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mensile - anno 3 numero 12 - dicembre 2009

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poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

Lost in Dubai

Sudafrica Francia Usa Spagna Italia Mondo

Fuori dallo Zimbawe Seicento voci dal pianeta Terra La guerra dentro L’immagine lavata di Huelva Il nervo scoperto di Piazza Fontana Cile, Guinea, Americhe, Europa

Portfolio: 15 dicembre 1969: il giorno in cui si è salvata la democrazia



La guerra è una sopravvivenza di epoche selvagge, oggi affascina principalmente gli elementi della nazione sventati e sconsiderati Percivall Lowell

dicembre 2009 mensile - anno 3, numero 12

L’editoriale di Maso Notarianni Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Christian Elia Luca Galassi Alessandro Grandi Benedetta Guerriero Enrico Piovesana Nicola Sessa Stella Spinelli

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Blue & Joy Vincenzo Bruno Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Nicola Falcinella Aldo Giannuli Paolo Lezziero Sergio Lotti Antonio Marafiotti Chiara Pracchi Luca Rasponi

Progetto grafico Guido Scarabottolo Oliviero Fiori

Segreteria di redazione Silvina Grippaldi Hanno collaborato per le foto Archivio De Belli

Redazione e amministrazione Via Bagutta 12 20123 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net

Amministrazione Annalisa Braga

Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Meravigli 12 - 20123 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07

Stampa Graphicscalve Loc. Ponte Formello - 24020 Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 7 novembre 2009 Foto di copertina: Dubai, 2009. Christian Pubblicità Elia©PeaceReporter Via Bagutta 12 20123 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net

Ignobel per la pace i Obama abbiamo scritto tutto e il contrario di tutto. A un anno dalla sua elezione però è lecito fare il punto. E il punto non può che essere molto critico. Il Presidente statunitense, indegno e incomprensibile Nobel per la pace, non ha alcuna intenzione di far cessare le sofferenze che le sue truppe - ne è il comandante supremo infliggono alla popolazione afgana. Anzi, rilancia anche uno slogan tanto vecchio quanto ridicolo se pronunciato da un presidente Usa, “la faremo finita con Al Qaeda”, dopo che il Senato di quel paese ha reso pubbliche le dinamiche che hanno portato alla scelta di non catturare quando era possibile Bin Laden e il suo vice Al Zawahiri. Poi decide di aumentare le truppe di altre trentamila unità. Trentamila potenziali vittime statunitensi e trentamila probabilissimi assassini di civili afgani. Mai Nobel per la pace fu più assurdo. Per il resto, il bel presidente, gran parlatore e vana speranza per milioni di persone in occidente, non ha fatto un granché di suo. La riforma sanitaria - unico grande segno di innovazione - è farina del sacco della Clinton. Onore al merito. Le spese militari aumentano. Gli investimenti in armi non diminuiscono. La politica di ingerenza nella vita degli altri Paesi non accenna ad essere modificata. Obama cede su tutto alle grandi corporation e alle lobby industriali. Persino le mine antiuomo, ciò che di più osceno l’essere umano abbia inventato sia dal punto di vista pratico sia da quello teorico, rimarranno nei cataloghi delle esportazioni statunitensi, giacché il presidente Usa si è rifiutato di firmare la convenzione di Ottawa che le mise al bando. Qualcuno dice che Obama, a differenza di Bush, non è "unilaterale" ma "multilaterale". Posto che questa distinzione è incomprensibile alla stragrande maggioranza delle persone, cosa può significare il multilateralismo di Obama per un abitante dell'Afghanistan o dell'Honduras, dove si è consumato un colpo di Stato nell'indifferenza del mondo e sotto le pressioni delle corporation statunitensi? La risposta che viene di primo acchito è decisamente volgare. Forse ha ragione chi sostiene che un qualsiasi cambiamento positivo non può provenire dal Paese che ha ridotto il mondo in questo stato.

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Spagna a pagina 20

Francia a pagina 14 Emirati Arabi Uniti a pagina 4

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USA a pagina 18 Servizio abbonamenti e arretrati Picomax S.r.l. Via Borghetto 1 - 20122 Milano. Tel 0277428040 - fax 0276340836 Informativa abbonamenti: Ai sensi dell’Art. 13 del D. Lgs. 196/03 informiamo che i dati forniti saranno trattati da Picomax Srl in qualità di responsabile del trattamento, nonché da Dieci dicembre soc. coop. a r. l. titolare del trattamento, per le seguenti fiinalità: invio abbonamento della rivista PeaceReporter e invio di materiale promozionale inerente i prodotti di Dieci dicembre soc. coop. a r. l. Gli abbonati hanno diritto di esercitare i diritti di cui all’Art. 7 del D. Lgs. 196/03 inviando una email a privacy@picomax.it L’informativa completa è disponibile sul sito di Picomax: www.picomax.it Scritti, disegni e fotografie anche se non pubblicati non verranno resi.

Italia a pagina 22

Sudafrica a pagina 10

Bolivia a pagina 10 3


Il reportage Emirati Arabi Uniti

Lost in Dubai Di Christian Elia

Qui a Dubai tutto scorre in fretta, tutto cambia. Qui a Dubai certe cose restano come erano mille anni fa: questa è la terra del miraggio. l primo errore sarebbe quello di immaginare una Disneyland per milionari pubblicizzata dalle brochure turistiche, costruita sullo sfruttamento dei lavoratori immigrati, ostaggi del boom economico senza eguali che ha caratterizzato gli ultimi dieci anni negli Emirati, con la complicità di expat (come vengono chiamati gli stranieri che vivono e lavorano qui) senza scrupoli che si girano dall’altra parte. La situazione è molto più complessa di così e tanti sono i miraggi che potrebbero trarre in inganno. Il primo di questi è in agguato all’efficiente aeroporto di Dubai, dove non potrete che stupirvi della scorrevolezza e della semplicità dei controlli all’arrivo. Nessuna forma di pressione, nessuna ossessione securitaria. Questo, però, non significa essere davvero un Paese libero. Il primo a parlarne apertamente è stato proprio un espatriato, il britannico Nicholas McGeehan. Un ricercatore nel campo del diritto che, nel 2002, arriva negli Emirati per guadagnare un po’ di soldi insegnando inglese e poi tornare a casa. Ma la sua vita è cambiata. “Avevo trovato un impiego per una compagnia petrolifera, i miei studenti erano i suoi dipendenti. Frequentando gli impianti off shore e sulla terra ferma della azienda ho cominciato a vedere quello che accadeva attorno a me. Nessuno può dire in coscienza di essere stato negli Emirati e di non aver capito il dramma dei lavoratori immigrati”, racconta Nick, come lo chiamano. “Tutti gli operai con i quali ho parlato erano distrutti: lavoravano per ripagarsi i debiti contratti per arrivare negli Emirati. Alla maggior parte di loro era stato requisito il passaporto e anche quelli che lo avevano non potevano tornare a casa perché non avevano i soldi per il biglietto aereo di ritorno. Lavoravano sei giorni a settimana, non gli venivano pagati gli straordinari, nemmeno quando erano costretti a lavorare diciotto ore al giorno. Sopportavano discriminazioni razziali non solo da parte degli emiratini, ma anche da molti expat occidentali e dagli altri immigrati del Sud-est asiatico con mansioni più qualificate delle loro”. Nick decide di fare qualcosa e con un amico, ricercatore anche lui, fonda l’associazione Mafiwasta, che prende il nome da due parole arabe: wasta, che sta per influenza, potere, e mafi, che è la negazione della prima parola. Senza alcun potere, invisibili e impotenti. “Abbiamo iniziato a scrivere lettere alle grandi aziende che avevano delle imprese qui”, racconta McGeehan. “Chiedevamo loro come potessero permettere che i lavoratori immigrati vivessero in condizioni disumane, sotto un sole che d’estate porta la temperatura a cinquanta gradi. Non abbiamo ottenuto nulla e, nel 2005, abbiamo dato vita a un sito web. Senza un soldo siamo riusciti a monitorare le condizioni dei lavoratori immigrati negli Emirati, collaborando con i media internazionali e con le più importanti organizzazioni non governative in modo da far pressione sulle istituzioni negli Emirati per ottenere qualche cambiamento. Le cose non sono

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cambiate, ma continuiamo con il nostro sforzo, per rompere il muro del silenzio e della censura che esiste attorno a questo dramma. Sono in molti a pensarla come me, anche tra gli expat, ma tutti hanno paura di esporsi. Il mio Paese fa affari enormi con gli Emirati, ma dovremmo vergognarci del fatto di non muovere un dito rispetto alla vita di questi disperati”. La Sheik Zayed Road, con le sue sette corsie, si srotola come un tappeto d’asfalto tra due ali di grattacieli mozzafiato. Brillano come diamanti al sole, mentre tutto attorno fervono cantieri pieni di uomini che sembrano tutti uguali. Tute blu, gialle, rosse, verdi. Caschetti e pettorine. In equilibrio precario su ponteggi da capogiro, ad altezze che sfidano la forza di gravità, sospesi sulla sabbia di questo deserto che gli sceicchi, che, dalle gigantografie sparse in città, osservano sorridenti Dubai salire sempre più in alto a sfidare il cielo. Secondo due studi commissionati dal governo degli Emirati a ottobre del 2009, la popolazione residente nel Paese supera i sei milioni di persone. Di questi, meno di un milione sono emiratini. La comunità più numerosa è quella indiana, con quasi due milioni di residenti. Seguono quella pachistana, che conta 1,25 milioni e poi quella del Bangladesh. Sono loro che hanno costruito queste torri, ma non le abiteranno mai. Il traffico congestionato, il sottofondo costante dei mezzi al lavoro nei cantieri e loro, gli invisibili, che però sono sotto gli occhi di tutti. Parlarne liberamente, però, è un’altra storia. reg sembra un personaggio di un romanzo di Graham Greene o di Somerset Maugham. Un inglese da manuale, che risalta ancora di più con la sua camicia di lino e i mocassini di cuoio nella hall di uno dei tanti alberghi di lusso di Jumeirah Beach. L’arredamento in legno ricorda un po’ le cronache del tramonto dell’impero britannico, ma fuori dalla veranda spicca il Burj Arab, l’albergo a forma di vela tipica dei dhow, le imbarcazioni tradizionali che da queste coste, grazie al loro fondo piatto, si spingevano veloci fino alle coste dell’India. L’impero di Sua Maestà è stato qui, da padrone, fino alla fine degli anni Sessanta. Poi ha concesso l’indipendenza, a quella che chiamava la Costa della Tregua. Una pax fatta di interessi comuni con gli sceicchi del luogo, lungimiranti al punto di fare di Dubai un porto franco già nella metà dell’Ottocento. Un porto nel quale la vita era scandita dai ritmi della pesca delle perle, entrata in crisi nel 1929. Poi, appena dopo la partenza dei britannici, il petrolio. Che ha cambiato tutto, garantendo una crescita economica formidabile. Greg, assieme alla moglie Elle, è uno di quelli che non se ne è andato. “Siamo arrivati nella

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In alto: Emiratini di fronte al nuovo store della Ferrari a Dubai. In basso: Operai al lavoro. Dubai, 2009. Christian Elia ©PeaceReporter


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Penisola Arabica negli anni Settanta, dopo aver girato a lungo. Da sempre ci occupiamo di compravendite immobiliari e, nel 1980, siamo arrivati a Dubai. Adesso siamo stanchi, ci gestiamo una pensione serena amministrando vecchie proprietà”, racconta Greg, mentre tutto attorno ai clienti dell’albergo sembra pensato per un relax totale. Decine di camerieri, per qualche persona, pronti a scattare a un minimo cenno. Musicisti suonano l’oud, lo strumento a corda tradizionale, rendendo l’atrio un luogo di pace, lontano dai rumori e dai problemi della città. el 2006 abbiamo fondato Helping Hands, una associazione con qualche volontario, per dare una mano a questi lavoratori che vivono un condizioni terribili. Piccole cose: raccolta di fondi, cibo e vestiti. Qualcosa sta cambiando, ma molto lentamente. Aspettiamo l’autorizzazione del governo e, fino ad allora, meglio tenere un profilo basso. Non voglio rilasciare interviste, non voglio essere ripreso. Fino a quando non saremo registrati, meglio non dare fastidio”. Greg e sua moglie non sono gli unici. Un altro caso è quello del Lighthouse Club, una sorta di Carboneria della solidarietà. Expat che hanno creato un gruppo su Google, con il quale coordinano le raccolte fondi. Ma che non vogliono far sapere i loro nomi. Ci sono poi i coniugi Lena e Juergen Gasiecki, dall’Europa dell’Est, che si occupano di assistere le donne vittime di tratta. Ma anche loro non vogliono parlare in una società libera solo di consumare e di guadagnare. Chi l’ha fatto ne ha pagato le conseguenze, come Sharla Musabih. Negli Stati Uniti ha conosciuto suo marito, un emiratino. L’ha sposato, si è convertita all’Islam e l’ha seguito qui. Hanno avuto tanti figli e lei, un giorno, ha deciso di occuparsi delle donne. Sono tante, le chiamano ‘single’. Sono le collaboratrici domestiche che, per fare campare la famiglia in patria, arrivano qui e cominciano a lavorare in una famiglia o in una agenzia che si occupa delle pulizie nelle case e nelle aziende. Un altro miraggio, infatti, sarebbe quello di pensare che in questo Paese siano solo gli edili a essere sfruttati. Queste ragazze partono sole e, se sono fortunate, lavorano per qualche ditta. Fortunate è un eufemismo: si vedono ritirato il passaporto, lavorano per meno di cinque euro l’ora, vivono in diecidodici in piccoli appartamenti. Meglio, però, che lavorare per qualche famiglia locale. La stessa Sharla, in un’intervista a IrinNews, raccontò una delle tante storie di abusi e violenze che subiscono queste donne. Noor, etiope 18enne, finì schiava di una famiglia che la faceva lavorare ventiquattro ore al giorno, picchiata dalle donne e stuprata dal maschio di casa. Senza vedere un soldo e minacciata di espulsione se avesse fiatato con qualcuno. Fino a quando ha deciso che era meglio farla finita e ha tentato di buttarsi dalla finestra. L’ha soccorsa un tassista. E’ finita nella casa protetta gestita da Sharla e dalla sua associazione, United Hope. Solo che adesso Sharla non può tornare negli Emirati. Ha parlato troppo e anche l’influente marito non la può più proteggere. E’ negli Usa, mentre tenta di tornare, sapendo che l’arresterebbero appena giunta a Dubai, dove l’hanno incriminata accusandola di aver favorito adozioni illegali per coppie straniere. Un rischio che Garth non vuole correre. E’ indiano, alto e snello. Non si sottrae a un incontro, ma chiarisce subito che non vuole essere ripreso.

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o non metto in dubbio l’importanza del vostro lavoro, ma io qui ho moglie e figli. Vivo e lavoro qui, c’è tutta la mia vita. Non posso rischiare di perdere tutto. Siamo in sospeso, attendiamo lo status di organizzazione non governativa che, per assurdo, deve essere riconosciuta dallo stato. Nel mentre puoi operare, ma senza dare troppo nell’occhio e collaborando con le istituzioni, altrimenti sono guai”, racconta, davanti allo skyline delle Emirates Tower, cuore finanziario di Dubai. Poco più in là l’ennesima pubblicità dell’ennesimo progetto edilizio, il Dubai Pearl. Anche loro, i faraonici complessi, stanno diventando un miraggio. La mappa di Dubai è un inganno: metà delle mirabilie promesse è un cantiere mezzo vuoto che la crisi economica globale ha fermato per mesi. Garth, insieme a otto amici, nel 1998 ha fondato Valley of Love, la prima Ong di migranti che hanno avuto fortuna, trovando un buon lavoro. Ci sono anche loro, molti ai quali Dubai ha cambiato la vita. Avevano titoli di studio e hanno avuto la loro occasione, ma non hanno dimenticato i più poveri, quel-

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li che vengono dai villaggi sperduti dell’India, del Pakistan, del Bangladesh. “Ci occupiamo del rimpatrio delle persone che vogliono andar via, dei funerali di quelli che muoiono qui. Oppure portiamo assistenza in ospedale e in carcere. Sono qui soli, senza una famiglia. Nessuno si occupa di loro. Dopo anni di lavoro, capite, non voglio rischiare di mandare tutto a monte per un’intervista. Rifiuto l’incontro con tv, radio e giornali, tanto non serve a nulla. Qui c’è qualcuno che vorrebbe cambiare le cose, ma gli interessi in ballo sono troppo grandi e alla fine non cambia nulla. Il vecchio ministro del Lavoro, per esempio, sembrava in gamba”, racconta Garth. “Aveva proposto una legge per la tutela delle lavoratrici immigrate in caso di gravidanza. E’ stato sostituito e il nuovo ministro ha cancellato con un colpo di spugna la proposta. In un attimo. Non escludo che prima o poi scoppi tutto”. Qualcosa, nel 2006, sembrava muoversi. Nonostante le ripetute pressioni della comunità internazionale e le reiterate promesse del governo degli Emirati, qui è vietato lo sciopero e non sono previste organizzazioni sindacali. Nel 2006, per la prima volta, migliaia di edili immigrati incrociarono le braccia, occupando palazzi in costruzione e inscenando una protesta soffocata dalle botte della polizia. “I leader della protesta sono sempre stati individuati, arrestati e poi espulsi. Spesso su segnalazione di compagni di lavoro, minacciati e terrorizzati, che hanno preferito denunciare altri come loro piuttosto che perdere quel poco che hanno”. Nel 2007 sono stati quattromila i lavoratori espulsi per aver scioperato. “Molti di loro hanno paura, preferiscono essere trattati come schiavi che protestare. Se vengono espulsi come fanno a mantenere le loro famiglie, che hanno venduto tutto e si sono coperte di debiti per mandarli qui?”, chiede Garth. “Qualcosa cambierà, però. Ci vuole tempo. Se schiacci ogni giorno, in ogni modo, milioni di persone, privandoli della loro dignità, prima o poi la situazione ti sfugge di mano. Ma ci vuole tempo, molto tempo”. Le condizioni dei lavoratori immigrati non sono più un segreto per nessuno. Ci sono stati due punti di rottura nella coltre del silenzio imposta dagli sceicchi delle famiglie al-Maktoum e al-Nayahn, rispettivamente capi degli emirati di Dubai e Abu Dhabi, che si spartiscono il potere e il business. Nel 2006 un report dell’organizzazione internazionale Human Rights Watch, seguito da un documentario di alJazeera, portò la situazione all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. Il governo degli Emirati promise alloggi adeguati, cure mediche, protezione dei lavoratori dalle agenzie di reclutamento, orari di lavoro adeguati e tutelati nelle ore più calde del giorno, sicurezza sul posto di lavoro. Nel 2009 il bilancio è tragico. Ancora un report di Hrw, ancora un documentario, questa volta della Bbc. Ancora promesse del governo. asta andare a Sonapur, che in lingua hindi significa Città d’Oro. Anche i nomi, a volte, nascondono miraggi. Un inferno di caseggiati bassi e polverosi. Letti a castello, tre posti letto per parete, fino a dodici persone in un monolocale rovente, senza aria condizionata. Acqua non desalinizzata, gabinetti ostruiti infestati di batteri e mosche che diffondono malattie. Sono gli alloggi che le compagnie forniscono ai migranti. Storie tutte uguali. In uno sperduto villaggio dell’Estremo Oriente arriva un reclutatore, che promette stipendi favolosi a Dubai. Loro vendono tutto, si coprono di debiti con la stessa compagnia che garantisce visto di lavoro e viaggio. Appena arrivano si vedono sottratto il passaporto e due mesi di stipendio, per non farli scappare. L’alloggio è un incubo, l’orario di lavoro disumano, le condizioni di sicurezza nulle. In questo inferno, avvolta del suo sari elegante, si muove la dottoressa Shashikala. Una ginecologa indiana, che ha una piccola clinica privata. Con il suo inseparabile assistente Shankar si occupa di loro. “La crisi economica ha reso ancor più drammatica la situazione. Molte agenzie d’intermediazione sono fallite, perché hanno perso gli appalti delle grandi compagnie che per carenza di fondi hanno bloccato i cantieri”, spiega mentre da una grande pentola serve cibo a un nugolo di immigrati che le si stringono attorno, quasi nascondendola alla vista, lei così minuta. “Sono scappati, portandosi via i passaporti e non pagando gli stipendi. Anche se hanno restituito i passaporti, queste persone non possono andare via. Sono bloccati qui, perché

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In alto: Operai al lavoro in un cantiere. In basso: Operaio consuma il pasto nel mezzo di lavoro, perché le pause sono quasi nulle. Dubai, 2009. Christian Elia ©PeaceReporter


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non hanno i soldi per tornare indietro e perché tentano i tutti i modi di recuperare i soldi che gli sono dovuti. In patria ci sono i debiti e la disperazione che li attendono. Le agenzie applicano tassi d’interesse fino al cento per cento della somma richiesta all’inizio per arrivare qui. Se non pagano le loro famiglie rischiano. Sono prigionieri di un incubo”. La dottoressa esce dai caseggiati fatiscenti e si avvia verso un campo. In terra cartoni che fungono da letto e sporcizia ovunque, vista anche la vicinanza della discarica comunale agli alloggi. “Ci occupiamo, come possiamo, dei più disperati. Migliaia di persone che sono negli Emirati illegalmente. Con la crisi hanno perso il lavoro e per la legge locale dovrebbero abbandonare subito il Paese. Non puoi stare qui se non hai un lavoro e non puoi cercarne un altro senza il nulla osta del tuo precedente datore di lavoro. Adesso dormono nei parchi, in attesa di un impiego. Noi gli portiamo cibo e cure mediche di base, garantite dalla solidarietà di altri indiani e non solo che sono più fortunati. Ma la situazione è disperata”, racconta con un filo di voce, senza perdere il sorriso, che rivolge a tutte le mani silenziose che si tendono verso di lei. La maggior parte di queste persone non parla inglese e ha firmato contratti in arabo che non ha capito. Adesso sono prigionieri. “Molti si suicidano, ma non esistono cifre ufficiali. Come mancano i dati delle morti sul lavoro”, dice la dottoressa Shashikala. Gli unici dati risalgono al 2004: le ambasciate di India, Bangladesh e Pakistan ricevettero più di ottocento cadaveri da rimpatriare. L’anno dopo, solo l’ambasciata indiana ne ha ricevuti novecentonovantacinque. Persone come Garth e Shashikala si occupano di loro, in una forma di auto organizzazione che ricorda le società di mutuo soccorso nate in Europa alla fine dell’Ottocento. Un altro miraggio che potrebbe ingannare è quello di ritenere che tutto questo non c’entri con il mondo dei diritti e dello sviluppo, che sia un problema locale, che non riguardi anche noi. a settimana della cultura italiana, a Dubai, è ormai un appuntamento fisso. Sotto la supervisione dell’attivissima Camera di Commercio Italia – Emirati si svolgono eleganti eventi, simbolo di un’amicizia tra i due paesi che si salda sempre di più. Il sito dell’ente scrive: “I dati relativi all’import e all’export tra Italia ed Emirati Arabi Uniti del 2008 confermano d’altronde il positivo trend registrato negli ultimi anni e inducono a prevedere un ulteriore incremento degli scambi commerciali tra i due Paesi anche nel 2009. Se nel 2006 l’Italia ha esportato negli Emirati beni per circa tre miliardi e trecentodieci milioni di euro, nel 2008 il valore monetario totale ha superato i cinque miliardi e cinquecentoventisei milioni di euro, con un incremento prossimo al sessantasette percento. Similmente, l’import italiano dagli Emirati è passato dai duecentosessantasei milioni di euro nel 2006, ai trecentoventicinque milioni circa nel 2007, per superare i quattrocentocinquantacinque milioni di euro nell’anno scorso”. Un giro di denaro enorme, che passa anche dal costo estremamente contenuto del lavoro. Che passa per le condizioni di vita dei lavoratori immigrati. Una situazione che riguarda anche noi. Nulla, a prima vista, denuncia la pressione che il governo esercita sull’opinione pubblica, garantendo il silenzio sulla realtà dei migranti. Ma qualcosa comincia a rompersi. In primo luogo, come detto, sono tanti gli expat che decidono di non far finta di niente. Poi, pian piano, la comunità dei migranti più fortunati inizia ad auto organizzarsi, per adesso in forme di solidarietà che sono in nuce l’inizio di forme di auto organizzazione a livello di rivendicazioni sindacali. Fattore ancora più importante, però, è che qualche crepa comincia a mostrarsi anche tra i locali, che non sono più di novecentomila. La strada che da Dubai porta a Ras al-Khaimah, un altro dei sette emirati che compongono la Federazione, è bellissima. Ai lati dell’asfalto il deserto è ancora padrone. Mandrie di cammelli pascolano beate nel loro ambiente naturale, tra cartelli di progetti futuribili che ancora non hanno intaccato questo paradiso. In città vive il cittadino più odiato degli Emirati Arabi Uniti, l’avvocato Mohammed al-Mansoori. “Smetterò di rompere le scatole quando anche solo uno dei miei delatori mi dirà che ho torto. Fino a quando continuerò a sentirmi dire che ho ragione, ma che rovino l’immagine del mio Paese con le mie denunce andrò avanti, perché vuol dire che sto facendo la cosa giusta”, racconta al-

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Mansoori, volto sottile, occhiali da intellettuale, incorniciato dal bianco splendente della sua candida dishdasha, l’abito tradizionale degli Emirati. Attorno alla testa il copricapo ricamato, sotto il fazzoletto bianco, tenuto da un cordino che in passato si usava per legare i cammelli. o fondato l’associazione dei giuristi democratici per fare pressione sul governo. Gli abusi che subiscono i migranti sono solo uno degli orrori dovuti alla totale mancanza di democrazia in questo Paese. Lo stesso sceicco, una volta, mi ha chiesto per quale motivo non vivevo tranquillo, godendo della nostra ricchezza, senza criticare il Paese esponendolo agli attacchi dell’Occidente. Non fa per me. Io credo nel mio Paese più di tutti coloro che tacciono. Qui la legge sul lavoro è ferma al 1980 e l’accordo per il quale le imprese straniere che vogliono investire qui possono avere solo il quarantanove percento della loro attività, lasciando il il resto a un locale, ha creato un cortocircuito gravissimo. Gran parte delle imprese, infatti, finiscono nell’orbita delle famiglie degli sceicchi. Come potranno mai applicare le leggi che promettono, per tenere buoni i media occidentali, ma che finirebbero per danneggiarli economicamente? Che interesse potranno mai avere e rendere i diritti dei lavoratori in linea con gli standard internazionali? Ci rimetterebbero un sacco di soldi. Una delle più grandi bugie che si scrivono sugli Emirati è che qui da noi, per tradizione, esiste la schiavitù”. “È un’assurdità. Mio nonno e mio padre erano pescatori, poi lo sviluppo economico ci ha garantito un benessere che ci ha permesso di avere una piccola fattoria. I nostri dipendenti erano come persone di famiglia! La tradizione sta nell’educazione che riceviamo dai nostri padri, non nelle chiacchiere. Mi hanno messo in carcere, mi hanno tolto il passaporto, hanno impedito ai miei figli di andare a lavorare all’estero. Ma io non mi fermo e continuo a denunciare quello che accade qui ai migranti ma anche in tutti gli altri settori della vita dove la libertà è negata. Che futuro stiamo regalando ai nostri figli? Gli Emirati sono diventati il secondo Paese al mondo per problemi di diabete! Abbiamo una generazione di giovani senza spina dorsale, che di mestiere fanno i partner delle società occidentali che hanno bisogno di una testa di legno per lavorare qui. Incassano un sacco di soldi, che spendono in maniera inutile. Il governo ha tentato in passato di forzare gli emiratini nel mondo del lavoro, per non lasciare le leve economiche in mano agli occidentali. Sa che è accaduto? Rifiutano i posti di lavoro! Si crogiolano nella bambagia di uno Stato che li assiste dalla culla alla tomba, provvedendo a tutto quello di cui possono avere bisogno e soffocando così ogni protesta. Ma che sviluppo è mai questo? Io non rimpiango certo il passato. Una vita dura davvero, sempre in lotta con la povertà, per procurarci il cibo e l’acqua. Ma non era questo il futuro che dovevamo costruire, con grattacieli che vengono su come funghi in città che non hanno le fogne, senza un piano urbanistico, con tutti i rifiuti che vengono gettati in mare. Stiamo distruggendo il nostro Paese, senza lavorare a uno sviluppo sostenibile - continua l’avvocato, senza mai alzare la voce - i media sono complici di questo sistema. Magari raccontano il singolo episodio, l’effetto di un problema. Ma mai la causa. Nessuno disturba il manovratore. Io l’ho fatto e, vi assicuro, non sono solo. Sono sempre di più le persone che si rendono conto che se non saremo capaci di pensare il futuro adesso, ci sveglieremo di colpo da questo sogno dorato, trovandoci in un incubo. Non possiamo aspettare che il cambiamento arrivi dagli expat, persone che vengono qui solo per un periodo della loro vita, che si possono permettere uno stile di vita che in patria non avrebbero. Ho studiato a Londra e negli Usa. Là ho imparato che i diritti sono tutto in una società. Sono ottimista, perché sono convinto che non potrete continuare a girare la testa. Dubai è diventata la più grande lavatrice mondiale di denaro sporco, tutti i traffici illeciti passano da qua. Ma ho fiducia che prima o poi le cose cambieranno, nonostante i grandi interessi in gioco. Cosa sareste voi, oggi, se di pari passo con lo sviluppo economico non ci fosse stato quello della società del diritto?”. La domanda rimane sospesa, mentre fuori dal piccolo ufficio dell’avvocato al-Mansoori si annuncia una tempesta di sabbia. Rabbiosi mulinelli arrivano dal deserto, minacciando simbolicamente di ricoprire tutto quello che gli Emirati hanno costruito, facendolo svanire come fosse stato un miraggio.

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I cinque sensi degli Emirati Arabi Uniti

Udito Gli Emirati sono un Paese arabo, ma in poche città del mondo come Dubai vi capiterà di avere un prontuario di tutte le lingue del mondo. Passeggiando in un mall o entrando in un ristorante, ascolterete un’autentica esplosione: arabo, inglese, malayalam (indiani del Kerala), telugu (indiani dell’Andhra Pradesh), hindi, urdu si mescolano con francese, spagnolo, italiano. Una babele che in mezzo a tutte queste torri sembra nell’ambientazione ideale. Una tale concentrazione di auto di lusso e di Suv mastodontici non ha pari al mondo. Emiratini in abito tradizionale al volante di Lamborghini e Ferrari sfrecciano sulle lunghe e larghe vie, srotolate come tappeti nel deserto, mischiate a camioncini che trasportano lavoratori, milioni di taxi e le grandi jeep degli stranieri che vivono qui. Il rumore del traffico, i clacson e il rombo dei motori non finisce mai, anche nel cuore della notte. Come un surreale sottofondo musicale, le giornate di Dubai e di tutti gli Emirati sono scandite dal costante rumore dei cantieri. Martelli, mezzi meccanici, scavatrici. Dalle prime luci dell’alba, fino a notte fonda, operai sono al lavoro per la costruzione di queste torri che si affastellano le une sulle altre in una densità inimmaginabile. Se i lavori non riguardano le torri riguardano le aiuole, i raccordi stradali o qualsiasi altra cosa.

Vista Gli abiti tradizionali degli Emirati sono la dishdasha per gli uomini e l’abaya per le donne. La veste maschile è di un bianco candido, più o meno abbellito da bottoncini e ricami, mentre l’abito di lei è nero come la notte, aggraziato dal trucco di tenere i capelli con un grande chiffon, in modo che il velo scivoli indietro, lasciando scoperti volti che vengono truccati con cura. In alcuni casi le donne lasciano scoperti solo gli occhi,

ma sono quasi sempre solo le più anziane. Il contrasto, di una coppia che al massimo può tenersi la mano in pubblico, è fortissimo: lui e lei, il bianco e il nero. Come due pezzi degli scacchi. La notte di Dubai e di tutti gli Emirati è illuminata da mille luci. I grattacieli, nonostante le poche luci accese negli appartamenti per lo più invenduti, sono costellati di mille segnalatori per gli aerei e gli elicotteri. In un Paese che cresce in altezza giorno dopo giorno, come le luci intermittenti dei presepi natalizi, mille e mille piccoli lampeggiatori s’illuminano nel cielo. Il loro controcanto, che racconta il passato, sono le luminarie che decorano i vecchi dhow, le imbarcazioni che ancora attraversano il khor, il canale che entra dal mare fin nel cuore di Dubai. Alla fine ti abitui. Sono milioni, sono ovunque, dalla mattina alla sera. Sono i lavoratori migranti, tutti simili, nelle loro tute blu, rosse o verdi. Con le pettorine e i caschetti gialli o bianchi. Invisibili, seppur onnipresenti. Silenziosi si muovono in precario equilibrio su strutture da brivido, mentre costruiscono l’ennesimo grattacielo, o mentre puliscono la strada o un giardino.

Gusto La frutta, in un clima torrido come quello degli Emirati Arabi Uniti, è un bene molto prezioso per la comunità. In passato erano le oasi a fornire i frutti per la sopravvivenza delle popolazioni stanziate in queste lande, adesso gli Emirati importano la frutta da tutto il mondo. Il benessere economico ha però reso immenso il mercato dei succhi e dei concentrati di frutta. Non potrete dire di essere stati a Dubai se non avrete provato il Lemonmint, un succo dal sapore più o meno aspro secondo la quantità di zucchero che sceglie il gestore, ma delizioso. La menta e il limone, assieme, con una fogliolina e una fetta in cima al bicchiere, in una giornata torrida, sono un’esperienza indimenticabile.

Olfatto In tutti i locali, all’aperto o al chiuso, negli Emirati la shisha è un compagno fidato. L’equivalente del narghilè accompagna l’ozio, il pranzo o la cena di locali e stranieri allo stesso modo. Un addetto, in ogni locale, si occupa di tenere vive le braci, mentre un odore dolciastro e zuccheroso si diffonde tutt’attorno. La totale assenza di fumo nei locali pubblici, salvo rare eccezioni, colpisce subito. Un’assenza che, per chi è abituato a viaggiare nel mondo arabo, fa davvero strano. Il suq delle spezie di Deira, nella Dubai vecchia, è un’esperienza. In un clima da Mille e una Notte, tra Alì Babà e Sinbad, si affacciano mille negozi con spezie da tutto il mondo. Centinaia di essenze si mescolano nell’aria, provenienti da tutto l’Oriente.

Tatto Nonostante gli sceicchi degli Emirati abbiano reso possibile, a tutti i costi, lo sviluppo frenetico di Dubai e delle altre città, la sabbia reclama invitta il suo spazio in un luogo che le è appartenuto per secoli. Tra una strada e l’altra fa capolino, insinuandosi in ogni dove. Sotto la pianta dei piedi o sulle mani, prima o poi, ricorda a tutti che non si farà mai cacciare via del tutto, soffice e vellutata come un torrido abbraccio. Se lo stomaco regge, il contrasto tra l’aria condizionata interna e il caldo soffocante esterno è un’esperienza da far accapponare la pelle. Appena si apre la porta di un locale, di una casa o di un’automobile, la sensazione che qualcuno vi punti un phon acceso è immediata, mentre appena si rientra in un luogo chiuso la pelle reagisce al precipitare della temperatura con sbalzi a volte di 10-12 gradi in pochi secondi. 9


Il reportage Sudafrica

Fuori dallo Zimbabwe Di Chiara Pracchi

“Central Methodist Church, Jo’burg, scalone centrale, secondo piano, quinto gradino dall’alto. Questo è il mio indirizzo da più di un anno ormai”. cherza Watson, una delle quattromila persone provenienti dallo Zimbabwe, che ogni sera trovano rifugio dentro la chiesa metodista centrale della sudafricana Johannesburg, un edificio squadrato di cinque piani, soffocato fra i grattacieli di downtown, il Carlton Hotel e la High Court. All’interno l’odore è insopportabile, un misto di sudore, urina, spezie e legna bruciata. L’ufficio del vescovo, Paul Verryn, è al terzo piano, ma salire le scale non è facile, occupate come sono dalle persone che si apprestano a passare la notte. Per parlare con lui bisogna rispettare la fila di quanti, durante la giornata, non sono riusciti a trovare un lavoro e devono chiedere dieci rand (un euro) per la cena. Fuori, fra Pritchard e Smal street, fiorisce un mercato improvvisato: pesci arrosto, polli, uova, caramelle, arance, patatine soffiate. Alcuni cercano di guadagnarsi così qualche soldo. Chi non trova posto dentro, dorme per terra, nelle vie intorno, anche d’inverno, fra l’indifferenza generale della città, quando non l’aperta ostilità. Ufficialmente, dall’aprile scorso, da quando Pretoria ha concesso un permesso di lavoro di sei mesi, gli immigrati non possono più essere deportati e rimpatriati, ma i commercianti del centro, che continuano a lamentarsi per il degrado, hanno imposto la costruzione di una cancellata per contenere questa marea umana. Chi resta fuori la notte resta esposto alle violenze xenofobe e alle retate della polizia. L’ultima il 3 luglio scorso, quando gli agenti, armati di pistole taser e spray urticanti, hanno portato via nel sonno più di trecentocinquanta persone per vagabondaggio. Il vescovo stesso è stato minacciato di morte più volte, “ma una settimana, è il tempo giusto per preoccuparsi” racconta scherzando, senza per questo voler fare l’eroe. Watson è fortunato perché è uno degli uomini scelti per mantenere un minimo di sicurezza la notte all’interno della chiesa. Con i trecento rand che riceve per questo lavoro, riesce a mantenersi e a mandare a casa gli altri soldi che guadagna di giorno come muratore. Ad Harare si occupava di informatica, fino a quando un gruppo di attivisti dello Zanu-pf, il partito del presidente Robert Mugabe, non è andato a casa sua a cercarlo. Era il periodo delle violenze politiche dopo le contestate elezioni del 29 marzo 2008, e Watson era un attivista del Movement for Democratic Change, il partito sfidante di Morgan Tsvangirai. La sua famiglia è rimasta nello Zimbabwe, ma ha dovuto lasciare la capitale perché il quartiere dove vivevano è stato demolito come forma di ritorsione per aver votato in massa in favore del cambiamento. Nonostante la vita che conduce, per il momento non ha alcuna intenzione di tornare a casa. Nessuno qui crede alla telenovela dell’accordo di spartizione del potere, siglato a febbraio fra Mugabe e Tsvangirai, e continuamente rimesso in discussione.

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omenica sera, la messa diventa un’occasione per celebrare questa comunità. La chiesa è un’aula pentagonale all’interno dell’edificio, moderna, spoglia, dislocata su due piani. Se non fosse per alcune vetrate con soggetti religiosi, la si scambierebbe per la sala teatrale di un oratorio di periferia. Sull’altare un gruppo di ragazzi incomincia ad intona-

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re una serie di canti africani. Fra gli spalti, tutti cantano, ballano, battono il ritmo, vengono, vanno. A terra i bambini gattonano e sbavano sulla moquette lurida, mentre in controluce si vedono alcuni topolini girare tranquillamente per la sala nonostante la confusione. Nei rari momenti di silenzio l’aula rimbomba di colpi di tosse peggio che ad un concerto di musica classica. Del resto qui la Tbc è una delle malattie più diffuse insieme all’aids. Poi, come un maestro paziente che scandisce bene le sue sillabe, il vescovo inizia il suo discorso: “Voi avete gli stessi diritti di tutti gli altri. Avete capito bene cosa vi ho detto? - controlla sempre premuroso - Voi avete gli stessi diritti di tutti gli altri perché essere poveri non è un reato”. La comunità, che subisce l’odio e la violenza degli abitanti di Johannesburg, inveisce, applaude, fischia, esulta, batte i piedi. La funzione è qualcosa di imprevedibile per chi è abituato alla passività della liturgia cattolica. Un gruppo di attori improvvisati, alcuni travestiti da donna, sale sull’altare e inizia a recitare una scenetta: è la storia di una ragazza che, rimasta incinta, decide di vendere il proprio bambino, dopo aver cinicamente scherzato sulle condizioni di vita a cui sarà costretto. Ben al di là dall’offendersi, il pubblico ride smaccatamente, urla, partecipa e parteggia. Al coro il compito di tracciare la morale della storia, come nella più classica delle tragedie. Gli argomenti vengono scelti durante le riunioni con i rifugiati e liberamente rielaborati dalla compagnia teatrale della chiesa. La settimana precedente lo spettacolo era stato sulla tubercolosi ed era finito in un delirio di colpi di tosse e risa. Qui non c’è posto per la dottrina. I pericoli che queste persone devono affrontare ogni giorno sono tali che la predica diventa una lezione ai bambini contro il pericolo degli abusi e dello sfruttamento sessuale. “Se qualcuno cerca di toccarvi dove non volete, avete il tutto il diritto di dire di no e di denunciare, perché il vostro corpo è sacro” – sentenzia forte e chiaro il vescovo. Conclude la funzione la consegna degli attestati ai ragazzi che hanno frequentato il corso di informatica, un corso poveramente organizzato, come molti altri all’interno della chiesa, su computer antidiluviani. Chiamati uno ad uno, i ragazzi sfilano spintonandosi scherzosamente per celare l’emozione e l’orgoglio. l termine della messa, ciascuno prende il suo posto per la notte, sulle panche, per terra, nei corridoi, sulle scale. Ogni centimetro quadrato dell’edificio viene occupato. Nelle cantine, buie e senza finestre, alcune donne preparano la cena su fornelli improvvisati, mentre i bambini giocano in mezzo a migliaia di vestiti smessi e abbandonati da quanti sono passati di qui e se ne sono andati. La sensazione che ne scaturisce è quella di aver partecipato al rito di una comunità unita e piena di dignità ma è il vescovo stesso a mettere in guardia: “Non credere che questo sia un luogo armonico, dove regna la pace.

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Dallo Zimbabwe alle strade di Johannesburg. Sudafrica 2008 Archivio PeaceReporter


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Qui c’è anche sopraffazione, violenza, armi e alcol”. Evans ha passato qui i suoi primi quattro mesi quando è giunto in Sudafrica, poi i suoi studi in teologia e psicologia gli hanno fruttato un posto di lavoro come terapeuta fra i suoi stessi compagni. Strana carriera la sua, iniziata con la vocazione al sacerdozio, proseguita nell’esercito per mantenere la madre e le sorelle, interrotta quando due suoi commilitoni, attivisti del Mdc, sono stati fatti sparire, e infine approdata a Johannesburg a raccogliere confessioni e pene dei suoi connazionali come un pastore laico. “La gente che arriva qui ha subito ogni genere di abuso, fisico e verbale - racconta - Il nostro compito è quello di restituirgli la fiducia in se stessi, la dignità che gli è stata negata. Ci sono bambini che sono giunti qui soli, per lavorare, ai quali dobbiamo ricordare che sono ancora dei ragazzi, che hanno il diritto di prendersi il proprio tempo e di giocare. La frontiera oramai si è sbriciolata, ma non è questo il modo in cui avrebbe dovuto crollare se vogliamo dirci africani”. A Beit Bridge, punto d’ingresso in Sudafrica per chi arriva dallo Zimbabwe, la frontiera si è veramente sbriciolata. Il reticolato che divide i due stati è tutto un buco. Ogni giorno l’esercito tenta di rattopparlo ma ogni giorno i migranti ne aprono di nuovi. L’elettricità che corre lungo tutta la rete di separazione non è più stata riattivata, da quando sono morte alcune persone. Ma superare il confine resta un’impresa ancora molto pericolosa se non si possiede un passaporto, che in Zimbabwe costa l’astronomica cifra di ottocento dollari. Uomini, donne e bambini, spesso non accompagnati, continuano a passare il confine a tutte le ore del giorno e della notte, attraversando la savana e il fiume Limpopo, che nella stagione delle piogge è infestato dai coccodrilli. n cartello a difesa di una fattoria ammonisce i passanti: “Non tagliare la recinzione. Proprietà privata”. Posto di fronte al confine che negli ultimi anni ha lasciato passare quasi di tre milioni di persone, suona vano e beffardo. L’anno scorso, quando nello Zimbabwe era diventato quasi impossibile procurarsi del cibo a causa dell’inflazione galoppante e durante l’epidemia di colera, approdavano qui a migliaia. Poi, la decisione di abbandonare la valuta nazionale in favore del dollaro e del rand ha, almeno superficialmente, migliorato la situazione. Ma nello Zimbabwe i disoccupati continuano ad essere il novantaquattro percento e il sistema scolastico e quello sanitario sono al tracollo. Così la gente continua a scappare. Quasi al calar del tramonto, mentre percorriamo la strada che corre parallela al confine, intravvediamo quelli che sembrano essere un uomo e una donna, una felpa rossa e un maglione blu. Si stavano preparando per attraversare l’ultimo impedimento che li divideva dal Sudafrica, quando il rumore del nostro arrivo li ha ricacciati nella terra di nessuno che divide i due Stati. Sabelo Sibanda, avvocato di Lawyers for Human Rights, cerca di richiamarli indietro, si presenta, offre loro il suo aiuto. Il pericolo è che una volta attraversata la frontiera vengano intercettati dai ‘guma -gumas, bande di criminali che aspettano i migranti ai varchi per derubarli di ogni loro avere. Alla clinica per le violenze sessuali e le violenze di genere che è stata aperta in aprile a Musina, i racconti di quanti sono sopravvisuti agli attacchi dei ‘guma-gumas sono atroci. Donne tenute prigioniere per giorni e stuprate in gruppo; bambini strappati dalle braccia delle madri e affogati nelle acque del Limpopo; uomini costretti ad avere rapporti sessuali con animali o ad assistere allo stupro delle loro donne: tutto pur di annientare la propria vittima, privarla di ogni bene e schiantare qualsiasi capacità di reazione. Le denunce arrivate in clinica da aprile sono una settantina, ma sono solo la punta dell’iceberg. Moltissime donne non parlano per vergogna o per paura di venire ripudiate dal marito; molte perché a Musina, prima città dopo il confine, sono solo di passaggio, il tempo necessario per ottenere i documenti e via; altre semplicemente perché la loro situazione è così drammatica che la vita impone loro di rimuovere e andare avanti. In fondo, chi sfugge agli attacchi dei ‘guma-gumas può già dirsi fortunato, in molti non hanno fatto ritorno. “Condanne non ce ne sono mai state - racconta Mazanhi Tonderayi, responsabile della clinica - perché, a fronte dei pochissimi arresti, nessuna ha mai potuto recarsi in tribunale a testimoniare

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durante il processo e la polizia, in un paese già di per sé dilaniato dal crimine, non si da molto da fare per reprimere un fenomeno che riguarda prevalentemente i migranti. Per la stessa ragione, le autorità sanitarie locali cercano di scoraggiare in tutti i modi l’accesso in ospedale alle vittime, ma trovare cure immediate è vitale per prevenire la trasmissione dell’Hiv e per la contraccezione d’emergenza”. Il Freedom Park Shelter è uno dei rifugi maschili per la notte. A discapito del nome beneaugurante, Freedom Park è uno degli slums di Musina e la carcassa di una macchina insabbiata a metà sembra essere lì a ricordarlo. Intorno sono disposte tre tende che questa notte accolgono circa centocinquanta uomini. Strutture fisse non ce ne sono e non possono essere costruite perché le autorità non concedono il permesso. Farlo significherebbe riconoscere il fatto che in Zimbabwe esiste un problema, cosa che Pretoria ha sempre cercato di negare per i buoni rapporti che legano l’Anc, il partito di governo sudafricano, allo Zanu di Mugabe. aul e Dudziro sono ancora dei ragazzi, ma dopo aver attraversato a nuoto il Limpopo, per sopravvivere hanno scelto di fermarsi qui e di lavorare gratuitamente al campo, in cambio solo di vitto e alloggio. Soldi per mandare avanti il rifugio e pagare i dipendenti non ce ne sono più. Nel momento dell’emergenza umanitaria, quando dallo Zimbabwe arrivavano in migliaia ogni giorno, le numerose chiese pentecostali che si trovano in Sudafrica si sono date da fare per gestire la situazione, ma ora che gli immigrati non fanno più notizia, i fondi sono stati dirottati altrove. Alle undici della sera, mentre gli ultimi bisbigli vanno spegnendosi sopra Freedom Park Paul e Dudziro aspettano solo che ce ne andiamo per andarsene a dormire nelle tende con tutti gli altri. Al Concern Zimbabwe Campbell’ Shelter un ragazzo ha una brutta ferita al piede e non riesce a camminare, ma il pastore Kwangwari non ha i soldi per portarlo in ospedale. Qui sono rinchiusi cinquantaquattro ragazzi minorenni che sono stati trovati a viaggiare da soli. “Rinchiusi” è il termine esatto dal momento che vivono tutti in’unica stanza, con un piccolo cortile. Nonostante la bella giornata, moltissimi sono dentro, ipnotizzati davanti al televisore; fuori un paio di ragazzi giocano su una dama improvvisata con dei tappi di bottiglia, mentre un terzo cerca di riparare una vecchia radiolina. I ragazzi sono annoiati e si vede. Non possono andare a scuola perché le autorità locali prendono qualsiasi scusa per negare loro il permesso e l’esistenza ridotta a quei pochi metri quadrati può diventare un incubo peggiore di quelli che ci si è lasciati alle spalle. Musina, o Messina, come si sta tornando a chiamarla con il vecchio nome precoloniale, è una città che sta crescendo velocemente fra modernità e tradizione: un nuovo centro commerciale, nuove strade, marciapiedi asfaltati e nuove abitazioni. Un centro caotico, trafficato e rumoroso, che si sviluppa per la maggior parte lungo la N1, la strada nazionale che da Johannesburg porta al confine e poi su, fino ad Harare. Bancarelle improvvisate ingombrano le strade, insieme ai passanti che, pieni di borse, si siedono per cercare frescura ovunque ci sia un po’ d’ombra. Camion enormi sembrano prepararsi per la traversata del continente, mentre chiunque può permettersi una macchina la usa anche per spostamenti minimi e sembra volerlo segnalare suonando continuamente il clacson. Un gruppo di commesse, con la cuffietta igienica in testa per trattenere i capelli, prende la pausa fumandosi una sigaretta di fronte ad un supermercato. Poco più in là, alla fermata dei taxi per Beit Bridge, dentro baracche di latta improvvisate, un gruppo di rivenditori cucina e vende sadza, una polenta bianca di mais, per coloro che aspettano di ritornare nello Zimbabwe. Una città che sta crescendo anche grazie agli immigrati. Alcuni si sono fermati qui, hanno intrapreso attività, aperto negozi; altri, in possesso di un passaporto, alimentano il commercio frontaliero, dal momento che qui i prodotti costano molto meno. Anche per questo la xenofobia che l’anno scorso ha colpito numerose città sudafricane, a Musina la si vede solo nei manifesti di condanna appesi per le strade dal ministero dell’Interno.

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In alto: Campagna elettorale per Mugabe. In basso: Sui muri le proteste dell’opposizione al regime. Zimbabwe 2008 ©Archivio PeaceReporter


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L’intervista Francia

Seicento voci dal pianeta Terra Di Antonio Marafioti Al summit di Copenaghen i grandi della Terra decideranno le sorti dell’ambiente. Si tracceranno le linee del “post-Kyoto”, si parlerà di rifugiati ambientali e di politiche di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra. ood Planet, organizzazione francese di pubblica utilità, fondata nel 2005 da Yann Arthus-Bertrand, si propone di “porre l’ecologia nel cuore delle coscienze” dando voce agli altri. “6 Billion Others” è diventato un successo internazionale: cinquemila videointerviste raccolte in settantacinque paesi nell’arco di sei anni per conoscere meglio il mondo attraverso le storie di chi lo popola. Sibylle D’Orgeval, una delle autrici del progetto, sarà nella capitale danese con seicento nuove vite da raccontare.

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Dopo il successo di 6 billion others, cosa presenterete a Copenaghen? Per Copenaghen abbiamo fatto un film speciale che si chiama 'Sei miliardi di altri, Testimonianza sul clima', girato nei luoghi-chiave dei cambiamenti climatici come la calotta artica, il Perù e l’Africa. È un film esclusivamente basato sulle interviste a testimoni diretti dei mutamenti, oltre che a esperti e a scienziati dell'Ipcc, Intergovernmental Panel on Climate Change. Verrà proiettato durante il summit, e mostrerà che è assolutamente urgente fare qualcosa subito, perché numerose persone stanno già abbandonando le loro terre a causa degli sconvolgimenti ambientali. Noi non suggeriamo, ma pretendiamo che vengano prese azioni concrete. Quanti Paesi avete girato e quanto tempo avete impiegato per realizzare il lavoro? Diciassette Paesi. Le riprese sono durate tre mesi, giugno, luglio e agosto, poi c'è stato l'editing del girato. Tra poco il documentario verrà messo sul web, all'indirizzo www.6billionothers.org Recentemente il presidente Obama ha affermato che è necessario ridurre le emissioni di gas ad effetto serra del 17 percento entro il 2020. Crede che sia un’opzione realistica? Non lo so. Ciò che importa è che ha inviato un segnale forte al mondo, specialmente a quei Paesi che attendevano di conoscere la posizione degli Stati Uniti al riguardo: India e Cina. Qualsiasi siano i dati, i numeri, la misura delle riduzioni di gas serra, la cosa davvero importante è la spinta al cambiamento. Fosse anche simbolica. In alcune circostanze i simboli sono molto importanti. Ci spiega il concetto ‘conoscere l’altro per migliorare l’ambiente’? Bisogna essere consci del fatto che ogni nostra singola azione ha un effetto sul mondo intero. È molto semplice prendersi cura della propria casa, del proprio ambiente, ignorando ciò che succede all'esterno. Un parigino può accendere i riscaldamenti quando gli pare, vestirsi con abiti prodotti in Cina, fare mille altre cose per pura comodità, senza preoccupazioni. Ma se esistono legami commerciali con altri Paesi, allora devono esistere anche legami solidali, e non possiamo prendere solo ciò che ci fa comodo trascurando il fatto che per 14

produrre una merce si genera inquinamento, si danneggia il clima e così via. I collegamenti economici, finanziari, commerciali richiedono anche legami di carattere climatico. Per questo è necessario conoscere le esperienze degli 'altri'. È nostra responsabilità considerare questi 'altri' in una visione olistica del mondo. Good Planet sostiene che bisogna portare l’ecologia nel cuore delle coscienze. Come si fa? È quello che dico quando parlo di visione olistica. Non è un dovere, ma un fatto interno alla propria coscienza. È inutile elencare numeri e dati statistici. È inutile dire in che percentuale verranno tagliate le emissioni di ossido di carbonio se non si cambiano i valori. La crisi finanziaria lo ha messo in evidenza: i valori sono stati trascurati in maniera perversa. Come si torna al 'prima'? Bisogna farsi questa domanda. Esistono popolazioni che da millenni conoscono il modo di relazionarsi con la terra. Queste culture, cosiddette 'ecologiche' non sono affatto ecologiche. Sono popolazioni che hanno coscienza di chi sono e di che cosa è il pianeta nel quale vivono. Sono semplicemente il risultato di qualcosa che conoscevamo anche noi, prima che il nostro cervello iniziasse a 'dividersi', a specializzarsi. A Copenaghen sarà più efficace parlare o gridare? Credo che la violenza non sia mai utile. Credo che siano utili invece le buone manifestazioni di protesta, le flash mob, per esempio, quelle ben organizzate, dove l'azione è comune, convogliata, dove c'è mobilitazione sugli obiettivi concreti. Dopo, penso che bisogna essere presenti anche a un livello politico. Ho parlato con numerosi scienziati, e purtroppo questo è il punto più difficile, perché in politica prevale la diplomazia, e fattori economici prendono il sopravvento. L'intensità della voce dell'ecologia dovrebbe essere allo stesso livello di quella della politica. Questo è il punto. Gli scienziati incontrano enormi difficoltà a parlare con i politici. I primi parlano di migliaia, milioni di anni. I secondi di mandati, quindi di quattro-cinque anni. L'incontro tra queste due visioni è la cosa più difficile. Avete attraversato diciassette Paesi. Quale Stato, secondo lei, guiderà le politiche ambientali a Copenaghen? E quale, invece, lavorerà per mantenere le cose così come sono? Un leader? Non so, ma come ho detto prima, la voce degli Stati Uniti è sicuramente molto importante. È un Paese economicamente e demograficamente forte, ma anche altri lo sono. Ripeto, la Cina, l'India. Poi l'Europa, che faticosamente cerca una voce unica. È difficile dire chi sia il Paese-guida. Spero anche che il mio Paese, la Francia, possa fare la sua piccola parte per influenzare i Grandi. Lo spero, perlomeno. Copertina del sito 6billionothers.org. ©Good Planet


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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

Le buone nuove Eucador: la politica incontra le prostitute Esiste un paese in cui i politici incontrano le prostitute di giorno e con i pantaloni ben allacciati. E' l'Ecuador di Rafael Correa. Nello scorso settembrescorso il presidente dell'Ecuador e vari ministri del suo governo hanno pranzato con una dozzina di lavoratrici del sesso per conoscere la problematica della categoria. Dopo quell'incontro, la situazione per le donne che operano nel settore dell'offerta sessuale sta rapidamente cambiando. Il ministero della Giustizia e il ministero della Salute stanno lavorando congiuntamente con i rappresentanti della Redtrabsex, (Red de trabajadoras sexuales), rispettivamente per evitare discriminazioni per chi esercita il mestiere più vecchio del mondo e per elaborare un piano di prevenzione delle malattie a trasmissione sessuale.

Colombia: ostaggi in movimento Il Comitato internazionale della Croce Rossa porterà avanti il processo di liberazione dei due ostaggi che le Forze armate rivoluzionarie della Colombia avevano tutta l'intenzione di rilasciare già sei mesi fa, incontrando il fermo no del governo Uribe. Con il Cicr, opererà la Chiesa Cattolica. Un passo avanti in una impasse che stava solo provocando sconcerto e dolore. E mentre la Colombia attende la liberazione dei due ostaggi, alcuni dei liberati eccellenti hanno scelto di scendere in campo e impegnarsi per combattere "povertà, violenza e disuguaglianza". Sono Clara Rojas, Consuelo González, Luis Eladio Pérez, Orlando Beltrán, Jorge Géchem e Sigifredo López, i sei ostaggi liberati all'inizio del 2008, chiedono un'uscita pacifica al conflitto interno e soprattutto il perdono. Tutti indistintamente, nonostante ognuno abbia scelto un partito differente, hanno un'unica convinzione, che la forza non porti a niente, e che per uscire dalla guerra occorre dialogo e volontà di pace. "La via militare non risolve il conflitto, al contrario lo prolunga e ne acutizza le radici sociali e umane che alimentano la violenza", ha dichiarato appunto l'uirbista Géchem. Se solo il capo di stato lo ascoltasse. 16

I soldati della dittatura chiedono soldi

Guinea, che cosa accadde in settembre?

Cile, indennizzi per Al via le indagini gli assassini Onu sui massacri soldati cileni che facevano parte dell'esercito durante il tremendo periodo della dittatura del generale Augusto Pinochet riuniti in un'associazione chiedono al governo un risarcimento. Secondo il loro punto di vista sono delle vittime. Vittime della forza militare, dei superiori, ai quali obbedivano dopo aver ricevuto ordini, anche i più difficili da accettare, per non incorrere loro stessi in punizioni esemplari che potevano arrivare anche alla morte. Soffrono psicologicamente per la “discriminazione” che subiscono dagli altri cittadini che li considerano ancora oggi che la dittatura è finita, figli di un periodo sbagliato della storia. ”Da molti anni subiamo discriminazione dalla 'società' cilena. Per forza di cose noi siamo additati come assassini. E' inevitabile: eravamo militari nel periodo della dittatura e veniamo associati ai veri assassini che hanno vissuto quel periodo” racconta il leader del gruppo. Ovviamente differente la posizione delle associazioni che si battono per la verità e per la conoscenza completa di ciò che avvenne in quegli anni bui. Come ad esempio la Fundacion Victor Jara. “Ci appelliamo a tutte le persone che nel periodo della dittatura facevano parte dell'esercito. Chiediamo loro di fornire tutte le informazioni su quel periodo in modo da arrivare presto alla piena conoscenza di ciò che accadde" racconta dai suoi uffici di Santiago del Cile la presidente della Fondazione, Gloria Konig. "Il tema legato a indennizzi di qualsiasi tipo è un tema dello Stato. Solo lo Stato ha le competenze necessarie per dare risposte a queste richieste. Ovviamente è impossibile comparare sotto nessun punto di vista chi è stato assassinato da una politica di Stato, quelli che sono stati fatto "sparire". Questa è una delle responsabilità che ha lo Stato: riparare a ciò che è successo in passato. In ogni caso qualsiasi indennizzo sarà simbolico: nessuno mai potrà restituirci chi è scomparso per mano della dittatura”.

spettori delle Nazioni unite sono in Guinea per chiarire cosa sia accaduto tra il 28 e il 30 settembre scorso nella capitale Conakry. Quando la giunta militare guidata dal capitano Moussa Dadis Camara ha represso nel sangue la manifestazione dei cittadini contrari alla sua candidatura alle prossime elezioni. Annunciata dopo che lo stesso Camara, salito al potere con il golpe del dicembre 2008, aveva promesso di non presentarsi alle urne. Il bilancio della repressione è di 157 morti, oltre 1.200 feriti e decine di arrestati, tra cui i principali leader dell’opposizione, Cellou Dalein Diallo e Sidya Touré. Camara ha dichiarato che gran parte delle vittime sono state “schiacciate dalla folla”, mentre i disordini dei due giorni successivi alla manifestazione sarebbero dovuti ad “alcuni reparti dell’esercito fuori controllo”. Diverso il quadro che emerge dalle prime testimonianze raccolte dalle associazioni umanitarie. Human Rights Watch sostiene che la repressione fosse pianificata. Solo così si spiegherebbe il “via libera” concesso ai militari, che dopo la manifestazione hanno continuato con le violenze per due giorni. “È una macelleria, un massacro”, commentava incredulo un medico della capitale. Oltre ai morti, le violenze si contano a decine. L’Organizzazione per i diritti umani in Guinea, diretta da Thierno Maadjou Sow, ha raccolto testimonianze che documentano lo stupro di almeno cento donne. Tra queste, una ventina sono state portate in un luogo segreto, drogate e violentate ripetutamente. Anche il Tribunale penale internazionale ha aperto un’inchiesta. Gli ispettori dovranno valutare se si sia trattato di crimini contro l’umanità. Gli osservatori internazionali hanno segnalato la presenza in Guinea di mercenari sudafricani, che avrebbero ricevuto da Camara l'incarico di addestrare le truppe governative. Una chiara dimostrazione che la giunta militare non ha alcuna intenzione di allentare la sua stretta sul Paese.

Alessandro Grandi

Luca Rasponi

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Portfolio

Il giorno che salvò la democrazia Testo di Maso Notarianni Fotografie di Giancarlo De Bellis l sabato e la domenica passarono tra paura e sospetto. Il lunedì fu un’altra giornata difficile da dimenticare. La mattina i funerali delle vittime in piazza del Duomo, nera per la caligine, la nebbia, le anime doloranti, con centinaia di migliaia di persone appiccicate tra loro in un silenzio sovrumano, protette da decine di migliaia di operai delle fabbriche di Sesto San Giovanni, venuti in città a fare il servizio d’ordine. Era un altola’ minaccioso per chi avesse avuto intenzioni eversive”. Così Corrado Stajano racconta i funerali delle vittime della strage di Piazza Fontana. E intenzioni eversive ce ne furono tante e furono in tanti ad averle. Gli autori materiali, i fascisti. I loro protettori nelle forze dell’ordine e nei servizi segreti. I loro mandanti nelle oscurità delle logge e delle consorterie. I loro referenti nelle stanze della politica. L’Italia stava andando troppo a sinistra. Le lotte sociali che portarono a conquiste fondamentali stavano diffondendosi sempre di più. Lo Stato, per qualcuno, era in pericolo. Certamente era in pericolo la concezione dello Stato come rappresentante di una sola classe, quella ricca e borghese. Dopo la strage del 12 dicembre sarebbe dovuta partire una riforma della Costituzione repubblicana radicale. E il potere sarebbe rimasto ben saldo

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nelle mani di chi lo aveva fino allora gestito. Persino il presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, era quasi convinto a dare il via alla svolta autoritaria, alla sospensione della costituzione. "C’è un’ondata di anarchia, spesso violenta, che ci assale da ogni lato. Manca una classe politica che la sappia fronteggiare. Ogni giorno lo Stato è costretto alla capitolazione. In queste condizioni mi sono chiesto più volte se non sarebbe toccato a me il compito di prendere qualche iniziativa per la salvezza della Repubblica". Queste parole le disse proprio Saragat, a Enrico Mattei. Ma quel lunedì mattina, quel 15 dicembre, quelle centinaia di migliaia di persone furenti e disperate e quelle tute blu venute da tutto il nord Italia fecero capire che non sarebbe passata alcuna svolta autoritaria. Che non sarebbero bastate le bombe per fermare i movimenti che portarono alle grandi conquiste sociali degli anni settanta. Ci sarebbe voluto di più: una loggia massonica ben organizzata con al suo interno personaggi influenti che avrebbero agito con pazienza e nell’ombra, la proprietà di televisioni e giornali per ammansire e distrarre l’opinione pubblica propinando falsi valori. E un’altra trentina di anni.





Notizie che di solito non fanno notizia

Le buone nuove Spagna: sulle ali del vento America, il clima si fa pesante

Europa, il futuro in una cena

La siccità L’Unione europea colpisce l’America di ‘Mr. Bilderberg’ esponsabile della siccità di Guatemala, Venezuela, Ecuador, Bolivia e Argentina è un sistema di alta pressione denominato "Alta Subtropical del Caribe". Le sue correnti calde impediscono il formarsi dei giusti livelli di umidità, quindi della dovuta condensazione e delle conseguenti precipitazioni. Non piove da settimane, in alcuni casi anche mesi e l'umidità dell'aria è diminuita di circa un quarto rispetto alle medie stagionali: il tasso di umidità relativa è del 60 percento, e fino a quando non supera il 70 niente nuvole cariche di pioggia. Se la Bolivia è in stato di emergenza, i dati ecuadoriani preoccupano ancora di più: la siccità sta ormai avanzando sia sulla costa che sulla regione andina. Il presidente Rafael Correa ha stabilito un razionamento energetico e l'aumento di produzione di energia termoelettrica. L'import di diesel da Colombia e Venezuela e di energia elettrica da Bogotà e Lima è dunque in crescita. Ma si tratta di paesi a loro volta colpiti molto pesantemente dalla siccità, quindi sempre più restii a cedere le loro scorte di combustibili. Le previsioni per i prossimi due mesi non lasciano intravedere pioggia; sembra certo che le temperature resteranno al di sopra delle medie stagionali, (tra 1 e 2,5 gradi), e che l'evaporazione e la traspirazione del terreno cresceranno. Risultato: una terra sempre più secca, addio a raccolti abbondanti e occhio ai prezzi di frutta e verdura che saliranno alle stelle. I pascoli non riusciranno più a sfamare a dovere il bestiame, e la produzione di latte, carni e derivati calerà, al contrario dei prezzi. A fare il resto, la mancanza di acqua potabile. Come se non bastasse, c'è timore che a questo periodo secco seguano settimane di precipitazioni intense, di tornado e uragani. E se alcuni meteorologi minimizzano, legando questi eventi latinoamericani al fenomeno episodico e locale del Niño, tanti altri vedono in tutto ciò il risultato dell'alterazione dei cicli idrogeologici dovuta al surriscaldamento globale.

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Stella Spinelli

ella nascente Unione europea, ridisegnata dal discusso e travagliato Trattato di Lisbona, gli euro-entusiasti vedono un parallelismo con la fondazione degli Stati Uniti d’America, gli ‘Stati Uniti d’Europa’. Gli euro-scettici invece, soprattutto quelli dell’est Europa ex-comunista, scorgono inquietanti analogie con la defunta Unione sovietica: un’autorità sovranazionale burocratica e verticistica. I primi si aspettavano che come presidente permanente del nuovo Consiglio dell’Unione europea sarebbe stato scelto un George Washington, un personaggio carismatico, insomma un ‘padre fondatore’. Invece alla guida del nuovo Consiglio dell’Unione dal primo gennaio 2010 ci sarà il premier belga Herman Van Rompuy: una figura di basso profilo, grigia e manovrabile, scelta dall’élite politico-finanziaria globale. La designazione del cristiano-democratico fiammingo, infatti, è stata presa la sera del 12 novembre in una cena a porte chiuse nel Castello di Hertoginnedal, alle porte di Bruxelles: lo stesso castello, di proprietà della famiglia reale belga e in passato sede di un antico priorato religioso femminile, dove nel 1956 si tennero i primi negoziati per la creazione della Cee e dell'Euratom, embrioni dell'odierna Unione europea. A organizzare l’esclusiva e riservatissima cena, cui ha partecipato lo stesso Van Rompuy, è stato il famoso Bilderberg Club: il più potente, riservato e discusso organo decisionale privato del mondo che dal 1954 riunisce i vertici politici, finanziari, industriali, militari e mediatici dei paesi occidentali. Un semplice ‘think-tank’ secondo alcuni, una sorta di ‘governo ombra’ globale secondo altri. Stando alle indiscrezioni apparse sulla stampa belga, in particolare sul quotidiano economico De Tijd (successivamente riprese anche dal Times di Londra), durante la cena del Bilderberg il futuro presidente europeo ha dichiarato che, una volta in carica, si farà promotore di una tassa europea che l’Ue riscuoterà direttamente da tutti i cittadini europei, presentata come un provvedimento a tutela dell’ambiente.

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Benedetta Guerriero

Più della metà dell'energia prodotta in Spagna domenica 8 novembre è stata di orgine eolica. Un vero e proprio record, raggiunto in sole cinque ore e venti minuti, quando l'alba faceva capolino sulle terre iberiche. Il dato stupisce ancora di più se si pensa che domenica mattina sono stati prodotti 11.500 megawatt, una cifra equivalente a quella che forniscono 11 impianti nucleari. Il primato registrato dall'energia eolica spagnola deriva in gran parte anche dalla politica energetica, che Madrid ha centrato proprio sulla differenziazione delle fonti di produzione: il 13 percento del totale è di origine eolica, fra il 9 e il 10 percento viene dall'idraulica e il 2,5 percento dall'energia solare. La capacità produttiva degli impianti eolici può arrivare fino a 17.700 megawatt, un risultato oltre dieci volte superiore a quanto si registrava nel 1999, mentre l'obbiettivo fissato dal governo parla di arrivare a una capacità di 40.000 megawatt nel 2040.

Salvador: non è mai troppo tardi Svolta del governo salvadoreño nel caso dell'assassinio di monsignor Oscar Arnulfo Romero, ucciso dai cosiddetti squadroni della morte nel marzo del 1980. Lo stato centro americano ha ammesso per la prima volta la responsabilità della morte del sacerdote, assassinato per le sue denunce di violazione dei diritti umani nel paese, mentre stava officiando la messa il 24 marzo 1980. Alla Cidu di Washington, David Morales, direttore della Commissione dei Diritti Umani del Ministero degli Affari Esteri di El Salvador, ieri ha annunciato che il governo s'impegnerà a risarcire i danni alla Chiesa, al popolo e alla famiglia del vescovo, così da poter avviare un processo di "risanamento e dialogo nazionale". Questa inedita presa di posizione cambia radicalmente l'atteggiamento tenuto fino ad ora dal governo salvadoregno. Nel 1993, la Commissione per la Verità istituita per indagare sui crimini commessi durante la guerra civile salvadoregna, aveva concluso che l'assassinio era stato eseguito da uno squadrone della morte composto da civili e militari dell'estrema destra comandati dal maggiore Roberto D'Aubuisson. La Commissione Interamericana dei Diritti Umani già nel 2000 aveva raccomandato al governo salvadoregno di allora, che si era rifiutato di riconoscere la propria responsabilità, di avviare un'indagine giudiziaria completa, ed il risarcimento dei danni causati dal conflitto. 17


Qualcosa di personale USA

La guerra dentro Di Luca Galassi

Un giorno del 2005, in Afghanistan, James Gilligan, ingegnere dei Marine, diede le coordinate sbagliate all'artiglieria che doveva colpire un bersaglio su una collina. Solo dopo ripetuti bombardamenti si scoprì che l'artiglieria non aveva colpito una roccaforte talebana, ma un villaggio di civili, uccidendo o mutilando uomini, donne e bambini. Dopo quell'episodio, Gilligan ha lasciato l'esercito e si è unito agli Iraq Veterans Against the War. E' vittima di disturbo da stress post-traumatico. Ciò che segue sono flash della sua missione raccolti durante un'intervista a Roma. Gilligan non è stato in grado di rievocare l'episodio che, per un suo errore, costò la vita a numerosi civili innocenti. el 2001, eravamo nel mezzo di un tifone, in Thailandia. Io sono un ingegnere dei marine. Avevamo elmetti di kevlar in testa per evitare di venire colpiti dalla roba che il tifone sollevava in aria. Stavo cercando di fumare una sigaretta fuori, quando qualcuno dall'interno ci grida: ci hanno appena bombardato. E io: sei matto, chi può volare con questo tempo? E lui: no, in America. Di corsa corro tre piani di scale e alla televisione c'era l'attacco alle Torri Gemelle. Lo abbiamo visto e rivisto per un bel po'. C'era casino dappertutto in America, ma per un marine questa è la normalità. In silenzio abbiamo raggiunto le nostre stanze, impacchettato tutte le cose e tirato fuori uniformi ed equipaggiamenti, che erano ovviamente tutti di colore verde, perche' eravamo ovviamente preparati a combattere in un ambiente tropicale. Eravamo pronti per andare in guerra. ...Ci era stato detto che l'operazione Fase Bravo, quella irachena, doveva essere la ricostruzione e ricostituzione dell'esercito iracheno, della popolazione, del governo e di tutto il resto. E' divertente pensare come la nostra società, vecchia di qualche centinaio d'anni, avrebbe dovuto ricostruire una società vecchia di migliaia di anni. Cosa ne sapevamo noi, di quella società, avevamo solo pochi frammenti, pochi elementi. ...Dovevamo uccidere gli insorti, gli iracheni che volevano uccidere noi. Una sera, di guardia all'accampamento, vedo qualcuno che si muove. Tolgo la sicura al mio fucile ma la mia posizione non mi consentiva di distinguere se aveva un fucile o un bastone in mano. Non ho sparato. Non volevo farmi quindici minuti a piedi per poi verificare che colui che avrei potuto uccidere aveva semplicemente in mano un bastone per frustare le sue capre o dare una lezione a qualche figlio capriccioso. Ma neppure volevo andar lì e scoprire che aveva invece un fucile. Ciò che non volevo fare era uccidere qualcuno che era solo spaventato e stava scappando. Col senno di poi, gli avrei sparato. Col senno di poi, avrei dovuto sparargli. Col senno di poi, volevo sparargli. ...Al mio superiore piaceva dare caramelle ai bambini. Una ragazzina si avvicina, mister, mister, e lui gli dà un lecca lecca. Lei corre di fronte al blindato - una scena quasi angelica, cinematografica - e si allontana. Mi avvicino al finestrino e la osservo raggiungere un altro ragazzino, forse il fratello, che le strappa di mano il lecca lecca. Il mio sergente scende dal blindato con la pistola in mano, raggiunge il ragazzino, lo prende per il collo, lo sgrida e gli punta la pistola. E noi eravamo lì per conquistare i loro cuori e le loro menti. Anch'io ho puntato la pistola a bambini, ma da lontano, per tenerli lontani,

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perché se fossimo stati attaccati anche i bambini sarebbero morti. Ma non avrei mai pensato che qualcuno potesse farlo perchè un ragazzino aveva strappato di mano un lecca lecca a una bambina. E' stato davvero troppo. o passato sei mesi su una torretta nella recinzione di Guantanamo. Potevo vedere i prigioneri attraverso le reti di protezione. Erano stati catturati forse in qualche villaggio montano, forse in un attacco, forse mentre andavano a scuola, forse in una strada di Londra. Non ne sapevamo nulla, non potevamo sapere perche' erano lì. Per noi erano solo sospetti terroristi. In Iraq non vedevo il nemico, in Afghanistan, qualche mese dopo l'11 settembre, non vedevo il nemico, ma a Guantanamo il nemico era lì. Erano in gabbia, senza i diritti e le tutele che un normale prigioniero di guerra ha. Non erano nel loro paese, non erano soggetti alle loro proprie leggi. Avevamo contatti con la polizia militare preposta alla sicurezza, ce ne eravamo fatti amici alcuni, e le storie che uscivano erano assurde. Parlavamo di questa o quella ragazza, quella bella figa che entrava nella base. Alcuni di loro dicevano: sono veramente toste coi prigionieri. E io: in che senso scusa? Nel senso che gli si è avvicinata e ha tirato fuori le tette e le ha strofinate sulla faccia dei prigionieri. E io: davvero? Ma... che senso ha? Abbattere il loro morale, ho capito, ma è assurdo vedere queste giovani appena ventenni e pensare che sono loro che fanno gli interrogatori. Una volta un detenuto stava cercando di fare qualcosa, di avvicinarsi, e una di loro gli ha aizzato i cani contro. Poi ricordo racconti di interrogatori con musica a tutto volume per abbattere il loro morale. I trattamenti erano disumani. Ancora oggi mi chiedo: perchè? Occupazione, occupazione, niente guerra, niente ricerche o protezione, solo occupazione. ...Quando il disordine da stress post traumatico è cominciato ho avuto un mucchio di incubi, una volta sono rimasto col pensiero assente per un intero pomeriggio. Ho avuto anche un episodio di cecità, al risveglio sotto il sole afghano. Non vedevo più, ho cominciato a urlare. Da lì è iniziato il calvario. Mancanza di equilibrio, mal di testa. Attacchi di panico. Non c'è più nulla che tenga insieme i pezzi. E' così che il cervello parte. Disordine da stress post-traumatico. La mia malattia si chiama così.

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Un militare Usa reduce dall’Afghanistan. Vicenza, Italia 2007. Luca Galassi ©PeaceReporter


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La storia Spagna

L’immagine lavata di Huelva Di Vincenzo Bruno

Una delle imprese più inquinanti del polo chimico, Fertiberia, chiude per crisi e la città è sul bordo di un collasso ecologico. Intanto sono scarsi i segnali tanto dagli ambienti politici che da quelli imprenditoriali illeduecento ettari che accolgono più di cento milioni di tonnellate di fosfogesso più altre centotrenta di ceneri radioattive, queste ultime versate “accidentalmente” nel maggio 1998 dall’azienda Acerimox. Una delle discariche di rifiuti urbani industriali forse più grandi al mondo dislocati ad un chilometro dal centro cittadino e a meno di cinquecento metri dal quartiere più periferico della città. Una preziosissima biosfera marino-terrestre, la marisma del Rio Tinto, spazzata via dalla speculazione manageriale e una popolazione costretta a convivere giorno e notte con uno dei tassi di mortalità per cancro polmonare più alti di Europa, a cui s’aggiungono patologie in numero sempre più crescente di tiroide atipica, disturbi delle vie respiratorie, malformazioni e alterazioni del sistema riprodutttivo umano. Questa è Huelva, saltata ormai alle cronache mondiali non solo per i numerosi dossier d’inchiesta aperti sul suo polo chimico dalla Commissione Europea e da schiere di organizzazioni ecologiste, ma anche per i casi altrettanto clamorosi di morte da sostanze tossiche presenti nei campi, nell’aria e nell’acqua e a cui gli studiosi si riferiscono col termine inequivoco di “sindrome di Huelva” . Adesso a parlare ci pensa Pedro Jimenez, portavoce della “Plataforma Mesa de la Ria”, da anni in prima linea contro le attività contaminanti di varie aziende spagnole e internazionali (Fertiberia, Cepsa e altre). La settimana scorsa la sua ong ha strappato un “sì” al Peti (Committee on Petitions of European Parliament) all’invito di fine anno sulla verifica della nuova situazione medioambientale della città andalusa, in particolar modo il reparto nove in cui sono stipate le ceneri radioattive. Attraverso una petizione firmata dalla propria “Mesa de la Ria”, Izquierda Unida e venticinquemila cittadini - un sesto della popolazione locale - si esige infatti, in linea con la normativa comunitaria vigente, uno stop immediato alla produzione da parte delle imprese contaminanti come Fertiberia, il trasporto fuori sede delle settemila tonnellate di ceneri contenenti il tossico cesio 137 e l’apertura di una nuova e veritiera indagine sul livello di mortalità per tumore dopo le non recenti ma sconvolgenti rivelazioni dello studio dell’Università Carlo III di Madrid, o quello del 2007 realizzato dal laboratorio del Criirad per conto di Greenpeace Spagna. In un'intervista-denuncia Jimenez punta il dito contro tutti gli attori politici in scena a Huelva, primo tra tutti Javier Barrero, deputato socialista che scalpitò non poco quando informato dell’incontro tra gli alti organi istituzionali europei e i rappresentanti delle varie ong e associazioni ambientaliste. “Hanno preso posizioni di parte” conferendo “una cattiva

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immagine della provincia di Huelva in termini di contaminazione” le ragioni del deputato, mentre Jimenez parla di “campagna di lavaggio d’immagine” e accusa dirigenti politici e aziendali di essere stati bravi a scendere in piazza nel 2004 con slogan e voci grosse contro la chiusura delle fabbriche e la perdita di posti di lavoro, mentre sembrano non conoscersi affatto, oggi, ma preoccuparsi solo “dell’Europa che gli sta scappando dalle mani”. Jimenez si associa, inoltre, alle ultime dichiarazioni di Wwf e Greenpeace durante la presentazione dell’appello d’immediata esecuzione della sentenza della Audiencia Nacional con cui si dichiara estinto il diritto di Fertiberia e si pretende la decontaminazione dei terreni industriali e la restituzione di quelli dati in gestione. E quando a Jimenez viene puntualizzato che Fertiberia ha già annunciato la diminuzione della produzione di sei mesi, il portavoce chiarisce che ciò non risponde a esigenze di contaminazione ma di marketing, poiché Fertiberia “non riesce a collocare sul mercato le scorte di produzione non vendute”. a una parte, dunque, le associazioni ecologiste che si lamentano di una chiusura di cancelli o macchinari che tarda a venire nonostante la sentenza sia stata pronunciata nel 2003 e il Consejo de Seguridad Nuclear stimi in circa tre milioni annui i residui di fosfogesso sfornati ancora da Fertiberia; dall’altra le mezze affermazioni e le piene titubanze dell’impresa di fertilizzanti agricoli. L’azienda ispano-algerina dovrà di fatto sborsare qualcosa come quattordici milioni di euro per un piano di uscita economica dai costi sociali elevati. In attesa del dicembre 2012 – data ancora da confermare ma che siglerebbe la chiusura definitiva dei depositi di fosfogesso – la stessa Fertiberia dalle pagine del suo sito avverte degli effetti collaterali sulla crescita agricola e il raccolto con cui faranno i conti i rivenditori ma soprattutto gli agricoltori a causa di questa diminuzione dei fertilizzanti imposta dall’alto. L’azienda, chiusa per crisi, è in attesa di implementare un progetto di riconversione ambientale delle aree esposte alle balse di fosfogesso dal costo di oltre tre milioni di euro, mentre un nuovo assetto interno alla fabbrica, con conseguente ridimensionamento dei lavoratori, inaugurerà un’altra stagione di licenziamenti forzosi all’ombra di una crisi tutt’altro che dissipata.

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In alto: Lavori di bonifica. In basso: Negli stabilimenti chimici della Fertiberia Archivio PeaceReporter


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Italia

Piazza Fontana Di Aldo Giannuli

A quarant’anni di distanza - e dopo il naufragio dell’inchiesta Salvini - ci chiediamo: cosa c’è da dire ancora su Piazza Fontana? Potremmo cavarcela con il salomonico giudizio: “La verità processuale manca, ma la verità storica c’è” e piantarla una volta per tutte. n fondo, stragi ed episodi di altrettanta gravità non mancano nella storia del nostro ameno paese e, in genere, il responso è lo stesso: verità processuale zero, verità storica forse c’è. E la stragrande maggioranza di quelle date non vengono ricordate: cosa vi dicono nomi di località come Bellolampo, Cima Vallona, Prato Stelvio, Savona? Sono altrettante stragi di cui si è semplicemente perso il ricordo. E anche quelle più “note” (Peteano, Brescia, via Fatebenefratelli, Italicus, ecc.) sono solo un’eco lontano, per chi ha l’età per ricordarsene. Ed allora cosa ha di speciale Piazza Fontana? La deformazione professionale mi induce a dire: è una “data periodizzante”. In termini più spicci: un avvenimento dopo il quale nulla è più stato come prima. Volendo usare un argomento suggestivo, Piazza Fontana geometricamente è quasi il punto massimo della parabola della Prima Repubblica: si colloca a 270 mesi dal 2 giugno 1946 (data di nascita della Repubblica) ed a 280 dal 18 aprile 1993 (il referendum che ne segna la fine): quel che ci fa “vedere” come, dopo quel giorno, è iniziata la parabola discendente della Repubblica. Un degrado continuo e costante il cui punto di approdo è stata proprio l’avvio di quella riforma delle istituzioni auspicata da chi usò quella strage per promuovere una svolta reazionaria. Quel disegno, nell’immediato fallì: le lotte sociali non rifluirono, la pressione elettorale della sinistra proseguì, il disegno del golpe e quello della riforma presidenziale vennero battuti. Dunque, l’assalto alla democrazia non riuscì. Ma iniziò la lenta corrosione dall’interno. I corpi di polizia (tutti, senza eccezioni) e i servizi segreti fecero a “gara di depistaggi”, la magistratura dimostrò subito di avere pochissima voglia di fare chiarezza, la stampa iniziò a mettere la sordina sul tema man mano che Br e consimili davano il loro contributo a far degenerare la situazione. Ma, quel che è peggio, il sistema politico risolse la questione con un “patto del silenzio”: nessuna commissione parlamentare di inchiesta, nessuna pressione sulla magistratura perché facesse il suo dovere, nessuna epurazione degli apparati di sicurezza. E nessuno disse quel che sapeva. Tacquero i democristiani: chi per vergogna, chi per viltà, chi per opportunismo, chi per non potersi confessare complice. Tacquero i repubblicani e i liberali, forse per far dimenticare di aver assecondato indegnamente la campagna reazionaria di quei giorni di sangue. Tacquero i socialisti: interessati, più che alla verità, a garantirsi spazi ministeriali e assessorili e stretti, come erano, nella morsa del “compromesso storico”, non ebbero il coraggio di andare controcorrente.

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Ma tacquero anche i comunisti, e questo è molto più grave: tesi ad ottenere la piena legittimazione nel sistema, non vollero rischiare rotture irrimediabili con la Dc e, temendo di dar altra esca al divampare del partito armato, preferirono seppellire nei loro archivi quei brandelli di verità di cui erano al corrente. Del Msi non mette neppure conto parlare. Non tacquero radicali e demoproletari, ma sapevano poco e contavano meno. utti, prima o poi pagarono quel silenzio. Moro nel modo più atroce, chiamato a rispondere davanti al sedicente “tribunale” delle Br e abbandonato da tutti i suoi amici che temettero quel che avrebbe potuto dire su quegli argomenti. Il Pci fu ripagato, per la sua amnistia alla Dc e agli apparati, con un quindicennio di totale emarginazione. La dialettica maggioranza opposizione ne fu stravolta, l’inerzia della magistratura assicurò che nessuno avrebbe disturbato gli “affari di Stato“ (o di partito) per cui tutti potettero imboccare con inconsapevole baldanza la strada di Tangentopoli, che li avrebbe portati al crollo in poco più di un decennio. La Dc ne trasse momentaneo giovamento, ma si ridusse a un coacervo di comitati d’affari, sazi del proprio potere, ma privi di ogni disegno politico. I socialisti furono momentaneamente più fortunati ancora e conobbero la loro migliore stagione, ma, facendosi assorbire nella palude tangentopolitana e - senza il retroterra organizzativo e di potere di Pci e Dc - furono quelli che pagarono senza sconti e anche per altri. Il patto del silenzio sacrificò verità e giustizia, ma non portò alcuna fortuna ai suoi contraenti e, soprattutto, fu nefasto per la democrazia nel nostro paese. Piazza Fontana, insieme ad altri tre o quattro eventi, come il caso Moro, è una delle chiavi di volta per capire perché ci troviamo qui e ora a questo punto, con una sinistra esaurita e priva di proposte e militanza, in balia di una destra populista e reazionaria, molto peggiore della Dc. Ricostruire quei passaggi, sciogliere quei nodi, acquisire consapevolezza di quei processi politici è il punto di partenza per cominciare a risalire. E per questo, ancora oggi, Piazza Fontana non è argomento da celebrazioni o anniversari mummificati, ma nervo scoperto del dibattito politico.

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Agenti di P.S. osservano lo squarcio provocato dallo scoppio della bomba nel salone della Banca Nazionale dell' Agricoltura a Milano il 12 dicembre 1969. Archivio Ansa


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La novità

Guerra alla terra Di PeaceReporter

È in libreria Guerra alla Terra, pubblicato da Edizioni Ambiente nella collana VerdeNero Inchieste, un testo che cerca di analizzare i conflitti nel mondo per la conquista delle risorse. La prefazione è di Gino Strada, fondatore di Emergency, l'associazione cui andrà parte del ricavato delle vendite. L'introduzione è del direttore di PeaceReporter, Maso Notarianni. In omaggio il ibro a chi sottoscrive un abbonamento da sostenitore al mensile giornalisti di PeaceReporter raccontano cinque storie di paesi che lottano per mantenere le loro risorse all'interno del territorio. Le materie prime servono a produrre beni e servizi utili alla società ma non sono infinite e nemmeno equamente distribuite. In molti casi, le risorse che garantiscono gli elevati standard di vita alla parte ricca e pacifica del mondo si trovano in quella povera e squassata da guerre e conflitti sociali. Guerra alla Terra è un'incursione giornalistica in quelle zone di conflitto. Christian Elia ci racconta il tema dell'acqua nel conflitto Israelo-Palestinese: "Le mani di Bassam sembrano di cartapesta. La pelle rosolata, costellata di macchie, come in una vecchia carta geografica. La mappa di una terra divisa come quella dov'è nato, la Palestina. Bassam rovista in un vecchio mobile di legno dove ci sono delle fotografie. Sorride, ne tira fuori una. «Ecco, l'ho trovata », annuncia contento, oggetto dello sguardo divertito del figlio e di quello dolce della moglie. «Questo sono io, quando facevo il battelliere sul Giordano» dice Bassam. «Erano gli anni Cinquanta, portavo i pellegrini in visita nella mia Palestina. Io musulmano, nella mia barca di legno, con ebrei e cristiani a raccontare i luoghi della Bibbia,del Corano e della tradizione ebraica. Non ci trovavo niente di male, anzi. Gesù lo rispettiamo anche noi sa? E poi gli sono grato, perché ha deciso di farsi battezzare proprio sul fiume dove io portavo i pellegrini, quindi mi ha dato di che sfamare i miei figli per anni» dice con un sorriso..." Alessandro Grandi ci porta in Bolivia, dove il Litio potrebbe essere al centro di un nuovo conflitto. "Avrebbe tutte le carte in regola per essere uno dei paesi più ricchi del continente americano, e invece la Bolivia è da sempre il fanalino di coda delle economie latinoamericane. Gran parte della popolazione, soprattutto nelle zone rurali, vive con una manciata di dollari al giorno. E nelle città la gente non se la passa meglio: la mancanza di lavoro e la massiccia immigrazione giunta dalle campagne hanno reso le metropoli praticamente invivibili, aride di speranza per il futuro dei nuovi arrivati. Lo spietato sfruttamento delle risorse naturali, avvenuto soprattutto nel corso della seconda metà del Novecento da parte delle grandi multinazionali straniere è una delle cause della miseria. Grazie alla complicità

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di governi compiacenti, le compagnie hanno fatto man bassa di acqua, gas, legno e terra, lasciando la Bolivia praticamente sottosviluppata. Ma non solo questa nazione andina ha risentito dello sfruttamento indiscriminato delle grandi potenze commerciali mondiali..." Matteo Fagotto ci parla del petrolio in Nigeria: "Sono cinquant'anni che facciamo uscire il petrolio dai nostri pozzi senza vedere un dollaro. L'unica cosa che abbonda qui sono l'inquinamento e i pestaggi dei poliziotti. Non possiamo più andare avanti così». Nwanko P., un autista che vive a Port Harcourt a due passi dagli impianti petroliferi situati nel Delta del fiume Niger, nella Nigeria meridionale, riassumeva in questo modo, appena due anni fa, tutta la frustrazione di una popolazione che, finora, dello sfruttamento petrolifero ha conosciuto solo il lato peggiore. L'attività estrattiva, che in cinquant'anni ha permesso alla Nigeria di guadagnare qualcosa come 600 miliardi di dollari, non è andata a beneficio della popolazione civile, ma ha al contrario favorito la corruzione, uno sviluppo distorto dell'economia e l'inquinamento dell'intero Delta, estendendo i suoi effetti anche a livello politico..." Cecilia Strada afronta il tema del territorio strategicamente fondamentale dell'Afghanistan: "Sono tanti i ragazzini che saltano in aria sulle mine o su ordigni inesplosi nelle periferie della capitale afgana mentre portano a pascolare le loro greggi, alla faccia del paese più libero e sicuro promesso dagli occidentali nel 2001. Molti kuchi infatti non sono più nomadi. Sono diventati stanziali e sono rimasti pochissimi quelli che migrano. D'altronde non avevano molte altre possibilità con la guerra. I kuchi attraversano l'Afghanistan da nord a sud passando per il Panjshir, la pianura Shomalì, Kabul e poi giù verso Jalalabad. Ma la guerra crea sempre problemi ai nomadi, perché taglia le strade con la linea del fronte, con i combattimenti e con le mine che lascia a terra. Alla fine moltissimi di loro hanno deciso di fermarsi a vivere nelle periferie delle città, dove però non c'è lavoro per tutti, e solo qualcosa alla giornata. Sopravvivono come possono, con quattro pecore e un asino. E poi magari finiscono sopra una mina, insieme ai ragazzini che girano cercando materiale da rivendere, o qualche cosa da mangiare. Le carovane colorate di ieri, i disperati fra le macerie di oggi..."


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Rubriche

A teatro di Silvia Del Pozzo

A teatro con impegno In tivù di Sergio Lotti

La lezione africana

Piazza Fontana, quarant'anni più tardi Milano, 12 dicembre 1969. A metà pomeriggio la Banca Nazionale dell'Agricoltura in Piazza Fontana è ancora affollata per le contrattazioni del mercato agricolo e del bestiame, che per tradizione si tengono di venerdì. Alle 16 e 37, nel salone principale dell'edificio, esplode una bomba collocata per provocare il più alto numero di vittime: al piano terra, sotto il tavolo che si trova al centro della stanza, di fronte agli sportelli. Il bilancio finale è di 17 morti e decine di feriti. L'esplosione segna l'inizio della strategia della tensione e apre il sipario sui dieci anni più controversi e bui della più recente storia italiana. Piazza Fontana di Francesco Barilli e Matteo Fenoglio prefazione di Aldo Giannuli Edizioni BeccoGiallo beccogiallo.it

Quella strage, quelle trame antidemocratiche, imposero alla democrazia italiana una prova da superare: saper guardare dentro a se stessa e guarire dal suo male o accettare di conviverci e farsene consumare. Quella prova la democrazia italiana non ha saputo superarla: c'è un debito di verità e giustizia da assolvere, ma la Repubblica non è mai riuscita a saldarlo. dalla prefazione di Aldo Giannuli Questo ora è il nostro compito: continuare a raccontare la storia di Piazza Fontana per consegnare il testimone della memoria alle future generazioni. Francesca Dendena, figlia di Pietro, morto nella strage

Immaginiamo uno che davanti alle telecamere chiede a un passante: scusa, quanto ci metti a percorrere a piedi i due chilometri che separano la tua abitazione dall’ufficio? Un’ora, risponde. Allora da domani ci dovrai mettere dieci minuti, altrimenti te ne puoi stare a casa. Perché, mi date un motorino e un apposito parcheggio, chiede il passante? Niente affatto, andrai lo stesso a piedi, e se protesti ti togliamo anche le scarpe. Chiunque di noi si comportasse così verrebbe preso per scemo, oppure i telespettatori penserebbero di assistere a una gag mal riuscita. Invece i ministri e leader politici della maggioranza che ai microfoni dei telegiornali reclamano processi della durata non superiore ai due anni per ogni grado di giudizio fanno la loro bella figura. Il presidente dei deputati leghisti Roberto Cota, con espressione intensa da padre costituente, si è spinto a dichiarare che oltre i due anni non c’è giustizia per il cittadino, dimenticando casualmente di dire con quali mezzi i magistrati, che hanno per le mani duemila pratiche processuali a testa e devono comprarsi a loro spese gli scaffali per non vederle finire ammassate nelle latrine, potrebbero dare una mossa ai dibattimenti. Ma siccome non si trattava di una gag, si deve pensare che Cota, come molti suoi colleghi, sia incappato nel solito giornalista malevolo che non fa le domande giuste e non dà il debito spazio alle risposte. Per fortuna ogni tanto c’è qualcuno che alza il livello, come Roberto Saviano, che in una puntata di Che tempo che fa ha dipinto un quadro assai istruttivo di Castel Volturno e della sua pineta, una delle più belle aree del mondo alla foce del Volturno, devastata dal cemento, dai drenaggi di sabbia, dalle discariche e dagli spari della camorra di Casal di Principe. Qui, nel silenzio generale delle autorità e nella rassegnazione dei cittadini, si uccidevano tre persone al mese, finché sotto il fuoco dei casalesi non sono caduti sei africani. Allora la comunità africana locale, una delle più numerose in Europa, ha reagito duramente e per la prima volta la camorra è stata costretta a fare un passo indietro. Altro che documenti in regola. Un modo per farci sapere, osserva Saviano, che gli immigrati ormai non si limitano più a fare i lavori che noi rifiutiamo, ma difendono anche i diritti che noi abbiamo rinunciato a difendere. Mentre in televisione si discute ancora se candidare o no i politici legati alle mafie.

Si sente spesso dire, e si legge, che la maggior parte degli italiani, soprattutto i più giovani e i middle age, guardi con poco interesse alle vicende politiche del nostro paese. Che i signori del potere suscitino indifferenza se non fastidio, che a sentir parlare di scandali, corruzioni, scontri tra istituzioni guardino da un’altra parte. E vogliano altro, almeno la sera quando magari vanno a teatro, che li distragga e diverta. Eppure sono molti gli spettacoli che questa stagione offrono, conditi più o meno in salsa di satira, sostanziosi menu di cronaca e riflessione politica. Con sale sempre stracolme. Perché se è vero, come suggerisce il polemista Marco Travaglio nel suo show “Promemoria”, che la gente dimentica e dalla storia “nessuno impara mai niente”, sembra ci sia però anche una gran voglia di farsi rinfrescare la memoria. E Travaglio (in scena) srotola quindici anni di “storia d’Italia ai confini della realtà” (dal ’92 al 2007) in sette quadri più un epilogo, ricordandoci in quadretti molti ironici cosa sono stati Tangentopoli, le stragi di mafia, e poi Craxi e Gelli, Berlusconi e le sue leggi ad personam, gli “inciuci” vari, le gaffes, le bugie, insomma “l’Italia dell’eterno Gattopardo… che pure ha conosciuto anche grandi cambiamenti e grandi uomini”. Un altro giornalista di fama, Gian Antonio Stella, racconta da par suo “Un paese di gente per bene”, attraverso storie stupefacenti, aneddoti anche spassosi, “cifre da bancarotta”, notizie inedite su un’Italia, secondo lui, ormai alla deriva. In scena, a fianco di Bebo Storti, l’inviato del “Corriere della sera” rielabora stralci da due suoi best seller, “La casta” (2007) e “La deriva” (2008), intervallati da siparietti musicali ad opera di Gualtiero Bertelli. Precede i due giornalisti sullo stesso palcoscenico milanese dello Smeraldo, quell’affabulatore consumato che è il veneto Marco Paolini , e racconta in forma di ballata i nuovi “Miserabili”, ovvero “io e Margaret Thatcher”. Cioè le vittime del mercato, in un intreccio di macro e micro economia, con le ricette e le delusioni del nostro passato prossimo, un presente vissuto senza memoria e un futuro immaginato senza progetto. Milano, Teatro Smeraldo (tel. 02 29006767): “I miserabili” dal 10 al 13/12; “Un paese di gente per bene” 14 e 15/12; “Promemoria” dal 18 al 20/12.

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Al cinema di Nicola Falcinella

Welcome L’immigrazione clandestina ci chiama in causa, ci costringe a scegliere e agire. Non invita alla delazione o al menefreghismo, ma alla presa di coscienza, al porsi domande: semplicemente al comportarsi da esseri umani. È “Welcome”, il film di Philippe Lioret premio del pubblico al Festival di Berlino 2009 che può ripetere l’exploit di pubblico de “L’ospite inatteso” lo scorso inverno. Una storia in apparenza come tante ma con una componente di verità e di sogno, di follia e di amore, molto ben recitata e diretta con mano ferma, con conoscenza di causa e capacità di toccare corde diverse con grande misura. Bilal (Firat Ayverdi) è un ragazzo curdo che attraversa l'Europa da clandestino nella speranza di raggiungere la sua ragazza da poco emigrata in Gran Bretagna con la famiglia. Arrivato a Calais, cerca di completare il viaggio nascondendosi dentro un tir ma la sua claustrofobia finisce col tradire lui e i compagni d’avventura. Decide di sfruttare le sue doti fisiche (lo chiamano “il corridore” e sogna di giocare a calcio in Inghilterra) per imparare a nuotare e traversare la Manica. L’istruttore Simon (un misurato Vincent Lindon), dopo le prime schermaglie, si prende a cuore il caso e lo allena, occupandosi di Bilal come se fosse suo figlio. Intanto la polizia francese effettua una caccia al clandestino e l’uomo trova nel divorzio dalla moglie volontaria in un centro d’accoglienza una ragione in più per

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sostenere il sogno d’amore e speranza di Bilal. Dopo le polemiche (e le interrogazioni parlamentari) legate a un epiteto rivolto ad Alessandra Mussolini, che la deputata si è “meritata” con le sue affermazioni razziste contro i romeni, arriva “Francesca” di Bobby Paunescu. Siamo a inizio 2008, nel pieno delle polemiche tra Italia e Romania dopo l’omicidio Reggiani a Roma: una trentenne maestra d’asilo di Bucarest progetta di venire in Italia ma tutti la sconsigliano. La pellicola di Paunescu (cresciuto a Milano) non è tenera verso nessuno e si inserisce nella nuova onda balcanica, senza però raggiungere le vette dei suoi connazionali Puiu (qui coproduttore) e Mungiu.

In libreria di Licia Lanza

Tre tazze di tè di Greg Mortenson e David Oliver Relin Settembre 1993, Karakoram pakistano, l’alpinistainfermiere americano Greg Mortenson è a seicento metri dalla vetta del K2 ma si perde ed è costretto a tornare indietro. Si dirige verso Askole ma a stento trova Korphe, villaggio sperduto non segnato su alcuna mappa. Accolto e ristorato nella casa del capo villaggio, Greg impiega sette settimane a riprendere le forze, giorni in cui gli abitanti si prendono cura di lui, i bambini lo accompagnano nelle sue passeggiate e lui cerca di sdebitarsi medicando ferite ed aggiustando ossa rotte. Quando il “dottor Greg” si imbatte in ottantadue bambini inginocchiati sul terreno gelato, all’aperto e li vede tracciare operazioni di matematica per terra, decide di contraccambiare la loro straordinaria accoglienza costruendo una scuola per tutti i figli del villaggio. È così che inizia la straordinaria odissea di un uomo che per mantenere fede alla sua promessa cambierà totalmente la sua vita, mettendo in gioco lavoro, amici, persino la sua casa – arriverà a dormire in macchina per risparmiare il denaro necessario – e sfidando chi in patria lo accusava di voler istruire “futuri terroristi”. Oggi tra Pakistan e Afghanistan ci sono più di


50 scuole costruite da Greg Mortenson, più di trentamila bambine e bambini hanno potuto ricevere un’istruzione, dimostrando che violenza e terrore non si combattono con le bombe ma con il dialogo e la cultura, sconfiggendo il terrorismo una scuola alla volta. Oggi Greg Mortenson è a capo di una delle Ong più attive del mondo, il “Central Asia Institute”, che cerca la pace promuovendo l’istruzione, con una particolare attenzione alle bambine. Rizzoli, 2009, pagg. 486,

9,80

come attore (non è un debutto perché il debutto avvenne, con successo, con ‘Ogni cosa è illuminata’ di Elijah Wood). La musica dei Gogol Bordello è una patchanka che miscela melopee gitane e scansioni punk. Eugene dice di essere stato influenzato dal pensiero del filosofo gitano ucraino Vladimir Bambula, sicuramente la sua musica è stata influenzata da ripetuti ascolti di quella di Adriano Celentano. Chi non ha mai ascoltato il sound di questa band trova in questo cd, registrato dal vivo, un ottimo Bignami. Chi già lo conosce trova tracce inedite (tra cui alcuni brani registrati durante le BBC Sessions del marzo 2008, per la trasmissione “In the company of “ con Colin Murray). La dimensione live è sempre stata uno dei punti di forza della band, con performance bizzarre, infinite e scatenate. Lo testimonia con fedeltà il dvd allegato al cd audio, la registrazione di un live all’Irving Plaza. Dopo averlo visto è automatico cercare su internet la prima data in cui si esibiranno dalle parti di casa vostra….

In rete di Arturo Di Corinto

Musica di Claudio Agostoni

Gogol Bordello “Live from Axis Mundi” Side One Dummy La storia di Eugene Hutz, front man dei Gogol Bordello, è quella di un irrequieto figlio della dissoluzione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Nato 37 anni fa a Chernobyl, “dopo il botto cittadino della centrale” (il virgolettato è estrapolato da una chiacchierata che abbiamo avuto con lui) si è dedicato “a girare il mondo usufruendo dei campi profughi istituiti per i rifugiati”. Ha soggiornato in quelli polacchi, in quelli austriaci e anche in quelli italiani. Un anno passato tra Roma, Palestrina e Santa Marinella lavando i vetri delle macchine, lavorando in un’enoteca e suonando nelle piazze. Si è poi trasferito a New York dove, dopo una breve esperienza come “trand setting fashion model”, ha intrapreso la carriera artistica, partendo dal sottobosco della Grande Mela. Prima dj al mitico Bulgarian Bar di New York e poi front man della band di gipsy punk che l’ha reso famoso in tutto il mondo. Una fama che ha spinto Madonna, alle prese con la sua prima regia cinematografica, ad ingaggiarlo

Buon Compleanno, Internet! Internet ha compiuto quarant'anni. E oggi rappresenta la più grande agorà pubblica della storia dell'umanità. Tuttavia è ancora poco conosciuta e sono in troppi a credere, sbagliando, che fu progettata per essere un’arma. Perciò eccovi la sua storia. Quarant’anni fa, Il 29 ottobre del 1969 veniva effettuata la prima connessione fra due computer remoti, uno all'Università della California, Los Angeles, l'altro all'Università di Stanford a Palo Alto. Due erano le grandi novità di questa rete, il packet switching, l'idea di spezzettare le informazioni che viaggiano in rete come fossero i vagoni di un trenino che a ogni ostacolo trovano da soli la strada per aggirarlo e ricongiungersi a destinazione, l'altra, l'uso degli Imp, computer intermedi per instradare questi pacchettivagoncini. Il risultato fu che una rete così pensata era indifferente a interruzioni di percorso dovute al malfunzionamento di uno dei suoi nodi. Il progetto di questa rete di computer, l’Intergalatic Network, che avrebbe successivamente collegato fra di loro vari centri di ricerca, pubblici e privati, militari e accademici, era finanziato dall'agenzia di ricerca del Dipartimento americano della Difesa, l'Arpa, e da qui nacque la leggenda per cui Internet fosse nata come un'arma per le funzioni di comando e controllo dell'esercito americano. Ma, al contrario del compu-

ter, il cui potenziale bellico fu chiaro dalle origini - i primi prototipi di quelli attuali servivano a calcolare la traiettoria dei proiettili lanciati dalle navi da guerra americane e computer erano chiamate le impiegate che facevano questi calcoli - l'obiettivo della rete dell'Arpa era di collocare meglio le risorse scientifiche esistenti, e superare la paura di un paese che con il lancio dello Sputnik russo del 1957 temeva di perdere la guerra fredda. Coloro che si succedettero alla guida di questo ambizioso progetto non erano militari ma accademici, due su tre erano psicologi e seguaci delle teorie dell'informazione del nobel Claude Shannon. Per loro Internet, che all'epoca si chiamava ancora Arpanet, doveva essere un dispositivo di comunicazione aperto. Le tappe fondamentali dell’evoluzione di Internet, hanno a che fare però con il fermento culturale degli anni '60 e '70 quando hacker e ricercatori diedero vita al free speech movement e alle prime manifestazioni studentesche contro la guerra del Vietnam. L’etica hacker predicava l’accesso illimitato a tutto ciò che ti può insegnare qualcosa sul mondo, il loro slogan era “Information wants to be free”. Nel 1971, Ray Tomlinson inventerà la posta elettronica; nel 1973 Vinton Cerf e Bob Kahn proporranno di usare il protocollo TCP/IP per fare comunicare fra di loro in maniera efficiente i diversi computer collegati in rete mentre gli hacker del MIT e dell’Homebrew Computer Club si dedicavano a migliorare i personal computer e cominciavano a usarla per connettere le persone, più che le macchine, come aveva presagito il primo direttore del progetto, JR Licklider: “Fra quarant'anni avremo più tastiere che matite”, amava dire. Nel 1977 fa la sua comparsa il modem (modulatordemodulator) per consentire ai singoli Pc di connettersi in rete ed è l’anno in cui arriva alle masse in scatola di montaggio l’Apple II di Steve Jobs e Steve Wozniack. Nel 1978 viene inviato il primo messaggio pubblicitario non richiesto, subito definito Spam (che indicava un tipo di carne in scatola di scarsa qualità). A mandarlo a seicento indirizzi Arpanet fu un tale di nome Gary Thuerk. Nel 1979 nasce Usenet a opera di due laureati del Nord Carolina, un’immensa bacheca elettronica che organizzava in gerarchie di interessi i messaggi che gli utenti si scambiavano in rete. Il 1982 è l’anno dell’emoticon (emotional icon) più famoso , ad opera di Scott Fahlman. La rete viene divisa in Arpa-Internet e Milnet nel 1983, la chat è del 1988, nel 1991 viene creata la prima pagina web, nel 1993 si afferma il motore di ricerca Mosaic. I weblog, cioè i Blog, i diari aperti nascono da un’idea di Justin Hall ma devono il loro nome a Johm Barger, nel 1997. Facebook è del 2004, Youtube del 2005, e nel 2009 con le proteste iraniane su Internet il cerchio si chiude. Internet si afferma come un mezzo di comunicazione globale per chiedere pace e democrazia. Per questo Wired, la bibbia del mondo digitale ha appena fatto una proposta: candidare Internet a Nobel per la pace. Alla faccia di chi dice ancora che doveva essere uno strumento per fare la guerra. http://www.guardian.co.uk/technology/interactive/2009/oct/23/internet-arpanet 29


Per saperne di più EMIRATI ARABI LIBRI I. CAMERA D’AFFLITTO E MARIA AVINO, «Perle degli Emirati», Jouvence editore, 2009 Una raccolta di autori degli Emirati Arabi Uniti dove l’interesse letterario, per una volta, finisce quasi in secondo piano rispetto a una narrativa giovane come il Paese che l’ha prodotta. A metà degli anni Settanta, di pari passo con il boom economico che ha stravolto questo antico borgo di pescatori, nasce una produzione letteraria che narra (privilegiando il racconto breve) lo straniamento prodotto dall’arrivo impetuoso della modernità in una società legata da secoli alle sue tradizioni. WALTER SITI, «Il canto del diavolo», Rizzoli editore, 2009 Il racconto di un viaggio, tra diario e reportage. Le esperienze e le impressioni personali s’intrecciano alla descrizione di Dubai e, relativamente, a quella degli altri Emirati. Lo stupore rispetto a un luogo dove i tempi sono scanditi dallo shopping e dove l’idea stessa di città è stata accantonata a favore di uno sviluppo edilizio finalizzato allo stupor mundi. Un libro un po’ troppo abitato da stereotipi, ma un buono strumento per il viaggiatore nell’avventura della ricerca dell’anima, magari nascosta, di Dubai. ABDUL AL-RAHMAN MUNIF, Città di sale, (trad. it. Parziale), Baldini e Castoldi, Milano 2007 Il grande scrittore di padre saudita e madre irachena racconta, in questo affresco, lo sconvolgimento della società beduina di fronte all’urbanizzazione dovuta alla ricchezza improvvisa che ha travolto il Golfo Persico dopo la scoperta del petrolio. Una denuncia forte del dispotismo delle famiglie regnanti e della cultura schiavista di quelle società. Morto nel 2004, Munif venne privato della cittadinanza saudita.

FILM HANI AL-SHAIBHANI, «Al Hilm/The Dream», 2005 Un film, a modo suo, storico. Trattasi infatti del primo lungometraggio della storia del cinema degli Emirati Arabi Uniti. Prima del lavoro di alShaibhani, infatti, le uniche produzioni autoctone erano cortometraggi e documentari girati dagli studenti di cinema della facoltà di Comunicazione. Il film è un malinconico poema dedicato al deserto, come luogo fisico e luogo dell’anima, vero e proprio simbolo della cultura e dell’identità beduina della popolazione degli Emirati. Il racconto di un rapporto privilegiato, tra un elemento della natura che non sembra offrire nulla all’occhio dell’osservatore distratto, ma che ha dato tanto a un popolo che guarda quasi con nostalgia al periodo precedente l’urbanizzazione di massa. BEN ANDERSON, «Slumdogs and Millionaires», Bbc,2009 Il reporter della Bbc Ben Anderson, per mesi, ha girovagato per Dubai fingendo (armato di telecamera nascosta) di essere un acquirente interessato a uno dei milioni di immobili in vendita nel ricco emirato del Golfo. Dal venditore, Anderson riesce a risalire la filiera del real estate di Dubai fino all’ultimo livello, quello dei lavoratori migranti sfruttati dalle aziende di costruzione. Ne esce un quadro drammatico, con le storie dello sfruttamento degli edili legate a doppio filo al 30

boom edilizio di Dubai. Il documentario, trasmesso ad aprile 2009 all’interno del programma Panorama del network britannico, ha suscitato un grande dibattito anche negli stessi Emirati, costringendo il governo a promettere riforme del mercato del lavoro che sono però lungi dall’essere applicate. AL-JAZEERA INTERNATIONAL,«Blood, Sweat and Tears», 2007 I campi di lavoro dove vivono in condizioni disumane migliaia di lavoratori migranti giunti negli Emirati inseguendo il sogno di una vita migliore. Invece trovano l’inferno. Milioni di asiatici ai quali viene tolto il passaporto, diventano veri e propri schiavi delle compagnie che gestiscono i subappalti della grandi multinazionali del business a Dubai e dintorni. Paghe da fame, spesso non saldate, turni di lavoro fino a 18 ore, nessuna assistenza sanitaria. Tutte condizioni che contribuirono al primo, grande sciopero dei migranti negli Emirati. Almeno 4mila di loro vennero deportati per aver osato scioperare.

SITI INTERNET http://gulfnews.com/ Il principale quotidiano degli Emirati e uno tra i più importanti del Golfo. Come tutti i media della zona non brilla per le posizioni polemiche nei confronti del potere politico, ma resta un utile strumento per seguire gli avvenimenti del Paese e della regione. http://www.mafiwasta.com/ Sito dell’organizzazione non governativa Mafiwasta, fondata nel 2005 dal britannico Nicholas McGeehan, un insegnante inglese che arrivò negli Emirati Arabi Uniti per tenere corsi di lingua ai lavoratori di una compagnia petrolifera. Rimase sconvolto, ascoltando le loro storie, dalla situazione dei lavoratori migranti. McGeehan continua la sua campagna di pressione presso le istituzioni internazionali perché intervengano presso gli Emirati Arabi Uniti per migliorare le condizioni di vita dei migranti. http://www.sheik-mohammed.com Il sito dell’attuale premier e vice-presidente, emiro di Dubai, vero e proprio motore dello sviluppo di tutti e sette gli Emirati. Per capire meglio questo Paese, è utile leggere il sito (ovviamente agiografico) di questo sovrano poeta, amante dei cavalli, imprenditore dalla fantasia senza fine. ‘’Niente è impossibile” è il suo motto e Dubai è pensata per dargli ragione.

ZIMBABWE LIBRI DORIS LESSING, «Sorriso africano». Quattro visite nello Zimbabwe, Feltrinelli, 2001 Dalla difficile convivenza fra bianchi e neri al termine della guerra della foresta nel 1982, alla delusione per la corruzione imperante nel governo di Robert Mugabe nel 1992. Dieci anni in cui l’autrice, premio Nobel per la letteratura nel 2007, torna per quattro volte nel Paese in cui è cresciuta, dopo essere stata dichiarata “persona indesiderabile” dal governo razzista di Ian Smith. Al centro dei suoi reportage l’amore per la natura e per il paesaggio africano, messi a dura prova dalla guerra civile; le speranze riposte nel governo del “compagno Bob”, considerato come l’eroe della riscossa nera, nonostante lo sterminio del popolo ndebele; e i tentativi della società civile e delle donne di affermarsi e di partecipare ai cambiamenti in corso.

TSITSI DANGAREMBGA, «La nuova me», Edizioni Gorée, 2007 Scrittrice, drammaturga e regista Tsitsi Dangarembga è considerata una delle voci più importanti dello Zimbabwe contemporaneo, nonostante viva in Germania. La nuova me racconta la storia di un gruppo di donne che, con esiti diversi, lottano per affermare la propria esistenza e la propria dignità all’interno di una grande famiglia patriarcale shona. Un libro importante per chi vuole entrare in contatto con la cultura e le tradizioni dello Zimbabwe. PETINA GAPPAH, «An Elegy for Easterly», Faber and Faber, 2009 Scrittrice, drammaturga e regista Tsitsi Dangarembga è considerata una delle voci più importanti dello Zimbabwe contemporaneo, nonostante viva in Germania. Nel 2005 ha vinto il premio per il miglior cortometraggio al Festival del cinema africano di Milano, con l’opera Kare Kare Zvako, che rielaborava una storia della tradizione orale shona. La nuova me racconta la storia di un gruppo di donne che, con esiti diversi, lottano per affermare la propria esistenza e la propria dignità all’interno di una grande famiglia patriarcale shona. Un libro importante per chi vuole entrare in contatto con la cultura e le tradizioni dello Zimbabwe.

FILM MANDISHORA MACDONALD, Dirty Groove, Zimbabwe 2009 Non sono molte in Italia le occasioni per vedere un film sullo Zimbabwe, ma se dovesse capitare, merita di essere visto questo Dirty Groove, storia di una musicista hip-hop che, con l’aiuto dell’amica, progetta un colpo per finanziare il loro gruppo musicale. Le due finiranno con lo scontrarsi con gli sporchi commerci indotti dalla crisi economica.

SITI INTERNET http://www.youtube.com/watch?v=55vyuRw4igU http://www.vimeo.com/5280896 e http://www.vimeo.com/5482647 Brevi documentari multimediali sui rifugiati che vivono nella chiesa centrale metodista. Gli ultimi due realizzati dagli studenti della statunitense Medill School of Journalism. http://www.sokwanele.com/thisiszimbabwe This is Zimbabwe è un blog che documenta la continua violenza politica e tutto ciò che accade all’interno del Paese. http://www.hrforumzim.com Zimbabwe Human Rights è un forum composto da diverse organizzazioni che lavorano nel campo dei diritti umani. Nato nel 1998 per assistere le vittime delle rivolte per il cibo, ogni anno produce numerosi rapporti sulla pratica della tortura, sulle violenze politiche, sul diritto alla sanità e all’educazione. www.swradioafrica.com Nel 2000 gli ideatori di Radio Africa cercarono di rompere il monopolio statale sull’informazione rivolgendosi alla Corte suprema. Ottennero il permesso di aprire la prima radio indipendente nel Paese che venne chiusa dal governo dopo solo sei giorni di programmazione. Oggi Radio Africa trasmette ad onde corte nello Zimbabwe e invia i titoli dei notiziari a decine di telefonini sparsi per il Paese.


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FUNZIONALE , MAI FUNZIONALE, MAI SERIOSA, S E R I O SA , UNA PICCOLA U NA P ICCOLA ANTOLOGIA ANTOLOGIA L ETTERARIA DA DA L EG G E R E E LETTERARIA LEGGERE COLLEZIONARE… L’AGENDA “PER TUTTE LE STAGIONI”!

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