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mensile - anno 2 numero 12 - dicembre 2008

3 euro

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

Cina: Xinjiang, il Far West del Celeste Impero

Tunisia: Iraq: Congo: Senegal: Italia: Mondo:

Il lato oscuro della legge La civiltà nella matita In diretta dalla guerra L’apparenza inganna Clandestini siete voi di Giuseppe Pace Turchia, Guatemala, Israele-Palestina, Iran Il quattordicesimo fascicolo dell’atlante: Congo


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La vera pace non è l’assenza di tensioni, ma la presenza di giustizia Martin Luther King jr.

dicembre 2008 mensile - anno 2, numero 12

L’editoriale di Maso Notarianni Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Christian Elia Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Nicola Sessa Stella Spinelli Naoki Tomasini Alessandro Ursic

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Gabriele Battaglia Blue & Joy Gabriele Del Grande Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Nicola Falcinella Luisa Flisi Giorgio Gabbi Daniela Greco Paolo Lezziero Sergio Lotti Giuseppe Pace Claudio Sabelli Fioretti Gino Strada Cristiano Tinazzi

Progetto grafico e impaginazione Guido Scarabottolo Oliviero Fiori Segreteria di redazione Silvina Grippaldi Relazioni esterne Marco Formigoni

Hanno collaborato per le foto Gabriele Battaglia Massimo Di Nonno/Prospekt Alexey Pivovarov/Prospekt Samuele Pellecchia/Prospekt Cristiano Tinazzi

Redazione e amministrazione Via Meravigli 12 20123 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 Amministrazione peacereporter@peacereporter.net Annalisa Braga

Stampa Graphicscalve Loc. Ponte Formello - 24020 Edito da Vilminore di Scalve (Bg) Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Finito di stampare 5 dicembre 2008 Via Meravigli 12 - 20123 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07 Pubblicità Via Meravigli 12 20123 Milano Tel (+39) 02 801534 Fax (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net

Foto di copertina: Bambini a Kashgar Cina, 2008. Gabriele Battaglia per PeaceReporter

Siamo tutti americani? 1775-1783: Guerra di indipendenza americana. 1787: Costituzione degli Stati Uniti. 17981800: Guerra navale non dichiarata con la Francia. 1801-1805: Prima guerra contro gli statiarabi, sbarco dei marines in Libia. 1806: Messico (colonia spagnola), invasione Usa. 18061807: Golfo del Messico: Guerra navale Usa contro Francia e Spagna. 1813: Invasione della Florida occidentale (colonia spagnola). 1815: Seconda guerra contro stati arabi, attacco su Algeri. 1816-1818: Florida spagnola: prima guerra seminole. 1818: Invasione dell'Oregon, il cui territorio era rivendicato in parte dalla Rusiia e in parte dalla Spagna. 1831-1832: Sbarco di truppe nelle Isole Falkland. 1832: Sbarco di truppe a Sumatra. 1833: Sbarco di truppe in Argentina. 1835-1836: Marines in Perù. 1836: Occupata parte del territorio messicano. 1838: Ancora marines a Sumatra. 1840: Sbarco di truppe nelle isole Fiji. 1843: Cina: sbarco di marines vicino alla concessione di Canton. 1846-1848 - Messico: guerra messicana. 1852- 1853: sbarco e stazionamento di marines a Buenos Aires. 1853: Nicaragua, invasione di marines. 1853-1854: Giappone, isole Ryukyu e Bonin: sbarco di marines. 1854: Nicaragua: distrutta San Juan del Norte per vendicare un insulto all'ambasciatore americano. 1855: Ancora sbarchi in Cina. 1855: Truppe dei Marines in Uruguay. 1856: Panama, repubblica di Nuova Grenada, sbarco di marines. 1861-1865: Guerra di secessione tra gli Stati confederati (sudisti) e gli Stati unionisti (nordisti). 1861-1868: Guerre e massacri indiani. 1871-1886: Guerra con gli Apache. 1890: Massacro di Sioux a Wounded Knee: fine delle guerre indiane. 1897-1901: Guerra ispano-americana, annessione delle Hawaii, Filippine, Porto Rico; protettorato su Cuba. 19121933: Occupazione del Nicaragua. 1916-1924: Occupazione della Repubblica Dominicana. 1939-1959: Cuba, dittatura del generale Batista. 1939-1945: Seconda Guerra Mondiale. 1954: Paraguay, dittatura di Stroessner; Guatemala, colpo di mano militare. 1962-1975: Intervento in Vietnam. 1962: Sbarco di marines a Cuba. 1964: Colpo di stato militare in Brasile. 1966: Argentina. 1973: Cile, dittatura di Pinochet. 1976: Argentina e Uruguay, colpi di stato militari. 1980: Guerra civile in Salvador. 1980-1988: Inerventi indiretti e diretti contro il Nicaragua. 1983: Intervento nell'isola di Grenada. 1989: Invasione di Panama. 1990-1991: Guerra del Golfo. 1992: Intervento in Somalia. 2001: Bombardamento dell'Iraq. 2001: Intervento militare in Afghanistan. 2003: Invasione dell'Irak. 2008: Barak Obama conferma Robert Gates al Pentagono. No, per fortuna non siamo tutti americani. Senegal a pagina 20

Migranti a pagina 24

Italia a pagina 22 Cina a pagina 4

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Iraq a pagina 14

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Tunisia a pagina 10

Congo a pagina 18 3


Il reportage Cina

Il Far West del celeste impero Di Gabriele Battaglia Xinjiang (新疆), Cina, Zhongguo. Zona di confine come recita il suo stesso nome, "Nuova Frontiera". In nessun luogo come lo Xinjiang la Cina è "impero", crogiolo di popoli unificati da un sistema politico-amministrativo, invece che "nazione", cioè entità fondata su una comune appartenenza etnico-culturale. più numerosi sono gli uyghuri, discendenti di tribù turche dell'Altay, che ammontano a circa il quarantacinque percento della popolazione. Un buon quaranta percento sono gli han, i cinesi per come ce li immaginiamo sempre noi. A Urumqi, la capitale, sono già maggioranza. Ma ci sono inoltre anche kazaki, mongoli, tagiki, etc, nonché diverse etnie minori. E' anche un luogo estremo. "Regione autonoma", è la provincia più estesa della Cina, di cui occupa un sesto del territorio (cioè, circa cinque Italie e mezza). Ospita il secondo luogo più basso della terra, la depressione di Turpan a centocinquanta metri sotto il mare e al contempo la seconda montagna più alta, il K2, alto oltre ottomilaseicento metri; il luogo più lontano dal mare, il deserto di Dzoosotoyn Elisen che dista 2,645 km dalla costa più vicina e oltre trecento chilometri dalla capitale Urumqi, che è la città meno "marittima" del pianeta. Qui ci sono anche alcune delle escursioni termiche più impressionanti: cinquanta gradi d'estate e trenta sottozero d'inverno. Ma se si passa dal clima alla situazione politico-sociale, lo Xinjiang è una zona solo calda: qualcuno parla di un Tibet senza la notorietà datagli da una pop-star come il Dalai Lama. Gli uyghuri e buona parte dei gruppi etnici che lo abitano sono musulmani, messi d'ufficio nella lista dei cattivi dall'11 settembre 2001, quando le autorità di Pechino accettarono di appoggiare la war on terror di Bush a patto che il Movimento Islamico del Turkestan Orientale fosse inserito nella black list del terrorismo internazionale. Urumqi è la tipica metropoli cinese in espansione, con il suo bravo profilo di grattacieli e il centro città tutto neon e shopping compulsivo. Tre milioni di abitanti circa, solo cent'anni fa era descritta come un postaccio dove poteva capitare di assistere per strada a efferati supplizi e dove era meglio non partecipare ai fastosi banchetti ufficiali che spesso si trasformavano in stragi sanguinolente. Oggi è una città fondamentalmente han (circa il settanta percento degli abitanti), cosa che si nota anche nei due parchi cittadini, il Renmin (del popolo) e lo Hongshan (del monte rosso, una collinetta da cui si ha la migliore vista di Urumqi): pagode, laghetti e, soprattutto, i tipici passatempi comuni agli anziani - e non solo - di Pechino e Shanghai. Un registratore che diffonde musica diventa il catalizzatore per un centinaio di persone che ci ballano intorno mentre, più in là, altre cinquanta cantano in coro di fianco a un altro apparecchio. Ancora pochi passi e si può assistere alle fatiche di alcuni anziani che si "allenano" con quei buffi attrezzi gialli e blu di cui sono ormai pieni parchi e giardini dell'intera Cina: leve, rotelle, sbarre. C'è un uomo davvero anziano che, con sguardo impassibile, ciondola su una simil-altalena o si sbraccia tra due corde che è un piacere. Al Museo della Regione Autonoma, recentemente ristrutturato, molti cartelli enfatizzano "l'armonia" con cui tutte le nazionalità dello Xinjiang hanno sempre convissuto all'interno della Cina. Alcuni rivelano una logica per noi sorprendente, come quello che spiega: "Le lotte e le divisioni al tempo delle dinastie del Nord e del Sud fecero da presupposto per l'unificazione Tang". Ovvio, dal caos nasce l'ordine, le cose nascono dal loro contrario, è

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la legge del Dao. Altra presenza costante è la riaffermazione dell'indissolubilità del territorio cinese: tante nazionalità, un solo insieme territoriale e amministrativo. E si sottolinea il volontarismo con cui diverse etnie si sono messe sotto lo stesso cappello, come i tartari del Volga che nel 1700 si fecero cinquemila chilometri attraverso la steppa russa per tornare nel loro "luogo consono". Le epoche Tang (618-907) e Qing (1644-1912) sono presentate come quelle in cui l'impero riconquista la sua integrità territoriale, Xinjiang compreso. E si arriva a oggi, con "gli sforzi economici accolti con calorosa gratitudine", cioè il programma di sviluppo dell'ovest cinese lanciato da Pechino nel 2000. Che prevede non solo cospicui finanziamenti, ma anche l'invio di diecimila volontari l'anno - in genere neolaureati - in Xinjiang, Tibet, Qinghai, Sichuan, Yunnan per riequilibrare le disparità del boom cinese e dare uno sbocco al sovraffollamento delle regioni costiere. Di fatto, il programma significa così anche hanizzazione del territorio. Negli anni Trenta, gli uyghuri erano il novanta percento della popolazione, ora sono meno della metà. Quanto ai benefici economici, le versioni sono controverse. Come per il Tibet, c'è chi afferma che a goderne sono gli intraprendenti e più istruiti han che calano in massa nel bacino del Tarim per aprire negozi, piccole imprese e per occupare le posizioni più prestigiose. Nei vicoli intorno al mercato di Erdaoqiao si entra nel cuore della città uyghura. E' un bazaar diffuso, dove le botteghe di fornaio si alternano ai fabbri di strada che costruiscono i forni nei quali si cuoce il pane. Nel gran vociare, incrocio lo sguardo di un ometto un po' zoppo, zuccotto in testa e barbetta. È il tipico "personaggio" che tutti conoscono, tampina gli altri avventori fingendo di rubargli il portafoglio, loro lo malmenano per scherzo e tutti ridono. Lo fotografo e gli dico che se vuole posso provare a spedirgli la foto. Sì, ma dove? Su un foglio mi scrive Maj, il suo nome. Semplice, basta mandare qualcuno al bazaar di Erdaoqiao con la foto in mano e chiedere di lui. occe cristalline del Paleozoico a cui si aggiungono sedimenti più recenti, dovuti all'erosione dei fiumi; granito, lava, sabbia, e ancora fango, limo e depositi salini. L'enorme ricchezza geologica della catena montuosa del Tian Shan e del bacino del Tarim - costantemente rimescolata da terremoti più o meno disastrosi - caratterizza il paesaggio di questa regione, un caleidoscopio di colori. Allo strato più alto dei ghiacciai segue il profilo scuro delle montagne, poi altri monti - non semplici dune - di sabbia e soprattutto quella tavolozza rosso vivo, porpora, grigioverde, delle rocce fangose con inserti di gesso e ferro: il vero colpo d'occhio di tutta la regione. Così anche lo Xinjiang ha il suo bravo Grand Canyon, per la precisione "Il misterioso Grand Canyon del Tian Shan", come è stato ribattezzato con colorita e pragmatica (turisticamente parlando) fantasia. Turismo, appun-

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Facce dallo Xinjiang. Kashgar, Cina 2008. Gabriele Battaglia per PeaceReporter


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to. Per arrivarci, oggi, bisogna farsi tre ore e mezza di macchina su strade sterrate da Kuqa, ma un'autostrada è già in programma e i camion che trasportano materiale da costruzione vanno e vengono, sollevando quintali di polvere che finisce direttamente nei polmoni. Il nuovissimo resort all'imbocco della gola non è ancora finito, ma le aiuole addobbate con funghi di marmo e pavoni di pietra sono lì a dirci molto sul senso estetico che va per la maggiore. Soprattutto, la biglietteria funziona già: un annoiato e trasandato giovanotto salta fuori da non so dove per far pagare il biglietto al sottoscritto e a Sha Jiu, l'operatore di borsa di Guangzhou con cui ho condiviso questa escursione. Il mio compagno di viaggio azzarda che probabilmente siamo i primi in assoluto a mettere mano al portafoglio. Non è così, ma per ora il luogo è frequentato solo da cinesi han, perché la "bibbia" Lonely Planet non ne parla ancora. I turisti han sono di due tipi: ci sono gli ipertecnologici farciti di aggeggi elettronici e ricoperti di abbigliamento tecnico - tipo i giapponesi di vent'anni fa - e i "passeggianti", che percorrono i tre chilometri umidi, fangosi e dissestati del canyon con scarpette e calzini da impiegato, come se si trattasse di fare due passi per digerire. Così succede che un ubriaco in vena di amore cosmico mi abbraccia e mi bacia calorosamente sulle guance, biascicando "pengyou, pengyou!", amico. I colori sono stupendi e si può anche giocare con l'eco. I cartelli che compaiono nei punti suggestivi ribattezzandoli con nomi più o meno evocativi, ci dicono però che bisogna affrettarsi a visitare questo posto: tra pochissimo sarà una chiassosa Disneyland tra le rocce. Lo sviluppo dello Xinjiang esige anche questo e forse non è il male peggiore: il turismo può essere la chiave per sviluppare l'occidente del Dragone senza che la Cina si faccia male da sola come troppe volte ha fatto; si pensi all'industrializzazione intensiva e la susseguente crisi ambientale dell'est. Questo si paga in termini di "autenticità", un concetto che però appartiene più a "noi" che a "loro". tto di mattina alla stazione di Kuqa. E' ancora buio, siamo a più di tremila chilometri da Pechino, ma l'orario ufficiale è quello della capitale cinese. Per cui l'alba arriva alle otto e mezza; a Kashgar, meta ideale di un viaggio verso ovest sulla Via della Seta, scoprirò che le prime luci si vedono alle nove. Lo scalo è già pieno e animato, alta densità di lavoro come in tutti i servizi pubblici cinesi. I bagagli passano sotto un metal-detector - anche nelle stazioni dei pullman - mentre una giovane in uniforme controlla i biglietti. Se non sei in partenza, non entri. Dopo qualche minuto, il treno fa la sua comparsa accompagnato da una musichetta sparata a grande volume; come controcanto, il chicchirichì di un gallo che arriva dal di fuori della stazione. Saliamo sul treno disciplinatamente in fila indiana mentre due capotreno, una uyghura l'altra han, ci controllano per l'ennesima volta i biglietti. La carrozza è quanto ci si può aspettare dai migliori romanzi on the road: umanità strabordante, con tutti i suoi colori e odori. Eimer e Anwer hanno ventiquattro anni, sono uyghuri e stanno andando a Kashgar per dare l'esame da maestri elementari. Eimer si è messo il vestito buono, Anwer indossa un maglione strappato. Hanno l'aria dei nostri emigranti di cinquant'anni fa. Siccome hanno finito l'università, non possono dormire nel pensionato studentesco, cercheranno un albergo a buon mercato. Non hanno bagagli, mi insegnano la pronuncia corretta di frasi e parole che pesco a caso nel mio Central Asia phrasebook. Per loro è un divertimento e un onore, lo prendono molto seriamente e ci tengono che io sappia anche la versione uyghura del maggior numero possibile di parole han. Osservo che diversi termini della loro lingua sono simili a quelli russi - mashina, poysz (treno) - altri sono comuni a tutte le lingue indoeuropee - kilometer, radio - e ben diversi dal mandarino. Hanno qualche difficoltà con i caratteri cinesi, la loro lingua è fonetica. Oyca è un ex impiegato amministrativo in pensione, da Kashgar proseguirà verso sud per Khotan, casa sua. Ha cinquantotto anni, prende duemila yuan al mese (circa duecento euro) e si considera benestante. Viaggia con tutta la famiglia, gli piace. Sua moglie Nuri Man Guldin mi scrive sul tac-

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cuino un messaggio di benvenuto nello Xinjiang: parole uyghure, alfabeto occidentale. C'è una generazione che ha imparato a scrivere in uyghuro con caratteri latini. Durante il periodo delle tensioni sino-sovietiche, negli anni Sessanta, le autorità non volevano che i giovani leggessero le pubblicazioni russe scritte per gli uyghuri con caratteri arabi, e pensarono che la loro sostituzione con quelli occidentali servisse allo scopo. Ma in seguito, la vecchia scrittura fu reintrodotta per via della nuova politica verso le minoranze. Esiste quindi una generazione di mezzo che non può comunicare tramite scrittura con i vecchi e i giovani. Una generazione isolata. Dopo Aksu salgono intere famiglie di raccoglitori di cotone, con i loro sacchi pieni della preziosa materia prima. E' gente dal volto scavato e abbronzato, tutti si stringono per fargli posto. Fuori, per un centinaio di chilometri, scorrono le piantagioni. l mercato domenicale di Kashgar, finalmente, la meta verso cui tutto converge. Se ne parla come di un rito antico migliaia di anni, uno snodo sulla via della seta, il bazaar per eccellenza, il più grande dell'Asia. Sarebbe più corretto dire che di domenica tutta Kashgar si trasforma in un mercato. Cosa si compra? Cibo, soprattutto. Non si può fare a meno di assaggiare tutto, girare tra le bancarelle e fare conoscenza, perdere tempo scegliendo un certo tipo di mandorle o uva passa, godersi una fetta di melone, farsi un succo di melagrana e, soprattutto, divorare il kewap, lo spiedino onnipresente a ogni angolo di strada. Lo Xinjiang è un mondo di griglie accese. Odore di carne arrostita, ovunque. A Turpan ho assistito allo spettacolo di un intero viale che, al tramonto, si trasformava all'improvviso in un'arteria fumante e odorosa. La griglia ti porta fuori, per strada, vedi quello che mangi e lo gusti di fianco alla materia prima - la pecora - appesa accanto a te e scannata di fresco. Noi non vogliamo vedere ciò che mangiamo, i cinesi sì - si pensi ai pescivendoli di strada dotati di vasche in cui l'animale che tu sceglierai sguazza ancora del tutto ignaro - e gli uyghuri pure. Il mercato degli animali è grande come un paio di campi di calcio che gradualmente si riempiono di una massa vociante e soprattutto belante. La vera protagonista è la pecora, di razze diverse. Un montone sgozzato è lasciato lì, in mezzo ai recinti, a dissanguarsi. Dev'essere stato un animale malato, potenzialmente dannoso, nessuno se ne cura. Giovani pastori, bambini, trascinano le pecore da un recinto all'altro, sfoggiando la propria abilità come cow-boy a un rodeo. Sorridono verso l'obiettivo fotografico, poi si ridanno un tono e tutti seri portano a termine il loro compito in una nuvola di polvere. Gli adulti contrattano, banconote passano di mano in mano e ogni tanto qualcuno fa finta di abbandonare la trattativa con grande ostentazione. Inevitabilmente torna indietro. Vado a mangiare chuchura, i deliziosi ravioli al forno ripieni di carne d'agnello. Per cuocerli vengono appiccicati sulla parete interna del forno, quando cadono sulla brace sono pronti. Al corpo centrale del bazar coperto, di domenica si aggiunge un mercato diffuso nelle viuzze laterali quando calano sulla città gli abitanti dei villaggi della provincia. Vendono di tutto, ma è ancora il cibo a farla da padrone. Uva, dolcissima. Dallo Xinjiang arrivava il vino consumato alla corte imperiale, nonché parecchie concubine. Imperdibili sono anche i gelati: un unico gusto, panna, un unico colore, bianco. Ma la panna sa davvero di latte. Il sorriso è il passe-partout universale anche qui, come in tutta l'Asia. Il mio incrocia quello di un anziano venditore di angurie che subito mi invita a sedermi di fianco a lui. Dopo quattro chiacchiere, pianta lì il business e mi fa entrare in casa - che sta subito dietro al suo banchetto - dove mi mostra tutti gli album di famiglia. Apprendo così che ha avuto cinque figli e due cavalli, "dei veri campioni", ma adesso i cavalli non li ha più; lo afferma con sguardo distante e vagamente malinconico. Siamo nella città vecchia di Kashgar, case di fango e raffinatissime architetture islamiche, umanità ospitale, volti indoeuropei. Quattromila chilometri da Pechino, in Asia centrale. Quasi a metà strada tra Milano e Shanghai, e siamo ancora in Cina.

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Facce dallo Xinjian. Kashgar, Cina 2008. Gabriele Battaglia per PeaceReporter


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I cinque sensi dello Xinjiang

Udito I bazaar e tutti i loro rumori, dal belare delle pecore ai venditori che chiamano all'acquisto. I parchi di Urumqi con gli anziani che cantano in coro o ballano. Il risucchio del vostro autista han mentre mangia i lamian, gli spaghetti, dopo una giornata di guida su strade sterrate. Il battere sulle lamiere dei fabbri di strada. Il silenzio assordante a cinquemila metri d'altezza, sul ghiacciaio del Muztagh Ata.

Vista L'Oriente è rosso: le montagne e i canyon purpurei sono la vera caratteristica dell'area, frutto di terremoti e detriti trasportati dai fiumi. Il color sabbia del deserto e le case color fango contrastano con i copricapi multicolore di tutte le fogge, che identificano le diverse

etnie. E sotto i copricapi ci sono le facce, il vero spettacolo dello Xinjiang. Le donne velate ma con i tacchi alti. Sopra tutto, l'azzurro intenso del cielo.

Gusto Il "senso" che va per la maggiore nello Xinjiang. Gli spiedini di agnello su tutto, preparati secondo regola ferrea: tre pezzi di carne, due di grasso e un po' di spezie. Si sciolgono in bocca, l'unico rischio è che dopo giorni e giorni di dieta univoca vengano a noia. Il pane è vario e delizioso, specie se ricoperto di semi di sesamo, finocchio e papavero. Poi ci sono i meloni dolcissimi e l'uva senza nocciolini di Turpan, il succo di melagrana e il tè speziato alla cannella. Il vino invece no, per quello siamo ancora meglio noi.

Olfatto Griglie accese, fumo, odore di carne. Non si scappa, ovunque e a tutte le ore. Per strada, specie quando fa freddo, riscalda il cuore anche il profumo delle patate dolci arrostite. Le bancarelle di spezie e frutta secca al Gran Bazaar di Kashgar: un piacere per le narici. Lo yogurt di Yak, piacevolmente rancido.

Tatto Tastare bene la seta prima di comprarla al mercato di Kashgar. Polvere e sabbia del deserto e delle steppe vi ricopriranno (e vi penetreranno) appena mettete il naso fuori dalle città: fastidio tattile. Freddo, caldo, escursioni ampie e repentine, vestitevi a strati. Mai provato ad accarezzare una pecora? Qui avete molte chance di toccare le più diverse varietà di lana. 9


Il reportage Tunisia

Il lato oscuro della Tunisia di Cristiano Tinazzi

Arrivo in nave a Tunisi da Civitavecchia. Un viaggio di sedici ore in balia del mare su una nave quasi deserta. C'è una comitiva di turisti dalla lingua incomprensibile, del Nord Europa forse. Poi una famiglia romana stile 'i Cesaroni' con il padre che molla dei coppini tremendi al figlio, e gli dice “Ma che, te stai mette a piagne? Stavo a scherzà, stavo” e una cinquantina di tunisini. a maggior parte di loro dorme sui sedili della sala ristorante o su letti improvvisati nei sottoscala. Tornano per festeggiare con i parenti la fine dell'Eid el Fitr. L’equipaggio invece è quasi totalmente composto da rumeni. A parte gli ufficiali, tutti gli altri, dai mozzi al personale di sala, dalle pulizie alla mensa, parlano un’altra lingua. Il motivo è semplice: il personale di bordo straniero costa di meno e non è sindacalizzato. “Ci vengono a prendere direttamente a Costanza, sul Mar Nero. Io sono di lì. Guadagno mille euro al mese, faccio sei mesi in nave e poi torno a casa”, dice uno di loro. Al controllo passaporti mi sfilano dal restante gruppo di turisti per via dei timbri sui miei documenti. Un poliziotto mi chiede il motivo delle mie permanenze in paesi mediorientali e del Nord Africa. “Vacanze”, gli rispondo. Non li convince. Mi portano di nuovo nel porto. Una mezz’ora e poi mi ridanno il passaporto. “Tutto ok?” “Si, tutto a posto”. “Ma perché tante verifiche?”. “Niente, un controllo. Buone vacanze”. Sono capitato nel periodo di Ramadan. La città, anche se la Tunisia per ordinamento costituzionale è uno stato laico e sono molte le donne a girare senza chador, è sonnecchiante di giorno, per poi svegliarsi dopo le sette di sera, quando gli occhi, naso all'insù, sono incollati alla televisione e tutti aspettano il canto del muezzin che indica la fine del digiuno. Per bere un caffè, mangiare un dolcetto o fumarsi una sigaretta ci si deve infilare in bar appositi che hanno pesanti tende per non far vedere da fuori le schiere di peccatori che spipettano sigarette e bevono succhi di frutta. Non che succeda niente se si fuma all'aperto, ma è una questione di sensibilità. All’interno l’aria, densa e nebbiosa, è irrespirabile anche per i fumatori più incalliti. Prima di arrivare in Tunisia avevo sentito Souahir Belhassem, tunisina, giornalista e presidente della Federazione Internazionale dei Diritti dell’Uomo. Il quadro che aveva dipinto del suo paese non era dei migliori. “In Tunisia - mi racconta - sono negate la libertà di espressione, di manifestazione, di riunione e di associazione. Le autorità politiche, infatti, non solo compiono abusi nei confronti dei difensori dei diritti umani e dei partiti politici di opposizione, ma anche contro ogni forma di contestazione del regime. I difensori dei diritti umani sono oggetto di una permanente guerra di logoramento. Inoltre dallo scorso gennaio è iniziata anche la repressione delle proteste sociali. L’Unione generale dei lavoratori tunisini, il più grande sindacato in Tunisia, è stato distrutto”.

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“Ma perché, qui in Tunisia si vota?” dice Silvia Finzi, figlia di Elia, fondatore del Corriere di Tunisi, settimanale e poi mensile che dal 1956 racconta la vita degli italiani di Tunisia. La storia della sua famiglia, emigrata nella prima metà dell’Ottocento per ragioni politiche, si intreccia con la storia d‘Italia, ma anche con quella della Tunisia. “Vengo da una tradizione repubblicana e mazziniana. Questa è stata la prima tipografia privata del paese, fondata alla fine dell'800” mi dice mentre armeggia con un notebook. Nata in Tunisia nel 1954, professore ordinario presso il Dipartimento d’italiano della Facoltà di lettere e scienze umane di Tunisi, Silvia ripercorre le varie tappe della comunità italiana di Tunisia, raccontando le vicissitudini della sua famiglia attraverso il fascismo prima e sotto i francesi poi, fino ad arrivare ai giorni nostri. La ritrovo alla sera, nella Medina, dove al museo Khereddine c'è la mostra 'pittori italiani in Tunisia'. E’ dal 1987 che il capo indiscusso del paese è Zine El-Abidine Ben Ali, salito al potere con un colpo di stato ‘morbido’ che sostituì Habib Bourguiba. Il lavoro di preparazione del golpe fu realizzato da diversi servizi segreti, tra i quali il Sismi, come confermò lo stesso capo dei servizi militari del tempo, l’Ammiraglio Fulvio Martini. en Alì è un ex militare, un uomo forte che si dedica subito a schiacciare qualsiasi tipo di ‘fondamentalismo’ e a reprimere le opposizioni. Piace all’Occidente e ne diventa un interlocutore affidabile. Poco importa se poi nel paese i diritti umani non vengono rispettati e le porte del carcere sono sempre aperte per chi ha il coraggio di protestare. Dopo le elezioni legislative del 1989, che videro la conquista di tutti i seggi da parte del Rassemblement constitutionnel Démocratique, Ben Alì operò una stretta repressiva che colpì sia gli islamismi sia tutte le altre forme d’opposizione nonché la stampa e il nascente movimento dei diritti umani. Nel 1992 il primo grosso giro di vite. Viene messo fuori legge il movimento politico Ennahda (La rinascita), di orientamento islamico, e i suoi organi di stampa. Il processo contro 277 militanti si concluse con 265 condanne ad almeno vent’anni di carcere Nell’ottobre del 1995 è arrestato il leader del Movimento dei democratici socialisti, Mohammed Moadda, che viene rilasciato dopo due anni. Da lì in poi chiunque si mette a protestare finisce nelle patrie galere. Il motivo

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Interno di Tunisi. Tunisia 2007. Archivio PeaceReporter


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non conta. “L’opposizione? Sì, c’è, ma non esiste. I partiti di opposizione sono finti partiti manovrati dalla maggioranza”, dice Jameleddine, avvocato della Corte di Cassazione attivamente impegnato nella Lega Tunisina per i Diritti dell’Uomo. “La vera opposizione non ha neanche voluto presentarsi alle elezioni.” Gli chiedo della censura e delle persecuzioni nei confronti degli oppositori politici. Jameleddine mi mette in mano una serie di fotografie. “Ecco, questo è il mio ufficio dopo una 'visita' della polizia. Più di una volta sono entrati di notte, senza mandato, hanno sfasciato la porta, come dei ladri, e mi hanno messo a soqquadro l’ufficio. Hanno portato via documenti, rotto mobili. Sono spariti pure dei soldi. Controllano tutto, sanno chi entra e chi esce dal mio ufficio e sanno quindi che oggi siete entrati qui.”. Poco distante, dall'altra parte dal corso principale, si trova la redazione di Jeune Afrique. Sul settimanale trovo un reportage proprio sulla Tunisia, nel quale si parla entusiasticamente dei 'giovani di Ben Alì', delle riforme in atto portate avanti dal governo e un curioso sondaggio che riporta le cose più desiderate dai giovani. Al primo posto i soldi, come dappertutto, ma della libertà di stampa, rispetto dei diritti umani e volontà di partecipazione politica neanche l'ombra di un accenno. E' anche questa una evidente forma di autocensura? “C'è un partito unico e basta, che va dall'opposizione al governo. Non è un sistema pluralista. La libertà di stampa c'è fino a quando non si parla di corruzione, diritti umani, fino a quando non si critica Ben Alì. Quando succede, che avvenga sulla stampa o su internet, allora scatta la repressione e poi le condanne. Anche le elezioni presidenziali sono state una farsa, elezioni alle quali è stato permesso presentare dei candidati che, per leggi e meccaniche politiche regolate a proprio uso e consumo del regime, erano soltanto candidati di facciata. Io ad esempio, se volessi non potrei presentarmi alle elezioni, perché non faccio parte di un movimento politico autorizzato dal governo e non sono un deputato. Per molte cose si stava indubbiamente meglio sotto Bourguiba”. Se riunirsi in gruppi è difficile e fare vita associativa necessita di autorizzazioni e infiniti controlli, a chi apre una fabbrica si offre invece qualsiasi tipo di incentivo e gli si fanno poche domande. Se porti soldi nessuno ti importuna. Così la Benetton impianta una fabbrica dietro l'altra a Gafsa, nella regione di Biserta, teatro di scontri e rivendicazioni sindacali, con una previsione di apertura di altre unità per un totale di tremila lavoratori entro il 2009, seguita da diverse altre aziende italiane che spostano le loro attività produttive qui, dove i lavoratori costano meno e i sindacati sono repressi a suon di manganellate e arresti. Tra i tanti soggetti a controlli, gli islamisti oggi sono quelli più repressi dal regime, costituiscono la maggioranza dei prigionieri politici e sono spesso sottoposti a torture. “La particolarità del regime di Ben Ali è quella di colpire gli avversari anche attraverso pressioni di vario tipo esercitate sulle loro famiglie. Anche gli altri partiti d’opposizione subiscono limitazioni: giornali sequestrati prima della vendita, divieti di riunione, molestie continue nei confronti degli attivisti e, infine, l’arresto, come è successo a Dhifaoui Zakia, un membro della Forza democratica per il lavoro e la libertà, dopo una pacifica marcia a Redeyef, nella zona mineraria del paese. E’ stato condannato il quattordici agosto 2008 ad otto mesi in carcere insieme ad altre sei persone. Tutti questi oppositori hanno subito e subiscono un regime di giustizia arbitraria”, dice Jameleddine. oureddine El Ati è un uomo dall'età indefinita. Ha lo sguardo attento, penetrante e una verbalità esplosiva. Mai violenta però. In avenue Farhat Hached, vicino all'avenue Habib Bourguiba, si trova l'Etoile du Nord. Teatro, internet cafè, luogo di ritrovo di centinaia di ragazzi e meno giovani. Un'isola controllata di libertà dove la pazienza di Noureddine ha permesso di costruire una compagnia teatrale moderna in un Paese dove la cultura se non è quella ufficiale, non viene sovvenzionata. “Avevo una carriera di successo in Europa, ma a un certo punto ho deciso di tornare qui e di provarci. Il governo finanzia solo le realtà legate alle istituzioni, non c'è spazio per chi tenta di fare arte al di fuori delle logiche di corruzione e che sono la normalità in questo paese. Ci sono milioni di euro stanziati dall'Organizzazione dei Paesi Francofoni per la

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cultura che sono bloccati e che non vengono dati ad associazioni e gruppi solo per il fatto che non dipendono e non sono ricattabili dal governo”. L’Etoile du Nord è stato ricavato da un magazzino in disuso. Un locale che figurerebbe in qualsiasi posto del mondo. Ci sono laptop a disposizione per il pubblico, una serie di postazioni fisse e una grande sala interna adibita a teatro e sala concerti. “Appunto, e i concerti?” gli chiedo. “Abbiamo fatto qualche concerto ma, e può sembrare assurdo, non ci sono gruppi musicali ‘professionisti’ o che possano definirsi tali a Tunisi e anche se ci sono, non ci sono studi di registrazione e produttori interessati a distribuirli”, dice Noureddine. In giro per la città si trovano diversi internet point, ma di questi molti sono ‘publinet’, gestiti dallo stato. Molti li chiamano 'policenet', riferendosi alla censura informatica che blocca Youtube e controlla la posta elettronica. In Tunisia il continuo assedio alla libertà di espressione ha una peculiarità: il controllo dell’Internet. Infatti, le associazioni e gli attivisti dei diritti umani non possono utilizzare l’Internet. La Tunisia è molto più piccola rispetto alla Cina, ma la repressione è simile per quanto riguarda i mezzi di comunicazione. La pirateria informatica è, inoltre, uno dei mezzi più utilizzati per rintracciare gli attivisti. “Posso testimoniarlo personalmente in quanto questa estate non sono stata in grado di ricevere la posta dalla mia organizzazione. La sorveglianza e il controllo delle e-mail in Tunisia sono al di fuori di qualsiasi legge. Sappiamo che la rete è posta sotto il controllo dello stato attraverso l’agenzia tunisina di Internet”, racconta la presidente della Fidh, Souhair Belhassem. La stessa sorte capita a me quando apro la posta elettronica. I testi delle mail di alcuni oppositori tunisini scompaiono e al loro posto arriva pubblicità di macchine. avanti alla Bab el Bahr ci sono diversi caffè. Da qui si entra per i vicoli tortuosi della Medina. Le direttrici principali sono piene di negozietti carichi di merce, oggetti da regalo per i turisti e per le migliaia di persone che corrono avanti e indietro per le stradine a comprare chili e chili di dolci, vestiti e qualsiasi altra cosa per festeggiare l'Eid. Le vie interne invece sono rigorosamente divise a seconda del tipo di prodotto che si vende. Tra Rue Jama Ez Zitouna e Rue de la Kasbah c'è un dedalo di viuzze scartate a principio dai turisti. Sono strade sporche, abitate dai più poveri, dove l'illuminazione è artigianale e la polizia passa poco. Mentre sto in piazza sento gridare uno. Ce l'ha con un ragazzino. Parla arabo, ma ha un accento inconfondibile. “Siete italiano?” chiede. “Piacere Salvatore”. Salvatore è qui da dieci anni. Capire che lavoro faccia è impossibile e dopo qualche tentativo lascio perdere. Di lui ho capito che è di Napoli, che vive a Tunisi da diversi anni, che si occupa di marmi, ha 'affari' al porto, che è stato arrestato in Libia per traffico di diamanti e che non dorme da tre giorni. Al tavolo vicino ci sono delle donne. Salvatore dice che sono sue amiche, prostitute che lavorano nella Medina. “Nei bordelli. C'è una via che è piena. Dopo ci andiamo a prendere un caffè”. Da dove siamo, in un paio di minuti ci infiliamo in una serie di vie che sfociano in un vero e proprio bordello a cielo aperto, in rue Sidi Abdallah Guech con le prostitute sull'uscio e centinaia di uomini in fila per guardare le ragazze. C'è anche una palazzina dove “ci sono ragazze giovani, molto”. Ci fermiamo da Sabrine che ci offre il suo caffè, una specie di caffelatte freddo. “Ripassate dopo, adesso c'è troppo lavoro”. Sabrine spera di stare ancora poco qui, ha dei parenti in Svizzera e forse anche un uomo che l'aspetta. Le luci colorate delle lampade, la musica ad alto volume, schiere di donne nude o quasi che gridano e ridono, tutto a trecento metri in linea d'aria dalla grande moschea. “E oggi non è niente”, dice Salvatore, “quando finisce il Ramadan qui devono fare tre turni ventiquattro su ventiquattro. Ed è tutto legale”. Come dire, qui in Tunisia si respira aria borbonica: 'festa, farina e forca', per restare in ambito napoletano. L'importante è non turbare i sonni del signore.

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In alto: Noureddine El Ati. Tunisi, Tunisia 2008. Cristiano Tinazzi per PeaceReporter In basso: Per le strade di Tunisi. Tunisia 2006. Archivio PeaceReporter


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L’intervista Iraq

La civiltà nella matita Di Christian Elia Mohammed Hatem, 27 anni, è un illustratore e disegnatore di Baghdad, che racconta la tragedia del suo Paese con le sue caustiche vignette. Raccontava, almeno. Perché dopo una lunga odissea, in fuga dalla guerra, è arrivato in Norvegia, in attesa dello status di rifugiato politico. Perché proprio il suo lavoro, nel nuovo, libero Iraq, poteva costargli la vita. Negli ultimi otto mesi a Baghdad non è mai uscito di casa, per via delle minacce di morte e per la paura di trovarsi ammazzato un giorno o l'altro. Da chi? Da tutti coloro che nella satira e nella libertà di espressione vedono una minaccia. Secondo la maggior parte dei media internazionali, ormai la situazione della sicurezza in Iraq è molto migliorata. Questo significa che i rifugiati e gli sfollati all'estero, secondo lei, possono tornare a casa? Non sono assolutamente d'accordo. L'informazione che passa sulla sicurezza in Iraq, in particolare per quanto riguarda Baghdad, è fuorviante. La situazione è ben lontana dall'essere normalizzata e le persone hanno ancora troppa paura per tornare nelle case che hanno dovuto abbandonare per la paura di finire vittime delle violenze. I media occidentali dovrebbero sforzarsi di prestare più attenzione alle piccole realtà dell'informazione in Iraq che, pur tra mille difficoltà, riescono a raccontare la terribile realtà del mio Paese. Quanto spazio occupa, nelle sue vignette, il tema della guerra? Quanta importanza hanno avuto le sue esperienze personali e quelle dei suoi cari? Il problema, per la maggioranza degli iracheni, è che non ne possono più della guerra. Non la uso come tema delle mie caricature. Ho realizzato, in passato, vignette che raccontavano le sofferenze delle persone durante il regime di Saddam, ma la situazione è peggiorata dopo il 2003 e ho smesso di ispirarmi alla realtà. Gli iracheni sono stanchi. Inoltre è rischioso, tanto che ho smesso anche di collaborare con alcuni giornali come vignettista, perché esponevo la mia famiglia e i miei amici a rischi terribili. Che ruolo occupa nel suo percorso artistico la storia moderna dell'Iraq? Nel mio lavoro si possono ritrovare continuamente riferimenti alla storia antica e moderna dell'Iraq. Da bambino ero innamorato del lavoro di un grande vignettista iracheno, Gaziy, e mio padre era uno suo appassionato estimatore. Mi ha trasmesso la passione per il lavoro di questo artista, del quale ho studiato lo stile, ispirandomi a lui e personalizzando le mie caricature e le mie vignette, modernizzando i colori e gli abiti dei protagonisti, per esempio, ma attualizzando un contesto e delle caratteristiche sociali, soprattutto rispetto alle caratteristiche dei cittadini di Baghdad. Cosa pensa delle opere di Fernando Botero su Abu Ghraib? Niente. Non mi piace parlarne e credo che sia solo un'immensa vergogna che 14

ricade sui soldati statunitensi. La guerra ha cambiato la percezione dell'arte e degli artisti nella società irachena? Crede che il conflitto finirà per essere uno stimolo per una nuova generazione di artisti iracheni? Per forza di cose il conflitto ha cambiato tutto. Adesso, nonostante i tanti problemi di sicurezza, gli artisti sono più liberi di esprimersi rispetto al periodo di Saddam. E questo potrebbe favorire la nascita di nuovi talenti, liberi di creare. Restano molti artisti che si sono compromessi con il regime, ma che sarebbe un peccato emarginare adesso. La situazione precedente era così complessa che non si possono giudicare tutti allo stesso modo. Gli artisti di regime, già. Quale era, durante il regime di Saddam, la condizione degli artisti in Iraq? Ci sono delle differenze adesso? C'erano gli artisti di regime, ma c'erano anche tante persone che non hanno voluto mai compromettersi. Ci sono anche quelli, dopo il 2003, che hanno scelto di lavorare per gli Usa e per sostenerne l'immagine. Altri, pur in assoluta povertà, non l'hanno voluto fare. Quello che non cambierà mai è il rapporto che esiste tra l'arte e il potere: anche quando cambia il potere ci sarà sempre chi si vende e chi non lo fa. E' possibile che gli artisti contribuiscano alla ricostruzione della società irachena? Ne sono certo. La stessa storia dell'umanità è raccontata attraverso il disegno. Il tratto di un lapis sulla parete di una grotta, o i geroglifici in Egitto, sono la testimonianza che tutte le società hanno bisogno di raccontarsi, e di trovare delle risposte, nell'opera degli artisti. Che in fondo non inventano nulla, ma raccontano solo la società della quale loro stessi sono parte. Ha mantenuto contatti con alcuni di loro? Tanti dei miei docenti all'Accademia di Belle Arti sono rimasti in Iraq e tanti dei miei colleghi sono ancora in Iraq. Sono rimasto in contatto con loro e mi faccio raccontare la vita quotidiana, i loro problemi e il loro lavoro. E' dura, perché io sono al sicuro e sapere quello che vivono tutti i giorni è terribile, come la preoccupazione per la mia famiglia. Ma la vita, e l'arte, vanno avanti. In alto: Mohammed Hatem al lavoro. In basso: Un cartellone per le vie di Baghdad realizzato da Mohammed. Baghdad, Iraq 2008. Archivio PeaceReporter


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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

Le buone nuove Egitto, la fede di Amal Una donna egiziana si batte per il diritto a celebrare matrimoni, e vince. Amal Soliman, 32 anni, sposata e madre di tre figli, potrebbe entrare nella storia del suo Paese. Potrebbe, infatti, essere la prima donna a diventare mazouna, il funzionario amministrativo che celebra i matrimoni e sancisce i divorzi.

Africa, i bambini al centro Lanciato il primo rapporto tutto africano sulla salute infantile nel continente. La Namibia e il Malawi, due tra i Paesi africani più poveri, trattano i loro bambini meglio di molti Paesi africani più ricchi. Lo rivela uno studio dell'African Child Policy Forum, un istituto indipendente che ha stilato la classifica di 52 Stati child-friendly, amici dei bambini. Il Malawi, al 45mo posto tra i 52 in quanto a ricchezza pro-capite, è tra i primi 10 come impegno verso l'infanzia, mentre la Namibia, al 36mo, risulta seconda.

Groenlandia, l'isola del tesoro Vince il sì al referendum per l'autonomia e per lo sfruttamento delle risorse minerarie Per la prima volta nella loro storia, gli inuit, o groenlandesi, hanno votato per maggiori diritti, maggiore autonomia e - sopratutto - per la futura indipendenza. Il referendum che ha visto recarsi alle urne decine di migliaia di residenti nella più grande isola del mondo dopo l'Australia, segna un passaggio cruciale nella storia della ex colonia. Con il voto, gli inuit, che già avevano sanità, istruzione, pesca, hanno sancito con il 75 percento dei consensi al 'sì' il trasferimento di 32 nuovi campi di competenze da Copenhagen a Nuuk, la 'capitale' dell'isola, avocando a se' materie importanti come la giustizia (tribunali, polizia e prigioni) e soprattutto la possibilità di sfruttare i ricchi giacimenti di risorse energetiche e minerarie sepolti a centinaia di metri sotto il ghiaccio. Inoltre, la lingua degli inuit diventerà l'idioma ufficiale dell'isola.

Turchia, Ocalan ancora recluso da solo

Guatemala, petrolio sociale

Dieci anni di isolamento

Sviluppo dall’oro nero

ondata di proteste che, alla fine di ottobre, aveva scosso tutte le comunità curde d'Europa e del mondo, sembrava aver sortito i suoi effetti: il ministero della Giustizia turco pareva deciso a portare nel carcere fortezza di Imrali altri nove compagni di prigionia per alleviare l'isolamento del prigioniero più famoso del Paese, Abdullah Ocalan, detto Apo, leader del Partito Curdo dei Lavoratori (Pkk), detenuto nell'isola dal 1999. Dopo la condanna a morte, commutata in ergastolo nel 2002, Ocalan è sempre stato in isolamento. Dopo che gli avvocati di Ocalan avevano denunciato il grave stato di disagio psico-fisico del loro assistito, vittima a loro dire di torture, la Commissione europea aveva pressato il governo turco perché ne alleggerisse le condizioni detentive. Ma il governo di Ankara ha chiarito che l'isolamento terminerà solo se Ocalan ripudierà pubblicamente la lotta armata. Il Pkk è stato fondato alla fine degli anni Settanta da Ocalan, con l'obiettivo di ottenere una forma di autonomia per la minoranza curda in Turchia e il pieno godimento dei diritti civili e culturali dei curdi nel Paese. Negli anni di violenze contrapposte tra il Pkk e l'esercito turco, almeno 40mila persone sono morte. Il 15 febbraio 1999 Ocalan fu catturato dagli agenti dei Servizi segreti turchi all'aeroporto di Nairobi, dopo che alcuni stati, tra cui l'Italia, si erano rifiutati di concedergli lo status di rifugiato politico. Fatto salire a bordo di un aereo messo a disposizione da un imprenditore turco fu portato in Turchia, nell'isola di Imrali, inespugnabile carcere fortezza che da allora accoglie solo lui. Il 28 settembre 2006 Ocalan ha fatto rilasciare una dichiarazione al suo legale, Ibrahim Bilmez, nella quale chiede al Pkk di dichiarare un armistizio e cercare di raggiungere la pace con la Turchia. Il Comunicato di Ocalan affermava che “Il Pkk non dovrebbe utilizzare le armi tranne che se attaccato con l'intento di annichilamento" e che "è molto importante costruire un'unione democratica tra i Turchi e i Curdi”. Il conflitto non si è arrestato e, nell'ultimo anno, si è aggravato. L'aviazione turca bombarda in territorio iracheno, convinta che il Pkk si rifugi tra i monti del Kurdistan iracheno.

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l parlamento di Città del Guatemala ha approvato una legge (109 voti a favore su 158 disponibili) che prevede che le grandi compagnie petrolifere presenti nel Paese, siano esse nazionali o straniere, versino parte dei proventi derivanti dallo sfruttamento del sottosuolo a oltre 200 comunità guatemalteche. In sostanza parte delle royalties andranno a formare un nuovo fondo, il Fondo del Petroleo, con il quale l'esecutivo del Guatemala si premurerà di avviare programmi di sviluppo socio economico e culturale nelle comunità indigene che si trovano nei pressi dei siti petroliferi oltre che un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione locale. Le compagnie che lavorano nel settore del greggio ogni anno versano nelle casse dello stato più o meno 80 milioni di dollari, corrispondente a circa l'1 percento del totale degli introiti. Il Guatemala con 14 mila barili estratti ogni giorno (diretti quasi totalmente esportati verso il mercato statunitense) è infatti il maggiore produttore di petrolio dell'area centro americana. L'estrazione si concentra maggiormente nella zona nord del Paese. Segue a molta distanza il Belize, che produce circa un quinto della produzione guatemalteca. La cifra sarebbe comunque insufficiente a soddisfare il fabbisogno interno del Guatemala che è di circa 100 mila barili al giorno. A seguito delle nuova legge, però, non sono mancate le polemiche. I deputati della sinistra, infatti, sospettano che questa legge contenga un inganno. Se da un lato si devolve alle comunità parte dei guadagni derivanti dallo sfruttamento dei giacimenti petroliferi, dall'altro potrebbero essere “regalate” altre concessioni alle compagnie straniere che in questo modo si approprierebbero delle risorse nazionali, causando inquinamento e mettendo a rischio l'eco sistema locale. Secondo un'analisi condotta dall'Agenzia Internazionale dell'Energia, il sottosuolo guatemalteco potrebbe contenere riserve di greggio pari a più di 80 milioni di barili. Alessandro Grandi


CONGO La guerra per le risorse

a Repubblica Democratica del Congo brucia. A infiammarla sono i ribelli dell’est, legati, in alleanze variabili, ai governi di Uganda e Ruanda, oppure a Kinshasa. Si fanno la guerra per controllare le tante risorse che la Rdc nasconde nel suo sottosuolo, e non solo. A pagare, come sempre, i civili, che di queste ricchezze non possono approfittare. E non hanno approfittato mai. Ai tempi delle colonie il Congo era un bacino di risorse di proprietà privata del monarca belga Leopoldo II, che vi aveva instaurato un regime brutale allo scopo di estrarre più ricchezze possibili. In particolare caucciù e avorio. Solo nel 1908, grazie ad un forte movimento delle opinioni pubbliche occidentali, cominciarono i primi investimenti in infrastrutture. Presto però si crearono i primi focolai di resistenza. Nel 1960 il Belgio si ritirò, rendendo il Congo indipendente sotto il governo di Patrice Lumumba. Davanti alle prime spinte autonomistiche della regione del Katanga, Lumumba si rivolse all’Onu. Gli Usa rifiutarono di intervenire, avvicinando Lumumba all’Urss e decretandone la fine. All’inizio del 1961 Lumumba morì. Il paese passò nelle mani di Joseph Kasavubu, che nel 1965 fu rovesciato, con il sostegno dei governi occidentali e degli Usa, dal colonnello Mobutu Sese Seko, che instaurò un regime autoritario, iniziò la “decolonizzazione culturale” del paese, che rinominò Zaire, e nazionalizzò le imprese straniere. Nel 1994 scoppiò il genocidio dei tutsi in Ruanda che causò la fuga di un milione di hutu verso lo Zaire. Nell’ottobre 1996 le truppe dell’Alleanza delle Forze Democratiche per la Liberazione dello Zaire, guidate da Laurent Kabila e sostenute da Ruanda, Uganda e Angola, attaccavano i campi profughi hutu nella zona nord-orientale del paese, proseguendo l’avanzata verso la capitale. Mobutu fuggì in Marocco, dove di lì a poco morì. La Prima Guerra Congolese si concludeva con Laurent Kabila presidente, ma gettava le basi per una nuova, ancor più disastrosa guerra. Forze straniere si erano ormai infatti installate sul territorio congolese. Nel 1998 Kabila ordinava la fuoriuscita dal paese dei suoi ex sostenitori stranieri. In tutta risposta, l’esercitò ruandese iniziò una marcia su Kinshasa per rimuovere Kabila e sostituirlo con un governo retto dal gruppo ribelle filoruandese, il Rassemblement Congolais pour la Démocratie (Rcd). L’iniziativa fu bloccata dall’intervento delle truppe di Angola, Zimbawe e Namibia. L’esercito ruandese, insieme al Rcd, indietreggiò fino alla zona orientale del paese. Al tempo stesso l'Uganda formalizzava il suo appoggiò al Mouvement pour la Libération du Congo (Mlc), con cui assumeva il controllo della zona settentrionale. Era iniziata la Seconda Guerra Congolese, denominata Guerra Mondiale africana per la quantità di attori coinvolti (8 paesi e 25 differenti gruppi armati) e per il numero di morti: almeno 5,4 milioni. Improvvisamente, il 16 gennaio 2001, in Zimbabwe, Kabila venne ucciso da una sua guardia del corpo. Il figlio di Laurent Kabila, Joseph, venne eletto

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all’unanimità dal parlamento. In aprile, una commissione Onu presentava un rapporto sullo sfruttamento illegale delle risorse congolesi di diamanti, cobalto, coltan e oro, denunciando Ruanda, Uganda e Zimbabwe e raccomandando l’imposizione di sanzioni. Nel luglio 2002 si arrivò alla firma dei Trattati di Pretoria e Luanda, tra la Rdc, il Sudafrica, l’Angola e soprattutto il Ruanda e l’Uganda. Gli accordi imponevano a Ruanda e Uganda di ritirare le proprie truppe. Secondo quanto denunciato da Amnesty International, però, alcune truppe di Kigali non hanno mai abbandonato le proprie posizioni e il loro armamento pesante è passato all’Rcd-Goma (fazione fuoriuscita dall’Rcd nel 1999). A dicembre, il Mlc, l’Rcd, l’Rcd-Mouvement de Libération (Rcd-Ml), l’RcdNational (Rcd-N), il gruppo Mai Mai, l’opposizione politica nazionale e i rappresentanti della società civile firmarono un Accordo Globale e Onnicomprensivo che prevedeva la formazione di un governo di transizione, entrato in carica il 18 luglio 2003, che avrebbe dovuto portare alle elezioni entro due anni. Obbligava inoltre le parti a impegnarsi per la riunificazione del paese e per il disarmo e il reintegro dei combattenti. Nel 2006, con una nuova costituzione, viene eletto Joseph Kabila. La debolezza di tale governo ha però portato al protrarsi delle violazioni dei diritti umani nella zona orientale del paese. I centri del conflitto sono rimasti tre: il Kivu settentrionale e meridionale, dove un Fdlr (Forces Démocratiques de Libération du Rwanda) indebolito continua a minacciare il confine ruandese, e dove Kigali sostiene le fazioni ribelli dell’Rcd-Goma e del Cndp dell’ex generale ribelle Laurent Nkunda contro Kinshasa; l’Ituri, dove la missione Monuc si è dimostrata incapace di pacificare le milizie; il Katanga, dove i Mai Mai di Laurent Kabila si sono svincolati dal controllo del governo, continuando una politica di aggressione nei confronti della popolazione e di sfruttamento delle risorse. In Kivu, nel novembre 2006, le truppe di Nkunda hanno innescato un nuovo confronto con l’esercito, causando una grave crisi umanitaria che, in meno di 12 mesi, ha provocato numerose vittime civili e 370mila sfollati. Il 9 gennaio 2008 si apre a Goma una conferenza di pace per il Nord Kivu per l’immediato cessate il fuoco, la smobilitazione dei gruppi armati, la creazione di zone smilitarizzate e, soprattutto, il rispetto dei diritti umani della popolazione civile. Ma l’accordo ha breve durata. In ottobre, nella zona orientale del paese, è iniziata una nuova violenta offensiva del Cndp, che, nel giro di qualche giorno, da Rutshuru, grande città del Nord Kivu, si è attestato a 15 chilometri da Goma, proclamando però, il 30 ottobre 2008, un cessate il fuoco unilaterale e dislocando il proprio quartier generale a Kirolirwe, a un sessantina di km dal capoluogo. Secondo l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr), sarebbero circa 250 mila i profughi in seguito a questo nuovo intensificarsi dei combattimenti, portando a più di un milione il numero degli sfollati.


Repubblica Democratica del Congo

REPUBBLICA CENTRAFRICANA SUDAN CAMERUN

PROVINCIA ORIENTALE EQUATORE

Buta Bunia ITURI

Kisangani Mbandaka

REPUBBLICA DEL CONGO

NORD KIWU

GABON

UGANDA Opala Goma

Bukavu Shabunda

KASAI ORIENTALE Kindu

BANDUNDU

Uvira SUD KIWU

MANIEMA

Kinshasa Kasangulu BASSO CONGO

RUANDA

BURUNDI

KASAI OCCIDENTALE Kalemie

TANZANIA

Mbuji Mayi Kananga

KATANGA Kamina ANGOLA ZAMBIA

Kolwezi Likasi

Aree di influenza dei movimenti ribelli alla fine della Seconda Guerra congolese (1998-2003) Rassemblement Congolaise pour la Démocracie RCD (filo-ruandese) RCD-Assemblée Génerale (filo-ugandese) Mouvement pour la Libération du Congo MLC

Lubumbashi


REPUBBLICA CENTRAFRICANA SUDAN CAMERUN

PROVINCIA ORIENTALE EQUATORE

Buta Bunia ITURI

Kisangani Mbandaka

REPUBBLICA DEL CONGO

NORD KIWU

GABON

UGANDA Opala Goma

Bukavu Shabunda

KASAI ORIENTALE Kindu

BANDUNDU

Uvira SUD KIWU

MANIEMA

Kinshasa Kasangulu BASSO CONGO

RUANDA

BURUNDI

KASAI OCCIDENTALE Kalemie

TANZANIA

Mbuji Mayi Kananga ANGOLA KATANGA

Giacimenti minerari e risorse energetiche Diamanti

Carbone

Oro

Uranio

Kamina

ZAMBIA

Kolwezi

Coltan Rame-Cobalto Stagno Manganese Piombo - Zinco Regione dello Stagno Cintura del Rame

Likasi Lubumbashi

Petrolio


Lago Edward Kirumba

Nord Kivu, sfollati interni dopo i combattimenti di ottobre e novembre 2008

Kamandi gite Luofu

Kikovu Kayna

Entità degli sfollati il cerchio in legenda corrisponde a 10.000 persone

Kanyabayonga

Ishasha

Miriki

Flussi Zone di instabilità Passaggi transfrontalieri Nyamilima

Kibirizi

CNDP - Nkunda (Congrès National pour la Défense du Peuple) FDLR ( Forces Democratiques de Liberation du Rwanda) 10 Chilometri

UGANDA

Bambu

Mweso

Rutshuru

Nord Kivu

Busanza

Tongo Rubare

Kitchanga Mungote

Kalengera

Kabaya

Burungu

Masisi Maraganra

Kirolirwe

Rugari

Kausa

RUANDA Kibumba

Kibati I Kibati II Mugunga I Mugunga II Bulengo Ngungu

Shasha

Goma Bweremana

Lago Kivu

Motivo dei nuovi scontri secondo Nkunda l’accordo stretto da Kabila con la Cina, che riceverebbe i diritti di sfruttamento delle risorse minerarie del paese in cambio di 9 milioni di dollari in infrastrutture. Sono infatti le risorse la vera piaga della Rdc. La zona orientale del paese, in particolare, è ricca di diamanti, oro, rame, cobalto, zinco, stagno, petrolio, caffè, olio di palma, legno e, soprattutto, coltan, quest’ultimo usato per cellulari, lettori I-pod, videogiochi, e nell’industria chimica e aerospaziale. La sua estrazione, per cui viene spesso usato lavoro forzato, è controllata, attraverso i diversi gruppi armati, dal Ruanda e dall’Uganda, dove il minerale viene trasferito per essere lavorato e poi commercializzato. Con il coltan il Ruanda finanzia la propria presenza militare nella Rdc. Le parti in conflitto hanno provato a giustificare la propria attività con la difesa di interessi etnici. Da più parti, però, tali tentativi sono stati sconfessati: le forze straniere, secondo Amnesty International e Human Rights Watch, hanno piuttosto promosso conflitti interetnici e movimenti forzati della popolazione per garantire il controllo delle risorse. Ai civili non è permesso raggiungere i campi coltivabili, perché giacciono sulle riserve minerarie. La produzione di cibo è crollata. Fame e la mortalità sono dilagate. Essere poveri, affamati e sottoposti a costanti, brutali violenze sembra essere il prezzo da pagare per vivere in un paese ricchissimo.

a cura di Daniela Greco


Israele, impunità diffusa tra i militari

Iran, la paura della parola

Il numero dei morti dal 23 ottobre al 26 novembre*

Legittime violazioni

L'Iran contro la Rete

Un mese di guerre

olo il 6 percento delle violazioni da parte di soldati israeliani contro civili palestinesi ha portato a incriminazione. Lo rivela un rapporto dell'organizzazione umanitaria israeliana Yesh Din. Le forze armate israeliane hanno “fallito nel loro dovere di proteggere la popolazione civile nei Territori di fronte alle trasgressioni compiute dai soldati”. Lo ha dichiarato lo scorso 26 novembre l'organizzazione umanitaria israeliana Yesh Din, in occasione della pubblicazione del suo ultimo studio. Secondo l'Ong dall'inizio della intifada – nel settembre del 2000 – fino al termine del 2007, oltre duemila civili palestinesi che non erano coinvolti in combattimenti sono stati uccisi dal fuoco israeliano nei Territori occupati. Secondo il rapporto, che si basa sui dati forniti dall'esercito israeliano, durante il periodo considerato le inchieste giudiziarie relative a violazioni compiute dai soldati nei confronti dei palestinesi sono state 1246, ma al termine del 2007 le incriminazioni sono state 78, pari al sei percento del totale. Le condanne invece sono state cinque, relative all'uccisione di quattro civili: tre palestinesi e un cittadino britannico. Il portavoce dell'esercito israeliano ha lamentato di non avere avuto un tempo ragionevole per studiare il contenuto del rapporto, ma ha precisato che “dall'inizio del 2008, la polizia militare ha avviato 170 indagini relative a danni fisici o materiali patiti da palestinesi da parte dei soldati”. Secondo il direttore delle ricerche di Yesh Din e autore del rapporto, Lior Yavne, “un soldato che sceglie di picchiare un palestinese in manette o che spara senza necessità contro un palestinese disarmato sa che le possibilità di finire sotto processo o anche sotto inchiesta sono minime”. Yesh Din sostiene inoltre che, anche in caso di condanna, le pene comminate ai soldati sarebbero inoltre “leggere” di quanto stabilito dalla legge israeliana. Il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, che cita il rapporto della Ong, spiega per esempio che “i soldati riconosciuti colpevoli di saccheggio, un reato che può essere punito con una pena massima di dieci anni, in realtà sono stati condannati a scontare tra i 40 giorni e i sei mesi di reclusione”.

el corso di un convegno sulla diffusione di internet, il consigliere del procuratore generale della repubblica islamica, Abdol Samad Khorrambadi, ha ammesso che in Iran oltre cinque milioni di siti vengono censurati. Secondo quanto dichiarato da Khorrambadi al convegno, "la maggior parte dei siti filtrati diffondono materiale immorale e antisociale". Per questo si è reso necessario l'oscuramento di più di cinque milioni di siti. Il responsabile dell'apparato giudiziario ha giudicato internet molto più dannoso dei canali satellitari. "Oggi sono in molti a sprecare ore e ore davanti al computer - ha detto - e ciò avrà conseguenze dannose. Internet porta un danno alla società e noi dobbiamo mettere a punto dei piani per ridurre questo danno", soprattutto perché il nemico se ne serve per attaccare la Repubblica "sul piano sociale, politico, morale ed economico". Ma il computer non è sempre il diavolo: lo prova Special Operations 85, un gioco made in Iran prodotto dai docenti dell'Islamic High School Society di Teheran. La trama del gioco segue le vicende di due scienziati nucleari iraniani, che si recano in pellegrinaggio nel sud dell'Iraq, dove si trovano alcuni tra i più importanti santuari dell'islam sciita. Siccome l'Iraq è occupato dagli Stati Uniti, che sono impegnati in un duro braccio di ferro con l'Iran proprio per la questione del nucleare, i due vengono arrestati dai marines e incarcerati. A questo punto entra in azione il protagonista, un agente speciale del regime degli Ayatollah, con il compito di salvare i due scienziati, ma non solo. L'aspirante eroe, mosso dalla fede in Allah, oltre che dal joystick dei giovani giocatori, dovrà anche affrontare un prefido agente del Mossad, il servizio segreto israeliano, che cercherà di trafugare informazioni segrete sul nucleare iraniano alle potenze occidentali. Per realizzare il programma ci sono voluti tre anni e un investimento di 40 mila dollari. “Abbiamo scelto i giochi per i computer perché sono molto popolari tra i giovani e perciò sono strumenti ideali per trasmettere loro valori ideologici”, ha spiegato il direttore dell’istituto islamico di Teheran.

PAESE

S

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MORTI

Rep.Dem.Congo Pakistan Talebani Afghanistan Sri Lanka Iraq Filippine Milf India Nordest Somalia Nord Caucaso India Naxaliti Nigeria Sudan India Kashmir Turchia Thailandia del sud Pakistan Balucistan Filippine Npa Uganda Israele-Palestina Colombia

2.085 833 678 663 661 160 151 133 67 64 49 48 41 37 29 24 23 22 18 8

TOTALE:

5. 794

I dati che qui riportiamo sono dati ufficiali, raccolti da agenzie di stampa internazionali o locali. Per cui sono da intendersi sempre per difetto: in molti paesi del mondo non si contano i vivi, figuriamoci i morti. 17


Qualcosa di personale Congo

In diretta dalla guerra Di Luisa Flisi Testo raccolto da Nicola Sessa La notte tra il 29 e il 30 ottobre è stata orribile. I soldati congolesi hanno sparato tutta la notte. Hanno saccheggiato, violentato e ucciso. Per fortuna non sono arrivati fino a casa nostra. Il giorno dopo, si sono contati i corpi di almeno cinquanta civili rimasti vittime di quella notte selvaggia. ivo in Congo da molti anni, più di quanti non ne abbia vissuti in Italia. Ci sono arrivata nel ’72, quando avevo ventott’anni. Le persone di Goma che mi conoscono, mi chiamano ‘dada Luisa’ che in swahili vuol dire sorella; ma non in senso religioso. No, proprio come membro di una stessa famiglia. La città, negli ultimi mesi, è attraversata dal panico e dall’incertezza. C’è il giustificato terrore che Goma possa essere assediata e presa dalle truppe di Laurent Nkunda e che si arrivi a una guerra ancora più sanguinosa. La gente tenta di andar via, ma non si sa neanche dove andare. Qualcuno va a Bukavo, a sud del lago Kivu dove i traghetti carichi fanno spola tra le due sponde; altri vanno a Butambo, ma con l’aereo, perché le strade sono boccate. Molti tutsi della zona, quelli che Nkunda dice di voler proteggere, sono stati costretti fuggire in Ruanda, non per paura del generale ribelle, ma della popolazione di Goma che comincia a vedere nei tutsi la ragione scatenante delle violenze: “Voi siete suoi amici, eh? Lo coprite, lo aiutate”. E così prima che possa cominciare, realmente, una caccia alle streghe, i tutsi hanno preferito levare le tende. Si vive sempre in un continuo stato d’allerta, a Goma. Il 29 ottobre, verso l’una del pomeriggio, i carrarmati e i soldati congolesi sono arrivati in città a tutta velocità. Erano stati sconfitti a Kibumba - venti chilometri a nord di Goma - dalle milizie di Nkunda. La popolazione, al corrente dell’esito della battaglia, era convinta che i ribelli li stessero inseguendo e che quindi la città stesse per cadere nelle mani del generale. La sorpresa fu ancora più amara quando i soldati, quei soldati che avrebbero dovuto proteggerli, hanno cominciato a mettere a ferro e fuoco la città. Hanno sequestrato le auto dei civili e quelli che non erano in grado di guidare li hanno costretti con la forza a portarli fuori da Goma, il più lontano possibile. Poi è cominciato, secondo copione, l’intero repertorio delle violenze dell’Armée del Congo: saccheggi, stupri, uccisioni. Il tutto sotto lo sguardo degli uomini della Monuc, della missione Onu in Congo, che non hanno mosso un dito. Solo il giorno dopo, il 30 mattina, le autorità militari hanno inviato delle brigate a uccidere questo manipolo di soldati allo sbando. La gente per un paio di giorni non è uscita di casa e Goma ha assunto un’atmosfera surreale, da città deserta. La situazione degli approvvigionamenti alimentari è disperata: il Programma Alimentare Mondiale forniva, fino a settembre, cibo sufficiente per mille e settecento famiglie, di cui quattrocento seguite dalla mia asso-

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ciazione, il Gram (Gruppo accompagnamento malati) che si occupa per lo più di ammalati di Aids e di orfani. Da quando c’è stata un’impennata nel numero di profughi, le quantità sono necessariamente diminuite e il ritornello “fame, fame” è diventato, se possibile, ancora più frequente. I fagioli, che costituiscono l’alimento base dei congolesi, sono passati da un costo di quaranta dollari al sacco in agosto a ottanta, novanta dollari nelle scorse settimane. a mia casa è a soli cinquanta metri dalla prigione di Goma. Il carcere fu costruito in epoca coloniale per contenere, al massimo, duecento detenuti. Oggi ce ne sono settecento, di cui cinquecento sono militari. Intorno al 20 ottobre è scoppiata una grande rivolta per la mancanza di cibo, dal momento che il governo non si preoccupa di fornire cibo ai detenuti; è tutto a carico delle famiglie. Per chi ne ha una, almeno. I prigionieri si sono arrampicati sui tetti e hanno dato fuoco a un’ala del carcere. La rivolta è durata diversi giorni, con un bilancio di quattro morti e quindici evasi, si è sedata solo quando è stato portato loro qualcosa da mangiare. C’è paura a Goma, c’è paura. La gente si vede abbandonata dal presidente Kabila che nel nord Kivu ha ricevuto un plebiscito di consensi. Si sente abbandonata dalla comunità internazionale. E sono sempre più a sospettare che molti uomini del contingente Monuc parteggino per Nkunda e che siano coinvolti nel traffico dei minerali. L’arcivescovo di Kinshasa, Laurent Monsengwo, ha avuto il coraggio di prendere una posizione molto netta nei confronti dell’Onu e dell’Occidente, chiedendo perché si sia deciso di formare un contingente di pessima qualità dove bengalesi, marocchini, indiani e pakistani costituiscono la maggioranza della missione. È chiaro che si tratta di soldati che vengono dalle zone più povere del mondo, facilmente corruttibili, senza contare gli episodi, certificati, di violenze sessuali ai danni di minori di cui si sono resi responsabili soprattutto uomini del contingente indiano. È per questo che si chiede un’integrazione di soldati europei. È per questo che si chiede che la crisi del Congo venga affrontata seriamente. Ma forse a qualcuno fa più comodo un Congo in guerra che non un Congo in pace.

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Sopra: per le strade di Goma. Sotto: dada Luisa Flisi. Archivio PeaceReporter


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La storia Senegal

L'apparenza inganna Di Daniela Greco

Regna la calma a Ziguinchor, capoluogo della regione senegalese della Casamance. Una calma lenta, afosa e al tempo stesso brulicante. Una calma che non può, però, essere chiamata pace. ra il 26 dicembre 1982. La gente era scesa in strada per chiedere, rumorosamente ma pacificamente, un trattamento più equo al governo di Dakar. La capitale rispose con l'esercito. È stato allora che il Movimento delle Forze Democratiche della Casamance (Mfdc) ha iniziato la sua guerra. Un guerra di guerriglia che non ha ucciso abbastanza persone – da due a cinque mila morti, secondo l'Ong Oxfam – per poter essere riconosciuta come tale. Una guerra strisciante, lunga più di venticinque anni. Oggi la guerra non c’è più. Ma nemmeno c’è la pace. Il governo del presidente Abdoulaye Wade, eletto nel 2000, vanta la firma di un accordo di pace, sottoscritto nel dicembre del 2004, pagando – lo sanno tutti – alcuni capi ribelli. Da allora i negoziati sono stati fermati, come se la situazione fosse tornata alla normalità. A Ziguinchor, però, tutto normale non è. “Di tanto in tanto, in molti villaggi, qualche giovane si assenta e torna nel maquis, la boscaglia”, spiega Toumboul, uno degli almeno sessantamila sfollati che quindici anni fa ha dovuto lasciare il suo villaggio, Badèm, nella bassa Casamance. “Giusto il tempo di un’azione, poi rientra, come se fosse andato a lavoro.” E la gente sa. La gente vede tutto. La gente spera, anche. Di tornare nei propri campi, lungo la frontiera con la Guinea Bissau, occupati e sfruttati ormai da anni dai ribelli. E talvolta ci torna, perché per i diola (gruppo etnico minoritario senegalese, maggioritario in Casamance) il legame con la propria terra è il fulcro stesso dell’identità. Erano infatti diola i sedici contadini che, lo scorso maggio, hanno fatto ritorno ai loro campi, nel villaggio di Tampa, poco lontano da Ziguinchor, per raccogliere gli anacardi, il frutto più redditizio della regione. Ad accoglierli hanno trovato però un gruppo di uomini armati che li hanno legati, derubati e tagliato loro le orecchie. Una per ciascuno. Secondo la maggioranza dei testimoni, si trattava di un gruppo di uomini del Mfdc. Quel che conta, comunque, è che la gente è tornata ad avere paura. Si tratta infatti di un episodio di una violenza quasi sconosciuta, fino ad ora, in Casamance. Nel periodo in cui la tensione era più alta, verso la fine degli anni novanta, i ribelli hanno infatti usato diverse volte la tecnica della mutilazione delle orecchie per spaventare la popolazione accusata di sostenere l’esercito. Si trattava però di atti sporadici, frutto della spietata logica di guerra che vigeva al tempo. E, soprattutto, di ricordi del passato. Bourama è un vecchio diola cotto dai decenni di lavoro da contadino. Già prima di essere uno sfollato, era un saggio, Bourama, eppure non si spiega perché i ribelli abbiano fatto una cosa del genere. Anche lui, come i contadini di Tampa, l’anno scorso ci è tornato, nei suoi campi. Ad un tratto si è trovato circondato da un gruppo di uomini armati che gli hanno chiesto cosa ci facesse lì. “Io ho risposto che ero tornato a vede-

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re il mio frutteto, e che quella è la mia casa”. Gli uomini armati hanno alzato la voce. Quella era la sua casa. Per il momento è la loro. “Così sono stato cacciato per la seconda volta.” Ma non è stato aggredito, Bourama, e ci tiene a sottolinearlo, perché “è assurdo che i ribelli attacchino senza ragione un diola, un fratello”. Oggi, ad ogni modo, in Casamance non si combatte più. Ufficialmente, è rimasto infatti solo il gruppo di Salif Sadio a portare avanti la lotta per l’indipendenza. E Sadio sembra essere un uomo troppo mistico per poter essere comprato. Con la corruzione, invece, il governo di Dakar è riuscito nel tempo a frammentare Atika (che in diola significa guerriero), il braccio combattente del Mfdc. Le fazioni di Atika oggi sono tante e spesso in lotta tra loro. Ufficialmente hanno quasi tutte firmato la pace. Nella pratica, nessuno ha consegnato le armi, se non qualche manciata di fucili da caccia di decenni fa. Secondo alcune fonti, la calma attuale sarebbe da imputare al fatto che le diverse fazioni stiano negoziando una riorganizzazione del Mfdc. Gli ultimi combattimenti sono stati in effetti registrati ormai un anno fa. Eppure la gente sa, la gente vede tutto. E non si sente tranquilla. ariama vive con i suoi figli a Kandialang, uno dei quartieri alle porte di Ziguinchor, più volte attraversato e occupato dai ribelli per entrare in città. È triste, Mariama, mentre racconta di come suo figlio sia diventato un pastore. “Il mio ragazzo è intelligente, ha sempre avuto buoni voti. Ma ha dovuto lasciare la scuola perché, durante una delle tante fughe da Kandialang, abbiamo perso gli estratti di nascita. E senza estratto non puoi fare gli esami”. Spiega fiera, la madre peul (gruppo etnico minoritario senegalese), di averli iscritti tutti all’anagrafe, i suoi figli. Ma poi i certificati sono andati perduti e ora rifarli costa tanto, troppo. “E poi chissà”, aggiunge piano, “se non ci ritroveremo a scappare di nuovo”. Perché lei li riconosce, i ribelli, sa che spesso arrivano fino al mercato del centro città e si chiede come mai nessuno li fermi. Non conosce la riposta, Mariama, ma percepisce l’ambiguità di questa situazione e non sa bene cosa aspettarsi. È così, oggi, la Casamance. Una terra in cui i soldi hanno frammentato la ribellione, ma non ne hanno cancellato le ragioni. Una regione gravida di mine antiuomo e piena di armi, nascoste in una foresta fitta e lussureggiante, ma di cui nessuno ha mai parlato, né tantomeno parla più. Perché questa guerra non ha ucciso abbastanza. E perché il presidente, Abdoulaye Wade, ha deciso che non esiste più.

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In alto: Torneo nel quartiere di Kandialang. In basso: Pausa durante il lavoro a Lyndiane. Ziguinchor, Senegal 2008. Daniela Greco per PeaceReporter


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Italia

Clandestini siete voi Di Giuseppe Pace

Ormai la usano tutti. Per attaccare, ghettizzare, sbattere in un angolo, pregare Dio che qualcosa o qualcuno li rispediscano al loro Paese. “Fuori dalle palle, fuori dall’Italia”. E allora noi quella parola - “clandestino” - l’abbiamo cancellata, buttata fuori, appunto. ei lanci del notiziario “DiRes”, che da un anno realizziamo insieme, mettendo in rete ogni giorno oltre 200 articoli su welfare, disagio sociale, immigrazione, scuola e università, ricerca e salute, sanità e dialogo religioso, noi giornalisti dell’agenzia di stampa Dire e dell’agenzia Redattore Sociale abbiamo deciso di non scrivere più “clandestino”, che oggi ha un solo significato riferito agli immigrati: delinquenti. Più altri appellativi: ladri, sfruttatori, criminali… e via dicendo. Viceversa, si tratta di persone. Una banalità? Un luogo comune politicamente corretto? Può darsi, ma non cancella una semplice verità: sono persone, che cercano un altro futuro possibile, che a volte infrangono le regole e altre no, che possono essere delinquenti o geni, genitori o figli, ma sono persone, non “clandestini”, cioè brutta gente, a prescindere. Sono uomini, donne, bambini, adolescenti, rifugiati, richiedenti asilo, migranti, immigrati, lavoratori, irregolari. Sono, cioè, tutte quelle parole che si possono usare al posto di “clandestino”, sono solo un piccolo sforzo per andare oltre i luoghi comuni, le facili associazioni, la ricerca del diverso da demonizzare – e menare, magari. Nella gran parte dei casi sono (per la legge e la burocrazia diventano) nuovi italiani, cittadini (ecco un’altra parola possibile) come noi, noi che fra le nostre fila contiamo (come loro) fior di gentiluomini e fior di farabutti, onesti mestieranti e sinceri manovali: perché separarci? Perché bollare loro come “clandestini”? Appunto: noi giornalisti della Dire e di Redattore Sociale abbiamo deciso di non marchiare gli immigrati con l’epiteto (ormai) d’ingresso. “Clandestino” comparirà nei pezzi solo se parola ritenuta indispensabile o opportuna per chiarire il pensiero dell'intervistato o per riprodurre

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fedelmente il linguaggio dello stesso. Vietata, inoltre, la parola "extracomunitario", tranne in quei rari casi in cui sarà essenziale per chiarire aspetti tecnico-giuridici. La nostra iniziativa è maturata anche in seguito all’appello lanciato alcune settimane fa dal gruppo “Giornalismi contro il razzismo”, cui chiediamo di aderire a tutti i colleghi, famosi e no, a tutte le testate, importanti o meno che siano. ltre a essere impropria - ha spiegato Stefano Trasatti, direttore di Redattore Sociale - la parola ‘clandestino’ ha sempre più assunto nell’immaginario collettivo un’accezione offensiva e spesso criminalizzante, che rischia di estendersi a tutta la popolazione immigrata. Eliminare questa parola dal nostro notiziario ci sembra una scelta doverosa e di rispetto della dignità delle persone straniere. Sia di coloro che, pur vivendo in Italia da tempo, per qualche motivo non sono in regola con il permesso di soggiorno, sia soprattutto di tutti quelli che, provenienti da storie di estrema povertà, hanno affrontato viaggi drammatici per arrivare nel nostro Paese”. Condivido. Come agenzie di stampa siamo la prima fonte di molti giornali, televisioni, radio, siti internet, dunque parecchi colleghi si troveranno in mano articoli senza clandestini dentro. Chissà che non sia la soluzione della questione immigrazione in Italia. In fondo, l’uovo di Colombo (che l’Italia lasciò, in cerca del nuovo mondo).

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In alto: In una reception di un albergo. Torino, Italia 2007. Massimo di Nonno/Prospekt In basso: Raccolta di mele in Trentino. Italia 2007. Alexey Pivovarov/Prospekt


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Migranti

A sud di Lampedusa di Gabriele Del Grande Sindacalisti arrestati e torturati, manifestanti uccisi dalla polizia e giornalisti in carcere. a cronaca degli ultimi dieci mesi in Tunisia mostra il lato nascosto di un paese visitato ogni anno da milioni di turisti e ogni anno abbandonato da migliaia di emigranti. Per scriverla ho dovuto raggiungere clandestinamente la città di Redeyef, cuore della rivolta, nel sud ovest del Paese, e incontrare i testimoni chiave di quello che i circoli democratici di Tunisi definiscono già come il movimento sociale più importante e duraturo degli ultimi vent’anni. Si tratta di una cittadina di trentasettemila abitanti, costruita un secolo fa dai francesi nel bel mezzo del bacino minerario di Gafsa. La regione ha un aspetto desolante. Ricorda un paesaggio lunare. Ma sotto le spoglie montagne grigie tra Moulares, Redeyef, Mdhilla a Metlaoui si trova un vero e proprio tesoro: seicento milioni di tonnellate di fosfato. Lo estrae una società pubblica, la Compagnia dei fosfati di Gafsa (Cpg). Nel 2008 il prezzo della tonnellata è raddoppiato per la crescente domanda di fertilizzanti di Cina e India. La Tunisia è il quinto produttore mondiale e ha riserve per cento anni. Eppure la regione di Gafsa è una delle più povere. La modernizzazione degli impianti ha tagliato il cinquantacinque percento dei posti di lavoro, passati in vent’anni da undicimila a cinquemila. E ha provocato una grave crisi economica nelle città dei minatori, costruite ex novo dai coloni francesi per ospitare la manodopera agli inizi del Novecento. Oggi la disoccupazione colpisce il quaranta percento dei giovani. Giovani che spesso non vedono altra via d’uscita se non bruciare le frontiere, come si dice in arabo. Harrag. Direzione Lampedusa. È da loro che è nata la protesta.

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nizia tutto il 5 gennaio 2008, a Redeyef, una città di trentasettemila abitanti. La Cpg pubblica i risultati di un concorso pubblico per ottanta posti di lavoro. Ma la lista è giudicata fraudolenta. I giovani disoccupati si ribellano e occupano per protesta la sede regionale del sindacato dei minatori (Ugtt), ritenuto coinvolto nella truffa. Presto sono raggiunti da undici vedove che chiedono il rispetto delle quote assegnate ai figli dei morti sul lavoro. La base della protesta si allarga. Le parti pulite del sindacato si uniscono alla denuncia. E intanto a Tunisi nasce un comitato nazionale di sostegno al popolo delle miniere. Il 4 aprile si tiene a Tunisi una giornata di solidarietà. Vi partecipano dei sindacalisti di Redeyef. Ma al loro ritorno, la mattina del 7 aprile, vengono arrestati insieme a decine di attivisti. Tra loro c’è anche Adnan Hajji, segretario del sindacato degli insegnanti di Redeyef. Lo stesso giorno gli insegnanti della città sospendono le lezioni e poco dopo viene indetto uno sciopero generale che si protrae per tre giorni. Il 9 aprile una trentina di donne scende in piazza chiedendo la liberazione dei mariti. La città si unisce alla manifestazione che arriva fin sotto la prefettura. Il giorno dopo, i sindacalisti vengono rilasciati. Al loro ingresso in città, sono accolti da un bagno di folla. Più di ventimila persone acclamano il loro nuovo leader, Adnan Hajji. Nel bacino minerario però le proteste non accennano a diminuire. Il 6 mag-

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gio 2008, Hicham Ben Jeddou muore fulminato dai cavi dell’alta tensione di un generatore elettrico, a Tabeddit, mentre con un gruppo di disoccupati tentava di bloccare gli impianti della Cpg. È la prima vittima delle proteste. I testimoni accusano la polizia di aver riallacciato la corrente sapendo che lo avrebbe ucciso. a Tunisi vengono inviati rinforzi. Polizia e esercito controllano ogni accesso a Redeyef. E agenti in borghese sorvegliano gli attori principali della protesta. Il sei giugno la polizia spara sui manifestanti. Hafnaoui Maghzaoui muore sul colpo. Altri ventisette ragazzi sono feriti. Uno di loro, Abdelkhaleq Aamidi, morirà il 14 settembre, in ospedale. Nel giro di poche settimane vengono arrestate duecento persone. Sindacalisti e gente comune. La notte tra il 21 e il 22 giugno viene di nuovo arrestato il leader della protesta: Adnan Hajji. Il movimento è decapitato. Nessuna donna però è stata arrestata. Sono loro, le mogli dei sindacalisti e dei militanti imprigionati a tornare in piazza, il 27 luglio, per chiedere la liberazione dei detenuti. In mezzo a loro c’è anche Zakiya Dhifaoui. Classe 1966, giornalista e insegnante. È venuta da Kairouan per scrivere un reportage su Redeyef sul giornale di opposizione Muatinun. Ma il reportage non sarà mai pubblicato. Perchè quello stesso giorno Dhifaoui viene portata in carcere. Il suo è un arresto simbolico. Un messaggio a tutti i giornalisti tunisini, di non recarsi a Redeyef e di non scrivere sulle rivolte. È l’altro lato della repressione: il controllo totale dell’informazione. Dhifaoui è stata condannata a quattro mesi e mezzo di carcere. Ma non è l’unica giornalista dietro le sbarre. A finire sotto processo è la stessa libertà di espressione. I siti di YouTube e Dailymotion, dove dall’estero sono stati caricati i video delle manifestazioni, dei comizi, e delle violenze della polizia, sono oscurati dal novembre 2007. Masoud Romdhani, portavoce del movimento nazionale di solidarietà, viene malmenato da agenti in borghese a Tunisi. Amor Gondher, corrispondente da Redeyef del giornale di opposizione Tareq al Jadid, viene pestato da due poliziotti la sera del 26 giugno, a Nefta. Fahim Boulqaddous, giornalista della tv El Hiwar – che aveva diffuso i video di Redeyef sul canale satellitare italiano Arcoiris, poi diffusi anche da Al Jazeera - scappa di casa il 5 luglio, per sfuggire al mandato d’arresto. L’autore di quei video, Mahmoud Raddadi, era stato arrestato due settimane prima. Raddadi e Boulqaddous saranno presto giudicati insieme ad altri trentotto imputati, tra cui quattordici sindacalisti, con l’accusa di associazione a delinquere. Il dibattimento inizierà alla fine di novembre presso il tribunale di Gafsa. Subito dopo i festeggiamenti del 7 novembre per il ventunesimo anniversario della presidenza Ben Ali.

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In alto: Migranti appena sbarcati. Lampedusa, Italia 2007. Samuele Pellecchia/Prospekt In basso: Barca tunisina spiaggiata in Italia. Archivio PeaceReporter


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Rubriche

Pensieri e parole di Claudio Sabelli Fioretti

Una rivoluzione silenziosa In tivù di Sergio Lotti

Un’occhiata in portineria Dimentichiamo le elezioni americane, che mai come questa volta ci hanno amareggiato. Non certo perché sia sfuggita dalle nostre parti l’importanza storica dell’arrivo alla Casa Bianca del primo presidente nero (anche se il nostro presidente del Consiglio minimizza, dicendo che si tratta solo di un po’ di abbronzatura) e del cambiamento che può portare. Ma l’eleganza di Obama che raggiunge il palco come un campione olimpionico e l’energia con cui cerca di ridare speranza a un popolo deluso, lo stile con il quale elogia il coraggio del suo avversario sconfitto, che a sua volta si congratula con lui offrendogli il suo appoggio per il bene comune, ci hanno sbattuto in faccia in tutta la sua becera grandezza il nostro circo politico-mediatico, dove chi perde parla per mesi di brogli e cerca di impedire all’altro di governare, chi vince sbeffeggia e offende l’avversario. Alla faccia del bene comune. Si dirà che anche negli Stati Uniti si tratta solo di spettacolo. Sarà, ma fra un’opera alla Scala e una squallida recita in portineria ce ne corre. E se diamo un’occhiata in portineria, dopo la gag del capogruppo dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, che accosta il nuovo inquilino della casa bianca ad al Qaeda, troviamo il viceministro Roberto Castelli che ad Annozero, quando il giornalista Gian Antonio Stella si chiede come mai in Italia chi denuncia gli sprechi dei politici viene accusato di qualunquismo, mentre altrove si chiama indignazione civile, non trova di meglio che rispondergli: scusi, lei quanto guadagna? Sa che il suo stipendio viene anche dalle tasche dei cittadini? Dimenticando che il reddito di Stella deriva in buona parte dal successo dei suoi libri e che i pochi soldi pubblici di cui il Corriere della Sera, come altri giornali, gode sono un parziale indennizzo di quelli che gli potrebbero derivare dalla pubblicità, se il conflitto di interessi legato al capo del Governo non avesse alterato le regole del mercato. Che la Lega, oltre ai voti, abbia risucchiato alla sinistra radicale la passione dell’egualitarismo e la diffidenza verso il mercato? Forse però anche da noi si comincia a intravedere qualche barlume di coesione istituzionale. A Report, infatti, hanno fatto vedere che il centro di Napoli è davvero pulito, perché i rifiuti sono stati portati nelle discariche di Savignano 26

Che i settimanali femminili siano un catalogo di pubblicità è cosa risaputa. Ma alcuni relegano la pubblicità nelle pagine riservate alla pubblicità, altri inondano tutte le pagine, sia quelle redazionali che quelle pubblicitarie, con messaggi commerciali. Va bene così, ormai sono decenni che funziona in questa maniera. C'era un direttore di settimanale femminile che un giorno disse che nessuna delle pagine del suo giornale era gratis. Il mondo dei femminili è fatto così. C'è una sola pagina che si salva normalmente. La copertina. Mentre i quotidiani hanno la pubblicità anche sulla prima pagina, magari in fondo, magari piccola (anche se adesso hanno cominciato ad appiccicare dei post-it pubblicitari appena sotto la testata), i settimanali ed i mensili, maschili e femminili, finora, hanno evitato di "sporcare" la copertina con avvisi pubblicitari. Intendiamoci: e Sant’Angelo, attivate con uno degli ultimi provvedimenti del governo Prodi. E quando gli hanno chiesto se gli seccava che il merito fosse andato ad altri, un serafico Prodi ha esclamato: “È il bello della continuità democratica”. Peccato che nelle zone limitrofe, i rifiuti speciali continuino ad accumularsi, amianto compreso, fra lo sgomento della popolazione.

Musica di Claudio Agostoni

Mavis Staples Live: Hope at the Hideout (Anti) L’Hideout è un noto club di Chicago. La notte del 23 giugno scorso, chi era lì, non se la dimenticherà facilmente. Per tutti quelli che erano altrove c’è questo cd: la registrazione del concerto che quella notte, proprio in quel locale, ha tenuto Mavis Staples. Sessantanove anni passati cantando con una voce abrasiva, segnata dalla vita. Una bellissima voce di contralto, la sua. Forte e intensa. Con gli anni ha perso un po’ di dinamica, ma non la carica emotiva. Una lunga carriera quella di Mavis Staples, strutturata su due differenti capitoli. Il primo la vede schierata col gruppo di famiglia, gli Staples Singer. Era la band spalla di Martin Luther King, eseguivano Freedom Songs ed erano parte integrante della scena, anzi sono stati la colonna sonora di quel periodo. In quegli anni il suo repertorio era prevalentemente gospel, e il suo riferimento artistico era sister Mahalia Jackson (non a caso quando quell’esperienza era finita da anni, nel ’96,

le copertine sono quasi tutte vendute agli inserzionisti. Ma di nascosto, senza dirlo, aummaumma. Questo fino a qualche giorno fa. L'ultimo numero del magazine femminile di Repubblica, "D", ha infatti una novità rivoluzionaria. Un po' maliziosa, direi anche un po' furbetta e ipocrita. Sulla copertina infatti la pubblicità continua a non esserci. Ma attraverso un buco, quadrato, una specie di spioncino, si vede la pubblicità della pagina tre. Roba da guardoni. Attraverso un buco della serratura la pagina di pubblicità arriva direttamente in copertina e il miracolo è compiuto. A me ricorda l'esibizionista che al parco apre l'impermeabile e mostra le frattaglie a signorine impuberi. La strada è aperta. Gloria a "D". La prossima copertina sarà una pagina di pubblicità ma con un buco in mezzo attraverso il quale potremmo leggere un articolo. ha registrato, assieme a Lucky Peterson, un disco di gospel in omaggio della Jackson). Poi divenne una regina del Rhythm & Blues, e il suo repertorio ha fatto ballare milioni di persone, a prescindere dal colore della loro pelle. Anche le canzoni del live all’Hidout sono in bianco e nero. C’è un classico come For What It’s Worth, vecchio hit dei Buffalo Springfield. C’è un tradizionale come Will The Circle Be Unbroken, nei decenni entrato sia nel repertorio della musica bianca che di quella nera. E ci sono canzoni impegnate, che parlano di lotte sociali, sofferenze, scioperi, classe lavorativa, diritti civili…Canzoni manifesto come We shall not be moved. La chiusura è con un classico del tempo degli Staple Singers: I’ll Take You There, con tanto di controcanto e incitamento degli spettatori. Tutti in piedi: standing ovation.


A teatro

Vauro

di Silvia Del Pozzo

Sentimenti segreti Tutto si svolge intorno al tavolo da pranzo di casa Worringer, sotto gli occhi degli antenati, ritratti in lugubri quadri che il “filosofo di famiglia” Voss autore di un trattato di logica, in “vacanza” dal manicomio dove si è fatto volontariamente rinchiudere - odia con tutto se stesso. E’ intorno al desco che, come in tutte le famiglie borghesi, scoppiano conflitti e rancori, intrecciati ai ricordi, in un perfido gioco al massacro a cui partecipano, con modalità diverse, il nevrotico Voss (il cui modello è il filosofo Ludwig Wittgenstein) e le sue due sorelle: Dene, mite (in apparenza) vestale delle tradizioni e dei ricordi familiari e Ritter, ambiziosa quanto fallita attrice di poco conto. Figure al limite della follia, chiuse nelle loro manie e desideri repressi, morbosamente attratte da Voss. Un quadretto di legami fraterni poco edificante, un groviglio di fallimenti e illusioni personali che rimandano al disfacimento di una “finis Austriae del XX° secolo” di cui, secondo la critica, Thomas Bernhard fu cantore, quanto Schintzler lo fu di quella dell’800. Lui stesso attore di formazione, Bernhard (anche romanziere) ha scritto i suoi gelidi testi teatrali molto pensando a chi li avrebbe innervati di “sangue, sudore e stallatico”, cioè gli interpreti. Il titolo di questa pièce infatti riprende i cognomi dei tre attori della compagnia di Claus Peyman per i quali l’austriaco l’aveva scritta nel 1984. A portarla in scena oggi (con grande successo) sono tre fra gli attori più intensi e celebrati del momento: Massimo Popolizio, Maria Paiato e Manuela Mandracchia, diretti da Piero Maccarinelli. Tra momenti di frustrazioni, cattiverie, amari sorrisi e verità inconsapevolmente svelate, le due ore di spettacolo - dissacrante e lucido - catturano. Perché ogni spettatore può trovare qualche corrispondenza tra i propri sentimenti segreti e quelli che si vanno svelando sul palcoscenico. “Ritter Dene Voss” di Thomas Bernhard. Venezia, Teatro Goldoni dal 3 al 7/12; Napoli, Teatro Mercadante, dal 10 al 21/12

Sport di Alessandro Grandi

Il Perù fuori dal calcio mondiale La Fifa ha temporaneamente sospeso il calcio peruviano dalle competizioni internazionali in ragione dei problemi fra la federazione e il Governo di Lima. La nazionale di calcio peruviana, e tutte le squadre del paese che partecipano a coppe internazionali, sono state escluse dalle competizioni. Il motivo che ha scatenato questa decisione, che dovrà comunque essere ridiscussa il 20 dicembre a Tokio dal comitato esecutivo della Fifa, è legato alla controversia scatenatasi dopo la decisione dell'istituto dello Sport peruviano, una sorta di ministero dello Sport legato al governo, che non vuole riconoscere Manuel Burga come presidente della Federazione peruviana di calcio. La questione ha fatto imbufalire Blatter, capo dei capi del calcio mondiale, che la vede come un'intromissione della politica nello sport e per questo motivo "inaccettabile". A questo punto la nazionale, se l'esclusione fosse confermata dalla riunione di Tokyo, non potrà partecipare alle qualificazioni mondiali per il Sudafrica i cui sorteggi sono previsti proprio in questi giorni. Non solo: le squadre di club non potranno partecipare alla coppa Libertadores (la Champions League del Sudamerica).

Un danno non solo economico per l'industria del calcio peruviano ma anche sociale. Non c'è bar o angolo delle strade dove non si discuta di calcio. E' l'argomento preferito dai tassisti di Lima e buona via per creare amicizie. "E' una questione fra due persone: il presidente della federazione e chi non lo riconosce come tale. E' il problema della politica e la politica lo deve risolvere" dice appunto il tassista Romeo. Di diverso parere una donna che colpevolizza il presidente della federazione, reo a suo avviso di non essere stato capace di gestire il calcio e di averlo fatto sprofondare nella corruzione: "E' tutta una questione di soldi. Dove ci sono soldi c'è corruzione e dove c'è corruzione succedono queste cose. Che vergogna."

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Al cinema di Nicola Falcinella

Vera animazione L’animazione per rendere più comprensibile la guerra in Libano del 1982. È “Waltz for Bashir Valzer per Bashir” (il nome sta per il Gemayel presidente libanese assassinato in quell’anno) dell’israeliano Ari Folman, il primo documentario animato, uno dei film sorpresa dell’ultimo Festival di Cannes in arrivo in Italia. Dall’incubo di un singolo si passa alla ricomposizione della memoria di un solo individuo e poi di una società, per rimettere insieme i frammenti importanti che sono stati rimossi e cancellati. In questo caso le atrocità commesse o lasciate perpetrare – il massacro di Sabra e Chatila – dall’esercito israeliano durante la guerra in Libano. Folman, egli stesso soldato a quel tempo, parte dai vuoti di memorie e dagli incubi notturni suoi e dei suoi commilitoni per una ricerca che, a suon d’interviste, ricompone il quadro. Le riprese dal vivo sono state poi animate con una grafica semplice ed efficace, in un paio di casi le parole degli intervistati sono state affidate a degli attori perché le testimonianze fossero più intense e credibili. Il film parte con un uomo inseguito da 26 cani, esattamente quanti erano quelli che lui aveva ucciso nei villaggi durante la guerra. Non avendo il coraggio di sparare alle persone, nella pattuglia in avanscoperta della quale faceva parte, gli avevano affidato il compito di tirare ai cani affinché non abbaiassero dando l’allarme. Al

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risveglio, partono le testimonianze degli ex soldati che Folman è andato a ritrovare in tutto il mondo. Oltre a quell’iniziale, diverse altre sequenze sono visivamente molto forti e restano impresse nella memoria: i militari che escono dal mare come in “Apocalypse Now”, il ballo sul ponte della nave da guerra sulle note di “Enola Gay” o il sogno del donnone che nuota portandosi via il giovane soldato. Negli ultimi minuti del film si torna alle immagini di repertorio dei massacri, come se il regista volesse dire: ho raccontato con l’animazione ma è tutto vero. Una pellicola che non solo riporta alla memoria avvenimenti quasi dimenticati ma che, oltre a raccontare i fatti, permette anche una riflessione e una rielaborazione di quanto avvenuto.

In libreria di Giorgio Gabbi

Dalla parte giusta. La legalità, le mafie e noi di Roberto Luciani – Davide Calì Missione impossibile. O forse no, non del tutto, di certo non come lo sarebbe stata fino a pochi anni fa. È la missione che si è dato questo libretto realizzato “per e con” l’associazione Libera di don Luigi Ciotti: guarire le giovani generazioni da una “malattia molto pericolosa per la nostra società che si chiama sfiducia. È la malattia di chi pensa che mai nulla cambierà, di chi incolpa sempre gli altri perché le cose vanno male.” Scrollarsi di dosso la sfiducia è la premessa per una scelta di campo senza tentennamenti e zone d’ombra: bisogna stare sempre e comunque dalla parte della legalità. Rifiutando, tanto per comin-


ciare, comportamenti all’apparenza poco gravi, come cercare di passare avanti nella fila, buttare rifiuti in strada, comprare un cd taroccato. Fino a scelte molto più serie, come pagare o evadere le tasse, accettare o meno vantaggi che siano frutto di corruzione, subire o rifiutare la prepotenza di chi chiede soldi in cambio di “protezione”, il famigerato “pizzo” mafioso. Diretto ai “bambini e ragazzi, cittadini di domani e di oggi” ma utile anche agli adulti, questa pubblicazione realizzata dalla Giunti progetti educativi è un vero breviario per la lotta alla mafia attraverso il rifiuto del costume mafioso. La lotta diretta alle organizzazioni criminali come Cosa nostra, camorra, ‘ndrangheta e Sacra corona unita è ovviamente compito di magistratura e forze di polizia. Ma privare i mafiosi di ogni tipo di omertà, acquiescenza e rassegnazione nella società civile è compito di ogni cittadino che ha scelto il campo della legalità e che si è sbarazzato da paralizzanti atteggiamenti mentali di sfiducia. E per passare dalle parole ai fatti, dalle condanne all’azione, niente di meglio che impegnarsi concretamente per il successo delle iniziative nate dal sequestro dei beni dei boss mafiosi (a tutt’oggi circa tremila immobili, aziende agricole e di altro genere). E qui don Ciotti e la sua Libera sono in primo piano: per trasformare il bottino delle attività criminali in una risorsa per la società e dare un lavoro onesto e un futuro accettabile ai giovani. Editore Giunti Progetti Educativi, 2008, 64 pagine, € 3,90 (il 10% del ricavato della vendita del libro va a sostegno di Libera)

In rete di Arturo Di Corinto

L'utopia sociale di Facebook Conta più di 120 milioni di utenti. E' il quarto sito più cliccato al mondo, il primo fra i network sociali. E' Facebook, un sito progettato per "aiutarti a mantenere e condividere i contatti con le persone della tua vita". La facebook-mania nasce nel 2004, in un dormitorio di Harvard dall'idea di Mark Zuckerberg. Da allora è diventato un must della networked generation. Ma a che serve? In fondo non fa niente, media

lettere a un chirurgo confuso scrivi a chirurgo@peacereporter.net Questo mese il chirurgo confuso non è riuscito a rispondere ad alcuna lettera. Del resto, quando gli chiedemmo di avviare con noi questa rubrica, sapevamo che prima o poi i suoi impegni di chirurgo di guerra e di pace gli avrebbero impedito, prima o poi, di farlo. Lo ringraziamo comunque e approfittiamo dello spazio libero per chiedere ai nostri lettori due cose. La prima, di scrivere al chirurgo senza timore. La seconda, di approfittare del Natale per andare a fare acquisti ai mercatini di Emergency. E siccome non c’è due senza tre, vi chiediamo anche - sempre approfittando del Natale - di regalare abbonamenti a PeaceReporter. Auguri di buone feste a tutti. Maso Notarianni

EMERGENCY MERCATINO DI NATALE 2008 dal 6 al 23 dicembre a Milano via Bagutta, 12 (MM1 San Babila) lunedì dalle 16.30 alle 19.30 da martedì a domenica dalle 10.30 alle 19.30 orario continuato INFO: T 02 881881 - mercatino@emergency.it - www.emergency.it —

EMERGENCY

EMERGENCY MERCATINO DI NATALE 2008 dall’8 al 21 dicembre a Roma Piazza Mastai, 9 (Trastevere) INAUGURAZIONE domenica 7 dicembre, ore 17.oo aperto tutti i giorni dalle 11.oo alle 20.oo INFO: T 06 688151 - roma@emergency.it - www.emergency.it —

solo fra rapporti esistenti ma dovrebbe aiutarti a crearne altri. Uno strumento che facilita le relazioni fra le persone è sicuramente utile, ma con Facebook questo avviene a patto di un compromesso rilevante: la superficialità delle relazioni e la perdita della privacy. La facilità d'uso del sistema, che ti permette di segnalare e di accettare con un colpo di clik centinaia di nuove "amicizie", ha scatenato fra i suoi utenti una gara ad aggiungere amici al proprio carnet. Il risultato è un numero di contatti ingestibile psicologicamente, ma accettabile nella logica di Facebook. La banalizzazione dei rapporti umani che scambia la qualità con la quantità potrebbe essere la spia di due fenomeni di lunga durata della "modernità liquida": il precariato e la solitudine. Stare su Facebook è diventato un modo per dire "Ehi, mondo, io sono qui", ma anche un modo per aumentare i propri contatti personali e sperare che a quel moltiplicarsi corrisponda l'aumento esponenziale di occasioni di viaggio, studio e lavoro. Forse è anche il tentativo di fare

EMERGENCY

comunità, per colmare il vuoto creato da una modernità che obbliga al nomadismo e alla superficialità dei rapporti umani. In questa ratrace virtuale accade poi che si faccia di tutto per apparire più desiderabili, caricando foto, video, elenchi di prodotti che, trattati secondo le regole del direct marketing, serviranno a offrire agli utenti ciò che sono più propensi a desiderare per modellarne stili e modelli di consumo. Mercificazione dei rapporti umani, esibizionismo, voyeurismo, si mescolano così in una logica televisiva che non lascia scampo: se non stai nel network sei un antisociale. E se lo usassimo per degli scopi sociali? Potrebbe diventare una bacheca dove pubblicare le foto di dissidenti e condannati a morte da regimi autoritari, uno strumento per la raccolta di fondi in favore di popolazioni alluvionate o una mappa ragionata dei conflitti globali. Qualcuno forse ci sta già pensando, ma la legge dei grandi numeri qui non sembra funzionare. www.facebook.com 29


Per saperne di più

CINA LIBRI PETER HOPKIRK, «Diavoli stranieri sulla Via della Seta», Adelphi, 2006. Un ex marine diventato giornalista percorre tutti i 3.200 chilometri del confine tra Usa e Messico, mettendo in evidenza come le politiche di Washington siano viziate dalla scarsa conoscenza del problema. E scopre di persona quanto sia facile attraversare il confine sotto gli occhi degli agenti di frontiera. VIKRAM SETH, «Autostop per l'Himalaya - Viaggio dallo Xinjiang al Tibet», EDT, 2001 Un ex marine diventato giornalista percorre tutti i 3.200 chilometri del confine tra Usa e Messico, mettendo in evidenza come le politiche di Washington siano viziate dalla scarsa conoscenza del problema. E scopre di persona quanto sia facile attraversare il confine sotto gli occhi degli agenti di frontiera. JAMES A. MILLWARD, «Eurasian Crossroads: A History of Xinjiang», Columbia University Press, 2007 La prima esauriente storia dello Xinjiang in lingua inglese è, soprattutto, un libro sulla "centralità" della regione nel sistema euroasiatico. Lo Xinjiang "sta in mezzo" e per forza di cose è stato prima uno snodo sulla Via della Seta e poi un'area strategica fondamentale nel gioco di equilibri tra grandi potenze. Millward racconta le vicende umane, politiche e religiose di questo corridoio tra Oriente e Occidente mantenendo una posizione equilibrata rispetto al suo ruolo nella Cina odierna e al tema dell'indipendentismo.

SITI INTERNET http://en.wikipedia.org/wiki/Xinjiang È il punto di partenza per le informazioni base: geografia, storia, composizione etnica e principali località. http://china.notspecial.org/ The opposite end of China è il blog di un americano che risiede nello Xinjiang. Ricco di informazioni e di testimonianze in presa diretta, offre uno spaccato non convenzionale della provincia autonoma. http://www.travelchinaguide.com/cityguides/ xinjiang/ Per turisti. Oltre a informazioni sulle maggiori città, ci sono anche diversi tour consigliati per 30

tutti i gusti e (quasi) tutte le tasche. http://www.cecc.gov/pages/roundtables/111605 /Millward.php Un rapporto sullo Xinjiang di James Millward (si veda nei libri) alla Commissione del Congresso USA che monitora la situazione dei diritti civili in Cina. È del 2004. Il punto di vista è a uso e consumo della politica Usa nella regione, ma piuttosto equilibrato nonchè ricco di informazioni.

TUNISIA l'ingenuo entusiasmo di un bambino.

FILM NOURI BOUZID, «Making off», Tunisia 2006 La storia comincia in un quartiere di Radès dove vive un giovane disoccupato, appassionato di danza e perseguitato sempre dalla polizia per i piccoli incidenti che provoca nella città con la sua banda di amici. Sognando, come i ragazzi della sua generazione di partire clandestinamente in Europa, Chokri, conosciuto sotto il nome di “Bahta”, trova delle difficoltà a realizzare questo suo sogno. Ed è precisamente lì che viene individuato da un gruppo di fondamentalisti islamici che vedono in lui un buon bersaglio per trasformarlo in kamikaze. “Bahta” viene quindi presentato al capo del gruppo che lo prende in carico e s’impegna, utilizzando tutti i mezzi per convincerlo, di dimenticare la sua vita precedente e di lanciarsi sulla “buona strada”, quella che porta direttamente al paradiso. Un paradiso “dove lo aspettano belle ragazze giovani”. Così scopriamo tutta la strategia di lavaggio del cervello che subisce l’eroe del film. Prima gli viene offerto l’alloggio, poi l’aiuto finanziario e un affetto paterno, poi gli vengono insegnati i principi dell’Islam confrontandoli con quelli dell’Occidente, accusato di voler distruggere la cultura mussulmana, fino ad arrivare all’ultima tappa quella dell’iniziazione al “Jihad”. BEN MAHMOUD, «Gli italiani dell'altra riva», Tunisia 1992 Il cortometraggio di autore capace di scandagliare le tematiche dello sradicamento e delle contaminazioni tra culture diverse nei suoi lavori sulla Tunisia e sulle comunità straniere da tempo residenti nel Paese. KAMEL CHERIF, «Premier Noel», Tunisia 1999 Il tema dell'emigrazione è la chiave del film Cherif, tunisino emigrato con la famiglia in Francia a sei anni. Nel film il piccolo Rafik vive nella periferia parigina ed è un bravo scolaro. Proprio a scuola sente parlare di Babbo Natale che nella notte del 24 dicembre porta doni ai bambini buoni. Nessuno nella sua famiglia musulmana sa spiegargli di più su questa figura. Ma Rafik non si arrende e il suo desiderio di incontrare Pere Noel diventa quasi una metafora dell'impatto di modelli, religioni e tradizioni culturali diverse così come vengono metabolizzate dal-

LIBRI SOLIMAN WALID, «Le troubadour des temps modernes», Tunisia 2005 Giovane scrittore, interprete e traduttore, Soliman racconta la Tunisia di oggi vista dai giovani, tra tradizione e futuro e con l'angoscia claustrofobica di una paese dove è difficile esprimersi liberamente. MORAVIA ALBERTO, LETTERE DAL SAHARA, 1981, Bompiani editore L'Africa Nera di Alberto Moravia: "inviato speciale" del Corriere della Sera tra il 1975 e il 1981, l'eccezionale cronista annota impressioni, riferisce usi e costumi, descrive luoghi e paesaggi incontrati in un viaggio che è insieme motivo di riscoperta letteraria, valutazione estetica e riflessione socio-antropologica. L'immagine di morte del deserto si trasforma, passando attraverso disperazione e miraggio, in sorprendente immagine di vita. GOLINELLI ALESSANDRO, Le rondini di Tunisi, 2005, Tropea editore In un incantevole villaggio di pescatori della Tunisia, a metà strada fra la moderna capitale e una zona turistica ricca e "occidentale", un omosessuale italiano si lascia coinvolgere nella vita quotidiana, a tratti drammatica, del suo amante e dei suoi amici adolescenti, fatta di semplicità, solidarietà e soprattutto di miseria. Si ritrova così testimone dell'intensa e avvincente storia d'amore fra Diana, una donna milanese, e un operaio del posto, e del profondo confronto fra la modernità e l'islam. Ma anche della disperata fuga di alcuni giovani, clandestini in cerca di libertà e fortuna.

SITI INTERNET http://www.nawaat.org/ E' un blog sui diritti umani e sulla libertà di stampa in Tunisia. http://censorship.cybversion.org/ È un altro blog collettivo contro la censura su internet. http://www.kitab.nl/about/ blog Di Sami Ben Gharbia, tunisino, rifugiato politico in Olanda.


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SMEMORANDA 12 MESI 2009 È NO EFFETTO SERRA >

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INEDITI DI GRANDI SCRITTORI . . .. . .. . . . .. .... ... .. ..... . .. .. . .... ... ... .. ........ .. .. .. ..... ... .. ..... ........ .. ........ .. .. .. .. .. .. .. ... .. ... .. .. .. ... .. ... .. ......... .. ... .. ....... .... ....... .. .. .. ........ .. .. ... .. .. .. .. ..... .... ........ .. ....... .... ....TANTE .. .. .. .. . . . .. .. . . . .. ITALIANI E PAGINE .. . . .. . . . .. .. .. .. . .. . . .. .. .. .. . .. .. . .. .. . .. .. .. .. .. .. . .. . . . .. .. . . . .. .. . . . . .. .. .. . . . .. .. .. . . .. .. .. ... .... .. .... ... .. ..... .. .. .. .. ... .. .. .. ... ... .. ... ... .. .. .. ... ...... .. .. ........ .. .. .. .... . . . . . . . . . ... .. .. ... .... .. .. .. .. .. ........ . . . ..........RIEMPIRE .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. ............. .. .. .. .. .. .. ........ .. ..... .. .. .. ..... .. .. .. .. .. ... .. ........ .. .. . . ............................... ............................DA ........ .. .. .. ........ .. .... .. .. . .... .. .. .. . . .. . .. .. . .. .. . .. . .. . . .. .. . .. . .. .. . .. .. .. . .. .. .. . .. . .. .. .. . .. .. .. . . .. .. . .. . . .. .. . .. . . .. .. . .. . . . .. .. . . . . .. .. . .. . . .. .. .. .. ... .. .. .. ... ... ...... .. .. .. .. .. ...... .. ........ .... .. .. .. ...... . .......... .......... . ........ . .......... . ........ . .......... ........ ... .. .. .. .... .. .... .... . .. .. .. . .... . .. . .. .. . .. .. .. . . .. .. .. .. . .. . .. .. .. .. . .. .. .. .. .. .. . .. .. .. .. .. . . . .. .. . . . .. .. .. . . . .. .. .. . . . .. .. . . . . . . .. .. .. ... .. .. .... .. .. .. . ...... . . . ...... . . ...... . . ........ . . ...... . . ........ . . ...... . . ........ . . ..... .. ...... ..... .. ...... .. ... ..... .. .. .. .. .... ... .. .. .... ... .... .. .. .. .. .. . .. .. . . . .. .. .. . . .. .. .. . . . .. .. .. . .. .. . . .. .. . .. .. . . .. .. . .. .. .. .. . . .. .. . .. .. .. 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E SETTIMANALE QUATTRO, . . . . .. .. . . . . . . .. . . .. .. . . . . . . . . . .. . .. .. . . . . . . . . .. . . .. .. . . . . . . . . . . .. .. .. . . . . . . . . . .. . .. .. . . . . . . . . . . .. .. .. . . .. . . . . . . . .. . .. . . .. . . . . . . . . .. .. .. . . .. . . . . . . . . .. .. . . .. . . .. . . . . . . . .. . .. . . .. . . . . . . . . .. .. . . .. PIERO COLAPRICO > SANDRONE DAZIERI . . .. ... . .. ... .. ... .. ... .. .. ... .. .... ......... .. .. ... .... . . ...... . . ...... . . . ...... . . ...... . . . ...... . . ...... . . ........ . . ...... ... ...... ...... .. ...... ....... ......... ...... .. ...... ........ ...... ...... .. ...... ...... .. ...... ...... ...... .. ...... ...... ...... ...... ...... ...... .... ...... ...... ...... .. ...... ...... ..GAMBERALE .. ...... .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. . . .. .. . . . . .. .. .. . .. . . . . .. . .. .. . .. . . . . . . .. .. . .. BELLISSIMI COLORI. . . . . . . . . .. .. . . . . . . . . . . .. . . .. .. . . . . . . . . .. . . .. .. . . . . . . . . . .. . . .. .. CHIARA > GINO & MICHELE . . . . . . . . . . .. .. .. . . . . . . . . . .. . . .. .. . . . . . . . . . . .. .. .. . . .. . . . . . . . . .. . . .. .. . . . . . . . . . . .. .. .. . . .. . . . . . . . . .. .. . . .. . . .. . . . . . . . .. . .. .. . . .. . . . . . . ... ... .. ... ... .. .. ... .. ... .. ... .. ... .. .... ......... ....... ......... ... .. ...... ...... ... .. ....... ........ ....... ......... ....... ... .. ...>... ...... .. ........ ...... ...... ..... ...... ...... ..... .. .. ...... ...... ...... .. .. .. .. ...... .. .. .. ...... .... ... .. .. ... ....... .. .. .. .. .................................................................................................................................... ....... .... .. .. ... ....... .. .. .. RAUL MONTANARI MICHELA MURGIA . . . .. .. .. .. .. . .. . . . . .. .. . . . .. .. . .. . . . . . .. .. . . . . . .. . . . . .. .. . . .. . . . .. . .. . . . . .. .. .. . . . . . .. . .. .. . . . . . .. . .. .. . . . . . . .. . . .. .. .. . . . . . .. . .. . . . . . . . . .. . .. . . .. .. . . .. . . . . . . . .. . .. .. .. ... ... ... ... ..... .. .... .. ... .... . ... ........ ....... ....ALDO ...... .... .......... .. ...... .... ...... ... .. ........ ...... ... .... ... ... . .... ......... .......... ............ .......... ............ .......... ....................... ............ ........ ...... ...... ........ ...... ... ... .. .. >... TIZIANO ...... ...... ........ ...... .. .. .. .. .. ... .. .. ....... ..... ........ ........ .. ..NOVE .... ... .. ... .. ... ..... .. ... ... .. .. ........ ...... ..... ... .. ... ...... ... ....... .. .. ........ ....SCARPA .. . . . ...... . . ....... .. ... .... ........ .... ....... ...... .. ...... ....... ...... ........ ...... .. .. ... .. .... ........ . ........ . .......... . ........ . .......... . ........ . ......WWW.SMEMORANDA.IT ... .. .. ...... .... .... .. . . . . .. .. . . . . . .. .. . . . . . . .. .. .. . . . .. . . . . .. .. . . . . .. .. . . .. .. . . .. .. .. . .. .. . . . . . .. .. . . . .. . . . . . . . . .. . .. .. . . . . . . . .. .. . .. .. . . . . . . . . .. . .. . . . . . . . . .. . . .. .. .. ... ........ .. .... ...... . . . ...... . . . .... . . . ...... . . . .... . . . .... . . . ...... . . . .... . . . .... .. ... .. ... .. .. ... .. .... ......... .. .. ... .. .. .... .. ... ... ...... ...... ...... ........ .. ..... ...... .. ... ...... ...... .... ...... .... ........ ...... ...... .... ...... .. .... ...... . . . . .. . . . . .. . .. . . . . .. .. . . . . . . .. .. . .. .. .. .. .. .. .. . .. .. . .. ... . .. . . . . .. .. . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . .. .. .. . . . . . . . . . . .. . . .. .. .. . . . . . . . . . . .. .. .. . . . . . . .. .. .. ... .. ... .. .. .... ...... . . . ...... . . . .... . . . ...... . . . .... . . . ...... . . ...... . . . .... . . . ... .. ... .. ... .. ... .. ... ...... ... .. ....... ......... ...... .. ... ...... ...... ...... ...... .. ...... ...... .. ...... ...... .. ...... ...... ...... .... .. ... ...... ...... .. ...... ...... ...... ...... ...... .. ...... ...... .. .. .. ... .. .. ....... .. .. .. ....... .. ........ .... . . ...... . . ........ . . ...... . . ........ . . ...... . . ...... . . ........ . . ........ ....... .. .. ...... ...... ...... .. ...... .. ....... ...... ...... ...... .. .. ...... .. ...... .. .. .. ...... .. ...... .. .. ...... ...... ...... .. .... ..... .. .. .... ...... .... ...... ...... .. ...... .. .. .... ...... .... . . . .. .. . . . .... . .. .. .. . . . . .. . . .. .. . . . .. .. .. . . .. .. .. . . .. .. .. .. . . . . .. .. . . . . .. . . .. . .. .. . . . . . .. .. .. . . . . . .. .. . .. . . . . .. .. .. . . . . . . . .. . .. . .. . . . . . . . . . .. .. . . . . . . . . . . .. .. . . .. . . . . . . . . . . .. .. . . .. .. . . . . .. ... ... ... .. ... .. .. .. .. ........ .. .... ........... ... .. .. .... ......... ..... ..... .. ...... ... ..... .... ... ...... .. .. .. ...... ... ...... . ........ . ........ . . ........ . ........ . . ........ . ........ . .......... . ... ..... .. .... .... ..... ....... ... ...... .... ...... .... ..... .. . . . . .. . . .. . . . . . . . .. . .. . . . . . . . .. .. . .. .. .. .. . .. .. . . .. .. . . .. .. . . .. .. .. . . .. . .. .. . . . . . . . .. .. . .... . . . . .. . . .. . . . . . . . . . .. . . .. .. . . . . . . . . . . .. . . .. .. .. ... .. ... .. .. .. .. ... .. .. .... ........ .. ....... ........... ... ...... .... ...... .. .. ...... ...... ...... ..... .. ...... .. .. ...... ...... . ........ . .......... . ........ . ........ . . ........ . ........ . .......... ... .... ... .... .. .... ...... .... .... ... ..... .. .... ...... ......... . . . . . . . . . . .. . .. . . . . . .. . . . . .. .. . . . . .. .. .. . .. .. .. . .. .. . .. .. .. . .. .. . .. .. . . . . . . .. . .. .. . . . . . . .. . .. .... . . . . . . . .. . . .. .. . . . . . . . . . . .. .. . .. . . . . ... . . ........ . ... ... ... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . .... .... .... .... .... ...... .. .. . . .. . ... .... .. . ... . ......... ...... ... .... .. . ... ...... ...... .. ....... .. .. ... ... .......... .. ....... ... . . . .. .... .. .. ........ ...... ...... .... .. ... ... ..... . . ...... . . . ...... . . ...... . . . ...... . . ...... . . . .... . . . ...... . . ...... . . . ...... . . ...... . . . ...... . . ...... . . . ...... . . ...... . . . . .. ......



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