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mensile - anno 5 numero 1 - gennaio 2011

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3 euro

WikiWar Italia

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

Libano Grecia Russia

2011

Dove il diritto non entra Gelmini 3 volte P Lavoro, il futuro fa paura Morire di lavoro C’è del marcio in Italia Un esercito a metà I dannati della terra Richiedere asilo politico Organizatsya

Portfolio: Un anno di storie



"Ma papà, dov'eri mentre accadeva tutto questo? Perché non hai fatto niente per impedirlo?" Anonimo bambino tedesco, 1950

gennaio 2011 mensile - anno 5, numero 1

Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Gabriele Battaglia Christian Elia Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Nicola Sessa Stella Spinelli

Hanno collaborato per i testi Blue & Joy Erminia Calabrese Luca Marco Comellini Margherita Dean Lorenzo Di Pietro Fabio Ghioni Paolo Lezziero Antonio Marafioti Gloria Riva Roberto Satolli Alberto Tundo Massimo Zucchetti

Photoeditor Germana Lavagna Progetto grafico Guido Scarabottolo Oliviero Fiori

Hanno collaborato per le foto Gianluca Cecere Segreteria di redazione Giuseppe Chiantera Silvina Grippaldi Martina Cirese Massimo Colvagi Amministrazione Umberto Fratini Annalisa Braga Sergio Grande Martin Griffiths Redazione e amministrazione Germana Lavagna Via Vida 11 Simone Manzo 20127 Milano Achille Piotrowicz Tel: (+39) 02 801534 Joshua Saele Fax: (+39) 02 26809458 Massimo Valicchia peacereporter@peacereporter.net Mattia Velati Stampa Graphicscalve Loc. Ponte Formello - 24020 Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 10 gennaio 2011 Pubblicità Via Vida 11 20127 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 26809458 peacereporter@peacereporter.net

Illustrazioni di Alex Andreyev Dina Haddadin Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Bagutta 12 - 20121 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07 Foto di copertina: Elaborazione grafica di Oliviero Fiori

L’editoriale di Maso Notarianni

C'è bisogno d’altro ono anni che PeaceReporter denuncia l'avanzare, in ogni campo della vita civile del nostro Paese, della logica della guerra. Sopraffazione, ricatto, furbizia, forti con i deboli e deboli con i forti. Questa è la logica della guerra. E questa è la cultura che, incontrastata , è diventata egemone in Italia e in molte parti del mondo. Questa è la cultura di Marchionne, di chi passa sopra ai diritti dei lavoratori. Che sono persone, e in quanto tali - così dicono le cronache di questo brutto periodo - non hanno più diritti. Per questo non abbiamo dubbi: stiamo con la Fiom. E con chi si oppone alla logica della guerra. Sappiamo bene quanto sia contagiosa la logica della sopraffazione, soprattutto se divulgata, senza contraltare e senza modelli alternativi, dai potentissimi mezzi di cui oggi dispone la propaganda. Per questo stiamo facendo uno sforzo enorme non per sopravvivere, ma per creare una nuova, grande iniziativa che sia in grado di far rivivere - almeno - quei valori della rivoluzione francese che oggi sono un pallido ricordo. O peggio, che oggi appaiono alla stragrande maggioranza degli italiani, come valori pericolosamente sovversivi. Grazie alla propaganda di chi ha il monopolio dell'informazione, certo. Ma anche grazie alla complicità di quanti, pur di ottenere una cadrega (come si dice a Milano) hanno rinunciato a rivendicare l'uguaglianza e la fraternità, condizioni indispensabili per ottenere la libertà. Per questo vorremmo coinvolgere in questa nostra grande iniziativa tutti i lettori di PeaceReporter e tutti coloro che ancora credono nella necessità della pace, del rispetto reciproco, nell'uguaglianza. Che vorremmo fosse l'inizio di un nuovo modo di vedere il mondo, di un nuovo modo di stare al mondo. Vi chiediamo quindi di stare con noi, e di coinvolgere quanti più amici e conoscenti potete, perché non è troppo tardi; perché un mondo diverso è davvero possibile, ma tocca a noi costruirlo, e con fatica. Forse qualcuno si chiede: "Ma di cosa sta parlando Notarianni?". Bene, domanda sensata. Ma la risposta non ve la daremo adesso. Per ora possiamo dire che stiamo preparando una grande risposta a questa enorme assenza di cultura "altra" e di politica con la p maiuscola. E sarà una gran bella sorpresa.

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Grecia a pagina 14

Russia a pagina 20

Distribuzione in libreria Joo Distribuzione - via F. Argelati 35, 20143 Milano - Tel 028375671

Servizio abbonamenti e arretrati Picomax S.r.l. Via Borghetto 1 - 20122 Milano. Tel 0277428040 - fax 0276340836 Informativa abbonamenti: Ai sensi dell’Art. 13 del D. Lgs. 196/03 informiamo che i dati forniti saranno trattati da Picomax Srl in qualità di responsabile del trattamento, nonché da Dieci dicembre soc. coop. a r. l. titolare del trattamento, per le seguenti fiinalità: invio abbonamento della rivista PeaceReporter e invio di materiale promozionale inerente i prodotti di Dieci dicembre soc. coop. a r. l. Gli abbonati hanno diritto di esercitare i diritti di cui all’Art. 7 del D. Lgs. 196/03 inviando una email a privacy@picomax.it L’informativa completa è disponibile sul sito di Picomax: www.picomax.it

Libano a pagina 12

Scritti, disegni e fotografie anche se non pubblicati non verranno resi.

Italia a pagina 9, 22, 24, 26, 28 e 30 3


Internet

WikiWar

di Fabio Ghioni Non c'è nulla di più insidioso e di ignoto, oggi, della guerra cibernetica. Mentre la situazione socioeconomica si fa sempre più critica, la minaccia di attacchi informatici si intensifica e diventa sempre più concreta e meno virtuale. E dietro a ogni attacco rimane sempre un'ombra asimmetrica e la perenne incertezza sul volto dell'autore. erto, esistono comunità di hacker che combattono da sempre contro l'establishment e si fanno sentire con azioni clamorose, come nel recente caso Wikileaks, che ha suscitato l'appoggio del gruppo di attivisti che si cela dietro al nome Anonymous. Ma la vera novità di questi ultimi anni è che i governi stessi si sono dotati di cyber-eserciti. Rientrano con ogni probabilità in quest'ultimo caso gli attacchi DoS che paralizzarono i sistemi informatici dell'Estonia nel 2007 (proprio dopo che dalla capitale Tallin fu rimosso un monumento ai caduti sovietici durante l'invasione nazista), quelli dell'Azerbaijan e della Georgia nel 2008 (in corrispondenza dell'invasione russa) e le intrusioni degli hacker cinesi contro Google scoperte proprio un anno fa. E, ancora, il virus Stuxnet, che ha messo in seria difficoltà il programma nucleare iraniano. In ogni caso, di fronte all'evidenza del danno subito, i veri mandanti rimangono nell'ombra, e spesso anche gli esecutori materiali. È una guerra 'sporca', sempre sul punto di ritorcersi contro i suoi stessi autori. Bisogna infatti ricordare che l'hacker è per definizione una figura ribelle e difficile da ricondurre a un ordine prestabilito: anche se accetta di essere stipendiato dal sistema, lo fa solo per studiare i segreti del suo 'nemico'. E tra questi segreti preziosissimi avrà tutte le chiavi d’accesso alle vulnerabilità della tecnologia che viene venduta al pubblico e delle infrastrutture vitali di una nazione. Gli hacker sono autogestiti, fanno le cose per se

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stessi, per un eventuale uso futuro. Poi, se ciò coincide con gli obiettivi di una nazione o di una grossa compagnia, possono mettersi a disposizione. Gli stessi autori, insomma, di attacchi condotti per conto di governi potrebbero poi, con gli stessi strumenti e le stesse conoscenze acquisite, celarsi dietro attacchi terroristici. D’altro canto, il caso Stuxnet ha dimostrato che la guerra informatica non è più limitata al furto di informazioni: tramite un virus si può bloccare o far saltare in aria una centrale nucleare, oppure far partire un missile. A questo riguardo, è bene ricordare due episodi molto recenti. Lo scorso 23 ottobre, per tre quarti d’ora gli specialisti della base di Warren (Wyoming) hanno perso le comunicazioni con cinquanta missili nucleari intercontinentali ospitati nei silos sotterranei. L'8 novembre, al largo della costa della California meridionale, è stata avvistata la scia di un missile. Malgrado il Dipartimento di Difesa abbia chiamato in causa l'illuFabio Ghioni è un hacker e un esperto in sicurezza e tecnologie non convenzionali, noto alle cronache per essere stato a capo del 'Tiger Team' informatico di Giuliano Tavaroli all'epoca dello scandalo Telecom-Sismi (www.fabioghioni.net). Foto archivio PeaceReporter


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sione ottica, la spiegazione non ha convinto molti esperti tra i quali l’ex vice-segretario della Difesa Robert Ellsworth, o il generale in pensione Tom McInereney che a Fox News ha dichiarato che si trattava di un missile lanciato da un sottomarino. Naturalmente stiamo ragionando solo sul possibile, ma è un dato di fatto che l'ipotesi un virus informatico sarebbe perfettamente in grado di spiegare entrambi gli episodi. E siccome operazioni di questo tipo non possono certo essere opera di hacker dilettanti, è da supporre che la responsabilità sia di una grande organizzazione o di uno Stato. Del resto, negli ultimi anni i rapporti di intelligence sulle intrusioni nei sistemi informatici del Pentagono non si contano. E gli indizi puntano tutti verso la Cina. omunque sia, condurre azioni di guerra attraverso dei virus è un'arma a doppio taglio per gli stessi Stati. I malware possono essere poi rivenduti sul mercato nero ed essere a disposizione di gruppi terroristici. È quello che potrebbe essere già successo - lo dicono rapporti di intelligence - proprio con Stuxnet, che per la sua complessità e la sua sofisticatezza è stato definito 'il miglior malware di ogni tempo'. Stuxnet è un vero strumento di guerra, è un'arma di nuova generazione. Ma come tutti i virus naturali, è improbabile che faccia fuori completamente tutti i suoi bersagli. Pensare di utilizzarlo per colpire solo l'Iran è sbagliato, perché il rischio che si rivolti contro è altissimo. Quante nazioni nel mondo usano gli stessi sistemi Siemens bersagliati dal virus per i loro sistemi critici? I Paesi più industrializzati sono anzi ancora più a rischio dell'Iran, che dipende da quei sistemi per il cinque percento. Noi invece siamo completamente legati ad essi, inclusi i trasporti. Ora, quindi, che il confine tra guerra e guerriglia si confonde, probabilmente non sapremo da chi arriverà il grande attacco, ma sappiamo che arriverà, è pronto, e forse conoscerne l'autore è un dettaglio superfluo. Numerosi rapporti di intelligence negli ultimi anni avvertono che gli hacker - russi, cinesi, iraniani, o cani sciolti - hanno mappato dettagliatamente le infrastrutture vitali degli Stati Uniti e dell'Europa, dalle reti elettriche a quelle idriche, dal sistema fognario alle telecomunicazioni. Tutto

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SmokyLeaks Si fa chiamare H@rlock, come il 'pirata spaziale' del cartone animato giapponese. Anche lui è una specie di pirata, ma del cyberspazio. È un hacker, che ha accettato di parlarci del fenomeno WikiLeaks Come viene vissuto e interpretato nel vostro ambiente lo scalpore mediatico mondiale suscitato dai 'leak' di Julian Assange? Premetto che non parlo a nome di qualsivoglia movimento hacker: esprimo solo il mio punto di vista personale. Detto questo, è evidente che gli ultimi documenti diffusi da WikiLeaks non rivelano nulla di nuovo: non fanno altro che confermare verità già note o del tutto scontate. Nessuno scoop, nessun mistero svelato: solo una valanga di gossip internazionale, perfetta per distrarre l'opinione pubblica da questioni ben più importanti, come la crisi strutturale dell'attuale sistema economico: meglio che la gente pensi ad altro! E tutto fumo negli occhi. Se quelle di WikiLeaks fossero informazioni realmente scomode e imbarazzanti per il potere, i mass media avrebbero reagito come hanno sempre fatto in questi casi: le avrebbero ignorate, o quantomeno minimizzate. Invece gli 6

ciò che è connesso a una rete e ha un indirizzo IP è stato disseminato di virus pronti ad esplodere non appena giunga il comando. Nel caso di un conflitto, o semplicemente nel momento in cui uno dei Paesi mandanti volesse mettere in ginocchio l’Occidente, allora non dovrebbe far altro che risvegliare gli zombie. Proprio per l'accumularsi di queste minacce, il danno maggiore potrebbe verificarsi anche nel caso in cui un attore come gli Stati Uniti decidesse di difendersi adottando misure drastiche. Obama ha già chiesto al Congresso la facoltà di 'spegnere' Internet, ovvero di far saltare la rete con l'ipotesi 'kill switch'. Il problema è che se si preme l'interruttore, salta anche il settanta percento del business mondiale. Ma gli Stati Uniti - o chi per loro - potrebbero avere anche altri interessi per spegnere o militarizzare la rete, e qui occorre riflettere proprio sul fenomeno Wikileaks. Possiamo credere che il sito di Julian Assange sia davvero uno strumento di libertà, ma - visto il tenore delle ultime rivelazioni - abbiamo anche ragioni sufficienti per ritenere che Wikileaks sia ormai uno strumento nelle mani del potere per far uscire informazioni riservate in maniera mirata. In entrambi i casi, è molto probabile che chi tiene davvero le redini del gioco - e non è sicuramente Assange, almeno non più - abbia interesse a scatenare il caos. Vuoi per far saltare un ordine mondiale che non è più tollerato, vuoi per risolvere una crisi economica che non ha sbocchi alternativi a un conflitto a livello mondiale. Crisi che in passato è sempre stata il preludio o il prologo a un conflitto di vaste proporzioni, perché l'economia di guerra è un solvente che riaggiusta tutti gli equilibri. Invece di avere una nuova Sarajevo con un incidente traumatico come un omicidio o un atto terroristico, la battaglia può cominciare con la diffusione di informazioni e generare gli stessi effetti. Un'altra faccia del conflitto cibernetico e un altro possibile sbocco dal virtuale al reale.

In alto e in basso: Foto archivio PeaceReporter

hanno dato il massimo rilievo: prima hanno creato l'attesa, la suspense, ora non parlano d'altro. Hanno fatto di Julian Assange, fino a poco tempo fa sconosciuto ai più, un'icona planetaria utile al sistema di potere. Il 'cablegate' scatenato dalle rivelazioni del sito di Assange è stato paragonato a un attacco terroristico: esagerazioni? Oltre ad essere un utile diversivo di massa, l'operazione WikiLeaks è anche un ottimo pretesto per chi vuole limitare la libertà della rete e la libertà di informazione in generale. Se si paragona questa fuga di notizie a un 'attacco terroristico', a un nuovo '11 settembre informatico', se si trasforma Assange nel ricercato globale numero uno alla stregua di Osama, è per poter giustificare una guerra globale alla libertà della rete. Assange non rappresenta una minaccia al sistema perché ne fa parte, o per lo meno è stato così ingenuo da farsi manipolare da esso. Da chi? Se Assange è un burattino, chi sono i burattinai? Chi c'è dietro WikiLeaks? Chi la finanzia? Una cosa è certa: WikiLeaks non vive di donazioni. Fino a poco tempo fa non avevano fondi sufficienti, erano sull'orlo della chiusura. Poi,

improvvisamente, i soldi sono arrivati, e così tanti da consentire operazioni come quelle che poi abbiamo visto. Daniel Schmitt, il numero due di WikiLeaks, è stato cacciato da Assange proprio perché voleva capire da dove fossero piovuti tutti quei soldi, e come mai così all'improvviso: scrupoli che l'australiano non ha gradito. WikiLeaks, nato come un progetto indipendente, povero e dai nobili intenti, col tempo si è guadagnato credibilità nel mondo della 'libera informazione', diventando una risorsa molto preziosa, un 'asset' ideale per chi volesse compiere un certo tipo di operazioni: bastava sostenerlo e manovrarlo a dovere. A quel punto sono arrivati sia i finanziamenti che le informazioni: non penserete mica che i cablogrammi arrivino dagli hacker! Quella è tutta roba passata da persone interne all'establishment: e non parlo del soldatino Bradley Manning, ma di organizzazioni ben più potenti. Quali? Servizi segreti? Lobby finanziarie? C'è chi tira in ballo la Cia, chi il Mossad. C'è chi parla di George Soros, il magnate americano che finanzia tutto e il contrario di tutto. C'è chi parla della potente organizzazione cyber-criminale russa Rbn (Russian Business Network, ndr). Difficile dire chi abbia ragione: forse.


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Diritti

Dove il diritto non entra di Lorenzo Di Pietro Avvocato: “Mi è arrivata la tua raccomandata di revoca del mandato. Ti devo dare tutta la tua documentazione per fare l'appello. Vieni domani alle sette, però portami gli altri soldi, altrimenti il fascicolo non te lo do”. Ibrahim: “Quali soldi?”. Avvocato: “Mi devi portare altri duecento euro”. Ibrahim: “Ma quanti soldi le ho già dato?”. Avvocato: “Mi hai dato quattrocento euro. Te lo dico subito: se vieni e non mi porti i soldi, il fascicolo non te lo do, per cui è inutile che vieni. Perché io ho lavorato, ti ho fatto tre procedimenti per una somma irrisoria. Cioè, voglio dire...! Quindi se vieni e mi porti i soldi, ti prendi il fascicolo, se no... Ok? Fammi sapere. Ti saluto, devo andare in udienza. Ciao”. la conversazione tra Ibrahim, un immigrato che ha chiesto lo status di rifugiato, e l'avvocato che segue la sua pratica con il gratuito patrocinio, un istituto offerto dal nostro ordinamento, in cui lo Stato paga le spese legali per garantire ai meno abbienti il diritto alla difesa sancito dalla Costituzione. L'avvocato e il suo assistito si sono conosciuti al Cie di Ponte Galeria. Un altro avvocato, spiega che per questo genere di cause il “mercato” è molto redditizio: lo Stato paga una parcella di mille euro a “faldone”, ovvero per ogni causa, ma “sono sentenze-lampo, un avvocato in una giornata sbriga una ventina di faldoni”. Forse però, a quest'avvocato i soldi non bastano, così ha pensato di chiedere un “extra” al suo assistito. Immigrato, senza permesso e disoccupato, a Ibrahim nonostante il gratuito patrocinio sono stati richiesti più volte soldi, 200 euro per volta, brevi-manu. “Le richieste erano pressanti”, spiegano gli amici, e Ibrahim aggiunge: “quando chiamavo mi ricordava sempre che dovevo dare dei soldi, se non li avevo me lo faceva pesare, e mi diceva di portarli la prossima volta”. Ibrahim non sapeva di non dover pagare, nessuno glielo aveva detto. Quando lo scopre, decide di cambiare legale. A quel punto la restituzione dei documenti dall'avvocato sarebbe un atto dovuto. ma non per quell'avvocato, che usa anche questa occasione per chiedere altri duecento euro. Strano prendersi rischio per così poco, il reato è da codice penale e comporta anche la radiazione dall'Ordine. Ma in fin dei conti, una volta perduta la causa ed espulso l'assistito, chi mai scoprirà la vicenda? Funziona così: al detenu-

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to nel Cie si presenta un magistrato, accompagnato da un avvocato che si propone di seguire la causa con il gratuito patrocinio. L'immigrato, non avendo alternativa, lo “assume”. Ma chi aveva deciso che sarebbe stato proprio quell'avvocato ad accompagnare il magistrato? “La scelta dell'avvocato d'ufficio avviene a rotazione, secondo turni stabiliti dall'Ordine”, spiega Milena, legale romano. E in effetti, nell'elenco “convalide decreti espulsioni stranieri” dell'Ordine degli avvocati, quel giorno in turno c'era proprio il nostro avvocato. Un solo turno quel mese, quindi Ibrahim è stato il più sfortunato di tutti? È “tutt'altro che un caso isolato” secondo F.B., avvocato presso un importante studio legale in materia di diritti umani. Lui conosce bene il “giro” dei legali che volteggiano intorno al Cie, “sono in molti a chiedere degli extra”. Ma se lo sapete, perché non denunciate? “Come in tutte le categorie professionali, c'è una specie di spirito di corpo, per cui anche chi non fa queste cose, difficilmente denuncia, anche per paura di ritorsioni da parte del sistema”. E i soldi, restano tutti all'avvocato? “Sono soldi in nero buoni per vari usi” ci spiega F.B., “compreso quello di ottenere sentenze favorevoli e “velocizzare la burocrazia” del tribunale”. brahim proviene da Gueckèdou, nella Repubblica di Guinea, una zona al confine con la Liberia e la Sierra Leone. La sua storia inizia nel 2000, giovane camionista che lavora per un'azienda di proprietà dell'imprenditore liberiano Joseph Johnson, leader dell'Unr, un partito antigovernati-

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vo. Tutti gli autisti all'occorrenza devono usare i camion per portare i manifestanti in piazza contro il presidente. L'azienda stessa è di conseguenza considerata ostile al governo. Il 2 settembre 2000 gruppi armati liberiani sconfinano a Gueckèdou per saccheggiare. Ibrahim nasconde il camion con il prezioso carico di olio di palma nell'autorimessa della compagnia. Quando l'esercito guineano arriva per fermare i banditi, una pattuglia entra nel cortile nell'autorimessa, chiedendo di Johnson, il quale si fa avanti e, per tutta risposta, viene freddato con un colpo di pistola alla testa. Ibrahim protesta, viene colpito al volto con il calcio di un fucile e pestato. Perde un dente. Si dirà poi che Joseph Johnson era legato ai ribelli: in un corrotto regime africano, una scusa sufficiente per uccidere un uomo. Ibrahim finisce in prigione, dove un gendarme che lo conosce lo fa evadere, intimandogli di lasciare il Paese poiché è considerato un collaborazionista e rischia la vita. Va a casa, lascia il figlio di cinque anni alla nonna e fugge. Il 5 settembre entra in Costa D'Avorio. Chiama uno zio che vive a Napoli con regolare permesso, e che tramite un trafficante gli procura un passaporto falso. È il 27 settembre quando Ibrahim atterra a Fiumicino, ad attenderlo c'è lo zio, che lo porta a Napoli. Trova lavoro come scaricatore al molo merci, in nero. Passano quindici giorni, un mattino come tanti si sveglia presto per andare al lavoro. Lo zio prepara la colazione, quando suonano alla porta. Entra un italiano, con una valigetta ventiquattrore: “Sono venuto a pagare il mio debito”. Ibrahim capisce che la cosa non lo riguarda e cambia stanza. Un minuto dopo però, grida agghiaccianti lo chiamano: “Aiuto! Mi sta uccidendo!”. Ibrahim vede l'uomo aggrappato al collo dello zio, che sanguina copiosamente, mentre con una forbice gli vengono inferti fendenti tra il collo e la spalla. Ibrahim si lancia contro lo sconosciuto e tenta di fermarlo. L'uomo fugge, Ibrahim è illeso, ma lo zio giace a terra, morto. brahim viene condotto in Questura come testimone. Racconta: “Mi hanno chiuso tutto il giorno in una stanza, senza un bicchiere d'acqua. Faceva caldo. Ogni tanto veniva qualcuno, faceva tante domande, poi andava via. Dopo altre tre-quattro ore, veniva un'altra persona che faceva le stesse domande. Così fino a sera”. Gli danno un foglio con cui recarsi presso un ufficio in un altro stabile, dove chiedere un permesso di soggiorno per motivi giudiziari. Ibrahim esegue, ma qualcosa va storto. Gli dicono che “per il permesso non è qui” e, racconta, lo mandano via con sufficienza. È disorientato, impaurito, solo. E clandestino. Incontra dei connazionali che lo portano nella casa dove vivono, ma c'è un affitto da pagare. Troverà lavoro presso una fabbrica di pelletteria clandestina. Ancora lavoro nero. Dopo un anno e poche centinaia di euro al mese di paga ha le “ferie”, e gli ultimi tre mesi non vengono liquidati. Contatta un altro parente a Roma, che gli promette un lavoro.

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Il diritto negato Niente gratuito patrocinio ai richiedenti asilo. Come in Italia l'Ordine degli Avvocati viola la Costituzione. "C'è la guerra nella zona dalla quale proviene? Si sposti in un'altra zona". L'inaudita risposta, data dal consiglio dell'Ordine degli avvocati di Trieste a una immigrata richiedente asilo, non è un'eccezione. Ma un orientamento: a Trieste gli avvocati rifiutano il gratuito patrocinio ai migranti. Sulla base di queste - e altre, ben più grottesche - motivazioni. Esempio: un altro straniero, condotto all'Ordine dal suo legale, è incorso in un singolare qui pro quo semantico. Era lì perchè apolide, e l'Ordine ha confuso 'apolidia' con 'bulimia'. "Ci dispiace, qui non trattiamo la bulimia". Perchè accade questo? Perchè l'istituto del gratuito patrocinio, ovvero la tutela legale gratuita a chiunque sia sprovvisto di mezzi economici 10

All'arrivo l'amara sorpresa: vendita abusiva di cd. Non era ciò che sperava. È il primo giorno, Ibrahim si vergogna e resta distante dalla merce, ma quando arriva la polizia tutti fuggono e lui, impreparato, resta lì. Viene arrestato, esce con una condanna (così ora ha anche un precedente penale) e un decreto di espulsione, ma Ibrahim non può tornare in Guinea, teme per la sua vita e per il figlio, del quale non vuole svelare la parentela. Sogna invece di portarlo in Italia. Arriviamo al 2008, è da tempo in vigore la Bossi-Fini quando un'amica gli spiega che può chiedere la protezione umanitaria. Dopo tre mesi di appuntamenti in Questura, dove trovano sempre un motivo per rimandare, a marzo del 2009 Ibrahim consegna la domanda. Udienza fissata al 6 maggio, ma quel giorno, il giudice, che forse aveva altri impegni, rimanderà al 24 agosto. Troppo tardi per Ibrahim, che il 14 agosto sarà fermato dalla polizia, che lo troverà senza permesso di soggiorno. Lui mostrerà il foglio attestante l'attesa dell'udienza, ma per i poliziotti non conta. Finisce al Cie, dove quel foglio sparisce. Al Cie sembra di essere già fuori dall'Italia, le leggi italiane, infatti, non sempre valgono. All'ingres so tentano di rompergli la telecamera del cellulare con un oggetto appuntito perché non faccia riprese, Ibrahim, però, chiede che gli sia trattenuto e riconsegnato all'uscita. Durante la visita la prima domanda è “quanta morfina vuoi?”. La successiva sorpresa è quella di trovarsi in cella con dei criminali veri. La prima settimana non riceve né sapone, né asciugamano, tanto meno lamette, né altri generi di prima necessità. Contrae una infezione alla gamba, gli prescrivono una iniezione al giorno per dieci giorni, al sesto dei quali gli annunciano che il farmaco è terminato. “Allora portatemi in ospedale, io sto male”. “Tu da qui esci solo per tornare al tuo Paese” è la risposta. Ed è proprio ciò che tentano di fare. Dagli atti ufficiali risultano alcuni interrogatori senza interprete, con documenti da firmare scritti solo in italiano, violando il diritto di difesa. Il 15 settembre del 2009, durante un rito abbreviato per vagliare lo status di rifugiato, dalla trascrizione del colloquio emerge l'intento di fargli dire qualcosa che invalidi la domanda, che sarà infatti rigettata. Ibrahim ricorda che l'ispettore disse “non farti illusioni, noi siamo qui per mandarvi via”. Una sentenza già scritta. Devono rimpatriarlo, ma la sua ambasciata non lo riconosce, e al termine dei due mesi dovrà essere rimesso in libertà, con ordine perentorio di lasciare l'Italia entro cinque giorni, pena la reclusione, ma - questa è straordinaria - ha sessanta giorni per fare ricorso. Quando esce non gli viene consegnata la cartella clinica, che non si sappia la sua storia sanitaria nel Cie. Oggi Ibrahim attende una nuova udienza, che deciderà della sua vita e della sua famiglia. In alto e in basso: Foto di Umberto Fratini per PeaceReporter

per pagarsela, non è redditizio. In pratica, lo Stato liquida oltre un anno dopo l'onorario dei legali. Quindi, in alcuni Consigli dell'Ordine, le istanze vengono rigettate sistematicamente. Senza una valida motivazione. Violando l'articolo 24 della Costituzione che sancisce la garanzia di accesso alla giustizia anche ai non abbienti, garanzia che costituisce un diritto inviolabile, riconosciuto all'uomo in quanto tale a prescindere dal fatto che si tratti di una persona straniera o italiana e che sia in condizioni regolari o irregolari di soggiorno in Italia. Per il riconoscimento dello status di rifugiato, il migrante deve rivolgersi a un'apposita commissione territoriale. Se gli elementi a sostegno della sua richiesta non vengono ritenuti sufficienti, la domanda non viene accolta. Il richiedente ha la possibilità di ricorrere alla magistratura ordinaria tramite, appunto, il sostegno legale di un avvocato dello Stato. Gratuito, perchè non saprebbe come pagarselo altrimenti.

Ebbene, dal punto di visto del diritto, il Consiglio dell'Ordine di Trieste (ma secondo alcune segnalazioni ricevute da PeaceReporter, questo accade in altre città e in intere regioni) viola la Costituzione laddove lo stesso Consiglio "si attribuisce il potere di valutare pregiudizialmente la fondatezza dell'istanza di asilo... I Consigli possono elaborare al riguardo delle linee guida ad uso esclusivamente interno, ma non possono invadere la sfera tecnica di decisione sulla richiesta di asilo, affidata esclusivamente, secondo la legge vigente, alla commissione territoriale", secondo quanto spiegato da Fulvio Vassallo Paleologo, docente di Diritto privato e Diritto di asilo e statuto costituzionale dello straniero presso la Facoltà di giurisprudenza di Palermo, nonchè avvocato dell'Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione). Luca Galassi


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Rifugiati

I dannati della terra di Erminia Calabrese Abu Ahmad ha quaranta anni. Vive con sua moglie e i suoi quattro bambini in una piccola stanza presa in affitto a centocinquanta dollari al mese nella periferia sud di Beirut. Ha lasciato la sua città natale Nasriyya nel 2004, quando in Iraq diventava sempre più difficile trovare un lavoro e portare a casa un pezzo di pane per i suoi quattro figli. bu Ahmad adesso un lavoro lo ha trovato. Operaio saltuario, senza contratto, guadagna duecento dollari al mese lavorando dieci ore al giorno nelle lussuose costruzioni che sempre di più affollano il lungo mare di Beirut pronte ad accogliere il turismo dai Paesi del Golfo. Troppo pochi quei dieci dollari al giorno anche qui in Libano, troppo pochi per poter permettere a Ahmad, Omar, Mohammad, i suoi figli, di andare a scuola come tutti i bambini della loro età. È stanco Abu Ahmad mentre racconta la sua esperienza in un Paese che non gli ha ridato quei sogni distrutti nella sua terra natale dalla guerra e dall’occupazione: il sogno di avere una casa, di avere un piatto caldo ogni sera e di permettere ai suoi figli una vita dignitosa. “Appena arrivato a Beirut ho cominciato a vendere frutta e verdura nel campo di Shatila. Ogni giorno i vari responsabili del campo mi chiedevano circa tre dollari per poter stare lì. I miei figli sono a casa, non riesco a mandarli neanche nella scuola pubblica perché non posso pagare l’iscrizione, per farlo sto aspettando il sussidio che la Caritas mi ha promesso”. Anche per Omar, originario di Hafalat, nord dell’Iraq (Kurdistan), i primi anni in Libano sono stati difficili. In una piccola stanza divide la sua quotidianità con sua moglie Amal e suo figlio di soli due anni tra un lavoro precario e un proprietario che aumenta arbitrariamente l’affitto ogni mese. Un mese fa, Ayman suo figlio si è ammalato e Omar ha fatto il giro di tutti gli ospedali di Beirut, ma non ha trovato alcuna persona disposto a curarlo anche in quegli ospedali di beneficenza islamica dove tutti vengono chiamati fratelli. “Solo dopo qualche giorno quando ho deciso di rivolgermi alla stampa locale allora l’ospedale del magnate libanese Rafiq Hariri si è offerto di curare il piccolo Ayman“, ricorda Omar con le lacrime agli occhi. Un’altra storia quella di Faysal o almeno sembra. In Libano da tre anni, Faysal, venticinque anni, dimostra la maturità di un cinquantenne. Dopo aver speso questi anni tra lavori precari e l’arroganza della gente, adesso Faysal ha un solo sogno: quello di partire. In un paese come il Libano che non ha firmato la Convenzione di Ginevra, i rifugiati iracheni non avendo alcun riconoscimento ufficiale da parte delle autorità, vivono in una situazione di clandestinità perenne. Questo vuol dire fare meno spostamenti possibili e soprattutto evitare controlli della polizia. Questo vuol dire

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anche, lo ricorda Faysal, lavorare per un mese intero in un ristorante e non essere pagato perché tanto sanno che tu non potrai fare niente. Lina, responsabile dell’associazione Amel, ente appartenente a Unhcr che si occupa di offrire attività e corsi di formazione gratuiti per rifugiati iracheni, racconta che sono circa dieci mila i profughi iracheni iscritti nelle liste Unhcr e circa duecento quelli che frequentano i vari corsi nell’associazione Amel nella periferia sud di Beirut. La maggior parte di loro, spiega Lina, lavora come portiere, operaio o nei supermercati della periferia beirutina dove i controlli della polizia sono meno frequenti rispetto alla centralissima Beirut. La maggior parte di loro resta in Libano solo un paio di anni perché tutti appena arrivati depongono il dossier alle Nazione Unite e chiedono di partire per gli Stati uniti o per il Canada. Solo l’anno scorso circa tremila sono andati in America e quest’anno duemila. ltre alla difficoltà di trovare un lavoro e una casa si deve imparare a sfuggire alla polizia, racconta Ahmad, venticinque anni, che ha passato in prigione cinque mesi proprio perché non ha un permesso di soggiorno qui in Libano e “soltanto la cauzione pagata da un benefattore gli ha permesso di essere rilasciato perché soffre di diabete.” Lina spiega che “l’anno scorso sono circa cinquecento le persone che sono andate in prigione, e il compito dell’associazione è aiutarli ad uscire pagando una somma di denaro o facendogli avere un contratto di lavoro il che è molto difficile, infatti la maggior parte di loro viene rimpatriata.” La difficoltà di trovare una casa, una stanza dove dormire, accomuna la maggior parte dei rifugiati iracheni. “Gli affitti sono molto cari, e il proprietario di casa aumenta arbitrariamente perché sa che noi ne abbiamo bisogno. Hasan vive in una stanza di venti metri quadrati con altri quattro ragazzi della sua età, lavora in un supermercato per duecentocinquanta dollari al mese. Troppo cara, quindi, per chi riesce quando gli va bene a guadagnare duecentocinquanta dollari. Uno solo è il sogno che accomuna Abu Ahmad, Faysal, Ahmad e Hasan: quello di andare negli Stati Uniti. Inshallah, dicono sorridenti.

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In alto e in basso: Foto di Joshua Saele


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Richiedenti asilo

Richiedere asilo politico in Grecia: a bocca cucita di Margherita Dean “Già da bambino sognavo la Grecia attraverso i versi di Omero, leggevo Platone e Aristotele e credevo che qualcosa fosse rimasto di tanta storia. Sono deluso e adirato, questo Paese è un vero inferno per immigrati, profughi e rifugiati politici”; scrittore e ricercatore Massoud (Mass) Faramarzi-Khosravi ha cinquantuno anni e viene dall’Iran. “Dalla Persia”, mi corregge e beve un sorso d’acqua; ne beve tanta, soffrendo di reni massacrati da uno sciopero della fame durato trentadue giorni, conclusosi a metà novembre. uattro anni fa, quasi cinque, sono fuggito dalla Persia. Posso essere definito un dissidente ma la mia storia personale non ha rilievo, non quando fuggi dalla teocrazia e dall’illibertà, tanto deve bastare; è poi evidente che non volevo morire impiccato in qualche piazza di Teheran. Arrivato in Grecia, mi parve scontato richiedere asilo politico e, invece, finii immediatamente in prigione, appena varcati i confini con la Turchia’’. Un altro sorso d’acqua e Mass continua: “non avevo avvocato, finii sotto processo senza capirne il motivo, io il greco non lo parlo e nessuno si diede cura di informarmi circa le accuse a mio carico. A lungo sono entrato ed uscito di prigione. Intanto ero arrivato ad Atene ed insistevo perché fosse riconosciuto il diritto di ogni essere umano alla libertà e che questa fosse garantita da una democrazia. Al contrario, mi ritrovavo imprigionato in Grecia, privo di documenti che mi permettessero di viaggiare all’estero, anche se non ho mai pensato di fuggire da qui. Ogni sei mesi dovevo rinnovare il permesso temporaneo: era ormai chiaro che sarei rimasto nel limbo dell’incertezza per sempre, senza una risposta positiva o negativa alla mia domanda d’asilo’’. Fu così che il primo settembre scorso, un gruppo di cinquanta iraniani e Mass occuparono il piazzale del Rettorato dell’Università Nazionale di Atene, riparati dall’asilo universitario che l’Ateneo offrì loro a differenza del governo greco. Dopo un mese e mezzo di indifferenza governativa, gli iraniani cominciarono uno sciopero della fame, mentre sette di loro si cucirono la bocca. “È stato un mese di digiuno, mentre già al quarto giorno io, che sono quasi vecchio, mi sentivo male. Siamo stati spesso in ospedale, trasportati dalle ambulanze private, pagate da noi perché il governo non ci ha mandato neanche un medico. Poi un giorno, fummo avvisati che il Ministro della pubblica sicurezza avrebbe esaminato il nostro caso. Eravamo stremati, ci portarono al Ministero e fummo costretti a rimanervi fino a tarda notte, perché le nostre pratiche fossero studiate una per una. Alla fine tutti noi siamo stati riconosciuti rifugiati politici’’.

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Hanno vinto, eppure lo sguardo di Mass non è allegro: “È scandaloso, ricordo la Grecia come uno Stato che stava sempre dalla parte dei deboli. Ora, invece, il Primo Ministro Papandreou si fa fotografare con Ahmadinejad, riceve Netanyahu e in questi giorni Manouchehr Mottaki, il Ministro degli Esteri iraniano è ad Atene, strette di mano strane ed amicizie pericolose’’. l gruppo di iraniani, di cui Mass faceva parte, ha ottenuto l’asilo politico ma il piazzale del Rettorato non è rimasto vuoto: pochi giorni dopo il termine della campagna iraniana, le tende hanno nuovamente trovato spazio fra cespugli, statue e fontane. Questa volta sono afgani, ma anche loro, come i predecessori, chiedono asilo politico. I bambini la mattina vanno a scuola e poi tornano lì, dalle loro famiglie, dai loro papà che sorvegliano i bordi del piazzale, che scrivono lettere e volantini, che raccolgono firme e che, con infinita pazienza, ascoltano i passanti che, magari, dopo aver gettato uno sguardo frettoloso alle fotografie di guerra esposte, urlano: “tornatevene a casa”. “Questa è la nostra casa”, affermano: la maggior parte di loro vive in Grecia da anni e di andarsene non ci pensano neppure. “Noi vogliamo solo essere liberi, vivere normalmente, non chiediamo altro. Sappiamo dei problemi che attraversa il Paese, ma noi non chiediamo soldi, solo asilo politico, il diritto ad un documento d’identità per noi e per i nostri figli, che non debba essere rinnovato ogni sei mesi”. Gli afgani ora e gli iraniani prima, sono una piccolissima parte delle cinquantaduemila richieste di asilo che pendono innanzi alle autorità competenti. Unica - rimasta - porta d’entrata in Europa, il novanta percento dei migranti arrestati nel 2010, sono stati arrestati in Grecia, mentre ogni parvenza di politica migratoria è stata abbandonata nel consenziente silenzio dell’Ue.

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Foto di Simone Manzo per PeaceReporter


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Salute

L'invenzione della malattia di Roberto Satolli Come le case farmaceutiche creano patologie anche nelle persone sane. Parla Roberto Satolli, cardiologo e giornalista. “Il mio sogno è inventare farmaci per le persone sane”. Era questo, negli anni ‘70, l'auspicio di Gatsen, amministratore delegato della casa farmaceutica Merck. Oltre a essere un diritto, oggi la salute è diventato un settore economico di primaria importanza. la terza impresa del Paese, secondo i dati di Confindustria. E continua a crescere: è l'unico settore che cresce sempre a dispetto della crisi. L'insieme delle attività che gravitano intorno alla salute rappresenta il dieci-quindici percento del prodotto interno lordo dei Paesi occidentali. Curare i malati è un business troppo limitato perché l’industria farmaceutica possa accontentarsi. Per assicurare una continua crescita del mercato è necessario ridefinire i confini tra salute e malattia e abbassare le soglie d’intervento, in modo da allargare il dominio su cui si esercita l'azione della medicina, che negli ultimi decenni si è trasformata: da attività artigianale è diventata attività industriale. A capo della trasformazione le case farmaceutiche, nate a fine Ottocento dall'industria chimica. Hanno cominciato ad adottare strumenti di marketing, e ciò che noi chiamiamo disease mongering ('mercificazione, commercio della malattia', ndr) non è altro che il marketing dell'industria della salute. Perché il mercato potenziale si trasformi in fatturato occorre infatti condurre grandi campagne di sensibilizzazione, supportate dai media, sulle malattie e sui fattori di rischio, con l'obiettivo di convincere i cittadini della necessità di curarsi anche se si sentono in buona salute. Sono parecchi i casi, negli ultimi anni, di medicalizzazione forzata della società: dalla depressione alla menopausa, dal deficit di attenzione nei bambini all'ipertensione, dall'osteoporosi alla sindrome dell'intestino irritabile. Condizioni comuni e di scarsa rilevanza nella popolazione sono state trasformate in minacce per la salute pubblica. Ciò a cui alludeva l'amministratore delegato della Merck è proprio questo: creare farmaci per le persone sane significa proprio indurli a diventare consumatori a vita, cronicizzando le loro presunte malattie e di conseguenza l'assunzione di farmaci. Una volta c'erano le malattie acute, per cui uno si ammalava, per esempio di polmonite, e dopo guariva o moriva. Non andava avanti con la polmonite per decenni. L'antibiotico serviva per una settimana-dieci giorni e poi basta. All'epoca la struttura delle case farmaceutiche non era industriale, perché finché non si hanno consumatori costanti nel tempo non si può costruire una clientela su uno specifico farmaco. La prima invenzione necessaria al marketing dell'industria farmaceutica è stata la “cronicità”. Oggi le malattie sono tutte croniche. Questo in parte è dovuto al fatto che sono cambiate le malattie. Oggi si trattano e si concepiscono malattie cardio-

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vascolari, infarto, tumori e via dicendo in modo diverso rispetto al passato. Prendiamo l'infarto, per esempio. Si chiamava, e si chiama ancora, infarto miocardico acuto perché il paziente veniva colpito senza preavviso, stava in unità coronarica una settimana, in ospedale un mese, andava a casa, faceva la riabilitazione e l'evento era finito. Tutti i consumi di farmaci erano circoscritti a quel periodo. Oggi l'infarto è cronico: si comincia a curare ancor prima che venga, magari si cura chi l'infarto non lo avrà mai, con farmaci per il colesterolo, il diabete, la pressione, l'obesità. Poi, se l'infarto viene, si continua per anni a fare controlli, esami, e a dare farmaci per tutta la vita. Una malattia acuta è stata così concettualizzata come malattia cronica, che dura tutta la vita. È questo uno dei meccanismi per creare clienti potenziali. Anche la prevenzione della malattia in persone che sono in una 'condizione di rischio' è spesso superflua, perché vengono trattate persone che in realtà non ne avrebbero mai avuto bisogno. Ci si chiede: qual è il livello di colesterolo o di pressione che è opportuno trattare? Lo si abbassa ogni cinque-sei anni un pochino. E ogni volta che viene abbassato, i milioni di persone che devono prendere una pastiglia per tenere a bada il colesterolo o la pressione aumentano. Ogni volta che un panel, una commissione decide i nuovi standard, i giornali economici titolano: da domani non più quattordici milioni, ma ventotto milioni di americani dovranno assumere quei farmaci. E questo fa balzare subito i valori azionari di chi produce quei farmaci. Ma non sono solo i farmaci, bensì tutta la filiera collegata alla malattia: esami di controllo, interventi di tipo diagnostico, le apparecchiature come il pacemaker e via dicendo. n tutto questo i medici vivono un conflitto intrinseco. Che uno specialista di prostata cerchi più malati rappresenta un interesse personale diretto. Il moltiplicarsi delle prestazioni, l'allargarsi della medicalizzazione non può che essere utile allo specialista. Anche perché il meccanismo è diabolico: si trattano persone che potenzialmente potrebbero ammalarsi. Ma non si sa chi si ammalerà. Allora si ha l'impressione che la malattia di cui ci si occupa sia molto più diffusa, e si crea ciò che io chiamo il 'ciclo d'intervento crescente': faccio più esami, cerco sempre più - e sempre più anticipatamente - pazienti 'a rischio'. Convalido così quel circolo vizioso innescato dalle case farmaceutiche. A puro scopo di profitto.

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Portfolio

Un anno di storie Gli scatti dei reportage scelti dai fotografi che hanno collaborato con PeaceReporter



In copertina: Cava di Volujak. Qui nel 2005 gli uomini del Forensic Office Unmik hanno rinvenuto i resti di decine di cadaveri serbi. Klina, Kosovo. Foto di Gianluca Cecere. Foto centrale: Il campo profughi eritreo di Mai Aini accoglie piÚ di dodicimila rifugiati sotto il controllo dalla polizia etiope. Etiopia - Provincia del Tigray. Foto di Sergio Grande Da destra a sinistra in senso orario: 1) Un bambino in gravi condizioni di salute viene trasportato in ospedale dai genitori con l'unico mezzo di trasporto a loro disposizione, non avendo soldi per potersi permettere un'ambulanza. Cambogia - Battambang. Foto di Simone Manzo. 2) Quattro mesi dopo il terremoto del 12 gennaio 2010. Haiti - Port au Prince, quartiere di Coquillot. Foto di Mattia Velati. 3) Scorcio dell'ospedale di Emergency. Repubblica Centrafricana, Bangui. Foto di Massimo Colvagi. 4) La lotta per le risorse idriche ha quasi prosciugato il Giordano. Israele controlla l'ottanta percento delle risorse idriche. Valle del giordano. Foto di Massimo Valicchia. 5) Il treno tra Sarajevo e Belgrado è ritornato in funzione dopo diciotto anni di fermo a causa della guerra. Bosnia. Foto di Giuseppe Chiantera. Pagina successiva. Sopra: Ritratto di un transgender che abita nell'Atlante a 2500mt slm. Marocco. Foto di Achille Piotrowicz. Sotto: Prove per lo show del 50th Anniversary of the Nation. Nigeria - Abuja. Foto di Achille Piotrowicz.



Economia

Italia in via d’estinzione di Gloria Riva Le tigri asiatiche segnano crescite a doppia cifra. Le potenze europee, Germania in testa, hanno saldamente agganciato la ripresa. Rimangono al palo le piccole e medie imprese italiane, quelle che vengono definite la spina dorsale dell'economia del Bel Paese. Ne abbiamo parlato con Enzo Rullani. roppo piccole per competere con i colossi creati dalla globalizzazione sfrenata e ancora vincolate a un sistema di artigianato locale: l'economia italiana si affanna nel tentativo di trovare soluzioni. Enzo Rullani, docente di Economia della Conoscenza della Venice International University, attento conoscitore dei distretti industriali, che ha elaborato una teoria per mettere in salvo il patrimonio industriale delle Pmi e inserirlo nel circuito economico mondiale

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Il calabrone che, in barba alle regole della fisica, sapeva volare si schianterà al suolo? “Se le Pmi e i loro manager non cambieranno strategia è possibile. In Italia si combatte lo sviluppo economico delle potenze asiatiche cercando di ridurre gli stipendi dei lavoratori oppure teorizzando misure protezionistiche per impedire ai prodotti della Cina e dell'India di arrivare qui. Sono misure che possono servire per temporeggiare ma che in fin dei conti non risolvono proprio nulla. Il punto è che il nostro lavoro oggi è in diretta concorrenza con quello asiatico e se continueremo a fare le stesse cose la nostra sarà una battaglia persa in partenza. Perché loro possono permettersi salari più contenuti e noi saremo affossati da una spirale di redditi al ribasso”. Come si compete con le nuove potenze mondiali? “Si eliminano tutti quei tipi di produzione ormai ad appannaggio dei Paesi asiatici, quindi a basso contenuto innovativo. Per reagire si punta a raddoppiare o triplicare la produttività. Cioè bisogna aumentare il valore di ciascuna ora di lavoro. Si tratta di una strada non ancora imboccata, ma che nel 2011 dovrà per forza essere percorsa. Le parole chiave del 2011, per le economie che non hanno ancora agganciato la ripresa, saranno qualità, rete e capitale umano”. La parola qualità è piuttosto inflazionata e altrettanto vaga. Potrebbe spiegarsi meglio? “Oggi la gente non vive per soddisfare i bisogni primari, bensì per rispondere ai desideri. L'offerta è vastissima e risponde ai capricci dei propri clienti. Questo significa che le imprese devono stare nella testa dei loro clienti, mentre al momento gli imprenditori non hanno la benché minima idea di quello che chiede il mercato. Gli imprenditori devono imparare a produrre rispondendo alle richieste del consumatore, rendendosi riconoscibili attraverso un brand. Un po' come fanno gli stilisti di moda o come ha fatto Slow Food, promotore di

una linea di pensiero riconosciuta e ricercata dalla gente che da ricchezza a un'immensa filiera economica. Questo pensiero, ampiamente applicato nella moda e nel settore alimentare, sta iniziando a diffondersi nel settore edile, con sistemi di abitazione che rispondono agli stili di vita delle persone e deve diventare una linea guida per tutti i settori del manifatturiero”. Veniamo alla rete. Cos'è? “Sostanzialmente si tratta di superare l'individualismo che caratterizza i piccoli e medi imprenditori. Loro non sono più in concorrenza l'uno contro l'altro, ma devono imparare a collaborare, specializzarsi nella realizzazione di un particolare componente, un pezzo che andrà a comporre un prodotto più ampio da identificare sotto un marchio riconoscibile”. E il capitale umano? “Servono uomini che non siano dei semplici esecutori e l'Italia in questo senso è avvantaggiata. Il nostro è un Paese abituato a stare sull'orlo della crisi e grazie alla sua flessibilità mentale è capace di galleggiare e non affondare mai. La risorsa più importante in questo caso è l'intelligenza fluida dei suoi cittadini, anche se gli italiani peccano di individualismo e scarsa predisposizione alla formazione accademica, quindi sono incapaci di comunicare le proprie invenzioni al resto del mondo”. Quindi nel futuro sarà sempre più importante investire sulle conoscenze e sulla formazione? “Lo sarà, ma investirci non conviene alle imprese. Chi è quell'imprenditore che investe denaro nella formazione di un dipendente quando sa che da un giorno all'altro se ne potrebbe andare altrove? Un folle, molto probabilmente. Per questo nel futuro i contratti di lavoro saranno stipulati per periodi compresi tra i cinque e i dieci anni con vincoli di partnership, assicurando all'imprenditore di poter sfruttare la risorsa che ha formato e al dipendente di vedere ripagati i propri sforzi”. Ciò significa, secondo lei, che i contratti nazionali di lavoro non avranno più motivo di esistere? “Sono categorie frutto del fordismo che non rispondo alle nuove dinamiche del mercato. Il lavoratore verrà pagato non in base alla sua categoria e al livello, ma a seconda delle competenze professionali, in tutti i campi e in tutti i settori. Anche il capitale umano sarà soggetto a investimento a tempo e il contratto di lavoro non sarà più un matrimonio fra le parti, finché morte non li separi”. 17


Sicurezza

Denaro letale di Alessandro Grandi Quanto è importante oggi sentirsi sicuri e “vedere” che la sicurezza è presente nella nostra società? Il commento di Umberto Galimberti, filosofo del nostro tempo. latone racconta che un giorno Zeus incaricò Epimeteo di rifornire tutti i viventi di una qualche capacità, in modo che potessero provvedere alla loro vita. Epimeteo si trovò a mani vuote perché pur non pensandoci, aveva già dato a tutti i viventi le virtù di cui disponeva e non gliene restava più alcuna da distribuire all’uomo. In quell’occasione Zeus si impietosì e chiamo il fratello di Epimeteo, Prometeo, incaricandolo di dare agli uomini la sua virtù: quella di “prevedere” e “provvedere” al proprio futuro. Per capirci: mentre gli animali mangiano quando hanno fame, gli uomini sono affamati anche della “fame futura”. Ed è proprio grazie a quest’ultima che gli uomini iniziarono a progredire, a coltivare la terra, così come ad allevare gli animali o a formare piccole comunità. In questo modo, ciascuno poteva fidarsi dell’altro e uniti difendere meglio i beni acquisiti, in modo da garantire una certa sicurezza alla propria vita. Per questo gli uomini costruirono città difese da mura e si inventarono degli accordi che chiamarono “leggi”, capaci di regolare i rapporti fra i membri della comunità cosicché tutti fossero garantiti e sicuri. Fu un processo lungo durante il quale l’umanità apprese che se voleva evitare la guerra, una sequenza infinita di vendette, era meglio che ciascun individuo consegnasse una parte della sua libertà a quell’entità che poi si sarebbe chiamata “Stato”. E quale era l’obiettivo dello Stato? Garantire la sicurezza dell’individuo che a sua volta, però, in parte limita l’esercizio della sua libertà. La sicurezza infatti ha un costo in termini di libertà individuale. Senza dubbio con il passare dei secoli e l’aumentare della ricchezza si è creato un cortocircuito per cui c’è stato sempre più bisogno di sicurezza e di conseguenza una sempre maggiore limitazione della libertà. A tutto questo si deve sommare l’insicurezza che è stata generata dal terrorismo. La strategia del terrore ha aggiunto non un pericolo determinato ma la pericolosità. Una minaccia non identificabile e per questa ragione potenzialmente incombente in qualsiasi luogo. Una minaccia che ci attanaglia in quei non luoghi che sono tutti i luoghi”.

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Insomma si diffonde l’idea che un fatto può accadere, in questo o in quel luogo, in qualsiasi ora del giorno o della notte. Questo crea paura e per questo c’è più bisogno di “vedere” sicurezza? Noi chiamiamo paura ciò che forse è angoscia. La paura è un ottimo meccanismo di difesa. Davanti a un pericolo determinato si adottano strategie 18

come la fuga. L’angoscia è una cosa diversa. È un sentimento che insorge davanti all’indeterminatezza di una minaccia, davanti a una cosa non identificabile. Però percepita come una cosa che prima o poi potrebbe accadere. E poi c’è una cosa importante da dire: dall’angoscia non ci si può proprio difendere. Quindi i comportamenti sociali rispetto a ciò che può accadere sono comprensibili? Dopo la guerra in Iraq anche in molti cittadini italiani si è diffusa l’angoscia. Questo l’ha rivelato il comportamento della società. Credo l’abbiano notata tutti una certa inquietudine nello scendere in metropolitana oppure salire su un aereo. Addirittura si tendeva a disertare luoghi molto affollati. Più si percepisce angoscia più ci si difende? Più che altro si è elevata la soglia di vigilanza. Siamo diventati tutti più guardinghi. Il luogo pubblico, una volta vero centro di aggregazione sociale, si trasforma quasi in luogo di pericolo. Mentre ciò che si conosce bene, come l’ambiente familiare, è senza dubbio la “sicurezza”. Insomma, a casa ci si fida. Fuori si diffida. E così il sociale collassa. Il concetto è semplice. Prima di un disastro terroristico avremo creato una società così poco solidale e fiduciaria che alla lunga finirà con l’essere il vero disastro senza sangue. È vero: in questo modo ci libereremo dell’angoscia e ci resterà la paura. Nel nostro caso la paura del terrorismo. In qualche modo la globalizzazione crea insicurezza quindi? Nelle nostre città circola la paura. Una paura semplice come quella di prendere la metropolitana la sera, quella che non ci fa uscire la notte o quella che ci impedisce di prelevare al bancomat per il timore che possa capitare qualcosa. O ancora, quella che ti fa guardare con sospetto il prossimo. Questi comportamenti sono dettati dalla sensazione del sentirsi minacciati. Come dice Giuseppe De Rita “l’emozione che supera la realtà”. Siamo più emotivi perché più liberi e più ricchi. Nel Nord-est ricco c’è la paura della criminalità. Nel sud del Paese meno. A mio parere alla base di tutto questo c’è sempre il denaro. Non tanto nel senso che i ricchi hanno paura di perderlo e i poveri no. Ma nel senso che dove comanda il denaro, il territorio rischia di sciogliersi, di sfaldarsi. Questo non perché in molte aree del Paese sono arrivati gli stranieri ma perché il risvolto negativo della globalizzazione economica è la de-territorializzazione umana. Di questo abbiamo paura. Illustrazione di Alex Andreyev


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Mafia

Organizatsya Di Alberto Tundo Quella che per Der Spiegel è “la nuova grande preoccupazione delle diplomazia americana”, viene dall'est, è molto potente, spietata e in piena espansione: la mafia russa. Nell'ultima infornata di cablogrammi Usa, diffusi da Wikileaks, ci sono i memo spediti dalle sedi diplomatiche Usa di Mosca, Kiev e Madrid. n triangolo i cui vertici coincidono con i pilastri della strategia dell'organizzazione criminale: la Russia, la madrepatria; l'Ucraina, il centro nevralgico del lucroso business del gas; la Spagna, ovvero l'Occidente, in cui enormi capitali vengono riciclati e rinvestiti per aumentare ulteriormente il potere dei padrini russi. Peacereporter ha riletto questi file chiedendo aiuto a uno dei maggiori esperti mondiali di mafia russa, Joseph D. Serio, autore di Investigating the Russian Maphia, consulente (unico americano) del Dipartimento Anticrimine della polizia sovietica, studioso che ha raccontato i segreti della mala russa sulle maggiori testate internazionali, dalla Bbc al New York Times.

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"La cosiddetta mafia russa è un'organizzazione criminale fluida, non strutturata né gerarchica, e soprattutto è mobile, i suoi affari li fa in tutto il mondo", spiega Serio. Come tutti i gruppi criminali, è attiva nel traffico di droga, armi ed essere umani, nella prostituzione e nell'estorsione. "Ma queste attività per loro non sono nulla, portano spiccioli: i soldi, quelli veri, - spiega l'esperto - li fanno con la corruzione, la frode, comprando banche, partecipando ai business di stato". È questa compenetrazione tra strutture politiche, economiche e mafiose il vero marchio del "caso russo". Un'alleanza tra gangster, boiardi di stato e militari che ai tempi dell'Urss serviva, attraverso il contrabbando, a fare entrare nel Paese valuta pesante, ma che si è rivelata decisiva nei primi anni Novanta, con l'inizio delle privatizzazioni, del passaggio all'economia di mercato e del saccheggio delle proprietà di stato, che di fatto possedeva tutto. "In questo momento, però, sta avvenendo una cosa particolarmente preoccupante: il salto di numerosi boss di primo piano in politica e in settori strategici dell'economia nazionale", spiega lo studioso, che però rifiuta di fare nomi: l'argomento è too sensitive, pericoloso. Qualche nome però lo si ricava dai documenti classificati. Nel cablogramma classificato 08KYIV2294, l'ambasciatore Usa in Ucraina, William Taylor dà conto di un suo incontro con Dmitry Firtash, uno dei più potenti oligarchi ucraini, anche lui ex militare datosi al business. È il 21 novembre 2008, Firtash sta mettendo le mani su una delle banche private ucraine più importanti, la Nadra Bank. Con una società del suo DF Group, possiede già il 45 percento di RusUkrEnergo (l'altrà metà delle quote è in mano a Gazprom), la società mediatrice tra il colosso russo e la statale Naftogaz. Firtash è lì per lucidare la sua immagine ma a Washington sanno chi è; lui stesso 20

ammette di essere un prestanome di Semyon Mogilevich, “un boss di grosso calibro, parte di uno dei clan più potenti, la Solntsevskaya bratva racconta Serio - non il boss dei boss come scrive la stampa, perché questa figura non esiste nella mafia russa, ma comunque un personaggio molto potente”. È lui il vero beneficiario delle provvigioni milionarie intascate da RosUkrEnergo per le contrattazioni sulle forniture di gas. Gli idrocarburi sono una delle chiavi della potenza di questa mafia, non l'unica. “Esercita un controllo tremendo su settori strategici dell'economia globale, come nella produzione di alluminio”, confida il procuratore nazionale Jose Grinda Gonzales all'ambasciatore Usa in Spagna, che riferisce a Washington nel cablogramma 10MADRID104. a Spagna è l'eldorado del riciclaggio della mala russa, che qui rinveste e fa crescere la sua potenza economica. I cablogrammi Usa riassumono quattro anni di indagini e due megaoperazioni, Troika e Avispa, con arresti eclatanti. Sfugge alla polizia, nel 2008, Vladislav Reznik, il presidente del comitato finanziario della Duma, accusato di riciclaggio e ritenuto membro del clan di Tambov (09MADRID869). Altri due mafiosi di primo piano, Zakhar Kalashov e Tariel Oniani figurano tra i consulenti di Lukoil quando questa tentò di assicurarsi il trenta percento della spagnola Repsol. C'è di più, però: le autorità spagnole riferiscono di duecentotrenta intercettazioni “da far rizzare i capelli in testa”, per il peso e l'importanza degli interlocutori: seguendo i boss, si arriverebbe al Cremlino. Questa sovrapposizione tra potere politico e criminale unite alle immense ricchezze e alle risorse di cui dispone la Russia, una potenza nucleare, è ciò che preoccupa gli Stati Uniti. L'esperto racconta un paio di aneddoti illuminanti: “Quando vivevo in Russia, da Atlanta mi venne chiesto di verificare le voci secondo le quali i russi stessero vendendo una portaerei a privati. Attraverso un mio contatto nell'ex Kgb, ottenni un incontro con un uomo, chiamiamolo Mr Big, che era in grado di vendere tutto. Mi disse che se volevo una portaerei, non c'erano problemi. Poco dopo è diventato vicepremier e quella portaerei è stata venduta da qualche parte in Asia”. Serio racconta anche la storia di un russo residente a Miami, noto come Tarzan, che ha aiutato un cartello colombiano ad acquistare un sottomarino per fare arrivare la droga sulla West Coast. “Qui non è più una questione di mafia, è tutta la situazione che è pazzesca”.

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In alto: Foto di Martin Griffiths. In basso: Foto archivio PeaceReporter


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Scuola

Gelmini 3 volte P di Massimo Zucchetti Lo si sentiva nell’aria. Dopo gli ospedali trasformati in aziende ospedaliere, sarebbe toccato alle università trasformarsi in “aziende universitarie”. Abolite come luogo di pensiero e formazione di esseri culturali e pensanti, sterilizzate e trasformate in esamifici pre-aziendali o muti orti solinghi baronali, in Cepu del Cepu. inalmente il covo dei cattivi maestri e degli studenti protestatari sarebbe stato castrato: un bel tassello nel disegno generale che mira a ignorantizzare l’Italia per mantenerla per sempre elettrice dei Berlusconi e ammiratrice dei Marchionne. Ma qualcosa è andato storto, i moscerini drosophila melanogaster oggetto dell’esperimento si sono inopinatamente ribellati, coinvolgendo e travolgendo, e diventando esattamente quello che si voleva evitare diventassero: una nuova generazione di giovani adulti pensanti, critici e ribelli, responsabili e informati. E non solo studenti preoccupati del loro futuro, studenti privi di mezzi o fuori sede, vittime future dei tagli alle borse di studio, studenti coscienti che si oppongono allo smantellamento dell’Università pubblica. Ci sono anche i Precari della Ricerca: sessantamila persone che vivono con contratti rinnovati di anno in anno, per dieci-quindici anni, e che spesso si trovano a quaranta anni a dover cercare un lavoro fuori dall’università, senza nessuna valorizzazione del lavoro svolto. E poi si sono mobilitati anche i Ricercatori universitari, circa venticinquemila, quelli che hanno già “il posto fisso”. Non hanno nessun obbligo di farlo, sarebbero pagati per fare solo ricerca, ma lo fanno ugualmente, con uno stipendio iniziale di milletrecento euro mensili. Hanno protestato attivamente anche alcuni Professori Associati e Ordinari. Ci sono infatti professori di ruolo di questa Università che non si sentono “baroni”. Quelli ormai all’apice o a buon punto della loro carriera, ma che non mirano ad ottenere micro o macro posizioni di potere con imbarazzanti e tardivi atti di meretricio verso l’attuale casta baronale. Forse proprio da loro, nel novero dei quali il sottoscritto immodestamente si pone, occorreva aspettarsi una vera e propria insorgenza, forse proprio una classe docente responsabile e sostanzialmente garantita doveva porsi alla testa della protesta. Forse il fatto che ciò non sia successo è la principale nota stonata degli eventi di questi mesi. Tempo fa il Presidente del Consiglio aveva ridicolmente detto di voler riformare la Scuola media sulla base delle "tre i": inglese, internet, impresa. Ora, scimmiottandolo penosamente, per l’Università si è architettata una controriforma basata su una sola "i": imprenditorializzazione. Bisogna cioè implementare i principi dell' “Impresa” con la I maiuscola in questo covo di inefficienti fannulloni di sinistra. Un metodo che si basa sulle "tre p": Privatizzazione dell'Università. Estinzione progressiva dei finanziamenti pubblici, sopravvivenza di quei soli settori del sapere interessanti e contigui ai confindustriali, strozzamento degli altri retrocedendoli a superscuole medie, quiete e mediocri. Grande spazio all’università privata, compresa quella su internet dei propri amici e sodali. Immancabile risultato: trasformare l’università italiana nell’Istituto Parificato “tre anni in uno, basta che paghi”. Precarizzazione, come nell'industria, dei ricercatori. Abolita ogni garanzia per il giovane che nonostante tutto affronta la carriera universitaria, che si trova davanti periodi lunghissimi di precariato privo di diritti e la prospettiva di essere ostaggio, per riuscire a entrare, di un sistema baronale degno di periodi bui e sepolti dalla storia.

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Prostitutizzazione degli Organi di Governo dell'Università, mettendoli in mano e in balìa di membri esterni ad essa e abolendo ogni democrazia interna agli Atenei. Potere al Rettore e al Consiglio di Amministrazione, Nomina Regia, individui esterni nominati grazie a non si sa quali entrature che si baloccano con l’università in attesa di posti e prebende più interessanti. L’Università come girone di consolazione dei boiardi e industrialotti delusi, che almeno potranno magari nominare “docente” i più intromboniti e impresentabili fra di loro. Ora, se l’Università deve conservare un ruolo non soltanto di luogo di trasferimento di nozioni, ma anche di cultura e formazione, ognun sa e capisce che deve restare Pubblica. E che la legge darwiniana della jungla basata sul mors tua vita mea del libero mercato non va applicata sperabilmente ad alcun aspetto dei rapporti umani e sociali, meno che mai alla Cultura, alla Ricerca, all'Insegnamento ai nostri giovani. Non vogliamo l'industria privata al governo dell'Università, nelle persone dei nipotini sciocchi e frustrati del signor Marchionne. , nel frattempo, davanti a tutto ciò, che dicono i veri baroni universitari? I “mandanti” di questa mobilitazione, secondo il Ministro Gelmini, coloro che sarebbero veramente interessati al mantenimento dello status quo? Nessuno li ha visti, nessuno ne ha sentito la voce. Se non la stentorea voce della Crui (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane), che si è appiattita recentemente su posizioni di sostanziale appoggio alla controriforma Gelmini. Le prospettive potrebbero non essere così deprimenti. La frittata è ormai fatta: una nuova stagione di pensieri ed azioni è stata innescata e nessuno la potrà fermare. I ragazzi e i precari che manifestano oggi costituiranno l’ossatura della nuova Università di domani, sperabilmente senza seguire la misera deriva di alcuni sessantottini, ieri contestatori e oggi architravi del sistema. Hai il tuo decretino approvato, ministro Maria Stella, ma ti chiederebbe Bob Dylan: “How does it feel, to be on your own”? Ti ho pensato, qualche volta, quasi con empatia: quanto auto-inganno e rimozione psicologica occorre avere per propugnare una legge fra l’esecrazione quasi generale di tutti coloro che ne verrebbero normati? Ancora il 21 dicembre, alla vigilia del piccolo golpe prenatalizio dove avrà il disegno approvato, dice Gelmini in un intervista a “La Stampa” che “il tempo sarà galantuomo e la riforma verrà apprezzata”. Forse proprio perché il concetto di “galantuomo” della signora Gelmini è notoriamente così peculiare, esprimiamo invece la certezza che questa controriforma, che probabilmente mai verrà messa in pratica, sarà sepolta nel tempo come un curioso accidente della storia, esempio di perniciosa coniugazione di naiveté e supponenza, al di là dei vizi evidenti che abbiamo elencato prima, e che la fanno inapprovabile e inemendabile. La pattumiera, nella storia dei tentativi di riforma dell’Università italiana, è molto ampia: avanti c’è posto.

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In alto e in basso: Foto di Martina Cirese


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Lavoro/1

Lavoro, il futuro fa paura di Christian Elia Luciano Gallino, classe ‘27, è una delle voci italiane più lucide quando si tratta di mondo del lavoro, declinato in tutte le sue espressioni, giuridiche, economiche e sociali. Scrittore, docente universitario, sociologo, ha raccontato come nessun altro le trasformazioni del nostro Paese

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ollabora con le principali testate italiane e, al lavoro accademico e di ricerca, affianca dal 2007 la direzione del Centro online Storia e Cultura dell'Industria.

Il 2010 si chiude con il processo Thyssen. Per le sette vittime della strage del dicembre 2007 la procura di Torino ha chiesto pene severe per i responsabili dell'azienda, mentre questa - per la prima volta - viene chiamata in causa come persona giuridica. Si apre una nuova stagione della giurisprudenza del lavoro? È naturale che questo dipenderà molto da come la Corte accoglierà o meno, nella sentenza, le richieste dell'accusa. Di sicuro, però, si può dire che gli argomenti portati dall'accusa innalzano di parecchio il livello della cosiddetta responsabilità sociale dell'impresa. Fino a oggi, in questo campo, c'era molta enfasi e molta retorica, ma pochi fatti. Se anche la sentenza non accogliesse in pieno le richieste dell'accusa, si darebbe una pesante rilevanza penale a certi temi, cambiando per forza di cose tanti aspetti della responsabilità d'impresa. In questo processo sono stati chiamati direttamente in causa coloro che avrebbero dovuto disporre misure di sicurezza e non lo hanno fatto. Casi come quello della Thyssen, in Italia e all'estero, sono migliaia e migliaia. Qualcosa, al di là della sentenza, cambierebbe. Un buon numero di dirigenti e imprenditori dovrebbero badare con maggior attenzione ai dispositivi e alla normativa sulla sicurezza e a tutto quanto ruota intorno alla salute sui luoghi di lavoro. Rispetto al 2011, crede che la crisi economica internazionale abbia dispiegato in pieno i suoi effetti sociali o no? La crisi non è nemmeno a metà. La situazione nel campo del lavoro, dell'occupazione, dei salari diventerà ancora più drammatica. Le aziende razionalizzano, riducono il personale, tendono a ridurre il numero di occupati per il calo delle richieste del mercato. E i mercati sono statici, basti pensare a cosa succede nel campo dell'automobile, la situazione soprattutto nel campo occupazionale tenderà a essere molto pesante. Credo che ne avremo ancora per alcuni anni. Urgono quindi iniziative di politica economica e industriale ben più incisive di quelle fin ora concepite, anche perché la portata del fenomeno mi pare ancora largamente 24

sottovalutata. Crede che siamo alla vigilia dell'anno di 'Marchionne' a livello di relazioni industriali? Quando una persona è presa per fame, ha poche scelte. Finisce con l'accettare tutto. I piani di Sergio Marchionne e della Fiat sono tutti impostati sul modello statunitense dei rapporti di lavoro. Dove le normative sul lavoro, sui diritti dei lavoratori e sulle libertà sindacali sono molto più arretrate di quelle europee. È chiaro il tentativo di portare quella cultura del lavoro da queste parti. Considerando la grave situazione economica e occupazionale, non si può escludere che questo processo passi. Spero almeno che non la si presenti come una modernizzazione, perché è invece un grande passo indietro, verso un Paese come gli Stati Uniti d'America, dove la legislazione sul lavoro è molto più arretrata che in Europa. L'anno nuovo riserva ancora spazi di manovra per la protesta? La crisi fungerà da collante tra settori della società differenti, ma uniti dalla difesa dei diritti? Una novità sociale che si osserva in tutta Europa è che vari strati della popolazione protestano contro i tagli allo stato sociale e contro la disoccupazione. La rabbia nasce a causa delle restrizioni che larghe parti della popolazione si trovano a pagare a causa delle scelte avventuristiche delle grandi banche. Hanno giocato al casinò, negli ultimo dieci anni, sulla pelle di coloro che oggi ne pagano le conseguenze. Mentre da una parte gli operai sono ridotti in una situazione senza alternative, non tanto per ragioni economiche ma quanto per ragioni politiche che li hanno chiusi in un angolo, dall'altra parte la protesta si allarga. Si vedono per strada i ragazzi di diciotto anni e uomini e donne di cinquanta anni. Gli insegnanti e gli operai, i medici e gli studenti. Non è detto, quindi, che il 2011 non riservi delle sorprese, magari interessanti. Tutti i governi europei, fermi su scelte di impronta ultraliberale, hanno sottovalutato la protesta sociale. Che sta montando. Illustrazione di Dina Haddadin


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Lavoro/2

Morire di lavoro di Christian Elia

Il 2010 si chiude, ancora una volta, con l'aumento del numero delle vittime sul posto di lavoro. Le chiamano “morti bianche”, ma di innocente non hanno nulla. Metalmeccanico in pensione, Carlo Soricelli conosce bene il mondo della fabbrica. a sua era uguale a quella della Thyssen, a Torino, dove hanno perso la vita sette operai tre anni fa. Colpito dalla tragedia, Carlo ha dedicato a quei morti il suo blog: cadutisullavoro.blogspot.com, che monitora giorno per giorno dal 1 gennaio 2008 tutti gli incidenti sul posto di lavoro che costano la vita a qualcuno. In Italia lo fa solo l'Inail, l'Istituto Nazionale per l'Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro, ma lavorando su dati di un anno e mezzo prima.

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Il 2010 sta finendo. Com'è andata, quest'anno, rispetto alle vittime sul posto di lavoro. Sto terminando, proprio in queste ore, il report del 2010. A oggi (16 dicembre 2010) i morti sono 561. Se si aggiungono i lavoratori morti in itinere, cioè mentre si recano o ritornano al posto di lavoro, o che lavorano sulle strade come gli agenti di commercio, gli autisti e altri, si raggiungono già 1040 vittime. Rispetto all'anno scorso registriamo un aumento del 3,6 percento sullo stesso periodo del 2009. Il mese del 2010 in cui ci sono state più vittime è luglio con sessantacinque morti, seguito da giugno e settembre con cinquantanove vittime. Gli agricoltori muoiono quasi tutti in tarda età (dai sessanta ai novanta anni) schiacciati dai trattori che guidano: gli agricoltori ( e gli edili) muoiono di più dopo un periodo persistente di mal tempo a causa del tentativo di recuperare i lavori rimasti indietro. In edilizia muoiono soprattutto edili meridionali e stranieri, anche nelle regioni del nord. A morire nei cantieri sono edili di piccole e piccolissime aziende che lavorano in ristrutturazioni o in subappalto. I lavoratori in questo comparto lavorano in condizioni di sicurezza scarse o inesistenti e questo anche perché spesso sono precari o con contratti di lavoro senza tutele e che di conseguenza subiscono in silenzio anche la mancanza di sicurezza. Nell’industria le vittime sono aumentate di oltre il trenta percento, occorre però dire che il 2010 è stato caratterizzato da una grande crisi che ha dimezzato le ore lavorate. Anche nell’industria le vittime sono soprattutto lavoratori di piccole realtà. Nelle grandi aziende, quelle più sindacalizzate, muoiono pochissimi lavoratori. Le province con più vittime sono quelle di Bolzano con ventuno vittime, Brescia venti, seguite da Milano e Roma con diciotto. Le regioni con più vittime, in rapporto al numero di abitanti, sono il Trentino Alto Adige con trentadue vittime, seguita dal Veneto con cinquataquattro e dalla Lombardia con settantasei. I settori con più vittime, dal 1 gennaio 2010, sono quelli dell'agricoltura (trentuno percento) e l'edilizia (ventinove percento). 26

Dati terribili, in aumento. Il governo italiano come ha risposto a questa vera e propria emergenza? Oltre allo spot del ministero che invita gli operai a volersi bene e a stare attenti. Per quanto riguarda gli spot del governo e non solo, posso dirle che ho dato i miei dati ad osservatori e ad aziende che lavorano nel settore, che poi, come appare in questi giorni, hanno utilizzato il mio lavoro volontario, oltre che per interessi aziendali anche per ‘tirare’ addosso ai lavoratori che non indossano le protezioni, come se fossero loro gli ‘autocarnefici’ e non le aziende che non glieli danno o impongono. Il ministro Sacconi, poi, neanche vede il problema. Le vittime sono aumentate anche perché proprio lui ha tolto 'peso politico' alle norme di sicurezza sul lavoro. Quanto spazio trovano, nei media e nel dibattito politico, questi temi? Nessuno, assolutamente nessuno. I giornalisti ignorano i numeri. Solo quando c'è una tragedia di grandi proporzioni, come quella della Thyssen, parte un'enfasi che dura un attimo, prima che torni il silenzio. Diventa una notizia solo se ha dimensioni tali da creare l'interesse da evento. Ma lo stillicidio quotidiano, la negligenza della politica di sicurezza a livello aziendale e istituzionale, non interessa nessuno. Ed è un errore grave, perché con un lavoro sistematico - che riesco a fare grazie all'aiuto di mio figlio - si potrebbe fare tantissimo. È possibile prevedere quando ci sono i ‘picchi’, soprattutto in agricoltura e in edilizia, ma alla nostra classe dirigente di queste morti e delle possibile soluzioni non interessa niente. Solo il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, si è congratulato per questo mio lavoro volontario scrivendomi una lettera personale d'apprezzamento. Nella sua esperienza, rispetto al 2011, cosa si potrebbe fare? Combattere la precarietà, in primo luogo. Più il lavoratore è debole, più elevate sono le cifre delle vittime. I migranti, anche quelli meridionali, rappresentano il numero più alto di vittime. Senza contare quelle che non conosciamo. Le prove, per ovvi motivi, non ci sono. Ma secondo i trend e le analisi, in un mondo di subappalti continui, è assai improbabile che non ci siano vittime delle quali non si viene a sapere nulla. Illustrazione di Dina Haddadin


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Cultura

C'è del marcio in Italia di Antonio Marafioti Quello di Elio De Capitani per il teatro non è solo un vizio, è soprattutto un amore puro e forte. Poco prima di incontrarlo all'Elfo-Puccini di Milano è ancora in scena. Lo scrosciare di applausi che, sempre più incalzante, giunge dalla sala Fassbinder diretto al foyer del teatro, ci avvisa che l'attore-regista arriverà di lì a poco. i va bene se conversiamo al bar mentre mangio un panino? Tra un po' torno in scena”. La prima domanda la fa lui. Le altre sono solo risposte, sullo stato della cultura e dell'arte in Italia. La versatilità del suo talento ci porta a quasi un'ora di intervista in cui, sport a parte, affrontiamo tutti i temi correlati alla cultura italiana.

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Apriamo con Shakespeare. Nell'Amleto, Marcello sosteneva: “C'è qualcosa di marcio in Danimarca”. E in Italia? È così o siamo ancora il Paese della cultura? L'Italia è marcia dal '500. Non possiamo prendercela soltanto con gli ultimi anni. Mentre in Germania i contadini imparavano a leggere la bibbia tradotta da Lutero, la Chiesa, in Italia, decideva che si dovevano apprendere le storie sacre guardando dei bellissimi quadri. Da lì alla televisione il passo non è breve, ma il collegamento è immediato. Non è tanto il discorso delle televisioni, ma è proprio l'avvento di un modo particolare di fare televisione che, di fatto, è quello che promuove una cultura generale dell'ignoranza e il diritto dell'ignorante di sentirsi finalmente in democrazia, rappresentato in quanto tale e senza aver bisogno di imparare. Nel 1973 Pier Paolo Pasolini incolpava la televisione di imporre un modello edonistico neo-laico dimentico di ogni valore umanistico. Sono questi modelli ad abbruttire un popolo? La televisione contro cui si scagliava Pasolini adesso viene presa a modello di “bella televisione di una volta”. Lì c'è l'ambiguità di fondo. Pasolini era molto lucido: quando gli chiedevano di dire certe cose in televisione, lui rispondeva che non l'avrebbe fatto perché in quella sede sarebbe stata una violenza nei confronti del pubblico. Apriva dei varchi nell'idea di essere in un mezzo di comunicazione di massa che alterava di per sé, e in un certo senso anticipava, l'idea che il mezzo è il messaggio e, quindi, se sei lì dentro fai parte di quel messaggio. Io credo che il punto non sia tanto la televisione: la stupidità e la trivialità ci sono sempre state. Ma in questo Paese è molto facile incolpare la televisione di tutto. Può essere facile ma il problema rimane. Non è la volgarità, ma è la mancanza di una sua alternativa. Perché non ci sono più prodotti come Studio Uno, le regie di Antonello Falqui, e Mina che intervistava i più grandi attori italiani? Perché non erano ancora prodotti. Erano fatti a mano e non dipendevano dalla pubblicità. Il committente era il pubblico. Il direttore della Rai interpretava come portare uno spettacolo, che era proprio del teatro, in Tv. Quello che ti affascina non sta nel fatto che quei programmi fossero più belli, anche oggi si può fare varietà benissimo, era piuttosto il trasferimento di gente di teatro sul piccolo schermo. Oggi è la stupidità dei funzionari che plasma gli spettacoli su 28

una presunta ignoranza immutabile del pubblico. C'è il terrore di farlo pensare. La cosa che dicono tutti è “questo la gente non lo capisce, qui bisogna stare a livello della gente”. La televisione si può fare bene, ma non si fa perché il Paese, come ti ho detto, è malato dal '500. Lei va fiero di aver ricoperto tutte le mansioni a teatro: da facchino a regista. Oggi si rifiuta la gavetta e si punta sui talent show. Un artista può formarsi così? Hai presente “Taxi Driver”? Inizia con questa frase: “In ogni strada di questo paese c'è un nessuno che sogna di diventare qualcuno”. Il fenomeno della visibilità non riguarda la creazione artistica, la scorciatoia c'è sempre stata, ma i giovani che vogliono fare teatro in modo serio ci sono. Quest'anno abbiamo diciotto nuovi attori che, scelti anonimamente fra quattrocento artisti, si sottopongono a discipline durissime con paghe che, in due mesi, sono pari a quelle che si guadagnano in televisione in un giorno. C'è gente convinta che fare qualcosa della propria vita implichi battere tutti i percorsi, altri, al contrario, pensano che sia fondamentale apparire in televisione per esistere davvero. Chi fa teatro oggi deve avere una forma di rettitudine rispetto al suo essere: così si è veramente rivoluzionari. Quello che conta è il tuo rapporto con il pubblico che è lontano dai grandi numeri di tv e cinema, ma è un rapporto vero. Il movimento nello spazio reale ha una qualità di esperienza e di significato per l'esistenza che non è fungibile dalla visione virtuale. Questo è il teatro. Non è apparire ma essere, per forza. La cosa più finta del mondo che, paradossalmente, diventa la più vera. Che anno sarà il 2011 per la cultura italiana? Siamo già messi male, perché sulle istituzioni culturali si sono già tagliati i fondi e, per di più, a fine anno. Le strutture non fanno in tempo a risanarsi che le si condanna perché sono in passivo, accusando di inefficienza le persone che le gestiscono. Presto non servirà più un'aggressione alle strutture, basterà mandargli la Finanza per farle chiudere. Il tessuto culturale verrà disgregato da una politica improntata sui tagli, sul dileggio e sulla pesante accusa di essere fallimentari. Le strutture sono troppo indebitate e molte di esse, anche grosse, chiuderanno. E non basterà ripristinare il Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus), ciò che conterà saranno le scelte: a chi dare i fondi, dove investire, come fare a premiare i nuovi soggetti. Bisognerà scegliere se intervenire per salvare un tessuto costruito in anni di lavoro, oppure abbandonarlo a se stesso come sta facendo questo governo.

Foto di Germana Lavagna


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Difesa

Un esercito a metà di Luca Marco Comellini L’ex maresciallo dell'Aeronautica, fondatore del Partito dei Militari, descrive il deterioramento morale e materiale delle nostre Forze Armate. l futuro per i nostri militari è ben magro. Con l'approvazione del bilancio della Difesa, da una parte sono state sensibilmente ridotte le spese per il personale e per il mantenimento e l'operatività del personale. Dall'altra sono state aumentate le spese per l'acquisizione di nuovi armamenti, ovvero quelle dei programmi pluriennali. Nel nostro Paese i politici hanno il vizio di pensare in questi termini: mi sono trovato con questo programma e devo continuare a finanziarlo. Mentre gli altri Paesi, coinvolti nei medesimi programmi pluriennali, riducono le spese per gli armamenti per avere modelli di difesa sostenibile, specie in riferimento al personale, l'Italia continua a investire. È chiaro che la coperta diventa poi troppo corta: i magazzini e gli hangar si riempiono di nuove armi, tecnologicamente all'avanguardia, ma non ci sarà il personale tecnico per la manutenzione o il personale addestrato per poter utilizzare e pilotare i nuovi aerei. Già quattro anni fa io misi in allarme sulla tendenza attuale: rottamare i marescialli per acquisire nuovi sistemi d'arma. Oggi questa previsione si è realizzata. Entro il 2011 vogliono portare i militari da 184mila a 177mila: settemila esuberi, 'pescati' nei gradi più alti, fatta eccezione per quei militari, che dalla loro sedia non li smuove nessuno. È chiamato 'transito delle eccedenze' presso altre amministrazioni dello Stato. Ma non si sa cosa andranno a fare, marescialli e colonnelli 'anziani', in posizioni per le quali non hanno alcuna professionalità. Si parla di reimpiego nelle forze di Polizia. Già oggi i poliziotti devono fare da balia ai militari nelle strade, figuriamoci se dovessero farlo negli uffici. Dovrebbero invece pensionare chi ha raggiunto l'età contributiva, e ce ne sono a migliaia. L'esercito italiano vive una situazione critica. Il morale dei militari è a zero. Con i tagli che ci sono stati l'operatività è annullata, ma il personale deve essere tenuto impegnato, e magari viene utilizzato per ramazzare le caserme. Il personale è demotivato perché si pretende che sia efficiente senza addestramento. Questo vale anche per chi è destinato a missioni all'estero. Un militare in partenza per l'Afghanistan, ad esempio, riceve una settimana di preparazione, chiamata in gergo 'amalgama', che riguarda una marea di cose, dal comportamento con i locali alla bonifica di ordigni, conflitti a fuoco, tecniche di combattimento: il tutto in una settimana. Poi vengono proiettati in teatri operativi e sono impreparati. Non possiamo conoscere tutti gli inconvenienti e i problemi che si verificano poi, perché esiste una cortina impenetrabile, ma a volte scappa fuori qualcosa, come è successo alcune sere fa, quando un militare completamente ubriaco ha aggredito un altro militare e la cosa è degenerata. In Afghanistan c'è il mito del 'rambismo': appena arrivati

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tutti si credono Rambo. Poi, alla prova dei fatti, di fronte a una realtà di guerra, si verificano pianti isterici e la gente si attacca alla bottiglia. Dal punto di vista della preparazione l'Italia è a zero. Come si può andare in missione con una settimana sola di addestramento? Prima erano tre, poi con i tagli due. Ora vanno in Afghanistan con una scarsissima preparazione. Le pressioni psicologiche sfociano in drammi personali. Magari il militare se lo tiene dentro, poi quando torna esplode la tragedia, e ne sono coinvolte le famiglie e i colleghi di lavoro. Poche settimane fa, di ritorno dalla missione in Afghanistan, un ragazzo si è suicidato in caserma a Furbara, vicino Roma. Forse lo stress, che non è riuscito a superare. Era nei fucilieri dell'Aeronautica, ed era stato impiegato per sei mesi, più altri sei. Quando è tornato gli hanno detto che avrebbe dovuto ripartire, ma evidentemente non ce l'ha fatta e si è sparato. l Ministero della Difesa non sta facendo assolutamente nulla su questo. Si parla di istituire commissioni, di fare verifiche, ma alla fine non si fa nulla. Su argomenti delicati come questo il ministro La Russa continua a fare propaganda. Basta vedere le non-risposte che ha dato alle nostre interrogazioni su argomenti come i suicidi nelle Forze Armate. Noi chiediamo, ma il ministro non risponde. Perché non ha argomenti. Intanto la situazione degenera sempre più. Io stesso sono stato sottoposto nel 2006 e nel 2007 a due differenti inchieste disciplinari per aver esercitato i diritti previsti dalla Costituzione. Tutte le inchieste sono state concluse con l’archiviazione per l’ovvia inconsistenza delle accuse. Due anni fa ho fatto uno sciopero della fame per protestare contro la negazione ai militari dei diritti che la Costituzione riconosce a tutti gli altri cittadini, e nel gennaio 2009 sono stato congedato per i danni psico-fisici subiti a causa delle inchieste contro di me. Allora ho fondato un partito, il Partito dei Militari, per poter continuare a fare battaglie e tutelare i diritti di chi indossa una divisa. È nato nel luglio del 2009 e abbiamo cominciato subito a occuparci della questione della sicurezza dei nostri militari in Afghanistan. Possiamo vantarci di aver costretto questo governo ad adottare misure di rafforzamento dei veicoli blindati Lince, con le 'ralle' e le torrette comandate dall'interno, che tra l'altro erano state acquistate nel 2003 ma giacevano nei magazzini. Così come i Freccia, anche quelli a marcire nei magazzini fino a quando non ci si è resi conto che in Afghanistan c'era una guerra vera. Evidentemente non interessava a nessuno se un ragazzo moriva per la scarsa protezione.

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