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mensile - anno 4 numero 1 - gennaio 2009

3 euro

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n째46) art. 1, comma 1, dcb milano

New Mexico in riserva

Paesi Baschi Gaza Transnistria Ecuador Kosovo Italia Migranti

Arrestata la pace Sola andata Educazione siberiana Avvocato contro il diavolo Quel che resta degli uomini Omofobia moderna Respingimenti misteriosi

Portfolio: i nuovi pastori della Sardegna



La guerra è l'impiego illimitato della forza bruta. Ernest Carl von Clausewitz

gennaio 2010 mensile - anno 4, numero 1

Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Christian Elia Luca Galassi Alessandro Grandi Benedetta Guerriero Enrico Piovesana Nicola Sessa Stella Spinelli Naoki Tomasini

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Blue & Joy Francesca Borri Sonia Borsato Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Elena Fava Emerson Nicola Falcinella Giovanni Giacopuzzi Licia Lanza Paolo Lezziero Sergio Lotti Aurelio Mancuso

Progetto grafico Guido Scarabottolo Oliviero Fiori Segreteria di redazione Silvina Grippaldi

Amministrazione Annalisa Braga

Hanno collaborato per le foto Carlo Traina Elena Fava Emerson Alessandro Toscano/On-Off Pictures

Redazione e amministrazione Via Bagutta 12 Amministrazione 20123 Milano Annalisa Braga Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Stampa Graphicscalve Via Meravigli 12 - 20123 Milano Loc. Ponte Formello - 24020 Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07 Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 31 marzo 2009 Foto di copertina: Pubblicità New mexico Via Bagutta 12 Archivio PeaceReporter 20123 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net

L’editoriale di Maso Notarianni

Buon anno? iccicile scrivere un editoriale che sia sinceramente di buon augurio e auscpicio, quando nelle orecchie risuonano ancora le parole del nostro ministro della difesa che canta le lodi della X-Mas, ovverodi quella parte dell’esercito italiano che si schierò dalla parte dei nazisti contribuendo in modo assai significatico a innumerevoli carneficine. Difficile essere ottimisti quando si osserva il mondo andare sempre più velocemente verso il baratro della barbarie, della guerra permanente e presente in ogni ambito della vita di ognuno di noi. Difficile essere ottimimsti quando vediamo il nostro Paese chiudersi con sempre più impressionante ferocia nel suo illusorio benessere arrivando a tollerare che esseri umani vengano abbandonati al loro certamente terribile e probabilmente letale destino ogni giorno nelle acque di un mare che non milto tempo fa - nella storia umana era il centro di culture contaminanti e contaminate, di scambi di genti e di cose. Difficile essere ottimisti di fronte all’annuncio di nuovi soldati che partono per la guerra, mandati ad uccidere e ad essere uccisi. Eppure è strana la mente umana: ad ogni capodanno si continua a sperare che l’anno che arriva sia meglio di quello passato. Non sarebbe difficile realizzare questo auspicio, farlo odiventare per una volta cosa reale e concreta. Basterebbe - crediamo - mettere più impegno e soprattutto più consapevpòezza nelle cose che si fanno. Meno fatalismo nell’accettare quel che di brutto si osserva. Essere consapevoli che se esiste, il brutto, è anche perché noi, ognuno di noi, lo lascia esistere pensando che dipenda da altro, dal fatto che nulla si può fare per cambiare il mondo. Questo è sbagliato, non è nella natura umana darla vinta così facilmente. Per questo quest’anno, ci auguriamo semplicemente che torni ad essere una cosa mpportante l’etica. Che torni ad essere importante, fondamentele, un discrimine dell’esistenza di ciscuano di noi lo scegliere tra il giosto e lo sbagliato. Tra il decente e l’indecente, tra il tollerabile e l’intollerabile. Scegliere. Ecco, ci auguriamo che nell’anno che viene si ricominci a fare delle scelte, e a prendere degli impegni. Anche se da tanti anni siamo abituati a non farlo più.

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Paesi Baschi a pagina 10

Italia a pagina 26

Transnistria a pagina 20

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New Messico a pagina 4

Kosovo a pagina 24

Scritti, disegni e fotografie anche se non pubblicati non verranno resi.

Migranti a pagina 28

Israele a pagina 14 3


Il reportage New Messico

In riserva Di Elena Fava Emerson Addentrarsi in una riserva indiana nel Nuovo Messico, senza essere scortati è come entrare nel deserto senza mappa. E’ un’avventura, con una differenza. Non si puo’ oltrepassare il limite del territorio senza essere accompagnati da una persona navajo. Le loro terre sono off limits. alla High Way principale che attraversa il Nuovo Messico, è impossibile intravvedere le loro abitazioni. Sono nascoste miglia all’interno, oltre i canyon, al di là dell’orizzonte visibile. Non esistono cartelli e le strade sono sterrate. Miglia e miglia di arbusti rinsecchiti dal sole accompagnano ogni duna, ogni confine territoriale, ogni spazio occupato dai diversi clan. Gli hogan, le abitazioni tipiche dei Navajo distano fra loro qualche miglio. È una tradizione di questo popolo per definire la propria terra e la propria libertà. George e Dorothy Yazzie vivono nel loro hogan da tempo memorabile. Conocono ogni metro quadrato del loro terrotorio, lo riconoscono anche nel buio della notte. Ogni “junction”, ogni bivio di strade polverose e bucate dallo scroscio dell’acqua piovana, ogni solco formato da pneumatici pesanti che scorrono nel fango della stagione delle piogge, ogni impronta di un passaggio è segno di riconoscimento del percorso che li porta a casa. Per riconoscere le strade e localizzare le abitazioni visualizzano la posizione delle montagne e contano le miglia come punti di riferimento. “Sono nato quando l’erba era così bassa o così alta, non ricordo, ma c’era la luna piena”, - spiega George Yazzie - “a quel tempo nessuno prendeva nota. Nessuno parlava inglese né sapeva scrivere”. George, oggi ultraottantenne, frequentò la scuola per molti anni, si chiamava Boarding School per i piccoli indiani d’america; ma prima che terminasse gli studi il padre andò a prenderlo e lo portò con sè. Da bambino lavorò come pastore per qualche tempo. Pascolava le sue pecore e guadagnava trentacinque centesimi al giorno per aiutare al pascolo di altri proprietari. Più tardi, da ragazzo, fu mandato a lavorare per le ferrovie Southern Union. George posava binari e diventò supervisore. Si alzava alle cinque della mattina ed era pagato cinquanti dollari per quindici giorni di lavoro. Si unì al corpo dei Marines a circa vent’anni, durante la seconda guerra mondiale.

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Navigò per tutto il Pacifico e stazionò in Giappone per tre anni. George era uno degli addetti al collegamento radio per usare la lingua Navajo per i trasferimenti in codice dei piani militari. Grazie a questo espediente I giapponesi non riuscirono a tradurre la lingua Navajo, un idioma per loro indecifrabile, e i piani militari americani potevano essere trasmessi celermente. I navajo impiegati alla traduzione e trasmissione dei messaggi lavoravano velocemente. Tanto velocemente da non laasciare ai Giapponesi il tempo necessario per poter tradurre i messaggi militari, ma soprattutto per riuscire a comprendere di quale lingua dovevano decifrare i codici. .I codici viaggiavano celermente dal Navajo all’inglese e viceversa in pochi minuti. Ciò permise agli americani di precedere ogni mossa strategica giapponese. I Codetalkers”, parlatori di codice, erano un esiguo numero. Fino ad allora nessun inglese aveva studiato la lingua dei Dineh, risultava perciò incomprensibile perfino alle truppe americane. Dovevano tutti fidarsi dei loro marines Navajo. E fu la scelta giusta. La loro lingua era sconosciuta e perciò sicura. Non uno dei messaggi spediti dalle navi militari fu decodificato dalle truppe giapponesi erminata la guerra e ritornato in Nuovo Messico, George ereditò un pezzetto di terra da sua madre. Grazie ai suoi studi, alle sue conoscenze ed al servizio nella Marina, ricevette abbastanza aiuti per incominciare la sua attività di pastore e di contadino sulla sua terra. Con il tempo diventò capo della Charter House della comunità Navajo e svolgeva ruoli di alto livello concernenti decisioni relative alla comunità. Il tempo passava e George invecchiava. Non riusciva più ad occuparsi delle sue pecore e dei cavalli insieme alla fattoria. Lentamene diventò cieco a causa di un calcio di cavallo proprio sull’occhio mentre cercava di ferrarlo.

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In alto e in basso: Nella casa di George e Dorothy. New Mexico, Riserva Navajo, Usa2008. Elena Fava Emerson per PeaceReporter


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George Yazzie non sa da dove arrivano i Navajo. Non sa da quando la terra appartiene al suo popolo ma ricorda le tradizioni dei suoi antenati. “So da dove vengono i miei genitori... da questa terra”, afferma George con tono risoluto ed un pò di orgoglio. I suoi genitori gli parlarono della Lunga Marcia. Suo nonno materno Antonio scappò da Bosque Redondo, o Fort Sumner, dove gli Indiani d’America erano tenuti in cattività Il nonno raccontò come riuscirono a sopravvivere, mangiando tutto ciò che riuscivano a trovare. Si cibavano di animali morti e con le pelli facevano scarpe. Durante la lunga marcia quelli che scapparono trovarono rifugio sulla Montagna Sacra e si nascondevano nelle grotte. La Lunga Marcia fu ignorata per lungo tempo, anche a causa della guerra civile che era scoppiata in America. Oltre centomila indiani Navajo e Apache furono costretti a marciare verso una riserva in New Mexico, chiamata Bosque Redondo che li accolse per alcuni anni. La decisione fu presa per arginare il “problema degli Indiani”. Camminarono per più di quattrocentocinquanta miglia per giungere nel territorio fra deserto e prateria e vivere in capanne temporanee. Alcuni sopravissero alla polmonite, al morbillo ed altre malattie. “Molti Navajo ritornarono insieme”, continua George, “ecco perché è considerato luogo sacro. Oggi non è più sacro. Ci sono centrali elettriche sulla montagna”. Il paesaggio delle riserve indiane è profondamente cambiato sotto certi aspetti, ma i Navajo cercano di mantenere le caratteristiche delle loro abitazioni del passato. Enormi costruzioni metalliche conduttrici di energia elettrica attraversano le distese inaridite da un limite all’altro dei loro confini. Nonostante la presenza di potenti centrali idroelettriche e di giganti conduttori sorprende la mancanza di energia elettrica negli Hogan degli abitanti. Nella riserva Carson le abitazioni non dispongono nè di luce elettrica nè di gas metano. Per riscaldarsi o cucinare usano una bombola a gas. Per illuminare la casa, al calar del sole, usano le lampade ad olio e candele. Sembra di vivere in un tempo lontano, in un mondo che scandisce un ritmo diverso, dove il giorno è raccontato dal sole, non dalle lancette dell’orologio. George e Dorothy non possiedono nè un orologio nè una sveglia. Si alzano all’alba al canto del gallo e vanno a riposare quando il sole si ritira dall’orizzonte. onno Charlie gli raccontò tutto della montagna sacra, della cultura e delle tadizioni Navajo. Fu lui a crescere il piccolo George. A quel tempo viaggiavano tutti in calesse per andare in città o al Carson Trading Post. Il calesse o cavalcare erano le uniche possibilità di trasporto nella riserva indiana. Il viaggio per andare in città era lungo, così si fermavano a trovare parenti ed amici lungo il tragitto. I Navajo formano clan molto uniti. All’arrivo di amici cucinavano un agnello e pranzavano insieme. Tutti possedevano delle pecore, anche Dorothy. Dorothy è sua moglie. Insieme guadagnavano cospicue somme di denaro vendendo agnelli in autunno ai Trading Post. “Ora non valgono più niente” – sospira George. George ha viaggiato, almeno per alcuni anni e per lavoro. Arruolatosi nei Marines navigò intorno al mondo durante la seconda guerra modiale. Lei, Dorothy ha trascorso tutta la sua vita dedicandosi alla pastorizia, e andava a ballare le danze della sua comunità quando poteva. Ai suoi fratelli era stato premesso di frequentare la scuola, a lei non era stata data la stessa opportunità. Essendo la maggiore aveva il dovere di accudire il gregge. Durante la stagione arida, portava a pascolare le sue pecole sull’altopiano, dove il clima era più fresco. “Tanto tempo fa tutto era basato sulla pastorizia” - dice Dorothy – “avevamo trecento pecore, poi ne rimasero cinquanta, oggi soltanto alcune”. George e Dorothy con stanchezza, siedono sulla sedia e ascoltano la radio. La radio, alimentata da batterie, è l’unico collegamento con il mondo esterno. Vivono in un hogan, la tipica casa di stile Navajo, con l’entrata che si affaccia ad est, la posizione del sole nascente. Ha un significato religioso, esprime la benedizione dei primi raggi del sole. Nel centro della stanza la stufa a legna per riscaldarsi dal gelo dell’inverno dell’altopiano con lo sfiatatoio nel tetto ricorda la posizione tenuta nel passato dal fuoco acceso per i rituali religiosi nel mezzo dell’ Hogan. Le loro abitazini primitive erano più

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piccole, tonde, assomigliavano a igloo eschimesi, ma erano costruite in adobe, un terriccio misto di argilla, con al centro del soffitto un’apertura per permettere al fumo usato nelle loro cerimonie di uscire. Lo spazio interno è diviso in due aree, quella nord rappresenta l’energia maschile, dove gli uomini si radunavano per le loro cerimonie o i loro incontri di lavoro; la parte sud rappresenta quella femminile, è l’area dove è situata la cucina. L’abitazione è suddivisa in quattro parti, nord, sud est e ovest che simbolicamente raffigurano elementi sacri alla cultura Navajo e vengono usati nei loro cerimoniali. L’acqua è disponibile ma non proviene dal rubinetto. Per lavare i panni e per cucinare usano acqua conservata in botti, taniche e giare di plastica nella cucina e Dorothy stende il bucato all’aperto, al sole. Non ci sono i servizi. Di tanto in tanto nipoti e parenti arrivano per portare il loro aiuto, accompagnarli al Trading Post a fare la spesa, ma i Navajo sono un popolo molto orgoglioso ed autosufficiente. Gli anziani memori delle loro origini di guerrieri sopravvissuti a molte tragedie amano la vita solitaria e silenziosa in meditazione ed in contatto con la natura. Nella famiglia potevano contare sullo sciam ano che si esibiva in cerimonie religiose, di guarigione e benedizioni usando polline di mais. “Il polline del mais è sacro”, - spiega George, - “prima dell’inizio della cerimonia lo mettiamo in bocca e sulla testa, poi lo spargiamo intorno a noi, lo gettiamo nell’aria dicendo ‘Cammino nella bellezzà, è una benedizione. ” Ancora oggi vivono nella bellezza, nella loro bellezza, nella bellezza della loro terra. Nella vita in cui si riconoscono come popolo Navajo. In una vita piuttosto dura, ma loro. Una vita che continua ad esprimere nonostante le difficoltà e la solitudine, i principi etici della loro cultura e della loro religione nello sprito dei loro avi. urtroppo il grosso problema e la grossa ricchezza della terra dei Navajo giace sugli enormi depositi sotterranei di Carbone e Uranio, tanto che era stato deciso dal governo statunitense lo spostamento dei Navajo da alcune zone del loro territorio per permettere un ulteriore sfruttamento dei giacimenti di uranio. Oltre alla loro ricchezza culturale infatti, le terre Navajo possiedono varie risorse minerarie quali carbone, rame, pietre semipreziose e ghiaia; tra gli altri minerali si trovano oro, argento, manganese, zinco, mercurio, uranio, oltre a petrolio e gas naturale. La scoperta di giacimenti di petrolio e di altri minerali nella loro riserve, se da una parte ha contribuito a rilanciare la loro economia, rendendoli prosperi, dall’altra la richiesta di energia nucleare, considerata una delle fonti più sicure e più pulite di energia nel mondo, aveva ottenuto dalla presidenza Bush la proposta di nuove sovvenzioni per l'industria dell’ uranio Le terre indigene sono e sono state la fonte della maggior parte della produzione mondiale di uranio. Le nazioni degli Stati Uniti, insieme all’ Australia, al Canada producono circa il settanta per cento di risorse globali dell'uranio. La nazione dei Navajo da sola estrae il venticinue per cento di uranio degli Stati Uniti. L’apertura di nuove miniere con molta probabilità può comportare effetti sulla salute della popolazione e modifiche ambientali devastanti. La nazione dei Navajos, Dinè Nation, ha già un rapporto tragico con l'industria nucleare. In alcune zone del territorio Navajo, membri di famiglie Navajo sono deceduti per cancro o altre malattie derivate dall'estrazione mineraria dell’uranio. Questi sono solo alcuni dei motivi che hanno determinato la reazione delle popolazioni autoctone. Sono sempre più interessate alle proposte di energia alternativa piuttosto che al dilagare dell’estrazione di uranio per la produzione dell'energia nucleare. I gruppi Navajo preferiscono l’uso dell’energia prodotta dal vento e l’energia solare. La produzione di energia solare infatti ha potuto fornire energia a oltre sei milioni di case americane. Le decisoni di scelte energetiche naturali più consone al loro stile di vita è da ricercarsi nelle loro tradizioni e nella loro cultura che rispetta e difende la natura come espressione del Grande Spirito.

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In alto e in basso: la vita quotidiana di George e Dorothy. New Mexico, Riserva Navajo, Usa 2008. Elena Fava Emerson per PeaceReporter


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I cinque sensi del New Messico

Udito Il silenzio della riserva è la voce della natura che parla. Il vento sembra narrare i canti del passato. E’ un silenzio che riempie di pace. E’ il silenzio che obbliga ad ammirare ciò che appare davanti agli occhi. Si è soli e non ci si sente soli. Si è parte del tutto. Gli Indiani d’America sono un popolo silenzioso, per loro il silenzio e’ oro. Dalla radio di George e Dorothy si ascoltano i canti indiani che accompagnano le danze tradizionali. Un suono ritmico e gutturale sollecitato dal rullare dei tamburi alternando voci femminili a quelle più profonde e maschili. E’ un suono che spesso evoca il canto degli animali di cui i Navajos sono rispettosamente amici.

Vista L’immenso spazio e la sensazione di libertà delle riserve Navajo mi hanno fatto capire l’importanza del loro territorio per questo popolo. Il contatto visivo diretto con quella natura mette l’uomo in contatto emotivo con la terra . Il cielo, non solo per il suo colore turchese che richiama le gemme dei loro gioielli, ma per i cumuli e gli strati di nuvole di varie forme, colori e grandezze, è indimenticabile. Il rosso del

terriccio argilloso e delle pareti dei canyon al tramonto si esprime nel colore tradizionale dei loro abiti.di cui sono motlio fieri.

Gusto Il cibo Navajo e’ dedicato a chi piacciono i gusti forti ed i sapori robusti. La loro alimentazione mista alla cucina spagnola è basata sul mais, fagioli e “fry-bread”. Il pane Navajo fritto nello strutto che accompagna un piatto di carne di montone ha un sapore molto particolare. Si trova facilmente nei chioschi lungo le strade oppure durante le festivita’ Navajo. Un altro piatto che ha confluito i gusti spagnoli con quelli Navajo è il Chili relleno, preparato un peperone verde piccante riempito di riso e formaggio di pecora. I giovani Navajo preferiscono alimentarsi all’ American style: hamburgers, hot dogs, corn dogs , French fries e corn on the stick.

Olfatto Il calore del sole sulla terra aumenta l’intensità degli odori e dei profumi delle piante selvatiche, specialmente la salvia. La salvia si trova ovunque, quella salvia che i Navajo usano bruciare nelle loro cerimonie religiose.

L’odore all’interno dell’hogan invece è acre, un misto di legna bruciata, fumo e cibi. Spesso le erbe selvatiche sono usate come incensi. Oltre a benedire servono per profumare l’abitazione ed allontanare gli spiriti del male. Il profumo caldo della terra è simile a quello della nostra Sicilia, un misto di carrube, terra asciutta, arbusti secchi e piante selvatiche usate per cucinare.

Tatto Toccare con mano il morbido vello di un agnellino tenendolo in braccio provoca una sensazione di immensa dolcezza. I tappeti dai tipici colori indiani sono ruvidi e pesanti. La lavorazione a mano della tessitura al telaio e anche i nodi con i quali si intrecciano i fili dei bordi dei tappeti si riconoscono al tatto. La terra è argillosa, si frantuma fra i palmi delle mani, lasciando talvolta un colore rossastro. E’ asciutta e calda. I navojos sono famosi anche per l’arte di creare a mano gioielli in argento con pietre di turchese. Il luccichio e la fresca sensazione dell’argento lavorato a mano bene si accompagnano per ammirare le loro creazioni. Pezzi unici ed inimitabili da generazioni, che ancora oggi vantano un certo prestigio nel commercio. 9


Il reportage Paesi Baschi

Arrestata la pace Di Giovanni Giacopuzzi, Talkingpeace

In una notte di novembre, nei paesi e città del Paese basco, seicentocinquanta poliziotti e guardia civiles spagnoli, guidati dal giudice istruttore Grande Marlaska, con il seguito di televisioni e giornali, irrompono in novanta abitazioni e centri sociali. rentaquattro ragazze e ragazzi vengono arrestati. Ragazze e ragazzi. I giornali il giorno dopo titolano che Segi l’organizzazione giovanile della sinistra indipendentista, considerata “terrorista” dal Tribunale Supremo spagnolo nel 2007, è stata decapitata. Poi l’omertà, quella per cui la sorte di questi giovani non conta più nulla. La casistica sulle numerose denuncie di maltrattamenti e torture nei commissariati di polizia spagnoli, confermate da organismi internazionali, per i media spagnoli sono invenzioni. Il fatto che una organizzazione giovanile, la più grande del Paese basco, sia stata considerata terrorista pur non utilizzando la violenza come metodo politico per Governo magistratura e gran parte dei media spagnoli non è un attacco alla libertà di opinione, ma una misura di “sicurezza nazionale”. Non Eta ma il suo “entorno”, vale dire la realtà sociale della sinistra indipendentista basca è il vero pericolo I familiari ed amici viaggiano verso la capitale, dove sono stati trasferiti i giovani. Con la paura in corpo. Nessuna notizia dei loro familiari. La legge antiterrorismo permette l’isolamento assoluto nelle mani dei funzionari di polizia per cinque giorni. Madri e padri rimangono da mattina a sera davanti al tribunale speciale dell’Audiencia Nacional, nel cuore di Madrid, aspettando che i loro figli, dopo essere passati tra le mani di poliziotti e guardia civiles, confermino dinnanzi al giudice le deposizioni che sono stati costretti a firmare. Quando? Nulla è dato a sapere: Grande Marlaska proibisce dare informazioni sui giovani arrestati. Dopo quattro giorni arrivano i primi undici, che vengono spediti in carcere. Poi altri dodici. Per due di loro è libertà su cauzione. E infine gli altri undici. Trentadue giovani vengono spediti nelle carceri spagnole. Nell’euforia “per l’arresto di trentaquattro pericolosi ragazzi e ragazze indipendentisti baschi”, un veicolo in borghese della guardia civil, con a bordo uno degli arrestati, sfreccia per le vie della capitale spagnola dopo aver eseguito il meticoloso interrogatorio, travolgendo un donna di ottantaquattro anni che perderà la vita. Passano due giorni prima che vice sindaco della capitale porga le sue scuse ai figli della donna uccisa. Il genitori riescono, non tutti, a scambiare qualche parola con i loro figli prima di entrare in carcere. Percosse umiliazioni anche sessuali, soprattutto alle ragazze. Passato il tormento dei commissariati c’è la sofferenza

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del carcere. Ma è un’altra cosa. La notizia della manifestazione di Bilbao con più di ventimila persone, soprattutto giovani, che hanno sfilato per protestare contro gli arresti è un’iniezione di fiducia. Donostia, San Sebastian, incontriamo alcuni genitori. Dolore ma anche orgoglio per figli che “hanno l'unica colpa di essere indipendentisti di sinistra e di amare il loro popolo e chiunque sia emarginato ed oppresso”. Ana madre di Ehiar, vent'anni, ammette che “qualsiasi genitore dice di suo figlio che è il più bello il più alto ed il più buono. Però veramente non saprei cosa rimproverare a mio figlio. Di aver superato gli studi lui che aveva enormi difficoltà a studiare? Di aver intrapreso la strada di educatore sociale? Di lavorare in un centro per detenuti comuni, con immigrati? Di aiutare chiunque abbia bisogno?”. Izaskun madre di Maialen, ventidue anni: “Nel quartiere Egia dove noi viviamo c’è molto impegno civile, e lei sempre ha avuto una passione per i bambini. Faceva il terzo anno di educazione infantile e poi dava lezioni ad un bambino con difficoltà. È molto conosciuta nel quartiere e le dimostrazioni di affetto e sostegno che abbiamo ricevuto sono state innumerevoli. Maialen vive i problemi sociali con passione e forza. Lavora nelle attività sociali del quartiere e fa parte di Bilgune Femminista, una associazione di donne della sinistra indipendentista.” Tutte le madri concordano nelle dimostrazioni di affetto e sostegno ricevute. “Nonostante il Governo pensi il contrario, non siamo isolati. Facciamo parte di questo popolo e i nostri figli sono riconosciuti per quello che fanno tutti giorni non per la loro ideologia”. Amaia madre di Oier, ventitrè anni, dopo tredici giorni non ha potuto vedere ancora suo figlio. “Oier si è laureato in chimica. L’anno scorso ha studiato in un laboratorio di Bordeaux ottenendo la media del nove. Voleva fare un master. È un ragazzo che cerca di dare sempre il massimo. Mi diceva il suo professore che nel laboratorio era il primo che entrava e l’ultimo che usciva anche se non era necessario. Nel quartiere di Amara dove noi viviamo partecipava alla attività sociali. Ha collaborato anche con lo sbarco dei

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Manifestazione a favore dei detenuti politici Archivio PeaceReporter


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pirati (una festa di giovani che a San Sebastian, durante la festa della città, simulano uno sbarco di pirati sulla piaggia della Concha. Sono ormai migliaia i giovani che ogni anno si danno appuntamento, ndr). E molto sensibile. Quando un suo amico ha avuto qualche problema lui si preoccupa e sta male.” Rosa e Pedro sono i genitori di Garazi, ventidue anni. Un altro loro figlio, alcuni anni fa, ha dovuto affrontare il carcere per questioni politiche. “Garazi ha un carattere forte, dice Rosa, come il mio del resto. Lei è una ragazza piena di aspettative. Studia psicologia e lavora in una mensa. Come tutti i giovani ha dei sogni. Diceva sempre: cosa voglio dal mio futuro? Voglio essere psicologa, voglio avere un bambino, voglio state con il mio compagno. Sono andati a vivere insieme. Vogliamo essere indipendenti, diceva, ma con milletrecento euro come facciamo? Per questo diceva che bisogna lottare qui e fuori. Era andata in Venezuela a stare con la gente, è andata a Cuba. Lavora nel quartiere. Come gli altri è molto preparata, ha un carica emotiva forte, si impegna affinché altri possano contribuire al cambiamento. Per questo a volte si carica di problemi. Un'ansia di giustizia che non le impedisce di esser allegra. Belen è madre di Aitziber, ventiquattro anni. Racconta che sua figlia terminati gli studi sociosanitari è stata assunta in un laboratorio dentistico. “Lei mi diceva che i suoi colleghi non condividevano le sue idee. Eppure il giorno dopo l’arresto il responsabile mi ha telefonato e mi ha detto che gli terranno il posto di lavoro perché “noi sappiamo che è Aitzibel ed è una ragazza che merita. Non crediamo a quello che hanno scritto i giornali”. La cosa ha fatto un ‘immenso piacere a nostra figlia. Acuni ragazzi del quartiere che conoscono Aitzibel hanno detto a mio marito: com'è possibile che abbiano arrestato Aiztibel, che è una come noi?”

gli arresti di presunti dirigenti del movimento politico Batasuna, accusati di preparare il documento per una soluzione politica e democratica, adesso tocca ai giovani. “Il governo ha paura che dalla sinistra basca nascano proposte di soluzione politica al conflitto e sa che sul terreno politico è debole. Quindi vogliono spingere la sinistra basca alla clandestinità ed alla risposta violenta”. Sulla rabbia per le violenze subite dai loro figli prevale il pudore, il non voler presentarsi come vittime, quasi fossero “normali” i trattamenti aberranti delle forze di sicurezza spagnole. Rosa ricorda l’incontro con il vescovo uscente di San Sebastian, Setien. Disse al prelato: “Per quello che è successo ai nostri figli, le violenze, le umiliazioni, purtroppo non possiamo farci più nulla. Noi chiediamo a lei come a tutte le personalità che possano far sentire la loro voce che queste violenze non avvengano più. Io avevo paura quando mia figlia era in commissariato. Adesso che è in carcere ho solo dolore ma sono tranquilla”. Nonostante la discrezione un’aspetto delle violenze subite dai giovani nei commissariati polizia indigna maggiormente. La violenza sulle ragazze. “Se come donna mi picchiano mi degradano. Ma se toccano la mia sessualità mi annichiliscono”, ricorda una madre. Terminata l’intervista gli ultimi saluti. Domani molti di loro andranno trovare i loro figli e figlie. Inizia un nuovo periodo della vita. Come per altre centinaia di famiglie di Euskal Herria. Preparare le borse con i vestiti, il denaro per poter telefonare, l’elenco degli amici e parenti per le visite. Prima di lasciarci mi dicono: “Se qualcuno ti chiede perché li hanno arrestati, perché nel cuore dell’ Europa succede questo, di loro perché sono “gazte independentistak, giovani che credono in una Euskal Herria indipendente giusta solidale e basata sull’uguaglianza”.

ono gli sfoghi di genitori che vogliono a tutti costi difendere i loro figli? Se si percorrono le parole dell'ordinanza dio arresto vergate dal giudice per realizzare una retata di queste dimensioni, auto 148/2009, sembra proprio di no. L’obiettivo dichiarato dell’operazione è impedire la costruzione di una organizzazione che raggruppi la gioventù “del Paese basco e di altre comunità autonome con una forte caratterizzazione ideologica”. Le prove a carico? Riunioni in centri sociali, in consigli d’istituto o universitari; organizzare conferenze stampa, manifestazioni pubbliche; megaconcerti o marce in montagna, feste di quartiere. Tra il numeroso materiale sequestrato nelle abitazioni, magliette, adesivi, cd, accendini. Sia nelle motivazioni, che nel materiale sequestrato, del richiamo o incitamento ad azioni di sabotaggio o alla lotta armata, nulla. Solo nelle deduzioni palesemente forzate del giudice, che arriva a modificare il senso delle parole, appare l’uso della violenza con fini politici. “Credo che disgraziatamente – afferma Pedro il padre di Garazi- il governo vuole giovani che pensino al sabato sera e punto. Hanno paura di giovani che vogliano costruire una società diversa, perché in tal caso i loro affari hanno i giorni contati”. “Per i nostri figli – dice Ana – Euskal Herria deve essere la terra di chi ci vive. Hanno un’idea idealista. Mio figlio lavorava in centro di aiuto all’immigrante. La sua idea di nazione basca è chiara”. “Come potrebbe esser altrimenti –aggiunge Rosa- Io sono di Caceres (Estremadura) mio marito è nato in Galizia e mia figlia ha compreso che Euskal Herria è la nazione basca di chi ci vive. Le radici, le origini sono una questione personale. Che uno sia senegalese, arabo o di Madrid poco importa. Per questo per noi e per i nostri figli 'indipendenza' vuol dire costruire una società per chi ci vive, solidale e con gli altri popoli del mondo su un piano di uguaglianza. I nostri figli hanno un’idea della nazione e dello stato che è molto aperta”. Amaia ricorda quando tornò da una manifestazione contro l’ennesimo episodio di violenza sulle donne e disse a suo figlio che le sembrava grave che non ci fossero tante donne. “Oier mi rispose: mamma grave è che non ci siano tanti uomini non solo le donne. Perché per ogni violenza sulla donna, donne e uomini dobbiamo ribellarci. Perché questa è una tragedia che riguarda tutti”. La discussione si fa intensa e fra tutti emerge una constatazione: che questi arresti giungono proprio quando la sinistra indipendentista basca propone un piano di soluzione politica del conflitto. Che hanno arrestato i loro figli ma poteva toccare a migliaia di altri. Che oramai è una lotteria. Dopo

itorno verso il centro della città costeggiando la Concha, la baia di Donostia. Il cielo plumbeo che ogni tanto lascia cadere il txirimiri, la pioggia sottile del golfo Cantabrico, fa pensare. Che in un “paese moderno del primo mondo” c’è chi, giovane e meno giovane, non si rassegna a vivere la comodità, la società dei consumi, l’uniformità di pensiero. Che lancia la sfida per una nuova modernità, plurale ma tra uguali, che chiede di essere riconosciuto per quello che è. Per contribuire a rompere gerarchie e a ricostruire la storia. Quando si ascolta parlare i protagonisti e le protagoniste di questa vicenda europea che appare solo quando la voce della rabbia si tramuta in violenza, si apprendono gli aspetti di fondo del conflitto. Si smontano gli stereotipi, che mescolano le carte di un gioco che per adesso ha un solo giudice che però è anche giocatore. Si capisce che qui in Euskal Herria non è solo un conflitto per riconoscimento di un identità. C’è l’ambizione a costruire una società che non dimentica, che vuole fare propria la memoria storica senza nascondere “per ragioni di stato”. Il poeta ammoniva: “Alcuni baschi confondono l’essere liberi con l’essere grandi, alcuni baschi confondono l’essere liberi con possedere una storia. C’è addirittura chi considera essere liberi con l’avere una morale o un’ideologia. Però i nostri “potenti” non sono mai stati “popolo basco”. Solo se saremo un popolo libero saremo come un qualsiasi altro popolo, perché mentre non lo siamo alcuni da fuori, altri da dentro, ci aduleranno adducendo che Simon Bolivar era basco, che fu un basco il primo che circumnavigò il mondo, addirittura che Che Guevara aveva ancestro basco. Ci aduleranno affinché noi crediamo che la nostra funzione nel mondo sia essere differenti, essere superiori, essere gloriosi o essere storia passata. Niente di tutto questo ci interessa.” In ogni conflitto il silenzio o l’omertà lasciano ferite che si trascinano nel tempo. Qui in questa terra la memoria emerge in modo ambivalente. Sui mass media quella funzionale al potere. Nelle strade, sui muri, nel passa parola, nelle manifestazioni, nei bar, quella “dei senza voce”. Arriverà un momento dove tutto questo sarà memoria collettiva. Non dovrà più essere necessario avere una scorta e non vi sarà più la paura di essere prelevati a forza, nel pieno della notte. Per adesso, però, non è così.

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Sopra: manifestazione dei giovani di Segi. Sotto: manifestazione a favore dei prigionieri politici. Archivio PeaceReporter


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Il reportage Israele

Gaza sola andata Di Francesca Borri “Perché sono sicuro, io finisco in tribunale. Anche tra cinquant'anni: ma io finisco come Eichmann”. Un soldato israeliano racconta l'Operazione Piombo Fuso. a perché non è questione di ordini. Nessuno mi ha mai detto: spara a qualsiasi cosa si muove, se è questo che intendi: spara indipendentemente da tutto. Ma neppure mi è stato detto di sparare solo davanti a una minaccia reale, nel senso - una minaccia che hai verificato, un terrorista che esiste davvero. E alla fine, è tutto qui, nel senso: questo equivoco, no?, questo Goldstone, e tutta la storia, nel senso il diritto di guerra. Non spari se sei minacciato, ma se ti senti minacciato. Cioè, non il pericolo reale: il pericolo percepito. Spari se hai paura. Tutto qui. E solo - solo che hai costantemente paura. Ti senti costantemente minacciato. PerchÉ sei israeliano, e perché un israeliano viene cresciuto nell'idea della minaccia, e il pericolo e la paura. Perché è una vita intera che ti insegnano a sentirti minacciato. E per cui spari. Entri in una casa, e non sai chi trovi, dentro: e d'altra parte - come puoi saperlo?, e per cui non è che bussi gentile e aspetti il proiettile, fai esplodere tutto e entri sparando in ogni direzione. Chi trovi, trovi. D'altra parte - perché mai sono lì? Non si sono accorti della guerra?, perché sono ancora lì? Affari loro. L'unica mia regola è la visuale, la massima visuale. Giri a destra, a un incrocio, e demolisci la casa a sinistra, la casa che ti rimane dietro. Che storia è, adesso, che sarebbe un crimine?, questo Goldstone - che avrei bisogno di una motivazione? Dietro una finestra può nascondersi chiunque. In guerra ogni attacco è preventivo. Ed è per questo che l'addestramento vero, alla fine, è a scuola, non in caserma. Perché è a scuola che impari chi sono gli arabi, nel senso - come funziona, qui: la loro vita o la mia. E per cui non è questione di ordini, è questione questione di atmosfera. La sera prima il comandante ci ha riunito. Sanno perfettamente quando arriviamo, ha detto. E da dove arriviamo. L'unica cosa che abbiamo è la potenza di fuoco. L'unica cosa. Un grilletto, e un dito. Per cui, in caso di dubbio, sparate: e non avrete più alcun dubbio. E poi, ha detto, fortunatamente gli ospedali erano già al limite: e senza più medicine, gasolio, niente, un cerotto: per cui la storia era più rapida, nel senso: morivano tutti: anche se non possiamo colpire direttamente le ambulanze, ha detto: siamo

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LA SCHEDA 1

Piombo fuso Il 27 dicembre 2008, l'esercito israeliano ha lanciato l'operazione 'Piombo Fuso' nella Striscia di Gaza. Durante i 22 giorni di assedio sono stati uccisi 1.400 palestinesi. Tra questi, 300 bambini e 115 donne. Nell'incursione sono morti 13 soldati israeliani. Quattromila case sono state distrutte o danneggiate. Cinquantamila palestinesi sono rimasti senza un tetto e tra il 35 e il 60 percento delle attivit‡ economiche di Gaza ha subito danni irreversibili. I due principali settori dell'economia, pesca e agricoltura, sono stati colpiti duramente dagli effetti multipli dei confini chiusi, del conflitto e dell'impossibilita' di accesso a mare e terra. Pesanti restrizioni al movimento continuano a impedire ai palestinesi di lanciare le loro reti in acque pescose e terre arabili. A dispetto della fine della guerra, contadini e pescatori sono sottoposti a continui attacchi da parte dei militari israeliani. 14

una democrazia, purtroppo: non possiamo combattere come vorremmo. In questo senso - l'atmosfera: perché quello che vorremmo, qui, è chiaro a tutti. Cioè, non è esplicito. Non è un ordine, nel senso - tecnicamente. Ma è chiaro comunque. Per cui, nel dubbio - spari. Tutti che vogliono capire perché sono partito. Ma io non ho scelto di andare in guerra, in guerra ci sono nato. La guerra è la mia vita. Non ho idea onestamente, di quale fosse l'obiettivo preciso: ma non è importante - voglio dire: l'obiettivo: conoscerlo, condividerlo. Perché la guerra non è qualcosa di discontinuo rispetto alla mia vita: non è che esiste la pace, qui, e poi a un certo punto la guerra - e ti chiedi allora se ha senso partire, e quale sia l'obiettivo. E così, uguale: non è che ricevi un ordine preciso, nessuna discontinuità. L'obiettivo, l'ordine lo conosci da sempre. Perché sei ebreo, e vogliono assassinarti". on è questione di singoli soldati, qui. L'errore, il danno collaterale. Lo squilibrato di Abu Ghraib con il prigioniero al guinzaglio, no - è questione di un sistema intero, qui, che è in cortocircuito. E questo sistema non è l'esercito israeliano: il nostro esercito rimane tra i migliori al mondo. Il problema è questa cosa - questa contraddizione: il diritto di guerra. Cioè: prima ancora, il problema è la parola stessa: guerra. Perché suggerisce l'idea di una storia come - come lo sbarco in Normandia, no?, avanzate ritirate, la battaglia della Somme: l'inverno in trincea - suggerisce una specie di parità tra i contendenti. Insomma, un esercito contro l'altro, questi racconti epici, Clausewitz, Napoleone, e tutte quelle iliadi lì, le trombe e i tamburi e le medaglie al valore. Sono morti quasi... millequattrocentoquarantaquattro arabi, rispetto a tredici israeliani: di cui, tra l'altro, quattro per fuoco amico quindi diciamo millequattrocentoeccetera contro nove. Che guerra è?, con una sproporzione così, che eroismo è? E quelli, ti garantisco, erano in larga parte dei disperati con gli stracci ai piedi. Che guerra è? Sono i soldati ormai, non i civili, le vittime accidentali. Il danno collaterale. Non è guerra, è stupro: però la parola è utile, perché è già un'arma, e la più potente - perché in guerra, no?, tutto è permesso. E questa cosa poi, che chiamiamo diritto di guerra, ogni volta, questa storia, i crimini le inchieste - intanto, è completamente inadeguato. Peché questa guerra è una guerra di tipo nuovo: e da entrambe le parti. Nel senso - da entrambe le parti: è la definizione stessa di guerrigliero, uno che è sostenuto dalla popolazione locale - come in Vietnam, no?, l'acqua dei pesci. Nessuno è innocente. Ma distinguere tra civili e combattenti è impossibile anche con Israele. Arriva questo Goldstone, adesso, con la squadra e il compasso e le sue belle geometrie, e mi viene a accusare che sono l'unico assassino, qui. Ma muoiono di embargo, quelli, di fame, di malattie minime che diventano incurabili perché hai quattro anni e non hai mai mangiato un pezzo di carne. E non è solo l'embargo: è l'occupazione. La maggior parte di quelle

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Sopra: Moschea distrutta nell’operazione Piombo Fuso. Sotto: Nella scuola dell’Onu colpita dal fosforo bianco. 2009 Striscia di Gaza. Luca Galassi per PeaceReporter


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regole, lì, Ginevra, viene violata con mezzi civili, non militari. Con mezzi legali, con la legge. Un pozzo è Oslo, che ti proibisce di scavarlo, non la guerra - non io: non è per le mie granate, a Hebron, che ti schianti di colera. Chi spara, tra gli israeliani, è solo più visibile: solo in divisa: ma non è l'unico soldato. L'occupazione è la guerra in borghese. Nessuno è innocente. E comunque non è solo questo, voglio dire - questa storia del diritto di guerra. Non sono semplicemente regole inadeguate, concepite per altri tempi, altri mondi. Sono regole insensate, in assoluto. Si chiede di combattere eticamente. Pensare prima di sparare. Ma qui non esistono regole. L'unica cosa che puoi fare, prima di sparare, è essere sparato". l mio compito è stato essenzialmente investire polli. Nel senso polli. Migliaia di polli. Ore e ore, migliaia, migliaia di polli. Con una ruspa. Il più grande allevamento di Gaza, e il solo ancora in funzione. Come il mulino, quando abbiamo bombardato il mulino, all'inizio perché era ancora in funzione. E poi, immediatamente, le riserve di acqua insomma, queste cose cosÏ. Perché Goldstone non ha capito che è pi˘ umanitario affamare che incenerire - consentire al nemico di arrendersi vivo invece che morto. Non dovevamo conquistare Gaza, dovevamo sradicare il terrorismo. E per sradicare il terrorismo, l'unica è sradicare l'infrastruttura di supporto. Come in Libano. Colpire tutto. Letteralmente: tutto quello che ti fa sopravvivere, e tirare razzi impunito. O lasciare tirare razzi, che poi è uguale: si chiama complicità, in diritto, non si chiama innocenza. La mia guerra è stata essenzialmente questo: demolire. Non mi occupo di granate, storie del genere. Non sono un assassino. Guido una ruspa. Poi è anche divertente, sembra un videogioco, insegui tutti quei polli... Tipo PacMan, è divertente. Migliaia di polli. Non sono un terrorista, io, non esplodo alla posta. Semplicemente, davanti a una cosa come Hamas tutto è un obiettivo legittimo. Anche un asilo: perché in fondo è dall'asilo che insegnano ai bambini a diventare terroristi, Corano invece che tabelline, ma li hai visti?, con la bandiera, lì che cantano canzoni sulla resistenza, e chiedi da dove arrivano e sono alti venti centimetri e ti rispondono: da Lydda - da Lydda?, ma spiegategli l'alfabeto, a questo, piuttosto: sono sessant'anni che quella è casa mia. Però è chiaro: siamo una democrazia, e non possiamo colpire un asilo. Però, per intenderci - nessuna città è una città, qui, nessun quartiere è un quartiere: solo basi militari. E allora l'unica è creare una situazione cosÏ disperata, cosÏ intollerabile che scelgano di andare via, di trasferirsi altrove: oppure, come preferiscono - che la finiscano con questa storia di Hamas. Nel senso: vogliono sostenere Hamas? Che imparino a cucinare erbe e fango, però, perché non rimarr‡ neppure una capra. Perché l'obiettivo, realisticamente, non è combattere contro i terroristi intesi fisicamente, individualmente uno a uno: avremo sempre, intorno, milioni di arabi. L'obiettivo è la popolazione civile: convincerla a non sostenere Hamas. Con tutti i mezzi possibili: politici, economici, militari. Sono sessant'anni, qui, e altri avrebbero già usato il nucleare. Ma ditelo a Goldstone - noi siamo una democrazia". "Solo che alla fine, a un certo punto - non so, solo che ti accorgi che la guerra santa, qui, in realtà è la tua. A cominciare da questo nome, no?, questo Piombo Fuso: perché arriva dal Talmud, è una delle tecniche di esecuzione della condanna a morte. Strangolare, mentre si versa in gola appunto, piombo fuso. E a pensarci, è esattamente la strategia di Gaza, no?, voglio dire, l'embargo, e poi colpire con questa violenza... Con questa violenza sproporzionata, sì: sproporzionata, in un certo senso. Cioè, più che altro... Proporzionata, ma alla minaccia e non alla realtà. Voglio dire: tu non riconosci la mia esistenza, e io non riconosco la tua: è una cosa proporzionata. Però - cioè, non sono del tutto sicuro. Voglio dire: adesso. A ripensarci. Perché poi io - io fondamentalmente non ho visto nessuno. Nel senso: questi terroristi. A volte sentivamo un colpo, e rispondevamo con l'inferno, però - però non posso veramente dire di averli visti. Non dico che non c'erano, c'erano, ovvio - altrimenti perché mi hanno spedito lì?, però però, voglio dire: si capisce dai rabbini. Perché l'esercito ha i suoi rabbini, no?, l'assistenza spirituale. Ma alla fine è una specie di demonizzazione del nemico, come l'equazione tra arabi e amalechiti. Una specie di scontro tra il bene e il male. E quindi ti è chiaro che non sarai punito, mai, qualsiasi cosa farai, perché Dio è con te. Non so, è - è a ripensarci, dopo, questa

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specie di disumanizzazione. Come l'impossibilità di fuggire. Perché in genere le guerre sono sempre le frontiere, no?, e tutti i profughi, in televisione, in fila nel fango. E invece lì erano tutti intrappolati dentro. E poi questa storia dei soccorsi. Nel senso - questa storia di ostacolarli. Così, per nessuna ragione precisa. Nessun ordine preciso, però - cioè, ogni volta trovavi un motivo per fermare, rinviare. Sparare. Un giorno ho demolito una casa sulla testa di morti e feriti, con questi pezzi dalle macerie, un tubo una sedia: una mano. Dopo che avevamo impedito all'ambulanza di raggiungerli, e anche sparato a quelli che tentavano di andare via. Perché arrivavano i volantini, no?, ad avvisarli: dicevamo di andare via: quindi era ovvio, se erano ancora lì erano dei terroristi. Però: cioè, ci ho pensato dopo, nel senso - quando poi erano lì a terra, in genere, mentre tornavo indietro lungo la stessa strada: a Gaza? E andare dove?". adesso - e ma adesso non so. Ma perché la verità è che questo stato che era qui per proteggermi, e essere la salvezza per me ebreo, questo stato la verità è che può proteggermi dagli arabi, cancellarli tutti in tre giorni - ma Israele non può proteggermi da me stesso. Perché poi un giorno, anche tra cinquant'anni sono sicuro, arriva uno come Goldstone, e sarò in vacanza a Parigi e mi arresteranno per i polli che ho ucciso a Gaza, e finirò in tribunale, perché dovevo pensare prima di sparare, e come Eichmann, anche tra cinquant'anni all'improvviso, e finirò in tribunale. Perché la verità è che da Gaza non esiste ritorno. Dopo Gaza, solo Gaza, sempre: solo l'esilio. Perché quell'arabo, quei 'territori' senza nome, a scuola, quello spazio bianco sulle mappe, la prateria selvaggia - io non lo sapevo, ma quell'arabo ero io. Il mio nemico qui - qui dentro. Ma perché è come se all'improvviso, disconnetti te stesso. Ti avvicini a una casa, spari al proprietario prima che spari a te, e anche se ha le mani alzate, perché come puoi saperlo?, quello esplode, che importa che ha le mani alzate?, e poi gli passi accanto, allora, a terra che ancora rantola, quello che era rimasto lì di guardia alle sue cose, a due tavoli di compensato e un divano sdrucito, e dici è morto, andiamo, e entri e ti sistemi per la notte, alla meglio, e cucini qualcosa e allora sì, cominciano le discussioni sulla moralità dell'esercito, un’ora per decidere se è giusto usare l'olio, finire i loro biscotti. Ho qualcosa, dentro, che non conosco. Quest'arabo con cui mi hanno cresciuto, quest'arabo che mi sterminerà, in realtà è dentro di me. No, da Gaza non esiste ritorno. E non solo perché sono sicuro, io finisco in tribunale, anche tra cinquant'anni, ma io finisco come Eichmann. Ma perché la verità è che questo stato che era qui per proteggermi - io non ho paura degli arabi, due pietre contro il nostro nucleare: ma chi mi protegge da Israele? Non scrivere il mio nome. Non scrivere niente che mi possa identificare. Chiamami Ismaele".

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LA SCHEDA 2

Economia in ginocchio Durante l'assedio, numerosi contadini (un quarto della popolazione circa) hanno visto dimezzato il proprio raccolto. Il prezzo al quale vendono i loro prodotti nella Striscia e' un quinto di quello che praticavano quando le esportazioni erano possibili su larga scala in Europa o Israele. Durante Piombo Fuso migliaia di limoni, ulivi e palme sono stati sradicati. Sistemi di irrigazione, pozzi e serre sono stati distrutti. Israele, inoltre, non consente l'ingresso nella Striscia di fertilizzanti e sementi. Una zona di interposizione si estende per centinaia di metri dal confine con Israele verso l'interno della Striscia, limitando l'accesso alle terre coltivabili. Nel 2000 a Gaza cíerano diecimila pescatori. Oggi, i 3.500 rimasti devono pescare entro le tre miglia dalla costa. La guerra ha infatti imposto questo limite, dopo che, dagli accordi di Oslo (2005) líarea di pesca si era progressivamente ridotta dalle 20 miglia originarie. I pescherecci devono sfidare tale limite per poter portare a casa il necessario per la sopravvivenza. Le motovedette israeliane li ricacciano costantemente indietro, con idranti o, piuí spesso, cannonate. A decine rimangono uccisi.

Sopra: Un poliziotto di Hamas con rosario e kalashnikov. Sotto: Il campo profughi sulle macerie di Khan Younis.. 2009 Striscia di Gaza. Luca Galassi per PeaceReporter


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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

Le buone nuove Sudan: accordo sul referendum I due principali partiti del Nord e del Sud del Sudan hanno raggiunto l'accordo sul referendum, promesso quattro anni fa. La decisione pone fine al problema che aveva minacciato di minare l'accordo di pace raggiunto nel 2005 dopo anni di guerra civile e milioni di morti. Il Movimento di liberazione della gente del Sud (SLPM), principale partito della zona, rimarrà nella coalizione di governo col presidente Omar Hasan al-Bashir del Congresso nazionale (NCP). Nell'ultimo periodo le relazioni tra i due schieramenti erano sempre state molto tese. Settimana scorsa inoltre a Khartoum erano stati arrestati due funzionari del SLPM e alcuni loro sostenitori durante le proteste. La firma di questo accordo sul referendum, secondo gli analisti, limita il rischio di un ritorno alle armi.

Cina: aperto primo bar gay Il primo bar per gay della Cina approvato dallo Stato ha aperto i battenti a Dali, una località turistica nella provincia meridionale dello Yunnan. All' inaugurazione hanno partecipato una settantina di persone, in maggioranza gay. "Il loro arrivo - ha dichiarato il proprietario del bar, Zhang Jianbo - mi è stato grande aiuto". Zhang, che ha 36 anni, è anche il direttore del Dipartimento Dermatologico dell'Ospedale numero 2 di Dali e il fondatore della locale Associazione per la Prevenzione dell' Hiv/Aids. Il locale è il primo in Cina ad essere aperto con l'esplicito consenso delle autorità di governo.

Sri Lanka: giovani tamil e singalesi insieme La riconciliazione tra singalesi e tamil come punto di partenza per costruire un futuro di pace nello Sri Lanka. Questa è l'idea che ha reso possibile il secondo incontro tra i giovani dei due popoli dell'isola con il patrocinio di Y-Mesoc, l'associazione giovanile del National fisheries solidarity movement (Nafso). "Non avevamo mai avuto un'esperienza simile" - dice S. Iruthayarajcroos, tamil di 27 anni - "Siamo abituati a guardare con sospetto e frustrazione la popolazione singalese, ma questo tipo di iniziative ci fa capire in modo chiaro che non ci sono ostacoli tra la popolazione" 18

India, contro i contadini

Yemen nella violenza

Guerra aperta contro i maoisti

Sempre più tragica la situazione

l gigante indiano ha dichiarato guerra ai suoi piedi d'argilla: le popolazioni tribali contadine che sopravvivono nelle foreste nel cuore del subcontinente, ai margini di uno sviluppo economico selvaggio dal quale non solo sono totalmente escluse, ma al cui altare sono chiamati a sacrificare le loro terre e la loro stessa sopravvivenza. Per stroncare la resistenza di queste popolazioni all’esproprio delle loro terre ancestrali – destinate allo sfruttamento minerario e industriale da parte delle multinazionali di mezzo mondo – il governo di Nuova Delhi ha optato per la soluzione militare, lanciando l’operazione Green Hunt (Caccia Verde): 75mila militari mobilitati chiamati a ‘riconquistare’ le aree tribali degli stati di Chhattisgarh, Jharkhand, Orissa, Bihar, Andhra Pradesh e Maharashtra. Una guerra in piena regola combattuta dallo Stato contro chi non è funzionale allo sviluppo del turbocapitalismo indiano e anzi lo ostacola. Una guerra di conquista e sfruttamento mascherata da operazione antiterrorismo. Non contro il terrorismo islamico, bensì contro quello che il primo ministro indiano Manmohan Singh ha definito “la più grave minaccia alla sicurezza interna mai affrontata dal nostro paese”: la guerriglia maoista. Gli eredi dei ribelli contadini ‘naxaliti’ degli anni ’60, che vent’anni dopo iniziarono la loro guerriglia rivoluzionaria sotto le variegate insegne del comunismo indiano, dal 2004 combattono sotto al guida unificata del clandestino Partito Comunista Indiano (Maoista). Questo ha comportato una maggiore organizzazione e una crescita del movimento guerrigliero, che oggi controlla 220 distretti (su seicento) e può contare su 10mila combattenti in pianta stabile, 40mila quadri e soprattutto sul sempre più diffuso sostegno di milioni di diseredati che vedono nei ‘combattenti rossi’ l’unico strumento di difesa contro un governo che, pur di scacciarli delle loro terre, da anni stupra, tortura, uccide e bruciare villaggi. E che ora gli dichiara guerra.

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Enrico Piovesana

a situazione in Yemen peggiora sempre di più. Non ci sono soste nei massacri contrapposti tra esercito yemenita, appoggiato dai militari sauditi, e ribelli sciiti dello Yemen del nord, che secondo il governo di Sana'a sono appoggiati dall'Iran. Almeno 54 le vittime civili causate da un bombardamento saudita contro la città di alNadheer, nel distretto di Razeh, e 49 le vittime di un attacco dell'esercito yemenita che ha devastato il villaggio di Al-Maajala, nella provincia meridionale di Abyan. I ribelli sciiti, inoltre, hanno accusato gli Usa di aver appoggiato i bombardamenti yemeniti con mezzi aerei. La situazione umanitaria è al limite: sono centinaia di migliaia i profughi. La turbolenza, però, non riguarda solo lo Yemen. Il grande confronto, che a detta di molti si gioca in terra yemenita, è quello tra Arabia Saudita e Iran, per una supremazia regionale intrisa di elementi economici, politici e religiosi. Secondo la teoria dell'internazionalismo sciita, cara a molti detrattori di Teheran, il governo iraniano con l'avvento di Ahmadinejad alla presidenza nel 2004, ha caratterizzato la sua politica estera in modo molto aggressivo, fomentando le rivendicazioni delle minoranze sciite in tutti i paesi dovo sono presenti. L'idea sarebbe quella di costituire un asse sciita che va dalla Siria, attraverso gli Hezbollah in Libano, passando per il nuovo Iraq dove gli sciiti sono la maggioranza fino all'Iran. Progetto al quale l'Arabia Saudita contrappone tutto il suo peso politico ed economico. Sulla pelle degli yemeniti. Il fronte, molto teorico, di Ahmadinejad ha perso però un pezzo importante. La transizione della Siria nel campo 'occidentale', gestita dalla francia, sembra ormai completata. Il presidente siriano Assad ha incontrato e stretto la mano al premier libanese Hariri. Secondo molti, nel 2005, lo stesso Assad ha ordinato l'omicidio del padre di Hariri a Beirut. Cambiano i tempi, ma la realpolitick resta sempre la stessa. Christian Elia


Portfolio

Nuovi pastori Testo di Sonia Borsato. Fotografie di Alessandro Toscano.

a dove/per doveLe regioni si raccontano attraverso i profumi, i colori, i suoni. E i volti delle persone che le abitano. I visi e i paesaggi si riflettono reciprocamente nella narrazione di una appartenenza; condividono mistero e rivelazione. Per anni, la Sardegna è stata essenzialmente i volti dei pastori e per molti l’Isola è ancora questo: una terra arsa dal sole e sonagli di greggi al pascolo. Quello del pastore è un simbolo complesso, regionale e universale allo stesso tempo: un leader che guida un gregge o traghetta uomini da una terra ad un’altra, mantenendo l’orientamento nelle tempeste, metereologiche o socioeconomiche che siano. Alessandro Toscano ha rivolto l’obiettivo verso comunità agropastorali per indagare una regione

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che cambia: la Sardegna che lascia emigrare i propri figli verso Università o lavori meno tradizionali accoglie nuovi pastori che provengono dall’Est Europeo, dall’Africa, dall’Asia; uomini che traghettano suggestioni di posti lontani. Le immagini raccontano anche l’avvento delle macchine a rendere “veloce e pulito” un mestiere che era sinonimo di mani segnate dal contatto con la terra e gli animali ma anche di tempi lunghi, poetici. Lo sguardo oscilla dai volti ai macchinari indagando un mondo forse meno bucolico ma non meno autentico. La bellezza di un luogo è sulle facce dei suoi abitanti – come asseriva Vittorini - ma non siamo più cittadini di un posto soltanto ma del mondo; un mondo rivelato dai volti dei nuovi vicini di casa.





Notizie che di solito non fanno notizia

Le buone nuove Venezuela nel mirino

Sudan, morte ai minorenni

India: ritiro di truppe dal Kashmir

Chavez si prepara Una firma da non alla guerra mettere l presidente del Venezuela Hugo Chavez ha dato ordine all'esercito del suo Paese di abbattere tutti i droni (velivoli senza pilota teleguidati da terra) che dovessero essere scoperti a sorvolare i cieli venezuelani. La notizia l'ha data lo stesso Chavez durante “Alò Presidente” il consueto appuntamento televisivo domenicale. I droni, aerei in grado di trasportare bombe e di colpire obiettivi strategicamente sensibili, sarebbero stati visti da diversi testimoni oculari soprattutto nella zona di Fuente Mara, nello stato di Zulia, al confine con la Colombia. E proprio contro la Colombia (e Stati Uniti) punta il dito il presidente Chavez. “Non staremo con le braccia incrociate e se dovessero attaccarci sappiano che noi siamo preparati e se ne potrebbero pentire” ha detto il presidente Chavez. Inoltre, il leader bolivariano ha chiesto alla comunità internazionale di vigilare sui fatti e mantenere uno stato d'allerta sulle continue minacce di cui è vittima il Venezuela. Non solo. Chavez ha criticato il comportamento dell'Olanda rea a suo avviso di dare aiuto agli stati Uniti concedendo l'uso all'esercito e ai suoi servizi segreti delle isole caraibiche di Curacao, Bonaire e Aruba, dove negli ultimi tempi ci sarebbero stati diversi movimenti di truppe. “Noi venezuelani non abbiamo mai avuto nessuna intenzione bellicosa contro un paese straniero. La nostra lotta è qui., La lotta contro la delinquenza e per la giustizia sociale” ha confermato Chavez che prima di chiudere il programma ha voluto smentire la presenza di guerriglieri colombiani delle Farc (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) e dell'Eln (Esercito di Liberazione Nazionale) in territorio venezuelano. “Tutto questo – ha sottolineato l'inquilino di palazzo Miraflores – fa parte di una campagna mediatica orchestrata da Washington e Bogotà per poter poi giustificare un ipotetico attacco contro il territorio venezuelano”. Da tempo il Venezuela denuncia una grande movimentazione di truppe colombiane lungo la linea di confine fra i due stati.

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Alessandro Grandi

ei bambini fra gli 11 e i 17 anni, tutti sudanesi di origine Fur, sono stati condannati a morte per aver preso parte nel 2008 a un violento attacco a Omdurman, città sudanese sul Nilo. I ragazzini erano stati arrestati in seguito a un'operazione militare delle milizie governative che aveva portato nelle carceri del Paese africano almeno 150 ribelli appartenenti al Jem (Movimento per la Giustizia e l'Uguaglianza). Ora i ragazzini, alcuni di loro poco più che bambini, rischiano di essere giustiziati, nonostante in un primo momento il tribunale avesse deciso di risparmiare loro la pena capitale. Il governo sudanese inoltre, si è affrettato a far sapere che nessuna esecuzione verrà eseguita conto i bambini anche grazie alla macchina della mobilitazione internazionale che iniziato a far girare i motori subito dopo aver appreso la notizia. Il Jem ha negato ogni coinvolgimento nella vicenda e ha garantito di non aver mai arruolato giovani minorenni da inviare a combattere. Altro problema da risolvere: dei sei giovani arrestati quattro sarebbero nel frattempo diventati maggiorenni e quindi anche per la legge sudanese potrebbero essere giustiziati. Ora bisogna solo attendere quale sarà la sorte dei ragazzi. Secondo la legge sudanese per diventare esecutiva la pena di morte decisa dal tribunale deve essere confermata da un tribunale speciale e in seguito contro firmata dal presidente del Paese. In questo caso si tratta di Omar al Bashir, su cui pende un mandato di cattura internazionale a causa delle violenze che sarebbero state commesse dai suoi fedelissimi in Darfur. A livello internazionale è già partita la gara di solidarietà che ha lo scopo di fermare le sei esecuzioni. In Sudan secondo le stime rilasciate dall'Unicef sarebbero fra i duemila e i seimila i giovanissimi allontanati con la forza dalle famiglie e inviati sui campi di combattimento dali ribelli. Una tragedia che per troppi anni ha interessato molti altri paesi africani coinvolgendo decine di migliaia di minorenni.

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A. G.

L'india ha richiamato 30mila soldati dalla regione del Kashmir, al confine con il Pakistan. Si tratta della più consistente diminuzione di unità militari indiane in Kashmir da dieci anni a questa parte. Nel 1999 la regione è stata teatro di un conflitto di sei settimane tra India e Pakistan, con la perdita di mille soldati per parte. Secondo gli osservatori sarebbero circa 120mila le unità indiane dispiegate sulla 'Linea di controllo', il confine de facto tra i due Paesi. Era da giugno il governo di New Delhi prometteva una diminuzione della presenza militare nella regione, allo scopo di ridurre la tensione con i ribelli islamici.

Israele: un libro scritto “a due popoli” Si chiama 'Dove il cielo e la terra s'incontrano. La Sacra Spianata di Gerusalemme' il libro che prova ad unire ebrei e musulmani. Scritto congiuntamente da studiosi israeliani e palestinesi, il testo tratta la storia del luogo sacro ad entrambi i culti proponendo una mediazione culturale tra la posizione delle due religioni.

Libano: prosegue la riconciliazione Il leader del partito socialista progressista, Walid Jumblat, e quello della Libera corrente patriottica, Michela Aoun, si vedranno oggi nel palazzo presidenziale di Baabda, a sud della capitale Beirut.È il primo confronto diretto tra i leader dall'aprile 2005, quando i due si incontrarono a Parigi. Negli anni successivi nessun colloquio bilaterale, ma solo brevi incontri a margine dell'attività parlamentare. Il confronto tra Jumblat, esponente di una formazione di governo, e Walid, il cui partito guida l'opposizione, si inserisce nel percorso di riconciliazione voluto dal presidente Michel Suleiman dopo la formazione del governo di unità nazionale del premier Saad Hariri.

Serbia: un museo per la cultura rom Aperto a Belgrado il Museo della cultura rom, prima istituzione di questo genere ad essere avviata nel sud-est europeo e una delle poche nel suo genere in tutto il mondo. Il museo è incentrato sulla letteratura. Una prospettiva che permette di indagare dei settori di questa tradizione che sono praticamente sconosciuti ai profani quali la letteratura, la poesia, la linguistica. Una voce alla cultura rom che si è sviluppata nel territorio della odierna Serbia, ma il tema può avere interesse anche al di fuori dei confini di questo Paese. Molte sono, infatti, le comunità che da queste aree sono fuggite in altri paesi europei durante gli anni Novanta 19


Scrittori Transnistria

Educazione siberiana Di Benedetta Guerriero

Nicolai Lilin è nato in Transnistria nel 1980 e dal 2003 vive a Cuneo, dove lavora come tatuatore. In Italia ha scritto il suo primo libro, Educazione siberiana, in cui racconta la storia del suo popolo, gli Urca siberiani, costretti dai sovietici ad abbandonare la propria terra per trasferirsi in Transnitria. Sei nato in Transnistria, un territorio impervio, e hai combattuto in Cecenia. Entrambi questi territori sono stati soggetti alla violenza del regime russo. Quali sono, secondo te, le principali analogie tra questi due territori? Esistono molte affinità tra questi due territori. Entrambi hanno subito la dominazione dell'Unione Sovietica, sono importanti luoghi strategici da un punto di vista geopolitico e sono abitati da una mescolanza di etnie. Ma sono molte anche le differenze. In particolar modo la Transnistria come Stato non esiste, è un'invenzione degli anni Novanta. Prima l'Unione Sovietica e oggi la Russia hanno sempre avuto interesse a controllare questa zona perché, non solo costituisce un corridoio strategico per arrivare al Mar Nero, all'Ucraina e per avere uno sbocco in Europa, ma anche per la produzione delle armi. La Transnistria è il più grande magazzino d'armi della zona. Tutte le exrepubbliche sovietiche sono state utilizzate come deposito di materiale bellico, ma in Transnistria ci sono proprio le fabbriche che producono le armi e che vengono vendute in nero sui mercati di tutto il mondo, specie in Africa. E la Cecenia? La questione cecena è ancora più complessa. La Cecenia è un tappo tra la Russia e il Caucaso. La guerra non è stata fatta per il controllo delle risorse petrolifere, in Siberia ci sono giacimenti molto più ricchi. La Cecenia è un'importante via di traffico e costituisce la frontiera con il mondo islamico. Fin dalle origini tra la Russia e l'Islam i rapporti sono sempre stati molto tesi. Le due culture si differenziano sia per educazione che per tipo di società e la Russia vuole mantenere questa zona cuscinetto tra i due confini. Questo non significa che io approvi la politica russa in Cecenia, ma voglio solo dire che la questione petrolifera è un pretesto. Sia in Transnistria che in Cecenia a fare la spesa della politica sovietica è stata la povera gente, i civili che hanno pagato il costo umano della guerra. L'Educazione siberiana è fatta di regole. Quali di queste hai fatto tue e quali hai rifiutato? Molte delle regole di cui narro nel libro erano rispettate quando i miei nonni erano giovani. In Educazione siberiana ho riportato tante situazioni del passato nel presente: molti codici di comportamento dei quali narro non esistevano più nemmeno quando ero un bambino. Al giorno d'oggi penso che l'ottanta per cento delle regole dell'educazione siberiana non siano attuabili: sono norme estreme, utilizzate da criminali. Da quella cultura ho però imparato il rispetto per gli anziani, i valori della famiglia, la dignità Valori che oggi non esistono più. Gli Urca in Transnistria hanno resistito ai tentativi di disgregazione messi 20

in atto dal regime sovietico. Che cosa ne ha sancito la dissoluzione? La nostra società si reggeva sulla resistenza, dapprima contro gli zar, poi contro i sovietici. Dopo il crollo dell'Urss è come se i miei antenati avessero perso il senso della loro esistenza, non c'era più nessuno a cui opporsi. Alle vecchie regole non se ne sono sostituite altre e siamo diventati vittime del consumismo, responsabile del nostro definitivo deterioramento. Idee, moralità e fantasia sono state sacrificate ai dogmi del consumismo, serve una nuova etica. Ho scritto appositamente un libro violento per provocare la società, specie i più giovani, e farli riflettere su ciò che accade intorno a loro. Nel tuo libro dedichi molto spazio al problema della disabilità. Nella cultura siberiana i disabili sono i “voluti da Dio”. Perché questa scelta? La protezione dei disabili è una delle prime regole introdotte dalla Chiesa russa. Secondo la tradizione, lo spirito di Dio per poter scendere tra gli uomini si serve di alcune persone “diverse” che, per poter portare la divinità, devono rinunciare alla loro normalità. Col passare del tempo la chiesa ortodossa si è resa conto che non poteva più controllare questo fenomeno e far amministrare a dei “matti” la parola divina, così l'atteggiamento verso i disabili è andato trasformandosi e ha assunto, molto spesso, la forma della pietà. Nella comunità siberiana, invece, il rispetto per la disabilità è rimasto intatto. Dici di aver scelto di fare il tatuatore per non passare la vita in galera e per raccontare, intento che persegui anche nel libro. Da dove nasce questo desiderio? Fin da piccolo mi piaceva ascoltare, leggere, raccontare, comunicare. E' una necessità che fa parte della mia natura. Ho iniziato a scrivere per caso, su consiglio di amici. Scrivo molto velocemente perché da un lato non devo inventare quello di cui racconto: manipolo la realtà, ma non la stravolgo. Non posso però definirmi uno scrittore, perché non ho ricevuto un'educazione letteraria. Purtroppo non so nulla di stile, ma ho letto moltissimo. Mi piacciono molto Bulgakov, Turgenev, Primo Levi, Fenoglio, Pirandello. Sei stato equiparato a Roberto Saviano. Ti ritrovi nel paragone? Personalmente rispetto il coraggio di Roberto Saviano, ma il mio libro non deve essere letto in chiave realistica. Si tratta di un romanzo, creato dalla mia fantasia. Ho raccontato la storia degli Urca perché, nonostante la loro tradizione criminale, avevano dato origine ad una società meno disonesta di quella creata dal consumismo. Ritratto di Nicolai Lilin


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La storia Equador

Avvocato contro il diavolo Di Stella Spinelli

Pablo Fajardo ha 38 anni e la faccia pulita da eterno ragazzo. Informale e ricco di gestualità, possiede quell'arte del bel parlare che mette al bando il vuoto della forma per riempirsi di un contenuto schietto e passionale, che spiazza. ablo è un avvocato ecuadoriano, frutto dei poveri tra i poveri, ma il suo nome risuona di rispetto e riverenza tra le dorate pareti di studi legali e tribunali del quartier generale degli States. La sua specialità? Dichiarare guerra ai giganti del petrolio, che per decenni hanno risucchiato oro nero dal cuore della terra, risputandone in superficie il letame in avanzo. Senza rispetto, né rimorsi. Disprezzo, quello sì, e tanto e tale da trasformare fiumi effervescenti e terre fertili in un erebo velenoso e mortale. In nome del denaro. Figlio della costa, nato quinto di dieci fratelli a Manabì, Fajardo resiste tra stenti e dignità coltivando la terra di Esmeraldas fino ai quindici anni. Poi, seguendo la famiglia e la chimera di una vita migliore, si ritrova tra platano e petrolio nella svenduta Amazzonia d'Ecuador. Sucumbìos, per l'esattezza, una selva di impianti, pozzi a cielo aperto e densi fumi neri a imbrattare l'azzurro perenne del cielo. Un inferno in paradiso, con custodi d'eccezione: la Texaco Corporation, ora Chevron, multinazionale con gli attributi e per di più made in Usa. “Giocare immersi a mezza gamba in pozze nere, spuntate in ordine sparso tra i campi duramente coltivati da gente che viveva di quei frutti malati, era la norma – racconta con disincanto –. Siamo cresciuti intrisi di quell'olio denso e puzzolente. E non capivamo. Sentivo soltanto che qualcosa stonava, che quella nostra normalità strideva e che non era solo una questione di estetica, di paesaggio deturpato, di desolazione”. Che si trattasse di un'emergenza umanitaria, spudorata quanto grave, il giovane Fajardo lo capisce girando con i preti cattolici intenti a visitare gli sparpagliati villaggi amazzonici e le comunità indigene. Intere famiglie rese impotenti dal dramma petrolio. Gente ammalata di tumore, animali intossicati, bestie affogate nelle nere piscine incustodite. E rabbia, tanta rabbia. Sono quegli sguardi umidi a donare a Pablo la verità: le multinazionali, dagli anni Sessanta padrone incontrastate della regione ceduta da governi compiacenti prostrati a suon di dollari, smettono d'un tratto i panni delle misericordiose concessionarie di lavoro a stipendio assicurato, e si mostrano in tutta la loro avida brutalità. La presa di coscienza è scioccante e scatena un primordiale istinto di sopravvivenza, che si traduce in uno studio, matto e disperatissimo, sostenuto da quelle genti d'Amazzonia assetate di riscatto e giustizia. “Creammo un comitato per la difesa dei diritti umani. Avevo diciassette anni, ma venni eletto presidente”, spiega scandendo lentamente ogni concetto, orgoglioso. “Raccogliemmo centinaia di denunce e testimonianze, senza poterne far niente. A quell'epoca, i gloriosi anni Ottanta, le compagnie petrolifere controllavano persino le

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autorità locali. E noi eravamo così piccoli al confronto. Poi il muro: c'era bisogno di un avvocato, senza, tutto il nostro lavoro sarebbe stato inutile. Non ce l'avevamo. E decisi di diventarlo. Mi avevano appena licenziato per aver reclamato i miei diritti, ero già padre di una bambina e non avevo un soldo”. Ma ha la fiducia di centinaia di persone che in lui vedono un altro mondo possibile. E con essa il loro sostegno, morale ed economico. A cui si aggiunge quello della Chiesa, che gli concede una borsa di studio per la facoltà di giurisprudenza. Che frequenta per corrispondenza, dividendosi tra esami e qualche lavoretto per sfamare la famiglia. ono tempi duri, ma la meta è alta e il suo fuoco alimenta le stanche notti sui libri. La laurea si avvicina, la lotta continua e la strada si fa pericolosa. Iniziano le minacce. Gli amici più cari, i fratelli, la moglie danno segni di cedimento. Ma Pablo va avanti. Diventa avvocato, fagocitando tomi e dogmi con un unico grande obiettivo. Ora è pronto a sferrare l'attacco decisivo, leggi alla mano. Sostenuto da associazioni ambientaliste e da un pool di avvocati americani, porta il mostro dell'oro nero alla sbarra. È il 2003. L'anno successivo, il baratro. “Mio fratello. Cercavano me. Hanno trovato lui. Torturato e fatto a pezzi - Pablo è trafitto, lo sguardo si accartoccia. Il dolore lo contorce, emerge, tangibile, in un silenzio che soffoca -. Seguirono i messaggi minatori, le persecuzioni. Portai la mia famiglia in un altro paese. Furono tre mesi di orrore – il respiro si fa cavernoso –. Faccio molta fatica a rivivere quei giorni”. E l'affanno si scioglie in pianto. “Non sono impazzito per l'amore di coloro che hanno creduto in me”. Trentamila, sono quanti hanno spronato Fajardo a inchiodare Texaco alle proprie responsabilità. Aver inondato Lago Agrio con milioni di barili di rifiuti tossici, rendendola l'area con il più alto tasso di tumori e malattie correlate del continente. Aver messo a rischio di estinzione popolazioni indigene vecchie di secoli, violentato culture millenarie, disintegrato intere comunità. “Siamo stati usati, calpestati - sospira, sussurrando - che la giustizia faccia il suo corso”. Tradotto: ventisette miliardi di dollari. È quanto dovrà pagare la compagnia se il tribunale ecuadoriano la giudicherà colpevole il prossimo gennaio 2010. Una storica sentenza sembra a un passo: il gigante ha il ghigno del vinto. Sembrava imbattibile, eppure barcolla. Il piccolo Fajardo resta impassibile, ma non il suo sguardo: seppur appannato, tradisce la luce di chi da sempre già sa.

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Estrazione di petrolio in Equador Archivio PeaceReporter


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L’intervista Kosovo

Quel che resta degli uomini Di Nicola Sessa Nella scorsa primavera, i funzionari dell'Unmik (la Missione Onu in Kosovo) hanno inviato al procuratore serbo per i crimini di guerra Vladimir Vukcevic la documentazione relativa alle indagini sul presunto traffico di organi umani durante il conflitto del 1999 in Kosovo. opo una prima lettera in cui si affermava che l’Unmik non era in possesso di alcun materiale sul caso della cosiddetta “Casa Gialla”, hanno successivamente scritto che in seguito a una più dettagliata ricerca erano stati rinvenuti negli archivi alcuni documenti. Si tratta di dieci diversi files, tra cui il rapporto completo sulla 'casa gialla'. Secondo tale relazione – che contiene i risultati dell’esame della scena del crimine fatta a Burrel città nel nord dell'Albania, nel 2004 - gli investigatori hanno trovato tracce di sangue (identificati mediante la soluzione chimica Luminol) su due pareti e sul pavimento di una stanza a pianterreno, che si pensa possa essere stata utilizzata come sala operatoria. Decine di testimoni, quelli ascoltati sia dalla procura di Belgrado che dagli investigatori dell'Aja, hanno dichiarato che molto probabilmente circa 300 non-albanesi, per lo più serbi, siano stati rapiti, uccisi e sottoposti a espianti di organi. PeaceReporter, sulla questione, ha sentito gli uffici della procura di Belgrado.

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Qual è il contenuto di questi documenti che l’Unmik ha tenuto nascosto per molto tempo? Si tratta di documenti altamente riservati. Le indagini sono ancora in corso e vista la delicatezza dell’oggetto, saranno coperte da segreto. Abbiamo riscontrato una serie di dettagli interessanti, ed è giunto il momento di condurre una seria indagine. Sono convinto che noi e i giudici della procura di Tirana dovremmo lavorare in maniera coordinata, ma dal momento che la politica ha interferito in questo caso, faremo ogni sforzo per portare la questione anche a livello internazionale. Abbiamo 134 testimoni diretti o indiretti, e oltre 200 pagine di materiale. Crediamo, poi, di aver individuato il luogo in cui, a nostro parere, i serbi e gli altri non-albanesi sono stati sepolti.

Tra le persone identificate come autori di questi crimini, c'è qualcuno che ha ricoperto ruoli di alto rango nella vita politica del Kosovo? Siamo riusciti a ottenere alcuni nuovi elementi e dettagli sorprendenti. Attraverso conti bancari in Albania e Svizzera, abbiamo raggiunto prove estremamente significative che indicano come alcune figure politiche di alto profilo di Kosovo e Albania siano state coinvolte nei crimini commessi nel nord dell'Albania e, quello che qui interessa, nei fatti della “casa gialla”. Tra gli altri, siamo in possesso di documenti e numeri di conti bancari riconducibili a Ramush Haradinaj (ndr all’epoca dei fatti comandante dell’Uçk, successivamente processato e prosciolto in primo grado dal Tribunale dell’Aja). Perché le autorità dell'Unmik sono state reticenti nel consegnarvi il ra porto completo? 24

Immediatamente dopo l'apertura dell'inchiesta, abbiamo chiesto alle autorità dell'Unmik di fornirci i risultati delle loro indagini. Il 6 giugno 2008, ricevemmo una risposta dall'Unmik in cui negavano che tali indagini erano mai stati effettuate. Attraverso canali informali, venimmo in possesso della relazione principale sulla 'casa gialla'. La relazione contiene un elenco di medicinali e attrezzature che rendono verosimile l’ipotesi che in quella casa sia stata approntata una sala operatoria. Inoltre, nel documento veniva individuato come magazzino di raccolta delle prove rinvenute nella 'casa gialla' il Centro medico-legale di Orahovac. Solo dopo aver inoltrato una richiesta al Consiglio di Sicurezza Onu nel dicembre del 2008, la relazione ci è stata ufficialmente consegnata. In quell’occasione, il segretario generale del nostro ufficio, Bojan Lap evi , ha consegnato al team di Alan Le Roy, il sottosegretario delle Nazioni Unite incaricato delle operazioni di pace, la lettera del giugno 2008 in cui i funzionari dell’Unmik negavano di aver compiuto delle indagini. Solo così, le autorità dell'Unmik sono state invitate dall'organo competente delle Nazioni Unite a fornire tutte le informazioni in loro possesso, che avrebbero potuto contribuire a chiarire la triste vicenda del traffico di organi. Adesso, la mia impressione è che tutti vogliano la verità sugli eventi che hanno avuto luogo nel nord dell'Albania. Credete che la missione EULEX contribuirà a indagini più obiettive? Ci auguriamo che Eulex (ndr la Missione europea di giustizia) indagherà sulle denunce di scomparsa dei serbi, legate ai reati compiuti nel nord dell'Albania. A giudicare dalle premesse credo che affronteranno a questo caso con serietà e con la dovuta considerazione. Mi permetto di ricordarvi che la signora Carla Del Ponte (ndr ex procuratore all’Aja presso il Tribunale per i crimini di guerra commessi nell’ex Jugoslavia) ha scritto nel suo libro sul presunto traffico di organi nel nord dell'Albania e che il Tribunale dell'Aja ha anche un'ampia documentazione a sostegno di tali affermazioni. In diverse occasioni abbiamo parlato con gli investigatori del Tribunale internazionale e in seguito alle istruzioni impartite dal procuratore capo Serge Brammertz, l'indagine ha preso il giusto corso, contribuendo alla divulgazione di una serie di fatti che, a nostro parere, sono stati finora oscurati. Ci aspettiamo che anche il signor Dick Marty, l’inviato speciale del Consiglio d'Europa, compia il suo lavoro d’indagine. Credo che, in seguito alle prove raccolte, le istituzioni e le organizzazioni internazionali siano state messe in allerta. Le autorità Eulex sono chiamate a un serio esame di obiettività. E dal punto di vista procedurale, si tratta di un caso estremamente forte che avrà una forte eco.

Kosovo 2007. Nicola Sessa per PeaceReporter


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Italia

Omofobia moderna Di Aurelio Mancuso E’ essenzialmente l’emersione di un fenomeno che esiste in tutte le società democratiche, con la differenza che in Italia non sono in campo politiche adeguate di contrasto e soprattutto, le istituzioni, le agenzie d’informazione e di formazione, le elites culturali non comprendono che l’espansione dell’odio nei confronti delle persone omosessuali e transessuali è uno dei segnali che la società sta scivolando verso un arretramento assai preoccupante. egli ultimi anni abbiamo raccolto i dati delle denunce pubbliche registrate dai mass media rispetto agli omicidi, aggressioni, violenze, danneggiamenti di sedi e luoghi di aggregazione. Le cifre parlano di un’escalation di centinaia di episodi che non si arresta e che contiene due aspetti. Il primo è che la denuncia da parte delle persone omosessuali in Italia è una novità. Dopo secoli di angherie subite in silenzio i gay oggi prendono coraggio e, seppur in minima parte, si espongono e denunciano i torti subiti. L’altra faccia racconta di un accanimento sempre più evidente da parte di gruppi di giovani e giovanissimi, spesso legati a ideologie di estrema destra, che ricercano l’occasione per colpire. D’altronde i gay, come le donne, i migranti e altri soggetti ritenuti deboli, sono colpiti da quest’ ondata di violenza sessista, razzista, omofobica, perché si ritengono portatori di culture, stili di vita, non conformi a una supposta e inesistente normalità. L’evocazione di una società ordinata e conforme ad alcune convinzioni etiche e religiose, ci rimanda a visioni presenti da sempre nella storia dell’uomo, che tante tragedie hanno prodotto. Non posso nascondere un’oggettiva preoccupazione nel vedere le persone aggredite, ascoltare e leggere messaggi che fioccano a centinaia da tutta Italia di piccoli e grandi soprusi. Sì c’è apprensione, non rassegnazione, ma certo la paura fa capolino, una paura che vogliamo respingere, ma come si fa a farlo sempre da sole e soli, mentre le istituzioni rispondono con le assurde pregiudiziali d’incostituzionalità rispetto ai termini orientamento sessuale? Siamo stati accostati ai pedofili, agli incestuosi e così via, tutto facendosi beffe dei Trattati europei, della legislazione italiana che già contempla l’orientamento sessuale. A volte ci sembra di impazzire di poter morire di solitudine. Poi ci sono le manifestazioni, nostre, insieme a tante altre persone, e riprendiamo il cammino.

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l paradigma della questione omotransessuale italiana racconta più di altri il precipizio in cui rischiamo di esser inghiottiti. Mentre Paola Concia, unica parlamentare omosessuale visibile, tenta ancora una volta di far ripartire la discussione su un testo di legge contro l’omotransfobia, ciò che colpisce è l’indifferenza complessiva della intera classe politica italiana, sempre pronta ad esprimere inutili e ormai fastidiose solidarietà di facciata quando un ragazzo è pestato a sangue, per poi rintanarsi nel palazzo e affossare qualsiasi progetto di legge di tutela. Senza diritti non c’è alcuna possibilità che le persone lgbt italiane possano uscire da questo tunnel di ostilità e violenza. Non sono sufficienti provvedimenti di repressione della violenza, sono necessarie leggi che riconoscano la piena cittadinanza, la parità di diritti e di doveri per le

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coppie omosessuali. Com’è possibile che l’Italia, unico grande paese europeo senza alcun provvedimento di questo genere, possa affrontare la questione della violenza e dell’odio nei confronti delle persone gay e trans in modo efficace e convincente? Impossibile. Se prendiamo ad esempio tutta la campagna di disinformazione sulle recenti vicende che hanno coinvolto il presidente della Regione Lazio, comprendiamo che le esigenze mediatiche coniugate con lo sciacallaggio politico provocano una deformazione della realtà, dove tragedie personali, fenomeni collettivi di emarginazione sono assunti come paradigma di una supposta società corrotta e sempre più lasciva e senza valori morali. Abbiamo invece tanto bisogno nel nostro Paese di guardare in faccia la realtà, esporre i fatti con obiettività e guardare come altre società, a volte assai meno attrezzate della nostra, hanno saputo rendere la vita di milioni di persone finalmente pienamente partecipe del sistema dei diritti e dei doveri. In Italia circa tre – quattro milioni di italiani omosessuali, gay e lesbiche, attendono una definitiva fuoriuscita dalla clandestinità e questo fatto rende la nostra democrazia non compiuta, il nostro sistema legislativo ingiusto, le nostre prassi sociali inefficaci, la vita personale difficile e sempre in balia di discriminazioni e soprusi. l Trattato di Lisbona, entrato in vigore dal 1 dicembre 2009, contiene la Carta dei diritti fondamentali, che con chiarezza si occupa della tutela di tutti i diritti di cittadinanza, tra cui quello per le persone omosessuali. Il nostro Paese dovrà recepire, dopo la direttiva sulle discriminazioni sul posto di lavoro, altre norme in via di approvazione nell’Unione Europea, che contengono indicazioni precise sulle politiche antidiscriminatorie in tutti i campi sociali e culturali, e che obbligheranno nei prossimi anni la nostra classe politica a intervenire. Ma rimane un dubbio: saremo noi pronti a recepire queste norme se nella nostra cultura, nella società non sono stati affrontati con chiarezza i temi legati alla libertà personale, al rispetto delle differenze, alla condivisione di un sistema di valori? Noi ci adoperiamo e agiamo in questa direzione da alcuni decenni, è però necessaria una condivisione più ampia, un’alleanza culturale tra tutti i movimenti che lavorano nell’ambito dei diritti umani e di civiltà. L’auspicio è che il nostro Paese sia in grado, com’è accaduto in altre occasioni di riforma civile e di estensione di diritti, di far emergere le energie migliori e una volontà di cambiamento.

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Uguali. Roma Italia 2009. Carlo Traina per PeaceReporter


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Migranti

Respingimenti misteriosi Di Gabriele Del Grande

I respingimenti in Libia sono un successo. Vantato dal ministro dell’Interno Roberto Maroni, dagli uomini tutti del governo e da buona parte dell’opposizione. Gli emigranti sono salvati in mare e riaccompagnati in Libia, dove c’è l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati e dove anche si può godere del diritto d’asilo senza venire clandestinamente in Europa. l ragionamento non fa una piega. Eppure c’è un particolare che sfugge ai più. Non esistono immagini dei respingimenti. Da quando le navi della marina e della Guardia di Finanza hanno invertito la rotta verso sud, ai giornalisti non è più concesso salire sui pattugliatori. Perché il governo non accredita un inviato della Rai come embedded sui pattugliatori della Finanza per mostrare agli italiani come funzionano le operazioni di cui tanto ci si vanta? L’unico fotografo che ha immortalato le immagini di uno sbarco a Tripoli, Enrico Dagnino, è stato invitato dal Ministero dell’Interno a non pubblicare le foto. Perché? Che cosa accade che gli italiani non debbano sapere? Lo abbiamo chiesto ai respinti. Proprio così. Grazie alla diaspora somala, non è stato difficile ricostruire una rete di contatti fino a Gatrun. Una piccola cittadina libica nel cuore del Sahara. A più di mille chilometri a sud di Tripoli, nella regione di Sebha, alla frontiera con Niger e Chad. Lì sono rinchiusi da due mesi 38 somali che furono respinti insieme a altrettanti compagni di viaggio, lo scorso 30 agosto 2009. Lo stesso giorno in cui il premier visitava Gheddafi a Tripoli per festeggiare il primo anniversario del trattato di amicizia. È la prima volta che i respinti parlano a un giornalista. Altro che asilo politico, raccontano di essere stati picchiati dai militari italiani a bordo della motovedetta e di essere stati deportati dai libici in mezzo al deserto. Li ho raggiunti telefonicamente. Sono 38 somali. Tutti uomini. Parte dell’equipaggio di 81 somali partiti da Tripoli lo scorso 27 agosto 2009 e respinti dalle autorità italiane dopo tre giorni in mare, il 30 agosto. A. è uno di loro. Ha 17 anni. “Siamo partiti la notte del 27 agosto – racconta -. Con noi c’erano 17 donne, 7 bambini e una donna anziana, eravamo tutti somali”. Dopo due giorni di navigazione verso nord, il gommone incontrò una motovedetta maltese. “Ci dettero acqua e giubbetti di salvataggio. Chiedemmo la direzione per Malta, non volevamo andare in Italia, per paura dei respingimenti”. M., un compagno di cella di 29 anni, conferma. Il racconto di quelle ore coincide con la cronaca delle agenzie di stampa del 30 agosto. A 24 miglia di distanza da Capo Passero, in provincia di Siracusa, l’imbarcazione venne intercettata dalle unità italiane. Cinque passeggeri vennero trasferiti in ospedale in condizioni critiche, alla Valletta e a Pozzallo. Gli altri furono trasbordati su un pattugliatore di altura della Guardia di Finanza. “Quando ci presero a bordo non ci dissero dove ci stavano portando – racconta A. -, ma a un certo punto era chiaro che tornavamo in Libia, perché eravamo in mare da troppo tempo, ci abbiamo messo 28 ore a raggiungere Tripoli”. Fu allora che sul ponte scoppiò una dura protesta. “Ci avevano diviso. Le 17 donne con i 7 bambini stavano da una parte. Gli uomini dall’al-

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tra. Le donne piangevano, gli uomini gridavano. Per fortuna c’erano tre uomini che parlavano inglese e facevano da interpreti con gli italiani. ‘No life in Libya’ dicevano. Gli abbiamo spiegato che eravamo somali, che in Somalia c’è la guerra e che non potevamo tornare in Libia. Chiedevamo asilo politico, e se proprio volevano respingerci, insistevamo perché ci rimandassero in Sudan, dove non avremmo corso rischi”. Inizialmente – racconta A. – i militari italiani sembravano comprensivi, ascoltavano. A. ricorda l’ufficiale più anziano a bordo. “Era un signore con i capelli bianchi. Piangeva, era commosso a vedere le donne e i bambini in lacrime, e la signora anziana, e al pensiero di rimandarci in galera”. A. sostiene che quell’ufficiale abbia contattato i suoi superiori in Italia, per sapere cosa fare. Ma la motovedetta ha ricevuto l’ordine di proseguire. E a metà rotta ha incontrato la motovedetta libica su cui doveva trasbordare i respinti. Allora le proteste sono aumentate. “Alcuni uomini minacciavano di buttarsi in mare, gridavano, i militari italiani sono dovuti intervenire con la forza, si sono accaniti a manganellate contro un ragazzo. Finalmente hanno deciso di non trasbordarci e siamo rimasti a bordo fino al porto di Tripoli”. Appena a terra, sul molo, le proteste sono immediatamente finite, racconta A. “Chi parlava veniva subito picchiato dai libici”. Dopo un mese in un carcere di Tripoli, sono stati smistati in diversi centri di detenzione. Trentotto di loro – tra cui però nessuna donna - sono finiti a Gatrun. Mille chilometri a sud di Tripoli. Vicino alla frontiera con Chad e Niger, in pieno deserto. Qui si trovano al momento 245 detenuti, tutti somali. Stipati in sole tre celle, senza materassi né coperte. Le donne sono tenute a parte, sono 54 e stanno con i 4 bambini, uno dei quali ha solo pochi mesi ed è nato in carcere, a Benghazi. Già perché la maggior parte dei detenuti di Gatrun provengono proprio dal centro di Benghazi, a Ganfuda. Ricordate? Il 2 settembre l’Unità aveva pubblicato in copertina le foto dei detenuti somali accoltellati in quel carcere dalla polizia libica il 9 agosto, negli scontri seguiti a un tentativo di evasione di massa concluso. La notizia deve aver fatto troppo rumore se le autorità libiche hanno deciso di trasferire in blocco i prigionieri somali in una località tanto isolata. Ma anche in mezzo al deserto, i somali hanno tentato la fuga. È l’unica via d’uscita. È successo venerdì scorso. Hanno sfondato la porta della cella e sono fuggiti in 91. La polizia libica è riuscita a riprenderne solo 32. “Sono stati picchiati duramente – racconta M. – e poi riportati qua. Per noi e per loro non c’è nessuna soluzione. Siamo qui da mesi, non abbiamo ancora visto l’Onu. Ma all’Onu e all’Europa chiediamo di rimpatriarci. Piuttosto che morire in questa galera, preferiamo morire sotto la guerra. Rimandateci a Mogadiscio”.


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Rubriche

A teatro di Silvia Del Pozzo

Mercante moderno In tivù di Sergio Lotti

Umorismo involontario

Una favola per Rino Gaetano Coraggioso poeta metropolitano, picaresco cantastorie di periferia, inafferrabile giocoliere di parole, Rino Gaetano ha vissuto, interpretato e raccontato senza filtri la società italiana degli anni Settanta con il piglio del sognatore generoso che appartiene agli artisti più autentici. Ma quanto è diversa l'Italia di oggi, da quella di allora? Sereno su gran parte del Paese è un'originale favola urbana sulla società italiana moderna, un gioco di specchi magico e dolceamaro tra canzoni e citazioni di uno dei più sovversivi cantautori di sempre, che svela a tutti noi ministri, professori, padroni, operai, contadini, ferrovieri, bulli, arrivisti, faccendieri qualunque - come non siamo poi tanto cambiati da come eravamo un tempo. Sereno su gran parte del Paese, una favola per Rino Gaetano di Andrea Scoppetta Edizioni BeccoGiallo beccogiallo.it

Io cerco di scrivere canzoni ispirandomi ai discorsi che si possono fare sul tram, in mezzo alla gente, dove ti rendi subito conto dell'andazzo sociale. Non voglio dare insegnamenti, voglio solo fare il cronista. Rino Gaetano

Si era cominciato col dire che lo votavano la maggioranza degli italiani. Poi si è passati a parlare di stragrande maggioranza degli italiani, come ha dichiarato con enfasi anche il ministro Claudio Scajola in un’ intervista a Sky tg 24. Alla fine il Cavaliere in persona ha rivelato ai telegiornali che lo vogliono praticamente tutti gli italiani. Prima che le stime vadano oltre il cento per cento, forse sarebbe il caso che gli intervistatori cominciassero a chiarire che alle ultime elezioni, tolta la Lega, il partito di maggioranza è stato votato all’incirca da un terzo degli italiani, compresi quelli che sostenevano Alleanza nazionale. Dal che si deduce che i seguaci del presidente del Consiglio potrebbero essere meno di un quarto dei votanti, un po’ pochi per mandare a cuccia gli organi di garanzia in nome del popolo sovrano. Anche se si hanno due palle così, come ha tenuto a precisare il Cavaliere mentre attaccava i magistrati, il presidente della Repubblica e la Corte costituzionale a Bonn, nell’austera aula che ospitava il congresso del Partito popolare europeo. Chissà come l’ha presa Angela Merkel, che non si era ancora riavuta dall’ultimo cucù. Ecco perché tre giorni dopo, di fronte alle immagini dell’aggressione subita da Berlusconi a Milano, quando l’ineffabile Daniele Capezzone ha alluso alle responsabilità dei cattivi maestri che istigherebbero alla violenza, molti telespettatori hanno pensato erroneamente che avesse di nuovo intenzione di cambiare casacca e ce l’avesse col suo principale. E’ vero che non bisognerebbe mai ironizzare di fronte alla violenza, ma francamente la faccia stralunata dell’attentatore fra gli agenti non faceva per niente pensare a insegnamenti di qualche tipo, e men che meno a cospirazioni politiche. A forza di interpretare gli avvenimenti secondo le proprie convenienze, si rischia di fare dell’umorismo involontario anche di fronte agli avvenimenti più tragici, com’è accaduto di nuovo la mattina seguente nello studio di Omnibus, su La 7, al condirettore del Giornale, Alessandro Sallusti, che caricava come un toro inferocito i critici dell’operato di Berlusconi, paragonandoli ai mandanti dell’omicidio del commissario Calabresi, mentre in studio tutti quanti avevano espresso solidarietà al presidente del Consiglio, come si usa dire, senza se e senza ma.

“Sicuramente a regnare su tutto è solo la logica economica” dice Luca Ronconi. Un’osservazione che sembra fotografare perfettamente la realtà contemporanea ma che il regista in questo caso fa a proposito di una vicenda, quella del “Mercante di Venezia”, ambientata nella Serenissima del Seicento. Dove tutto è “commercio”, di cose e di anime. Dove tutto viene soppesato sull’altare del dio interesse. Non a caso gli unici elementi che connotano la scena, ideata da Margherita Palli per la versione ronconiana della tragicommedia di Shakespeare, sono una bilancia e i suoi pesi. Allineati, accatastati, con fatica trascinati. Sulla bilancia l’ebreo Shykock (sottile e convincente l’interpretazione di Fausto Russo Alesi) dovrà pesare la famosa libbra di carne del corpo di Antonio (Riccado Bini), il mercante che si è fatto garante del prestito di 3mila ducati concessi dall’usuraio al suo amico Bassanio . E su un’enorme stadera la ricca Porzia (Elena Ghiaurov) valuta, a peso d’oro e di gemme, la “passione” dei suoi pretendenti. L’eros e l’amore (anche omosessuale) hanno un ruolo importante nella vita dei personaggi, ma nel loro agire c’è sempre un’ambiguità che lascia intravvedere altro: Bassanio vuole Porzia perché l’ama o è attratto dalle sue ricchezze? Antonio accetta il truce baratto per amore di Bassanio o per una sfida all’ebreo che disprezza? Insomma, passano i secoli ma la società al fondo resta sempre uguale. E Shakespeare doveva averlo capito: “Anche il ‘Mercante’ infatti è la dimostrazione evidente” conferma il regista “di quanto profonda fosse la sua conoscenza della natura umana”. Complessa, sfaccettata: persino Shylock, descritto con i tratti impietosi dell’ebreo avido e maligno, alla fine appare una vittima, rancorosa certo, ma con una sua cupa dignità. “Quel volere caparbiamente non denaro ma carne del cristiano” conclude Ronconi, “ è una sorta di risarcimento per tutti gli oltraggi, gli insulti, le persecuzioni subiti dal popolo ebraico”. A Venezia, come in Inghilterra, nel Cinquecento come nei secoli a venire. “Il mercante di Venezia” di William Shakespeare, regia di Luca Ronconi. Milano, Teatro Strehler (tel. 848800804), dal 7 al 31 gennaio 2010.

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Al cinema di Nicola Falcinella

Il concerto di Radu Mihaileanu Una sostituzione d’identità per dare una seconda opportunità a un gruppo di ebrei. Riassunto in poche parole, “Il concerto”, il nuovo film del regista franco-romeno Radu Mihaileanu, somiglia un po’ al suo capolavoro “Train de vie” (1998) dove gli abitanti di un villaggio dell’est Europa si travestivano per fuggire alla deportazione nazista. Stavolta siamo alle prese con la storia che non passa, con le conseguenze del regime sovietico e con la Russia odierna in mano ai nuovi ricchi che hanno sostituito un’oligarchia con un’altra. E i perdenti sono rimasti tali e non gli resta che la fantasia o una trovata scaltra. Amdrei Filipov (un ottimo Alexei Guskov) è un direttore d’orchestra umiliato e caduto in disgrazia in epoca sovietica che sopravvive come uomo delle pulizie al Teatro Bolshoj. Quando intercetta un fax con l’invito all’orchestra per un concerto al Teatro Chatelet di Parigi ha l’idea della vita: sostituire ai musicisti ufficiali quelli ebrei estromessi 25 anni prima, con alcuni rimpiazzi. Obiettivo realizzare il sogno di eseguire il “Concerto per pianoforte e orchestra” di Caikovskij. Ci saranno da superare tante difficoltà che illuminano su problemi e ambiguità della Russia sovietica e di quella attuale degli oligarchi; per i musicisti è anche l’occasione per fare i conti con la loro vita privata. Perché Filipov vuole insistentemente come primo

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violino la giovane stella Anne-Marie (la Melanie Laurent rivelata da “Bastardi senza gloria”, che in fondo è solo un altro tipo di rivalsa ebraica), che però rivela un’identità inaspettata. Il film è molto divertente e si basa, come molti dei lavori del regista, sull’inganno, lo scambio di persona e lo sberleffo, ma anche sulla fantasia, l’arte e una grande umanità. Ben recitato (ci sono anche Miou Miou e Francois Berleand), sorprendente fino all’ultimo, con personaggi molto ben delineati, “Il concerto” è un inno alla vita e alla realizzazione dei sogni e un grido contro tutte le ingiustizie.

In libreria di Licia Lanza

Vita sessuale di un fervente musulmano a Parigi di Leïla Marouane Mohamed, 40 anni, origini algerine, un passato di fervente islamista, oggi direttore di banca a Parigi. Un doppio problema: una madre oppressiva e la verginità mai persa. L’aspirazione: essere un “perfetto occidentale”. Sono questi gli ingredienti che Leïla Marouane, scrittrice impegnata sul fronte della condizione della donna araba, mescola sapientemente per dar vita ad un personaggio originale quanto purtroppo comune. Mohamed è l’uomo alla ricerca di una nuova vita, è lo straniero che per essere accettato allontana il più possibile da sé le proprie origini: creme sbiancanti, piastre dal parrucchiere, l’adozione di un nuovo improbabile nome francese, locali chic, una nuova dimora in Saint-Germain-de-Prés, il quartiere più intellettuale e raffinato di Parigi, in cui cercare di portare quante più donne possibili. Mohamed è l’uomo che rifiuta i pranzi di famiglia nella banlieue di Saint-Ouen, l’invadenza della madrepadrona, il dover essere esempio di devozione religiosa al fratello minore e al cognato, cristiano convertito. Ma lo fa sottovoce, finendo per essere irrimediabilmente sconfitto nel suo delirio (reale


o immaginato, poco importa) di donne che puntualmente lo rifiutano. E’ un racconto che ride delle difficoltà del protagonista maschile e rappresenta la complessità delle giovani donne arabe, ma che lascia l’amaro in bocca, raccontando la difficoltà di integrarsi senza dover rinunciare alle proprie origini: “No, ma chi si credono di essere questi bianchi, […] che affermano di aver seminato il bene sulle terre dei nostri avi mentre ancora oggi […] continuano a negarci i loro quartieri ricchi, i loro posti di lavoro prestigiosi, le loro discoteche? Come se noi fossimo sempre gli indigeni, i selvaggi delle loro colonie”. Edizioni e/o, 2009, pagg. 224,

17,00

golesi che sottoscrivono l’asserzione che se oggi sono un popolo questo è dovuto innanzitutto alla condivisione del patrimonio musicale creato dalla generazione di musicisti emersi negli anni Cinquanta e Sessanta. In testa, ovviamente, Franco, per decenni protagonista decisivo della comunicazione sociale. Fu, allo stesso tempo, artista fenomenale, eminente creatore di una scuola di chitarra, autore-compositore dall’ispirazione inesauribile, cantante moralista, cantante sociologo, cantante provocatore, cantante umorista… Senza nominarli Franco usava spesso fare la satira di diversi uomini della nomenklatura, ammiccamenti che i suoi coetanei capivano al volo. E anche oggi nella conversazione quotidiana in lingala ricorrono molte espressioni proverbiali prese dalle sue canzoni. Le sontuose armonie vocali e la pulsazione leggera della TP (“Tout Puissant”) OK Jazz, la band di Franco, risuonano ancora nelle orecchie dei musicisti centro africani. Lo testimonia il tributo che il chitarrista congolese Syran Mbenza, uno dei migliori chitarristi africani, gli dedica a vent’anni dalla sua morte. Al suo fianco, tra gli altri, la cantante Wuta Mayi e il bassista Flavien Makabi, dell’ OK Jazz di Franco. Un disco che è un buon succedaneo in attesa di fare incetta in rete delle ristampe dei lavori del vecchio leone Franco, uscite per il ventennale della sua morte. Il motto della TP (“Tout Puissant”) OK Jazz era “si entra OK, si esce KO”. E al tappeto si finisce anche con la musica di questo lavoro.

Musica di Claudio Agostoni

Syran Mbenza & Ensamble Rumba Kongo “Immortal Franco: Africa’s unrivalled guitar In rete legend” di Arturo Di Corinto (World Music Network / Creatività, Cooperazione, Egea) Franco, all’anagrafe François Luambo Makiadi (6 Condivisione luglio 1938 - 12 ottobre 1989) è una divinità della musica africana. Per lui sono stati coniugati dozzine di soprannomi: Grand Maître, prestigiatore della chitarra, Franco de mi Amor, Ufficiale del Grand’Ordine del Leopardo… Ironico e poetico, mai sguaiato o sdolcinato, capace, se lo riteneva opportuno, di rivolgere critiche fuor di metafora a Mobutu (nel ’61 finì addirittura in galera per una canzone in cui piangeva per Lumumba, appena assassinato). Molto di più di un intrattenitore quindi. Non sono pochi i con-

A livello italiano ed europeo si moltiplicano le inziative per rendere impossibile la produzione e condivisione di beni comuni informazionali. Il sottoprodotto delle iniziative parlamentari e governative in questa direzione risultano in una pesante limitazione del diritto di ciascuno di produrre segni, simboli e significati condivisi, cioè di fare cultura. Per questo negli ultimi anni il copyright ha smesso di essere un argomento per avvocati ed è diventato un tema di grande importanza. Chiunque sia coinvolto nella produzione e fruizione di cultura

teme, a ragione, di doverlo fare seguito da un avvocato. Il modo in cui il copyright consentirà o meno di accedere ai contenuti culturali avrà un ruolo fondamentale rispetto al modo stesso in cui penseremo la creatività: sia in termini di proprietà che di collaborazione. Per questo sembra incredibile che nonostante il mash-up, il cut-up, il plagiarismo, il remix, siano elementi centrali dell'innovazione digitale, governi ed imprese non trovano di meglio che perseguire tali pratiche. Eppure, come spiega Matt Mason nel suo libro, tradotto in italiano con “Punk Capitalism, come e perchè la pirateria crea innovazione” (Feltrinelli 2009), dovrebbero sapere che da sistemi chiusi non germogliano né nuove idee né nuovi prodotti. Nuove idee, nuovi prodotti, sono sempre il frutto di un processo storico e dialettico, cumulativo e sociale che si fonda sulla cooperazione. Cooperare è meglio che competere. Si coopera per “competere meglio”, altre volte perchè viene naturale farlo. La cooperazione è un comportamento altamente razionale nei contesti caratterizzati da un'elevata abbondanza di risorse e da una elevata competizione. Come nel cyberspazio. Si coopera per imparare dagli altri, per realizzare qualcosa di nuovo e utile, per distribuire un prodotto, creare nuovi mercati. In ogni caso il risultato è un nuovo legame sociale che si consolida nella triade “dare, ricevere, restituire”. L'hanno dimostrato i movimenti protagonisti della gift economy. Non ci si arricchisce ma si rispettano il pianeta, le persone ed i loro diritti, ed è il caso del software Open Source, dell'Open Directory Project e di Wikipedia. E questa visione è ben descritta nel libro Contenuti aperti, beni comuni a cura di Flavia Marzano ed altri (McGraw Hill, 2009) Quindi si coopera per creare qualcosa di nuovo e utile, ma se rimane in un cassetto è inutilizzabile. Se una persona “possiede” qualcosa può scegliere di tenerla per sé o di cederla anche agli altri. Se si tratta di un oggetto, resterà senza. Ma se una persona “sa” qualcosa e la insegna, la sua conoscenza si moltiplicherà e diffonderà facendo tutti più ricchi. La conoscenza è un bene non rivale. Questo è uno dei motivi per cui Elinore Ostrom ha vinto il nobel per l'economia dissertando sulla “Conoscenza come bene comune” (2009), titolo con cui la Bruno Mondadori ha pubblicato il suo libro in Italia. I commons della conoscenza, beni comuni informazionali, infatti, a dispetto dei beni materiali, non deperiscono con l'uso ma si valorizzano attraverso la libera circolazione e se trovano la loro strada verso il pubblico, rendono l'ecosistema informazionale più vasto e ricco come ha ben spiegato Yochai Benkler, l'ispiratore delle tesi del commonista Larry Lessig. Ancora oggi i modi prevalenti di produzione e diffusione della cultura (i media, le università, i laboratori, le agenzie pubbliche, le biblioteche) ci ricordano che ogni forma di avanzamento, economico, sociale e culturale si dà soltanto attraverso la creatività, la cooperazione e la condivisione, il libero scambio di informazioni, la costruzione di significati condivisi. Potenti agenti di cambiamento. http://thepiratesdilemma.com 33


Per saperne di più

entro cui quella gente viveva e gli animali con cui era a contatto. La descrizione della terrificante Danza del Sole, della caccia al bisonte, dell'incendio della prateria, sono solo alcune delle pagine indimenticabili di questo libro.

NEW MEXICO

SANDRO ONOFRI, «Vite di riserva», Fandango libri, 2006 In questo libro si conosce il destino miserabile degli indiani d'America, oggi detti, "nativi", che l'autore va a visitare nelle squallide porzioni di terra loro concesse dal governo degli Stati Uniti, le riserve, appunto, e ritrae nell'atto di rimandare a domani il loro ultimo respiro. Questo libro è il sopralluogo nella loro agonia, agonia di una cultura oltre che di un popolo, ancora più vergognosa perché artificialmente prolungata dall'accanimento conservativo con cui i "visi pallidi" continuano ad alimentare il mito costruito attorno ai pellirossa dopo averli sterminati.

LIBRI AUGUSTIN SIEGFRIED, «Storia degli indiani d’America», Odoya, 2009 "La vostra gente vuole combattere e così farà anche la nostra, finché l'ultima goccia del nostro sangue Seminole non avrà bagnato il nostro terreno di caccia." Così il grande capo Osceola dichiarava guerra all'invasore bianco. In questo viaggio lungo i quattro secoli di storia che hanno cambiato il destino di una nazione non si parla dei "pellerossa" come massa unitaria e selvaggia; ogni tribù e ogni territorio sono raccontati attraverso le biografie dei protagonisti. Spiccano la saggezza e la tolleranza dei nativi americani, ma anche le loro iniziazioni terribili e le credenze mistiche. Da Pocahontas alla capitolazione di Geronimo, da Wounded Knee a Little Big Horn, da Cavallo Pazzo a Toro Seduto, storie nella storia, in una lotta cruenta per la terra e per la libertà combattuta senza pietà e perduta. Questo volume non solo disegna i ritratti dei personaggi più rappresentativi - capi, guerrieri, scout ribelli ma evidenzia la grande varietà etnica e culturale degli indiani (Sioux, Navaho, Cheyenne, Apache sono solo alcune delle moltissime tribù) e le caratteristiche territoriali delle zone di insediamento, ricostruendo nel dettaglio le cupe avventure di un popolo che non ha mai perso la propria fierezza. AA.VV., «Sul sentiero di guerra. Scritti e testimonianze degli indiani d'America», Feltrinelli, 2007 In questa antologia gli ultimi uomini dell'Età della Pietra descrivono la loro eroica lotta coi primi uomini dell'Età della Macchina, i loro riti e costumi, avventure di caccia e di guerra, e infine i loro patetici sforzi per assimilare le strane usanze dell'invasore bianco. Da queste pagine parlano ancora una volta i grandi guerrieri che guidarono i pellirosse delle praterie americane: Falco Nero, Toro Seduto, Geronimo... Gli scritti degli autori indiani qui raccolti hanno un'enorme importanza perché, fornendoci un'interpretazione dei fatti visti dal punto di vista degli indiani, ci consentono, tra l'altro, di mettere più precisamente a fuoco la reale natura del conflitto tra il pellerossa e l'invasore bianco. L'indiano vi spiega perché abbia tanto aspramente conteso l'avanzata all'uomo bianco e perché spesso abbia preferito morire piuttosto che cedere i suoi tenitori di caccia. Entro i confini degli Stati Uniti esistevano centinaia di tribù, ma fu il valoroso indiano delle praterie, con la sua colorata acconciatura di guerra e la lancia piumata, quello che diventò il simbolo del pellerossa, come dimostra anche una copiosa produzione cinematografica: la lunga lotta che sostenne e la dignità con cui seppe sopportare la sconfitta gli hanno meritato il ruolo principale in questo libro. GEORGE CATLIN, «Il popolo dei pellerossa. Usi, costumi, vita nella prateria degli indiani d'America», Bompiani, 2005 Senza alcun dubbio le "Lettere" di George Catlin costituiscono una delle più importanti testimonianze dirette sugli Indiani della Grande Pianura nordamericana. Durante gli anni Trenta Catlin soggiornò a lungo presso quelle genti, visitò quasi cinquanta tribù e su alcune si soffermò con particolare attenzione: Sioux, Piedi Neri, Corvi, Mandan, Comanche, Sauk e Fox, Choctaw. Le sue pagine descrivono abiti, attrezzi, usanze, cerimonie, danze, abitazioni, armi e anche la natura 34

FILM BRUCE BERESFORD, «Il manto nero», Canada 2001 Se "Balla coi lupi" s’è piazzato al vertice del successo, "Manto nero", pur essendone la filiazione, non sembra avviato ad altrettanta fortuna. Forse perché, a parità di suggestioni ambientalistiche, fa un discorso più serio. STERLIN HARJO , «Barking water», Usa 2009 La storia è quella di Frankie e Irene, due indiani che vivono in America. I due si sono amati in passati, ma ora sono separati; quando Frankie si ammala, è Irene che lo va a prendere in ospedale e i due durante il lungo viaggio in macchina, avranno modo di chiarire tutto quello che c’è stato tra di loro. Frankie e Irene compiono il loro viaggio all’interno di una cultura e di una terra che sta inesorabilmente perdendo se stessa. Ciò che ci ha specialmente colpiti in questo piccolo film, quasi completamente autoprodotto e germogliato dall’orgoglio Native American, è la sua leggerezza solare, il suo attraversare spazi e luoghi della memoria con una visualità quasi ipnotica, il contrasto sonoro tra la voce di Frankie (un “basso continuo” che risuona nella nostra mente) e i suoni della vita che non si attenuano intorno a lui, piuttosto lo accompagnano fino alla sorgente del fiume della vita. Elegante e divertente variazione sul tema del road movie, il film ha già ottenuto un ottima accoglienza al Sundance.

PAESI BASCHI LIBRI JOSEBA SARRIONANDIA, Lo scrittore e la sua ombra, Tranchida 2002 E' una delle novelle di un autore basco di riferimento. Esule e ricercato, riuscì ad evadere dal carcere nascosto dentro la cassa di un amplificatore. Dal luogo in cui si trova, per ora sconosciuto, ha continuato a scrivere e a pubblicare libri. LA GRANDE MENZOGNA, Angel Rekalde, Santiago Alba Rico, Rui Pereira, Giovanni Giacopuzzi e Jabier Salutregi, Datanews 2003 Gli autori di questo libro ricostruiscono vari aspetti della 'gran mentira' del governo Aznar sugli attentatui dell'11 marzo del 2004 alle stazioni ferroviarie di Madrid. Analisi politica e mass- mediatica. Uno degli autori, Jabier Salutregi è stato direttore del quotidiano Egin, chiuso dalla magistratura spagnola. Per questo fatto si trova ora in carcere.

FILM GILLO PONTECORVO, Operacion ogro, Italia 1979 Capolavoro di Gillo Pontecorvo, con l'indimenticabile interpretazione di Gian Maria Volonté. La ricostruzione dell'attentato di Eta in cui perse la vita il delfino del dittatore Franco, l'ammiraglio Carrero Blanco designato alla successione del Caudillo

JOHN FORD, «Il grande sentiero», Usa 1964. Fu un insuccesso al botteghino, e anche la critica avanzò qualche perplessità per una certa mancanza di amalgama tra le parti del film, che risulta essere «un atto riparatore nei confronti degli indiani» Il popolo dei Cheyenne è rinchiuso nelle riserve, dove scarseggia il cibo e la zona è arida. Memori delle loro origini nelle verdi terre e delle promesse non mantenute dall'uomo bianco (tra cui i viveri che non arrivano) decidono di lasciare la riserva e tornare alle loro terre nello Yellowstone, attraverso un percorso di 2000 miglia. Ovviamente arriveranno i soldati per cercare una soluzione.Triste e malinconico, questo ultimo western di Ford è una specie di testamento tutto a favore degli indiani.

JULIO MEDEM, La pelota vasca, Spagna 2003 Documentario politico che raccoglie le opinioni di politici, intellettuali, personalità del Paese basco, a eccezione dei rappresentati del Partido popular e della Chiesa. Fu oggetto di proteste e di grande dibattito per la sua candidatura ai premi Goya. Settanta interviste e una cornice magica per la fotografia che irtrae gli angoli più belli e significativi dei Paesi baschi

SITI INTERNET

SITI INTERNET

http://www.newmexico.org/international/italian/ navajo.php Il sito del dipartimento del turismo del New Mexico. Indispensabile se si vuole fare unviaggio da quelle parti. http://www.navajotimes.com/ Quotidiano online, in inglese, scritto dai nativi navajo e non solo a loro rivolto http://navajohopiobserver.com Notizie e informazioni dalla nazione navajo. In inglese

www.gara.net Il quotidiano che si autodefinisce 'la voce dei senza voce' nasce da una sottoscrizione popolare. È l'erede storico del quotidiano Egin, chiuso nel 1998 per iniziativa del giudice Garzon. Dentro la redazione c'è anche Info7, una radio che trasmette via etere e sul web www.deia.net E' l'organo ufficiale del Partido nacionalista vasco, la forza maggioritaria nelle provincie basche in territorio spagnolo.

MATTEO SCANNI, ANGELO MIOTTO Cronache basche, Italia 2007 Documentario politico sulla sofferenza delle vittime di attentati e vittime della repressione delle forze di polizia. Contiene testimonianze di casi di tortura subita nei commissariati spagnoli e interviste e storia del maxi processo 18/98+


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FUNZIONALE, F UNZIONALE , MAI MAI SERIOSA, S E R I O SA , UNA PICCOLA U NA P ICCOLA ANTOLOGIA ANTOLOGIA LETTERARIA LETTERARIA DA DA LEGGERE L EG G E R E E COLLEZIONARE… L’AGENDA “PER TUTTE LE STAGIONI”!

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