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mensile - anno 4 numero 12 - dicembre 2010

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n째46) art. 1, comma 1, dcb milano

Cile Acqua di Patagonia

Sahara Occidentale Kosovo Africa Italia

Il sangue di Gdeim Izik Nel cuore della notte La mia nuova Africa Truffati e ignorati

Portfolio: Il popolo delle renne

3 euro



Io credo nella censura: le devo la mia fortuna Mae West

dicembre 2010 mensile - anno 4, numero 12

Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Gabriele Battaglia Christian Elia Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Nicola Sessa Stella Spinelli

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Blue and Joy Tommaso Cinquemani Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Nicola Falcinella Pietro Gaglianò Paolo Lezziero Antonio Marafioti Camilla Martini Gilberto Mastromatteo Marco Rovelli Alberto Tundo

Photoeditor Germana Lavagna Progetto grafico Guido Scarabottolo Oliviero Fiori Segreteria di redazione Silvina Grippaldi Amministrazione Annalisa Braga Redazione e amministrazione Via Vida 11 20127 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 26809458 peacereporter@peacereporter.net

Hanno collaborato per le foto Gianluca Cecere Massimiliano Clausi/Posse Photo Eugenio Grosso/Fotogramma Camilla Martini Gilberto Mastromatteo Luca Tommasini

Stampa Graphicscalve Loc. Ponte Formello - 24020 Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 17 dicembre 2010

Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Vida 11 - 20127 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07

Pubblicità Via Vida 11 20127 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 26809458 peacereporter@peacereporter.net

Foto di copertina: Patagonia a cavallo. Cile 2010. Foto di Camilla Martini per PeaceReporter.

L’editoriale di Maso Notarianni

Ha ragione Berlusconi! ikileaks: la banalità del male. Si fa una risata il Primo ministro italiano a proposito delle “rivelazioni” di Wikileaks. Forse per una volta, tocca dargli ragione. Vediamo perché. Wikileaks “rivela” che il fratello del presidente afghano Karzai, Ahmed Wali, è un pericolo. Perché è un corrotto e gestisce il narcotraffico. Un po' come rivelare che con l'acqua troppo calda ci si può scottare. PeaceReporter lo dice da tempo, così come tutti quelli che conoscono quel Paese e fanno davvero il mestiere del giornalista. Wikileaks “rivela” che Berlusconi fa un sacco di festini ed è vanesio e incapace. Benvenuti nel mondo del banale. Wikileaks “rivela” che l'auto con la quale Calipari (e altri) riportava a casa Giuliana Sgrena è stata crivellata di colpi perché c'era un allarme autobomba e la pattuglia Usa che ha aperto il fuoco sospettava che la Toyota Corolla, su cui un agente italiano ha perso la vita, fosse imbottita di esplosivo. Bella rivelazione, è la versione messa in giro dai servizi Usa proprio per smontare le ipotesi più sensate, e cioé: chi ha sparato era un cretino (e chi lo comandava pure) e non sapeva che gli italiani stessero andando in aeroporto. Oppure chi ha sparato lo ha fatto su indicazioni precise, per dire agli italiani che i riscatti non si pagano e non si tratta con il nemico. Wikileaks “rivela” che i curdi del Pkk sono aiutati dalla Cia. Bella novità anche questa. Da anni chi si occupa di Kurdistan sa che i curdi ricevono aiuti non solo dagli Usa, ma anche da Israele. Sono in una zona del mondo fondamentale (Iran, Siria, Iraq...) e chi la controlla sta più tranquillo. Wikileaks “rivela” che i funzionari della Nazioni Unite erano sotto osservazione. Esattamente come i servizi segreti di tutto il mondo tengono sott'occhio tutti i funzionari i cui ruoli sono di rilevanza strategica. Wikileaks “rivela” insomma che gli Stati Uniti rimestano nel torbido. Bella scoperta. Non sono certo i soli a farlo. Forse sono un po' più rimestanti di altri, ma in fondo hanno da tenere sott'occhio l'impero, e li si può capire. La “vera rivelazione” di Wikileaks è che ogni tanto i giudizi Usa sulla politica estera sono meno stupidi della politica estera Usa. E che se i giornalisti fossero un po' meno pantofolai queste “rivelazioni” non sarebbero affatto tali.

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Per il resto, è tutto molto banale. Sahara Occidentale a pagina 10

Italia a pagina 22

Kosovo a pagina 18

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Cile a pagina 4

Africa a pagina 20 3


Il reportage Cile

Acqua di Patagonia di Camilla Martini A vederla su una mappa la regione dell’Aysén sembrerebbe del tutto disabitata. Le linee disegnate nel 1927 per definire il punto in cui inizia, sembrano indicare il principio del nulla. Lì nasce la Patagonia cilena, stretta tra le Ande e l'Oceano, una lunga striscia di terra protesa verso Punta Arenas, l'ultima città prima delle distese ghiacciate dell'Antartide. a carretera austral, costruita da Pinochet negli anni Settanta, attraversa per intero l'undicesima regione connettendo tra loro una manciata di cittadine e si conclude a Villa O'Higgins, quattrocento abitanti a ridosso del Campo de Hielo Sur, lasciando l'ultima regione al suo isolamento. Nonostante il nome impegnativo, Aysén del Generale Carlos Ibañez del Campo, omaggio due volte al presidente, la regione conta poco più di centomila abitanti. Se la si guarda da una mappa si può intuire il motivo di una colonizzazione così recente: una costa che si rompe in centinaia di isole e fiordi, un entroterra montagnoso modellato dall'azione dei ghiacciai, una geografia inospitale e così diversa da quella della Patagonia argentina. Bisogna però vedere la regione con i propri occhi per rendersi conto della sua eccezionale biodiversità. Gli abitanti dell'Aysén non si stancano di ripetere ai visitatori quanto sono fortunati. “ Viviamo in un paradiso”. Hipólito Medina, vero patagón e attivista per la campagna Patagonia sin represas (Patagonia senza dighe), si lamenta del traffico di Coyhaique, la capitale della regione, cinquantamila anime. Troppe voci e troppe auto per una persona cresciuta nel silenzio più assoluto. “E provate a immaginare cinquemila persone trasferite a forza, distribuite tra Coyhaique e Cochrane, che ora non supera i tremila abitanti”. Poi si corregge: si tratterebbe di cinquemila lavoratori, ma vanno considerate anche le famiglie. Basta guardarsi intorno per capire che il progetto di HidroAysén è molto più complesso di quanto non sembri su carta. Come si può pensare di costruire in dodici anni cinque mega-dighe in un territorio dove l'unica strada disponibile è sterrata e a tratti troppo stretta anche per far passare due auto insieme? La Patagonia è diventata interessante anche per gli italiani, da quando Enel ha acquistato Endesa, e con essa HidroAysén. La campagna Patagonia senza dighe nasce quest'anno in risposta al richiamo delle oltre sessanta organizzazioni cilene impegnate a difendere quest'area dai progetti idroelettrici di Enel. Il primo passo è l'invio di una delegazione, per conoscere la regione e incontrare le comunità coinvolte. “Il progetto HidroAysén significherà una grande opportunità di sviluppo per gli abitanti dell'Undicesima Regione” recita il sito dell'impresa, paragrafo incorniciato da splendide immagini di una natura selvaggia che, lascia intendere il sito, non verrà meno. E poi “Miglioramento delle condizioni di vita delle persone, sviluppo del commercio e maggiore connettività”. Hipólito, cappello da gaucho e tratti mapuche, è nato qui e ha passato gli ultimi anni a informare la gente del posto sulle caratteristiche del progetto e sulle alternative possibili per uno sviluppo che sia fruttuoso a lungo termine. Ci spiega che gli Aysénini vivono perlopiù di taglio del legname, pesca, allevamento e, in minima parte, di turismo. Ma le vallate non sono così fertili e l'allevamento resta poco intensivo, così come il taglio del legname, che ha già portato all'esaurirsi di buona parte delle foreste primarie. La costruzione delle dighe non sembra essere una soluzione plausibile: l'impresa ha bisogno di lavoratori specializzati, che non si trovano nella regione. E una volta costruite, i segni rimarrebbero per sempre, con il risultato di bloccare l'industria più promettente per la regione: il turismo. Per comprovare le sue parole Hipólito ferma continuamente l'auto e allunga il

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dito per mostrare un punto particolarmente bello, salvo poi aggiungere, laconico: “Qui una torre per il trasporto dell'elettricità” o “Qui acqua, completo allagamento della valle”. Le strade che percorriamo aprono a una varietà di paesaggi impossibile da trovare altrove. Non a caso la Patagonia è stata proposta all'Unesco come patrimonio dell'umanità e l'Aysén è stato dichiarato dalle autorità regionali ‘Area di Conservazione della Cultura e dell’Ambiente’ nel 2000. Gli Aysénini sono pochi e per intere ore di viaggio non si incontra una sola casa. Proprio per questo è ancor più impressionante la quantità di gigantografie, cartelli, scritte: “Patagonia senza dighe!”. ltre ad essere la regione in cui ancora vivono liberamente puma, fenicotteri, cigni dal collo nero, guanacos e huemules, l'Aysén ospita una delle più grandi riserve di acqua dolce del pianeta: si tratta dell'immenso Campo de Hielo Sur, proteso verso la regione di Magallanes, e del Campo de Hielo Norte da cui nasce il fiume Baker, secondo fiume del Cile per portata idrica. L'acqua è il tesoro più prezioso di questa regione e le imprese energetiche se ne sono accorte già da tempo. Il novantasei percento dei diritti non consuntivi, ossia poter usare l'acqua dell'Aysén per poi reimmetterla nel fiume senza consumarla, oggi appartiene a Enel. La privatizzazione di questo bene essenziale, prevista in Italia dal recente decreto Ronchi, è in Cile una realtà da più di vent'anni. Gli stessi cittadini che lottano in Italia per bloccare la privatizzazione si trovano a possedere oggi una parte di quel novantasei percento. Le premesse a questa situazione paradossale sono state poste nel periodo della dittatura di Pinochet. Il modello economico di Milton Friedman si concretizzò in un sistema costituzionale e giuridico ultra liberale e quindi in una serie di privatizzazioni che hanno finito per consegnare a imprese private straniere il totale controllo delle risorse del Paese. Il caso dell'acqua è emblematico. La sua commercializzazione è stata regolata nel 1981 dal Código de aguas. Secondo il direttore generale delle acque, Rodrigo Weisner: "Non è bene che l'acqua sia gratis nel suo uso e tutto quello che è gratis viene usato male"; perciò "il mercato è un buon meccanismo per la riassegnazione delle risorse". Di fatto però questi diritti non sono mai entrati in un vero gioco di mercato. Nel 1989, ultimo anno della dittatura, alcuni funzionari del regime incaricati di dare avvio alla privatizzazione vendettero ad un prezzo irrisorio il consorzio elettrico Enersis, che comprendeva anche Endesa-Cile. L’ottanta percento dei diritti non consuntivi sull'acqua del Cile che Endesa-Cile aveva registrato fino a quel momento passarono in mano a privati senza alcun costo e in totale assenza di un processo democratico. Nel 1997 gli stessi funzionari, passati a dirigere le nuove imprese, vendettero il consorzio Enersis a Endesa-Spagna per millecinquecento milioni di dollari. “Quello che il Código de Aguas ha prodotto è stata l'accumulazione di questa risorsa naturale in poche mani” dice Sara Larrain, direttrice del programma Chile Sustentable, ecologista di lungo

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Peschereccio in secca. Cile 2010. Foto di Camilla Martini per PeaceReporter


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corso e candidata come indipendente alle presidenziali del 1999. “Però questo Codice, che fu approvato quando in Cile non c'era un Congresso Nazionale, né partiti politici, né sindacati, né organizzazioni ambientaliste o di consumatori, né libera espressione, seguitò ad essere applicato con tutta tranquillità durante la transizione democratica”. Endesa non ha avuto quindi grandi difficoltà a presentare HidroAysén, forte dei suoi diritti sull'acqua della regione. Si tratta di un progetto idroelettrico estremamente ambizioso: cinque dighe sul rio Baker e Pascua, capaci di generare 2.750 MW, una quantità di energia pari a circa il venti percento dell’intera capacità di generazione attualmente installata nel Paese. Cinque dighe che significano seimila ettari di territorio inondato, foreste native perdute per sempre e un violento cambio di habitat per tutte le specie animali e vegetali della zona. La totalità dell'energia verrebbe poi trasportata a nord, per coprire le necessità della regione metropolitana e dell'industria mineraria. Questo implica anche una linea di trasmissione lunga duemilatrecento chilometri, la più lunga al mondo, con seimila torri alte dai sessanta ai settanta metri. a società HidroAysén è per il quarantanove percento della cilena Colbùn e per il cinquantuno percento di Endesa. Quando, nel febbraio 2009, Enel acquista Endesa, eredita dall'impresa spagnola anche i diritti sull’ottanta percento delle acque del Cile. Luis Infanti de la Mora, vescovo dell'Aysén, decide di partecipare all'assemblea annuale dei soci, il 29 aprile 2010 per convincere Enel a lasciar perdere il progetto che l'azienda ha ereditato insieme a quei diritti. “Enel, essendo proprietaria del monopolio dei diritti non consuntivi sull'acqua potrebbe fare in Cile quello che vuole, ma noi ci chiediamo se realizzerebbe, oggi, in Italia o in Europa progetti come quelli pensati per la Patagonia”. Il vescovo si fa portavoce, nei dieci minuti che gli vengono concessi, di più di settanta organizzazioni cilene raccolte sotto il nome di Consejo por la Defensa de la Patagonia. Nessuna risposta diretta è arrivata al Consejo, ma il giorno dopo l'assemblea l'amministratore delegato di Enel, Fulvio Conti, si è precipitato a parlare con il neo eletto presidente del Cile, Sebastiàn Piñera, confermando gli impegni presi. Quando ci riceve nella sua casa di Coyhaique il vescovo è soddisfatto: dopo anni di attacchi indiretti l'impresa ha deciso di affrontarlo e il direttore generale di HidroAysén, Daniel Fernàndez, gli ha chiesto un incontro per la settimana seguente. Come religioso Monsignor Infanti ha deciso di farsi carico di una questione che trascende la problematica ambientale. “HidroAysén ha portato un disordine tale nella regione, da indurre le persone a schierarsi da una parte o dall'altra, a favore o contro”. La compagnia usa dei metodi al limite del legale: “Cercano di comprare la gente.” Nel dirlo, si scusa: “Sono parole un po' forti, ma lo stiamo sperimentando qui, in Patagonia: comprano la gente con benefici apparentemente utili per le comunità e le persone bisognose, ma è una maniera per ridurre la loro capacità di discernimento”. È un gioco facile in una regione così povera, dove la maggior parte delle persone vive di lavori occasionali e di sussidi statali. L'accusa viene confermata dalle persone che incontriamo sul nostro cammino e dagli stessi rappresentanti delle comunità. Caleta Tortel si trova alla foce del Rio Baker, conta cinquecentosette abitanti e fino al 2003 era raggiungibile solo via mare. Il sindaco è uno dei pochi a resistere alle lusinghe dell'azienda: “Sappiamo cos'è la povertà, ma abbiamo anche visto cosa succede quando si costruiscono dighe di questa dimensione”. Il riferimento va alle dighe costruite da Endesa sul Rio Bio-Bio. Il risultato è che il settantotto percento dei cittadini si dice contrario al progetto nonostante HydroAysén arrivi ora a consegnare soldi direttamente alle juntas de vecinos, i consigli di quartiere, per finanziare piccoli progetti comunitari ma anche migliorie alla casa e l'acquisto di attrezzi per il lavoro. Il comune si rifiuta di ricevere denaro dall'impresa e rilancia con una serie di progetti per lo sviluppo del turismo e per migliorare le infrastrutture. Di fatto, il municipio possiede già una piccola centrale elettrica e pannelli solari con cui rifornisce di energia la cittadina, in maniera gratuita. Questo miracolo amministrativo non toglie che per alcune persone il lavoro resta una preoccupazione. Mi fermo a parlare con il gestore di un piccolo emporio. Carlos vive a Tortel da diciotto anni, da quando arrivò con la sua lancia in cerca di lavoro. Si è mantenuto con la pesca e il commercio, ha messo su famiglia. Mi racconta che la moglie è andata a Coyhaique dal medico, una giornata di viaggio per una visita specialistica. Quando nomino le dighe dice senza esitazione: “Per noi è una

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cosa buona, un modo per avere lavoro”. E aggiunge: “Quando HydroAysén è arrivata a Cochrane, tutti avevano soldi, tutti avevano lavoro”. Gli chiedo se non è preoccupato per gli effetti sul turismo e sull'ambiente. “No, perché supponiamo che si faccia la diga sul Pascua... non è una zona popolata. Io ho lavorato per qualche tempo lì e c'è bisogno dell'elicottero per arrivarci, non ci abita nessuno”. Gli ricordo che si parla di cinque dighe, non una e di una linea elettrica lunga duemilatrecento chilometri. “Certo” dice sospirando “la linea elettrica è il problema principale”. Non è l'unico ad esserne persuaso. Gli avvocati della campagna Patagonia sin represas hanno individuato una serie di illegalità su cui fare leva per bloccare il progetto. Uno dei punti critici è l'aver richiesto concessioni di tipo minerario, più economiche e facili da ottenere, per costruire una linea di trasmissione che passerebbe attraverso sedici aree protette dallo Stato, trentadue aree protette private e migliaia di proprietà tra cui molti terreni mapuche. Il rischio è che l'azione giuridica non sia sufficiente a far bocciare lo Studio di Impatto Ambientale presentato da HidroAysén nel 2008 alla Corema (Comisiòn Regional del Medio Ambiente). La legge cilena vuole che il progetto sia valutato dall'organismo regionale competente, con la conseguenza che un progetto enorme come quello di HidroAysén non può venire giudicato nella sua globalità. “C'è il rischio concreto che una volta accettate le dighe, il progetto della linea di trasmissione passi senza ulteriori osservazioni”. Marcelo Castillo è uno dei pochi avvocati cileni specializzati in legislazione ambientale, ed è stato contattato direttamente dalla Fondazione Patagonica di Douglas Tompkins, principale finanziatore della campagna. “Abbiamo evidenziato la violazione del Trattato di libero commercio tra Cile e Canada, abbiamo fatto ricorso alla Corte Interamericana dei Diritti Umani e ci sono ancora moltissime possibilità”. Nello studio in cui lavora Marcelo si dice che: “Se HidroAysén volesse vincere, dovrebbe licenziare i suoi avvocati”. Dopo aver dato uno sguardo alle irregolarità del progetto, non sembra più una battuta. Sembra un modo velato per dire che la legge non conta molto, se ci sono altri poteri a spingere per l'approvazione. Durante tutto il viaggio si sono susseguiti gli attacchi indiretti da parte delle più alte cariche dello Stato. Il 25 ottobre il Ministro per l'energia, Ricardo Raineri, definiva “indispensabile per il Cile” un progetto come quello di HidroAysén, venendo meno al suo dovere di imparzialità. E proprio il 3 novembre, in coincidenza con l'arrivo della delegazione italiana a Valparaiso, sede del Congresso Nazionale Cileno, Piñera dichiara: “La questione non è se le dighe si faranno, ma come si faranno”. A Valparaiso la Commissione per l'Ambiente impone una pausa ai lavori per ricevere i responsabili della campagna. Teresa Maisano prende la parola per mettere in chiaro che anche la società civile italiana si sente coinvolta in questo progetto. Parla a nome di ong, associazioni, comitati impegnati in Patagonia senza dighe, tra questi Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, i primi ad attivarsi. “Siamo venuti qui per la prima volta dopo aver lanciato la campagna, perché siamo molto preoccupati dal fatto che il nostro governo, proprietario del trentadue percento delle azioni di Enel, utilizzi il nostro denaro per costruire un progetto che consideriamo possa avere un impatto irreversibile sull'ambiente e sulle comunità che ci vivono”. Le osservazioni vengono accolte con un certo scetticismo. David Sandoval, ex sindaco di Coyhaique e Cochrane, molto amato nella regione dell’Aysén, accusa la delegazione di voler usare gli Aysénini come guardiaparchi, precludendo loro altre prospettive di sviluppo. Si parla di sviluppo anche con i senatori della bancada verde, gruppo interno al partito di maggioranza, la Coaliciòn por el cambio. Per loro è chiaro che l'approvazione del progetto HidroAysén sarebbe estremamente negativa: porterebbe al blocco del mercato energetico per almeno un decennio, posticipando ulteriormente lo sviluppo delle energie rinnovabili non convenzionali. Ma il Cile non ha una politica energetica. La decentralizzazione che le rinnovabili promuovono non consente profitti paragonabili a quelli previsti per l'idroelettrico su larga scala e sono i capitali stranieri a decidere. L'ultimo ad incontrarci è Guido Girardi, della Union por la democracia. “Il Cile è completamente aperto all'investimento straniero - dice “Finchè non sarà più conveniente, il capitale punterà su progetti come questo”. Come a dire che in realtà, il potere, lo stiamo cercando nel posto sbagliato. In alto: Paesaggi in Patagonia. Foto di Camilla Martini per PeaceReporter. In basso: Hipólito. Cile 2010. Foto di Luca Tommasini per PeaceReporter.


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I cinque sensi del Cile

Udito Un silenzio perfetto. Il segreto più prezioso di questa regione è nella calma placida dei suoi abitanti, cresciuti nel silenzio. Per chiunque venga dalla città, la Patagonia insegna a sentire il rumore del proprio respiro. Non si placa mai il suono persistente del vento, ancora più forte sulla costa. Insieme al vento l'acqua, che scorre in cascate sonore e fiumi imponenti, o riposa in laghi e piccoli specchi d’acqua. Dormire in una estancia o in una cabaña aiuta a raffinare ancora di più l'udito, fino a distinguere le voci delle decine di uccelli rari e degli altri animali che popolano la regione.

Vista Il verde e l'azzurro sono i colori, in un variare impressionante di tonalità. Lo sguardo si perde nel seguire per chilometri il manto dell'erba e il profilo a volte morbido, a volte frastagliato delle montagne. E dopo ore di contemplazione ci si chiede se ci siano abitazioni, se ci siano uomini. Di tanto in tanto appare un segno: una mucca, uno steccato pericolante, poi una casa di legno, un cavallo, e l’immancabile fuoristrada, necessario per la completa mancanza di trasporto pubblico e la condizione delle strade. Un territorio complesso quello dell'Aysén, che custodisce microclimi e specie uniche: la conseguenza è che nel giro di pochi chilometri tutto cambia. L'erba, di un verde brillante nei pressi dei corsi d'acqua, sfuma fino alle più intense tonalità del giallo per poi tornare scura e rada nelle vaste aree di sottobosco. La consistenza della terra è in molti luoghi secca

e arida, ci ricorda gli incendi degli anni passati, ma torna spugnosa e scura dove emerge l'acqua. Ovunque si guardi, c'è acqua: i ghiacciai all'orizzonte, le piccole cascate, i fiumi. Il Rio Baker, che nasce dal profondo lago General Carrera, assume infinite personalità nel suo percorso verso il mare, passando attraverso piccole cittadine e valli ancora intatte, fino a sfociare nella pallida laguna di Caleta Tortel.

Gusto Ci sono le piante tipiche della montagna, i frutti di bosco con i loro sapori forti, qui ancora più decisi, e ci sono piante che crescono solo in Patagonia e pochi turisti sanno riconoscere, come la nalca. Alcuni ristoranti, i più ricercati, ne propongono il succo, dolce e delicato, ma le foglie si usano per accompagnare qualsiasi piatto. In generale però la cucina del sud del Cile è semplice e spartana come nel resto del Paese: in una piccola cittadina il massimo che potranno offrirvi sarà una teglia di carne con frutti di mare. Un altro mondo di sapori si apre nel mangiare cordero (agnello) alla brace, il piatto tipico di chi vive nel campo. Le condizioni sono ideali per tutti gli animali allevati nella regione: il suolo non è abbastanza fertile per un allevamento intensivo, e il bestiame cresce in terre ancora incontaminate.

Olfatto Il primo odore per chi entra in Patagonia è quello della terra. Già a pochi chilometri dai principali aeroporti la strada diventa sterrata e anche a finestrini chiusi non si può evitare che

le nuvole di polvere sollevate si attacchino ai vestiti accompagnandoti fino a sera. A motore spento, una volta scesi dall'auto, ovunque si scelga di fare una camminata per conoscere questa natura in molti casi ancora vergine e incontaminata, prevale, forte, l'odore umido del bosco. In primavera si viene avvolti dall'odore della lenga, che cresce ovunque in bassi cespugli verdi e rilascia il suo profumo nel periodo in cui spuntano le nuove foglie. A terra, ovunque, si vede il fiore bianco della frutilla silvestre, piccola e profumata. In città, tutto un altro mondo di odori: nei giorni di festa, l'aroma della carne cotta alla brace si mescola alla dolcezza stucchevole dei popcorn canditi, venduti ad ogni lato della strada. Nell’Aysèn, come in tutto il Cile, non si può evitare di venire attratti dall’odore dei completos, panini con wurstel coperti di avocado, maionese e pomodoro, chiamati anche italiani, per i tre colori del loro condimento.

Tatto È difficile non rimanere affascinati dalla varietà di piante della Patagonia. Il primo istinto è toccare per imparare a conoscere. Non ci sono molte piante velenose nell'Aysén, né animali pericolosi. Gli huemules e i guanaco, specie protette, hanno un carattere mite, ma non amano farsi avvicinare. Animale da non toccare, decisamente, è il puma, a rischio di estinzione e oggi in ripresa grazie al lavoro di Douglas Thompkins che ha creato l'Estancia Valle Chacabuco nel tentativo di recuperare la fauna locale. 9


Il reportage Sahara Occidentale

Il sangue di Gdeim Izik di Gilberto Mastromatteo Il “campo della dignità” era sorto il 10 ottobre scorso a Gdeim Izik, dodici chilometri a est di Al Aaiún, nel Sahara Occidentale. Ma la protesta sociale (non indipendentista) degli oltre ventimila Saharawi della capitale è durata meno di un mese. All’alba dell’8 novembre le forze speciali dell’esercito marocchino hanno represso la più grande e pacifica manifestazione del popolo autoctono, dall’occupazione del 1975. GDEIM IZIK (AL AAIÚN) - Il furgone rallenta, si ferma per qualche minuto, poi riparte. Stessa manovra per tre volte, una per ogni posto di blocco marocchino. Questa volta però decine di mani rimuovono i bagagli e le coperte sotto le quali stiamo sudando da quaranta minuti. Donne e uomini sorridono mentre riemergiamo dal fondo del veicolo. Ci mostrano le due dita alzate, in segno di vittoria. Sono riusciti a far entrare altri giornalisti stranieri a Gdeim Izik, l’accampamento di protesta del popolo Saharawi, sorto a circa dodici chilometri di sabbia dalle ultime case alla periferia est di Al Aaiún, nel Sahara Occidentale. Una tendopoli che per qualche settimana ha sfidato Rabat. Non possono immaginare che saremo tra gli ultimi a giungere clandestinamente nell’accampamento. Né che quegli stessi soldati di cui abbiamo eluso i controlli, entreranno nel campo di lì a pochi giorni, smantellandolo. iamo in tre. Assieme a chi scrive ci sono il collega Stefano Liberti del Manifesto e Ugo Mazza, politico di Sinistra democratica e attivista per un’associazione pro-saharawi di Bologna. Riusciamo a documentare quello che è stato Gdeim Izik, pochi giorni prima che, all’alba dell’8 novembre, un blitz di poche ore reprima la protesta dei Saharawi. Oggi delle ottomila jaimas, le tradizionali tende dei nomadi montate a partire dal 10 ottobre, non c’è più traccia. Fonti vicine al Fronte Polisario denunciano che nel corso degli scontri abbiano perso la vita almeno ventotto persone, di cui cinque militari marocchini. Ma Rabat, a distanza di settimane dall’accaduto, continua a confermare un solo morto dalla parte saharawi, Mahmud Gargar. Si parla di un totale di arresti che supera le cento unità e di oltre centocinquanta desaparecidos. Incalcolabile il numero dei feriti. La situazione è tanto più difficile da decifrare, per il fatto che dall’8 novembre in poi il Marocco ha impedito ogni accesso al Sahara Occidentale da parte di giornalisti e osservatori internazionali. La prima associazione ammessa è stata Human Rights Watch, il cui inviato Peter Bouckaert ha descritto una situazione assolutamente critica ad Al Aaiún, confermando gli arresti indiscriminati, i maltrattamenti e le torture sui numerosi detenuti nella cárcel negra della città. Simile il resoconto fornito in una conferenza stampa a Madrid da parte dei due attivisti spagnoli dell’associazione Sahara Thawra, Javier Sopeña e Silvia García, che si trovavano all’interno dell’accampamento nel momento della repressione. Assieme a loro anche la connazionale Isabel Terraza e il messicano Antonio Velázquez di ResistenciaSahraui, che sono stati i primi e gli unici a diffondere le immagini del raid e dei successivi scontri ad Al Aaiún. Almeno quattro, invece, i giornalisti italiani rimpatriati, dopo essere stati interrogati e aver avuto il passaporto sequestrato per alcuni ore. La situazione è precipitata domenica 7 novembre, quando centi-

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naia di militari marocchini in assetto antisommossa e decine di mezzi blindati si sono diretti verso l’accampamento. Bloccata la via di Smara, unica strada d’accesso a Gdeim Izik, l’esercito, tramite altoparlanti, ha intimato a donne e bambini di lasciare le tende. Quindi l’irruzione, scattata alle sette e trenta del mattino con lacrimogeni e proiettili di gomma. Numerose le tende andate in fiamme. Durante la nostra presenza, l'1 e il 2 novembre, erano oltre ventimila i Saharawi ritiratisi in questa sorta di Aventino, per protestare contro le discriminazioni subite in materia di accesso al lavoro, allo studio e alla casa. Puntavano il dito contro la spoliazione delle risorse naturali di questa terra, ricca di fosfati e bagnata da uno dei tratti di mare più pescosi Trent'anni di solitudine Quello di territorio occupato più grande al mondo è un triste primato per il Sahara Occidentale. Colonia spagnola, con il nome di Sahara spagnolo, fino al 1976, viene occupata dal Marocco e dalla Mauritania mentre i militari spagnoli stanno ancora facendo le valigie. Il dittatore Francisco Franco, a Madrid, è in fin di vita e il governo spagnolo prepara la transizione. Un vertice segreto, a Madrid, dà luce verde alle mire espansionistiche di Rabat e Nouakchott. Il governo marocchino organizza un'invasione di volontari, chiamata Marcia Verde, mentre i militari mauritani entrano dal confine meridionale. Il Fronte Polisario, organizzazione politico-militare del popolo saharawi, che puntava all'indipendenza del Sahara Occidentale, secondo la volontà delle Nazioni Unite di rispettare il diritto all'autodeterminazione dei popoli, inizia una guerriglia di resistenza. L'esecito mauritano, nel 1979, si ritira, travolto da un golpe a Nouakchott. Sul terreno restano a confrontarsi marocchini e Polisario. I Saharawi proclamano la Repubblica Democratica Araba Saharawi, il suo governo va in esilio. Riconosciuta dall'Unione Africana e da tanti Stati, ma non dalle Nazioni Unite che l'hanno inserita nella lista dei territori occupati. La fase intensa del conflitto è terminata nel 1991, con il cessate il fuoco imposto dalle Nazioni Unite. L'Onu crea la missione Mission des Nations Unies pour l'Organisation d'un Référendum au Sahara Occidental (Minurso), con il compito di vigilare sul cessate il fuoco e di sovrintendere all'organizzazione del referendum per l'autodeterminazione delle popolazioni locali. Il referendum, da anni, viene rimandato, perché il Marocco organizza trasferimenti forzosi di popolazione ogni volta che si profila il voto, in modo da alterare il risultato. A New York, negli ultimi anni, l'Onu è riuscita a far sedere allo stesso tavolo il Marocco e il Fronte Polisario, per una serie di colloqui. Non è mai stato raggiunto un accordo. Bandiera a lutto sul luogo degli scontri a Gdeim Izik. Sahara Occidentale 2010. Foto di Gilberto Mastromatteo per PeaceReporter


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Un muro nel deserto In realtà si tratta di un sistema di otto muri, estesi per una lunghezza di 2.720 chilometri di sabbia, di altezza variabile dai due ai quattro metri, presidiati da un contingente permanente di centotrentamila uomini dell'esercito marocchino, divisi tra bunker e fossati. Grandi spazi attorno ai muri sono minati. Si stima che intorno al muro siano presenti da uno a due milioni di mine che porta la zona fra le prime dieci al mondo per la loro concentrazione. Secondo fonti saharawi, al

Marocco il muro costa un milione di dollari al giorno, sottratti alle politiche sociali di un Paese che ha ancora larghe sacche di analfabetismo, dove pochissimi possono permettersi l'accesso alle cure sanitarie. I muri vennero edificati in sei periodi differenti. Il primo è stato costruito nel giugno 1982, l'ultimo nell'aprile 1987. Lungo il muro, ogni quattro o cinque chilometri è stanziata una compagnia militare. Ogni quindici chilometri è installato un radar che guida il tiro eventuale dell'artiglieria.

Oltre la linea militare vi è il muro vero e proprio, composto di ostacoli come barriere di sabbia e di pietre di dimensione di solito inferiori al metro. Secondo il governo marocchino, il muro serve a impedire che i gruppi armati del Fronte Polisario possano introdursi in Marocco per compiere attentati terroristici. Per gli attivisti saharawi, invece, il muro è servito a circoscrivere la zona del Sahara Occidentale che realmente interessa a Rabat, quella ricca di minerali e con una delle zone marittime più pescose al mondo.

I campi profughi in Algeria Tindouf è una città algerina, vicina al confine con il Sahara Occidentale. Capoluogo di una provincia quasi deserta, dove l'attività principale sono le installazioni militari. Quasi tutta la città sembra una base militare a cielo aperto, abitata da soldati e dai familiari di questi ultimi. Ore di piste nel deserto la separano dai campi profughi saharawi, dove vivono almeno duecentomila persone. Tutte sfuggite ai combattimenti tra esercito marocchino e miliziani del Fronte Polisario. Molti di loro hanno attraversato il confine - e il deserto - a piedi, men-

tre i caccia da combattimento marocchini lanciavano bombe al napalm. Da allora vivono in quattro campi profughi che, anche nel nome e nell'amministrazione, riprendono l'organizzazione delle terre occupate dai marocchini oltre il muro di separazione. I campi si chiamano dunque Auserd, Smara, El Ayun e Dakhla, come le wilāya (province) del Sahara Occidentale. Le condizioni climatiche sono molto ostili. Tindouf sorge sull'altipiano dell'Hammada, vasta superficie nel deserto del Sahara chiamata 'il giardino del diavolo', per la temperatura che d'estate supera i

cinquanta gradi con frequenti tempeste di sabbia che ostacolano la vita normale. D'inverno, la notte è frequente andare sottozero con punte di meno cinque gradi. Nel 2006 i campi hanno subito terribili inondazioni, che per le Nazioni Unite hanno distrutto almeno cinquantamila abitazioni, quasi tutte tende nomadi o alloggi di fango e paglia. Nelle abitazioni stanziali abitano prevalentemente i Saharawi più giovani, sempre più rassegnati, mentre i vecchi non hanno mai smontato la loro tenda, pronti a ripartire verso casa.

dell’Africa settentrionale. Rivendicazioni socio-economiche, insomma, mentre l’annosa questione dell’autodeterminazione restava volutamente sullo sfondo. “La base delle nostre rivendicazioni socio-economiche non può essere la stessa dei lavoratori marocchini di Rabat, Marrakech o Casablanca - il parere di Ennaama Asfari, copresidente del Corelso, il Comitato per il rispetto delle libertà civili e dei diritti umani nel Sahara Occidentale. Qui ci troviamo in una situazione particolare, dato che questo è uno Stato che non esiste ed è occupato dal Marocco. L’autodeterminazione, però, non è una materia che possiamo trattare noi. Di quella devono occuparsi i nostri rappresentanti, cioè il Fronte Polisario”. Asfari appartiene a quella giovane generazione di attivisti saharawi, cresciuta durante l’occupazione marocchina e che sta tentando di proporre forme alternative di mobilitazione. Proprio come quella inedita di Gdeim Izik. È stato arrestato la sera del 7 novembre, alla vigilia del raid dell’esercito di Mohamed VI all’interno del campo. Secondo fonti saharawi, sarebbe stato interrogato e torturato dall’intelligence marocchina, fino a perdere i sensi. ra stato lui ad accompagnarci all’interno del campo, mostrandone i primi segni di sofferenza, per l’embargo imposto dall’esercito marocchino. L’infermeria era limitata a una manciata di medicinali, l’approvvigionamento d’acqua a un paio di autobotti e a un pozzo. Niente elettricità, per illuminare le tende di notte si utilizzavano le candele. Difficile anche la gestione dei rifiuti, accatastati in una sorta di discarica, poco distante dal campo. Mentre i bisogni fisiologici venivano affidati al deserto, con qualche riguardo per le donne, cui era riservata un’area riparata dai cespugli. Per l’amministrazione di quella che stava ormai diventando una città, erano sorti tre comitati interni. Quello per la sicurezza gestiva un proprio check point alle spalle di quelli marocchini, un altro si occupava di negoziare con l’esercito di Rabat, l’ultimo, infine, amministrava le questioni pratiche all’interno dell’accampamento, dalla spazzatura ai rifornimenti. La protesta era iniziata alle dieci del mattino del 10 ottobre scorso. Inizialmente le jaimas erano poche centinaia, poi sono aumentate giorno dopo giorno. E il via vai dalla città è diventato continuo. Analoghi accampamenti di protesta intanto sorgevano accanto alle altre maggiori città del Sahara Occidentale, come Smara, Bojador e Dakhla. Qui, però, la repressione del governo di Rabat è stata istantanea, così molte persone hanno deciso di confluire verso nord. L’esercito marocchino ha piantonato per quasi un mese la via d’accesso a Gdeim Izik, attraverso una triplice linea di controlli, l’ultimo dei quali in corrispondenza di un muro, tira-

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to su velocemente sul finire di ottobre, per cingere l’intero campo. “In precedenza le jeep saharawi erano libere di aggirare i check point, dirottando nel deserto - spiegava Daich Edafi, membro del comitato diplomatico - e non di rado i militari marocchini hanno aperto il fuoco”. Come il 24 ottobre scorso, quando a perdere la vita era stato Nayem El Garhi, un ragazzino di quattordici anni. “Non sappiamo neanche dove sia il suo corpo - denunciava la sorella Essayda El Garhi - crediamo che lo abbiano seppellito nottetempo, per evitare un funerale cui avrebbero partecipato tutti i Saharawi di Al Aaiún. Voglio lanciare un appello alla comunità internazionale, perché costringa il Governo marocchino a dire la verità sulla sorte di mio fratello”. Da allora l’esercito di Mohamed VI si era limitato a controllare i veicoli, ostacolando l’ingresso all’interno dell’accampamento di viveri, medicinali e, soprattutto, di osservatori stranieri. “La propaganda di Rabat - ancora Asfari - vuole far credere all’opinione pubblica marocchina e a quella internazionale che il Governo si sta impegnando per migliorare le condizioni di vita dei Saharawi. La realtà è l’esatto contrario: le uniche cose che il Marocco dà ai Saharawi sono bastone e prigione”. Ennaama Asfari ci aveva ospitato nella sua tenda e spiegato i motivi della protesta. L’ultima immagine di quella sera è un piatto di riso e carne, sul quale a turno allunghiamo le mani. Quasi una metafora della situazione di questo lembo di deserto conteso da almeno quarant’anni. Da quando, cioè, le Nazioni Unite chiesero alla Spagna di indire un referendum per l’autodeterminazione del popolo Saharawi, a tutt’oggi rimasto sulla carta. Fu proprio con il beneplacito degli ex colonizzatori, invece, che il 6 novembre del 1975, una “marcia verde” di trecentocinquantamila coloni marocchini diede di fatto il via all’occupazione del Sahara Occidentale da parte di Hassan II. Dopo la resistenza condotta dal Frente popular de liberación de saguia el hamra y río de oro (Polisario), l’Onu inviò ad Al Aaiún la missione Minurso, per vigilare sul cessate il fuoco. “Gli osservatori delle Nazioni unite non fanno altro che prendere il sole in spiaggia - osservava ironico uno dei membri del comitato gestionale del campo - e in questo modo prendono in giro la nostra gente”. Ironia che è divenuta dramma lo scorso 8 novembre, quando il sanguinoso sgombero ha avuto luogo sotto lo sguardo impotente dei caschi blu. Tanto più che proprio l’8 novembre, dopo circa due anni, erano ripresi a New York i negoziati tra il Fronte Polisario e il governo di Rabat. Un tavolo aperto da troppo tempo, sul quale ora sembra volersi affacciare la Spagna, per contribuire a una più rapida soluzione. In alto: Manifestazioni a Gdeim Izik. In basso: Campo profughi saharawi. Sahara Occidentale 2010. Foto di Gilberto Mastromatteo per PeaceReporter


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L’intervista

I pericoli di Facebook di Antonio Marafioti “Quello che è illecito nel mondo reale lo è anche nel mondo virtuale”. Marisa Marraffino, avvocato specializzato nei reati di cyber crime, lo ripete spasmodicamente nelle centosessantuno pagine del suo libro: “Come non perdere il lavoro, la faccia e l'amore al tempo di Facebook” (Edizioni Cantagalli, 2010). n vademecum per muoversi in sicurezza su Internet, lo chiama la stessa autrice, che tratta tre storie realmente accadute riguardanti l'uso sbagliato del social network più famoso del mondo. Paola, una quindicenne trascurata dai suoi genitori che s'impossessa dell'identità del suo cantante preferito per noia; Linda, una moglie tradita, che, per avere “giustizia”, forza la password del profilo del marito; Serena, neolaureata, succube di un datore di lavoro ansioso e iracondo, che cerca nella piattaforma creata dall'ex studente di Harvard, Mark Zuckerberg, un ristoro alle sue frustrazioni. Tre casi giuridici, trattati sul doppio filone narrativo e saggistico. In entrambi l'autrice riesce molto bene nell'intento ultimo del libro: quello di mettere in guardia gli internauti dagli eccessi di Facebook. Lo fa da buona narratrice, le storie sono appassionanti e mai sclerotiche, e da ottimo avvocato, non esasperando la spiegazione giurisprudenziale. Alla fine della lettura rimane la consapevolezza di quelli che sono i limiti in rete, contemplati dalla legge e spiegati da Marraffino. PeaceReporter l'ha intervistata per approfondire un discorso che oggi riguarda i diciassette milioni di italiani che usano Facebook.

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Ci tolga subito una curiosità: lei è iscritta a Facebook? Per quanto tempo al giorno lo usa? Sono iscritta a Facebook da due o tre anni. Ultimamente lo uso più spesso del solito perché è un mezzo di comunicazione potente che mi serve anche per promuovere iniziative, libri e quant'altro. Ovviamente non lo uso durante l'orario di lavoro, ma in pausa pranzo o nei momenti liberi. Non saprei conteggiare i miei accessi, da quando mi sono trasferita a Milano ho moltiplicato i miei amici: adesso ne ho più di quattrocento. Il libro si rivolge a tutti, ma a chi ha pensato maggiormente scrivendolo? Ai genitori o ai figli? Quando mi trovo di fronte a procedimenti legali in cui sono coinvolti minorenni, il dato che continua a colpirmi di più è che, spesso, i genitori sono inconsapevoli quanto i figli dei rischi che corrono questi ultimi. Nel libro mi rivolgo anche ai grandi, affinché inizino a educare i loro ragazzi al corretto utilizzo di quella che è una piattaforma piuttosto complessa. Quando si aderisce a Facebook, si sottoscrive un vero e proprio contratto d'uso. È come se si fosse titolari di un giornale: si è responsabili dei contenuti, di quello che si scrive e, paradossalmente, anche di quello che altri scrivono sulle nostre bacheche. I personaggi di tutte le storie hanno un tratto comune: la mancanza di stimoli affettivi nel mondo reale che cercano di sopperire in rete. Può essere 14

letto così il successo di Facebook? Credo di sì. È nato un po' come il successo del reality in televisione: dal bisogno di soddisfare la curiosità primordiale dell'uomo di osservare le vite degli altri, in un modo non troppo invadente e che nasconde una difficoltà a socializzare. Facebook abbatte questo muro e permette di legarsi agli altri molto più facilmente rispetto al mondo reale. Più che come avvocato, lei si rivolge al lettore come un'amica avvocato. Crede che un legale dovrebbe prendere per mano i propri clienti in questi casi? Io sono stata anche molto dura con la protagonista reale del primo racconto. Secondo me è sbagliato che un avvocato tranquillizzi solamente i propri clienti. Bisogna prenderli per mano ma anche renderli consapevoli di quelli che sono gli aspetti negativi della propria condotta. Perché ci sono dei comportamenti un po' troppo blandi e disinvolti che vanno presi con le molle e criticati. Pubblicare le foto di persone in atteggiamenti che possono essere sconvenienti, mentre sono ubriache a una festa per esempio, potrebbe portare a una querela per diffamazione. Attualmente quanti sono i casi del genere che sta trattando? Da sette mesi che esercito a Milano abbiamo avuto due casi che, fortunatamente, non sono arrivati alla querela. Uno di questi riguarda uno studente universitario che si era ritrovato suo malgrado, sostiene lui, nei panni di gestore di un gruppo contro un professore. Quest'ultimo non lo ha querelato perché il giovane ha chiesto scusa e ha eliminato subito il gruppo da Facebook. Quando ci si muove in rete, però, la prova della diffamazione è abbastanza immediata: non c'è bisogno di testimoni, il reato si perfeziona dal primo istante in cui si inventa un gruppo offensivo. In questi casi bisogna solo sperare che la parte offesa accondiscenda a non andare a processo. Però di risarcimenti danni ce ne sono stati tantissimi e sono destinati a moltiplicarsi. A quanto può ammontare un risarcimento danni? Questo è un bel problema. Nel caso della bidella, una delle protagoniste del primo capitolo, siamo arrivati, in via equitativa, a una somma che si aggira attorno ai mille euro. Però dipende molto dalla rilevanza pubblica del personaggio e dal grado dell'offesa. Il caso del cantante è ispirato a quello, vero, che è capitato a Samuele Bersani al quale, su Facebook, era stata rubata l'identità. Un suo fan aveva creato un profilo spacciandosi per lui e pubblicando, sulla bacheca, frasi banali che in qualche modo offendevano l'artista. In casi come questo i risarcimenti possono impennarsi anche fino a decine di migliaia di euro. Foto Archivio PeaceReporter


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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

Egitto

India

Le buone nuove

Urne vuote, futuro incerto

India Shining e foreste dell’orrore

a vinto, ancora una volta, l'indifferenza. Gli egiziani vedono sfilare le elezioni girandosi dall'altra parte. Se le politiche del novembre scorso dovevano essere le prove generali per le presidenziali dell'anno prossimo, il bilancio è drammatico per la democrazia in Egitto, anche se ritenuto da Unione Europea e Stati Uniti d'America un alleato affidabile. I Fratelli Musulmani, unica forza di reale opposizione a Hosni Mubarak, presidente dal 1981 con leggi di emergenza, hanno ritirato i loro candidati prima del secondo turno, ritenendo ormai evidente che i brogli e le pressioni avrebbero reso inutile il voto. Mubarak prese il potere dopo l'omicidio dell'allora presidente Anwar al-Sadat da parte dei Fratelli Musulmani, che hanno sempre negato ogni accusa ma vennero messi fuori legge. Da allora vige una legislazione di emergenza, che soffoca dissenso e opposizioni. Gli altri movimenti d'opposizione, con in testa Mohammed ElBaradei, ex segretario generale dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica, si erano ritirati prima ancora del primo turno. La popolazione civile? Ha disertato in massa le urne, eccezion fatta per le masse contadine che lautamente ricompensate per il disturbo dai militanti del Partito Nazionale Democratico del Faraone, come viene chiamato Mubarak - si sono recati a votare nelle campagne. Secondo molti osservatori internazionali, le presidenziali del 2011 serviranno a Mubarak per vincere (condizioni di salute permettendo) e lasciare il bastone del comando al figlio Gamal, che qualcuno vede osteggiato dalla vecchia guardia del presidente, legata all'onnipotente capo dei servizi segreti del Cairo, Omar Suleiman. Una situazione pesante, ma che ha visto una mobilitazione senza pari di organizzazioni non governative, movimenti per la difesa dei diritti umani, giornalisti e attivisti del web per documentare i brogli. Senza l'aiuto della comunità internazionale non potranno ottenere la democrazia stretti come sono tra censura e repressione - ma sono riusciti a far capire al Faraone che il suo regime ha i piedi di argilla.

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Arabia Saudita: nessuno stregone L'11 novembre la Corte suprema dell'Arabia Saudita ha annullato la condanna a morte di Ali Sabat, un cittadino libanese arrestato un anno prima durante un pellegrinaggio a Medina e giudicato colpevole di "stregoneria" per aver curato una rubrica di oroscopi su una tv satellitare. La corte ha raccomandato un nuovo processo, seguito dall'espulsione di Sabat in Libano.

Usa: quattro esecuzioni sospese Il 29 novembre la Corte suprema del Tennessee ha sospeso quattro esecuzioni. La prima di esse, quella di Stephen West, era prevista meno di 24 ore dopo. La sospensione è stata accordata per esaminare la costituzionalità delle procedure di iniezione letale in Tennessee. L'iniezione di veleno il 19 novembre era stata dichiarata incostituzionale. Stephen West è stato condannato a morte per un duplice omicidio avvenuto nel 1986, quando aveva 23 anni, West ha oggi 48 anni, 23 dei quali passati nel braccio della morte, dove gli è stata diagnosticata una grave disabilità mentale.

Venezuela: shopping socialista Per i cittadini di Caracas, vivace capitale del Venezuela, fare shopping oggi è diventato meno dispendioso. Da quando è stato aperto il primo negozio di abbigliamento Alba, Alternativa Bolivariana para las América (della rete Comercios Socialistas, Comerso), le file davanti alle vetrine sembrano interminabili. Il negozio infatti promette ai suoi clienti prezzi imbattibili, spesso inferiori dell'ottantacinque percento rispetto ai negozi “privati”. Uno shopping socialista, nel puro stile del presidente Hugo Chavez. In questo modo le famiglie venezuelane potranno fare acquisti a prezzi davvero vantaggiosi. E se dopo lo shopping si desidera una bibita rinfrescante o un buon caffè non si deve fare altro che entrare al Cafè Venezuela (della stessa rete Comerso), ubicato nella piazza principale della città. Il bar, come il negozio di abbigliamento, promette ai suoi clienti prezzi imbattibili e alta qualità dei prodotti offerti. 16

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Christian Elia

ono adivàsi: tribali indigeni che da sempre vivono, o meglio sopravvivono, nelle foreste che coprono il cuore dell'India interna. Sono tradizionalmente considerati 'razza inferiore', trattati come animali, senza voce e senza diritti: tanto meno quello alla salute. Avendo la sfortuna di abitare terre ricche di risorse che fanno gola alle compagnie minerarie, il governo 'democratico' di New Delhi non si fa scrupoli a cacciarli con la forza. Nell'ambito dell'operazione militare 'Caccia Grossa' contro i guerriglieri maoisti, naxaliti e i loro presunti fiancheggiatori nello stato del Chhattisgarh, le milizie paramilitari del 'Salwa Judum' e i reparti della polizia speciale indiana attaccano e bruciano i villaggi adivàsi, costringendo la popolazione a fuggire. Chi non scappa nella foresta, cercando riparo nelle 'zone rosse' controllate dai maoisti, fugge nel vicino stato dell'Andhra Pradesh, in particolare nel distretto frontaliero di Khammam, dove si contano oltre duecento tendopoli abitate da almeno sedicimila sfollati. Arrivano dopo giorni di cammino, sfiniti e affamati, ma lì non trovano nessuno ad accoglierli e aiutarli. Vengono abbandonati a loro stessi: migliaia di famiglie con bambini scheletrici e denutriti. L'unica speranza per loro, finora, era il Centro di nutrizione e riabilitazione di Badrachalam, gestito dall'Autorità per lo sviluppo tribale integrato (Itda): lì ricevevano almeno un po' di latte e qualche medicina. Da un paio di mesi, però, anche questa speranza sembra venuta meno, dopo che l'Itda - ente controllato dai partiti politici di governo - ha stabilito che il Centro deve prestare assistenza solo a persone che possono provare la loro appartenenza alle tribù 'riconosciute' oppure la loro registrazione nelle liste dei poveri che vivono sotto la soglia di povertà. La maggior parte degli indigeni sfollati è priva di qualsiasi documento, quindi per le autorità indiane semplicemente non esiste. Questa è la tetra realtà che si nasconde dietro l'India splendente, l'India Shining degli slogan propagandistici di New Delhi. Enrico Piovesana


Portfolio

Il popolo delle renne Testo e fotorgrafie di Gabriele Battaglia

el cervello, i quadri di George Catlin, il pittore dei pellerossa, o le foto di Geronimo e Toro Seduto di fine Ottocento. L'intensità della figura umana e intorno le cose che la rappresentano. Perché anche loro, come gli indiani delle praterie, vivono in un tepee - che chiamano urts - e hanno spiriti e sciamani. Anche loro vengono dalla Siberia. Sono un popolo di duecento persone la cui vita dipende da un animale: la renna. In mongolo si dice tsaat, e per questo sono detti tsaatan. Ma tra di loro si chiamano taigiin humus, popolo della taiga, o dukha lar, gente di Tuva: da lì sono arrivati quando il confine tra Russia e Mongolia svaniva in una terra di nessuno percorsa da uomini e animali. Sono migrati nel Khövsgöl Aimag, la regione più settentrionale della Mongolia, nella prima metà del Novecento, fuggivano dalla coscrizione obbligatoria e dalla persecuzione staliniana dello sciamanismo. Delle renne non mangiano o vendono la carne, usano invece i prodotti dell'animale vivo, cioè il latte e la forza lavoro per i trasporti e gli spostamenti nomadici.

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La caccia è una componente chiave dell'identità maschile e soprattutto l'unico modo per procurarsi carne. Il governo l'ha limitata, ma tutti nascondono vecchi fucili sovietici e la praticano. Latte di renna e cacciagione bastavano per vivere fino a venti, trent'anni fa, ma nel mondo globalizzato anche gli tsaatan devono investire risorse sul futuro dei figli, altrimenti sono condannati all'emarginazione e, proprio come i pellerossa, all'alcol, all'abbruttimento e alla mortificazione della propria cultura. Scommettono sul turismo, ma deve essere rispettoso, ecosostenibile. Le loro foto e parole sono un modo per “uscire” dalla taiga, un biglietto da visita per il mondo. La possibile modernità tsaatan passa attraverso un sottile equilibrio: renne, turismo intelligente e istruzione per i giovani. Dalla maggiore o minore riuscita del dosaggio di questi tre ingredienti dipende la sopravvivenza di un popolo e di uno spicchio di biodiversità.


“Nel 1949, le famiglie che fuggivano dalla Russia vivevano al confine tra Mongolia e la repubblica di Tuva. Pochi anni dopo, siamo diventati ufficialmente cittadini mongoli”. Gombo

“In primavera le nostre renne partoriscono. Poi la placenta viene avvolta alle corna così le madri non possono mangiarla. Mangiare la placenta le rende povere di latte”. Purvee


“Ho aspettato circa un'ora che il cervo uscisse per pascolare. Gli ho sparato nella gola. L'ho portato al campo e poi ho invitato tutti ad assaggiare la carne”. Sansar

“Per noi, ragazzi della Taiga, la via dello studio è un po' più difficile che per gli altri. Ma io credo in me stessa e farò di tutto per realizzare i miei sogni”. Solongo


“Sono il veterinario della Taiga, l'ho fatto per più di vent'anni. A volte, quando le nostre renne sono malate, non abbiamo medicine e questo è un problema”. Ganbat

“Le renne hanno un passo più felpato dei cavalli ed è questo il motivo per cui le usiamo per portare a casa i piccoli dopo il parto”. Tungaa


Notizie che di solito non fanno notizia

Le buone nuove Bolivia, abbassata l'età pensionabile Messico

Bielorussia

Chiapas, ancora nel mirino

Un voto contro il Cremlino

ira una brutta aria nel sud del Messico. A farne le spese, sempre più spesso sono gli attivisti per i diritti umani del centro Fray Barolomé de las Casas a San Cristobal de las Casas, Chiapas, istituto da sempre vicino alle realtà zapatiste e indigene della zona. Questa volta il bersaglio è stata Margarita Martìnez Martìnez, attivista molto conosciuta, che all'uscita di un incontro con i membri dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani è stata avvicinata da un potente fuoristrada. Dall'auto - non identificabile per la mancanza della targa - sono scesi due uomini che l'hanno costretta ad ascoltare le loro parole. “Vai al cimitero comunale a trovare i tuoi morti e sappi che molto presto starai con loro”. Una minaccia di morte vera e propria. E non si sarebbero fermati a questo, i due. Alla donna, infatti, è stato consegnato un biglietto, destinatario Diego Cardenas, presidente del Fray Bartolomé, che riportava la seguente frase: “Diego, la vita della tua famiglia è nelle tue mani. Sarà colpa tua”. Non solo: i due uomini hanno chiesto di riferire a Cardenas che il lavoro del Fray Bartolomé è solo quello di “destabilizzare lo Stato”. Già nel febbraio scorso Margherita era stata avvicinata, sequestrata, picchiata e minacciata di morte. Immediata la reazione di Javier Hernàndez Valencia, rappresentante messicano dell'Alto Commissariato Onu per i Diritti Umani. “È allarmante ciò che è successo, nonostante la presenza di una scorta della polizia e proprio pochi minuti dopo la nostra denuncia per la preoccupante situazione che affrontano i difensori dei diritti umani in Messico”. Da qualche tempo, considerate le frequenti minacce, Margarita Martìnez Martìnez e la sua famiglia vivono sotto scorta. Al momento dei fatti, però e inspiegabilmente, la guardia del corpo della donna era assente. “Gli agenti assegnati alla donna non hanno rispettato le misure di sicurezza”, dicono dal Centro, e si punta il dito contro lo Stato del Chiapas “che non rispetta le misure di protezione imposte”.

ifficilmente le elezioni presidenziali del 19 dicembre riserveranno delle sorprese. Aleksander Lukashenko, forte di sedici anni di potere incontrastato, si avvia a ricoprire il suo quarto mandato consecutivo. Undici aspiranti presidenti sono riusciti a superare la soglia delle centomila firme a sostegno della propria candidatura, seppure con uno squilibrio notevole. Il presidente in carica Lukashenko ha consegnato alla Commissione elettorale centrale (Cec) oltre un milione di firme, mentre gli altri hanno appena superato il minimo richiesto. Gli sfidanti più accreditati sono il poeta Uladzimir Nyalklyaeu e il diplomatico Andrei Sannikov. Ma sono in pochi a credere che i due riusciranno a scalfire l’ottanta percento - e più - dei consensi di cui gode Lukashenko (consenso fortemente viziato da brogli). La campagna elettorale è una semplice illusione: il presidente in carica ha rifiutato (ndr a oggi, 2 dicembre) di confrontarsi in pubblici dibattiti con i rappresentanti delle opposizioni, mostrando anche chiari segnali di nervosismo: Lukashenko - forte del sostegno del Partito comunista e di molte formazioni della sinistra - ha ripetutamente accusato Nyalklyaeu e Sannikov di ricevere finanziamenti occulti dal Cremlino, un oltraggio che l’uomo forte di Minsk non ha digerito tanto da portarlo ad affermare che “la Russia è il nostro peggior nemico”. Ovviamente, i due candidati tirati in ballo negano fermamente qualsiasi coinvolgimento esterno nella loro campagna presidenziale. È un dato di fatto, però, che Lukashenko abbia fiutato, da tempo, le intenzioni di Mosca di scaricare l’ex grande alleato per puntare su un nuovo cavallo. Il 19 dicembre, si assisterà a un braccio di ferro a distanza: Lukashenko, infatti, dovrà confermare la sua forza non tanto ai suoi oppositori interni, quanto a quelli esterni: al Cremlino. Andrei Sannikov, sicuro che la Cec altererà a favore di Lukashenko il risultato delle urne, ha già invitato tutti i suoi sostenitori a scendere in Piazza d’Ottobre - il giorno delle elezioni - per difendere le proprie scelte.

Alessandro Grandi

Nicola Sessa

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"Il sistema pensionistico non verrà propriamente rivoluzionato. Sarà però di beneficio per molti settori dell'economia nazionale" ha detto Bruno Apaza, dirigente della Cob, la Central Obrera Boliviana. "Come Cob siamo certi che bisogna riattivare e diversificare l'economia nazionale e aprire a una nuova industrializzazione che generi lavoro e migliori i salari" ha aggiunto il dirigente. "Per quanto riguarda la nuova legge sulle pensioni, come in tutte le cose, bisogna distinguere le due facce della medaglia. Se da un lato i lavoratori sono felici dell'abbassamento dell'età pensionabile, dall'altra bisogna vedere come reagirà l'economia nazionale nei prossimi anni. Le previsioni sul "fondo pensioni" sono effettuate per un periodi di tempo di circa trentacinque anni. Oggi è troppo presto per sapere o anche immaginare l'effetto che questo abbassamento avrà sulla vita dei boliviani" dice da La Paz. "Il dubbio vero è: lo Stato assisterà quella parte di popolazione che oggi non ha lavoro? Perché se è vero che la forza lavoro del paese è disponibile a mettere del suo per aiutare i meno fortunati, anche lo Stato deve prendersi a cuore la situazione e fare molto per loro. Staremo a vedere. Di fatto saranno i giovani a subire in positivo o negativo questa situazione" conclude. Dopo aver riportato nei giusti parametri la vita lavorativa del popolo boliviano, il presidente Morales ha anche deciso la nazionalizzazione dei due istituti che controllavano le casse dei fondi pensione: gli spagnoli del Bbva e gli svizzeri del Zurich Financial Service. In più, la nuova riforma prevede anche la creazione di una "fondo di solidarietà", in parte finanziato dallo Stato, che assicuri pensioni minime ai lavoratori autonomi che abbiano versato contributi per almeno dieci anni. In Bolivia oltre il sessanta percento della popolazione lavorativa non versa contributi.

Kenia, stragisti alla sbarra L'ufficio della presidenza di Nairobi ha annunciato l'istituzione di un tribuale keniano per processare i presunti responsabili dei massacri conseguenti alle elezioni del 2007. In quell'occasione, si registrarono 1300 vittime e trecentomila sfollati. I giudici, nominati nel rispetto delle norme e dello statuto della Corte Penale Internazionale (Cpi), saranno chiamati a giudicare i sei dirigenti keniani indagati per le stragi. L'ideazione e la realizzazione di questa istituzione contempla anche l'intento di tutelare la sicurezza e garantire la stabilità di una regione profondamente lacerata dalle contestazioni seguite alle violenze del 2008. 17


Qualcosa di personale Kosovo

Nel cuore della notte Di Christian Elia L'orologio, sul comodino, segnava 3.30. Non lo riesco a dimenticare. Aprile 2010. La polizia tedesca ha fatto irruzione nella casa che dividevo con la mia famiglia. Hanno detto a mio padre che aveva dieci minuti per andare con loro. Non uno di più. Lo hanno ammanettato, mia madre piangeva disperata. Io ero come intontito... pensavo solo a un vecchio telefilm che mi piaceva tanto. È tutto uguale, dicevo, come un cretino. Invece la mia vita cambiava per sempre e io me ne sono accorto solo dopo. anno messo mio padre su un furgone, l'hanno portato all'aeroporto di Baden-Baden, la città dove vivevamo da diciotto anni. Lo hanno trascinato via, mentre mia madre tentava almeno di dargli una borsa con le sue cose. Mi chiamo Luli, ho venti anni, e il Kosovo l'ho lasciato quando ne avevo solo due. Ad aprile 2010 il mio sogno è finito. La Germania che ha accolto me e la mia famiglia, facendomi crescere in un posto sicuro, mi ha rimandato indietro. La Germania ha rimandato indietro mio padre, per la precisione, ma non potevo lasciarlo solo. Non potevamo abbandonarlo. Anche se io mi sento tedesco. Non parlo serbo né albanese, non sono né l'uno né l'altro. Sono un rom, anche se a scuola - lo ammetto - ho finto spesso di essere altro. Per confondermi, per non essere notato. È terribile sentirsi uguale a tutti gli altri, ma sapere di essere diverso. Conosco solo poche parole di romanes, la nostra lingua, non riesco neanche a comunicare con mio fratello maggiore, rimpatriato in Kosovo diversi anni prima di mio padre. Una ong tedesca mi ha dato trecentocinquanta euro e un appartamento in affitto. Li ringrazio. Ma io volevo solo stare a Baden-Baden, a casa mia. A mio padre, una volta giunto a Pristina, hanno dato cinquanta euro e una stanza d'albergo per due notti. Mentre noi ci organizzavamo lui ci ha chiamato. Piangeva. Non avevo mai sentito mio padre piangere. Era andato a Plemetina, ha trovato la nostra vecchia casa. Un cumulo di macerie, lui ha tentato di renderla presentabile. Mi ha confessato che era terrorizzato dall'idea che mia madre la vedesse così. La minaccia dell'espulsione ci è arrivata addosso all'improvviso. Ormai facevamo la nostra vita. Dopo la dichiarazione unilaterale d'indipendenza del febbraio 2008, le autorità del Kosovo hanno subito pressioni sempre più insistenti da parte degli stati membri dell'Ue - così ho letto sulla stampa - affinché accettassero i rientri dei rom e delle altre minoranze in Kosovo. Solo in Germania si parla di diecimila persone. Amnesty

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International e Human Right Watch ci hanno difeso, hanno attaccato i governi (perché non lo fa solo la Germania) per i rimpatri. Sono così tedesco da non sapere neanche perché dovevo avere paura in Kosovo. Me l'ha spiegato mio padre. Dal crollo della ex-Jugoslavia in poi, per noi rom, in Kosovo, la vita si è fatta pericolosa. Ci hanno sempre accusati di essere collaborazionisti dei serbi. Pensare che io la parola collaborazionista l'ho imparata in Germania, riferita a coloro che avevano aiutato i nazisti. In tutti i territori della ex Jugoslavia, quando è scoppiata la guerra negli anni Novanta, i rom sono finiti nel mirino delle milizie croate e bosniaco-musulmane prima, albanesi poi, in Kosovo. Nel 1999, poi, il crollo verticale della situazione. Le nostre case bruciate, il lavoro diventato impossibile, la paura anche solo di uscire di casa. E ora di nuovo, tutto di nuovo. Per adesso non è successo niente, ma non abbiamo rapporti con nessuno. Perché, alla fine, anche i rom che sono rimasti qui non ci vedono di buon occhio. Per loro siamo quelli che sono scappati, che si sono fatti proteggere all'estero. Io, di tutto questo modo di pensare, non capisco nulla. Tutti mi dicono che funziona così, ma io come faccio a spiegare che non capisco - e non voglio capire - le loro dinamiche. Io voglio solo tornare a Baden-Baden; mi mancano gli amici del pallone, mi manca la ragazza che mi toglieva il fiato. Mi manca l'idea che, alla fine, mi ero reso conto che mi avevano accettato. Adesso sono in una comunità dove mi dovrei sentire a casa, ma non è così. Non so che succederà. Viviamo nel terrore che le stesse persone che hanno bruciato la nostra casa allora tornino a farlo ancora. Dicono che non dobbiamo più avere paura, che il Kosovo è sicuro per noi. Ma io la notte dormo male e, anche se sorriderete, sono convinto che possa capitare qualcosa di brutto. Magari alle 3.30. Foto di Gianluca Cecere per PeaceReporter


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L’intervista Africa

La mia nuova Africa di Tommaso Cinquemani Le nuove tecnologie e l'Africa. Hassan Mohamed è il direttore della Third World Academy of Science di Trieste e presidente dell'African Academy of Science. A PeaceReporter racconta come vede lo sviluppo di un continente che non può essere analizzato come se fosse un monolite, ma un insieme di realtà dalle caratteristiche diverse. Direttore, che parte ha avuto la tecnologia nello sviluppo economico dell'Africa? Alcuni parlano dello sviluppo tecnologico come motore dietro allo sviluppo economico dell'Africa. Beh, credo che sia una esagerazione. Credo però che alcuni fattori, come la tecnologia senza fili, le reti wireless o la telefonia mobile, stiano facendo la differenza. Molti Paesi si stanno muovendo in questa direzione soprattutto per quando riguarda il business. Dalle grandi compagnie ai piccoli commercianti lo sviluppo delle telecomunicazioni sta dando un forte impulso al commercio e alla crescita economica. Oggi le compagnie africane trovano sempre più facile mettersi in contatto ed entrare in rete con le compagnie estere. Per questo possiamo dire che l'applicazione della tecnologia al contesto africano ha aiutato lo sviluppo. Se invece parliamo dell'applicazione della tecnologia ai problemi 'materiali' degli africani come la mancanza di cibo, l'assistenza medica, l'educazione o l'energia, che sono poi i grossi problemi che molti Stati africani devono affrontare, ebbene possiamo dire che la tecnologia non ha ancora avuto un ruolo chiave nel migliorare la vita delle persone. Secondo lei quali sono i Paesi africani che più stanno investendo nella ricerca? Credo che il numero di Paesi stia crescendo molto velocemente. Il Sudafrica è in testa a tutti ed è un caso a parte. Ma posso anche menzionare il Kenya, la Tanzania, l'Uganda, il Ghana, la Nigeria, il Senegal e anche l'Etiopia. Tutti i Paesi che ho menzionato credo che stiano vivendo una importante crescita economica a causa del fatto che hanno governi stabili e democraticamente eletti. Credo che questi Paesi ce la stiano mettendo tutta per migliorare i loro sistemi educativi. Hanno investito in scuole, università e laboratori scientifici. Il mio consiglio per questi Paesi è di utilizzare i miglioramenti sul lato economico per investire di più nell'ambito delle scienze tecnologiche e nell'educazione. Tecnologia sviluppata in Africa o semplicemente importata dall'estero? Quello che un Paese deve fare è avere sì la capacità di assorbire idee dall'esterno, ma anche migliorarle e adattarle ai problemi del singolo Paese. È per questo che l'Africa ha un immenso bisogno di scienziati e tecnici che lavorino localmente. Esempi concreti? In Africa ci sono seri problemi per quanto riguarda l'acqua potabile. Le tecnologie di depurazione ci sono, ma c'è bisogno di adattarle alle situazioni specifiche, come è accaduto in Sud Africa, e questo lo puoi fare solo se hai tecnici sul posto. 20

Un altro esempio sono le energie rinnovabili. Quando si parla di energia solare l'Africa è al primo posto come potenzialità di produzione elettrica. È necessario però sviluppare questi sistemi localmente. E bisogna stare attenti che qualunque tecnologia sviluppata sia economica e accessibile, queste le due parole chiave. Se si seguono questi principi chiunque, anche gli abitanti di piccoli villaggi rurali, potranno adottare le innovazioni tecnologiche e trarne vantaggi. Crede che gli africani siano in grado di “piegare” la tecnologia ai loro bisogni? Ne sono assolutamente convinto. Abbiamo le capacità per farlo. Quello di cui abbiamo veramente bisogno sono gli investimenti. L'Africa in questo momento spende veramente poco nel settore della ricerca scientifica e dell'innovazione tecnologica. Tutti i Paesi africani spendono una percentuale irrisoria del loro Pil, a parte poche eccezioni come il Sud Africa, che sta compiendo passi da gigante nel settore delle nanotecnologie. I loro tecnici hanno usato le scoperte fatte per sviluppare dei filtri per potabilizzare l'acqua e rendere quindi gli abitanti dei villaggi capaci, in maniera semplice, di purificare l'acqua. La cosa interessante è che queste tecnologie sono state sviluppate all'interno del Sudafrica stesso. Questo è un processo che mi piacerebbe vedere nella maggior parte dei Paesi africani. Lei pensa che l'Africa sia capace di saltare il passaggio intermedio di una rivoluzione industriale prima di approdare all'era tecnologica? Lo credo veramente. Credo che l'Africa abbia l'opportunità di saltare l'industrializzazione e di approdare direttamente all'era tecnologica. Questa trasformazione renderà l'Africa in grado di raggiungere il resto del mondo più velocemente. Ad esempio si potrebbe investire nelle energie rinnovabili come quella solare. Perché l'Africa non investe in maniera sostanziale in questo settore in modo che possa far fronte alle sue necessità energetiche? Si potrebbero prendere le tecnologie sviluppate altrove e adattarle alle nostre necessità. Qual è la relazione tra progresso tecnologico e democrazia? Le due cose sono strettamente collegate. La democrazia, una buona gestione statale e l'assenza di corruzione sono elementi essenziali allo sviluppo tecnologico. I governi devono capire quanto sia importante investire nella ricerca scientifica. Se non si ha sviluppo scientifico non si può avere sviluppo sostenibile.

Foto archivio PeaceReporter


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Italia

Truffati e ignorati di Marco Rovelli Di fronte alla protesta degli immigrati imbrogliati nell'ultima regolarizzazione, che chiedono di sanare le truffe commesse ai danni di molti di loro e di poter avere il permesso di soggiorno, Maroni ha detto: “Non possiamo cedere ai ricatti”. ipescando così dall'armamentario concettuale degli anni Settanta, come se i migranti sopra la gru di Brescia, che erano lì a tentare di rendere visibile l'ingiustizia subita, fossero dei brigatisti che chiedevano il riconoscimento politico, e dunque un Moro val bene una fermezza. Ha detto insomma che i “clandestini” sono come brigatisti, e con loro non si parla. C'è una coerenza in tutto questo, perché, in effetti, loro non esistono per lo Stato italiano, sono letteralmente non-persone, e se non esistono è assolutamente consequenziale che non ci si possa parlare. “Lo Stato non ha truffato nessuno”, ha detto il ministro. Conseguenza, dunque, che non si debba trattare. Ora, anche se fosse vero che lo Stato non ha truffato nessuno, compito della legge dovrebbe essere quello di sanare le ingiustizie, al di là dell'averle determinate attivamente... Ma il fatto è che lo Stato ha posto le condizioni perché quelle ingiustizie avvenissero. E finché non si cambia la legge sull'immigrazione continuerà a porle, a favoreggiarle. Visto che, per tornare al concetto di ricatto, è l'immigrato il soggetto che è sempre, permanentemente, sotto ricatto. Mesi fa, nella manifestazione degli immigrati in occasione della “Liberazione di Massa”, avevo incontrato diverse persone truffate. Mi aveva detto il rappresentante dei senegalesi di Bari di aver contato cinquecentoquindici persone truffate nella sua città, che avevano pagato dai tremila ai seimila euro per essere messi in regola e non hanno visto niente. Soldi versati a cooperative come a privati, spariti nel nulla. Un immigrato spesso non conosce la lingua, né la legge, sente che c'è la possibilità di essere messo in regola, si fida e si affida. È questione di vita, per lui. Una legislazione asimmetrica come quella italiana, che pone l'immigrato in una costante condizione di minorità, e in una posizione di totale dipendenza dal datore di lavoro, produce quasi naturalmente questi casi. Dicono che sono clandestini, e in quanto clandestini li criminalizzano: ma poi, loro dimostrano che desiderano con tutte le proprie forze non esserlo, clandestini, e glielo si impedisce. La sanatoria per colf e badanti ha portato nelle casse dello Stato centocinquantaquattro milioni di euro, ma per gli immigrati non c'è stata alcuna tutela. Abdelali è un marocchino di Casablanca, in Italia dal 2005, passato per la Libia, il solito barcone per Lampedusa, poi Torino. Aveva deciso di fare la traversata nel 2005 per aiutare la sua famiglia, dopo che suo papà era morto di cancro nel 2005, a cinquantatré anni, e sua mamma, ammalata di diabete, aveva bisogno di soldi per le medicine. “Spero di tornare e trovarla ancora viva”, dice Abdelali, che non sa se mai riuscirà a tornare. Ma poi i soldi servono anche per la moglie, che è rimasta ad aspettarlo in Marocco. All'arrivo in Italia era stato chiuso nel centro di Borgo

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Mezzanone, da lì era scappato e andato a Torino, dietro la Stazione di Porta Nuova, dove già abitava un amico che lavorava nel mercato di Porta Palazzo. Abdelali era stato lì per un po' ma non aveva trovato lavoro, non gli piaceva “il casino” del quartiere, così se ne era andato da un altro amico, ad Albenga, “qui c'è bisogno di gente nelle serre, nei cantieri...”. Abdelali riesce a trovare da lavorare nei campi, fa il contadino. inalmente, nel 2009, la possibilità di regolarizzarsi. Un suo connazionale gli dice che a Carrara c'è un'agenzia che dà un lavoro e paga i contributi, finalmente puoi essere messo in regola. Se poi il lavoro è finto non importa, del resto uno come Abdelali già lavora, solo che questo suo lavoro non trova riconoscimento, è giusto e naturale cercare un modo per farsi riconoscere. Alla cooperativa di Carrara gli chiedono quattromilacinquecento euro. I soldi glieli manda dal Marocco la moglie, per metterli insieme ha dovuto vendere tutto l'oro, i bracciali, le collane, gli orecchini... confidando che sarebbe stato un buon investimento. In cambio della somma di denaro, gli danno una ricevuta del pagamento delle poste e una del ministero dell'Interno. Una ricevuta tarocca, scoprirà poi. Dopodiché il connazionale scompare, e dalla cooperativa di Carrara rispondono alle telefonate dicendo che ci sono stati dei problemi imprevisti, problemi burocratici, ma che si tratta di aspettare, metteranno un avvocato... Lo stesso ritornello ripetuto ad altre trecento persone. Ma ci sono state altre forme di truffa, gli italiani sono creativi. Per esempio, in zona apuana una trentina di persone sono state truffate da una coppia formata da un senegalese e un italiano: avevano detto che avrebbero fatto la richiesta per la regolarizzazione, facendosi pagare dai duemila ai quattromila euro, promettendo l'assunzione come colf. Nei confronti del senegalese è stata sporta denuncia anche in Senegal - dove è stato arrestato. L'Italia invece la sua parte non l'ha fatta. “Sessantacinque anni fa, degli italiani, con il cuore unico e il sorriso sulla bocca, hanno detto Viva la libertà. Noi oggi dobbiamo mettere il nostro impegno perché questo giorno, in cui valorosi uomini hanno lottato tutti per uno e uno per tutti, non sia dimenticato. Noi africani, quando festeggiamo i nostri antenati, lo facciamo guardando il problema che abbiamo di fronte oggi. E oggi la nostra lotta è questa: guardare l'altro come un uguale.” Così aveva detto un senegalese in quella manifestazione per la “Liberazione di Massa”.

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Manifestazione di immigrati sotto la torre di via Imbonati. Italia, 2010. Foto di Eugenio Grosso © Fotogramma


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Migranti

Cronologia migratoria di Storiemigranti.org Il sito Storie Migranti, ogni mese, pubblica una cronologia minuziosa dell'umanità in cammino nel mondo. PeaceReporter ne offre una sintesi del mese di ottobre 1: Marocco. Médecins Sans Frontières denuncia il fatto che il governo marocchino abbia ripreso a deportare verso il confine algerino i migranti sans papiers, intensificando le pressioni nelle aree boschive prossime alle città e nei quartieri a maggiore concentrazione di stranieri. Msf ha inoltre denunciato che dei centottantasei pazienti migranti assistiti nelle ultime settimane, ben centotré riportavano contusioni e ferite in seguito a percosse ricevute durante il periodo di detenzione nelle carceri locali.

10: Italia. L’aeroporto di Cagliari è stato chiuso al traffico per alcune ore in seguito alla rivolta scoppiata al Cpa (Centro di prima accoglienza) di Cagliari. Si tratta delle terza rivolta nel giro di pochi giorni; la prima si era verificata il primo ottobre e la seconda qualche giorno dopo, per protestare contro il trasferimento al Cie (Centro identificazione espulsione) di Gradisca d’Isonzo di alcuni migranti di origine algerina, provocando il danneggiamento della struttura e la chiusura, per inagibilità, del piano superiore del Centro.

2: Ue. Martedì 28 settembre, da Varsavia, è partito il volo di rimpatrio diretto verso la Georgia. Si tratta del primo volo collettivo gestito dall’agenzia per il controllo delle frontiere esterne (Frontex) e aveva a bordo cinquantasei migranti provenienti dalla Georgia e arrestati in diversi stati dell’Ue: Polonia, Francia, Austria, Germania.

16: Grecia. Un gruppo di quarantacinque richiedenti asilo provenienti dall’Iran ha piantato una tenda di fortuna davanti all’Università di Atene e ha iniziato uno sciopero della fame, otto migranti si sono cuciti la bocca. I richiedenti asilo, fuggiti dall’Iran a causa delle persecuzioni politiche, affermano che il trattamento in Grecia è deplorevole, con continui maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine e trattenimenti prolungati nei centri di detenzione.

4: Italia. Arrivo insolito sulle coste italiane. Anziché sulle coste siciliane e, come quest’estate, sulle coste della Calabria, l’imbarcazione in questo caso è arrivata a Latina. Le forze dell’ordine accorse sul luogo hanno fatto sapere che sono arrivati venticinque migranti, di origine egiziana, ma ipotizzano che altri possano essere riusciti a fuggire prima del loro arrivo. 4: Onu. L’alto commissario delle Nazioni unite per i rifugiati, António Guterres, ha espresso la sua preoccupazione per il fatto che l’aumento dei conflitti a lunga durata genera situazioni in cui i rifugiati rimangono tali quasi a vita. Secondo Guterres questo richiede un rafforzamento delle politiche di asilo e di protezione a favore dei quarantatré milioni di persone che hanno abbandonato i loro paesi o i loro luoghi di residenza. Guterres ha fatto gli esempi della situazione in Afghanistan e in Somalia, dove i combattimenti durano da decenni. Quattro quinti dei rifugiati risiedono attualmente in paesi in via di sviluppo, per questo, secondo Guterres, è fondamentale rafforzare la solidarietà internazionale. 6: Usa. Segnato il record del maggior numero di deportazioni nella storia degli Stati Uniti: 392.000 i migranti senza documenti deportati nei loro paesi di origine nel corso dell’anno fiscale 2010 (fonte: Dipartimento di Stato). 9: Canada. Ricercati gli organizzatori di un traffico di esseri umani accusati di aver ridotto in schiavitù sedici cittadini ungheresi, fatti arrivare legalmente in Canada e poi impiegati nell’edilizia o regolarmente iscritti alle liste di disoccupazione. Il racket incassava gli stipendi e gli assegni di disoccupazione e alloggiava gli uomini in scantinati in condizioni estreme. Francia. I lavoratori sans-papiers, in sciopero da ormai otto mesi, hanno occupato la Cité nationale de l’histoire de l’immigration, in attesa di una risposta da parte del ministro dell’Immigrazione e dell’identità nazionale, Eric Besson, in merito alla loro richiesta di regolarizzazione di seimilaottocentoquattro scioperanti. 24

18: Gran Bretagna. Dopo la morte di Jimmy Mubenga, avvenuta durante il suo rimpatrio in Angola, alcuni parlamentari chiedono che venga svolta un’inchiesta su quanto è accaduto. I testimoni della scena evocano la violenza con cui sarebbe stato trattato l’uomo, ma l’autopsia non ha potuto stabilire le cause del decesso. 19: Italia. È stata aggiornata al 21 dicembre la data per la sentenza al processo d’appello relativo allo speronamento della nave albanese “Kater I Rades” da parte di una nave della marina militare italiana, “Sibilla”, avvenuto il 28 marzo del 1997, in seguito al quale hanno perso la vita centootto uomini, donne e bambini albanesi. Durante il processo di primo grado il comandante della “Sibilla”, Fabrizio Laudadio, era stato condannato dal tribunale di Brindisi a tre anni per omicidio colposo plurimo e naufragio colposo, mentre Namik Xhaferi, indicato come il pilota della “Kater I Rades”, era stato condannato a 4 anni. Il 25 settembre scorso, nel processo d’appello, il procuratore generale ha chiesto che venisse confermata la condanna di Namik Xhaferi e l’assoluzione, invece, per il comandante della “Sibilla”. Nell’udienza di oggi, l’avvocato difensore di Namik Xhaferi, Francesca Conte, ha invece difeso il suo assistito ribadendo che la sera del 28 marzo non era lui a guidare la motovedetta albanese, ma che egli fu individuato come pilota solo perché serviva trovare un colpevole. La prossima udienza è stata fissata per il 9 novembre, mentre la sentenza definitiva sarà pronunciata il 21 dicembre. 19: Indonesia. Arrestati settantaquattro migranti cittadini iraniani e afgani, tra cui quindici donne e dodici bambini, vicino all’isola di Java quando l’imbarcazione su cui viaggiavano diretti verso l’Australia è andata in avaria. Trasferiti in un centro di detenzione, verranno consegnati all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim). In alto: Migrante nel porto di Calais. In basso: Distribuzione del pranzo dalla Caritas francese. Francia 2006. Foto di Massimiliano Clausi / Posse Photo


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Rubriche

A teatro di Silvia Del Pozzo

Moby Prince, la notte dei fuochi Livorno, 10 aprile 1991. A poche miglia dal porto, la nave traghetto Moby Prince, diretta in Sardegna, si scontra con la petroliera Agip Abruzzo prendendo fuoco. Nel rogo muoiono 140 persone tra membri dell'equipaggio e passeggeri. Nonostante la vicinanza alle banchine del porto, nessun mezzo di soccorso tenta l'abbordaggio, mentre nell'immediata inchiesta la Capitaneria di Porto indica tra le cause del disastro la presenza di nebbia, smentita subito da numerosi testimoni. Due processi, una clamorosa riapertura delle indagini, la presenza di navi non segnalate, decine di manomissioni e depistaggi a comporre lo scenario della più grave tragedia della marineria italiana.

Moby Prince, la notte dei fuochi di Andrea Vivaldo e Fabrizio Colarieti (a cura di) con la prefazione di Enrico Fedrighini libro stampato su carta FSC e rilasciato con licenza Creative Commons Edizioni BeccoGiallo beccogiallo.it

“Chiamatela dietrologia, oppure antiamericanismo. Ma resta un fatto: anche in questa brutta storia i nostri fedeli alleati americani ci sono entrati pesantemente. Con le mani e con i piedi.” dall'intervento di Fabrizio Colarieti

Vedi Napoli, poi muori “Un viaggio alla ricerca di un linguaggio che traduca l’estremo urlo di chi muore per un’idea, per un Dio o per un amore”. Così Antonio Latella, regista e neo direttore artistico del Nuovo Teatro Nuovo di Napoli (nel cuore dei Quartieri Spagnoli), descrive la stagione 2010-2011 della sua “casa”, tutta giocata sull’idea di fondamentalismo: non solo in senso religioso, ma politico, artistico, culturale. Sono diciotto spettacoli affidati a una compagnia stabile di sei giovani attori e altrettanti registi, con l’apporto di due drammaturghi (Federico Bellini e Linda Dalisi) che hanno curato gli adattamenti e scritto nuovi testi. Ogni regista mette in scena uno spettacolo “grande” che coinvolge tutta la compagnia e un monologo. Protagonisti, personaggi reali o ideali, vissuti e morti per non tradire le proprie idee, la loro fede o sentimenti: da Prometeo a Rosa Luxembourg, da Madame de Sade ai kamikaze, da Simon Weil a Giuda. Gli spettacoli verranno presentati a cicli nel corso di tutto l’anno, offrendo così al pubblico la possibilità di crearsi un proprio cartellone scegliendo quando vedere, o rivedere, il testo che li attira di più. La programmazione di dicembre offre tre spettacoli “grandi”: Kamikaze a cura del gruppo M K (fino al 2), seguito da Madame (dal 7 al 9), liberamente tratto dal Madame De Sade di Mishima, con la regia di Paola Diogo che a proposito ha scritto: “Imparare ad amare i nostri mostri…imparare che l’amore violenta… Madame ci presenta un nucleo di donne che portano addosso il segno delle violenza… che si dibatte, che si sfalda dinnanzi all’impotenza… Pietrificate”. Dal 17 al 19 è la volta di Brand tratto dal dramma di Ibsen (regia di Tommaso Tuzzoli): “Tutto o nulla: in questa sintesi sta il percorso del protagonista” scrive Bellini che ha

ridotto il testo di Ibsen.” Brand ha poche indecisioni… deve portare a termine la sua missione a ogni costo…per lui l’essere umano è troppo debole, troppo fiacco, troppo sfibrato per ambire al sublime della fede…per questo Brand non lascia che vittime sul suo cammino…”. È quindi la volta dei monologhi: il 5 è di scena Misfit like a clown che Linda Dalisi (anche regista) ha liberamente tratto dal romanzo di Heinrich Böll Opinioni di un clown, interpretato da Daniele Flor; il 12, invece, sale in palcoscenico Massimiliano Loizzi nei panni di Prometeo per la regia di Pierpaolo Sepe. A gennaio poi, dal 10 al 15, andranno in scena tutti e sei i monologhi nella piccola rassegna del Teatro anatomico: La fame sulla figura di Simone Weil; Giuda, Rosa Lux, sul pensiero politico di Rosa Luxemburg; Il velo che ripercorre la storia di tre clarisse che rammendano la Sacra Sindone; oltre naturalmente a Prometeo e Misfit like a clown.

Nuovo Teatro Nuovo, Napoli: tel. 081425958. 27


Al cinema

In libreria

di Nicola Falcinella

Vivere l’Italia Antonella Bolzoni, Daniela Frascoli, Licia Lanza

We want sex Una di quelle belle commedie sociali come solo gli inglesi sanno fare, film che suscitano riso, emozioni e riflessioni. Una pellicola che riporta all’attenzione un evento, non troppo lontano nel tempo ma rimosso dalla nostra corta memoria, che ha tanti legami con l’oggi. È “We Want Sex” di Nigel Cole, già regista di “L’erba di Grace” e “Calendar Girl”, non casualmente tutte storie al femminile. Siamo nel 1968, nello stabilimento della Ford di Dagenham, nell’Essex (Inghilterra), uno degli impianti più grandi d’Europa. Su 55.000 operai, solo centottantasette sono donne, addette a cucire i sedili in un capannone caldissimo d’estate, tanto da costringerle a lavorare seminude, e dove quando piove entra acqua dal tetto. Un giorno le loro rivendicazioni per condizioni di lavoro più umane prendono una piega nuova. La determinata e piena di vita Rita (la straripante Sally Hawkins, vista in “La felicità porta fortuna” e altri film di Mike Leigh, in “An Education” e in “Sogni e delitti” di Woody Allen) guida le colleghe in uno sciopero per chiedere il riconoscimento della loro specializzazione e, soprattutto, la parità salariale con gli uomini. Alla fine, anche con il sostegno del ministro laburista Barbara Castle (Miranda Richarson), vincono la loro battaglia contribuendo a cambiare la vita lavorativa di tante donne. Un film commovente, ben recitato (ci sono tra gli altri Bob Hoskins e Rosamund Pike) e soprattutto attuale. Le lavoratrici non cedono al ricatto di chi vuole portare altrove lo stabilimento - una forma precoce di delocalizzazione - e la spuntano, facendosi riconoscere i diritti senza perdere il posto di lavoro. Naturalmente oltre che con i datori di lavoro le donne devono vedersela con i maschi e i loro pregiudizi, compreso il marito di Rita, tanto amorevole e bravo nel sostituirla a casa durante le sue assenze quanto incapace di capire ciò che sta accadendo e di resistere alla tensione nel momento in cui lo stabilimento resta a lungo bloccato e nelle casse familiari non entrano i salari. Il titolo è accattivante e fuorviante insieme: riproduce quel che si legge sul cartello “We Want Sexual Equality” che però rimase piegato a metà durante una manifestazione.

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esercizi di comprensione e poi un susseguirsi di giochi, attività per la produzione orale e scritta e box con curiosità e risorse web, fondamentali per tenere alta l’attenzione e per suggerire approfondimenti. A fine unità è sempre presente un momento di riflessione grammaticale che accompagna l’apprendente ad appropriarsi degli elementi linguistici e grammaticali. Il metodo induttivo e gli spunti per il confronto interculturale e per l’analisi contrastiva tra l’italiano e le lingue degli apprendenti ne fanno uno strumento chiaro ed efficace nel percorso di integrazione linguistica e culturale. Guerini Studio, 2010, pagg. 122, €15,50

Arti visive di Pietro Gaglianò

Esperimenti di arte partecipata

Per un immigrato la parola “integrazione” racchiude molteplici significati: uno di questi è la conoscenza di una nuova lingua, strumento indispensabile per le relazioni nel suo nuovo Paese. Uno dei luoghi in cui l’integrazione linguistica dei migranti è supportata nonostante tutte le difficoltà del momento storico che stiamo vivendo è Cologno Monzese, cittadina alle porte di Milano il cui Comune ha da tempo istituito una scuola di italiano per stranieri gratuita e con insegnanti di alto livello, che nell’ultimo anno scolastico ha visto frequentare i suoi corsi quasi duecento persone. È grazie all’esperienza maturata in questa scuola che tre insegnanti hanno realizzato “Vivere l’Italia”, una raccolta di testi per la lettura che spaziano dall’attualità, alla cultura, alla società, realizzato in collaborazione con PeaceReporter. L’obiettivo è stato quello di creare un testo che, accompagnando gli apprendenti al raggiungimento del livello A1 del Quadro comune europeo per le lingue, fosse in grado di illustrare l’Italia al di là delle banalizzazioni, dei luoghi comuni, dell’immagine distorta spesso trasmessa dai media. Così quando si parla di musica, si raccontano anche le orchestre multietniche; descrivendo la famiglia in italiano non si dimenticano le coppie multietniche e il lavoro di colf e badanti. E ancora, illustrando gli italiani si raccontano gli stereotipi diffusi in tutto il mondo e spiegando lo Stato italiano si raccontano il 25 aprile e le elezioni. Il testo si chiude con il capitolo “L’Italia tra emigrazione e immigrazione” che accomuna italiani e stranieri nel percorso verso una vita migliore. Il testo è composto da dieci unità graduali, ognuna delle quali contiene testi di lettura,

Zygmunt Bauman definisce ‘pubblico’ uno spazio in cui ‘in cui gli estranei si incontrano e condensano tratti distintivi della vita urbana’. Nasce in seno alla stessa sensibilità il progetto cui l’artista Jochen Gerz (Berlino, 1940) ha dato vita in alcune città della regione Ruhr, Capitale Europea della Cultura 2010. “2-3 Strade” (www.2-3strassen.eu ) cerca di sollevare interrogativi sul ruolo sociale dell’arte e sul modo in cui i comportamenti creativi, dei singoli e dei raggruppamenti, sono in grado di fornire modelli di sviluppo, aggregazione e risoluzione non violenta dei conflitti nello scenario della città contemporanea. Per attivare questa discussione, e per farlo con il coinvolgimento degli enti di governo territoriale, Gerz ha aperto un laboratorio sperimentale su scala urbana mettendo in discussione proprio quei filtri che distinguono l’appartenenza degli individui alla sfera pubblica. Settantotto creativi sono stati invitati a vivere per un anno in tre città della Ruhr, Dortmund, Duisburg, Mülheim, tutte caratterizzate dalla crisi dell’economia legata all’industria mineraria e siderurgica e da una forte incidenza di immigrazione dalla Turchia e dai paesi dell’Est europeo. I partecipanti al progetto hanno condotto una ‘colonizzazione gentile’ in tre strade delle città prescelte, innescando una serie di pratiche di condivisione e coinvolgimento dei vecchi abitanti: orti condominiali, gruppi teatrali, progetti di didattica, reportage fotografici, sempre svolti in qualità di abitanti, non di operatori sociali o di agenti esterni, ed estendendo la responsabilità dell’organizzazione e dell’iniziativa a tutti gli inquili-


ni dei block interessati. L’aspetto fondamentale non riguarda gli esiti raggiunti, ma i modelli di relazione attivati: l’interesse del lavoro di Gerz, infatti, non è rivolto alla visibilità dei progetti realizzati ma proprio ai cambiamenti invisibili, quelli a rilascio lento, percepibili sulla durata e riscontrabili nella riproducibilità delle varie pratiche quando l’esperimento sarà finito. Nuovi e vecchi abitanti stanno inoltre scrivendo un libro corale, fatto di contributi anonimi lasciati su una piattaforma web, che verrà pubblicato il prossimo anno registrando le cronache, le idee, le perplessità e le speranze di tutti i partecipanti al progetto.

Musica di Claudio Agostoni

Daniele Sepe, “Fessbuk - Buona notte al manicomio”, Il Manifesto Su Facebook, il libro delle facce DOC, Daniele Sepe ha più di una pagina registrata a suo nome. Parecchie centinaia di amici e un “profilo” estremamente frequentato. Su “Fessbuk”, il meno noto libro dei fessi, ultima fatica discografica del sassofonista partenopeo, ha ‘postato’ tredici brani. Sono 74 minuti utilizzati per massacrare tutto quello che cerca di essere conciliante. Il legame tra Facebook e Fessbuk è a doppio filo, perché il secondo è figlio di scontri e discussioni sul famoso social network. Uno strumento che Sepe usa per lanciare fulmini e saette, esattamente come fa con i suoi dischi. Un lavoro ricco, come è prassi per l’artista napoletano. Ricco di proposte musicali e di provocazioni politiche. Una riflessione su quelli che sono i luoghi comuni del popolo della sinistra di oggi, molto buonista e pochissimo proletario. Lo sbeffeggiamento dei troppi sushivegetarianradicalcomunisti di oggi. Realizzato con il solito nutrito gruppo di guasta-

tori (Auli Kokko, Mario Insegna, Lino Vairetti, Doris Lavin, Roberto Lagoa, Marzuk Majiri e la partecipazione strumentale di Tony Esposito e Sandro Oliva), ma con l'aggiunta della metrica a mitraglia del rapper napoletano Shaone (noto per il lavoro con il gruppo hip hop partenopeo “La Famiglia”). Composizioni originali (fa discutere “Cronache di Napoli”, un brano in cui si scaglia contro lo scrittore Saviano) e riletture dall’alto peso specifico. È il caso Bulls on parade dei Rage Against the Machine, brano in cui si parla della invenzione della "speculazione democratica": la grande illusione di un mercato finanziario e di una borsa aperti a operai, impiegati e pensionati. Tutti potevano diventare Rockfeller se solo "ci sapevano fare". La realtà è sotto gli occhi di tutti: si sono arricchite solo le oligarchie economiche, per strada c’è finita un sacco di gente derubata dei propri risparmi. O di Campagna dei Napoli Centrale, con testi alternati in arabo e dialetto, in cui si evocano gli immigrati presi a fucilate a Rosarno. Un lavoro sferzante, diretto, senza vie d'uscita consolatorie.

In rete di Arturo Di Corinto

Fare flanella in rete Qualcuno si illude che il mondo finisca con Facebook perchè è lì che si trovano i nostri amici. Altri pensano che con Google si trovi tutto quello che serve, per una tesina o per un viaggio. Altri ancora sono certi che Youtube sia sufficiente a sfamarci di video e che su Flickr ci siano le foto più belle del mondo. Ma non è vero. A contendersi l'attenzione dei cibernauti con Facebook gareggiano Orkut, FourSquare e altri social network. Google è forte nei Paesi di lingua anglosassone ma non esiste più in Cina nella versione in lingua cinese ed è stato sostituito da Baidu. In Italia Bing, il motore di ricerca di Microsoft gli fa una discreta e tenace concorrenza. Con Youtube gareggiano Tumblr e altri siti, anche più ricchi, affidabili e con meno vincoli. Mentre Flickr di certo non serve la fotografia di amanti e professionisti del genere che invece hanno tantissimi siti privati dove mostrano le proprie opere. Già, ma come si fa a trovarli? Saltando a piè pari il dilemma se Google faccia bene oppure no il suo lavoro offrendo moltissime informazioni, ma filtrate e selezionate secondo

logiche di rilevanza incomprensibili ai più, sta di fatto che il famoso motore di ricerca riconfigura costantemente il sapere digitalizzato in rete espungendo ciò che è meno noto, famoso, cliccato e linkato, e offrendo solo link che hanno raggiunto la massa critica per arrivare al grande pubblico. Con Google non sono venuti meno i canali tradizionali per scoprire siti nuovi. Ci sono le mailing list dove ancora le comunità virtuali si scambiano link, commenti e segnalazioni, le chat e i forum. D'altra parte l'uso di Twitter, un altro social network che con soli centoquaranta caratteri di messaggio serve a segnalare vicendevolmente link e risorse su web alla propria cerchia di amici e a rilanciarli attraverso il meccanismo dei retweet, aiuta a entrare in contatto con cose meno note. Tuttavia si rischia l'omologazione, la tendenza a segnalare ciò che già sappiamo piacere ai nostri amici e a condividere ciò che è già atteso e che gli altri si aspettano da noi. E se provassimo a riscoprire il piacere della libera navigazione nel web? Flaneur è una parola introdotta nell'uso comune dal poeta francese Charles Baudelaire, e indica il gentiluomo che vaga per le vie cittadine, ma soprattutto indica una pratica, un'attitudine che lascia spazio all'esplorazione non affrettata e libera da mappe e programmi. Come si può fare questo in Internet e scoprire cose nuove e dirlo agli amici? Uno strumento forse adatto alla bisogna si chiama Stumbleupon. Stumbleupon consente di scoprire e condividere siti web segnalati da altri utenti. Una volta registrati al sito, definiti i contenuti delle proprie preferenze per parole chiave - attivismo, tecnologia, moda, design eccetera - è possibile scaricare e aggiungere senza fatica un add-on al proprio browser web che offrirà poi una barra di navigazione supplementare attraverso cui navigare in maniera casuale tra contenuti video, testuali, fotografici, sonori. Si tratta di pagine raccomandate e recensite da conoscenti, Stumbleupon integra strumenti di community non dissimili da Facebook, o dagli altri dieci milioni di utenti a noi sconosciuti che abitano il sistema. Dopo la visita al sito è possibile esprimere una preferenza, pollice alzato se ci è piaciuto, pollice verso se non ci è piaciuto, e poi valutare, recensire e raccomandare questi siti, condividerli sui social network dove siamo presenti o inviarli all'indirizzo e-mail di un amico senza aprire il proprio programma di posta. Per i creatori Stumbleupon è un modo di combattere l'overload informativo e le estenuanti ricerche fatte attraverso i motori di ricerca tradizionali in modo tale che un oscuro ma interessante sito web possa essere trovato e segnalato. La partecipazione dei membri della comunità aiuta a mantenere traccia di quelli migliori. Stumbleupon non è diverso dalle directory di ricerca dei primi tempi di Internet e unisce alla forza degli algoritmi matematici la passione delle persone per contribuire a un lavoro comune, la creazione di indici di cose belle e interessanti e, soprattutto, inattese. http://www.stumbleupon.com 29


Per saperne di più

to. Tra loro un bandolero italiano noto come El Toscano. Storie drammatiche di ribellioni e ideali internazionalisti che Bayer racconta con passione, quasi in presa diretta.

CILE

FILM E DOCUMENTARI

LIBRI BRUCE CHATWIN, «In Patagonia», Adelphi Edizioni, 2003 Nel dicembre del 1974 Bruce Chatwin cominciò il viaggio nella terra eccentrica per eccellenza, perfetto ricettacolo per l'allucinazione, la solitudine, l'esilio, da cui sarebbe nato questo libro. Apparso nel 1977 come opera prima, fu subito salutato come ‘il più originale libro di viaggi di questi ultimi tempo’. Ma non si trattava, in realtà, di un debutto: Chatwin aveva già pensato a ‘l'alternativa nomade’, che sebbene non abbia mai visto la luce, toccava una delle sue più segrete ossessioni, l'irrequietezza umana ed era destinato a influenzare tutta la sua successiva produzione. “In Patagonia” è il libro-simbolo di tutti i viaggi. Insieme alle opere di Francisco Coloane e Luis Sepùlveda, il libro di Chatwin è parte integrante della più classica e celebre letteratura sulla Patagonia. FRANCISCO COLOANE, «Terra del Fuoco», Tea Edizioni, 2003 Un insieme di racconti sui pionieri della Patagonia, avventurieri, religiosi, cercatori d’oro, marinai. Si muovono in questa terra aspra e selvaggia, cercando la fortuna o fuggendo dalla miseria. Francisco Coloane, nato nell’isola di Chiloé, ci porta soprattutto per mare e mostra il lato inospitale, violento dell’estremo sud, muovendo i personaggi tra realtá e magia. Scrittore patagonico, è colui che più di ogni altro ha saputo mettere su carta l’autentico spirito di quelle terre. E lo stesso Luis Sepúlveda ha voluto rimarcare questa ‘supremazia’, con un affettuoso omaggio a Coloane nell’ultimo capitolo di “Patagonia Express”. “Terra del Fuoco” è a sua volta ritenuta una delle opere più pregne di quello spirito, e della capacità di Coloane di fissarlo con le parole sulla carta. LUIS SEPÚLVEDA, «Patagonia Express», Tea Edizioni, 1998 Un diario di viaggio ispirato al maestro Coloane, un insieme di riflessioni, racconti, leggende nella potente natura della Patagonia. C’è il vecchio Eznaola, che naviga senza sosta per i canali cercando un vascello fantasma; ci sono i gauchos che ogni anno organizzano il ‘campionato di bugie’ della Patagonia; c’è l'aviatore Palacios e lo scienziato Kucimavic e poi Butch Cassidy, Sundance Kid e, appunto Bruce Chatwin. Sepúlveda omaggia dunque, all’inizio e alla fine dell’opera, Chatwin e Coloane, ovvero chi ha contribuito alla conoscenza di massa di quella terra, e chi le ha dato corposità letteraria. OSVALDO BAYER, «Patagonia rebelde. Una storia di gauchos, bandoleros, anarchici, latifondisti e militari nell'Argentina degli anni venti», Eleuthera Edizioni, 2009 Questo è stato un libro perseguitato. Negli anni Settanta, in Argentina, l'opera era stata censurata, le copie sequestrate e bruciate. Nonostante il successo della riduzione cinematografica realizzata da Héctor Olivera (Orso d'argento a Berlino nel 1974), la storia è stata poi offuscata dalle ‘patagonie’ estetizzanti alla Chatwin. I protagonisti delle vicende narrate da Bayer sono invece peones, gauchos dalla pelle tagliata dal vento, bandoleros e sindacalisti anarchici. Ribelli dimenticati di un lungo sciopero insurrezionale che nel 1921 li vide occupare le fattorie dei latifondi patagonici con un'armata stracciona che, sventolando la bandiera della rivolta, tenne in scacco per mesi polizia ed eserci30

PINO SOLANAS, «Patagonia Rebelde» È il film tratto dall'omonimo libro di Osvaldo Bayer descritto sopra, che racconta appunto la repressione della ribellione dei gauchos nel sud dell'Argentina. JUAN PABLO ORREGO, «Enlazando Alternativas: le dighe dell'Enel in Patagonia cilena» È un documentario di denuncia che Orrego, della ong cilena Ecosistemas, ha girato sul caso dell'Enel nel Cono Sud, raccontato nel reportage di apertura.

SITI INTERNET http://www.elciudadano.cl Nelle edicole come settimanale, ma aggiornato di frequente nella sua versione online, El Ciudadano è uno dei piú interessanti giornali di inchiesta in Cile. Dichiaratamente di sinistra, si è speso contro Pascua Lama, devastante progetto minerario nel nord del Cile e molti altri progetti dannosi a livello ambientale e politico. Qui si puó trovare un interessante archivio di articoli su HidroAysén e le dighe in Patagonia. http://patagoniasenzadighe.org Il sito della campagna italiana ‘Patagonia senza dighe’, con un continuo aggiornamento sulle iniziative organizzate in Italia dalle numerose associazioni coinvolte. Tra queste Campagna per la Riforma della banca Mondiale, Aktivamente, Servizio Civile Internazionale, Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua.

SAHARA OCCIDENTALE LIBRI E REPORTAGE LUCIANO ARDESI e NOBUKO MIZUJIRI, «Sahara Occidentale. Una scelta di libertà», EMI, 2004 Un libro sulla storia del popolo Saharawi, un popolo che lotta per l'autodeterminazione da ormai troppi anni, il cui territorio è stato invaso dal Marocco che ha costruito un muro di 2 600 km per trincerarsi dentro i territori occupati. Scritto dal massimo esperto del popolo Saharawi, Luciano Ardesi, presidente dell'Associazione Nazionale di Solidarietà con il popolo Saharawi e illustrato con fotografie di Nobuko Mizujiri, fotografa di Kyoto. ANA TORTAJADA, «Figlie del deserto», Sperling and Kupfer Editore, 2004 Un documento che racconta la vita del popolo Saharawi. Un popolo che vive in una striscia di deserto inospitale tra il Marocco e la Mauritania e che ha dato vita a un'esperienza organizzativa e di progresso sociale straordinaria. Una società in cui il ruolo delle donne è di primaria rilevanza, caso unico nella cultura musulmana, e presso il quale l'autrice si è installata, condividendo le esperienze quotidiane di queste "figlie della sabbia" che lottano per l'indipendenza della loro gente e per raccontare la loro storia. JEAN LAMORE , «Diario del Polisario-l'alfabeto urbano», Colpo di fulmine, Napoli, 2002 La Francia, Paese democratico per eccellenza, è famosa per la sua libertà di stampa, ma i legami tra i media francesi e il Marocco sono così stretti da non permettere che un’informazione favorevole o imparziale a proposito del popolo Saharawi,

possa essere pubblicata. È quanto denuncia il giornalista francese Jean Lamore nel suo libro: la stampa francese, che ha quasi sempre taciuto i crimini della monarchia, va ancora più lontano nella sua opera di sottomissione, disinformando l’opinione pubblica fino ad assumere un ruolo diverso, quello di “profanatore della storia”.

FILM E DOCUMENTARI «Vedere l'occupazione», a cura di Patrizio Esposito, 2010 Questo documentario è composto da brevi riprese effettuate dai Saharawi con mezzi di fortuna nei territori occupati preclusi agli osservatori internazionali e ai giornalisti. Estratti video di denuncia con cui vogliono comunicare al mondo quello che sta accadendo nelle città del Sahara Occidentale e nelle carceri. MARIO MARTONE, «Una storia saharawi», Italia 1996 Il grande regista napoletano, a metà degli anni Novanta, regala una storia tenera e drammatica, uno spaccato di vita di un popolo dimenticato nel deserto. WALTER BENCINI , «Viaggio in Saharawi - Il coraggio di vivere per la libertà», 40 minuti Nel paesaggio di stupefacente e dura bellezza del Sahara occidentale, Walter Bencini racconta il suo viaggio verso l’incontro con il popolo Saharawi, da decenni sradicato dalle proprie terre e confinato nelle tendopoli del deserto che portano il nome delle città in Marocco dove un tempo vivevano. È il viaggio di solidarietà di un gruppo di persone del Valdarno per consegnare il denaro e i medicinali raccolti in varie iniziative direttamente nelle mani dei beneficiari. Durante il viaggio infatti viene organizzata una serata per mostrare il rituale del matrimonio Saharawi e, come sposi, vengono scelti due componenti del gruppo di viaggiatori occidentali. ANTONIETTA DE LILLO, JACOPO QUADRI e PATRIZIO ESPOSITO, «Saharawi, voci distanti dal mare», 2004 Canti e testimonianze sonore del popolo Saharawi nella realtà dell'esilio, registrati nei campi Smara e Dakhla, due di quelli che accolgono i profughi in fuga dagli anni Settanta.

SITI INTERNET http://www.saharalibre.es/ Il sito internet, in spagnolo, del Fronte Polisario, l'organizzazione politico militare che si batte per l'autodeterminazione del popolo Saharawi. http://www.saharawi.org/ Sito dell'associazione El Ouali, che diffonde notizie in italiano e che si batte per il rispetto dei diritti umani del popolo Saharawi nel Sahara Occidentale occupato.


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