “No menores, no drogas, no armas”. Le palme e le libellule di Brownsville sono lontane. Risalendo il confine, gli alberi sono diventati cespugli, gli arbusti sono diventati ciuffi di erba secca. E’ un paesaggio da Non è un paese per vecchi, non a caso ambientato in queste zone. Ancora più in là, prima della California, ci sono il New Mexico e l’Arizona. E la frontiera cambia. Dal fiume al deserto. Dai proprietari texani contro il muro, ai terreni federali e alle basi militari. Da ispanici che credono l’immigrazione sia inevitabile, a ronde di bianchi che aiutano la Border Patrol ad arrestare i clandestini. Ma combattono una battaglia già persa, in un Paese che cambia pelle. Lo capisci già quando gli agenti alla dogana di Laredo mostrano di sapere meglio lo spagnolo. E ne hai la conferma quando ti devi fermare a un posto di blocco nel vuoto del Texas occidentale, dove puoi guidare per ore senza incrociare una macchina. “Passaporto, per favore... Italy, ok”. Quali aghi cercano, in questo pagliaio? Sembra impossibile che la Border Patrol trovi davvero immigrati clandestini, in uno di questi controlli. Succede mai? “Ogni tanto”, risponde con un sorriso l’agente. Gutierrez.

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In alto: Souvenir nelle strade di Nuevo Laredo. In basso: Chad Foster, sindaco di Eagle Pass, nel suo ufficio. Usa-Messico 2008. Alessandro Ursic ©PeaceReporter


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I cinque sensi Stati Uniti-Messico

Udito La musica country o Christian pop-rock che domina nelle radio, immancabile compagnia nei lunghi viaggi. Suono inconfondibilmente americano, batteria-basso-chitarra, e parole che diffondono i valori Usa: coppie unite, rapporto quotidiano con Dio, famiglie solide.

Vista

I messicani che attraversano il confine per fare shopping negli Usa sembrano comprare tutti le stesse cose. Ma a parte vestiti e scarpe, spesso dalle borse spuntano i fluorescenti rivestimenti di gomma per le tubature dell’acqua, introvabili in Messico. I bambini, invece, tornano in patria con uno zaino nuovo.

Gusto

Le file di insegne luminose di motel, ristoranti e stazioni di servizio lungo le uscite dell’autostrade americane, segni riconoscibili che ti giungono in soccorso dopo decine di chilometri di paesaggio, nello sterminato territorio sempre meno popolato più si va verso ovest.

Hamburger e patatine? Scontato, e si trovano anche da noi. Più rappresentativo della middle America, il pollo fritto regna nei fast food, e il Kfc non è neanche la catena più diffusa.. Accompagnato da patate fritte e un panetto morbido chiamato biscuit, è tanto saporito quanto pesante per la digestione.

Le strade americane sono vuote, quelle messicane piene di passanti. In qualche centinaio di metri, alla frontiera il contrasto è netto. Come ha notato Keith Bowden nel suo viaggio lungo il Rio Grande, “gli americani guidano, i messicani camminano”.

Per ordinare caffè o bibite e ottenere contenitori di dimensioni umane, si può andare sul sicuro specificando la dimensione “small”: arrivano comunque dei beveroni enormi. E per le bibite, tutti i ristoranti hanno ormai il free-refill. Si paga il bicchiere, e lo si riempie quante volte si vuole.

Olfatto L’odore particolare lasciato dal sapone liquido che si trova nelle toilette di molti ristoranti: ricorda un po’ il sapone di marsiglia, ma non è esattamente gradevole. Le esalazioni di benzina ment re si fa riforniment o, sempre e rigorosamente selfservice. Si paga in carta di credito alla pompa, o in anticipo alla cassa in contanti.

Tatto La sensazione di gelo che si prova la prima volta che si entra in una camera di motel, dove l’aria condizionata è sempre sparata al massimo anche nelle stanze in attesa di clienti. Il portafoglio è per forza sempre gonfio, se si vogliono usare i contanti negli Usa. I dollari girano ancora in banconote, in tagli da uno-cinquedieci-venti. Quando si preleva dal bancomat, i soldi vengono distribuiti tutti in tagli da venti. 9


Il reportage Russia

All’ombra della svastica Dal nostro inviato Luca Galassi

Provo ad aprire la mano per stringere la sua, ma non faccio in tempo. Un breve contatto e le sue dita aperte scorrono sotto il mio avambraccio per chiudersi quasi all’altezza del gomito. D’istinto, anche le mie premono sul suo gomito, e il gesto è quasi simultaneo. etropolitana Tretiakovskaya, cuore di Mosca, sette di sera. Come Sergei, anche gli altri adolescenti, giunti con qualche minuto di ritardo all’appuntamento stabilito, si presentano a me con lo stesso rituale saluto, in un reciproco impugnarsi l’avambraccio. Hanno il cranio rasato e l’abbigliamento conforme ai dettami della loro sub-cultura: pantaloni con i risvolti in fondo, a mostrare gli anfibi lucidi, fibbie con svastiche e croci celtiche, tatuaggi, catenine di metallo che escono dalle tasche, piercing. Sono i giovani esemplari della nuova generazione russa di skinhead. “Paièhali”, fa Sergei. ‘Andiamo’, e ci mettiamo in marcia verso il luogo dell’incontro. Un luogo che fino ad ora mi è stato tenuto segreto. Mentre seguo i loro passi sulla neve fresca non posso che pensare al mio volto. Per tentare di dissimulare le mie chiare origini caucasiche ho provato a radermi. Ma so che non basterà certo questo a mettermi al riparo da qualche sguardo sospettoso, se non da eventuali, spiacevoli sorprese. Nel solo mese di gennaio, secondo i dati dell’organizzazione di monitoraggio indipendente Sova, i delitti a sfondo razziale in Russia sono stati tredici. Metà sono stati commessi a Mosca. Si ammazzano i ceceni, gli azeri, i kazaki, i tagiki, gli armeni, i georgiani. Si ammazzano i caucasici, appunto. I ‘culi neri’, come qui li chiamano quelli che li disprezzano. Li ammazzano gli skinhead. Appunto. La sorpresa, a prima vista, è invece piacevole: un palazzo ottocentesco ben curato e illuminato, di colore giallo ocra, con gli stucchi bianchi e i tendoni amaranto. La scritta sul cancello recita: Fondazione per la conservazione della cultura slava. E’ uno degli istituti – mi viene detto – più onorati e finanziati del Paese. Specie da quando i russi, riavutisi dal collasso economico, dallo smarrimento sociale e dal trauma psicologico seguito alla dissoluzione dell’impero, si sono riscoperti russi. L’ascesa al potere di Putin si è accompagnata a una nuova ondata di nazionalismo, e la retorica anti-occidentale dell’ex presidente ha alimentato una frenetica riscoperta dei simboli, delle istituzioni e della cultura slava. In questo rinascimento identitario è stata la chiesa ortodossa a farsi veicolo della coscienza e dell’orgoglio nazionale. Infatti: dopo che il guardarobiere all’ingresso, incurante della provenienza e dell’abbigliamento degli ospiti, ha raccolto i giubbotti, vengo introdotto in un ampio salone e presentato a un pope, un prete ortodosso. Gli otto ragazzi e le quattro ragazze skinhead si siedono attorno a un enorme tavolo circolare.

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adre Pavel, occhi azzurri e barba folta, lunga fino al petto, comincia così il suo informale sermone: “Preparatevi a difendere la vostra madrepatria”. La predica abbonda di metafore, riferimenti storici, richiami al mito. Come un maestro di scuola media con i propri allievi, dopo l’esposizione di ogni concetto, il religioso fa una pausa per verificare la loro attenzione. Li scruta, uno ad uno, mentre procede nell’opera di indottrina-

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mento. “Bisogna pregare, perché è nella fede che si trova l’antidoto al male. La fede può salvarvi da ogni peccato”. Qualcuno sghignazza, altri si lanciano occhiate complici. I più attenti hanno lo sguardo sostenuto, le braccia conserte e i tatuaggi in bella vista. “Solo con la preghiera l’animo si può purificare”. Pone anche domande, padre Pavel: “Perché bisogna difendere la nostra madrepatria?”. “Per evitare le invasioni, le aggressioni che minacciano il Paese”, gli viene risposto. “Durante il periodo imperiale – continua il sacerdote – il crimine più grave era quello contro la fede ortodossa. Sappiate che anche oggi il nostro Paese sta subendo un’occupazione. Anche oggi la fede e la nazione sono minacciate. E poiché la fede è lo spirito della nazione, può essere necessario difenderla anche con la spada. Ma se non potete combattere contro il male, almeno non dovrete prendervi parte”. Le allegorie a volte lasciano il posto ad allusioni ben precise, e il ‘male’ prende progressivamente forma, incarnandosi non più in un generico nemico esterno, ma in qualcosa dalla fisionomia ben più concreta: “Guardate i musulmani cos’hanno fatto ai nostri fratelli, prigionieri in Afghanistan e in Cecenia. Come si può torturare e uccidere in nome di Dio? Le moschee stanno spuntando come funghi in Russia. Se non combattiamo questa pericolosa tendenza, un giorno ci sveglieremo e la Russia sarà musulmana”. Poi, nuovamente, un appello alla fede e alla preghiera: “Solo con l’aiuto della fede ci si può salvare. Le preghiere purificano e difendono l’uomo in battaglia. Conoscete la storia di quel soldato russo che, nella Seconda guerra mondiale, pregò tutta la notte e il giorno successivo riuscì a uccidere in battaglia diciannove tedeschi, e senza sprecare un proiettile?”. “Padre, ma allora uccidere è o no peccato?”. “Poiché la vita non è perfetta – dice il pope, evitando sempre di rispondere direttamente alla domanda – a volte bisogna impugnare la spada e punire. Ricordate però che il miglior modo per difendere la nostra terra dai colonizzatori è quello di purificare le loro anime con la fede”. “Padre – fa uno – abbiamo diritto all’estremismo in casa nostra?”. “Dato che non è possibile cacciare definitivamente gli scarafaggi di casa – senza ovviamente citare chi siano gli scarafaggi – allora è necessario tenere pulita la casa. Ricordate anche – a degna conclusione del ragionamento – che l’ebraismo è come il satanismo. La sopravvivenza della madrepatria dipende da voi”. Qualche secondo di pausa e, prima che il discorso termini, estraggo la macchina fotografica dallo zaino. Improvvisamente i ragazzi si agitano. Alcuni si coprono il volto, altri mi fanno cenno di ‘no’ con la mano. Il padre continua imperturbabile a parlare, mentre mi allontano per evitare primi piani indesiderati. Riesco a cogliere solo alcune immagini d’insieme. Igor, 28 anni, leader dei giovani di Slavianskiy Soyuz. Mosca, Russia 2008. Luca Galassi ©PeaceReporter


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Padre Pavel ha finito. Uno dei ragazzi, arrivato nel salone quando l’incontro era già iniziato da un pezzo, mi si avvicina: ‘Giurnalist?’. ‘Sì’, faccio io. In un gesto di spavalda vanteria si alza la felpa e mi mostra un tatuaggio con la bandiera russa, sotto la quale c’è scritto ‘russo’ come un marchio di fabbrica. La fibbia della cintura è originale, dice, apparteneva a un ufficiale della Wehrmacht, l’esercito nazista. A ruota, anche gli altri scoprono il petto, le braccia, i polpacci per mostrarmi i loro tatuaggi. Una ragazza ha la fibbia con la croce celtica, un’altra una svastica con decorazioni tribali sulla gamba. uello che si è scoperto per primo si chiama Igor, ha ventott’anni ed è il capo dei giovani di Slavianskiy Soyuz, Unione slava, l’organizzazione neo-nazista che mi ha fornito il contatto con Sergei e consentito di partecipare all’incontro con padre Pavel. “Sarò uno skinhead fino alla morte”, esclama Igor, con la voce rauca. “Sono membro dell’organizzazione da un anno circa. Cercavo un movimento che fosse in grado di arrestare il declino del nostro Paese. E l’ho trovato in Slavianskiy Soyuz”. Prendete parte a pestaggi e omicidi di stranieri? “Io personalmente non mi batto più in strada. Ma se vedo uno straniero che si comporta male verso un cittadino russo, allora certo che difendo il mio connazionale”. Saprò più tardi che il suo predecessore è stato condannato a dodici anni per omicidio. Sergei, invece, di anni ne ha ventuno. Sa come imporre il suo credo, basato su rispetto e onore: “Quando mi trovo in strada, se uno non ci sente a parole, uso le mani. Io, quando un ceceno o un daghestano dice a una nostra donna ‘Vieni qui, bella figa’, mi sento personalmente insultato. Così come mi offende vedere una nostra donna che esce con un caucasico, quelli pieni di soldi, coi macchinoni. Quelli arroganti. Non considero russi i loro bambini. Noi facciamo quello che la polizia non fa”. “Siamo per la razza ariana”, lo interrompe uno, a cui fa eco una ragazza poco più che maggiorenne: “Siamo per la supremazia dei bianchi”. Lo dice con un sorriso, spalleggiata dagli altri, che si mettono in posa per una foto con il braccio alzato. Sorridono tutti, mentre fanno il saluto fascista. Come se fosse un gioco. Quale sarà la reazione di questi adolescenti alle parole di padre Pavel? Cosa faranno una volta che si troveranno davanti il ‘male’?

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ono venuto qui per avere un’idea di chi fossero i militanti skinhead di Slavianskiy Soyuz, due parole le cui iniziali formano un inquietante accostamento. Mi ci ha mandato il capo del movimento in persona: giorni prima aveva accettato un’intervista dopo che, sul suo sito, avevo trovato il suo numero di cellulare. Si chiama Dimitry Demushkin, e non immaginavo sarebbe stato tanto facile contattarlo. L’idea che mi ero fatto era di un soggetto che agisce in totale clandestinità, ricercato dalla polizia e perseguitato dalla legge, in quanto leader di un’organizzazione che esalta la superiorità bianca e incita al razzismo. E che, per di più, ha visto un centinaio di suoi membri incarcerati, quaranta dei quali nella sola Mosca, perché accusati di svariati omicidi a sfondo etnico. “Rigettiamo categoricamente ogni accusa”, ha esordito quando ci ha accolto nel suo ufficio, in un caseggiato anonimo fuori della metro Kolomenskaya, poco più a sud del centro. Il locale è disadorno, due scrivanie da un lato, alcuni scatoloni, pacchi e depliant sparsi qua e là, un mobile-libreria in legno nero sul quale troneggia una collezione di icone ortodosse. Per rendere l’ambiente più idoneo all’occasione, un collaboratore di Demushkin tira fuori una bandiera rossa con la scritta Slavianskiy Soyuz e l’appende al muro. Il leader di Ss non guarda mai negli occhi quando risponde alle domande. E’ uno skinhead anche lei? “Lo sono stato. Ho fondato io il primo gruppo organizzato di skinhead russi, il Beye Bulldogi, Bulldog Bianchi, agli inizi degli anni ‘90”. Che cosa vuol dire essere skinhead? “Partecipare a una sottocultura di protesta giovanile che si sta sviluppando in una forma molto attiva”. Come è nato il suo movimento? “Da una scheggia di Unità Nazionale Russa (partito e formazione paramilitare di estrema destra al bando, ndr)”. Ci spiega in cosa consiste, qual è la sua ideologia, quanti membri ha? “Non è possibile fare stime precise. Anche se i membri attivi non sono molti, la nostra capacità di influenza è abbastanza estesa, anche tra soggetti eterogenei. Un gruppo musicale che si chiama Zyklon B, per esempio, ha un fan club di circa un centinaio di persone. Non sono membri, ma ‘simpatizzano’ per noi. Un

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altro gruppo di simpatizzanti di Ss è costituito dai capi delle bande di bikers (motociclisti, ndr). In Russia, Ss è il gruppo nazionalsocialista più influente. Alcuni membri del governo e del parlamento condividono la nostra ideologia, così come sportivi, scienziati, intellettuali. Dal ‘99 la nostra posizione è rimasta intransigente, rigorosa, dal punto di vista ideologico. Siamo per la tutela della lingua, della cultura e dell’unità del popolo slavo. Siamo una formazione nazional-socialista, che ha profondi legami con la religione ortodossa. La finalità della nostra organizzazione è la propaganda, con tutti i mezzi possibili”. Quanti siete? “Circa cinquemila”. Cento dei quali sono finiti in carcere. “Quelli finiti in carcere hanno agito per conto proprio. Noi rigettiamo categoricamente ogni accusa”. Per cosa sono stati condannati? “Per estremismo, percosse, incitamento all’odio etnico, omicidio, terrorismo e altro”. Quindi lei non si sente responsabile della campagna di odio, dei pestaggi e degli omicidi commessi dagli estremisti di Ss in questi anni? “No, assolutamente. Chi ha commesso questi delitti ha agito non in nome dell’organizzazione, ma stravolgendo il suo credo ideologico. Quando non possono condannare l’organizzazione, cercano di condannare i singoli membri.”. Che lavoro fa? “Un po’ di tutto. Organizzo concerti, festival, corse motociclistiche, eventi sportivi. Adesso stiamo preparando il campionato mondiale di lotta senza regole. Mi interessa il mondo informale, quello che succede nelle strade. Mi interessa la cultura alternativa”. i congedo con una stretta di mano neutra, che nulla ha a che fare con il saluto dei giovani skinhead che avrei ‘imparato’ qualche giorno dopo. In apparenza, quest’uomo potrebbe essere un banale impiegato, che lavora in un ufficio banale e fa un lavoro banale. Eppure, sul suo sito, www.demushkin.com, in questi giorni inaccessibile, comparivano svastiche, link a siti di skinhead, braccia levate nel saluto romano, e un manuale dal titolo ‘Nazional-socialismo mistico: 1488 parole’. L’88 è il saluto nazista (Heil Hitler, essendo la ‘H’ l’ottava lettera dell’alfabeto), le quattordici parole sono: “Noi dobbiamo assicurare l’esistenza del nostro popolo e il futuro per i bambini bianchi”. Lo stesso Demushkin fu arrestato nel 2006 in relazione a un attentato a una moschea, dove una bomba esplose senza provocare vittime. La sua casa fu perquisita e alcune bandiere di Ss sequestrate. Il 20 agosto 2004, l’organizzazione antifascista Movimento giovanile per i diritti umani ricevette una lettera che minacciava una “notte dei lunghi coltelli” per “Yurov e Alekseeva”, che sarebbero stati “i prossimi dopo Girenko”. In allegato, la foto di un cecchino. Andrey Yurov era all’epoca il presidente del Movimento giovanile per i diritti umani, Ludmila Alekseeva la direttrice del Moscow Helsinki Group, istituzione nata per opporsi al neo-nazismo. Nikolay Girenko, un consulente antifascista le cui perizie servirono a incarcerare diversi skinhead, fu assassinato il 19 giugno 2004. L’autore della lettera, secondo il sito d’informazione russo MosNews, era proprio Dimitry Demushkin. “Slavianskiy Soyuz – la cui sigla in russo è Ss – divulgava sul suo sito che l’omicidio era preparato da tempo. Appariva un giovane vestito con l’uniforme delle guardie d’assalto nazionaliste, pistola alla mano e, sotto, la frase: ‘In Memoriam, Girenko’. I siti non sono stati chiusi. I loro proprietari e moderatori non sono stati incriminati”. Così scriveva Anna Politkovskaya, nel suo Diario russo, il 19 giugno 2004. In Russia molte aggressioni a sfondo razziale non vengono denunciate per paura. La risposta delle autorità è stata in passato assai debole, se non del tutto inefficace, perché la giustizia penale russa solitamente classifica tali episodi come ‘atti di vandalismo’, invece di far riferimento all’articolo 282 del Codice penale, che li qualifica espressamente come ‘delitti razziali’. Per qualche oscura associazione mentale, ripensando all’intervista a Demushkin torna alla memoria il nome del gruppo musicale da lui citato, Zyklon B. Solo ora ricordo perché il nome mi era in qualche modo familiare. Solo ora che mi appare davanti agli occhi una stanza delle baracche di Auschwitz, quella adibita a museo. In un angolo, accanto alle matasse dei capelli, alle scarpe, ai vestiti degli scomparsi, c’era una catasta di barattoli vuoti. Contenevano il gas letale che uccise milioni di persone. Su ciascuno, la stessa scritta: Zyklon B.

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In alto: Fibbia originale della Wehrmacht. In basso: Il saluto fascista degli skinhead di Mosca. Russia 2008. Luca Galassi ©PeaceReporter


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L’intervista Iran

Ritratto di famiglia Di Linda Chiaramonte È un viaggio indietro nel tempo quello della fotografa iraniana Malekeh Nayiny nel lavoro Updating a family album (19972000). In Italia per sua prima personale, venti scatti in cui fa rivivere i suoi cari rielaborando vecchie fotografie di famiglia con parenti sorridenti in posa davanti all’obiettivo. Usando un computer aggiunge colore e crea una sorta di collage. Il risultato sono abiti sgargianti che incorniciano visi degli anni Cinquanta. C’è una grande foto del nonno, mai conosciuto, una della madre da bambina insieme a una cugina, altre con tutti i membri della famiglia riuniti durante una festa. Un’operazione che ha l’effetto di una macchina del tempo, capace di attualizzare e rendere presenti persone che non ci sono più da tempo e con le quali l’artista è tornata a dialogare. La Nayiny, nata a Teheran nel ‘55, vive e lavora a Parigi da molti anni dopo aver vissuto fra Londra e New York, dove ha studiato fotografia e arti plastiche, racconta la sua vita attraverso queste immagini, ripercorre un pezzo della sua storia partendo da materiale intimo e personale riuscendo a tracciare un percorso sulla sua identità e quella della sua famiglia. Gli oggetti e la casa ritratti diventano un pretesto per mostrare le trasformazioni del suo Paese, l’Iran, prima e dopo la rivoluzione islamica. Come accade nel progetto Observations (2000) in cui l’artista aggiunge intorno alla foto del matrimonio dei genitori una serie di nove fototessere di madre e padre abbinati ad alcuni oggetti a loro cari: orologi, occhiali, pastiglie, gioielli. Abbiamo incontrato Malekeh Nayiny a Savignano, ospite dell’Immagini Festival 2008. Come è nata l’idea di lavorare sulle vecchie foto di famiglia? Alla morte di mia madre sono rientrata in Iran. La casa era piena di oggetti. C’erano tantissime cose da riorganizzare. In cantina ho ritrovato una scatola abbandonata in cui c’erano le vecchie foto di famiglia. Ho voluto fare qualcosa con quel materiale, ma era difficile farlo in Iran, c’era ancora troppo dolore per il lutto, non mi sentivo a mio agio. Ho pensato di fare un omaggio ai miei genitori facendo rivivere attraverso le foto di alcuni membri della famiglia episodi che non ho vissuto. Observations è un altro progetto basato sulle collezioni di oggetti di mio padre che ha lasciato molti passaporti di anni differenti e anche in questo caso ho deciso di fare un lavoro che segnasse il passare degli anni e della rivoluzione islamica, evidente nelle foto dei documenti di mia madre con o senza il velo. È stato un lavoro duro. Nelle sequenze è evidente come il tempo cambi la gente e come gli anni lascino le tracce dell’esperienza sui visi come succede per tutto ciò che è accaduto in Iran. Io stessa osservo come il tempo ha cambiato il nostro Paese. Sono nata e ho vissuto in un’epoca spensierata, subito dopo tutto è diventato più severo: le donne obbligate a indossare il velo, un cambiamento enorme e repentino. Ho lasciato l’Iran a 17 anni per andare a studiare in Inghilterra, ma è cambiato molto da allora ed è interessante riguardare queste foto perché mostrano un’altra faccia dell’Iran. Oggi quando si parla di Iran si parla sempre di donne molto religiose e si dimentica ciò che accadeva prima.

Cosa rappresenta per lei il concetto di identità? A quale si sente di appartenere? L’ultima volta che sono andata in Iran, sei anni fa, non mi sentivo per niente a mio agio, non ero in linea con quello che accadeva lì, ho sentito molta sofferenza nei racconti della gente. Quel viaggio è stato molto pesante per me. In quel momento non sapevo chi ero veramente, non mi sentivo radicata nel mio Paese né a Parigi, né altrove. Come avere un piede in diversi luoghi. Fuori dall’Iran, all’estero, siamo fatti di collage, di mescolanze di tutti i paesi diversi. Personalmente la parola “integrato” non mi appartiene, non mi sento mai integrata in nessun paese. Ora guardo l’Iran con gli occhi di una turista. La mia famiglia e la mia casa non ci sono più, molti parenti sono morti, altri, come me, vivono in Europa, in Pakistan, negli USA. Dopo la rivoluzione anche i nomi delle strade sono cambiati, è una strana sensazione: ci sono alcune tracce del mio passato, ma la maggior parte è stato demolito, cancellato. La sua arte è totalmente autobiografica? È tutto ciò che mi tocca, non è fuori da me, ma questo può causare problemi. In passato, ad esempio, le gallerie non si interessavano ad artisti iraniani che non parlassero del loro paese, era una cosa inaccettabile. Il mio lavoro non è solo centrato sull’Iran. So che non sono stata inserita in alcune esposizioni a causa di questo, ad eccezione di questi lavori. Ora è un buon momento per gli artisti iraniani, ma c’è sempre il marchio dell’identità. Si è classificati come artisti iraniani, mentre io sono felice di non essere dentro a questo schema. Sono una fotografa fra gli altri, non incasellata come fotografa iraniana. Ci sono altre cose che mi interessano, il mio Paese è là ma non è la mia vita, non mi sento legata all’Iran com’è oggi, ma riconosco che il nostro passato si impone molto su di noi. Il mio è stato molto privilegiato, ho avuto un’infanzia interessante, quando guardo indietro mi accorgo che c’erano tante cose che oggi non esistono più e questo lo conservo nella mia memoria come una cosa preziosa. Il contrasto con oggi è enorme, il nostro stile di vita era agiato con una vita sociale molto vivace, ora c’è molta solitudine. Gli stranieri come me vivono sempre una separazione, la nostra vita è instabile. Pensa che potrebbe lavorare in Iran? Non mi immagino a vivere in Iran, forse a torto. Può darsi che la prossima volta che ci andrò ci sarà qualcosa che mi ispira che mi farà decidere di restare un anno per lavorare lì, ma l’ultimo viaggio non è stato così, sono rientrata con molta tristezza e con la sensazione di essere straniera. Chissà, molti miei amici adorano viverci… L’Album di famiglia rivisitato sarà esposto a Torino dal 4 al 30 novembre all’interno della mostra Artifacts in occasione delle manifestazioni di Contemporary. La famiglia di mia madre. Malekeh Nayiny per PeaceReporter

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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

Le buone nuove India: mercanti di pace Per la prima volta dalla guerra indo-pachistana del 1947-’48, è stata riaperta al traffico commerciale la strada di montagna lunga 170 chilometri che collega Srinagar, nel Kashmir indiano, a Muzaffarabad, nel Kashmir pachistano, attraverso il nuovo Ponte della Pace. La speranza è che la ripresa dei commerci riporti un po’ di serenità nel Kashmir occupato dalle truppe indiane, dopo la sanguinosa repressione delle proteste indipendentiste delle ultime settimane, costate finora la vita a 49 manifestanti.

Libano: la diplomazia siriana nel Paese dei Cedri Il presidente siriano Bashar al-Assad ha firmato un documento storico, con il quale vengono aperte, per la prima volta dagli anni ‘40, relazioni diplomatiche tra Damasco e Beirut. I quattro articoli del provvedimento legislativo stabiliscono, brevemente, “l’apertura di rapporti diplomatici tra la Repubblica Araba Siriana e la Repubblica Libanese” e “la creazione di un’ambasciata nella capitale libanese”. Anche se non è stata indicata una data precisa dalla quale sarà operativa una missione diplomatica nel Paese dei Cedri, un funzionario del ministero degli Esteri ha rivelato all’agenzia Afp che entro fine anno tutto sarà pronto.

L’Africa dice no alle cluster bomb “Tutti i paesi africani, senza alcuna eccezione, firmeranno il trattato sul bando delle cluster bomb – o bombe a grappolo – che verrà siglato il prossimo 3 dicembre a Oslo, in Norvegia.” È questo il cuore della dichiarazione approvata a conclusione dei lavori della riunione, a cui hanno partecipato nella capitale ugandese 42 stati africani, per il “Kampala Action Plan”. Questi 42 paesi africani che hanno sottoscritto il “Kampala Action Plan” si vanno ad aggiungere a un gruppo di 111 paesi che lo scorso maggio in Irlanda avevano adottato la convenzione contro le cluster bomb; un altro importante passo verso la totale cancellazione delle bombe a grappolo dalla storia. 16

I separatisti ancora verso la guerra

Sri Lanka, la guerra a una svolta

La ferita aperta del Tigri tamil Sud Sudan sotto assedio a scoperta che la destinazione finale delle armi sequestrate sulla nave ‘Faina’ da pirati somali è il Sud Sudan rischia di creare un serio ostacolo al processo di pace tra Khartoum e la regione semi-autonoma controllata dagli exribelli del Spla (Sudan People Liberation Army, ora Splm, dove la a finale si è convertita nella m di movement). L’Splm possiede già diversi carri armati di concezione sovietica usati durante la battaglia di Abyei, la ricca zona petrolifera al confine tra nord e sud, dove a maggio sono scoppiati scontri con centinaia di morti. Mentre l’attenzione di Khartoum è interamente assorbita dal conflitto in Darfur, il Sud si starebbe riarmando in vista del referendum del 2011, che potrebbe sancire l’indipendenza. Le parti hanno guerreggiato per circa un ventennio, finché la pace del 2005 non ha visto l’entrata nel governo centrale di rappresentanti del Sud, a formare un esecutivo composto da exnemici: presidente Omar al Bashir, vice-presidente Salva Kiir dell’Splm. La nave ‘Faina’ ha riacceso i riflettori sulla diffidenza recipoca che anima da sempre le parti. Diffidenza aumentata dopo che, nel 2006, è stato scoperto il petrolio. Ma la questione non è, tuttavia, solamente legata all’oro nero. Un altro catalizzatore delle tensioni è la storica rivalità tra due comunità, i Misseriya, in larga parte filo-Khartoum, e i Ngok Dinka, fedeli ai separatisti del sud. Per decenni, i due gruppi hanno vissuto in condizioni di relativa concordia, gestendo tra loro problemi come il pascolo o l’abbeveramento del bestiame durante i periodi di siccità. Col tempo, e con la scoperta dei giacimenti, le frizioni tribali si estesero a livello nazionale. Nel 2003, una Commissione fu incaricata di risolvere la disputa tracciando un confine che correva lungo il fiume Kiir. Khartoum ha rifiutato le conclusioni della commissione, e la ferita di Abyei è rimasta aperta nonostante gli accordi di pace tra governo e Spla. Oggi, oltre al Darfur, in Sudan è questa ferita a rappresentare il fulcro delle preoccupazioni internazionali.

embra arrivata a un punto di svolta la guerra civile in Sri Lanka tra il governo nazionalista singalese e gli indipendentisti tamil: uno dei più lunghi, sanguinosi - e dimenticati - conflitti in corso nel mondo (70 mila morti dal 1983). Negli ultimi mesi l’esercito di Colombo ha compiuto una rapidissima avanzata verso nord, strappando alle Tigri tamil (Ltte) larghe porzioni del loro territorio e arrivando fino alle porte di Kilinochchi, la roccaforte e ‘capitale’ degli indipendentisti. A fine ottobre, mentre il presidente singalese Mahinda Rajapaksa già assaporava la vittoria finale e la definitiva capitolazione dei ribelli tamil guidati da Velupillai Prabhakaran, l’arrivo delle torrenziali piogge monsoniche stagionali ha cambiato le carte in tavola. La guerriglia tamil, che fino a quel momento aveva opposto scarsa resistenza all’avanzata governativa, ha approfittato delle condizioni del terreno - sfavorevoli ai mezzi pesanti dell’esercito - e ha lanciato la sua controffensiva. Le truppe governative hanno subìto pesanti perdite e sono state costrette a indietreggiare. Ma non hanno mollato la presa. La caduta di Kilinochchi è forse rimandata di qualche mese, ma è ormai evidente che la guerriglia indipendentista tamil è allo stremo. Non tanto dal punto di vista militare, quanto da quello del sostegno popolare. La popolazione tamil, già stremata da venticinque anni di guerra, non ce la fa più. In questi ultimi mesi è stata costretta a fuggire in massa dai combattimenti (quasi 250 mila nuovi sfollati) ammassandosi negli ultimi lembi di territorio ribelle senza nessuna assistenza umanitaria. Il governo di Colombo ha infatti ‘invitato’ le Ong straniere a lasciare le zone tamil e sta ostacolando l’ingresso dei convogli umanitari dell’Onu e della Croce Rossa Internazionale. Le piogge monsoniche stanno facendo il resto, allagando le improvvisate tendopoli e favorendo la diffusione di malaria e diarrea, quest’ultima soprattutto tra i bambini.

Luca Galassi

Enrico Piovesana

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INDIA Una grande democrazia in pericolo

’ la più grande democrazia al mondo, se si guarda il numero degli abitanti. Ma con il suo miliardo e cento milioni abbondanti di persone, ossia un sesto della popolazione mondiale, l’India vede la sua stabilità messa in pericolo da diversi conflitti interni, tanto che molti osservatori sono stupiti dalle capacità di tenuta della democrazia indiana. Dietro la tanto strombazzata India della new economy, delle vetrine informatiche di Bangalore, della Borsa di Mumbai che in pochi anni ha moltiplicato il suo valore, c’è un paese che ha ancora problemi enormi. E oltre alla povertà diffusa, all’analfabetismo, alla sovrappopolazione (l’India è grande come dieci Italie, ma ha venti volte il nostro numero di abitanti), alla vulnerabilità alle piogge monsoniche, alla mancanza di infrastrutture, il subcontinente è solcato da tensioni tra diverse comunità in diverse parti del suo territorio. Sono conflitti religiosi, politici, indipendentisti, sociali, che dai vari problemi del Paese prendono sicuramente linfa. Estremisti indù contro cristiani. Musulmani fortemente sospettati di essere i responsabili di attentati esplosivi in tutto il paese. Ribelli maoisti che combattono per la redistribuzione delle terre. Minoranze dell’estremo lembo nord-orientale, quasi una nazione a parte, che lottano da decenni per l’indipendenza. Le rinnovate ambizioni separatiste dei musulmani nel Kashmir, una terra contesa con il Pakistan da sessant’anni, recentemente ritornata alla violenza dopo anni di relativa calma. La situazione è quantomeno fluida, ma soprattutto non sembra in via di miglioramento. Tanto più che il prossimo anno, nel maggio 2009, sono previste le elezioni parlamentari che potrebbero riportare al potere i nazionalisti indù al posto del laico Partito del congresso. Dovesse succedere, molti analisti temono un inasprimento di questi conflitti ancora aperti. L’ultima polveriera, in ordine di tempo, si è accesa nello stato nord-orientale dell’Orissa, tra indù e cristiani. Dopo l’omicidio di un leader estremista indù a fine agosto, attribuito dalla polizia locale ai ribelli maosti, i fondamentalisti indù hanno comunque individuato i colpevoli nei cristiani locali, una minoranza esigua (il 2,4 percento nel paese) ma in forte crescita in alcune zone. Da allora, scontri tra indù e cristiani in una fascia che va dal nord-est al sud-ovest dell’India hanno provocato decine di morti. L’attivismo missionario dei cristiani, che esercitano un forte fascino sulle

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caste di indù più poveri, è visto con crescente fastidio dagli estremisti indù. I recenti attentati esplosivi a Delhi (13 settembre), Ahmedabad (26 luglio) e Jaipur (13 maggio), per citare solo i più cruenti, hanno inoltre riportato la paura in tante città indiane, anche perché mancanti di una chiara rivendicazione. Negli ultimi tre anni, si contano almeno 550 morti in diversi attentati attribuiti dalle autorità a gruppi islamici sostenuti dal Pakistan. Sono spesso esplosioni multiple – ad Ahmedabad 22 ordigni, a Jaipur sette – di bombe piazzate nei punti più trafficati delle città, con l’apparente motivo di fare il più alto numero di vittime possibile. Gli attentati riportano l’attenzione sulla condizione dei musulmani nel Paese. Sono “solo” il 13,4 percento della popolazione, ma ciò vuol dire che, con 150 milioni di musulmani, l’India è dietro solo all’Indonesia come numero di abitanti di fede islamica, superando anche il Pakistan. Soprattutto nel nord del Paese, i musulmani sono spesso di livello socio-economico più basso, e rimangono sottorappresentati nelle istituzioni e nella pubblica amministrazione. Rimangono poi i conflitti “storici”, che proseguono da decenni senza una conclusione. A cominciare da quello con i Naxaliti, gruppi comunisti di ispirazione maoista in rivolta da quarant’anni e protagonisti di aspri scontri con l’esercito dal 1980, con violenze che hanno causato almeno 6.000 vittime. Questi guerriglieri contadini, che si battono per una più equa distribuzione dei terreni coltivabili, sono ancora attivi in tutta la fascia orientale del Paese, dai confini col Bangladesh alla punta più a sud del subcontinente. Così come restano aperti i vari conflitti indipendentisti degli stati nordorientali (Assam, Nagaland, Tripura, Manipur, Mizoram), collegati all’India da un fazzoletto di territorio e stretti tra Bangladesh, Myanmar e Cina. Gli abitanti di questi stati, appartenenti a diversi gruppi etnici, non si sono mai sentiti veramente “indiani” e accusano il governo di sfruttare le risorse minerarie della regione senza investire nell’economia locale. In circa trent’anni, questi conflitti hanno provocato circa 50mila morti. E dopo anni di sostanziale calma rispetto alla guerriglia degli anni Novanta, negli ultimi mesi la situazione è ritornata pesante anche nel Jammu e Kashmir, dove dal 1989 la lotta separatista dei militanti kashmiri musulmani ha causato tra i 70mila e i 90mila morti. La tratteremo in maniera più approfondita nella quarta pagina di questo atlante sull’India.


India

AFGHANISTAN

JAMMU & KASHMIR

Srinagar

PAKISTAN

HIMACHAL PRADESH Shimla

PUNJAB Chandigarh Ludhiana

CINA TIBET

Dehradun UTTARAKHAND

HARYANA

ARUNACHAL PRADESH Delhi RAJASTAN

NEPAL Ganglok

Jaipur

Ajmer

ASSAM Dispur Shilleng MEGHALAYA

BIHAR Patna

Gandhinagar

BANGLADESH

JHARKHAND

Bhopal

Ahmedabad

Ranchir

GUJARAT

BHUTAN

UTTAR PRADESH Lucknow Varanasi

Itanagar

SIKKIM

WEST BENGALA

Agartala TRIPURA

NAGALAND Kohima Imphal MANIPUR

Alzawl MIZORAM

Kolkata

MADHYA PRADESH

MYANMAR

CHATTISGARH Raipur

Malegaon

Bubaneshwar ORISSA

Mumbai MAHARASHTRA Hyderabad ANDHRA PRADESH

Distribuzione della guerriglia Naxalita Panaji GOA

aree ad alta densità di scontri KARNATAKA

OCEANO INDIANO

Chennai

Bangalore

aree con moderata presenza di violenze

Puducherry

aree toccate marginalmente TAMIL NADU

KERALA Thiruvananthapuram

SRI LANKA


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Delhi, 13/9/08, 18 morti Delhi, 29/10/07, 62 morti Ahmedabad, 26/7/08, 22 morti Bangalore, 25/7/08, 2 morti Jaipur, 13/5/08, 61 morti Lucknow, Varanasi, Faizabad, 24/11/07, 16 morti Ludhiana, 14/10/07, 6 morti Ajmer, 11/10/07, 3 morti Ahmedabad, 25/8/07, 43 morti Ahmedabad, 18/5/07, 11 morti Malegaon, 8/9/07, 31 morti Mumbai, 11/7/06, 187 morti Varanasi, 7/3/06, 20 morti

AFGHANISTAN

JAMMU & KASHMIR

Srinagar

PAKISTAN

HIMACHAL PRADESH Shimla

PUNJAB Chandigarh Ludhiana

Dehradun UTTARAKHAND

CINA TIBET

HARYANA Delhi

RAJASTAN

ARUNACHAL PRADESH

NEPAL

Ganglok

Jaipur

UTTAR PRADESH

Ajmer

ASSAM Dispur Shilleng MEGHALAYA

BIHAR

Patna

Gandhinagar

JHARKHAND

Bhopal

Ahmedabad

Ranchir

GUJARAT

BHUTAN

Faizabad

Lucknow Varanasi

Itanagar

SIKKIM

BANGLADESH

WEST BENGALA

Agartala TRIPURA

NAGALAND Kohima

Imphal MANIPUR

Alzawl MIZORAM

Kolkata

MADHYA PRADESH

MYANMAR

CHATTISGARH

Raipur

Malegaon

Bubaneshwar

ORISSA

Mumbai

MAHARASHTRA

Hyderabad

ANDHRA PRADESH

Distribuzione dei musulmani

Distribuzione dei cristiani

totale popolazione: 1 miliardo musulmani: 138 milioni (13,4%)

Panaji GOA

pi첫 di 10 milioni

pi첫 del 50%

5 - 10 milioni

20 - 50%

1 - 5 milioni

5 - 20%

meno di 1 milione

1 - 5%

KARNATAKA

OCEANO INDIANO

Chennai

Bangalore

Puducherry

TAMIL NADU

KERALA

Thiruvananthapuram

SRI LANKA

Maharashtra: 10,2 milioni (10,6%) Uttar Pradesh: 30,7 milioni (18.5%) Bihar: 13,7 milioni (16,5%) West Bengal: 20,2 milioni (25.2%)


Kashmir

Diviso tra tre stati e motivo scatenante di tre guerre tra India e Pakistan, il Kashmir continua a essere un punto di tensione tra i due Paesi. Dopo i tre conflitti del 1947, del 1965 e del 1971, la regione è divisa tra una parte indiana (lo stato del Jammu e Kashmir), una parte pachistana e una fetta di territorio controllata dalla Cina, in un confine non riconosciuto dall’India. Le sezioni indiane e pachistane sono divise da una “Linea di controllo” tracciata nel 1972, che funge da frontiera provvisoria, ed è uno dei confini più militarizzati al mondo. Il Jammu e Kashmir è a sua volta suddiviso in una parte meridionale a grande maggioranza induista, e una vallata settentrionale di popolazione kashmira e religione musulmana. LA GUERRIGLIA SEPARATISTA Nel Jammu e Kashmir, unico stato indiano a maggioranza musulmana (il 67 percento della popolazione) è attivo da tempo un movimento indipendentista diviso in vari gruppi. Le organizzazioni più attive sono il Fronte per la Liberazione del Jammu e del Kashmir (JKLF), i Mujahedeen Hezb-ul, la Confederazione dei Partiti Liberi e Lashkar-e-Toiba, con base in Pakistan e collegata ad Al-Qaeda. Gli obiettivi variano: molti kashmiri desiderano un’annessione al Pakistan, altri sognano semplicemente uno stato indipendente che comprenda anche il Kashmir ora controllato da Islamabad. Scatenatasi nel 1989, la lotta separatista è stata repressa duramente dalle

forze armate indiane, che nella regione hanno oltre un milione di uomini. Ma se negli anni Novanta la caccia ai militanti si spingeva fin dentro le vie di Srinagar, la capitale estiva dello stato e principale città della vallata musulmana, progressivamente la situazione era migliorata, con scontri confinati perlopiù nei villaggi vicini al confine. Il sogno di indipendenza kashmiro, piano piano, aveva sempre meno presa sui giovani. NUOVE TENSIONI Mentre proseguono gli scontri tra forze di sicurezza e militanti musulmani separatisti (542 da gennaio a settembre, comunque in calo rispetto al passato), lo scorso giugno le tensioni nella regione si sono riacutizzate. La scintilla è stata la disputa intorno all’assegnazione di 40 ettari al complesso di un tempio indù nella valle del Kashmir. Dopo le proteste di piazza dei musulmani e il passo indietro del governo regionale sul progetto, sono stati gli indù della parte meridionale dello stato a creare disordini, bloccando l’unica strada che collega la vallata – dove non arriva la ferrovia – al resto dell’India, e provocando così un nuovo risentimento da parte dei musulmani. Dopo 30 morti nelle proteste, domate a fatica dalle forze dell’ordine, il governo indiano ha imposto un coprifuoco, ma la tensione resta alta.


Grecia - Macedonia, risale la tensione

Bolivia verso il referendum

Il numero dei morti dal 18 settembre al 22 ottobre

Lotta per un nome antico

Si torna alla normalità

Un mese di guerre

on quale lingua si esprimeva Alessandro Magno il Macedone, con il greco? Questa che potrebbe sembrare una domanda di storia antica è al centro di dibattiti e rivendicazioni sui blog di giovani greci e macedoni, quelli della Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, che si contendono la figura del grande condottiero. Il celebre oratore greco Demostene non aveva dubbi: la stirpe macedone non apparteneva al mondo greco bensì a quello dei barbari, “impossibili da utilizzare anche come schiavi”. Tra Atene e Skopje è in corso un lungo braccio di ferro, iniziato già l’8 settembre del 1991, quando la Macedonia è uscita dalla Jugoslavia proclamando la propria indipendenza. La “lotta” è tutta intorno al nome: i greci non accettano che la nazione di cui Skopje è la capitale, si chiami Macedonia. Non la accettano per motivi di orgoglio storico e anche politici, temendo che il passo da lì alle pretese territoriali sulla loro regione settentrionale chiamata anch’essa Macedonia, sia molto breve. Dal momento che le Nazioni Unite, nel 1993, decisero di aprire le porte alla nuova repubblica, la Grecia ottenne che venisse riconosciuta con il nome di Fyrom (Former Yugoslav Republic of Macedonia). Ciononostante, ben 118 Stati riconoscono la Macedonia con la denominazione costituzionale che Skopje si è data, per l’appunto Macedonia. Nell’aprile scorso, a Bucarest, Atene ha posto il veto sull’invito della Nato alla Macedonia a far parte del Trattato, veto che verrà meno solo dopo che Skopje deciderà una nuova denominazione. L’inviato Onu Matthew Nimetz, incaricato di mediare la questione, ha avanzato diverse proposte: da Repubblica della Macedonia del Nord a Alta Macedonia. La soluzione che si preferirebbe ad Atene è Repubblica di Skopje, ma sembra che le posizioni si stiano ammorbidendo. Intanto qualcuno a Skopje invita ad accelerare per risolvere la questione prima della scadenza del mandato Bush, il maggiore sponsor per l’ingresso nella Nato. Per molti, infatti, vanno sì salvati onore e dignità ma, avvertono, non si può mancare il treno che porta a Bruxelles.

opo settimane di duro lavoro maggioranza e opposizione hanno trovato finalmente l’accordo per l’approvazione di una legge che permetta la convocazione di un referendum popolare per la ratifica della nuova Costituzione. Il nuovo testo era stato approvato nel dicembre 2007 fra mille polemiche e con l’assenza dei gruppi politici d’opposizione. La data prevista per il referendum è il 25 gennaio 2009. Nel mese di dicembre dello stesso anno sono state previste anche le elezioni generali. Dopo mesi di stallo, dunque, la situazione boliviana sembra essere tornata alla normalità. Ma non è stato semplice giungere a questo risultato, lo stesso presidente Evo Morales ha dovuto cedere a qualche richiesta dei movimenti d’opposizione. Su tutte la sua rinuncia a ricandidarsi alle elezioni del 2014. Non solo. Morales ha promesso diversi cambiamenti che vanno dal decentramento del potere amministrativo alla riforma agraria fino a giungere a una revisione della distribuzione dei proventi derivanti dall’industria petrolifera statale. A vigilare sui lavori, in modo che fosse rispettata l’intesa raggiunta con le forze dell’opposizione, c’erano decine di migliaia di campesinos e di operai radunati nella località di El Alto, a pochi chilometri da La Paz, dopo settimane di marce di protesta. Il loro intervento, fortunatamente, non è servito. Dopo aver appreso la notizia alcune migliaia di indios, sostenitori di Morales, che nel frattempo avevano raggiunto la piazza Murillo (dove ci sono i palazzi del potere), hanno festeggiato. Purtroppo per arrivare a questo la Bolivia ha anche dovuto pagare un pesante tributo in termini di vittime. Scontri fra opposte fazioni avevano causato nelle scorse settimane morti e feriti. Alcune sedi istituzionali di diverse città erano state occupate e la forza pubblica a stento era riuscita a mantenere l’ordine. Oggi, nonostante le concessioni che Morales ha dovuto fare per portare a casa un risultato tanto atteso, la situazione è tornata alla normalità. Fino alla prossima volta.

PAESE

Nicola Sessa

Alessandro Grandi

C

D

Sri Lanka Pakistan talebani Iraq Afghanistan Somalia Filippine Abu Sayyaf/Milf India Kashmir Colombia India Nordest Turchia Filippine Npa Nord Caucaso Nigeria Sudan Pakistan Beluchistan Israele-Palestina Uganda Thailandia del sud India Naxaliti Algeria Burundi Bangladesh

TOTALE

MORTI

874 867 562 465 197 106 76 75 66 63 41 41 39 35 32 25 23 17 15 4 4 2

3 629

I dati che qui riportiamo sono dati ufficiali, raccolti da agenzie di stampa internazionali o locali. Per cui sono da intendersi sempre per difetto: in molti paesi del mondo non si contano i vivi, figuriamoci i morti.

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Qualcosa di personale Haiti

La playmate dei bambini Di Susan Scott Krabacher Testo raccolto da Carolina Pasargiklian e Alessandro Grandi A volte per curare le nostre ferite bisogna curare le ferite altrui. Io ho passato gli ultimi anni della mia vita fare questo. o mollato tutto: successo, fama, denaro, i gloriosi Stati Uniti e ho viaggiato fino ad Haiti, dove ho fondato un’organizzazione, Haiti Children, per dare sostegno ai bambini di quel paese da sempre fanalino di coda nella classifica dei paesi più ricchi del pianeta. Il mio nome è Susan Scott Krabacher, sono (anche) una ex playmate della scuderia del mitico Hugh Hefner. Dalle pagine patinate della rivista più discussa del mondo alle polverose e violente strade della capitale haitiana per aiutare, dando loro sostegno e un futuro, le piccole generazioni di haitiani, guidata dai ricordi dolorosi della mia infanzia. Da sempre ho cercato di curare le ferite che mi portavo dentro, fin da bambina. Gli stupri e le violenze psicologiche subite sono ferite difficili da rimarginare. Oggi cerco di aiutare quei bambini, che per di più sono stati anche abbandonati. I soldi, le droghe e le feste non erano la cura giusta per i miei dolori. Ho letto tutti i self help books possibili seguendo alla lettera tutto quello che consigliavano. Ma i miei mali non passavano. Ero combattuta interiormente. I miei amici mi deridevano perché ogni settimana cambiavo tipo di autocura. Poi una notte ero molto depressa e l’ho passata leggendo un libro molto speciale: la Bibbia. Sono rimasta folgorata dalla storia della vita di questo ragazzo, Gesù, e ho deciso che l’avrei preso in parola. Da quel momento la mia vita è cambiata. Mi sono impegnata e mi sono detta che diventare una buona cristiana non sarebbe stato difficile, seguendo dieci semplici regole. Per questo ho deciso di fare qualcosa per gli altri: a volte, per curare le nostre ferite, bisogna curare le ferite altrui. Ho passato gli ultimi quindici anni della mia vita a fare questo. Ma non tutto è stato facile. Quando ho chiesto di poter partecipare a lavori di volontariato alle grandi organizzazioni, intorno a me vedevo molta diffidenza. Il mio background non mi aiutava. Anche per questo motivo ho pensato di fare da sola e andare ad Haiti, che era anche un paese poco conosciuto e pieno di necessità. Il luogo giusto per portare il mio sostegno: una nazione in grave crisi, dove quando sono arrivata non c’erano organizzazioni di un certo peso.

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con ricordi che non svaniscono, tutti i giorni insieme ai miei collaboratori cerco di costruire un futuro per i bambini fra i più sfortunati della terra. Voglio educarli per crescere come leader. Aiutarli a diventare adulti. Lasciarli per le strade è come regalarli alle organizzazioni criminali. Il nostro obiettivo è quello di renderli autonomi anche nel pensiero, in modo che un giorno molti di loro possano prendere in mano la leadership del Paese e cambiarlo. In queste settimane iniziamo a vedere i frutti del 18

nostro lavoro di anni, e alcuni ragazzi che sono stati cresciuti da noi iniziano a lavorare per l’organizzazione, prendendosi cura dei bambini. Questi sono davvero i leader del futuro. Li abbiamo educati secondo la regola che sono loro che devono cambiare le sorti di Haiti e non aspettare gli aiuti della comunità internazionale. In questo paese, dove i bambini muoiono a un ritmo allarmante, le difficoltà sono moltissime. a guerra fra poveri sembra non avere pietà nemmeno davanti a un’opera di bene. Nel corso degli anni sono stati rapiti a scopo di estorsione sessantadue dei nostri bambini. Dalle minacce si è passati ai fatti. E anche negli ultimi tempi ho subito diverse minacce di rapimento. La mia testardaggine, però, mi dà la forza per non mollare. Insieme alla fede che mi porto dentro, mi consente di andare avanti e dare una mano ai più bisognosi. Come dice chiaramente il messaggio della Bibbia. Lavoro in una comunità di oltre quattromila persone. La maggioranza sono bambini. Cerchiamo di aiutarli in tutti i modi perché la povertà ad Haiti è qualcosa di apocalittico. Queste persone non hanno niente e ancora oggi si devono mettere in fila per l’acqua. La gente non ha nemmeno le lacrime per piangere. E se capitano giorni di euforia, magari quando si scoprono determinate attitudini dei ragazzi, perché le giovani generazioni di haitiani hanno un’intelligenza particolare, non mancano i momenti in cui ci si fa prendere dallo sconforto, quelli più difficili da superare anche per chi da sempre è abituato a lottare con se stesso e con un malessere interiore. Abbiamo perso un bambino di due anni che soffriva di una malformazione dalla nascita e che credevamo di poter salvare. Una notizia che mi ha scosso molto e che rattrista tutti quelli che gravitano intorno alla mia organizzazione. C’è ancora molto lavoro da fare per questa gente. Anni fa, se mi avessero detto che avrei visto tanta sofferenza negli occhi dei bambini e per questo avrei sofferto anch’io, non avrei fatto questa scelta. Adesso però mi rendo conto che era l’unica possibile, la migliore che potessi fare. E per trovare un po’ di pace dalla graffiante violenza e dalla profonda povertà delle bidonville della capitale haitiana o dalle periferie delle città del Paese dove opera la mia organizzazione, ogni tanto faccio il percorso opposto e mi ritiro per qualche giorno di riposo con mio marito, colui che mi ha sempre seguito, supportato, aiutato, in Colorado. Perché ogni tanto è giusto staccare la spina e non farsi fare troppe domande difficili.

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Susan Scott Krabacher ad Haiti. Archivio PeaceReporter


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La storia Sud Ossezia

L’eroe disarmato Dal nostro inviato Nicola Sessa

Quando arriva, la guerra cala la sua ombra di morte e distruzione. A volte punta con precisione agli obiettivi, altre volte, come a Tskhinval, agisce a caso, corre per le strade e colpisce a occhi bendati. ul campo di battaglia rimangono i corpi, le macerie e un gran silenzio. Si comincia a fare la conta, a vedere in quanti si è rimasti e poi vengono fuori i nomi degli “eroi”, di quelli che si sono distinti nella battaglia, di quelli che hanno combattuto strada per strada per difendere la propria gente. Il tenente colonnello Valentin Gobozov è un eroe che ha salvato molte vite. Ma non combattendo. La sua è una figura sottile e slanciata, ha due baffi ben disegnati, racchiusi da due rughe espressive che lasciano immaginare i sorrisi sul suo volto austero. I suoi occhi nocciola attraversano l’interlocutore e non ha bisogno di alzare la voce, consumata dal fumo, per dettare i comandi. Gobozov è il direttore del carcere di Tskhinval. Nella notte tra il 7 e l’8 di agosto, alle quattro del mattino, Gobozov si alza di scatto dal letto. Una pioggia di missili grad sta cadendo sulla città. L’esercito georgiano, appostato sulle colline a sud e ovest di Tskhinval, sta scaricando l’artiglieria pesante sugli edifici del quadrante meridionale, dove si trova anche il carcere. Dopo aver messo la famiglia al sicuro, Gobozov prende il suo fuoristrada, una Lada, e corre verso la prigione. Non è molto lontana da casa sua, ma il tragitto gli sembra lunghissimo. Deve pensare ai suoi ottantotto “ospiti”, o “pazienti”, come li chiama lui. Sa che non c’è tempo da perdere e che non vi è possibilità di consultare le autorità governative per decidere sul da farsi. Sarà lui stesso ad aprire le celle e a liberare le otto donne e gli ottanta uomini detenuti nell’istituto, destinati a una morte quasi certa, una morte da topi.

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obozov non ha pensato alle conseguenze disciplinari che avrebbero potuto colpirlo, ha pensato alla vita di quegli uomini e quelle donne a cui lui ha cercato di dare maggior dignità da quando è diventato responsabile del carcere, nel maggio del 2007. Nel primo giorno da direttore, ha chiesto alle guardie carcerarie di avere un rapporto il più umano possibile con i detenuti; e ai detenuti di rivolgersi a lui per ogni richiesta o esigenza. Solo dopo che l’Armata Rossa è arrivata in città respingendo i georgiani a sud del confine de facto con la repubblica sud-osseta, Gobozov ha potuto cominciare a preoccuparsi dei suoi “pazienti”. È ritornato nel carcere fantasma, con le porte delle celle ancora spalancate. Insieme al suo staff ha esaminato i danni procurati all’edificio dai bombardamenti. Ha trasmesso un rapporto al ministero di Giustizia, ha telefonato agli ospedali di Tskhinval e Vladikavkaz, la capitale dell’Ossezia del Nord, per avere notizie di prigionieri che eventualmente fossero rimasti feriti o, peggio ancora, morti nei giorni di guerra. Con sua grande sorpresa, il mattino del 15 agosto, mentre si trova nel suo ufficio, arrivano alla spicciolata quaranta dei suoi “ospiti”

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pronti a rientrare in carcere. Gobozov non crede ai suoi occhi, non sperava in una cosa del genere. Il tenente colonnello può essere definito a pieno titolo un uomo tutto d’un pezzo. E ancora una volta, con grande freddezza, parla a questi “uomini d’onore” spiegando loro che l’edificio, cui manca acqua, elettricità e gas, non è pronto ad accoglierli e a garantire un “soggiorno” umano. Senza crederci troppo, li invita a pazientare un’altra settimana, il tempo necessario per ripristinare i servizi essenziali. Prende questa decisione, ancora una volta, senza consultarsi con il ministero di Giustizia. Il 21 agosto, in piazza a Tskhinval, c’è il maestro Valery Gergiev con l’Orchestra di San Pietroburgo. Il concerto di Requiem per le vittime della guerra lampo, segna ufficialmente, per la capitale sud-osseta, il ritorno alla vita normale. Gobozov, quando lo racconta, non riesce a trattenere la sua incredulità e nemmeno il suo orgoglio. Perché dopo una settimana esatta dal 15 agosto, all’indomani del concerto in piazza, i detenuti ritornano ancora una volta. Lui li ringrazia uno per uno ammettendo che non aveva speranze in un evento del genere, ma che mai si è pentito per la scelta fatta la notte tra il 7 e l’8 di agosto. uando il 17 settembre ci siamo incontrati nel suo ufficio, il direttore aveva sulla scrivania la lista stampata dei quaranta rientrati. Sotto, a penna, altri sette che si erano aggiunti nelle due settimane seguenti e poi ancora, in basso a destra, il nome di altri dieci scritti a matita, che gli avevano telefonato, chiedendo di mandare qualcuno a Vladikavkaz a prenderli. Erano andati in Ossezia del Nord con i pulmini dei rifugiati nel campo profughi allestito ad Alagir, ma quando hanno tentato di rientrare sono stati respinti alla frontiera perché privi di documenti. Nella lista di Gobozov c’era un detenuto, che era entrato in carcere il 20 marzo del 2007 e che finirà di scontare la sua pena il 10 ottobre 2027. “Nessuno di loro - dice il direttore - è rientrato sperando in una diminuzione della pena, o meglio ancora in un’amnistia, perché sanno che io non ho il potere per fare ciò”. A suo dire, presto rientreranno altri “pazienti”. “Cinque sono all’ospedale di Vladikavkaz per le ferite subite durante gli scontri; ci stiamo organizzando per recuperare quei dieci che hanno telefonato dall’Ossezia del Nord. Per quanto riguarda gli altri, ho interrotto le ricerche. Anche perché ho saputo che più di uno ha preso le armi per combattere i georgiani.”

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In alto: Valentin Gobozov. In basso: Panorama di Tskhinval Sud Ossezia, Georgia 2008. Nicola Sessa ©PeaceReporter


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Italia

Razza umana (e nerazzurra) di Susanna Wermelinger L’urlo è composto da una consonante e una vocale ripetuta, solo apparentemente innocue. Buuuu. È il segnale del razzismo nel calcio, spregiativo e rituale nel suo ripetersi di stadio in stadio, parente stretto della paura quotidiana del diverso, fortunatamente parente ancora lontano delle storie di ordinaria follia razzista riemerse nelle cronache recenti. ppure, è nel calcio che le razze si fondono, molto di più che nella società lavorativa normale. Prendi l’Inter: sono nove, poco meno di un terzo dell’organico in rosa, i giocatori cosiddetti ‘di colore’. Nove per nove storie diverse accomunate solo dal pallone. I figli dell’Africa sono tre, Sulley Alì Muntari di Konongo, in Ghana, arrivato diciottenne all’Udinese, Victor Obinna, nigeriano, nazionale, approdato al Chievo dopo aver militato nell’Enyimba, squadra vincitrice anche di due edizioni della Champions League d’Africa, e Mario Barwuah, ghanese figlio d’Italia. Konongo è una cittadina dove l’agricoltura è la maggior fonte di sostentamento, ha vissuto anni d’oro nel senso letterale del termine perché le miniere ne avevano fatto una meta ambita per aziende europee. Jos, in Nigeria, è la città di Obinna. Dicono che sia fra colline verdissime e se si vuole organizzare un trekking, lì si può, solo che quasi a nessuno viene in mente di camminare sui sentieri nigeriani. E Palermo è Palermo. E Mario, per tutti Balotelli, tranne che per le lungaggini procedurali della legge italiana in termini di adozione, è la storia emblematica. Nasce nel capoluogo siciliano il 12 agosto del ‘90, anno dei mondiali di calcio made in Italy, quasi un segno del destino. Vive il suo primo anno in ospedale, è figlio di una coppia ghanese in cerca di un futuro migliore. Ha una malformazione intestinale, guarirà, sulla sua strada incontrerà prestissimo Silvia e Franco Balotelli, bresciani. Nerissimo, accento di Brescia, vive un passato, presente e futuro tutto italiano. Ha segnato due gol in maglia azzurra under 21, lo ha fatto anche per chi gli urla negli stadi che non ci sono i neri italiani. Sogna la nazionale di Lippi, ancora lo scorso anno diceva che non si sentiva particolarmente motivato a tornare in Ghana, ‘magari un giorno’, ha mollato lì senza curiosità. Di razzismo non ama molto parlare, ma ammette che gli viene spontaneo salutare per strada uno sconosciuto che ha il suo stesso colore di pelle. I neriazzurri sono tutti così, anche chi il percorso che Mario sogna l’ha già realizzato (Patrick Vieira, nato a Dakar, diventato simbolo di una Francia interrazziale, capitano dell’Arsenal a Londra, cittadino del mondo), non ha molta voglia di ricordare che il razzismo esiste. C’è chi se lo butta dietro le spalle, anzi lo consuma in campo con la falcata del campione, c’è chi ritiene che più se ne parla, più gli si dà importanza. Douglas Maicon, Amantino Mancini e Adriano sono brasiliani, nati già in un Paese dove le razze si sono mischiate. Nelson Rivas è colombiano, Olivier Dacourt (francese esperto di arte

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moderna, i campioni non si fermano più all’abile pedata) ha sangue caraibico. Ad analizzare le loro storie, una per una, sono diversissime e lontane migliaia di chilometri di terra e di oceano. Trasmettono giocando un messaggio non solo di integrazione, ma di conoscenza di storie di vita che è la risposta alla paura. Conoscere vuol dire capire. A Milano, sponda nerazzurra, è sempre più raro sentire cori razzisti, eppure qui c’era una curva indicata sommariamente come ‘di destra’, anche se le generalizzazioni, soprattutto se applicate a migliaia di persone accomunate dalla fede calcistica e dal settore che scelgono allo stadio sono sempre pericolosamente superficiali. Nel ‘95, quando Massimo Moratti, appena presa la Società, ingaggiò Paul Ince, allora nero d’Inghilterra e capitano dalla Nazionale, qualcuno si chiese come avrebbero reagito. Dubbio legittimo, ma reagirono benissimo. Paul Ince era famoso per la grinta che metteva nel gioco e quella grinta, per sua stessa ammissione, gli veniva dalla sua storia di vita di nero, nato a Illford, periferia di Londra, senza un padre legittimo, a tredici anni con un coltello in tasca. Diceva che il calcio gli aveva salvato la vita, cantava ‘God save the queen’ per la Nazionale inglese, in Italia, anche solo nel vederlo giocare, venne immediatamente riconosciuto come un idolo. Ed erano tempi duri: lui ne parlava poco, ma gli insulti in campo non gli arrivavano solo dagli spalti, anche dagli avversari. In questo processo di accettazione, un ruolo fondamentale l’ha giocato senz’altro il ‘non razzismo’ della Società Inter, che è qualcosa di molto diverso dall’antirazzismo. È l’accettazione spontanea dell’altro. Sicuramente ancora non è stato né risolto né debellato nulla, ma la via nerazzurra è da seguire. Con un’ultima riflessione da fare. Chi bolla un giocatore di colore è più o meno violento di chi pensa che urlare a Marco Materazzi ‘figlio di puttana’ sia consentito dalle regole? Esiste una banda trasversale fra tifoserie che a Materazzi lo urla non casualmente, ma con la sicurezza di colpirlo nel punto più debole, il lutto per una madre persa da adolescente. Questa, di perfidia, non scandalizza nessuno. Anzi, nessuno ne parla, Materazzi se la porta dietro col tatuaggio del nome della madre dipinto addosso, tanto non sono previste sanzioni per casi come questo. In alto: Gol. ©F.C. Internazionale 1908 In basso: Ogni tanto si festeggia uno scudetto. Archivio PeaceReporter


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Migranti

Mustafà, senza Stato di Gabriele Del Grande Era il 1998 e migliaia di profughi curdi sbarcavano sulle coste calabresi in fuga dalle persecuzioni in Iraq, Siria, Iran e Turchia. Tra il 1980 e il 1999 l’esercito turco aveva cacciato oltre 2 milioni di curdi da 3.428 villaggi poi distrutti. nel 1988 Saddam Hussein aveva sterminato con armi chimiche 5.000 persone nella città curda di Halabja. Il 12 dicembre del 1998 atterrò a Roma addirittura Abdullah Öcalan, il leader del Partito dei lavoratori curdi (Pkk) in rivolta dal 1984 nel sud est della Turchia. Chiese asilo politico, ma il governo D’Alema non gli offrì protezione e il 15 febbraio 1999 fu catturato dai servizi segreti turchi a Nairobi, per poi essere trasferito nell’isola prigione di Mralı dove sta tuttora scontando l’ergastolo. Non tutti i curdi però raggiunsero la meta. Il 16 ottobre 1998 un vecchio peschereccio con 75 passeggeri a bordo, partito dal Libano, ruppe il motore e fu costretto a sbarcare sulla costa cipriota. Attraccarono sulla punta più a sud dell’isola, Akrotiri. Che allora come oggi era sotto il controllo dell’autorità britannica. Fu la loro disgrazia. Dieci anni dopo, 60 dei 75 passeggeri sono ancora bloccati a Dhekelia, una delle due Sovereignity Bases Areas (Sba) di Cipro, postazioni mantenute sotto l’autorità inglese dopo l’indipendenza dell’isola, ex colonia di sua maestà, nel 1960. Due fazzoletti di terra, che in tutto coprono una superficie di 250 km quadrati e ospitano una popolazione di circa 3.500 abitanti, per lo più militari e funzionari inglesi. “Quando andrò in paradiso, dio mi dirà di ritornare sulla terra, perché non ho una nazionalità”. Mustafà J.S. è nato il 3 gennaio 1974. Sulla stropicciata carta d’identità siriana, alla voce nazionalità, ha scritto “stateless”. È nato e cresciuto in Siria, ma ufficialmente non è cittadino di nessuno Stato. La storia della sua famiglia ha inizio nell’Ottocento, quando un ragazzo armeno lasciò la Turchia per trasferirsi in un villaggio della Siria abitato da curdi.

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in da bambino Mustafà ha conosciuto il disprezzo, a scuola e per strada, nella città di Al Hasakah, nella Siria orientale. A dodici anni, incoraggiato dal fratello maggiore, inizia a suonare il bouzouki, lo strumento a corde tipico della musica greca e di tutto il vicino oriente. In pochi anni diventa un maestro. È ricercato in ogni serata. Ci sono periodi dell’anno in cui passa tre mesi consecutivi in tournée. Essendo stateless, è tutto più difficile. Perché ufficialmente non può lavorare né spostarsi dalla sua regione. Si appoggia ai documenti degli altri componenti del gruppo. Sono tutti curdi. Fanno serate con musica araba ma partecipano anche ad eventi politici in cui rispolverano le musiche tradizionali curde. Nel marzo del 1997, in occasione dei festeggiamenti del Nevroz, il capodanno curdo, nonostante i timori, accettano di suonare in una piazza di Al Hasakah. Alla fine del concerto, appena sceso dal palco, alcuni poliziotti lo buttano a terra e iniziano a colpirlo davanti ai presenti. Poi lo portano via. Viene trattenuto 72 ore al Commissariato di polizia. Tre giorni di pestaggi e torture. Un amico glielo aveva detto: il dolore più forte lo provi nei primi cinque minuti, ma se riesci a tenere il controllo per la prima mezz’ora di botte, dopo non senti più niente. Fu così. Lo picchiarono in quattro agenti, per otto ore consecutive. Gli chiesero i nomi dei leader della resistenza

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curda. Lui disse di non sapere niente. Appena saputo dell’arresto, il padre pagò 4.000 dollari a un ufficiale affinché pagasse i poliziotti di turno perché gli risparmiassero le torture più violente. Tre giorni dopo venne rimesso in libertà. Prima di tornare a camminare ci vollero due mesi. I piedi erano distrutti. Li avevano massacrati con le manganellate sulla pianta del piede. Erano così gonfi che non entravano più nelle scarpe. “Passai dal 43 al 57!” dice scherzando Mustafà. Subito dopo però si fa cupo in volto. Ricordare gli fa male. Un amico curdo qui alla SBA non riesce più nemmeno a fare pipì – dice sottovoce – e ha problemi di erezione, a causa delle torture con scariche elettriche al pene e ai testicoli subite nelle carceri siriane. Fu lo zio ad aiutarlo a fuggire. Prima Damasco, poi Beirut, in Libano. E da lì Tarabulus, da dove si imbarcò per l’Italia per poi ritrovarsi bloccato a Cipro. ncora oggi Mustafà non può ritornare in Siria. Tanto più che adesso ha una moglie e due figli. Il bambino, Ibrahim, è nato nella SBA. La bimba, Fatma, a Cipro. Nemmeno loro hanno una cittadinanza. E sulle carte d’identità dei genitori c’è scritto “nazionalità incerta”. La moglie, Pawkee, classe 1972, viene dalla Birmania. Era a Cipro come lavoratrice domestica, poi ha perso lavoro e documenti e ha chiesto asilo. Fino al 2004, prima dell’ingresso di Cipro nell’Ue, Mustafà non poteva uscire dalla base, né poteva lavorare. Finalmente, nel gennaio del 2007, dopo oltre otto anni di attesa, è stato riconosciuto come rifugiato dallo Stato cipriota. Nel 2004 infatti Cipro ha firmato un memorandum d’intesa con le SBA per farsi carico dei circa 60 richiedenti asilo nelle basi inglesi e dei 16 bambini nati dopo il loro arrivo. Molti di loro però non hanno assolutamente voglia di fare di nuovo domanda d’asilo. Uno è Said, curdo iracheno. Ha buttato dieci anni della sua vita in attesa di un documento, di cui due in un campo di detenzione. Nel frattempo gli sono nati quattro bambini, la sua richiesta d’asilo è stata rigettata due volte e ad oggi non è autorizzato a lavorare. Nessuno gli restituirà mai i dieci anni di vita. Come nessuno restituirà mai la vita a chi l’ha persa per entrare in Europa. Le stragi alle porte dell’Unione europea continuano nell’indifferenza dei Paesi che si affacciano sul cimitero Mediterraneo. Il bollettino di settembre parla di 191 morti documentate dalla stampa. Una barca con 83 egiziani è dispersa al largo di Porto Said, e un cayuco partito dall’Africa per le Canarie qualche mese fa, è stato ritrovato ai Caraibi, ad Antigua, trasportato dalle correnti con i resti di otto dei passeggeri. Dal 1988 sono ormai 13.098 le morti di frontiera documentate. Troppo poche per mettere in discussione le politiche europee dell’immigrazione. Troppo presto per indignarsi. Nessuno di loro avrà giustizia. E in definitiva nemmeno memoria.

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In alto: Sbarco a Lampedusa In basso: Una bottiglia abbandonata su una spiaggia lavica. Lampedusa, Italia 2007. Samuele Pellecchia/Prospekt


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Rubriche

In edicola di Claudio Sabelli Fioretti

In prima pagina neanche a morire In tivù di Sergio Lotti

Nessuna connessione Ma quanto vale Alitalia? Sarà anche un problema risolto, come tutti si affannano a dire, ma al momento in cui PeaceReporter va in stampa non c’è stato ancora modo di ottenere una cifra, magari approssimativa. Non ci sono riusciti neppure a Report, il programma di Milena Gabanelli in onda la domenica sera. Il ministro per lo Sviluppo Claudio Scajola dice che non ne sa niente, con l’aria seccata di chi pensa: dovrei saperlo? E se lo sapessi, credete che ve lo direi? Un po’ di discrezione, diamine. Anche il commissario straordinario Augusto Fantozzi risponde stralunato che non sa nulla. Allora, a chi si dovrebbe chiedere? Pare che la valutazione spetti alla Banca Leonardo, a cui sono legati almeno un paio di soci della Cai, cioè gli stessi “salvatori” di Alitalia: si può essere certi che farà un buon prezzo. Ma se poi si scopre che vale il doppio? Vuol dire che salta tutto, dice Fantozzi come se non vedesse l’ora di liberarsi di un peso. Forse sono i piedi del governo che gli sono saltati in testa appena lo ha nominato, per usare una felice espressione del giurista Piero Schlesinger, perché non andasse in giro a combinare guai, come per esempio proporre Alitalia ad altri famelici pretendenti che magari, una volta ripulita, se la comprerebbero volentieri anche a un prezzo superiore a quello gradito dalla Cai. Che per la verità sarebbe un preciso compito del commissario. Ma vi sembra il momento di fare i paladini del mercato e di mettersi a parlare di trasparenza? Lo sa benissimo Scajola, che quando gli inviati di Report gli chiedono cosa ne pensa dell’azionista della Cai Passera che è anche autore del piano di salvataggio, dell’azionista Benetton titolare di concessioni autostradali, o dell’azionista Ligresti che possiede casualmente terreni intorno alla sede in cui sorgerà l’Expo di Milano, risponde secco: nessuna connessione con questi fatti. Come, scusi? Vuol dire che non c’è la possibilità che questi signori sperino in qualche ricompensa? Assolutamente no. Nessuna connessione. Nessuna connessione. Ness... A questo punto, sarebbe forse il caso di stendere un velo pietoso. E invece no, perchè il capitano coraggioso Roberto Colaninno, dalla tolda della Cai, irrompe sulla scena dicendo che per lui la partita non è chiusa. Che vorrà dire? Un raggio di luce viene ancora una volta da Schlesinger, 26

Un bel giorno giù in Terronia alcuni terroni anche un po’ camorristi compiono una strage. Sei negri, africani, vengono falciati a colpi di mitra. Per leggere la notizia mi debbo inoltrare fino alle pagine interne, molto interne, dei quotidiani. Incredibile, per tutti i quotidiani italiani la notizia non merita la prima pagina. Posso anche pensare che la strage sia avvenuta tardi (sapete come sono questi camorristi, non tengono mai in considerazione le esigenze dei quotidiani). Ma sei africani massacrati non meritano lo sforzo di una rimpaginazione della prima? No. E quanti negri africani debbono essere uccisi per poter pretendere la dignità della notizia in prima pagina? Tralascio che quasi tutti i giornali dicono che si tratta di un regolamento di conti fra spacciatori di droga, cosa che si rivelerà falsa, ma mi secondo il quale basterebbe per esempio che l’Unione europea dicesse di restituire i 300 milioni di euro prestati dal governo per far crollare tutto quel castello posticcio. Un’ipotesi per niente peregrina.

A teatro di Silvia Del Pozzo

Alla ricerca dell’identità Che cos’è l’identità di un uomo? Il volto e l’anima, le radici e i sogni, e molto di più. Ma per un nero nel Sud Africa dell’apartheid (e non solo lì…) l’identità, cioè un nome, è il diritto di esistere. E sta tutta nel possesso di un documento, d’identità appunto. Quello che Sizwe Banzi, misero contadino che lascia villaggio, moglie e quatrtro figli per la città, dove spera di trovare una vita un po’ migliore, non possiede. Per ottenere il quale deve paradossalmente scomparire, cioè morire, visto che di un morto assumerà l’identita, e il relativo documento… Il regista inglese Peter Brook racconta questa storia - e molto di più su ingiustizie, violenze e umiliazioni inflitte dai bianchi ai neri in uno spettacolo commovente e magistrale nella sua estrema essenzialità, in cui tutto è affidato alla intensità espressiva dei due attori, che entrano ed escono da mille situazioni e personaggi, in un affresco della vita nei ghetti sudafricani tragico e insieme lieve, perché venato di melanconica ironia. Sizwe Banzi est mort è recitato in francese - con sovratitoli in italiano - ma Habib Dembélé e l’ex rapper Pitcho Womba Konga (Banzi), nella foto di Mario Del Curto, rendono il testo - molto semplice - di Athol Fugard comprensibilissimo, perché lo

soffermo solo sul razzismo implicito che c’è nella decisione di non concedere la giusta visibilità a sei morti solo per il fatto che sono negri. E per giunta africani. Fossero statunitensi ci farebbero l’apertura per giorni e giorni. Ma andiamo avanti. Per protesta, la comunità africana fa una manifestazione per urlare il suo dolore e la sua rabbia. Durante il corteo vengono danneggiate alcune automobili. Subito, a caldo, commento sul mio blog e sono facile profeta nel dire: “Vedrete domani. La notizia sarà finalmente in prima pagina”. Naturalmente succede proprio così. Titoloni in prima pagina. “Guerriglia!”, “Rivolta!”. Finalmente i negri hanno riassunto il loro ruolo di disturbatori della nostra tranquillità. E i giornali possono dare la giusta risonanza alle loro terribili violenze. recitano con tutto il corpo. E a proposito di identità, anche la zingara Zlata la va cercando nei dieci quadri in cui si sviluppa , Una ragazza d’oro (scritto e diretto dalla russa Tatiana Olear). In contesti sociali diversi (una repubblica socialista, una guerra civile, il paese occidentale dove finalmente approda) è nel rapporto con le persone che incontra che Zlata cerca il senso di una vita costretta a reinventarsi continuamente. Da straniera e, oggi più che mai, da “diversa”. Almeno agli occhi di “loro”.

Sizwe Banzi est mort: Bologna, Teatro Arena del sole (sala grande), dal 27 al 30 novembre. Una ragazza d’oro: Bolzano, Auditorium comunale Roen, il 9 novembre. Poi in tournée in via di definizione.


Vauro

Musica di Claudio Agostoni

Michael Franti “All rebel rockers” (Epitaph Spingo) È ormai passato qualche lustro da quando un allora giovanissimo afro-americano con il fisico da giocatore di basket si fece conoscere con un brano in cui diffidava il mondo dal credere al verbo televisivo Television, the drug of the nation. All’ardore punk-rap degli esordi, con il passare degli anni, Michael ha sovrapposto sonorità variegate (tanto soul, ma anche rock, street funk e reggae), ma non ha cambiato idea sulla televisione. Non fidandosi di quello che racconta il tubo catodico, tempo fa, è voluto andare di persona in un paio di luoghi caldi del mondo (Iraq e Palestina) per cercare di capire cosa succedeva da quelle parti. Ha cantato per le strade di Baghdad e nelle basi militari americane, con i supporter di Hamas della Striscia di Gaza e

per gli abitanti di qualche kibbuz israeliano (frutto di quel viaggio lo splendido film documentario I know I’m not alone). Ora, accompagnato dagli Spearhead (musisicisti con cui ormai lavora da anni), torna con un nuovo cd registrato a Kingston, in Giamaica, con la collaborazione di Sly & Robbie (già produttori di Peter Tosh, Jimmy Cliff, Bob Dylan e molti altri). Tredici brani, pulsioni reggae e la solita chiarezza nel chiamare le cose con il loro nome. In qualche titolo (su tutti Rude boys back in town) e le canzoni di questo nuovo lavoro sembrano occhieggiare ai Clash, e proprio la vecchia band di Joe Strummer pare essere il riferimento politi-

co/artistico di questo ‘anomalo’ artista americano. Un album ricco anche musicalmente: Marie Daulne delle Zap Mama porta un po’ d’Africa, Sly & Robbie il profumo delle dancehall più ruspanti, e quando alla fine dell’album Michael imbraccia la chitarra acustica conferma che da piccolo ascoltava spesso Stevie Wonder … Nei testi c’è ovviamente spazio per parlare di impegno civile, del mondo che va a rotoli e dell’inutilità della guerra… Franti, con questo lavoro, si conferma un rebel rocker lontano anni luce dai suoi vecchi colleghi hip hopper interessati ormai solo al dio dollaro. In Franti sono ancora vivi gli ardori dei primi rapper, la voglia di raccontare quello che lui vede in giro per il mondo (ma anche negli angoli oscuri dietro casa). Se per i Public Enemy l’hip hop era la Cnn del ghetto, le canzoni di Michael Franti sono l’ennesima dimostrazione che si può fare controinformazione anche con canzoni con cui si può ballare…

Al cinema di Luca Falcinella

Fra sogni e brutti ricordi L’Italia guarda la Bosnia, almeno al cinema. Sono diversi i documentaristi che hanno filmato a Sarajevo e dintorni e presentato i loro lavori nei festival dell’estate, peccato che nelle sale sarà

difficile vederli. I quattro lavori più significativi presentano approcci diversi tra loro. C’è chi prende una delle tante leggende fiorite tra le campagne della ex Jugoslavia e la fa diventare emblematica del periodo, come “Lo zio Sem e il sogno bosniaco” di Chiara Brambilla. Sotto le colline del villaggio di Visoko sarebbero nascoste le piramidi create da una civiltà scomparsa. È la tesi di Semir Osmanagic, misterioso uomo d’affari rientrato dopo quindici anni negli Usa. “Rata nece biti – Non ci sarà la guerra” di Daniele Gaglianone (“I 27


nostri anni”, “Nemmeno il destino”) è girato tra Srebrenica, “dove il tempo sembra essersi fermato ai giorni del massacro”, e la Drina, fra Tuzla, dove si ricompongono i resti delle fosse comuni e si cerca di attribuire loro un nome, e Sarajevo. Cinque storie: Zoran, che sogna la Sarajevo della sua infanzia; Saša, legato agli ideali nazionalisti; Aziz, ex soldato scampato al massacro di Srebrenica; Mohamed, che si salvò fuggendo tra i boschi; Hajra, che in una fossa comune ha trovato i resti del marito, ma non ha notizie del figlio. Sarajevo, Mostar, Srebrenica sono le tre tappe che Laura Angiulli fa nel viaggio “Verso est” fra immagini del presente, spezzoni di repertorio anche rari e suggestioni teatrali con violenze e uccisioni rimesse in scena. Così com’è ricostruito l’incendio alla Biblioteca: le cantanti del Teatro nazionale vedono dalla finestra levarsi alte le fiamme. Il dopoguerra attraverso l’occhio di Mario Boccia, il fotografo che a Sarajevo ha vissuto a lungo durante l’assedio, è il fulcro di “Sarajevo, Bih – Storie da un dopoguerra” di Emanuele Cicconi. Incontri con persone esemplari che hanno sempre guardato al futuro: Enver Hadziomerspahic (fondatore del museo Ars aevi), Jovan Divjak (il generale serbo che difese la città), Rada Zarkovic e Skender Hot (a Bratunac la cooperativa “Insieme” riunisce donne di tutte le parti) il giornalista Zlatko Dizdarevic e Dejan Bodiroga (indimenticato cestista che a Trebinje tiene un camp di basket).

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In libreria di Giorgio Gabbi

Miracolo a Baghdad di Hamza R. Piccardo E’ fantapolitica, certamente, ma in una chiave tutta diversa dai consueti thriller del filone letterario. Questa volta non si tratta di preparare un colpo di stato o di ammazzare un presidente. La trama della cospirazione viene tessuta su scala mondiale e coinvolge leader rivoluzionari, gente dei servizi segreti, dirigenti di sette religiose, burocrati, militari, governanti: ma la sua parola d’ordine è “wa la fitna wa la thaar”, che tradotto dall’arabo significa “no alla guerra civile no alla vendetta”. E il suo esito è un’ondata di consenso popolare che costringe anche i governanti più cinici a mettere fine alla guerra in Iraq e ai progetti di smembrare il paese in tre staterelli inermi di fronte a quelli che vogliono rapinare le sue risorse. Troppo bello? Forse: ma almeno il libro, agile e dal ritmo serrato, si legge come un messaggio di speranza. E di fede. Perché al centro della vastissima trama c’è un personaggio inconsueto (ma non lo era anche il Mahatma Gandhi?), un “poverello di Dio”, italiano di fede musulmana, indicato solo come “il Derviscio” (letteralmente “il Povero”). Ma è un poverello che si è conquistato sufficiente autorità morale e carisma reli-

gioso per ottenere udienza e consenso da autorità cristiane e musulmane, dal papa all’ayatollah Khamenei, dai leader antimperialisti dell’America latina fino al capo degli Hezbollah del Libano. E con la pace arriva una formidabile massa di aiuti economici da tutto il mondo per ricostruire l’Iraq. Anche il russo Putin sta, gelidamente, al gioco del “poverello”, osservando: con questa pace Mosca non ha niente da perdere e forse qualcosa da guadagnare.


Allora in questo romanzo vincono tutti? No di certo: perdono i fanatici di tutte e tre le religioni monoteiste votati alla “guerra santa” e alla “crociata”, perdono i signori della guerra comunque mascherati e gli affaristi associati a loro, perdono anche i seguaci della teoria dello “scontro di civiltà”. E l’autore si diverte anche a mettere alla berlina, usando un nome finto ma assolutamente trasparente, un notissimo giornalista di un grande giornale italiano, Il corriere della notte, che per un velenoso editoriale contro il “poverello”…ma quello che gli capiterà il lettore dovrà scoprirlo da sé. Edizioni Al Hikma, 2008, pagg.138, € 10,00

In rete di Arturo Di Corinto

Indymedia: da dentro la notizia

lettere a un chirurgo confuso scrivi a chirurgo@peacereporter.net

La crisi del settimo anno afgano Caro Gino, Sei uno dei maggiori conoscitori di quel meraviglioso Paese che è l’Afghanistan. Se ne parla poco, soprattutto si dice poco di quel che accade ai civili di quel Paese stretti tra le bombe occidentali e le autobombe dei Talebani. Ma in questo periodo si comincia a leggere qualcosa: i militari che dicono che la guerra è persa. I politici che chiedono invece più militari. Quel che è certo è che non c’è abbastanza informazione su una guerra a cui il nostro Paese partecipa. Silvia, Londra

Il panorama dell’informazione in Italia è desolante. Mentre lo Stato decide di tagliare i contributi ai giornali cooperativi e di partito e i tg fanno spallucce alla richiesta di pluralismo dei cittadini, i grandi gruppi editoriali continuano a spadroneggiare dettando l’agenda dei media. Però se c’è una notizia che non trovi sui giornali, la trovi su Indymedia. Il nodo italiano dell’Independent Media Center http://italy.indymedia.org è infatti risorto dalle sue ceneri da poche settimane e di nuovo si mette a disposizione di quanti vogliono produrre la propria informazione secondo lo slogan don’t hate the media, become the media, “non odiare i media, diventalo”. Questa creatura dell’informazione indipendente del secolo scorso, nata dalla volontà di un gruppo di attivisti per contestare il WTO di Seattle del 1999, è infatti il genitore putativo della generazione-blog a livello mondiale. Prima fra tutti a offrire una piattaforma di publishing online senza moderatori sui temi della politica e dei movimenti, Indymedia ha negli anni raccolto intorno a sé una nuova generazione di attivisti dell’informazione, i mediattivisti, che attraverso i nodi nazionali e locali dell’IMC hanno coordinato campagne, denunciato abusi e raccontato ciò che per i media mainstream era indicibile: la verità. Indymedia ha raccontato la verità sui pestaggi di strada e sugli abusi di Bolzaneto durante il drammatico G8 di Genova, ma soprattutto li ha mostrati, grazie a una moltitudine di civic journalist che nel suo software hanno trovato lo strumento per pubblicare audio, video, testi in piena libertà. Inaugurando un nuovo modo di fare informazione: da dentro la notizia, mentre accade. Una cosa che le redazioni “tradizionali” non sanno più fare.

Cara Silvia, “Non ce la faremo a vincere questa guerra”. Ancora una volta, a seminare il dubbio sugli esiti del conflitto in Afghanistan sono proprio quelli che dovrebbero mostrarsi più ottimisti: i generali. Così Mark Carleton-Smith, comandante delle truppe britanniche nel sud dell’Afghanistan, si trova a dichiarare ai giornali che “l’insurrezione potrà concludersi solo sedendoci a un tavolo con i talebani e trovando con loro un accordo politico”. Sarà la crisi del settimo anno, sarà che la vita nel polveroso deserto afgano è sempre più dura, sarà che i talebani ormai controllano buona parte del Paese, con intere regioni in cui le forze straniere e l’esercito afgano non possono nemmeno pensare di mettere piede, sarà che le vittime tra i soldati della coalizione stanno sfiorando il migliaio, e ancora non se ne vede la fine: è sempre più difficile, per “chi sta in alto”, difendere il conflitto in Afghanistan. “Ve l’avevamo detto, noi”: al bazar di Kabul, come nelle montagne del Panjshir o nel deserto di Helmand, il ritornello è questo. “Ci avevano provato gli inglesi e ci avevano provato i russi, e non ci sono riusciti. Come facevano a pensare di potercela fare gli americani?”, insistono con un sorriso gli afgani perbene. Ma c’è poco da sorridere. Il Paese è sempre più vicino al collasso. L’esercito afgano, soprattutto nel sud, è allo sbando: pagati una miseria, ma con armi e gipponi nuovi fiammanti, si danno al saccheggio e alla rapina. “Come faccio a mantenere la mia

famiglia con quaranta dollari al mese? Ci hanno comprato le macchine nuove, non potevano lasciarci quelle vecchie e aumentarci invece lo stipendio?”, chiede un soldato ricoverato in uno dei centri chirurgici di Emergency. Nemmeno Kabul è più sotto il controllo della polizia afgana o delle forze straniere: i talebani colpiscono in pieno centro, di giorno, uccidono e poi scappano, e nessuno riesce a fermarli. Le organizzazioni non governative, dice l’agenzia di stampa delle Nazioni Unite, stanno riducendo le loro attività nel Paese: troppo pericoloso. Emergency, per inciso, è tra le poche organizzazioni che stanno al contrario sviluppando le proprie attività e la propria presenza in Afghanistan: su richiesta della popolazione locale abbiamo aperto un nuovo posto di primo soccorso a Ghazni. Mano a mano che la situazione peggiora, i bisogni della gente si fanno più stringenti: è il momento di potenziare i propri programmi, non di ridurli. Nonostante il pericolo. D’altronde, lo sapevamo già da prima: la guerra è pericolosa. L’unico lato positivo di questo macello è che, almeno, quelli che comandano hanno abbandonato la farsa della “missione di pace”. In Afghanistan c’è la guerra: e quando lo dicono i generali inglesi, ci si può credere. Resta una domanda, per il generale CarletonSmith, i suoi colleghi e i loro capi: ma se l’unica soluzione è “sedersi a un tavolo e trattare”, non si poteva provare a farlo prima? Si sarebbero risparmiate decine di migliaia di vite di cittadini afgani. E centinaia di migliaia di dollari, che avrebbero potuto trasformare l’Afghanistan in qualcosa di diverso da un cumulo di macerie, in cui si aggira gente arrabbiata.

Un abbraccio, Gino Strada

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Per saperne di più

Usa-Messico FILM ALEJANDRO GONZÁLEZ IÑÁRRITU, «Babel», 2006 Diviso in quattro episodi, uno di questi si sviluppa tra la California e Tijuana, in Messico. Interessante per capire gli stereotipi e le incomprensioni tra i due popoli, e come a pochi chilometri di distanza cambi tutto. JOEL ed ETHAN COEN, «Non è un paese per vecchi», 2007. Tratto dall’omonimo libro thriller di Cormac McCarthy, l’ultimo Oscar per miglior film si svolge tutto nel Texas occidentale, al confine tra Usa e Messico. Spietato e arido come pochi, ma magistrale. E con una fotografia dei paesaggi locali stupenda. Anche se la scena del ponte sul confine è stata ricreata a Las Vegas. STEVEN SODERBERGH, «Traffic», 2000. Anche questo un film a episodi, che affronta in modo originale il problema e le ipocrisie del traffico di droga tra Messico e Usa. Due mondi diversi, ma entrambi corrotti.

LIBRI DAVID DANELO, THE BORDER: «Exploring the U.S. - Mexican Divide», 2008, Stackpole Books. Un ex marine diventato giornalista percorre tutti i 3.200 chilometri del confine tra Usa e Messico, mettendo in evidenza come le politiche di Washington siano viziate dalla scarsa conoscenza del problema. E scopre di persona quanto sia facile attraversare il confine sotto gli occhi degli agenti di frontiera. KEITH BOWDEN, «The Tecate Journals: Seventy Days on the Rio Grande», 2007, Mountaineers Books Un viaggio in bici e in canoa lungo il fiume che nel Texas segna il confine tra Stati Uniti e Messico. A metà tra un libro di avventura e uno studio culturale dal basso, Bowden fa luce su una zona oscura ed è testimone di attraversamenti clandestini, traffici di droga, corruzione. Ma soprattutto, di come i popoli vivono diversamente il confine tra due mondi. SAMUEL HUNTINGTON, «La nuova America: le sfide della società multiculturale», 2005, Garzanti Il teorico dello “scontro di civiltà” affronta la questione del cambiamento demografico negli Stati Uniti, con un modello socio-culturale messo alla prova – per la prima volta in 250 anni – dal flusso di immigrazione ispanica. Riflessioni su un Paese che lentamente sta cambiando identità.

SITI INTERNET http://www.borderreporter.com/ Sito gestito da Michael Marizco, un giornalista investigativo che tiene d’occhio tutte le malefatte attorno al confine. Storie di malgoverno, traffico di droga, corruzione, intimidazioni ai giornalisti, che spesso non arrivano agli occhi dei grandi media. http://www.eyesontheborder.com/ Si definisce una “iniziativa finanziata da privati 30

per ristabilire il controllo sul confine tra Usa e Messico”. E’ uno dei siti di attivisti contro l’immigrazione clandestina, in generale scontenti della progressiva ispanizzazione dell’America. http://www.nomoredeaths.org Un gruppo umanitario gestito da una chiesa protestante di Tucson. Fornisce aiuto ai clandestini che vagano nel terribile deserto dell’Arizona, fornendo loro acqua e cibo. http://minutemanproject.com/ I Minutemen, che si definiscono “Patrioti in difesa dell’America”, sono un corpo di volontari che pattugliano il confine dell’Arizona alla ricerca di immigrati clandestini, che consegnano poi alla Border Patrol. Diffidate dalle imitazioni, questo è l’originale. http://www.americanpatrol.com/ Un altro sito che si oppone all’immigrazione clandestina.

Russia FILM DANIEL SCHWEITZER, «White Terror», SvizzeraFinlandia, 2005 Video-documentario sul network neonazista in Europa, America del Nord e Russia. Partendo dal movimento di skinhead e gruppi neonazisti in Svezia, il regista realizza una panoramica sulle realtà emergenti della destra estremista e razzista. La propaganda dei gruppi presi in esame è un messaggio di odio, guerra e discriminazione razziale. L’allarme di Schweitzer è che l’ideologia della subcultura di destra si sta diffondendo da cellule ‘locali’ a una rete ben organizzata con legami internazionali. Grazie all’adozione di un punto di vista neutrale, il regista ha potuto filmare simpatizzanti e leader neo-nazisti partecipando alle loro ‘iniziazioni’ e cerimonie private, visitando i luoghi dove vengono prodotti i loro home video. NIKITA MIKHALKOV, «12», Russia, 2005 Ambientato totalmente all’interno di una palestra, dodici giurati si ritrovano a dover decidere all’unanimità della sorte - ormai segnata - di un giovane ceceno accusato di parricidio. Ma nel meccanismo qualcosa si inceppa, e la certezza della pena viene messa in dubbio da un giurato che, poco a poco, costringe ognuno a rivedere le proprie posizioni, rendendo la sentenza più difficile del previsto. Un thriller psicologico che rappresenta il ritorno alla regia di un maestro del cinema mondiale (Oci Ciornie, Pianola meccanica) con una sceneggiatura attualizzata ed efficacissima sulla giustizia (umana e divina) e sul libero arbitrio.

LIBRI ANNA POLITKOVSKAYA, «La Russia di Putin», 2005, Adelphi Storie (pubbliche e private) della Russia di oggi, soffocata da un regime che, dietro la facciata di una democrazia in fieri, si rivela ancora avvelenato di sovietismo. “Il mio è un libro di appunti appassionati a margine della vita come la si vive oggi in Russia” scrive la Politkovskaya. In primo piano emergono squarci di vita quotidiana, grottesca quando non tragica: la guerra in Cecenia con i suoi morti dimenticati, le degenerazioni nell’ex Armata Rossa, il crack economico che nel ‘98 ha travolto la neonata media borghesia, supporto per un’autentica evoluzione democratica del Paese, la nuova mafia di Stato, radicata in un

sistema di corruzione senza precedenti; l’eccidio a opera delle forze speciali nel teatro Dubrovka di Mosca; la strage dei bambini a Beslan, in Ossezia. DEMETRIO VOLCIC, «Il piccolo zar», Laterza, 2008 Dopo un decennio di relativo oscuramento, la Russia dello zar Putin è ritornata con forza sulle prime pagine di tutti i giornali: Gazprom, la Georgia, l’assassinio della Politkovskaya, l’avvelenamento di Litvinenko, le uscite di Putin su nuovi tipi di armi nucleari come parte di un progetto ‘grandioso’ per migliorare la difesa del paese. L’impero russo rimane l’unico vero impero del mondo. Ha tutti i tratti dello stato autoritario: è governato in modo centralistico; è determinato a mantenere il controllo di nazioni e popoli non etnicamente omogenei; è infastidito dall’intromissione occidentale nei suoi “affari interni”; è spropositatamente ricco di risorse minerarie e petrolifere. La pubblicazione più recente in italiano sulla Russia contemporanea. A firma di un conoscitore d’eccezione del Paese: il corrispondente Rai da Mosca negli anni ‘70 e ‘80.

SITI INTERNET http://xeno.sova-center.ru/6BA2468/ La Sova è un’organizzazione non governativa moscovita fondata nel 2002 dal Moscow Helsinki group. La sua missione è monitorare i crimini a sfondo xenofobo e la libertà religiosa in Russia. Realizza rapporti e raccomandazioni largamente utilizzate dall’Osce, da Amnesty International e da altre organizzazioni a carattere umanitario. http://www.demushkin.com/ Il sito del nazionalista russo Dmitry Demushkin, fondatore di Slavianskij Soyuz (Unione Slava), movimento neonazista a difesa della ‘razza slava’. Consta di 5 mila membri ed è una delle organizzazioni politiche più attive e seguite. Tra i simpatizzanti, vanta parlamentari e uomini politici russi. http://www.dpni.org/ Website del Dpni (Movimento contro l’immigrazione illegale), creato nel 2002 in seguito alle violenze tra residenti della periferia di Mosca e immigrati caucasici. Il Movimento organizza marce anti-immigrati e l’annuale Marcia Russa’, manifestazione di orgoglio etnico e nazionalista. Il movimento è anche attivo nell’organizzare gruppi di pressione per sostenere i russi accusati di violenze xenofobiche. http://www.rne.org/ Unità Nazionale Russa (Rne) è un sedicente ‘movimento civico’ patriottico di estrema destra operante anche in altri Paesi russofoni. Fondato dall’ultra-nazionalista Alexander Barkashov, propugna l’espulsione dei non russi dalla Russia e propone un ruolo di preminenza per le istituzioni tradizionali russe, prime fra tutte la Chiesa ortodossa.



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