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mensile - anno 2 numero 1 - gennaio 2008

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Serbia

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

Dalla Vojvodina al Kosovo, tra povertà e nazionalismi

India Iraq Sri Lanka Italia Mondo

L’altra faccia del boom Al limite del sogno La guerra dimenticata La sfida più dura di Claudio Fava Afghanistan, Bolivia, Etiopia, Stati Uniti

Gino Strada

Io e il presidente Napolitano

Il quinto fascicolo dell’atlante: Somalia e Corno d’Africa



Se vuoi la pace non devi parlare agli amici. È ai nemici che ti devi rivolgere. Moshe Dayan

gennaio 2008 mensile - anno 2, numero 1

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Direttore Maso Notarianni

Redattori Christian Elia Matteo Fagotto Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Vauro Senesi Stella Spinelli Naoki Tomasini Alessandro Ursic Vauro Progetto grafico Guido Scarabottolo Segreteria di redazione Silvina Grippaldi Relazioni esterne Marco Formigoni

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Blue & Joy Valeria Confalonieri Gabriele Del Grande Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Nicola Falcinella Claudio Fava Sergio Lotti Piero Pagliani Claudio Sabelli Fioretti Gino Strada

Hanno collaborato per le foto Ugo Borga Simona Caleo Massimo di Nonno Marco Pavan

Redazione e amministrazione Amministrazione Via Meravigli 12 Annalisa Braga 20123 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Stampa Graphicscalve Via Meravigli 12 - 20123 Milano Loc. Ponte Formello - 24020 Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07 Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 30 ottobre 2007

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envenuti nell’anno dei Diritti Umani. Il duemilaotto, infatti, è stato dedicato dalle Nazioni Unite alle celebrazioni per il sessantesimo anniversario della proclamazione della Dichiarazione Universale. Siamo certi che il duemilaotto pochissimo avrà a che vedere con il rispetto di tali diritti, purtroppo. Non si contano le guerre, in ogni parte del mondo. I diritti sono sempre più violati e la cultura della guerra, sempre più dominante nel mondo, sta facendo arretrare paurosamente i paletti che dopo la seconda guerra mondiale e fino alla fine del Novecento erano stati messi a tutela della dignità degli uomini, dei loro diritti e dei loro doveri. La cosiddetta guerra al terrorismo ha fatto fare non dei passi ma dei balzi indietro nel tempo. E ha cancellato tutte le importanti riflessioni, e con esse gli atti compiuti dalle comunità nazionali e da quella internazionale a tutela della specie umana. In nome e per conto di questa guerra, che in realtà nasconde la volontà imperiale di pochi Paesi occidentali, si è deciso che il rispetto della legalità è decisamente secondario rispetto alla necessità della vittoria. Peraltro una vittoria che, lo dicono i maggiori analisti militari di tutto il mondo, non ci potrà mai essere. E l’esempio che i paesi guida stanno dando al mondo intero è un esempio pessimo. Dagli Stati Uniti alla Russia, dalla Cina all’Europa, stiamo insegnando a tutti che è lecito che uno Stato rapisca, torturi, bombardi villaggi abitati da civili inermi. In altre parole, stiamo insegnando che il terrorismo è un’arma lecita. E anzi, è l’unica arma possibile per vincere e quindi dominare. E nel duemilaotto, anno internazionale dedicato al rispetto dei diritti umani, siamo certi che la situazione non migliorerà. Non è nel nostro costume fare le Cassandre, ma i segnali che arrivano dall’Afghanistan, dall’Iraq, dall’Iran, dall’America Latina, dalla Russia, dal Pakistan, non promettono nulla di buono. E da noi? Da noi le cose non vanno certo meglio che altrove. La Finanziaria ha stanziato una caterva di danari per coprire le spese militari e per garantire l’incremento della presenza dei militari italiani nei teatri di guerra. Tutte le “promesse di pace” fatte dal nostro governo lo scorso anno (la conferenza di pace per l’Afghanistan, la delegazione civile, la riduzione dell’impegno militare) sono andate a farsi benedire. Vediamo se qualcuno ne chiederà conto, nei giorni di discussione sul rifinanziamento alla missione in Afghanistan. E per quest’anno nuovo ci aspettiamo un ulteriore peggioramento della situazione, viste le promesse che il presidente Napolitano è andato a fare a George W. Bush. Il tutto sarà infarcito dalla vergognosa retorica di enti, istituzioni e partiti che espropriano il tema della pace e fanno da velo, da coperta, da maschera sorridente a chi invece pensa quasi solo a sbranare vittime innocenti.

Foto di copertina Per le strade di Belgrado. Serbia, 2007. Massimo Di Nonno/Prospekt

Iraq a pagina 14 Distribuzione in libreria Joo Distribuzione - via F. Argelati 35, 20143 Milano - Tel 028375671

Serbia a pagina 4

India a pagina 10

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Sri Lanka a pagina 20

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Migranti a pagina 24

Italia a pagina 22 3


Il reportage Bosnia

Il grande malato d’Europa Dal nostro inviato Christian Elia

Mentre tutti i riflettori sono puntati sullo status del Kosovo, un viaggio attraverso la Serbia racconta di un Paese bloccato tra povertà e nazionalismo. Secessioni minacciate e adesione all’Unione Europea. E di un popolo che sta alla finestra e foglie cadono, nel gelo che c’è fuori. “A mio avviso gli anni di Tito possono essere paragonati a un film di Fellini”, osserva Blaz, che veglia sulla tomba del maresciallo. “Se uno non ha gli strumenti culturali per leggere l’aspetto più profondo del film del grande maestro italiano, ne coglierà solo l’aspetto esteriore, a tratti incomprensibile. Ma è nel senso profondo che bisogna perdersi, se si vuole cogliere davvero l’idea del maresciallo: eliminare le divisioni lavorando tutti verso uno stesso progetto. Costruire una società nuova e un uomo nuovo. Non è andata così, anche per colpe dello stesso Tito. Ma quando arriva il 4 maggio, anniversario della sua morte, qui vengono tanti ragazzi, alcuni ancora a piedi, come si usava un tempo. Rendono omaggio a un uomo che, con tutte le sue contraddizioni, è riuscito a tenere assieme quello che è andato distrutto”. Il maresciallo riposa nella Casa dei Fiori, un cadente edificio circondato da un giardino malinconico, dove le foglie scendono a coprire le statue dell’uomo che ha governato la Jugoslavia dal 1945 al 1980. Blaz, custode filosofo, ama perdersi in chiacchiere con i visitatori, tra i monumenti che raffigurano Tito mentre fa un passo avanti, verso il futuro. L’ultimo passo l’ha fatto verso un catafalco bianco, di marmo, posto al centro di una serie di stanze con i ricordi di un mondo che è andato in pezzi all’inizio degli anni Novanta. Se, come sostiene il filosofo sloveno Slavoj Zizek, i Balcani sono l’inconscio d’Europa, la tomba di Tito potrebbe essere l’inconscio della ex-Jugoslavia. Tutta la Serbia è ancora attraversata dal ricordo, bello o brutto, del maresciallo. Dalla Vojvodina al Kosovo, tra i giovani o tra i vecchi, gli anni di Tito restano ancora un parametro di riferimento, in positivo o in negativo. Ed è naturale tornare al simbolo dell’unità degli slavi del sud (Jugoslavia appunto) mentre si parla di nuove secessioni. Quasi certe come quella del Kosovo, o solo ‘mediatizzate’, come quelle della minoranza ungherese in Vojvodina e dei musulmani del Sangiaccato. “Io ho solo ventotto anni e non me la sento di giudicare un periodo che non ho vissuto”, racconta Zoltan, un metro e novanta di simpatia, fondatore di una Ong che si occupa di progetti sociali in Vojvodina e dj di una radio locale di Sombor, “ma la situazione attuale mi piace poco. Per un ragazzo della mia età non ci sono prospettive, tutti sognano solo di andare all’estero. Io no, ci tengo a restare qui a lottare per migliorare il mio Paese. Che sento mio davvero, anche se i miei genitori sono ungheresi. Non mi sono mai sentito parte di una minoranza. Certo, tra ragazzini, a scuola, qualcuno ogni tanto mi insultava... ma sono sciocchezze. Però voglio servire la Serbia a modo mio”,

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continua Zoltan, “siamo governati da una classe dirigente che si arrocca sullo status del Kosovo e sul nazionalismo. I radicali di Seselj sono i più votati e gli altri partiti li braccano sul loro terreno. Ma non è un caso che l’astensionismo sia ai massimi storici. La gente è stanca e con gli stipendi non si arriva a fine mese. Pochi giorni fa, a tutti quelli della mia generazione, è arrivata una lettera del ministero della Difesa di Belgrado. Invitava a registrarsi al più vicino distretto militare, in caso di mobilitazione generale. Lo fanno per terrorizzare la gente, paventando un intervento militare. Ma il Kosovo è perduto. E lo sanno anche loro, ma continuano a parlare il linguaggio del passato, per evitare di affrontare i problemi attuali. Ho visto gli effetti della guerra su mio padre. Tornato dal fronte non ha parlato per un anno. Non faceva nulla... fumava e guardava la parete. Adesso va meglio, ma io la Serbia la voglio servire in un altro modo”. el centro di Novi Sad, principale città della Vojvodina che conserva un’aria aristocratica con la sua atmosfera austro-ungarica, ci sono gli uffici della Lega Socialdemocratica della Vojvodina, uno dei movimenti leader del fronte autonomista. Dusko Radakovic, segretario generale del Lsv, ci riceve con un sorriso affabile e un’aria casual, seduto a una scrivania sormontata da una mappa con la scritta ‘Vojvodina Repubblica’. Ma quando è il momento di parlare, assume un’aria truce. “Lei è libero di chiamarla secessione o indipendenza, ma è una sua valutazione”, risponde l’uomo, rigido nel suo ruolo, “noi chiediamo a Belgrado solo di farci vivere liberi. Vogliamo autonomia nel potere legislativo, esecutivo e giudiziario. La Vojvodina contribuisce alle casse dello Stato con il quarantadue percento delle tasse, ma riceve solo il sette percento del budget di programmazione nazionale. Le faccio un esempio: noi paghiamo la ristrutturazione di un immobile storico della regione, ma Belgrado ne mantiene la proprietà. Le radio e le televisioni fanno trasmissioni in sei lingue, perché qui non ci sono solo ungheresi ma anche altre cinque minoranze, però i direttori dei network vengono nominati dalla capitale. Non va bene, è tempo che la Serbia impari che la transizione è finita. E anche il centralismo storico”. Il centro e il potere. Simboli, per anni, di Belgrado. Percorrendo le vie della

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Sopra: La politica della Nato sul ministero degli Esteri. Belgrado, Serbia 2007. Sotto: Il mercato dei Serbi. Mitrovica, Serbia 2007. Massimo Di Nonno/Prospekt per PeaceReporter


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capitale, tra i negozi scintillanti e i locali affollati, tutto appare come sospeso. Poco lontano dalle luci del centro, restano i luoghi simbolo di un passato che non passa. Gli edifici bombardati dalla Nato nel 1999 sono ancora là, come a voler ricordare ai belgradesi che a un certo punto la retorica della Grande Serbia è stata colpita a morte. Lontano dal centro e da occhi indiscreti c’è il campo profughi di Krnjica.

cia, guardato a vista dalla polizia di fronte all’ambasciata tedesca, chiede il rispetto della sovranità serba sulla regione. Una serie di manifesti del gruppo 1389.org (l’anno della battaglia di Kosovo Poljie, sulla quale si fonda il mito del nazionalismo serbo) ricorda minacciosa che ‘il Kosovo era, è e sarà Serbia’. Ma i pochi militanti del gruppo, nei giorni scorsi, sono stati tutti arrestati. Il governo ha pagato una serie di manifesti: in alcuni cinque star della televisione lanciano un appello alla comunità internazionale per il rispetto del diritto all’integrità territoriale della Serbia, in altri Abramo Lincoln, John Fitzgerald Kennedy e altri personaggi storici Usa ricordano a Washington che bisogna rispettare la democrazia. Poca roba, che rende l’idea di come esista una retorica di superficie e una trattativa sottotraccia, più proficua e meno impossibile.

erché venite tutti qui a chiedere se ci prepariamo all’arrivo di altri profughi? Voi giornalisti siete parte del problema”, sbotta furioso Sinisa, responsabile della struttura che ospita quattrocentotredici profughi serbi fuggiti dal Kosovo. Ci accompagna, attraverso i vialetti poveri ma lindi, negli ex capannoni industriali che ospitano ancora famiglie arrivate qui nel 1999. Famiglie come quella di Dragan e Anja, che in a Serbia, da nord a sud, è tanti paesi in uno solo. Dopo i maestosi viali venti metri quadri vivono in cinque. “Cosa volete ancora, andate via! Non vi di Belgrado, uscendo nel congestionato traffico cittadino, ci si lascia basta aver ucciso i nostri figli!”, tuona Anja, mentre il marito le impone il alle spalle la politica e i problemi economici della capitale, per entrare silenzio e si prepara, per l’ennesima volta, a raccontare la stessa storia. in un mondo che è ancora Serbia, ma che muta piano piano. “Avevamo un piccola casa nei pressi di Pec, in Kosovo”, dice Dragan, tiranNovi Pazar è il centro principale del Sangiaccato. La do fuori da un vecchio mobile delle foto sgualcite, campagna serba lascia il posto, all’improvviso, ai “circondata da un frutteto. I miliziani del’Uck hanno Il numero esatto di vittime della primi minareti, che annunciano una sorta di Stato bruciato tutto. Era il 1999 e, da allora, siamo qua. guerra del ‘98-‘99 non è ancora oggi conosciuto, ma è nell’ordinello Stato. Senza nessuna prospettiva. Ci hanno offerto il prone di qualche migliaio. Alla “La posizione del Sangiaccato è strategica”, racgramma di rientro delle Nazioni Unite, ma tornano repressione dell’esercito serbo conta Muamer Zukorlic, il principale muftì della solo i vecchi che vogliono morire sulla loro terra. Io seguì un feroce bombardamenComunità islamica in Serbia, “siamo tra Serbia, ho un figlio di quindici anni, che ogni giorno fa chito della Nato, con oltre 600 raid Bosnia, Kosovo e Macedonia. Per questo vogliono lometri per andare in una scuola. Cosa ci torniamo aerei al giorno sulla Serbia. destabilizzarlo”. Zukorlic ci riceve nella scuola islaa fare? Per essere soli e isolati? Abbiamo paura. Marzo 2004: su tutto il mica della città, assediata dai suoi uomini. Facce da Potrebbero attaccarci di nuovo. Io sono malato e territorio del Kosovo 50mila duri e giubbotti di pelle. Sembra più di andare a trovivo con duecento euro al mese di sussidio statale, albanesi attaccano i serbi, vare un boss che un religioso. D’altronde l’aria a tentando di arrotondare con piccoli lavoretti saltuauccidendo 19 persone, distrugNovi Pazar, negli ultimi mesi, si è fatta pesante. Gli ri”. Anja intanto, pur contrariata, non manca di gendo 550 case e 27 tra chiese e monasteri, costringendo più uomini di Zukorlic hanno gridato al golpe quando, offrire un tè e un po’ di pane, mentre fuma mille di quattromila persone alla dopo un regno ininterrotto dal 1993, la comunità sigarette, che sembrano prosciugarla dall’interno. fuga. Sette anni dopo i bomislamica si è spaccata e un gruppo ha seguito Adem Appena Sinisa si allontana, Dragan ci tiene a dire bardamenti della Nato, il terriZilkic, nominato nuovo Gran Muftì. La posizioni sono che “il governo di Belgrado ci aiuta, ma non troppo. torio serbo è ancora ad alto distanti, al punto che qualcuno ha pensato bene di Secondo loro abbiamo lasciato il Kosovo in mano rischio. Secondo gli esperti, le ridurre le distanze a colpi di kalashnikov. “Belgrado agli albanesi. Ma che altro potevamo fare? conseguenze dei proiettili all’usi sta intromettendo”, dice Zukorlic, “ha spinto un Soffriamo ogni giorno, vivendo in queste condizioni, ranio impoverito devono gruppo di imam alla scissione, mettendo il naso in e con mia moglie e i miei figli abbiamo deciso, tra ancora arrivare. I resti delle affari che non li riguardano. Il governo deve stare noi, di non parlare più del Kosovo. Ma che altro bombe a grappolo sono disseattento: la gente in Sangiaccato non è stupida e potevo fare?”, chiede Dragan, quasi a giustificarsi. minati su un territorio di 24 quando il potere politico s’inserisce negli affari reliI profughi serbi sono il simbolo maggiore di una milioni di metri quadrati. I campi minati coprono un giosi si sa come comincia ma non come finisce”, decadenza politica che per la Serbia, dal 1991 a territorio di 4,3 milioni di metri termina minaccioso il Muftì, sprofondato in un’eleoggi, sembra non conoscere sosta. Per i giovani è quadrati. gante poltrona del suo studio in legno decorato con diverso. Nel 2000, dalle università partì il movimenmotivi arabeggianti. La comunità islamica serba è to che rovesciò Milosevic e i suoi piani di Grande però più divisa di quanto voglia far credere Zukorlic: a Novi Pazar si sono Serbia, che hanno distrutto questo paese. Ma nelle facoltà di Belgrado, in perfino tenute due distinte cerimonie di saluto per i pellegrini in partenza per particolare in quella di Filosofia, dove sette anni fa ferveva l’attivismo di Otpor (Resistenza), il movimento leader della protesta, oggi si trova un’unila Mecca. I fedeli di Zilkic hanno festeggiato nel palazzetto dello sport della ca associazione: quella degli studenti per l’Erasmus. cittadina, dove il clima gioioso si scontrava con un servizio d’ordine da stato “Otpor è stato importante in quel periodo”, spiga Nina, bellissima portavodi massima allerta. I fedeli, rapiti dalla predica e dalla preghiera, fumano e ce del gruppo, “ma aveva molto poco di autentico. L’abbiamo capito solo parlano al cellulare, rendendo l’idea di un Islam balcanico dai toni soft. Quasi dopo, quando dal 2001 la leadership si è dissolta ed è confluita nei vecchi nessuna donna ha il capo coperto, ma secondo i media internazionali il partiti emersi dopo il crollo di Milosevic. La protesta era sentita, ed è per Sangiaccato sarebbe una sorta di zona franca del fondamentalismo in questo che tanti studenti militavano. Ma adesso, ottenuto quel risultato, i Europa. “Agli italiani il nome di Senad Ramovic dovrebbe dire qualcosa”, dice giovani hanno altro per la testa. Vogliono un lavoro, ma in Serbia se non Yakub Lekovic, il ‘premier’ del gruppo di Zilkic, “è stato anche in Italia. Era conosci qualcuno è praticamente impossibile”. un terrorista ricercato in tutto il mondo, e Zukorlic l’ha usato fino a quando “Non se ne può più. Le tasse costano, più o meno mille euro all’anno. Hai gli ha fatto comodo. Poi l’ha scaricato, quando ha capito che doveva accreidea di quanto sia difficile per una famiglia dove uno stipendio medio si aggiditarsi come moderato. Non lo è mai stato e continua a tenere unita la comura sui seicento euro al mese? La politica è lontana da qui – continua Nina, nità islamica serba a quella bosniaca”. salutando tutti nel fumoso caffè degli universitari - gli studenti vogliono solo Sembra una lotta senza esclusione di colpi, tra due gang rivali. “Qui la reliun visto per andare all’estero. Ma l’Unione Europea ci fa mille problemi, gione non c’entra nulla”, racconta Yuri, un giornalista locale, “Zukorlic tenendoci come chiusi dentro. Di cosa avete paura?”. Sopra: Cerimonia di saluto per i pellegrini in partenza per la Mecca. Novi Pazar, Serbia Lo status del Kosovo è lontano dalle prospettive di questi ragazzi. Per le vie 2007. Sotto: Manifestazione per l’indipendenza del Kosovo. Pristina, Serbia 2007. del centro di Belgrado sono pochi i segni di attenzione per la questione. Un Massimo Di Nonno/Prospekt per PeaceReporter manifestante solitario, con un cartello tenuto in alto con entrambe le brac-

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risponde Kurti, tra un’intervista e l’altra, “hanno finito per drogare l’economia locale, arricchendo chi era già ricco e elevando il costo della vita per la povera gente. Per questo alle elezioni la gente ha finito per seguire il nostro appello al boicottaggio. Ci accusano di essere estremisti, ma solo perché i politici kosovari sono sempre proni di fronte alla comunità internazionale, e il loro atteggiamento fa sembrare noi degli estremisti. Vogliamo solo l’autodeterminazione”. Kurti s’inalbera quando gli si fa notare che il Kosovo sembra tutto tranne che uno Stato pronto per l’indipendenza. “È un discorso assurdo. Qui l’economia collassa, con la disoccupazione al novanta percento, perché lo stato d’incertezza allontana gli investitori”, tuona, perdendo per un attimo l’atteggiamento da leader pacifico, “il giorno in cui potremo lavorare su un programma di lungo periodo, con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, tutto cambierà”. Anche a nord, problemi a parte, c’è chi continua a mettere la politica davanti a tutto. Come nella el complesso intreccio di città a maggioranza albanesi e di enclavi cafana, l’osteria di Bobi, a Zvecan, pochi chilometri fuori Mitrovica. Il locale serbe, che disegnano un inestricabile groviglio di odi, rancori e proè un ritrovo dello zoccolo duro dei serbi locali. Facce da duri, litri di birra e blemi economici, Mitrovica diventa il simbolo di un’unità scissa per una sfilata di giubotti tutti uguali, con la scritta in cirillico Serbia dietro le sempre. Tutto è ostentato, con forza. La bandiera russa e i ritratti di Putin spalle e Kosovo e Metodja davanti. troneggiano accanto ai vessilli serbi nella parte a nord, tanto quanto quelli Non è facile farli parlare, ma Rodo accetta, mentre gli altri fumano mille albanesi e degli Stati Uniti trionfano al sud. I nomi delle città sono sempre sigarette davanti alla partita di calcio in tv. “Voi volete sempre sapere se due: Pec/Peja, Viti/Vitina e così via. tornerà la violenza”, racconta il ragazzo con lo sguardo da cattivo sotto il Nulla deve essere condiviso, e il ponte sul fiume Ibar a Mitrovica è il segno cappello, “ma tutto dipende dagli albanesi. Se ci attaccano troveranno più evidente di come poche centinaia di metri segnino il confine tra due pane per i loro denti. Noi da qui non ci spostiamo e a me, sinceramente, mondi. Al punto che la gente si organizza per riesumare i propri morti, e pordella politica di Belgrado non frega nulla. Io sono nato e cresciuto qui. In tarli al di là del ponte, come se per i trapassati questa regione ci sono i segni della nascita della abbia ancora un senso tutto questo. civiltà a cui appartengo. A me non interessa cosa ‘’È un solido convincimento “Qui il problema è grande, nessuno lo mette in dubdecidono a Pristina, Belgrado, Bruxelles, che i Balcani siano una tossina che da sempre minaccia la bio”, racconta Mensur, uno studente universitario Washington o Mosca. Questa è casa mia e non mi salute dell’Europa. albanese di ventun anni, “io ricordo ancora quando muovo”. Ma tutti pensano che la comero costretto a passare il ponte, perché era necesposizione di questa tossina sia l viaggio attraverso la Serbia finisce qui. Dopo sario, e venivo picchiato e aggredito. Però non ho troppo complessa per trovare minoranze e problemi economici, politica e più nessuna fiducia nei politici che governano il un antidoto. nazionalismo, la sensazione che il paese non Kosovo. E’ tutta gente che in otto anni non è riusciIn mancanza di cure appropriariesca a uscire dal blocco nel quale la storia recenta a costruire nulla, non è riuscita a regalare un te, l’Occidente ha pensato che te l’ha precipitato è forte. Un blocco che non è solo minimo di sviluppo alla mia gente. Mio padre è in l’unica soluzione fosse di isolapolitico ed economico, ma anche culturale. Italia dal 1989 e provvede a mantenere tutta la mia re i Balcani e dimenticarsene’‘. “La situazione è drammatica. A me ricorda il clima famiglia. Io potevo stare da lui, ma ho deciso di torosceno che c’era prima della tragedia del 1991”. nare, perché è qui che voglio costruire qualcosa. Misha Glenny, dal saggio The Balkans, 1804-1999 Borka Pavicevic potrebbe essere l’icona vivente Ma per duecento euro al mese non resterò, non so del tentativo di ricomporre un puzzle che è andato che farmene. L’illegalità e la corruzione sono ovunin frantumi, portandosi dietro migliaia di vite. Da sempre attiva nel teatro, que, e indipendenza o no la situazione è disastrosa. Alle ultime elezioni ha ha fondato all’inizio degli anni Novanta il Centro per la Decontaminazione votato solo il trentasette percento dei cittadini. Qui si è perduta ogni speCulturale, un’associazione e compagnia teatrale che ha sempre lavorato ranza e se continua così tutti i giovani se ne andranno. E so bene che anche sul nazionalismo come male assoluto dei Balcani. “Le stesse persone che oltre il ponte non si vive meglio. Non credo che tornerà la guerra, perché la hanno utilizzato il nazionalismo per distruggere l’ex-Jugoslavia adesso lotgente è molto più impegnata a mettere assieme il pranzo con la cena”. tano per accaparrarsi i centri commerciali”, racconta Borka, nascosta “Il problema non è andare o restare. Se anche il Kosovo riceve l’indipennella sua soffitta sopra il teatro gestito dall’associazione a Belgrado, avvoldenza, coloro che non sono fuggiti dopo i fatti del 2004 (diciannove morti ta in una nube di fumo, “nessuno ha lavorato sulla mentalità. Tutti parlano provocati dalla furia albanese verso i serbi per un episodio non ancora chiarito rispetto all’annegamento di tre ragazzini albanesi, ndr) non andranno del Kosovo, ma il problema non è se deve o meno essere indipendente. Il via”, racconta Ljuba, un ragazzo serbo privilegiato, grazie a un buon lavoro problema è che livello di democrazia potrà mai avere un paese nato in quepresso l’Osce. Capelli lunghi sulle spalle e aria da fricchettone anni Settanta, ste condizioni. Nessuno si rende conto che in Kosovo il settanta percento attraversa a passo svelto Mitrovica Nord, salutando a destra e sinistra. “Il della popolazione è molto giovane. Si poteva fare un lavoro grandioso, per problema è il lavoro. Qui l’economia è ferma e non ci sono prospettive. La preparare i Balcani del futuro. Si continua invece a lottare sui temi vecchi, gente arrotonda i salari e le pensioni da fame con le sovvenzioni statali”, sul nazionalismo, mettendo i giovani di fronte al vuoto pneumatico della continua Ljuba, “elargite per tenere buona la gente. Ma senza un programsocietà contemporanea. Magari non vogliono più sentir parlare di violenza, ma di sviluppo di lungo periodo, non c’è soluzione”. Non tutti però la pensaper fortuna, ma non si è lavorato abbastanza sui contenuti. Non si è no come Mensur e Ljuba. costruita una nuova generazione, fondata sulla cultura del rispetto. Chi “L’indipendenza è l’unica soluzione. Ci vuole un referendum e una deadline governa ha pensato solo al profitto, agli accordi internazionali e alle alleanper la presenza internazionale in Kosovo”, dichiara Albin Kurti, leader del ze. Senza punire i colpevoli dei crimini osceni accaduti in queste terre dal movimento Vetevendosje, che ha scontato gli arresti domiciliari per una 1990 a oggi. Se prima non si lavora sulla mentalità, non si costruirà mai il manifestazione non autorizzata nella quale sono morti due militanti del suo futuro. Porterò il mio lavoro teatrale a Pristina, come l’ho portato nella gruppo indipendentista. Aria da intellettuale, molto elegante, abituato a Sarajevo occupata. Perché qui, purtroppo, non è ancora finita”. muoversi di fronte a telecamere e taccuini, sembra un politico di lungo corso Per le strade di Novi Sad. Vojvodina, Serbia 2007. imprigionato nel corpo di un giovanotto: “La presenza dell’Onu e delle orgaMassimo Di Nonno/Prospekt per PeaceReporter nizzazioni internazionali non ha portato alcun beneficio alla gente comune”,

vuole continuare a gestire i suoi traffici e lo stesso vogliono fare gli altri. Belgrado punta sul nuovo Muftì, ma il vecchio non arretra. E intanto la Serbia ha firmato un accordo di cooperazione anti-terrorismo con gli Stati Uniti per combattere la diffusione del wahabismo nella regione. Ricevendo molti soldi in cambio”. Le diatribe di Novi Pazar lasciano il passo al Kosovo. Un’idea della reale efficacia delle discussioni sullo status si ha appena giunti a quella che è in tutto e per tutto una frontiera. Presidiata dai poliziotti della ‘Kosovo Police’, con tanto di stemma. Non hanno ancora una bandiera, perché la comunità internazionale non vuole che ci siano né riferimenti alla Serbia né all’Albania. Banditi quindi il rosso e il nero, il bianco e il blu. E non ci devono essere aquile. Un gruppo di kosovari ci sta lavorando da mesi, ma la bandiera ancora non si vede.

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I cinque sensi della Bosnia

Udito La musica è onnipresente in Serbia. Dai brani con i testi controversi del cosiddetto turbo-folk, veri e propri inni nazionalistici, alla musica tradizionale kosovara, genuino esempio di incontro tra Oriente e Occidente, fino alla musica made in Usa, con una predilezione per quella degli anni Settanta. Tutti ascoltano qualcosa, in macchina o in casa oppure nei locali. Passando per il repertorio gitano, un vero e proprio cult. E tanti suonano uno strumento. Il rumore dei clacson è una colonna sonora costante della Serbia. Eccezion fatta per Belgrado, dove comunque c’è una certa anarchia. Tutti guidano, nonostante il prezzo proibitivo della benzina, e tutti sorpassano in ogni pertugio disponibile, rendendo la circolazione da Novi Sad a Prizren un’autentica lotta per la sopravvivenza. Il sibilo ostinato dei generatori, spia infallibile per capire se c’è o meno energia: il Kosovo è soggetto a periodici black-out energetici e non si può mai dire quando, una volta andata via, tornerà la corrente. Tutti, in Kosovo, ne hanno uno e sembra ormai diventata la normalità. Il frastuono di migliaia di generatori che funzionano all’unisono è diventata quasi una colonna sonora.

Vista Le montagne del Kosovo, soprattutto al confine con la Macedonia, sono di una bellezza mozzafiato. Panorami da sogno, strette gole inneva-

te, attraversate da corsi d’acqua e cascate. Le zone attorno a Prizren sarebbero una risorsa turistica immensa, se solo la situazione fosse appena normale.

non siete stati in Serbia. La produzione è generale, ma quasi tutte le famiglie la producono in casa. La più buona, dicono, è quella prodotta dai monaci ortodossi dello splendido monastero di Decani.

Le iconografie contrapposte delle parti in campo nelle contese politiche. La relazione Russia-Serbia contro Usa-Kosovo è lampante e raggiunge picchi di assurdità allarmanti. Non c’è un palazzo, magari ancora in costruzione, che non abbia la bandiera dell’una o dell’altra parte che svetta sul tetto. Fino ad arrivare alle foto di Putin in ogni dove, compensate da un’architettura di guerra kosovara, che si caratterizza per continui riferimenti agli Usa. Parrucchiere Wesley Clark, via Bill Clinton, autoscuola Hilary Clinton, fino a tutte le implicazioni possibili della Statua della Libertà.

Olfatto

Gusto Le cevapi, salsicce speziate di manzo, e i mantije, bocconi di pastasfoglia ripieni di carne. Per un vegetariano la Serbia non è la meta ideale. Tutto il paese è un fiorire di forni e griglie che generano autentici capolavori gastronomici. Nemmeno la birra è risparmiata dalla questione delle autonomie. In Kosovo, si riconosce subito l’appartenenza del padrone del locale dalla birra venduta: un serbo avrà sempre la Jelen Pivo, un albanese la Peja. Tutte e due molto leggere e non indimenticabili. La rakja, una grappa molto forte, prodotta anche al sapore di frutti. Se non l’avete bevuta,

Le pestilenziali emissioni degli zuccherifici, principale fonte di lavoro della regione, che affliggono la Vojvodina, attraversando la quale si resta rapiti dalla bellezza cristallizzata della campagna attraversata dal Danubio. Ma si resta anche senza fiato per l’odore nauseabondo, che però significa lavoro per migliaia di persone. L’odore di fumo nei locali, da Novi Sad a Mitrovica, la Serbia è un paese che racconta di mille diversità, unificato dalle nuvolette emesse dai polmoni dei suoi abitanti. In Serbia esiste, sulla carta, una legge che vieta le sigarette nei luoghi pubblici, ma ovunque non è applicata. Bar, ristoranti e locali sono delle vere e proprie camere a gas, dove i serbi scatenano la passione per il fumo.

Tatto Le icone: impossibile resistere alla tentazione di scorrere con le dita la loro superfice, gesto che potrebbe risultare fatale per l’opera d’arte. Queste meravigliose pitture a olio su legno, che riproducono immagini sacre, vengono da una millenaria tradizione balcanica e ancora oggi mantengono inalterato il loro fascino. Si producono ancora oggi, e le più antiche sono di inestimabile valore. 11


Il reportage India

L’altra faccia del boom Di Piero Pagliani

Un anno fa a Singur, distretto di Hoogly, nello stato del Bengala Occidentale, viene trovato in una fossa, semicarbonizzato, il cadavere di Tapasi Malik, una giovane contadina. La polizia statale si affretta ad archiviare il caso come ‘suicidio’. Tapasi si era distinta nella lotta contro gli espropri dei terreni richiesti dalla multinazionale indiana Tata Motors, che a Singur pretende mille acri per impiantare una fabbrica di utilitarie a basso costo con la collaborazione della Fiat. ome atto di terrorismo contro la resistenza dei contadini, la giovane è stata sequestrata di notte, strangolata e bruciata. Prima di essere uccisa, Tapasi è stata violentata in gruppo dai suoi assassini. Per questo crimine la polizia federale ha fatto arrestare il responsabile locale del Partito comunista indiano marxista (Cpm) che è al potere in questo stato. L’uomo non è nemmeno stato sospeso dal suo partito. A Nandigram, distretto di East Medinipur, sempre in Bengala Occidentale, la notte tra il 6 e il 7 gennaio 2007 squadracce del Cpm assaltano con bombe e armi da fuoco i contadini che difendono i loro campi dal tentativo d’esproprio a favore della multinazionale chimica indonesiana Salim. I morti accertati sono tre, ma molte persone risultano disperse. Alcuni contadini hanno denunciato che in precedenza erano stati marchiati a fuoco sulle mani come ‘nemici del Cpm’. La forte resistenza dei contadini e la loro esasperazione hanno portato all’espulsione dai villaggi di Nandigram dei quadri del principale partito nel governo bengalese. Ne è nato un conflitto che trascende gli interessi economici, che vanno dallo sviluppo industriale alle prebende ottenibili dai quadri del Cpm e, in subordine, dalle loro squadracce. Un conflitto per stabilire chi gestisce il potere sul territorio. Questo conflitto, inizialmente tra i contadini di Nandigram da una parte e il Cpm dall’altra, si è arricchito di nuovi protagonisti. Innanzitutto il Trinamool Congress Party, una scheggia bengalese staccatasi dal Congress Party e che contesta il potere al fortissimo Cpm. Poi gli eredi del movimento naxalita che dal 1967 per circa sei anni oppose braccianti, contadini poveri e popolazioni tribali ai poteri politici centrali e locali (compresi i governi di sinistra del Bengala Occidentale). Il bilancio della repressione fu di diecimila morti e lo sterminio di pressoché tutti i dirigenti naxaliti. Ma è un movimento che, oltre ad aver sostanzialmente vinto nel confinante Nepal, è da tempo in ripresa anche in India, diviso in due rami: da

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una parte i partiti marxisti-leninisti, che sono usciti dalla clandestinità (e che da noi potrebbero forse essere definiti di ‘sinistra radicale’), dall’altra i movimenti maoisti che praticano la lotta armata controllando migliaia di villaggi. Apertamente appoggiato dal Trinamool Congress Party e implicitamente dai Naxaliti, si è formato il Comitato di resistenza contro lo sfratto dalle terre, che coordina le lotte contro gli espropri. Recentemente si è inserito anche un terzo incomodo: il fondamentalismo islamico. andigram ha una maggioranza di popolazione musulmana. Tuttavia non ci sono mai stati problemi comunitaristici e i contadini musulmani e indù si sono uniti strettamente per combattere gli espropri. Tanto è vero che l’accusa del Cpm, per giustificare la strage di gennaio, che a Nandigram operavano fondamentalisti musulmani non è stata recepita nemmeno dai suoi alleati del Left Front. Ma alla fine dell’anno scorso si è fatta viva una componente fondamentalista del tutto esterna al movimento di resistenza contadina, mettendo a soqquadro Calcutta con slogan che mischiavano una vaga difesa dei contadini musulmani di Nandigram con l’attacco al governo in quanto reo di aver dato asilo politico alla scrittrice Taslima Nasreen, in esilio dal Bangladesh perché rincorsa da una fatwa per aver “offeso” l’Islam. I tentativi del Cpm di riprendere il controllo politico di Nandigram raggiungono un picco il 14 marzo 2007 quando su pressione del governo la polizia statale cerca di occupare i villaggi. Respinta dalla popolazione con lanci di oggetti, la polizia decide di sparare ad altezza d’uomo (coadiuvata in modo documentato da elementi delle squadracce del Cpm). I morti sono quattordici e i feriti centocinquanta.

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La madre di Malik Tapasi. Singur, India 2006. Foto di Simona Caleo per PeaceReporter


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stingue la capitale del Bengala come la città-laboratorio dell’India intera. e denunce di stupri compiuti da singoli o da interi gruppi di poliziotti L’India contemporanea ci viene presentata in continuazione come un’ocaumentano nei giorni seguenti. Medha Patkar, la nota attivista sociacasione da non perdere per i nostri investimenti industriali, commerciali, le indiana, visita nell’ospedale di Nandigram una bambina di dieci finanziari e nei servizi. anni che è stata seviziata con il lathi, il manganello di bambù in uso nelle Assieme alla Cina, l’India è il paese in cui tuffarci per condividere assieme forze di polizia indiane. Ma il primo ministro bengalese Buddhadeb alla sua dominante classe media le gioie di un crescente sviluppo che in Bhattacharjee, detto il ‘Buddha Rosso’, ribadisce che non ha niente di cui Occidente invece ristagna. Per molti versi è così. E tuttavia il quadro è lardiscolparsi. gamente incompleto e parziale. Non è dello stesso parere il governatore del Bengala Occidentale, Sri Se la classe media indiana rappresenta circa 270 milioni di persone, le staGopalkrishna Gandhi, nipote del Mahatma, che dopo aver dichiarato di protistiche ufficiali del 2007 parlano di 836 milioni di persone che vivono con vare “un orrore agghiacciante” per i fatti di Nandigram ed essere andato meno di mezzo dollaro al giorno. Lo sviluppo indiano, come avviene in tutto a visitare i feriti, censura l’operato del Left Front (il Fronte delle Sinistre il mondo, è fortemente polarizzato, disarticola assetti sociali, mina le poscapeggiate dal Cpm che governo questo stato) domandandogli “a quale sibilità di esistenza di milioni di persone, spreca risorse, foreste, acqua, pubblico interesse giovi lo spargimento di tutto questo sangue umano”. La terreno agricolo. In una società dove la maggioranza della popolazione domanda di Gopalkrishna Gandhi intende mettere il governo delle Sinistre vive di agricoltura, i piani di conversione di milioni di acri ad usi non agricon le spalle al muro: infatti il Left Front, per poter espropriare i contadicoli (impianti industriali, strade, infrastrutture, edilizia) saldano la devani, sta utilizzando una legge coloniale britannica (il Land Acquisition Act del stazione del territorio a quella sociale per la gloria di uno sviluppo di cui 1894 ) che prevede l’esproprio a fini di ‘pubblica utilità’ e non, come in quebeneficeranno i pochi e che emarginerà i molti. sto caso, per dare terreni a imprese private. Questi piani sono parte di una guerra di ‘autocolonializzazione’, come è Ma nemmeno la strage di marzo è riuscita a piegare i contadini. Perché? stata definita recentemente dalla scrittrice Arundhati Roy. Una guerra che La legge prevede un indennizzo a prezzi di mercato per i proprietari. Punto non può più essere messa sotto silenzio e basta. Ma moltissimi contadini proprietari sanno che il loro futuro non Nel Bengala Occidentale, il 2007 è stato caratterizzato da un violento consarà per nulla roseo se passano le requisizioni. Singur e Nandigram sono flitto tra contadini e governo del Left Front (Fronte delle Sinistre), capegterre fertilissime che danno dai tre ai cinque raccolti l’anno, di vari progiato dal Partito comunista indiano, che ha ammesso esplicitamente di dotti. Le terre che essi potrebbero acquistare in alternativa, con molta considerare conclusa la stagione delle riforme verosimiglianza non potranno essere della stessa agrarie e di puntare tutto, in chiave capitalistica, qualità, sia per la crescente scarsità di terre da L’India ha una popolazione di su industrializzazione e terziario. Una chiave per mettere a coltura (se non a costi esorbitanti), sia 1,13 miliardi di persone, cui l’agricoltura contadina è vista come una sorta per la spinta speculativa del prezzo dei terreni di cui solo 270 milioni formano di residuo semifeudale destinato a scomparire, dovuta alla riconversione della loro destinazione la classe media. con le buone o con le cattive.E le cattive significad’uso. I poveri estremi sono 836 milioni. no bastonate, sevizie, stupri e massacri. Inoltre la maggior parte dei contadini non può Il 60 percento della popolazionemmeno esibire un titolo di proprietà: le donne, ne è impiegata nell’agricoltura. in Italia, coinvolta in questa vicenda tramite innanzitutto, pur potendo per legge ereditare, L’analfabetismo la Fiat, cosa si dice di queste violenze? sono solitamente costrette dai pregiudizi patriarè al 40 percento, la crescita Silenzio assoluto. cali della loro società a rinunciare a favore dei annua del Pil è al 9 percento. Il responsabile comunicazione del gruppo Fiat, membri maschi della famiglia; poi i braccianti, che sollecitato ad esprimersi sui fatti di Singur, ha ovviamente non hanno nessun titolo di proprietà, risposto: “Da dove arrivano (le auto) e come vengono fatte non ci riguarcosì come i fittavoli e i mezzadri. Senza contare i proprietari non registrada”. ti a causa delle lacune del catasto indiano e chi si guadagna da vivere con Possiamo azzardare che questa dichiarazione non sembra proprio in linea le attività ancillari, come il piccolo artigianato e il piccolo commercio. con gli impegni di ‘responsabilità sociale’ sottoscritti dalla Fiat. Ma in Italia Decine di migliaia di famiglie vedono perciò come destino più probabile si ragiona per sillogismi: denunciare e criticare il governo del Bengala quello di andare a ingrossare le baraccopoli di Calcutta e delle altre granOccidentale vuol dire criticare i nostri investimenti e accordi di business di città indiane. Le ricadute occupazionali dei nuovi insediamenti industriabengalesi. Criticare i nostri investimenti e accordi di business bengalesi li sono ben esemplificate dalle recenti dichiarazioni di Debasis Ray, responvuol dire criticare la politica del nostro establishment economico e del sabile comunicazioni della Tata Motors, riguardo alle possibili assunzioni governo. alla Tata di Singur dei contadini rimasti disoccupati a causa dell’esproprio: Conclusione: non si può fare. “Per ora non siamo in grado di fare promesse, ma di sicuro alcune persoSemplicemente non c’è lo spazio per farlo. ne di quell’area potranno essere assunte”. Da noi deve andar di moda la ‘Shining India’, quella del boom economico, l novembre scorso, il Cpm decide che deve a tutti i costi ‘risolvere’ la quella del software avanzato. Da noi deve farsi strada l’idea di un’India questione Nandigram. Dopo alcune riunioni interne dove si lanciano gli con cui concludere affari o anche accordi culturali che tengano però alla slogan ‘uccidi o vieni ucciso’, ‘noi o loro’, il partito invia le sue squalarga le decine di migliaia di intellettuali che protestano in nome della dracce alla riconquista dei villaggi di Nandigram. democrazia. D’altronde, non è forse l’India ‘la più grande democrazia del Nessuno ancora sa cosa sia successo. A lungo è stato impedito ai giornamondo’?. E allora cosa c’è da protestare? listi di accedere alla zona. I pochi che ci sono riusciti hanno letteralmente Ci è richiesto di recepire unicamente un’immagine dell’India che, soprattestimoniato che “c’era sangue da tutte le parti". Alla fine, per sedare gli tutto, tenga ben lontano da noi lo spettro inquietante delle centinaia di scontri, il governo federale ha deciso di inviare la Central Reserve Police milioni che non ce la fanno, delle donne stuprate e a cui tagliano i seni, Force, che peraltro si è lamentata della non collaborazione della polizia delle decine di milioni di tribali con la vita devastata dagli espropri, dalle locale. Gli attivisti del Comitato di resistenza contro lo sfratto dalle terre violenze e dalle miniere d’uranio a cielo aperto. non osano tornare nelle loro case per paura di ritorsioni. E come al solito Ma ciò che è più importante è evitare che le persone si accorgano che lo la violenza sulle donne si è rivelata una pratica regolare. Nandigram è sviluppo indiano è lo specchio, non deformante ma fedele, della deformità ‘riconquistata’. Ma ormai il danno politico per il Cpm e il Left Front è fatto. del nostro stesso sviluppo. Il 14 novembre, Calcutta ha ospitato un’enorme manifestazione di proteSopra: Donna a Singur. Sotto: Esponente del Consiglio dei Saggi di Singur. India 2006. sta di intellettuali, registi, scrittori, commediografi, docenti, cioè di quella Foto di Simona Caleo per PeaceReporter intellighenzia progressista che fin dai tempi del Raj britannico contraddi-

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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

Il Paese sta cadendo in mano ai talebani Gli Usa chiamano a raccolta gli alleati

Le buone nuove

Afghanistan, La svolta boliviana l’orlo del precipizio di Evo Morales

Afghanistan: i burqa della pace

tanno riconquistando l’Afghanistan. I guerriglieri con il turbante controllano ormai tutta la zona meridionale e orientale del Paese – eccetto le città – e sono penetrati anche nelle province occidentali e settentrionali. Secondo un recente rapporto del Senlis Council, solo l’otto percento del territorio afgano vede una “limitata presenza talebana”. Limitata, non nulla. La stessa capitale Kabul è accerchiata: i talebani controllano le montagne e le vallate attorno alla città, già infiltrata da decine di kamikaze, come dimostra il crescente numero di attentati suicidi. Gli analisti militari occidentali prevedono che in primavera la situazione peggiorerà ulteriormente, diventando pericolosamente ingestibile per le scarse forze d’occupazione schierate nel Paese: solo 50 mila soldati (per metà statunitensi) e nemmeno tutti destinati al combattimento. Gli Stati Uniti stanno infatti valutando addirittura l’ipotesi di spostare alcuni battaglioni di Marines dall’Iraq all’Afghanistan: una mossa auspicata dagli strateghi militari del Pentagono ma fortemente osteggiata dalla Casa Bianca. I nuovi soldati non verrebbero infatti mandati a dare la caccia a Osama bin Laden, ma per vincere una guerra che all’opinione pubblica statunitense era stata data per vinta cinque anni fa. Per questo l’amministrazione Bush preferisce scaricare la patata bollente afgana alla Nato, costringendo gli alleati europei a “fare la loro parte”. Il segretario alla Difesa Usa, Robert Gates, va ripetendo da settimane che la missione internazionale Isaf a guida Nato deve fare i conti con la nuova realtà sul campo trasformandosi da missione di pace e di ricostruzione a “classica missione di controinsurrezione”. A questo scopo, gli Usa stanno insistendo affinché i governi europei mandino rinforzi e consentano alle loro truppe di prendere parte ai combattimenti contro i talebani. I destinatari di queste richieste, sempre più perentorie, sono in particolare Italia, Spagna e Germania. Richieste che verranno ufficializzate al prossimo summit annuale della Nato, che si terrà a Bucarest in aprile.

li ultimi diciassette mesi del governo di Evo Morales sono stati un susseguirsi di vibrate proteste, manifestazioni e incidenti fra sostenitori del presidente boliviano e suoi oppositori. Al centro del dibattito la modifica di 411 articoli della Costituzione che doveva essere approvata entro e non oltre il 14 dicembre 2007. E così è stato, nonostante tutto. Potere Democratico e Sociale, il maggior partito d’opposizione, ce l’ha messa tutta pur di mettere il bastone fra le ruote all’Asemblea Costituyente, l’organismo creato per mettere mano alla Carta boliviana. E in parte all’inizio sembrava esserci quasi riuscita. Solo un colpo di coda dell’ultimo minuto, cioè la convocazione dell’Asemblea a Oruro e non a Sucre, come previsto, ha fatto in modo che la nuova Costituzione fosse approvata in tempo utile. Ma dai banchi dell’opposizione si è levata subito alta la protesta. “Illegittima” è stata definita la riunione che in sedici ore ha approvato la nuova Carta. E i rappresentanti delle province contrari alle modifiche costituzionali si sono subito adeguati alla nuova situazione, denunciando anche movimenti sospetti di aeromobili in arrivo dai Paesi amici, Cuba e Venezuela. Questo sembra davvero il dato più inquietante della situazione. Dal comitato pro Santa Cruz, infatti, sono arrivate voci di possibili ingressi di truppe cubane e venezuelane in territorio boliviano. Tutte da verificare, comunque. Di fatto, adesso, l’unica cosa certa è che la parola passerà al referendum popolare che dovrà ratificare le decisioni prese dall’Asemblea. Decisioni importanti e modifiche strutturali che fino a qualche anno fa erano inimmaginabili in un Paese come la Bolivia. Come la ridefinizione della proprietà privata, la rielezione del presidente e, non certo per ultima, la scelta definitiva della capitale della nazione, motivazione quest’ultima che ha causato nei mesi scorsi gli incidenti più clamorosi. Ma una cosa davvero importante uscita da questi mesi di lavori dell’Asemblea è stata quella di definire la Bolivia uno “Stato pacifista”. Come ha sempre ricordato Evo Morales: “La nuova Costituzione boliviana non prevederà in alcun modo l’uso della guerra”. E questa è davvero una buona notizia.

E.P.

Alessandro Grandi

Le donne scendono in campo per chiedere la pace, la fine della guerra e della violenza che da trent’anni insanguina il loro Paese. Un evento epocale per un paese dove le donne non hanno mai osato schierarsi pubblicamente. “È la prima volta nella storia che le donne si organizzano a livello nazionale per chiedere la pace”, dice Rangina Hamidi, una delle organizzatrici.

Sudan: torna il sereno Dopo due mesi di timori, accuse reciproche e minacce, rientra la crisi che più di tutte aveva proiettato una fosca ombra sul futuro del Sudan. Gli ex-ribelli del sud del Sudan People’s Liberation Movement hanno infatti deciso di fare rientro nel governo di unità nazionale, formato subito dopo la firma degli accordi di pace nel 2005.

Cina: istruzione uguale per tutti Si chiama Nong Cun Yi Wu Jiao Yu ed è il nome di una legge che significa “scuola dell’obbligo nelle campagne”. Tra i suoi punti principali, l’abolizione di tutte le tasse scolastiche della scuola elementare e media-inferiore e la fornitura gratuita dei testi scolastici per i bambini dell’area occidentale del Paese: la più estesa e la più povera.

Australia un po’ più tollerante Kevin Rudd aspetta i suoi “primi cento giorni di governo” per mostrare di avere idee diverse rispetto al predecessore. Dopo aver annunciato la ratifica del Protocollo di Kyoto, il nuovo primo ministro ha concesso l’asilo politico a sette rifugiati birmani che per oltre un anno erano stati detenuti nell’isola-carcere di Nauru. I richiedenti asilo, se intercettati in mare, venivano infatti rinchiusi su isole appositamente attrezzate alla detenzione dei migranti.

Brad Pitt il benefattore A New Orleans l’attore ricostruirà 150 case nel quartiere più colpito dall’uragano Katrina. La star di Hollywood contribuirà di tasca sua con 5 milioni di dollari (3,4 milioni di euro), il resto punterà a raccoglierlo tramite donazioni di altri milionari. 16

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Opposizione alla carica contro la riforma costituzionale, ma invano

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Somalia Un conflitto che pare senza fine

iù di mezzo milione di morti, 600.000 sfollati solo nel 2007 e una situazione umanitaria disastrosa. Sono questi i numeri del conflitto in Somalia, scoppiato 17 anni fa ed evolutosi da semplice guerra tra clan a scontro internazionale, che coinvolge eserciti stranieri e superpotenze mondiali. Cominciata nel 1991, con il rovesciamento dell’allora presidente Siad Barre, la guerra degenera presto in un conflitto tra signori della guerra, che non riescono ad accordarsi sulla spartizione del potere. La Somalia vive così per 15 anni, divisa tra warlords che si spartiscono il territorio come signori feudali, controllando le proprie aree grazie a milizie private. La stessa capitale Mogadiscio viene divisa, complice anche il disinteresse della comunità internazionale dopo il fallimento delle missioni umanitarie dell’Onu tra il 1992 e il 1995, che ha coinvolto anche i Marines statunitensi, protagonisti della famosa battaglia di Mogadiscio del 1993, volta a catturare il warlord Moussa Farah Aidid e conclusasi in un totale fallimento. Ad approfittare del caos somalo sono il Somaliland, la parte settentrionale del Paese corrispondente all’antica Somalia britannica, dichiaratosi indipendente nel 1991 ma mai riconosciuto dalla comunità internazionale, e il Puntland, contiguo al Somaliland e proclamatosi regione autonoma nel 1998, senza però velleità di indipendenza. I due territori sono le uniche regioni stabili e sostanzialmente pacifiche del Paese. Nel 2004, al quattordicesimo tentativo, una conferenza di pace è riuscita a creare un Parlamento e un governo di transizione. A ciò è seguita l’elezione a presidente di Abdullahi Yusuf. Non è stato facile portare tutti i signori della

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guerra e i rappresentanti dei clan al tavolo della pace, e la composizione del Parlamento rispecchia questo delicato equilibrio: a fronteggiarsi sono i due principali clan somali, gli Hawiye e i Darod, con i primi che controllano Mogadiscio e sono estremamente diffidenti nei confronti dei secondi, a cui appartiene anche il presidente. Yusuf, ex-leader del Puntland che ha chiamato nella capitale buona parte degli uomini a lui fedeli, è stato accusato dagli Hawiye di voler modificare gli equilibri in città per consegnarla in mano ai Darod. Nell’ultimo anno le divisioni tra Yusuf e l’ex-premier, l’Hawiye Mohammed Gedi, sono state alla base delle crisi politiche somale. Nel 2006, le differenze tra clan sono state sfruttate dall’Unione delle Corti islamiche, sorta di tribunali popolari che durante la guerra hanno acquisito un forte potere anche militare. In una battaglia condotta a maggio, le Corti hanno sconfitto l’alleanza dei signori della guerra vicini al governo, allargandosi fino ai confini col Puntland e circondando Baidoa, la città sede delle istituzioni. A dicembre 2006 le Corti sono state però sconfitte dall’esercito somalo e dai contingenti etiopi inviati a sostegno del governo. Gli uomini delle Corti, i cui leader sono fuggiti in Eritrea, si sono trasformati in guerriglieri che, quotidianamente, attaccano i contingenti somali ed etiopi, soprattutto a Mogadiscio. Una situazione di cui il governo somalo e l’alleata Etiopia (che ha una consistente minoranza somala all’interno dei propri confini, nella regione dell’Ogaden) non riescono a venire a capo, neanche con l’aiuto dei militari Usa, che dalla vicina base di Camp Lemonier, a Gibuti, forniscono un supporto di intelligence ai loro alleati.


I signori del Corno d’Africa nel 2007



La guerra civile somala del 2006

Nel dicembre 2006 le Corti islamiche, ormai allargatesi a quasi tutta la Somalia - eccetto l’enclave di Baidoa - circondano il territorio controllato dal governo federale di transizione, protetto da migliaia di contingenti etiopi. Nella battaglia che ne segue, le truppe somalo-etiopi hanno facilmente ragione degli avversari, che prima si ritirano verso la capitale Mogadiscio e poi decidono di abbandonarla per fuggire a Kismayo, lasciando nella capitale solo pochi contingenti. La vittoria del governo, ottenuta grazie al decisivo appoggio dell’aviazione, è stata anche favorita dal supporto di intelligence fornito agli etiopi dall’esercito Usa, stanziato nella base di Camp Lemonier, a Gibuti. Nella mappa, le frecce indicano le principali linee di attacco utilizzate dalle Corti islamiche e le controffensive dell’esercito somalo-etiope, specialmente attorno a Baidoa.


Dopo mesi di calma, dallo scorso ottobre si è nuovamente infiammato l’Ogaden

New Jersey all’avanguardia nel ripensare l’utilizzo della pena capitale in Usa

Il numero dei morti nel mese di dicembre*

La resistenza somala in Etiopia

Pena di morte? No, grazie

Un mese di guerre

li scontri tra i ribelli dell’Ogaden National Liberation Front e l’esercito hanno provocato centinaia di vittime. Numeri confermati dai pochi operatori umanitari presenti nella regione, fino allo scorso ottobre interdetta a membri delle Ong e giornalisti. Dal 1984, l’Onlf si batte per l’indipendenza dell’Ogaden, regione orientale a maggioranza somala annessa dall’Etiopia tra il 1948 e il 1954. I ribelli hanno combattuto una guerra a bassa intensità fino alla svolta di aprile, quando l’uccisione di settantaquattro persone in un attacco a un’installazione petrolifera ha provocato un’escalation del conflitto. Da allora, il governo ha lanciato una vasta offensiva, che secondo le associazioni per i diritti umani ha provocato la morte di centinaia di civili e lo sfollamento di migliaia di persone che abitano nelle zone interessate al conflitto. Complice il bando agli operatori umanitari, circa seicentomila sfollati sono rimasti senza assistenza. I ribelli, che hanno cominciato a colpire gli interessi dei Paesi che fanno affari con l’Etiopia (la Cina in primis), accusano l’esercito di ogni sorta di atrocità nei confronti dei civili, inclusi pestaggi, stupri, detenzioni arbitrarie ed esecuzioni sommarie. Accuse sempre respinte dal governo etiope, che di rimando accusa l’Onlf di essere un’organizzazione terrorista. In una recente visita nella regione, un emissario dell’amministrazione statunitense ha negato di aver visto abusi, appoggiando al contrario il diritto etiope a difendersi dalle organizzazioni terroristiche. Il governo di Addis Abeba accusa la vicina Eritrea, ai ferri corti con l’Etiopia dal 1998, di armare i ribelli. In Eritrea sono presenti anche i vertici delle Corti islamiche, che hanno governato la vicina Somalia per sei mesi prima di essere sconfitte, nel dicembre 2006, proprio da una coalizione di soldati etiopi e truppe del governo di transizione somalo. Da allora, migliaia di soldati etiopi sono presenti nel Paese, dove sono oggetti di attacchi quotidiani da parte delle forze di resistenza.

È

una novità simbolica, dato che nello Stato nessuno veniva giustiziato dal 1963. Ma l’abolizione della pena di morte da parte del New Jersey, appena diventata legge con la firma del governatore democratico Jon Corzine, costituisce un fatto che negli Usa non si verificava dal 1965. Negli ultimi anni l’applicazione della pena capitale era stata sospesa in diversi Stati, ma sempre per moratorie decise da un governatore (in Illinois e Maryland) o per dichiarazioni di incostituzionalità da parte di tribunali, come era già successo nel 2004 proprio nel New Jersey. L’anno scorso i vari tentativi di abolire la pratica passando dai Parlamenti statali – in Nebraska, Montana, Maryland e New Mexico – erano falliti. Con la nuova legge, il New Jersey diventa così il quattordicesimo Stato Usa senza pena di morte. Al suo posto ci sarà l’ergastolo senza possibilità di libertà condizionata, la pena a cui avranno ora diritto anche gli otto detenuti del New Jersey nel braccio della morte. Arrivare all’abolizione non è stato un percorso senza ostacoli. I parlamentari repubblicani hanno proposto, invano, di mantenere la pena capitale per reati di terrorismo, stupro e omicidio di bambini, nonché per l’uccisione di membri delle forze dell’ordine. E i più idealisti saranno forse delusi dalla motivazione che ha spinto la maggioranza democratica del Parlamento del New Jersey – anche se alcuni repubblicani hanno votato a favore, e qualche democratico contro – a vietare la pena di morte. Richard Codey, presidente del Senato e uno dei principali sostenitori della nuova legge, all’inizio degli anni Ottanta era a favore della pena di morte. Ora si è ricreduto, seguendo un ragionamento che negli Usa si sente spesso: la pena capitale non funziona, ed è sbagliato illudere i familiari delle vittime facendoli attendere per anni esecuzioni che non arrivano mai, a causa dei continui ricorsi. “Dobbiamo essere onesti con loro”, ha detto Codey. “Qui le esecuzioni non si fanno. Forse in Texas, ma non succede qui nel New Jersey. Dobbiamo accettarlo”.

PAESE

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Matteo Fagotto

MORTI

Iraq Sri Lanka Pakistan aree tribali Afghanistan Ciad Rep. Dem. Congo Somalia India Nordest Algeria India Naxaliti India Kashmir Israele e Palestina Cecenia, Inguscezia e Daghestan Sudan Pakistan Balucistan Thailandia del sud Filippine Npa Turchia Kurdistan Colombia Filippine Abusayyaf Nepal

1.185 666 604 544 306 140 121 77 72 56 51 46 45 37 36 28 25 15 12 9 1

TOTALE

4.076

I dati che qui riportiamo sono dati ufficiali, raccolti da agenzie di stampa internazionali o locali. Per cui sono da intendersi sempre per difetto: in molti paesi del mondo non si contano i vivi, figuriamoci i morti.

*Il periodo considerato è quello compreso tra il 16 novembre e il 12 dicembre

Alessandro Ursic 17


L’intervista Iraq

Al limite del sogno Di Naoki Tomasini

Dyhaa Khaled è un giovane regista iracheno di documentari, che ha lasciato il paese per rifugiarsi a Bruxelles, in Belgio. Ha partecipato al festival del cinema iracheno organizzato a fine dicembre, a Milano, da Offline Baghdad e PeaceReporter. Raccontaci del luogo dove sei cresciuto. Sono nato e cresciuto a Baghdad. Non sono mai stato in altre città del Paese. Baghdad per me è l’Iraq, è la città che mi ha insegnato tutto. Quali sono i migliori ricordi che hai dell’Iraq? Sono cresciuto durante il conflitto tra Iraq e Iran, nei miei ricordi ci sono soprattutto guerra, distruzioni e uccisioni. Quel periodo ha lasciato in me delle tracce molto tristi. Durante quella guerra ho perso alcuni membri della mia famiglia e vicini di casa. I ricordi più lieti riguardano però la vita a Baghdad, una città molto bella. È molto triste pensare alle distruzioni e alla violenza che negli ultimi anni l’hanno stravolta. Dopo la guerra le cose belle che ricordi saranno perdute per sempre? Le uniche cose che non andranno perdute sono la forza e lo spirito degli iracheni. Abbiamo subìto molte sconfitte, ma gli iracheni sono un popolo che non si vende. Sono convinto che si risolleveranno come hanno già fatto altre volte. Essere un intellettuale in Iraq era più facile sotto Saddam o dopo? È difficile fare un paragone tra le due situazioni, non è come scegliere tra il bene e il male. In generale ci sono due tipi di intellettuali: quelli che sotto Saddam hanno lasciato il paese e quelli che sono rimasti. I primi facevano principalmente parte di gruppi islamici, gli altri, invece, sotto Saddam hanno potuto formarsi nelle università laiche. Vivere sotto Saddam comunque era orribile: una persona aperta, un intellettuale, aveva sempre da temere per la propria vita. Ci voleva tanto coraggio. Ci sono due modi per sfuggire alla censura del regime: o si pensa di vivere in un sogno e quindi si scrivono cose inventate, oppure si affronta la realtà, stando molto attenti a quello che si dice. Io ho vissuto a cavallo tra le due scelte, perché ho potuto uscire dall’Iraq molte volte, viaggiando in Giordania e in Siria. Ho vissuto insomma al limite del sogno. Perché hai dovuto lasciare il tuo Paese? L’ultima volta che sono tornato a Baghdad, per festeggiare una festività religiosa, ho trovato tutte le mie cose distrutte e ho saputo che alcuni amici, tra cui quattro intellettuali, erano stati uccisi. Molti altri erano semplicemente partiti, verso altre zone del Paese o l’Europa. Mi bastò fare un giro per il quartiere per imbattermi nei cadaveri di venticinque persone, uno spettacolo che non si può dimenticare. In Iraq è in corso una carneficina, i civili muoiono ogni giorno con tale frequenza che, di molti corpi che vengono trovati, non si conosce nemmeno il nome. Io mi sono trasferito perché ho avuto una grande occasione. Avevo amici che già vivevano in Belgio, mi hanno aiutato a ricostruirmi una vita. Come vive un iracheno in esilio in Belgio? Sono sempre alla ricerca di notizie su quel che accade nel mio Paese, anche perché parte della mia famiglia vive ancora a Baghdad. Quando guardo la 18

guerra in televisione sento i luoghi che vedo, pare una stranezza, ma accade perché Baghdad è una parte del mio corpo. Vivere lontano è difficile, ma mi piace pensare che un giorno potrei tornare per studiare o insegnare. So di essere fortunato ad essere ancora vivo, ma allo stesso tempo sono triste perché devo vivere in un paese straniero. Cosa pensi che succederà in Iraq nei prossimi anni? Sono un artista e non faccio previsioni politiche. Coltivo solo speranze. Cosa pensi dell’ipotesi che il paese sia diviso in tre parti? Non comprendo le dinamiche politiche tra i partiti curdi, sunniti e sciiti. Quel che so per certo, però, è che i popoli hanno bisogno di pace. Non sono in grado di immaginare come potrebbe funzionare una repubblica federale, ma quello che conta è che questo massacro si interrompa. Certo, se l’alternativa al federalismo è lasciare che il paese sprofondi in una guerra civile, allora sono d’accordo con il progetto. Di cosa parla il tuo film, Sunset Trip? È un documentario sulla turbolenta storia di Al Thaura, diventata poi Saddam City e, dopo l’invasione del 2003, Sadr City. È una zona periferica di Baghdad, molto povera e angusta, dove vivono quasi tre milioni di persone, in prevalenza da sciiti. Io sono nato lì, la mia famiglia si è trasferita a Baghdad quando ero bambino, ma non ho mai perso il legame con il quartiere. È una realtà sociale molto difficile, ma i suoi abitanti non sono né terroristi né insorti, e nemmeno collaborazionisti degli statunitensi. Nonstante la difficile situazione, questa zona ha dato lustro a Baghdad sfornando molti artisti, intellettuali, musicisti e cantanti. È stata insomma la fonte della cultura in Iraq. Eppure è sempre stata govenata in modo dittatoriale, soprattutto sotto Saddam. C’è un aspetto di questa guerra che sogni di raccontare? Sogno di fare un film che racconti l’Iraq di Abd al Karim Qasim, un uomo di grande personalità che ha lasciato un segno indelebile nella storia del Paese. Se invece dovessi fare un film sull’attualità, vorrei dare spazio alla gente qualunque, che muore e non se ne sa più nulla. Persone che sono numeri da dire al telegiornale, ma anche madri, padri, mogli, mariti e figli, che lasciano ricordi di vita. Pensi di tornare in Iraq per vivere o per turismo? Io immagino l’Iraq come mio padre, e il Belgio come mia madre. Ora ho una nuova vita, ho un lavoro, studio e forse tra qualche anno avrò anche dei bambini. Ho una casa e degli amici, per cui potrei rimanere anche dieci o vent’anni, non so cosa potrebbe succedere dopo. Vivere di nuovo in Iraq è un progetto difficile, ma certamente tornerò a Baghdad per trovare la mia famiglia o per girare altri documentari. Dyhaa Khaled. Milano, Italia 2007. Naoki Tomasini ©PeaceReporter


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La storia Sri Lanka

La guerra dimenticata di Enrico Piovesana

Non ne parla mai nessuno. Eppure, dopo i conflitti in Iraq e Afghanistan, quella in Sri Lanka è la guerra più violenta del mondo. Il macello iracheno procede al ritmo di duemila morti al mese, quello afgano lo segue alla velocità di settecento morti mensili, il conflitto tra il governo di Colombo e gli indipendentisti tamil registra una mortalità media mensile di trecento persone: di gran lunga superiore a qualsiasi altra guerra attualmente in corso. Da due anni a questa parte, la situazione non fa che peggiorare, anche a causa della recente scoperta di enormi giacimenti di petrolio e gas naturale al largo dei territori ribelli. uesto conflitto, iniziato nel 1983 e costato finora oltre settantamila morti, per metà civili, affonda le sue radici in una vecchia disputa storiografica che sconfina nella mitologia. Lo Sri Lanka, ‘terra splendente’ in sanscrito, è abitato da due popoli assai differenti tra loro. La maggioranza dominante singalese, di religione buddista e origine indoeuropea, sostiene di essere l’unica e originaria popolazione di quest’isola. Secondo questa versione – comunemente ritenuta veritiera – la minoranza tamil, di religione induista e origine dravidica, migrò nel corso dei secoli dall’India meridionale stanziandosi nella parte settentrionale dell’isola. I tamil rivendicano di essere autoctoni dello Sri Lanka fin dalla notte dei tempi, quando l’isola era collegata al sud dell’India tramite l’istmo di terra noto come il ‘Ponte di Adamo’, oggi sommerso dal mare. Il regno tamil di Jaffna, effettivamente esistito nel nord dell’isola tra l’XI e il XVI secolo d.C., è la base storica delle loro rivendicazioni indipendentiste. Ma come per quasi tutte le guerre contemporanee, anche questa è la triste eredità della dominazione coloniale. Per meglio controllare le colonie, i britannici – e non solo loro – ricorrevano all’antico principio del divide et impera, sfruttando e accentuando le divisioni e i contrasti all’interno delle popolazioni per impedire che esse si unissero contro di loro. In Sri Lanka, che a quell’epoca si chiamava Ceylon, i coloni di Sua Maestà decisero di emarginare la maggioranza singalese privilegiando i tamil. Ad essi fu data un’istruzione di matrice occidentale nelle scuole e università costruite nelle zone tamil del nord. Tutti i funzionari dell’amministrazione coloniale erano tamil e tutti i migliori posti di lavoro pubblici – medici, insegnanti, poliziotti, soldati – erano destinati ai tamil. Perfino il lavoro nelle piantagioni di tè degli altipiani interni venne riservato a loro: non ai locali, ma alle centinaia di migliaia di tamil fatti appositamente venire dal sud dell’India. Con la conquista dell’indipendenza, nel 1948, la maggioranza singalese si prese la rivincita e iniziò a estromettere i tamil da tutti i settori. L’insofferenza dei tamil crebbe progressivamente con l’aumentare delle politiche discriminatorie fino alla nascita, negli anni Settanta, di movimenti e partiti nazionalisti tamil che iniziarono a rivendicare l’indipendenza delle loro regioni. Dopo la sanguinosa repressione delle proteste tamil del 1977 – centinaia di manifestanti vennero uccisi dall’esercito – gli indipendentisti entrarono in clandestinità e scel-

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sero la strada della lotta armata, che ebbe inizio sei anni più tardi, dopo i sanguinosi pogrom anti-tamil del luglio nero del 1983. A guidarla fu fin da subito il movimento delle Tigri per la liberazione della patria tamil (Liberation Tigers of Tamil Eelam, Ltte), fondato da Velupillai Prabhakaran, ancora oggi comandante supremo. L’esercito governativo rispose scatenando una guerra totale nelle regioni settentrionali e orientali dell’isola. Una guerra che da allora è continuata quasi ininterrottamente. Negli anni, l’Ltte – finanziato dalla diaspora tamil sparsa in tutto il mondo – ha assunto il pieno controllo delle province nord-orientali dello Sri Lanka, instaurando un’amministrazione parallela con tanto di governo, parlamento, moneta, banca, poste, ospedali e scuole proprie. E ha potenziato la propria struttura militare sviluppando una propria marina da combattimento, una propria aviazione e una brigata di kamikaze, le famigerate Tigri nere. ultima tregua nei combattimenti, raggiunta nel febbraio 2002, sembrava reggere nonostante le migliaia di violazioni da entrambe le parti. La tragedia dello tsunami del dicembre 2004, che unì gli uomini di fronte alla natura, pareva aver messo la parola ‘fine’ alla guerra. Ma l’illusione durò poco. A rovinare tutto è stato un fattore che, almeno in questo conflitto, non era mai apparso: il petrolio. Le prospezioni sottomarine effettuate dall’India nel 2005 hanno rivelato la presenza di enormi giacimenti di petrolio e gas naturale sotto i fondali del Golfo di Mannar, proprio al largo della regione controllata dall’Ltte. Questo ha certamente giocato un ruolo non secondario nella ripresa delle ostilità alla fine del 2005, seguita da una drammatica escalation costata finora più di settemila morti e caratterizzata da massicci bombardamenti aerei da parte dell’aviazione governativa – che non risparmia obiettivi civili – e da sempre più sanguinosi attacchi suicidi condotti delle Tigri nere in tutto il paese. A questo si aggiunge il crescente fenomeno delle sparizioni e delle esecuzioni extragiudiziali di civili ad opera dei corpi speciali dell’esercito e soprattutto dei paramilitari collaborazionisti tamil del gruppo ‘Karuna’. Un fenomeno che il governo di Colombo ritiene normale in un contesto di lotta al terrorismo.

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Ragazza rifugiata. Costa est dello Sri Lanka 2005. Archivio PeaceReporter


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Italia

La sfida più dura Di Claudio Fava

È un paradosso, ma proprio quando l’idea d’Europa sembra arenarsi nella diffidenza di taluni governi e nel fiato corto del processo costituente, l’Unione Europea ha ritrovato una sua funzione e una legittimità nella sfida più dura che ha ricevuto da questo terzo millennio: la lotta al terrorismo. O meglio, la capacità di garantire, nella lotta contro la violenza terroristica, la sicurezza dei cittadini con il rispetto pieno dei loro diritti fondamentali. n astratto potrebbe sembrare un falso problema, combattere il terrorismo - diranno in molti - è anche una sfida per i diritti: il diritto alla pace, al nostro futuro, alla qualità della nostra vita. La pratica politica ci parla invece di altro. E cioè d’una soglia - sempre labile, mobilissima - tra sicurezza collettiva e diritti individuali. Una soglia che in molti casi è stata più volte consapevolmente violata. Non pensiamo solo alle extraordinary renditions e alle prigioni segrete che la Cia ha utilizzato sul territorio europeo per tenervi rinchiusi - fuori da ogni garanzia giudiziaria - sospetti terroristi prima di affidarli nelle mani dei servizi segreti di Paesi compiacenti. Proprio per indagare su quelle prigioni e sulla pratica indiscriminata della tortura, il Parlamento Europeo ha lavorato duramente, per più di un anno, con una propria Commissione d’inchiesta: duecento audizioni, decine di extraordinary renditions ricostruite, la conferma che in nome della lotta contro il terrorismo si sono consumati molti abusi, molti eccessi, molte violenze. Anche con la complice tolleranza o la manifesta partecipazione dei governi europei. Insomma: sapevamo. Sapevamo ma preferivamo guardar altrove per non molestare gli strateghi della lotta al terrorismo. Sapevamo che la Cia, dietro Guantanamo, aveva fabbricato un proprio arcipelago gulag, una dozzina di black sites in cui stoccare i presunti terroristi prima di spedirli - per gli interrogatori, quelli seri - nelle mani dei professionisti egiziani, giordani, siriani. Sapevamo che taluni voli affittati a squadre di basket da compagnie fantasma venivano utilizzati dai servizi statunitensi per trasportare vittime di renditions da un capo all’altro del mondo: Uzbekistan, Marocco, Libia, Afghanistan... Sapevamo, e ogni tanto chiedevamo il permesso agli statunitensi per spedire anche i nostri poliziotti a interrogare i presunti terroristi in fondo a quelle galere. Uno di loro, Murat Kurnatz, un residente tedesco che si è fatto quasi cinque anni a Guantanamo prima di essere rilasciato, ci ha detto che un giorno vide arrivare al campo tre tizi dall’ambasciata tedesca. Chiese: siete venuti a tirarmi fuori da qui? Siamo venuti a interrogarla, gli risposero. Era il giugno del 2002: per Kurnatz c’erano altri quattro anni ai ceppi prima di essere scarcerato. Se una verità ci ha consegnato il lavoro di questa Commissione d’inchiesta sulla Cia, è che nessuno è senza peccato. Peccati d’omissione, a volte. Di complicità, più spesso. Abbiamo restituito per la prima volta il diritto di parola e di memoria alle vittime, abbiamo ascoltato avvocati, giornalisti, attivisti dei diritti umani... Alla fine abbiamo compreso che le renditions ricostruite, quelle storie di ordinario e imperdonabile abuso erano solo la punta di un iceberg, ventuno fortunati di cui il mondo non si era dimenticato perché avevano in tasca un passaporto o un certificato di residenza di un Paese occidentale. Dietro di loro continua a muoversi un esercito di ombre, uomini senza volto né nome, presunti terroristi sequestrati non sappiamo dove, sottratti ad ogni garanzia giudiziaria, dimenticati in fondo a una galera clande-

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stina. Nessuno reclama per la loro libertà: dunque, non esistono. Ma non basta solo intervenire per denunziare gli abusi. Il tema della sicurezza internazionale e della indispensabile tutela dei diritti dei cittadini sta ormai permeando di sé tutta l’agenda politica dell’Unione Europea. Ormai da molti mesi, in Commissione Libertà Pubbliche, si è acceso il dibattito tra Parlamento, Commissione esecutiva e Consiglio sulle misure da mettere a disposizione della cooperazione giudiziaria e di polizia tra i diversi Paesi. Combattere il terrorismo, svelare la sua rete di protezione, prevenire nuovi attentati, individuare i responsabili richiede - è ovvio - un’attività di intelligence coordinata su tutto il territorio europeo: ma sapendo al tempo stesso fissare obiettivi e limiti, per evitare che quell’attività e le informazioni che essa assume vengano utilizzate per scopi che nulla hanno a che fare con la lotta al terrorismo. È il nodo del dibattito che si sta sviluppando attorno alle direttive sul sistema di “data retenction", la possibilità cioè che tutti i dati telematici e telefonici vengano conservati dai providers e dagli operatori per un periodo di tempo prestabilito, a disposizione dell’autorità giudiziaria nel caso di gravi reati (in cima, ovviamente, quelli legati al terrorismo). Ma qual è la soglia oltre la quale i governi e i loro servizi d’intelligenza non si devono spingere? Come vigilare sugli abusi nell’uso di questi dati? Quale tutela garantiamo ai diritti dei cittadini? E ancora: è davvero rispettato il principio di proporzionalità? Sono utili, efficaci e necessarie queste pratiche di data retenction? E chi se ne assumerà i costi economici? Domande elementari che hanno rilanciato la discussione sulla necessità di trovare un punto alto di equilibrio tra i diritti dei cittadini (alla privacy, alla riservatezza dei propri dati, alle libertà individuali) e la lotta al terrorismo. u questo piano inclinato, la legislatura è destinata ad affrontare nei prossimi due anni molte prove. Cercando di armonizzare tra loro le funzioni e le sollecitazioni, spesso opposte, che arrivano dalle diverse istituzioni europee. Non è facile mettere tutti d’accordo. Ma nulla può essere considerato “facile”, in politica e nei rapporti tra i governi, dopo l’11 settembre. La prova più dura a cui la sfida del terrorismo islamico ci ha condotto è proprio quella di preservare in positivo la nostra diversità e la nostra cultura giuridica rispetto a chi usa il terrore e la violenza per sostenere le proprie ragioni. In altre parole, combattere Al Qaeda e i suoi complici tollerando eccezioni e licenze al nostro dovere di tutela dei diritti fondamentali sarebbe un errore imperdonabile.

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In alto: La parata dei veterani. New York, Usa 2005. Maso Notarianni ©PeaceReporter In basso: The Maze, Belfast, Irlanda del Nord 2007. Marco Pavan per PeaceReporter


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Migranti

Novembre nero Di Gabriele Del Grande

Centoventisette morti in un mese, quasi tutti sulle rotte per le Canarie, dove hanno perso la vita centodiciannove migranti: sessantuno in un naufragio in Mauritania, trentasei in Marocco e venti in Gambia. Due corpi recuperati sulle coste algerine, mentre a Siracusa sono stati rinvenuti i resti di altre quattro vittime del naufragio di Vendicari. In Grecia e a Cipro invece a uccidere è la polizia, che spara sui migranti. ntanto alla conferenza euro-africana di Lisbona passa il modello spagnolo: pattugliamenti congiunti, esternalizzazione dei campi di detenzione e rimpatri. L’Italia, che ha reinsediato per la prima volta quaranta rifugiate eritree, vola in Libia in cerca di un accordo in vista della prossima stagione degli sbarchi. E dall’inizio dell’anno l’immigrazione verso l’Europa ha già fatto almeno 1.470 vittime. Barça ou Barçakh. Barcellona o l’inferno. Lo ripetono da anni, in wolof, i giovani di Saint Louis e Dakar, pronti a partire, costi quel che costi, per raggiungere il centro del mondo: l’Europa. La storia è nota. Nel 2006 il boom degli arrivi alle Canarie, a un anno di distanza dalle deportazioni di massa dal Marocco e dalla dura repressione di Ceuta e Melilla, le enclave spagnole dall’altro lato di Gibilterra, finita con diciassette morti ammazzati e un migliaio di deportati. Nel 2006 arrivarono a Las Palmas più di trentunomila migranti, contro i 4.751 del 2005. Zapatero firmò un accordo di riammissione con il Senegal e l’Unione europea lanciò la prima missione di pattugliamento anti immigrazione dell’agenzia Frontex (denominata Hera) nelle acque mauritane e senegalesi, con l’obiettivo di respingere in mare i migranti. Intanto i lavori del campo di detenzione “Ecole VI” a Nouadhibou (Mauritania) venivano ultimati e la struttura affidata alla Croce rossa spagnola. A settembre 2006 iniziarono i rimpatri dei migranti sbarcati alle Canarie, prima verso Senegal, poi verso gli altri Paesi firmatari di accordi bilaterali di riammissione con Madrid.

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el 2007 oltre 1.500 migranti sono stati fermati in mare dalle navi di Frontex, mentre i senegalesi rimpatriati dal 2006 sono oltre diciottomila. Oggi il numero degli arrivi alle Canarie è crollato: meno settantacinque percento nei primi nove mesi dell’anno. Ma da Dakar si continua a partire. E soprattutto si continua a morire, perché le rotte si sono fatte via via sempre più lunghe e pericolose, e per evitare i pattugliamenti di Frontex ormai si naviga fino a trrecento miglia al largo dalle coste africane, restando in mare dieci dodici giorni con grandissimi rischi. Lo testimonia lo stato di salute dei migranti che arrivano a Las Palmas, sempre più spesso in gravi condizioni di disidratazione e ipotermia proprio per la durata dei viaggi. Sempre più spesso con morti di stenti a bordo delle piroghe. Lo scorso sei novembre, una delle piroghe venne soccorsa a La Güera, al

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confine tra Mauritania e Sahara occidentale. Vagava alla deriva da tre settimane, dopo un guasto al motore. A bordo c’erano 101 passeggeri. Gli altri cinquantasei che erano partiti con loro da Ziguinchor, in Senegal, venti giorni prima, li avevano gettati in mare dopo che erano morti di stenti. Nel 2006 le vittime al largo delle Canarie erano state, secondo i dati di Fortress Europe, almeno 1.035. Un anno dopo, con gli sbarchi diminuiti del settantacinque percento, i morti sono già 657 nei primi undici mesi dell’anno. Dei quali duecento a ottobre e 119 a novembre. Un dato che rischia di essere di gran lunga inferiore alla realtà, di fronte all’eventualità di tanti, troppi naufragi fantasma, come quello consumatosi a ottobre nell’Atlantico, la cui unica eco è stata il funerale collettivo celebrato a Kolda, in Senegal, dalle famiglie degli oltre 150 dispersi in mare. na intera generazione è tagliata fuori dalla possibilità di raggiungere l’Europa, in un Paese, il Senegal, che non riesce a offrire un futuro ai propri giovani. La sola cosa che il presidente Wade ha saputo fare è stato firmare gli accordi di riammissione con la Spagna nel 2006, in cambio di maggiori quote di ingresso. Accordi che presto saranno estesi anche al rimpatrio dei minori non accompagnati: alle Canarie ne sono arrivati 616 solo a novembre. Certo la Spagna di Zapatero ha anche quadruplicato gli aiuti allo sviluppo, passati dai 150 milioni di euro nel 2003 ai 700 milioni nel 2006. Tuttavia, senza un’apertura di canali legali di mobilità e senza un massiccio e coerente investimento nelle economie africane, questo modello è destinato a fallire. Unione Europea e Unione Africana, riunite al meeting euro-africano di Lisbona dell’8 e 9 dicembre 2007, si sono impegnate per una maggiore cooperazione in chiave migratoria. Che sulle frontiere si tradurrà in pattugliamenti congiunti nelle acque territoriali africane, costruzione di campi di detenzione, finanziamento delle operazioni di rimpatrio e, perché no, esternalizzazione delle richieste d’asilo. In cambio l’Ue ha più posti di lavoro per l’immigrazione regolare africana, investimenti nei paesi di origine, nelle infrastrutture e nella formazione. Staremo a vedere.

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In alto e in basso: Barche della speranza. Archivio PeaceReporter


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Rubriche

In edicola di Claudio Sabelli Fioretti

Senza giri di parol... In tivù di Sergio Lotti

Il senso della famiglia Prima o poi qualcuno dovrà intervenire per interrompere la pericolosa spirale di discredito che i canali nazionali stanno alimentando nei confronti dei nostri più vitali settori produttivi. Prima è arrivato lo sceneggiato Il capo dei capi: passi per le prime puntate, dove i giovani potevano scoprire come si fa carriera, ma nell’ultima si vede benissimo che la strage di nemici e complici inaffidabili, politici e magistrati compresi, alla fine non paga, provocando la caduta di Totò Riina e la necessità di una difficile successione ai vertici della mafia. Qui la principale azienda nazionale non ci fa una bella figura, anche perché il tutto era spiegato molto bene. Non a caso c’era chi suggeriva saggiamente di non mandare in onda il finale. Poi ci si è messa Milena Gabanelli, che ha concluso il suo Report con un’inchiesta sul settore della moda. Ma che bisogno c’era di rivelare che certi modelli firmati vengono confezionati per pochi centesimi in terre lontane da popolazioni affamate, oppure nelle nostre periferie da gruppi di cinesi stralunati stipati come schiavi in un sottoscala? Tanto basta un cinturino, una borchia, un piccolo fregio e tutto può essere venduto a dieci volte quello che costa. Vogliamo continuare a denigrare il Made in Italy con queste sciocchezze? Per non parlare dell’attacco ai giornalisti (già si sputtanano abbastanza da soli) perché ogni tanto fanno i consulenti degli stilisti o dirigono i giornali avvalendosi dei loro preziosi consigli. Anche i giornalisti tengono famiglia. Che idea si fanno i giovani della categoria? Per fortuna i quotidiani hanno menzionato appena la trasmissione e di etica professionale finalmente non parla quasi più nessuno, paccottiglia da mercatino dell’usato. Quindi il danno è stato limitato. Ma a primavera la perfida Gabanelli ritorna, forse bisognerebbe fermarla. Non occorre neppure un altro editto bulgaro, basterebbe sostituire Report con le repliche di Beautiful, dove c’è sempre qualcuno pronto a sollevare il morale alla donna del fratello, mentre suo padre cerca di farsi una sveltina con la nuora e la mamma non resiste al fascino di un vecchio amico che aveva avuto una storia con la figlia... O forse era la nipote? L’importante è che i giovani, occupati durante il giorno a baloccarsi in attività precarie, alla sera possano anche loro recuperare il senso della famiglia. 26

Alzi la mano chi di voi anche una sola volta ha detto a qualcuno “Pezzo di m…” . Cerchiamo di capirci. Io non voglio sapere chi di voi abbia mai detto a qualcuno “Pezzo di merda”. Io voglio sapere chi di voi abbia detto effettivamente “Pezzo di m…”. Proprio così: “Pezzo di m…” con i puntini. Chi di voi ha mai detto a qualcuno: “Tu sei uno str…”, str… con i puntini. Oppure “Faccia di c…”. Non serve che mi rispondiate. So che nessuno ha mai detto c…ate di questo genere. Ma secondo i nostri giornali, in testa i quotidiani, questo è il linguaggio degli italiani. Per i quotidiani italiani infatti gli italiani non dicono parolacce. Ma dicono puntini. Ricordo una volta che dovevo andare a intervistare Onofrio Pirrotta, il giornalista della Rai al quale qualcuno aveva dato del “faccia di cazzo”. Lui si era giustamente adontato e aveva sporto querela. Aveva anche detto che non si sarebbe arrabbiato se gli avessero detto “faccia di culo”. Perché in quel caso, più che di un insulto, si sarebbe trattato di una maniera di dire, di un luogo comune, di una frase ormai spolettata dall’uso comune. Ma “faccia di cazzo” per la miseria no. “Faccia di cazzo” è un’ingiuria che va lavata almeno nel sangue di una sentenza del tribunale. Bene. Scrissi l’intervista raccontando l’antefatto. Il direttore del giornale mi spiegò che non era nell’uso del quoti-

Salute di Valeria Confalonieri

Ebola non si ferma Il virus Ebola continua a seminare morte in Africa. L’epidemia del 2007 nella Repubblica Democratica del Congo avrebbe causato la morte di 170 persone circa (solo in pochi casi vi è stata la conferma di laboratorio e nello stesso periodo vi erano nella zona altri tipi di infezione); in novembre, sono stati confermati casi di febbre emorragica da virus Ebola anche in Uganda. Secondo i conteggi riportati dall’Organizzazione mondiale della sanità alla fine della prima settimana di dicembre, i casi sospetti di infezione sono 93, di cui 22 morti; fra le vittime del

diano scrivere parole del genere. Mi disse che avrei dovuto usare i puntini. Tacqui e gli rimandai il testo corretto. Che suonava così: se mi avessero detto “faccia di c…” non avrei detto nulla, ma mi hanno detto “faccia di c…” e questo non l’ho potuto sopportare. C’è una bella differenza fra “faccia di c…” e “faccia di c…”. Un delirio. Il direttore mi mandò indietro il pezzo col piccolo commento: “Va bene, per questa volta hai vinto tu”. Io ero ancora ragazzotto quando Cesare Zavattini sdoganò l’interiezione “Cazzo!”. Lo disse alla radio. Disse proprio così: Attenzione, adesso lo dico e non ne parliamo più. Cazzo! Ah, che liberazione. Zavattini aveva compiuto un atto rivoluzionario, visti i tempi, ma sembra che non sia cambiato proprio niente. In tv vanno tette e culi, chiappe cellulitiche e seni siliconati, si parla ridacchiando di pompini e scopate ma sempre usando eufemismi ridicoli e incredibili giri di parole. Il tutto perché siamo in fascia protetta, perché la tv la guardano anche i nostri figli. Non è vero. Sia detto una volta per tutte. I nostri figli non guardano la tv. I nostri figli, mentre noi ci preoccupiamo di mettere i puntini ai cazzi e ai culi, stanno nella stanza accanto a scopare con le figlie dei nostri vicini. www.sabellifioretti.it

virus vi sono anche quattro operatori sanitari. I numeri del contagio potrebbero continuare a salire: le autorità sanitarie stanno mettendo in atto programmi di informazione della popolazione, formazione del personale sanitario, isolamento e controllo delle persone a rischio per i contatti avuti (oltre 300). La presenza della febbre emorragica da virus Ebola nella zona a ovest del Paese, al confine con la Repubblica Democratica del Congo, è stata confermata dal Ministero della salute dell’Uganda a fine novembre, ma il virus potrebbe essere in circolazione già da settembre. In Uganda, l’ultima epidemia di Ebola risale a sette anni fa, quando fra il settembre del 2000 e il gennaio del 2001 vi furono 425 casi di infezione, di cui 224 mortali. L’Organizzazione mondiale della sanità riporta che il virus Ebola, da quando è stato scoperto nel 1976, è stato responsabile di oltre 1.200 morti, su 1.850 casi circa.


A teatro di Silvia Del Pozzo

Aspetti oscuri Cinque gennaio 1984: Giuseppe Fava, giornalista, viene colpito a morte dalla mafia, a Catania, la sua città. Venti marzo 1994: Ilaria Alpi e Miram Hrovatin, giornalista e operatore del Tg3, sono uccisi da un commando somalo a Mogadiscio. Due morti di cui si è molto parlato, scritto, su cui si è indagato, ma che hanno ancora molti aspetti oscuri. Gli assassini di Fava sono stati condannati. L’esecutore materiale dell’omicidio della Alpi e di Hrovatin, il miliziano Omar Hassan, è stato condannato, ma il “caso” è stato archiviato nel 2007, nell’impossibilità, secondo il Pm romano, di identificare i mandanti. Due storie, in qualche modo analoghe, che il teatro ripropone, con tutti gli inquietanti scenari, i dubbi, il dolore, la rabbia di cui sono intessute. Il figlio di Fava, Claudio, ha ricostruito il processo per la morte del padre ripercorrendo le seimila pagine di verbali, risultato di 234 udienze, ne “L’istruttoria” (titolo preso a prestito da Peter Weiss), per la regia di Ninni Bruschetta. “Come la più celebre di Weiss, che racconta l’inferno dei lager ma è soprattutto una spietata denuncia del nazismo, anche questa istruttoria”, dice l’autore, “parla della morte di un uomo per narrare tutta la ferocia della mafia. E soprattutto la rabbia dei sopravvissuti”. Ne “La vacanza”, l’attrice Marina Senisi veste i panni di Sabrina Giannini, autrice di un’inchiesta del televisivo Report sul caso Alpi, e racconta, a un ipotetico ospite a cena, il delitto e le tappe del reportage, le domande poste e le risposte non date, gli omissis che coinvolgono servizi segreti e vari soggetti dello Stato. La “vacanza” è quella che, nelle parole dell’avvocato Taormina, presidente della commissione parlamentare di inchiesta, Ilaria stava trascorrendo nel paese africano? O non è piuttosto “vacanza” nell’accezione di “vuoto”, vuoto dei poteri che hanno cercato di nascondere la verità, perché il caso Alpi continua a fare paura? “L’istruttoria”: Roma, Teatro Ambra Jovinelli, dall’8 al 20 gennaio 2008. Dall’8 al 10/2 a Bologna, Teatro Interaction. “La vacanza”: Bolzano, Teatro Grace, 18/1; Gardone Valtrompia il 22/2, Nembro (Bg) il 23.

nel Canzoniere del Lazio, uno dei primi tentativi di valicamento di frontiere (in quel caso dalla musica folk al rock e al jazz), le collaborazioni con Demetrio Stratos, Banco del Mutuo Soccorso, Stece Lacy, l’attuale direzione della Hypertext Orchestra… È con questo ensemble - un dream team formato da grandi solisti internazionali come Alex Balanescu (violino), Danilo Rea e Sal Bonafede (tastiere), Maurizio Giammarco e Gianluigi Trovesi (fiati), Walter Rios (bandoneon), dagli afrori afro di Badara Seck, dal vocalismo mediterraneo di Lucilla Galeazzi e da quello profumato d’oriente di Urna Chahar Tugchi - che Luigi Cinque ha partorito, per Radiofandango, Passaggi: cinquanta minuti abbondanti di musica policroma. Ora a-ritmica, ora sincopata, a volte ipnotica, quasi spirituale ed altre volte meccanica. Canzoni che evocano migranti, barche della speranza, tragedie senza fine.. La magia sonora di un sud immaginario, un affresco di musica nuova: colta, leggera e popolare.

Asa (Asha) di Asa Quello di questa venticinquenne cantautrice nigeriana è uno dei migliori debutti discografici del 2007. Una voce graffiata, bassa, fuori dagli schemi per una manciata di canzoni agrodolci che

potrebbero sfondare anche nell’air play radiofonico. Il singolo Fire On The Mountain è un’impertinente metafora per un mondo ignorante e indifferente. “Chi si rifiuta di prestare attenzione alle scintille non avrà altra scelta se non correre quando scop-

pierà l’incendio”: dove il fuoco rappresenta simbolicamente i conflitti e i problemi di un’umanità di cui non ci prendiamo più cura. Asa è nata a Parigi, ma non aveva più di due anni quando i suoi genitori tornarono a vivere in Nigeria. E’ quindi cresciuta a Lagos, una delle città più violente del mondo, un posto dove si incrociano la cultura cristiana, quella islamica e quella animista. Per strada si ascoltano un crogiuolo di suoni che passano con indifferenza da Fela Kuti ad Erica Badu, da King Sunny Adè a Lauryn Hill. Un caleidoscopio di emozioni che Asa, “falco” nella sua lingua madre, ci racconta armata di una chitarra e tanta curiosità.

Vauro

Musica di Claudio Agostoni

Passaggi di Luigi Cinque C’è chi cavalca l’onda e chi cerca di anticiparla. Luigi Cinque, che di mestiere non fa il surfista ma il musicista, appartiene alla seconda categoria e sul suo biglietto da visita potrebbe fregiarsi del titolo di “antropologo della musica”. Per una conferma del ruolo di anticipatore di future soluzioni sonore basta scorrere il suo curriculum vitae. L’esperienza 27


Al cinema di Nicola Falcinella

Persepolis di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud Un film d’animazione classica senza computer animation, interamente in bianco e nero e con disegni molto semplici e immediati. È “Persepolis” e racconta in un’ora e mezza quindici anni della vita di una giovane iraniana. La storia autobiografica di

Marjane Satrapi (che ha portato al cinema i suoi conosciutissini fumetti) inizia a nove anni, nel 1978, quando si afferma la rivoluzione islamica, che tradisce le speranze di libertà e giustizia di un popolo che stava sotto la dittatura dello Scià. Troppo indipendente e curiosa per stare fuori dai guai con il regi-

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me, a quattordici anni la giovane (siamo nel 1983, in piena guerra con l’Iraq) viene mandata dalla famiglia a Vienna per frequentare il liceo francese. Dopo una serie di avventure rocambolesche (cacciata dalla donna che la ospita, vive per un periodo da clandestina in un parco) e le scoperte dell’amore, dell’alcool e del punk, sarà vinta dalla nostalgia. Torna a casa e tempo dopo si sposa con un uomo che conosce appena e sembra simpatico. Ma il suo destino è diverso: il marito è opprimente, il matrimonio non dura e la giovane deve lasciare di nuovo la famiglia per trasferirsi a Parigi. Satrapi racconta, aiutata dal coregista Vincent Paronnaud, con ironia e tenerezza, facendo ridere e piangere insieme, una storia dove ben seicento personaggi ruotano attorno alla protagonista. Nella versione originale francese la voce di Marjane è di Chiara Mastroianni, con Catherine Deneuve come madre e Danielle Darrieux nonna legatissima alla nipote. Il film, premio della giuria al Festival di Cannes 2007, uscirà in Italia il 22 febbraio, sulla scia della candidatura agli Oscar, dove concorre in due categorie: miglior film d’animazione e miglior film straniero, categoria nella quale rappresenta la Francia. Una storia divertente (per certi aspetti è la versione infantile e leggera di Leggere Lolita a Teheran, di Azar Nafisi), che tocca temi peculiari della situazione iraniana, ma anche universale nel descrivere la crescita della ragazza, la sua curiosità, il suo impeto, il non accontentarsi, il cercare il proprio posto nel mondo. Uno dei pregi maggiori è che lo spettatore assume il punto di vista della protagonista e la parte più “esotica” risulta quella viennese a metà anni Ottanta.

In libreria di Giorgio Gabbi

La storia segreta dell’impero americano di John Perkins Da almeno qualche decennio le operazioni “coperte” del governo di Washington, dirette a togliere di mezzo o ridurre all’obbedienza i leader di Paesi stranieri ritenuti ostili agli interessi statunitensi, sono denunciate da innumerevoli media in tutto il mondo. Che cosa ci propone dunque di inedito l’ultimo lavoro di John Perkins, balzato alla notorietà internazionale tre anni fa con il suo primo lavoro di successo, Confessioni di un sicario dell’economia? Di nuovo, in questa Storia segreta dell’impero americano, c’è l’entrata in scena di molti altri autori di ricatti, complotti e delitti commessi al soldo della “corporatocrazia” (definita dall’autore come il complesso degli “individui che controllano la nostra economia, i governi e i media”). Con le Confessioni Perkins aveva rotto il vincolo di segretezza sulle proprie attività sottoscritto quando, ancora studente e militante dei Corpi della pace, era stato arruolato dalla segretissima National Security Agency (Nsa). Allora parlava in prima persona. Adesso fa parlare soprattutto i suoi ex-colleghi “sicari dell’economia” (ma il termine inglese hit men qui


indica in realtà chi è pagato per corrompere, intimidire, estorcere, non per ammazzare), e raccoglie anche le confidenze del braccio armato, gli “sciacalli dell’economia”, che sono quelli che intervengono quando i primi falliscono e, di solito con la copertura e l’aiuto della Cia, tolgono di mezzo i leader che non si lasciano comprare. Ne viene fuori un quadro molto dettagliato su come opera il complesso militare-industriale americano: con i generali in pensione che siedono nei consigli di amministrazione delle multinazionali impegnate nei paesi dell’area di influenza ameri-

cana, e i capi delle multinazionali stesse che occupano i vertici delle amministrazioni governative. Un intreccio che ha manifestato tutta la sua natura perversa con l’invasione dell’Iraq. Un particolare significativo: nelle segretissime riunioni in cui si discute se imporre gli interessi delle multinazionali con mezzi violenti, Perkins ha notato che, rispetto ai finanzieri d’assalto, i militari sono in genere più prudenti nel proporre l’impiego delle armi: forse perché consapevoli che le guerre si sa come cominciano, ma non si sa come andranno a finire. Intendiamoci: questo di Perkins non è un libro antiamericano. L’autore adora la sua patria e crede fermamente negli ideali di libertà, democrazia e uguaglianza solennemente proclamati dalla Costituzione americana. Ha avuto una lunga storia di successi, e di lauti guadagni, come banchiere, consulente aziendale, finanziere, imprenditore all’interno della “corporatocrazia”. Ma ha progressivamente maturato la convinzione che gli ideali statunitensi siano stati traditi, che l’avidità e lo strapotere delle multinazionali non siano compatibili con un mondo più giusto: di qui la sua denuncia. Oggi è impegnato in iniziative private a favore delle popolazioni più povere, e si adopera perché i suoi concittadini si mobilitino per darsi un governo migliore. Indi edizioni, 2007, pagg.408, € 16,00

In rete di Arturo Di Corinto

Adbusters: una risata vi seppellirà Adbusters è la più famosa rivista di interferenza culturale dell’intero globo. Gli adbusters sono “s-pubblicitari”, cioè creativi che producono a getto continuo delle “contropubblicità”, ovvero delle pubblicità al contrario, con lo scopo di svelare il messaggio persuasivo

lettere a un chirurgo confuso scrivi a chirurgo@peacereporter.net Caro Gino, Il presidente Napolitano, nel suo viaggio dello scorso dicembre a Washington, dopo aver incontrato il presidente George W. Bush, ha dichiarato che per parte sua l’Italia non può lasciare agli Stati Uniti la responsabilità della cosiddetta sicurezza globale. Per questo, il presidente Italiano ha garantito a quello Usa anche la disponibilità del territorio di Vicenza per la base americana. Una base che, è abbastanza chiaro, verrà usata per portare la guerra in giro per il mondo. Ma la Costituzione non dice che “l’Italia ripudia la guerra?”. Come facciamo a sentirci rappresentati da un capo dello Stato che dichiara la disponibilità del nostro Paese a rinunciare a parte del suo territorio per cederlo ad un esercito che lo userà per portare morte e distruzione? Tutto questo è difficilmente conciliabile con le convinzioni delle quali lei è considerato portatore… Grazie per la risposta e un buon lavoro. Marco, Belluno

Caro Marco, No, grazie. Non voglio sembrare supponente, ma interloquire con quel che Napolitano ha detto a Washington non mi interessa davvero. Ho smesso da un pezzo di credere che si possa capirsi quando si parlano lingue tanto diverse. C’è un mondo nel quale si presta attenzione alla sofferenza delle vittime del lavoro: il Presidente Napolitano se ne è fatto interprete. E c’è un mondo nel quale si possono nutrire attenzioni per le vittime della guerra: dico vittime della guerra, non dico vittime innocenti o estranee. Questo secondo mondo, quello delle vittime della guerra, per il Presidente Napolitano sembra un universo differente dal primo. Su questa base credo di non essere in grado di interloquire, quasi che si parlassero due lingue diverse, e gli interlocutori non fossero in condizione di capire l’altro. Nemmeno di farsi capire, perché per me (che sono anzitutto un medico e non sono certamente un politico, non comunque nel senso che conduce ad essere presidenti della Camera o della Repubblica)…per me, dicevo, questa differenza non esiste. La sola cosa che posso dire al riguardo è che

implicito in ogni slogan o campagna mediale rivolta al consumo di sigarette, alcool, plastica, automobili, energia e altre risorse (scarse) del nostro povero pianeta. Di forte impronta ambientalista e pacifista, il giornale è diventato ben presto il luogo di raccolta simbolico di tutti i cultural jammers che con gli strumenti ereditati dai dadaisti, dai surrealisti e dai movimenti creativi degli anni Settanta continuano a combattere il mondo dei consumi con

forse esistono due mondi diversi, reciprocamente estranei. Non nego d’essermi un tempo illuso del contrario. Mi sembrava anzi evidente che chiunque pensasse che la guerra significa soprattutto una cosa: trasformare dei viventi in buona salute in morti o, quantomeno, in poveracci destinati a reinventarsi la loro esistenza con quel che resta del loro corpo. Avevo creduto che il solo scopo possibile di quel che chiamiamo politica fosse garantire l’esistenza di ciascun essere umano. Non mi sono mai imbattuto in nessuno che lo negasse. Pochissimi, però, si ricordano di questa convinzione anche quando votano in Parlamento, anche quando dovrebbero (se posso permettermi) ripensare a che cosa hanno giurato mai quando hanno giurato fedeltà alla Costituzione. No. Non mi appartiene davvero essere grillo parlante sul muro di qualche presidenza o ministero. Restiamo in mondi diversi. Avremo (abbiamo da sempre, certo) argomenti sui quali diremo cose completamente diverse: cose sulle quali avremo convinzioni opposte. Io difenderò le mie come altri difenderà le sue. Non saremo reciprocamente estranei, sosterremo opinioni opposte sulle medesime situazioni: la guerra in generale, la produzione, il commercio, l’impiego di armi, un impiego del territorio da sottrarre o da regalare a una servitù militare… Avremo opinioni diverse e non le nasconderemo. Asteniamoci, almeno, dal parlare ognuno a nome degli altri. Me ne astengo io che sono soltanto un chirurgo, è ovvio. Ma chi è in qualche modo autorizzato a parlare a nome di un Paese? E da dove attinge la certezza di esprimere pensieri condivisi e diffusi?

Gino Strada

ironia e passione civile. Famoso è il loro deturnamento del simpatico testimonial delle sigarette Camel, trasformato su cartelloni pubblicitari e graffiti come un malato terminale di cancro. Sul loro sito è visitabile un’intera galleria di contropubblicità, che va da MacDonald’s alla vodka Absolut, ma ci sono anche le istruzioni per creare le proprie campagne contropubblicitarie. “http://www.adbusters.org/home 29


Per saperne di più Serbia LIBRI BILJANA SRBLJANOVIC, La Trilogia di Belgrado e altri testi, Ubulibri, 2001 Biljana aveva 28 anni quando raccontava al mondo la sua Belgrado sotto le bombe della Nato. Oggi la drammaturga serba vive a Parigi, ma non ha mai smesso di tornare in quella Serbia raccontata dai suoi lavori teatrali. Trilogia di Belgrado, opera in tre atti, è la testimonianza di una donna che vive tra i bombardamenti, che vede la città svuotarsi, tra mancanza di acqua, luce, e problemi che sembrano quelli di tutti i giorni. A cura di ALESSANDRO MARZO MAGNO, La guerra dei dieci anni. Jugoslavia 1991-2001, il Saggiatore, 2005 Il 26 giugno 1991 la guerra di Slovenia dava inizio alla dissoluzione della Jugoslavia e inaugurava il decennio di conflitti sanguinosi che hanno sconvolto i Balcani. La guerra dilaga, come un'epidemia, anche in Croazia, in Bosnia, in Kosovo. Sullo sfondo la figura di Slobodan Milosevic, l'uomo che è morto in carcere nel processo che doveva sancirne le colpe. Ma la situazione, con lo statu del Kosovo ancora in bilico, non è pacificata, e questo testo aiuta a ricostruire i tragici fatti che hanno generato a situazione attuale. IVO ANDRIC, Il ponte sulla Drina, Mondadori, 1995 Il romanzo d'esordio del grande scrittore, premio Nobel per la Letteratura nel 1961, racconta la nascita di una nazione, attraverso una sorta di saga epica che abbraccia un periodo che va dal XVI secolo alla Prima Guerra mondiale. Uno strumento indispensabile per comprendere, o per tentare di farlo, un puzzle quasi irrisolvibile di religioni, popoli e storie come sono i Balcani.

SITI INTERNET http://www.b92.net/eng/"http://www.b92.net/ engIl sito della televisione b92 resta una delle fonti d'informazione più completa e, almeno sulla carta, più indipendente della ex-Jugoslavia. http://www.osservatoriobalcani.org/ un progetto promosso dalla Fondazione Opera Campana dei Caduti, in collaborazione con il Forum Trentino per la Pace e i Diritti Umani e con il supporto dell'Assessorato alla solidarietà internazionale della Provincia autonoma di Trento e del Comune di Rovereto. Istituito nel 2000 per rispondere alla domanda di conoscenza e dibattito di persone, associazioni ed istituzioni che da anni operavano per la pace e la convivenza nei Balcani, oggi Osservatorio è un laboratorio sull’Europa di mezzo e offre uno sguardo sui Balcani e sull’intera Europa che nei Balcani si riflette. http://www.kosovocompromise.com Un sito non di parte d'informazione sulla regione, in questo momento , più calda dei Balcani. News e politica, ma anche cultura e società

FILM EMIR KUSTURICA, Underground, Ungheria, Bulgaria, Cecoslovacchia, Francia 1995 Film rivelazione che ha reso noto in tutto il mondo il regista di maggior talento della nuova generazione della ricca scuola serba. Un uomo, 30

dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, vive nascosto per una storia di donne. Non sa nulla di quello che accade, e pensa che tutto sia come prima. Quando esce, attraverso i suoi occhi, si viaggia all'interno della storia di un paese. GIANCARLO BOCCHI, Kosovo, nascita e morte di una nazione, Italia 2005 Con un mosaico di sette storie si racconta il conflitto del Kosovo dal 1998 al 2000, attraverso i drammi e le sofferenze della popolazione di tutte le etnie, vittima della guerra , dei massacri , dei genocidi e della manipolazione del potere e dei media . E’ un viaggio attraverso il passato ed il presente , che svela molti fatti sconosciuti di un conflitto che non si è mai concluso. NINOSLAV RANDJELOVIC, Autumn on Nobody's Land, Serbia 2004 Uno spaccato di vita quotidiana nella regione del Kosovo-Metohija, descritta dopo gli eventi del 17 marzo che hanno inasprito i rapporti tra la maggioranza albanese del Kosovo e la minoranza serba. I carnefici diventano vittime, in un incrocio tipicamente balcanico

India

santoni, delle carestie e delle vacche sacre, e la sua società come statica e con un economia ristagnante. La Storia dell’India di Torri, sulla base di una documentazione ampia e aggiornata, mette radicalmente in discussione questi stereotipi. Nelle sue pagine, la millenaria storia indiana si rivela come quella di una società caratterizzata, fin dai tempi più antichi, da continui processi di mutamento, frutto di vivaci rapporti culturali e commerciali con il resto del mondo. Ne emerge la vera identità dell’India, paese immenso, rutilante, contradditorio, dinamico e feroce. La narrazione, che inizia con la creazione dei primi insediamenti umani stabili (ca. 7000 a.C.), si conclude al giorno d’oggi.

SITI INTERNET LIBRI PIERO PAGLIANI, Naxalbari-India. L’insurrezione nella futura “terza potenza mondiale”, Mimesis, 2007 Samir Amin definisce la questione agraria come uno dei problemi fondamentali che dovranno essere affrontati nel XXI secolo. Questo libro, seguendo le tracce della rivolta delle popolazioni tribali e dei contadini poveri che in India, a partire dal villaggio di Naxalbari, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, diedero l’assalto al cielo occupando la terra, ci introduce in una questione e in un mondo per lo più ignorati dai lettori occidentali. Un libro frutto di studi su un vasto numero di pubblicazioni internazionali, ma anche di ricerche sul campo, di incontri con le protagoniste e i protagonisti (Kanu Sanyal, Subodh Mitra, Shanti Munda, Mahasweta Devi) e di analisi di documenti inediti. Ma soprattutto frutto di passione militante, disgusto per le disuguaglianze e le ingiustizie sociali e amore per l’India e per la sua città più diffamata, Calcutta. DEVI MAHASWETA, La preda e altri racconti, Einaudi, 2004 Una cultura indiana che non parla inglese, quella bengalese relegata ai margini di una società dura e iniqua, raccontata da chi ne rivendica l’alterità e i diritti e ne offre una rappresentazione problematica e documentata. L’autrice è una militante del movimento per i diritti civili e sociali delle comunità tribali dell’India orientale. Ed è proprio dall’impegno civile che nascono le storie della Devi: storie di contadini senza terra in stato di semischiavitù, in cui il dato documentaristico è spesso associato all’elemento fantastico della tradizione epica indiana. Sette racconti attraversati da una sottile vena pedagogica che inducono a riflettere sulla realtà della cultura bengalese e su quella della società indiana. MICHELGUGLIELMO TORRI, Storia dell’India, Laterza-Bari, 2007 L’India è il secondo Paese più popoloso del pianeta, è la più grande democrazia del mondo, ha un’antica e complessa civiltà e, nonostante persistenti problemi di povertà e di analfabetismo, ha un’economia che, trainata da settori di punta quali l’industria del software, si è sviluppata a ritmi vertiginosi. Tuttavia, troppo spesso, l’India continua a essere percepita come il Paese dei

http://www.cpim.org Sito del Partito comunista indiano marxista, Cpm o Cpi(M), guidato da Prakash Karat e fondato nel 1964. È al potere negli stati del Bengala Occidentale, Kerala e Tripura. Nonostante il nome, il Cpm è un partito social-democratico liberista. http://www.cpiml.org Sito del Partito comunista indiano marxista-leninista/Liberazione, Cpi (Ml) Liberation, guidato da Dipankar Bhattacharya e fondato nel 1969. E rappresentato nei parlamenti statali di Bihar and Jharkhand. È un partito filo-maoista e filo-naxalita. http://maoistresistance.blogspot.com Blog legato al Partito comunista indiano maoista, Cpi (Maoist), guidato da Muppala Lakshmana Rao, detto ‘Ganapati’ , e fondato nel 2004. È un partito armato rivoluzionario clandestino naxalita. Il sito vero e proprio del partito (http://peoplesmarch.googlepages.com) è stato chiuso.

FILM ROLAND JOFFE, La città della gioia, Gran Bretagna/Francia, 1992 Tratto dal romanzo La cité de la joie di Dominique Lapierre. S’incrociano a Calcutta gli itinerari di un medico nordamericano in crisi e di un povero contadino che vi arriva con moglie e tre figli e trova lavoro come cavallo umano, conduttore di risciò. Una storia di emozioni e grandi temi che straripa di fatti, misfatti e conflitti. RICHARD ATTENBOROUGH, Gandhi, Gran Bretagna, 1982 Questo epico e monumentale kolossal vincitore di 8 premi Oscar racconta la vita di Mohandas Karamchand Gandhi: il piccolo grande uomo che, abbandonata l’attività di avvocato, dedica tutto se stesso, fino alla morte, alla causa dell'indipendenza dell’India. La storia del ‘Mahatma’, la Grande Anima, interpretato da un eccezionale Ben Kingsley, inizia dalla fine, dal suo assassinio e dai suoi funerali, per poi correre agli esordi della sua vita adulta: gli studi in Inghilterra, le prime disillusioni sullíatteggiamento della Corona verso i membri dell’Impero ‘di serie B’ e l’inizio della lotta nonviolenta contro il coloniali-


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