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mensile - anno I numero 2 - settembre 2007

3 euro

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

Algeria Viaggio in Cabilia, rifugio di al Qaeda nel Maghreb

Haiti Filippine Italia Kenia Italia Mondo

A spasso con i caschi blu Guerra d’altri tempi La nostra Africa La setta dei Mungiki ‘Nduja connection di N. Gratteri Somalia, Afghanistan, Iraq Israele-Palestina, Colombia

Chirurgo confuso Produzione di armi e obiezione di coscienza Il primo fascicolo dell’atlante di PeaceReporter



Quando gli elefanti combattono sono i fili d’erba a soffrire (proverbio dell’Africa centrale)

settembre 2007 mensile - anno I, numero 2

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Direttore Maso Notarianni

Redattori Christian Elia Matteo Fagotto Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Vauro Senesi Stella Spinelli Naoki Tomasini Alessandro Ursic Progetto grafico Guido Scarabottolo

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Blue & Joy Gabriele Del Grande Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Nicola Falcinella Giorgio Gabbi Nicola Gratteri Paolo Lezziero Sergio Lotti Maria Nadotti Claudio Sabelli Fioretti Gino Strada

Segreteria di redazione Silvina Grippaldi Relazioni esterne Marco Formigoni

er qualcuno, questo numero di PeaceReporter non sarà una sorpresa. Ci scusiamo se si troverà qualche analogia con il primo, spedito solo per posta a oltre centomila lettori ma stampato su una carta diversa da questa, molto più leggera e “povera” proprio a causa dell’alta tiratura e dei costi di spedizione. L’inserto staccabile lo riproponiamo uguale, seppur aggiornato: sarebbe stato scorretto, infatti, non offrire anche ai nostri nuovi lettori la possibilità di avere il primo fascicolo del nostro atlante. Mi scuso poi personalmente se alcuni passi di questo editoriale di presentazione sono gli stessi che avete letto lo scorso luglio. PeaceReporter, dunque, esce dal mondo di Internet e si cimenta con la difficile sfida della carta stampata, e in un momento in cui - come tanti settori dell’economia italiana - questa è in crisi. Una doppia sfida dunque, che pensiamo necessaria. Perché mai come oggi, dalla seconda guerra mondiale, dalla stesura della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, il mondo è travagliato da conflitti terribili e da altrettanto terribili violazioni dei diritti più elementari. Per questo è importante che la voce di chi non ha voce abbia il massimo della diffusione possibile. Conoscere il mondo, capirne le sue sofferenze è sempre più indispensabile. Come è indispensabile avere anche buone notizie per sapere che, comunque, il mondo è davvero bello e che si possono fare, spesso con poco, cose egregie. PeaceReporter è nato, come sito Internet, quattro anni fa, quando soffiavano forti venti di guerra. Oggi quei soffi di vento sono diventati tempeste. Ma non ci si può arrendere all’ineluttabilità del corso della storia, perché il mondo è fatto dagli uomini e dalle loro scelte. E dunque noi, invece di arrenderci, raddoppiamo gli sforzi perché si diffonda una cultura di pace. Anche perché, nonostante quel che si dica, Internet non è ancora molto diffusa nel nostro Paese. E sono tantissimi i lettori che preferiscono leggere un giornale invece che uno schermo. E poi, diciamolo, anche per chi fa il nostro lavoro, avere uno spazio come quello che offre un mensile fa comodo: si può scrivere di più, e meglio, senza timore che gli occhi di chi ti legge escano dalle orbite. Continueremo a cercare di raccontare il mondo senza nessun preconcetto, senza nessuna ideologia, ma con l’esperienza di chi le situazioni di crisi e di conflitto le vive e le ha vissute. Una esperienza che ha fatto nascere in tutti noi che scriviamo una consapevolezza e una convinzione incrollabile: la scelta della guerra è sempre e comunque sbagliata. Perché ci sono storie che parlano di scelte alternative alla guerra: scelte di cooperazione, di vicinanza, di passione per la specie umana e per la vita che danno frutti, e ne danno tanti, privi di quei terribili veleni che sono l’odio, la volontà di dominio, la certezza di stare dalla parte della ragione e della giustizia, magari per mandato divino. Sappiamo di imbarcarci in un’impresa difficile, ma sappiamo anche che è necessaria. Abbiamo imparato che la guerra è semplicemente da abolire, e lo abbiamo imparato vivendola. Siamo convinti che raccontare il mondo con la voce di chi lo vive e non di chi vuole deciderne le sorti, sia un passo importante in quella direzione.

Hanno collaborato per le foto Stefano Barazzetta Ugo Borga Lucio Cavicchioni Tano D’Amico Ugo Lo Presti

Redazione e amministrazione Via Meravigli 12 20123 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 Fotoeditor peacereporter@peacereporter.net Naoki Tomasini

Stampa Graphicscalve Amministrazione Loc. Ponte Formello - 24020 Annalisa Braga Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 30 agosto 2007 Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Pubblicità Via Meravigli 12 - 20123 Milano Via Meravigli 12 Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07 20123 Milano Tel (+39) 02 801534 Foto di copertina Fax (+39) 02 80581999 Lucio Cavicchioni peacereporter@peacereporter.net ©Dalmasio/Cavicchioni

Haiti a pagina 10

Algeria a pagina 4

Italia a pagina 20 e 22

Distribuzione in libreria Joo Distribuzione - via F. Argelati 35, 20143 Milano - Tel 028375671 Servizio abbonamenti e arretrati Picomax S.r.l. Via Borghetto 1 - 20122 Milano. Tel 0277428040 - fax 0276340836 Informativa abbonamenti: Ai sensi dell’Art. 13 del D. Lgs. 196/03 informiamo che i dati forniti saranno trattati da Picomax Srl in qualità di responsabile del trattamento, nonché da Dieci dicembre soc. coop. a r. l. titolare del trattamento, per le seguenti fiinalità: invio abbonamento della rivista PeaceReporter e invio di materiale promozionale inerente i prodotti di Dieci dicembre soc. coop. a r. l. Gli abbonati hanno diritto di esercitare i diritti di cui all’Art. 7 del D. Lgs. 196/03 inviando una email a privacy@picomax.it L’informativa completa è disponibile sul sito di Picomax: www.picomax.it Scritti, disegni e fotografie anche se non pubblicati non verranno resi.

Migranti a pagina 24

Filippine a pagina 14 Kenia a pagina 18 3


Il reportage Algeria

Tra due fuochi Dal nostro inviato Christian Elia Se volete provare la sensazione di smarrimento vissuta da Johnatan Harker, il protagonista del capolavoro di Bram Stoker, quando giunto in Transilvania chiede agli abitanti del posto come raggiungere il castello del conte Dracula, dovete andare ad Algeri e chiedere come si arriva in Cabilia. Vi guarderanno con più attenzione di quanta ve ne hanno dedicata fino a quel momento, squadrandovi un po’, e subito dopo vi faranno la raccomandazione tormentone: “Prendete un taxi, ma fate in fretta. Dovete arrivare prima del tramonto”. a ragione di tanto allarme è evidente, almeno sbirciando tutte le prime pagine dei giornali algerini tra le mani della gente assiepata per le strade e nei caffè, che raccontano a nove colonne l’ennesima operazione dell’esercito in Cabilia, sulle tracce dei guerriglieri fondamentalisti. Sono i ‘barbuti’, come vengono chiamati dagli algerini laici, del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (Gspc), l’unico gruppo a non aver deposto le armi. La storia è nota: nel 1991 si svolgono le prime elezioni pluraliste dopo l’indipendenza. Le vince il Fronte Islamico di Salvezza, guidato da Abbassi Madani, che comprendeva le forze politiche d’ispirazione religiosa. Il gruppo dirigente del Fronte Nazionale di Liberazione, che aveva guidato il paese all’indipendenza nel 1962 e che lo governava ancora, non ci sta. Le elezioni vengono invalidate e il potere passa nelle mani di una giunta militare. Comincia un sanguinoso conflitto tra l’esercito e i fondamentalisti, che costa la vita a più di 200mila persone, in gran parte civili. Nel 1998 i fondamentalisti sono sconfitti e i loro capi si arrendono al governo, in cambio dell’impunità, o lasciano il paese. Tutti tranne i salafiti, duri e puri, che rimangono nascosti in Cabilia, regione impervia di montagne. La situazione pare sotto controllo. Almeno fino alla fine del 2006, quando al-Zawahiri, il braccio destro di Osama bin Laden, annuncia a tutto il mondo l’ingresso dei fratelli maghrebini nella grande famiglia di al-Qaeda. Dall’inizio del 2007, dopo un messaggio del capo del Gspc Abu Musab Abdul-Wadud diffuso su internet, il gruppo cambia nome in ‘Al-Qaeda in Maghreb’, unendosi nella lotta ai miliziani tunisini e marocchini per combattere i regimi, a loro dire, infedeli. Sono loro, i ‘vampiri’ da temere dopo il tramonto. L’11 aprile 2007 il terrore torna in Algeria: un attentato nella capitale uccide più di trenta persone. Di mattina presto, per l’equivalente di circa 20 euro, si può trovare un tassista con la sua Peugeot 504 (“Altrimenti non siete stati davvero in Algeria”), che vi faccia salire a bordo nella grande piazza tra la Moschea Nuova della capitale e la casbah, dove il sole abbagliante si riflette sulle bianche costruzioni tra le quali Gillo Pontecorvo girò La Battaglia di Algeri.

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A questo punto, dopo una ravvivata al tappeto di pelliccia che ricopre il cruscotto, si parte per la Cabilia, lanciati in uno slalom mozzafiato nel caotico traffico di Algeri. Lungo la strada, oltre ai banconi dei venditori di angurie e meloni, troneggia una costruzione in disuso. “Era la fabbrica dove imbottigliavano il rosso di Cabilia”, dice Karim, la nostra guida, “una qualità eccellente di vino. Poi arrivarono ‘i barbuti’ e la produzione sfumò. Ma il ricordo resta, e uno dei pregiudizi più diffusi sui Cabili è quello che siamo tutti ubriaconi”. A un centinaio di chilometri da Algeri, avvicinandosi a Tizi Ouzou, la città più grande della Cabilia, aumentano i posti di blocco dell’esercito. Una serie di ostacoli di cemento dipinti di bianco e di rosso costringono le vetture a rallentare. I militari, quasi tutti molto giovani, scrutano i passeggeri dall’interno delle loro garitte o dietro i sacchetti di sabbia. Ma non sono solo i posti di blocco a caratterizzare la regione, almeno non quanto i sottili fili di fumo nero che s’innalzano dai boschi maestosi che la circondano. “Sono gli incendi appiccati dall’esercito”, spiega Karim, “tentano così di stanare i fondamentalisti nascosti nella vegetazione”. Più si sale, oltre Tizi Ouzou, verso i villaggi cabili arroccati sulle alture, più aumentano i focolai dei rastrellamenti dell’esercito. “Di miliziani ne prendono pochi però”, commenta Karim, “ma intanto bruciano migliaia dei nostri alberi”. boschi sono il simbolo dell’identità di questo popolo, berberi fieri e indomiti, in lotta da sempre contro l’arabizzazione, poi i turchi, poi i francesi. E oggi contro gli stessi algerini, che continuano a soffocare la loro lingua e la loro cultura. Tra questi monti si parla l’amazigh, non l’arabo, la lingua con la quale il grande poeta cabilo Lounis Ait Menguellet descriveva la sua terra: “Il mio paese: una collana di perle sulle montagne, appese al cielo senza corda”. Sono proprio così i villaggi cabili, “tutti

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In alto: Peugeot 504 ed effige di Matoub Lounes, cantante cabilo ucciso nel ‘98. In basso: Villaggio cabilo. Algeria 2007. Stefano Barazzetta per PeaceReporter


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costruiti in cima alle montagne, per difendersi dalle invasioni”, spiega Karim. In uno di questi villaggi vive la guida Yaker. Ci conduce lungo i sentieri utilizzati dai miliziani per nascondersi nelle montagne grigie della Cabilia, che si stagliano contro il cielo come monoliti silenziosi. “Sa cosa diciamo noi? L’arabo non è il figlio del deserto, ne è il padre! Come vedono un albero lo bruciano!”, commenta Yaker, ridendo forte, mentre s’inerpica lungo un sentiero. Tutt’attorno ulivi e fichi, che saturano l’aria del loro profumo inebriante. Un asino bruca l’erba, solitario, mentre due donne nel loro colorato costume tradizionale cabilo portano masserizie accatastate in equilibrio sulla testa, sfidando la legge dei gravi. Yaker non smette un attimo di parlare mentre percorre sentieri che, man mano che si sale, diventano visibili solo al suo occhio allenato. Fichi e olivi lasciano il passo a pini secolari.

lusso di avvelenare l’unica retrovia sicura che avevano nel paese. Ci lasciano in pace quindi, mentre il governo continua a bruciare tutto e a tenere la Cabilia in un angolo”, conclude Amad. Per alcuni però, questo non accade per caso. La Cabilia è sempre stata una regione ribelle. Nel 2001 la contrapposizione è sfociata nella cosiddetta ‘primavera nera’: più di cento cabili sono morti negli scontri tra l’esercito e gli attivisti. Quella ribellione era guidata dagli aarch, i comitati di villaggio che gestiscono da sempre, su base egualitaria, la vita in Cabilia.

no dei leader di quel movimento è Idir Ait Mammar. Ci accoglie, in una stanza in penombra, l’anziana mamma di Idir, che siede ad ascoltare il figlio sotto un ritratto di Matoub Lounes, il grande cantante cabilo ucciso in un agguato nel 1998: secondo alcuni dagli integralisti, secondo altri dal governo. E’ diventato un’icona, simbolo dei cabili presi tra due fuochi. emiro Madani, durante la guerra civile, amava ripetere che la “Questa storia non mi convince”, attacca subito deciso Idir, “ad Algeri partita finale tra islamisti e militari si giocherà in Cabilia. continuano ad agitare lo spettro dei salafiti, ma intanto bruciano le foreSperiamo che non sia cominciata”, racconta Amad, scrittore ste dei cabili. Colpiscono la nostra più grande ricchezza, il simbolo stesso e insegnante, inguaribile comunista ottantenne, vera e propria memoria di un’identità che non hanno mai voluto accettare in pieno. E intanto, con storica del villaggio di At Yani. Circondato da questa scusa, militarizzano la regione”. L’attivista moglie, figli e nipoti che si siedono tutti in silenzio s’infervora, mentre la mamma annuisce vigorosaLa guerra d’indipendenza alle sue spalle, dopo averci offerto un bicchiere di mente. “Tempo fa i miliziani giravano liberamente, algerina contro il governo coloniale francese comincia tè alla menta profumata, ci accoglie seduto tra le parlavano con la gente”, racconta Idir sprofondato nel 1954 e termina nel 1962, tombe dei suoi cari. Già, perché qui i morti non in un divano rosso fuoco, “addirittura una volta è con l’indipendenza. fanno paura, e questo è un modo come un altro di stata organizzata una partita di calcio tra loro e Il conflitto provoca la morte di essere vicini alle persone amate. Tutti i cari di alcuni ragazzi di un villaggio. Adesso nessuno li almeno un milione di civili Amad riposano in bei sepolcri bianchi nel suo giarvede. Con questo non voglio e non posso dire che algerini. Nel 1992, il Fronte dino, all’ombra di un fico immenso. “Hanno camqui non si nasconda nessuno, ma sono convinto che Islamico di Salvezza vince le biato strategia: adesso non si fanno più vedere. tutta questa storia abbia anche degli altri obiettivi. elezioni ma il governo annulla Tutti sanno che, fin dai tempi della guerra d’indiDopo l’ennesimo incendio siamo andati a protestail risultato delle urne. Scoppia pendenza, le montagne della Cabilia sono piene di re con il governatore. Sa cosa ci hanno risposto? una sanguinosa guerra civile piccoli rifugi e di nascondigli, ma un tempo questa Che siamo dei fiancheggiatori dei salafiti! Siamo nel e sia l’esercito che i miliziani integralisti si macchiano di gente veniva a rifornirsi di cibo in paese. Adesso mezzo, schiacciati fra le trame del governo e l’inteterribili stragi, che costano la nessuno li vede più. Durante la guerra facevano i gralismo religioso, ma sono fiducioso. La Cabilia è vita ad almeno 150mila posti di blocco per la strada, e li vedevamo in facsempre stata il baluardo della laicità e della libertà algerini, in massima parte cia”, racconta aggiustandosi gli occhiali che scivoin questo paese. Non cederemo”. civili. Alla fine della guerra, i lano sul naso e sorridendo sotto i baffi sale e pepe. fondamentalisti depongono le on tutti sono così sicuri però. Sheik “Adesso scendono dalle montagne solo per rapinaarmi in cambio dell’esilio o Noureddine è l’imam di At Yani. Una re banche e uffici postali, oppure per attaccare dell’amnistia. Solo il Gruppo celebrità da queste parti, conosciuto da tutti caserme e check-point dell’esercito. Io credo che Salafita per la Predicazione e come ‘l’imam laico’. “Creda a me: il pericolo vero è ci siano, ma non saprei dire quanti sono e chi sono. il Combattimento non si la fascinazione che esercitano i soldi su tanti In questa situazione il governo può dire quello che arrende, e nel 2007 cambia giovani disoccupati”, racconta aggiustandosi la vuole, quello che gli è più utile. Recentemente c’è nome in al-Qaeda in Maghreb. lunga veste che, come gli occhiali sgangherati, non stato un attentato davanti al palazzo del governaNegli scontri con l’esercito ne vuol sapere di calzare a dovere. “Prima gli tore di Tizi Ouzou. Il giorno dopo il governo ha detto che durano tuttora, sono integralisti nei nostri villaggi erano quattro gatti. che era opera dei salafiti, ma in città tutti sanno morte almeno 15mila persone Adesso comincio a vedere delle derive che non mi che lo stesso governatore era stato vittima, pochi tra civili, militari e guerriglieri. piacciono. Bisogna agire in fretta”, raccomanda giorni prima, di un tentativo di avvelenamento. Da l’imam, camminando per le viuzze sassose del quando si è insediato ha mandato a casa molti potenti locali, e allora ci si chiede se questi salafiti non diventino una villaggio, tra una stretta di mano e una carezza a un bambino, “per questo scusa buona per qualsiasi occasione. Intanto la gente ha paura di questo lavoro alla fondazione di una zaouia, una scuola religiosa, dove si possa pericolo invisibile, e questo aiuta il governo nel far passare leggi liberticiinsegnare il Corano vero, non quello della famiglia reale saudita, che ne de. Il presidente Bouteflika sta per cambiare la Costituzione, come paladitradisce lo spirito tollerante. E’ l’ignoranza il problema. Voglio tradurre in no della sicurezza nazionale si garantirà la possibilità di un altro mandaamazigh il Corano, la Bibbia e la Torah, perché la gente è ignorante qui, e to. Credo che ci siano gruppi di miliziani nascosti tra le montagne, ma si beve le menzogne che certi personaggi gli raccontano. E’ l’ignoranza, la credo anche che ingigantire il pericolo serva al governo. Che intanto, come povertà che alimenta il fondamentalismo”. Noureddine arriva in piazza, unica soluzione, brucia i nostri boschi. Ma si rende conto del pericolo che dove è accolto con affetto. In un piccolo bar un gruppo di uomini beve comporta, con questo vento, dar fuoco alla boscaglia? Si rischia un masbirra. L’imam inforca sornione gli occhiali da sole, e fa finta di non vedere. sacro tra la popolazione civile”. Bevono una birra prodotta qui, che si chiama Tango. “E’ il nome in codice che utilizzano i militari per indicare i terroristi”, spiega divertito Karim, na battaglia combattuta sulla testa dei Cabili insomma, tra islamisti “solo noi cabili potevamo dare il nome dei fondamentalisti a una birra!”. e governo. “Sì, è così, anche perché i ‘barbuti’ hanno tentato di imporre la loro visione dell’Islam in alcuni villaggi, ma hanno subito In alto: Idir Ait Mammar (a sinistra) con madre e fratello, Ait Ouacif capito che con noi non attacca. Se un villaggio veniva importunato dai fonIn basso: Il conflitto cabilo in televisione, Algeri damentalisti reagivamo armandoci, e loro non potevano permettersi il Algeria 2007. Stefano Barazzetta per PeaceReporter

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I cinque sensi dell’Algeria

Udito I cantastorie tramandano la tradizione del popolo cabilo. Questa regione è da sempre caratterizzata da una scuola musicale che rappresenta un mondo a parte. A cavallo di un confine labile tra poesia e canzone, i cantastorie di padre in figlio hanno trasmesso una lingua e una cultura osteggiate a livello ufficiale. Strumento d’accompagnamento d’elezione della canzone cabila, tra gli altri, è il mandolino cabilo, simile al mandolino tradizionale, ma con la cassa acustica piatta invece che bombata. Tra i mille interpreti della canzone cabila, ci sono delle icone che sono diventate il simbolo stesso di un popolo. Non c’è un angolo di strada, una caffetteria o una macchina dove non compaia un’immagine di Matoub Lounes. Grande interprete, immortalato nella leggenda dopo l’agguato nel quale ha perso la vita nel 1998. Ucciso dal governo per alcuni, ucciso dai fondamentalisti per altri. Ma la sue voce e le sue note echeggiano in Cabilia, come un inno sussurrato. Altro esponente di spicco della canzone cabila è Idir, nome d’arte di Hamid Cheriet. Idir è il cantante cabilo più conosciuto all’estero, e la sua A vava inouva, composta partendo dalla base di una ninna nanna, è diventata un successo internazionale.

Gusto Il cous-cous è il re incontrastato della tavola, in Cabilia, come nel resto dell’Algeria. E proprio a un re, secondo la leggenda, è legata la nascita di questo piatto prelibato. Salomone, provato dalle sue pene d’amore per la regina di Saba, venne ritemprato dal medico di corte con un impasto di

semola di grano duro, cotta al vapore e insaporita da alcune essenze vegetali. Nacque così il piatto simbolo del Maghreb, da mangiare con carne o verdure, magari seduti in terra, tutti attorno a un recipiente fumante. Selecto, Hamoud e Slim, tutte caratterizzate da un colore diverso, sono le varie versioni di bibite gassate prodotte dalla Hamoud, mitica fabbrica di bevande gassate made in Algeria, che ormai ha espanso il suo mercato anche in Francia, nella comunità degli immigrati. I Cabili, come gli algerini, sono molto orgogliosi. I prodotti di largo consumo, come la Coca Cola, sono arrivati anche qui come in tutto il mondo, ma nelle caffetterie dei villaggi cabili vedrete sempre sui tavolini bibite della loro fabbrica nazionale.

Olfatto La terra dei fichi, questo potrebbe essere il secondo nome della Cabilia. Assieme agli ulivi, gli alberi del gustoso frutto arricchiscono tutta la regione, spargendo attorno un odore forte e invitante. L’odore di bosco bruciato. I boschi sono il simbolo stesso dell’identità cabila, berberi legati alle loro montagne come a un cordone ombelicale. Ma l’odore pregnante in tante zone della regione, invece di essere quello naturale delle foreste, è l’odore di bruciato. Dovuto alle centinaia di piccoli e grandi incendi che l’esercito algerino appicca per stanare i guerriglieri fondamentalisti che, a loro dire, si nascondono nella boscaglia.

Tatto Toccare con mano i capolavori contenuti negli scrigni bighellonando nei piccoli negozi di gioielli d’argento fatti a mano è un’esperienza unica. Si narra che i francesi, quando riuscirono a sottomettere la Cabilia, nei loro rapporti a Parigi sottolineassero stupiti come tutti, ma proprio tutti, gli abitanti dei villaggi di montagna fossero valenti artigiani. Soprattutto della lavorazione dell’argento. Ancora oggi, i piccoli negozi di preziosi la fanno da padroni, e le sensazioni che provano le dita nell’incontrare le sapienti decorazioni che vengono incise sulle lamine di metallo prezioso, sono le stesse che i francesi descrivevano.

Vista L’occhio è rapito dal panorama mozzafiato della corona di vette che cinge la Cabilia, e che si incontra arrivando da Algeri nella provincia di Tizi Ouzou, cominciando a salire lentamente lungo i tornanti della montagna. I villaggi cabili, per motivi strategici, sono sempre posizionati in cima alle coste rocciose, dalle quali brillano come perle illuminate dal sole. Le montagne s’innalzano grigie, stagliandosi contro il cielo, decorate da migliaia di chilometri di boschi lussureggianti. Le donne di tutte le età che camminano lungo i sentieri di montagna, o per le viuzze sassose dei villaggi, avvolte negli ampi e coloratissimi costumi tradizionali chiamati djerba. Gli stessi abiti con i quali eseguono le danze durante i rituali collettivi legati alla raccolta delle olive: una policromia di rosso, giallo e blu, arricchita da tessuti legati in vita e sul capo. 9


Il reportage Haiti

A spasso con i caschi blu Dal nostro inviato Alessandro Grandi E’ molto presto a Port au Prince, capitale di Haiti, e il rumore prodotto dal carrello delle pistole automatiche in dotazione ai soldati del contingente dello Sri Lanka presenti nell’isola caraibica, non è certo la suoneria migliore per la sveglia del mattino. L’effetto alzati e cammina, però, funziona benissimo. onostante l’ora il sole è già alto nel cielo azzurro di Port au Prince, capitale di Haiti, e fa molto caldo. Siamo a Martissant, uno dei quartieri più pericolosi della città, teatro quotidiano di omicidi, rapimenti e violenze anche ai danni della polizia locale. Dalla fine del 2003, quando una rivolta popolare costrinse il presidente Jean Bertrande Aristide a rifugiarsi in Sudafrica e l’Onu a inviare i caschi blu, la situazione non è cambiata molto. Centinaia di morti fra la popolazione, migliaia di feriti, stupri, angherie d’ogni sorte, economia distrutta e la popolazione ridotta alla fame. Dal quartier generale dei caschi blu a Petion Ville, una delle poche zone tranquille della città, ci vogliono una trentina di minuti per arrivare fino alla caserma di Martissant, attraverso salite e discese su strade ai cui lati si ammassano tonnellate di spazzatura, regno incontrastato di topi e cani randagi alla ricerca di cibo. Port au Prince non è una bella città: una sola piazza, quella principale, con un monumento, il palazzo presidenziale e un museo poco visitato. Per il resto sporcizia, macerie arrivate da chissà dove, buchi profondi come crateri sull’asfalto e tanta confusione.

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utto è pronto per la partenza: polizia haitiana e caschi blu, in pattuglia congiunta nel cuore della bidonville. I militari dell’avamposto di Martissant provengono tutti dallo Sri Lanka. “Sono ottimi militari, senza macchia e senza paura, e stanno facendo un ottimo lavoro” dice Luise Arellano, capitano di fregata dell’esercito statunitense di origine messicana. “La gente di Haiti è fantastica e in alcuni casi collabora con noi. Certo, ristabilire la pace sociale nel Paese è difficile. Ci vorrà ancora molto tempo”, aggiunge il capitano. Prima di partire il comandante del battaglione, un militare molto giovane ed elegante nella sua divisa tirata a lucido, invita tutti nel suo ufficio per mostrare i progressi fatti dalla forza di pace. Soprattutto nella zona di Martissant, vero cuore pulsante della criminalità cittadina. Sorriso sulle labbra, capelli cortissimi e nemmeno un filo di barba, il comandante inizia a spiegare i dati scritti su una lavagna. “Da gennaio ad oggi sono stati molti i cambiamenti. Nel primo mese dell’anno il nostro lavoro non ha dato risultati positivi. Nessuno dei delinquenti affiliati alle gang che seminavano il terrore nel quartiere e nel resto della città era stato fermato. E i rapimenti erano frequentissimi. Abbiamo avuto bisogno di tempo per studiare il territorio. Oggi, a cinque mesi di distanza possiamo tranquillamente affermare che le cose stanno andando per il verso giusto”.

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Mentre mostra orgoglioso un documento semi-segreto nel quale sono annotati nomi, cognomi e fotografie dei capi gang ricercati in tutti il Paese sottolinea che è diminuito di molto il numero dei rapimenti e dei delitti da quando i suoi ragazzi, spesso accompagnati da soldati giordani, pattugliano le strade di quest’inferno in terra chiamato Martissant. arebbe bene non farsi illusioni”, dice preoccupato Jerome, cooperante canadese ad Haiti da diversi anni per “dare una mano a chi ne ha bisogno”. “I focolai di violenza in questo paese non si spengono mai. Sia qui che nelle campagne. E non dobbiamo pensare che solo a Port au Prince esistano gruppi violenti dediti al traffico di armi e droga. Anche nella provincia di Gonaive, la più calda dal Paese, si potrebbero riaccendere i fuochi della rivolta. E poi non credo che la presenza dei caschi blu possa essere considerata un deterrente. Non sono ben visti dalla popolazione, molto diffidente e scottata dal comportamento tenuto dai soldati della Minustah: le violente incursioni nelle bidoinville dei mesi scorsi, che hanno lasciato i segni sui muri degli edifici, non sono certo andate giù ai cittadini che hanno anche protestato. Le loro proteste, però, non hanno avuto nessun risultato e non hanno fatto notizia. La maggioranza degli haitiani vede i caschi blu come una forza d’occupazione”. Un giro alla chiave e i motori dei fuoristrada si accendono. In fila indiana una mezza dozzina di mezzi militari esce dai cancelli della caserma e inizia a risalire la collina in direzione Martissant. Il quartiere sovrasta la città, le strade che lo percorrono sono tutte tortuose e semidistrutte. Le casette in mattoni grigi, sono ammassate l’una all’altra. La stragrande maggioranza degli edifici sembra in equilibrio precario. C’e moltissima gente per la strada, i mezzi militari faticano a muoversi. Bancarelle che vendono carbone, frutta, articoli per la casa ma anche sigarette, bibite e pasti caldi, si susseguono a centinaia lungo i marciapiedi. Gli sguardi rivolti dagli haitiani verso il convoglio militare, che viaggia a passo d’uomo, non sono benevoli. Alcuni ragazzi sdraiati sul cofano di un’auto balzano in piedi e lanciano qualche insulto verso i caschi blu: lo fanno in creolo, difficile capire le loro parole, e in ogni caso i fuoristrada tirano dritto.

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In alto: Soldati Onu su un blindato In basso: Pattugliamento a Martissant Port au Prince, Haiti, 2007 Alessandro Grandi ©PeaceReporter


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indumenti da lavare che trasporta sulla testa, racconta la sua storia. “Ho vunque una strana sensazione d’abbandono, precarietà, rassegnaziosubito una violenza sessuali due anni fa. Erano quattro uomini, forse legati ne: da questa parti pochi lavorano. Marie, diciassette anni, piedi nudi ai gruppi Lavalas (quelli fedeli all’ex presidente Aristide ndr). Per me da quel e minigonna rosa, di una bellezza da copertina patinata, è appoggiagiorno l’unico obiettivo è andarmene da questo Paese. Non so come farò, ta alla colonna di cemento di un palazzo. Sbircia il posizionamento dei soldaperché non ho lavoro, ma appena ne trovo uno prendo i miei due figli e ti con espressioni strane. “Non mi piacciono le armi e non mi piacciono loro. scappo. La presenza dei caschi blu secondo me è servita solo a far entrare Vengono qui e fanno ciò che vogliono. Eppure questa è casa nostra. Credo qui a Martissant alcuni medici che portano sostegno a chi ne ha più che gli haitiani siano in grado di fare qualcosa per il loro paese senza militabisogno”. ri stranieri. Comunque a me non interessa perché appena ho la possibilità me ne vado a Miami dove c’è già una mia amica”. a di camici bianchi se ne vedono pochi. “Bisogna conquistarsi la In molti sognano un futuro migliore: per farlo non servono quattrini. C’è però fiducia della gente e ci vuole tempo” dice Khalil Sayyad, chi, però, per provare a costruirselo percorre vie illegali, sfidando la legge. responsabile del centro ospedaliero di Msf, l’unico presente a Ad Haiti esiste una vera e propria economia parallela: quella che nasce dal Martissant. “Noi ad esempio vogliamo che il personale del nostro ospedale traffico di cocaina. Il traffico della droga è molto importante per questo provenga tutto dal quartiere. Poi noi non usiamo armi, non siamo scortati Paese. Si dice sia gestito dai colombiani che hanno sempre goduto di buoni dalla polizia e siamo neutrali. Certo per avere garanzie che nulla possa legami politici e che nel corso degli ultimi decenni hanno, di fatto, accaderci dobbiamo per forza ‘parlare’ con qualcuno”. Khalil non tralascia narcotizzato l’isola. Una delle ‘leggende urbane’ più famose nella capitale nemmeno un particolare. “abbiamo studiato il territorio e pian piano ci siamo racconta che anche l’ex presidente Aristide fosse immischiato con il traffico introdotti. Facciamo prevenzione e allo stesso tempo diamo consigli a chi ci della polvere bianca e mettesse a disposizione le piste dell’aeroporto chiede aiuto: ragazze in gravidanza, mamme che internazionale di Port au Prince, e non solo quelle, vogliono curare i figli e gente comune che viene per far atterrare i carichi provenienti dalla Haiti è uno dei paesi solo per un consulto. Da queste parti tutti sanno Colombia. “L’abuso presidenziale delle piste più poveri del mondo. che il nostro ‘servizio’ è gratuito. In questo aeroportuali era diventato talmente impossibile da quartiere la situazione è allo sbando. Non sempre gestire che l’ex prete salesiano decise di far chiudere due volte la settimana una delle più I suoi 7.600.000 abitanti, l’ottan- arriva l’acqua, l’igiene è una cosa sconosciuta. Inoltre, sempre più spesso ci ritroviamo a dover importanti arterie stradali di Port au Prince, la ta percento dei quali è cattolico dare assistena a feriti da arma bianca o da fuoco. strada Nazionale 1” racconta divertito Marcel, anche se pratica ancora riti Martissant è un posto molto difficile nel quale improvvisato ristoratore di strada. “La strada, è in vodun, guadagnano in media vivere e lavorare”. sostanza un lungo rettilineo che costeggia il mare 410 dollari all’anno. Oltre ai civili l’ospedale a Martissant raccoglie e spiega Marcel con un sogghigno - perfetto per far L’ottanta percento della popola- cura anche i poliziotti feriti. atterrare piccoli aerei con i loro carichi speciali in zione dell’isola vive sotto la “Ne arrivano in continuazione anche perché il arrivo dalla Colombia”. soglia di povertà e solo il cincommissariato non dista molto dal nostro centro. Oggi, nonostante la presenza di ottomila soldati quanta percento degli haitiani sa Spesso riportano ferite da arma da fuoco. Questo dell’Onu, il passaggio di cocaina nell’isola sembra leggere o scrivere. è il quartiere più pericoloso della città”. non essersi fermato. Negli ultimi mesi, però, le croE’ d’accordo anche un soldato giordano che fa nache dei giornali e dei telegiornali locali hanno iniparte del gruppo che pattuglia il quartiere. ziato a parlare di arresti e sequestri da parte della Il novantacinque percento degli “Martissant è un brutto posto. Pericoloso. Ci vorpolizia haitiana d’ingenti quantitativi di polvere abitanti di Haiti discende ranno anni prima che si sistemi. Così come il resto bianca. del Paese, da nord a sud. Noi siamo qui per dare dagli schiavi africani. on abbiamo soldi per andarcene da una mano anche se in alcuni casi siamo costretti a qui, io non ho nemmeno un lavoro”racconta in un perfetto franusare le maniere forti”. E questo non è un aspetto secondario. Dopo l’autocese Cloé, una signora semisvestita di circa quarant’anni sedurizzazione firmata dell’attuale presidente haitiano, René Preval per mezzo ta sul marciapiede a aspettare chissà cosa con la schiena appoggiata contro della quale i caschi blu possono usare la forza per risolvere alcune questioun muro dove campeggia una scritta rossa che dice: “No ai sequestri, viva ni, molte critiche sono piovute anche a livello internazionale. la pace”. a pattuglia riparte. “Ci sono sicuramente sentinelle nascoste dietro le Mentre i caschi blu scendono dai veicoli e iniziano il pattugliamento a piedi finestre di qualche baracca. Potrebbero aver avvisato gli affiliati alle dell’intera area, si riesce a scambiare ancora qualche battuta con Cloé: “Qui è pericoloso. Tutte le notti accade qualcosa. Si sentono molti spari. Io però gang del nostro arrivo. Per questo alcune abitazioni sono vuote e altre non conosco la gente che spara e nemmeno quelli che rapiscono. So solo che hanno la porta d’ingresso sbarrata” dice uno dei soldati cingalesi armato qui a Martissant sono ben poche le persone che ci danno una mano. Qui la come Rambo. legge non esiste”. Non ha nessun timore d’esporsi Cloé, nemmeno davanti Da un vicolo strettissimo dove a malapena passa una persona, arriva l’ordiai caschi blu: “i soldati - dice indicando con gli occhi marroni e profondi i ne del caposquadra: bisogna sfondare le porte d’ingresso di alcune abitacaschi blu che frugano nelle case intorno - distruggono le nostre case senza zioni perché al loro interno potrebbe nascondersi qualcuno o forse fare ritrosapere bene quello che cercano. Girano per le strade con le armi in pugno. vamenti ‘speciali’: armi o droga. Che cosa impareranno i nostri figli? Come potranno crescere in questa città, Un poliziotto haitiano, non alto ma dal fisico invidiabile, sradica la porta di i questo Paese dove non funziona niente e dove la violenza è l’unica certezuna casa con l’aiuto della canna del suo fucile, usata come leva. Il fatto che za quotidiana?”. Appena l’interprete dell’Onu si avvicina per ascoltare, però, potrebbe partire il colpo che tutti i soldati e i poliziotti di pattuglia hanno in Cloé cambia rapidamente registro e si trasforma in un’attrice che conosce canna non preoccupa minimamente. All’interno dell’abitazione non c’è nesbene il copione, come fosse un personaggio tipico dei Commedianti di suno, solopochi vestiti, un materasso, qualche cartaccia. E una borsa, forse Graham Greene, che qui ad Haiti ambientò la sua storia. “Da quando ci sono fruttodi uno scippo. La stessa scena si ripete ancora un paio di volte. E il loro le cose vanno meglio e la poplazione è più felice. E adesso qualche medirisultato è sempre lo stesso. Per oggi, come molte altre volte, la caccia al co arriva fin quassù”. bandito è stata del tutto inutile. Anche Janine, ventidue anni, simpatica ragazza dal sorriso bianchissimo ma triste non sembra felice di quello che sta vedendo. Dopo aver appoggiato a Perquisizione in una baracca. terra uno straccio arrotolato che serve per stabilizzare la bacinella con gli Port au Prince, Haiti, 2007 Alessandro Grandi ©PeaceReporter

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L’intervista Filippine

Guerra d’altri tempi Di Enrico Piovesana José Maria Sison, intellettuale marxista di 68 anni, è il fondatore del Partito Comunista Filippino e del Nuovo Esercito Popolare, movimento guerrigliero attivo dagli anni ‘70. Pochi giorni prima del suo arresto, avvenuto il 28 agosto, lo abbiamo incontrato in Olanda, dove viveva in esilio. elle Filippine la povertà affligge gran parte della popolazione, soprattutto nelle campagne, dove vige un sistema economico semifeudale. Questo spiega la longevità della guerriglia contadina comunista dell’Npa (Nuovo Esercito Popolare), ancora attiva nonostante una repressione militare che, dai tempi della dittatura di Ferdinand Marcos (cominciata nel 1965) a oggi, ha provocato novantamila morti in gran parte civili. E che negli ultimi anni, sotto la presidenza di Gloria Arroyo, è ancora più brutale e ha visto il crescente coinvolgimento delle truppe Usa.

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Professor Sison, ci riassume la sua storia personale e politica?

Negli anni Sessanta, mentre insegnavo letteratura inglese e scienze politiche all’Università di Manila, ero attivo nel movimento anti-imperialista e anti-feudale. Nel 1968 ho fondato il Cpp, il Partito Comunista Filippino (di cui l’Npa è dal ‘69 il braccio armato, ndr ) che ho guidato fino al 1977, quando sono stato arrestato e torturato dalla dittatura fascista di Marcos. Sono uscito di prigione solo dopo la fine del suo regime, nel 1986. Due anni dopo i militari hanno ottenuto dal governo di Corazon Aquino una nuova incriminazione nei miei confronti. Allora mi sono rifugiato qui in Olanda, dove ho chiesto asilo politico. Senza mai ottenerlo, a causa delle pressioni diplomatiche di Manila e Washington, benché il Consiglio di Stato olandese abbia riconosciuto il mio status di rifugiato politico. Per il governo Usa e per l’Unione europea lei è un terrorista.

Dopo l’11 settembre 2001 sono stato inserito nelle ‘liste nere’ dei terroristi internazionali. Lo sono tuttora, sebbene a luglio il Tribunale europeo di primo grado si sia chiaramente espresso per la mia cancellazione dalla lista dell’Ue. Io sono un comunista, non un terrorista: i governi europei sbagliano a seguire la linea Bush per cui tutti i movimenti rivoluzionari sono terroristi. Mi sono sempre opposto con forza sia al terrorismo di gruppi come al-Qaeda o Abu Sayyaf che al terrorismo di Stato degli Usa e di altre potenze che opprimono con lo sfruttamento economico e uccidono migliaia di persone con le loro guerre di aggressione. Come descriverebbe la natura e gli scopi dell’Npa?

E’ il principale strumento per realizzare nelle Filippine la rivoluzione democratica prima e socialista poi. L’Npa ha migliaia di combattenti, quasi tutti di estrazione contadina, attivi su 120 fronti di guerriglia sparsi in 70 province su 81. Oltre a combattere per la conquista del potere l’Npa opera, dove presente, a sostegno del popolo e della sua emancipazione politica, economica e culturale, promuovendo riforme agrarie, cooperative di lavoro, programmi sanitari e di alfabetizzazione e altro ancora. Non le pare che oggi una guerriglia comunista sia anacronistica?

Anacronisti sono l’imperialismo Usa e il feudalesimo dei latifondisti che sfruttano e opprimono le masse popolari filippine, non chi combatte contro di essi. 14

Nel 2002 la presidentessa Arroyo ha lanciato contro l’Npa l’operazione Bantay Laya: in cosa consiste?

Questo piano, ‘Vigilanza della Libertà’, è stato lanciato sull’onda della guerra al terrorismo post-11 settembre ed è ricalcato sull’operazione Phoenix degli Usa in Vietnam negli anni ‘60. Come quello, mira alla distruzione dell’infrastruttura politica, oltre che militare, della guerriglia attraverso l’eliminazione di attivisti politici dell’opposizione, religiosi progressisti, sindacalisti e leader dei movimenti contadini, giornalisti indipendenti, avvocati e difensori dei diritti umani ritenuti fiancheggiatori della guerriglia. Le squadre della morte dell’esercito, della polizia e dei gruppi paramilitari hanno assassinato un migliaio di persone negli ultimi cinque anni. A questo si aggiungono le offensive militari che hanno causato milioni di profughi interni, liberando terreni poi ceduti a latifondisti o a compagnie minerarie filippine e straniere. Ma Bantay Laya ha rinfocolato la guerriglia, e attirato una pioggia di critiche internazionali contro il governo per le gravi violazioni dei diritti umani. La Conferenza episcopale filippina ha criticato duramente la legge anti-terrorismo entrata in vigore lo scorso 15 luglio.

Questa legge conferisce a esercito e polizia il potere di arrestare senza mandato di un giudice e senza formalizzazione delle accuse chiunque sia sospettato di terrorismo, dando di “terrorismo” una definizione così vaga che consente di criminalizzare tutta l’opposizione. La Arroyo ha proclamato la legge marziale senza farlo formalmente, così da non violare la Costituzione antifascista del 1987. Il ruolo degli Usa nel conflitto tra l’Npa e il governo della loro ex colonia?

Un ruolo fondamentale. I militari statunitensi hanno sempre fornito armi, addestramento, supporto logistico e d’intelligence alle truppe governative filippine. Ma dal 2002, con il pretesto e la copertura di continue quanto massicce esercitazioni congiunte anti-terrorismo, le forze speciali Usa sono sul terreno accanto ai loro colleghi locali anche durante le operazioni militari che l’esercito filippino compie sui fronti di guerriglia dell’Npa. Come procedono i negoziati di pace tra il governo e il Fronte Nazionale Democratico (Ndf), organismo di cui lei è il consigliere politico e che raggruppa il Ccp/Npa e gli altri movimenti comunisti del suo Paese?

Dopo i primi accordi raggiunti nel 1992, il governo ha boicottato i negoziati con continue rotture, rinvii e sospensioni dei colloqui. Dopo l’inserimento dell’Npa nelle liste dei movimenti terroristici, il governo ha preteso la resa immediata delle forze rivoluzionarie come precondizione negoziale, causando il blocco del processo di pace, fermo ormai da due anni. In alto: José Maria Sison. Olanda 2007, Enrico Piovesana © PeaceReporter In basso: Guerrigliera dell’Npa. Filippine, foto archivio Ndf


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Mondo

Notizie che di solito non fannno notizia

Sempre più aspro lo scontro tra Hamas e Fatah, di nuovo il preferito dai palestinesi

Le buone nuove

Gaza, il gioco Afghanistan, della guerra civile ritorno a Tora-bora

Gran Bretagna: benzina rossa

er le vie polverose di Gaza, i bambini giocano alla guerra civile. Hamas contro Fatah è più divertente del classico guardie e ladri: ci sono inseguimenti, arresti ed esecuzioni, tutto come nello scontro reale, solo che a fine giornata armi finte e bandiere vengono riposte e si torna amici. Così i bambini della Striscia tentano di dare un senso alla violenza fratricida che, lo scorso giugno, ha visto il popolo palestinese dividersi in due entità distinte, guidate da governi che non si riconoscono: l’esecutivo di emergenza del presidente Abu Mazen e Salam Fayyad in Cisgiordania, e quello di Hamas nella Striscia. La rivalità tra le parti sembra aggravarsi ogni giorno, anche per le ingerenze di Israele e degli Stati Uniti, che hanno deciso di appoggiare Abu Mazen nel timore che Hamas possa allargare la sua influenza anche in Cisgiordania, dove da settimane le forze di sicurezza del presidente arrestano gli uomini del partito islamico. Da quando Hamas ha preso il controllo della Striscia, la situazione della sicurezza è molto migliorata: sono state bandite le armi dalle strade, le milizie tribali sono state disarmate e sono cessati gli scontri tra le forze di sicurezza, parte delle quali rispondevano agli ordini del presidente Mazen e del destituito Mohamed Dahlan. L’isolamento politico di Hamas ha però peggiorato le già precarie condizioni economiche di Gaza, che attraversa continue emergenze umanitarie dovute alla gestione dei valichi di frontiera, che sono controllati da Israele. La frontiera con l’Egitto è chiusa e gli osservatori dell’Unione Europea, essenziali per la sua apertura, sono stati ritirati. Per settimane migliaia di palestinesi sono rimasti chiusi fuori. Ma la chiusura dei confini causa grosse difficoltà anche al passaggio delle merci, dai generi alimentari al combustibile, necessario alle forniture di acqua ed elettricità. Secondo un recente sondaggio, il 47 percento dei palestinesi, sia in Cisgiordania che a Gaza, oggi preferisce il governo di Salam Fayyad a quello di Hamas.

Un milione di londinesi potrà prendere l’autobus grazie al petrolio scontato di Hugo Chavez. Gli autobus di Londra non saranno più off limits per disagiati e meno abbienti: a partire da questa settimana, a loro il biglietto costerà esattamente la metà. E questo grazie al petrolio del presidente sudamericano più contestato della storia: Hugo Chavez.

Giordania: a scuola di normalità Il governo giordano permetterà ai bambini iracheni rifugiati di andare a scuola. “Il ministero giordano della Pubblica Istruzione ha deliberato l’ammissione dei bambini iracheni figli di profughi al prossimo anno scolastico, anche se le loro famiglie non fossero ancora entrate in possesso del permesso di soggiorno. Questo risolve un grande dramma della comunità irachena in Giordania”. Con queste parole l’ambasciatore iracheno ad Amman Saad Hayani ha commentato la decisione del governo giordano di offrire ospitalità ai piccoli iracheni in fuga dalla guerra che sta devastando l’antica Mesopotamia. Mohammed Akur, funzionario del ministero giordano, ha quantificato in circa 50mila i ragazzi che potranno beneficiare di questa iniziativa.

Messico: incontri privati Le autorità messicane permetteranno ai detenuti gay di incontrare il proprio compagno o la propria compagna. La Comision Nacional de Derechos Humanos era stata chiara nelle sue raccomandazioni alle autorità carcerarie messicane: restringere alla sola schiera di detenuti eterosessuali la possibilità di farsi visitare dal proprio coniuge sarebbe stata discriminatoria. Il sistema carcerario messicano ha quindi iniziato a permettere le visite coniugali anche ai detenuti omosessuali. Il primo detenuti a beneficiare di questa novità è stato Augustin N. al quale è stato concesso di fare visita al suo compagno Ricardo, nella struttura carceraria di Santa Martha Acatitla, nella capitale Città del Messico. 16

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Un nuovo pantano per gli Stati Uniti. Sei anni di guerra, nessun risultato

ra il dicembre del 2001. La cenere si era appena posata sulle macerie del World Trade Center di New York, ma in Afghanistan già infuriava quella che in molti avevano definito come la “battaglia finale” contro i talebani e i miliziani stranieri di Al Qaeda rifugiatisi sulle montagne di Tora Bora. Dopo aver bombardato la zona fino a ridurla al significato originario del suo nome – ‘polvere nera’ in lingua pashto – Washington cantò vittoria annunciando la disfatta del nemico. Oggi, a quasi sei anni di distanza, pare tutto da rifare. Da ferragosto i B-52 e i B-1 con le stelle sulle ali sono tornati a martellare Tora Bora e le truppe statunitensi a lanciare bombe a mano nelle caverne in cui la resistenza talebana si è nuovamente rintanata. L’intensità dei raid aerei e delle battaglie pare non sia inferiore a quella del 2001. Migliaia di civili stanno fuggendo dai villaggi sulle montagne per paura di incorrere in quella “sfortuna” – per usare l’espressione dell’ambasciatore Usa all’Onu, Zalmay Khalilzad – che ogni tanto vede decine di donne, bambini e anziani morire sotto i bombardamenti aerei Usa. Una sfortuna che, solo dall’inizio di quest’anno, è toccata ad almeno millecento civili afgani. Per non parlare dei quasi centomila profughi interni che, dopo essere stati invitati gli anni scorsi a tornare in patria dal Pakistan e dall’Iran, ora sono costretti a lasciare nuovamente le loro case accampandosi alle periferie delle città. Settantuno mesi di guerra, durante i quali sono state spazzate via 30mila vite afgane e quasi 700 occidentali, sono trascorsi inutilmente: i talebani sono oggi più forti che allora. Rappresentano una minaccia militare così grave alla tenuta del fragile governo alleato di Kabul che Washington e Londra continuano a inviare uomini e mezzi sottraendoli dal fronte iracheno. Quella che era iniziata come una vendetta lampo, un blitzkrieg rapido e indolore, si è ormai trasformata in un pantano che molti generali della Nato definiscono peggiore di quello iracheno.

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Ogni mese un fascicolo staccabile da raccogliere. A questa mappa introduttiva delle guerre in corso nel mondo, seguiranno mappe delle singole aree di conflitto: Iraq, Medio Oriente, Kurdistan, Pashtunistan, India, Sri Lanka, Birmania, Thailandia, Filippine, Caucaso , Maghreb, Nigeria, triangolo Sudan-Chad-Rep.Centrafricana, Somalia, regione dei Grandi Laghi, Colombia e Haiti. Successivamente proporremmo delle mappe tematiche globali su risorse petrolifere contese, risorse idriche contese, pianeta islam, la rete di Al Qaeda, basi e operazioni Usa nel mondo, antiamericanismo e ‘Stati canaglia’, traffico di droga, traffico di armi, proliferazione nucleare, migranti e profughi, tortura e pena di morte, lavoro minorile, diritti omosessuali, redito pro-capite, inquinamento ed ecosostenibilità.

Ancora troppe: nel mondo sono in corso più di trenta guerre. E ancor di più sono i conflitti locali. Una fotografia della situazione attuale. ispetto a un anno fa, non si combatte più in Burundi e in Costa d’Avorio. Ma nuovi conflitti sono scoppiati in Libano e nella Repubblica Centrafricana. La maggioranza delle guerre in corso si concentrano come sempre in Africa (Somalia, Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Uganda, Nigeria, Ciad, Etiopia, Repubblica Centrafricana) e in Asia (Afghanistan, Pakistan, Kashmir, India, Sri Lanka, Myanmar, Thailandia, Filippine, Indonesia). Sempre in fiamme il mondo arabo (Iraq, Palestina, Libano e Algeria). Si combatte ancora anche in Europa (Cecenia, Georgia e Turchia) e in America latina (Colombia e Haiti).

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Medio Oriente.

Asia.

La situazione del conflitto israelo-palestinese è complicata dalla spaccatura interna nel fronte arabo: la Cisgiordania è nelle mani del Fatah, mentre a Gaza domina Hamas. Usa, Ue e Israele appoggiano Abu Mazen, e si rifiutano di trattare con gli islamisti, mentre la gente della Striscia continua a soffrire una crisi umanitaria sempre più grave. Il conflitto in Iraq diventa sempre più sanguinoso. Con l’inizio del ritiro dei britannici da Bassora, gli Usa restano sempre più soli, mentre la guerriglia sembrano rafforzarsi, in un paese dove le violenze interconfessionali si sommano a quelle politiche. In Libano, mentre Hezbollah torna a rafforzarsi al sud, si è aperto un nuovo fronte di guerra con l’insurrezione scoppiata a maggio nel campo profughi palestinese di Nahr el-Bared.

Il livello del conflitto afgano è ormai paragonabile a quello iracheno. Per contrastare la sempre più forte guerriglia talebana, la Nato ha ripreso i bombardamenti aerei, provocando stragi tra la popolazione civile. Nelle Aree Tribali del confinante Pakistan, i sanguinosi fatti della ‘Moschea Rossa’ di Islamabad hanno fatto riesplodere con violenza il conflitto tra governo e integralisti islamici. Nell’ovest del Pakistan prosegue la guerriglia indipendentista balucia. In Kashmir non conosce tregua la sanguinosa guerra per procura tra Pakistan e India. Sempre in India, rimangno attivi i gruppi indipendentisti degli stati nord-orientali e quelli maoisti degli stati centrali. In Sri Lanka, la tregua post-tsunami è un lontano ricordo: la guerra tra governo e indipendentisti Tamil è in piena fase di escalation.


Il mondo in guerra

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1. Iraq 200 mila morti dal 2003 2. Israele-Palestina 5 mila morti dal 2000 3. Libano 1.600 dal 2006 4. Kurdistan turco 40 mila morti dal 1984 5. Afghanistan 30 mila morti dal 2001 6. Pakistan-Islamici 4.800 dal 2004 7. Balucistan (Pakistan) 500 morti dal 2005 8. Kashmir (india) 90 mila morti dal 1989

9. India-Nordest 50 mila morti dal 1979 10. India-Comunisti 6 mila morti dal 1967 11. Sri Lanka 70 mila morti dal 1983 12. Nepal 13 mila morti dal 1996 13. Birmania-Karen 30 mila morti dal 1988 14. Thailandia del Sud 2.500 morti dal 2004 15. Filippine-Islamici 150 mila morti dal 1971 16. Filippine-Comunisti 90 mila morti dal 1969

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17. Papua Ovest (Indonesia) 100 mila morti dal 1984 18. Cecenia (Fed. Russa) 250 mila morti dal 1994 19. Georgia-Abkhazia 28 mila morti dal 1992 20. Georgia-Sud Ossezia 2.800 morti dal 1991 21. Algeria 230 mila morti dal 1991 22. Nigeria 11 mila morti dal 1999 23. Darfur (Sudan) 2.500 morti dal 2003 24. Ciad 50 mila morti dal 1996

25. Rep. Centrafricana 2 mila morti dal 2003 26. Rep. Dem. Congo 4 milioni di morti dal 1998 27. Uganda 20 mila morti dal 1986 28. Ogaden (Etiopia) 3 mila morti dal 1991 29. Somalia 500 mila morti dal 1991 30. Colombia 300 mila morti dal 1964 31. Haiti 1.500 morti dal 2004 32. Paesi Baschi (Spagna) 1.000 morti dal 1960


Scricchiola la pace raggiunta nel 2006 in Nepal, dove sono ripresi gli scontri tra governativi e ribelli maoisti. Continuano i due conflitti nelle Filippine (guerriglia islamica nel sud e ribellione comunista nelle campagne). La giunta militare birmana è tornata all’attacco contro la minoranza indipendentista Karen. Drammattica impennata di violenza nel sud della Thailandia, dove prosegue la ribellione islamica. Ancora irrisolto anche il conflitto tra governo indonesiano e separatisti indigeni a Papua Ovest.

Europa. In Kosovo la paralisi diplomatica è totale. Gli albanesi minacciano, appoggiati dagli Usa, di dichiarare l'indipendenza unilateralmente. I serbi, appoggiati dalla Russia, minacciano di difendere la regione a qualunque costo. E la comunità internazionale non riesce a trovare una soluzione. In Spagna, il fallimento del processo di pace basco ha aperto una nuova stagione di attentati dell’Eta, la maggior parte dei quali sventati. Il principale interlocutore politico di Batasuna, Arnaldo Otegi, è stato incarcerato. La guerriglia islamica continua a dare filo da torcere alle truppe russe non solo in Cecenia, ma anche nelle vicine repubbliche del Daghestan e dell’Inguscezia, ormai contagiate dal conflitto. Tensione sempre più alta in Georgia tra governo e separatisti filo-russi: scontri armati e provocazioni reciproche sono in aumento sia in Sud Ossezia che in Abkhazia.

Africa. Mentre i conflitti in Burundi e in Costa d'Avorio si possono considerare praticamente conclusi e ci sono buone prospettive anche per quello in Uganda, si è invece aggravata la crisi in Somalia, dove la caduta delle Corti islamiche ha portato a una recrudescenza della violenza a Mogadiscio.

In Nigeria sono diminuiti gli attacchi dei gruppi ribelli del delta del Niger contro le installazioni petrolifere. Nella regione sudanese del Darfur potrebbe arrivare una forza di pace Onu, che potrebbe contribuire a stabilizzare anche i vicini Ciad e Repubblica Centrafricana. In Etiopia, sono tornati all’attacco gli indipendentisti della regione dell'Ogaden. Nell'est della Repubblica Democratica del Congo si registrano ancora frequenti scontri tra esercito e gruppi armati dissidenti. In Algeria è tornata la violenza dopo che i salafiti hanno aderito alla rete di alQaeda e la tensione si espande alla Tunisia, al Marocco e al Sahara Occidentale.

America Latina. I governi di sinistra stanno dando del filo da torcere a Washington, sempre più messa da parte in quell'area di influenza da sempre considerata “l'orto di casa”. La Bolivia sta vivendo una delle situazioni più delicate da quando Evo Morales è stato eletto presidente: l'opposizione sta riversando per le strade una marea di persone in segno di protesta e Morales punta il dito contro la Casa Bianca, accusandola di finanziare gli oppositori con il solo fine di spazzarlo via. E mentre gli occhi della comunità internazionale restano puntati sullo stravagante Chávez, che non perde occasione per rafforzare il suo potere, in Colombia il quarantennale conflitto tra guerriglia comunista e governo segna due tristi record mondiali: il più alto numero di sfollati interni e il più alto numero di morti da mina anti-uomo. E il negoziato di pace è in stallo. Dura a morire anche la tensione a Haiti, dove le bande armate riconducibili al movimento di Lavalas tengono in scacco la popolazione.

Convoglio militare Usa. Afghanistan, 2006. Enrico Piovesana © PeaceReporter


I familiari dei sequestrati chiedono aiuto al presidente venezuelano

Si è perso il conto dei morti. E i crimini di guerra sono senza colpevoli

Il numero dei morti nel mese di agosto*

Colombia, la palla a Chavez

Iraq, impunita la strage di Haditha

Un mese di guerre

l destino dei prigionieri politici nella mani delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia è affidato a Hugo Chavez, il presidente del Venezuela. A tirare in mezzo il paladino della rivoluzione bolivariana nell’infinito braccio di ferro tra guerriglia e governo colombiano, sono stati i familiari di alcuni dei sequestrati coadiuvati da una senatrice, Piedad Córdoba, che si è occupata di convincere Alvaro Uribe a permettere l’intervento venezuelano. Così, sedici genitori, fra cui Yolanda Pulecio, madre di Ingrid Betancourt, e Gustavo Moncayo, il professore che ha percorso migliaia di chilometri a piedi per chiedere al governo l’accordo umanitario che riporti a casa il figlio rapito nove anni fa, sono volati a Caracas. Risultato: il presidente rosso ha promesso loro “tutto l’aiuto”. Si è detto disposto a incontrare le Farc e disponibile a cedere un’area del suo territorio per lo scambio di prigionieri. Ma su questo la guerriglia ha rispoto picche. Basilare nelle condizioni dettate dalle Farc è, infatti, poter contare su di un’area smilitarizzata sufficientemente ampia, ma in Colombia. E su questo punto tutti i tentativi fatti finora sono miseramente falliti. “E’ molto importante che Chavez ci appoggi – ha spiegato Yolanda Pulecio – e che forzi le cose sia con Uribe che con la guerriglia”. La trattativa resta delicata, tanto che il presidente francese Nicolas Sarkozy, che segue quale priorità la sorte della franco-colombiana Betancourt, promette di non abbassare la soglia d’attenzione. Fari puntati anche da parte di Svizzera e Spagna. Qualche spiraglio anche nei rapporti governo Esercito di liberazione nazionale, l’altro gruppo armato che da 40 anni combatte il potere costituito. Sono, infatti, ripresi i colloqui all’Avana, che dovrebbero portare almeno a un accordo di base. L’intento è arrivare a un cessate-il-fuoco. Nel frattempo, la situazione interna peggiora. Ogni giorno si verificano scontri a fuoco e rapimenti. Gli sfollati interni stanno raggiungendo la tragica cifra di 4 milioni e i paramilitari si stanno riorganizzando come e più di prima.

lla fine potrebbe non pagare nessuno. Altri due marines Usa, dopo una prima assoluzione, non saranno processati per il massacro di 24 civili inermi, avvenuto il 19 novembre 2005 ad Haditha, nella provincia di al-Anbar, in Iraq. Quel giorno un’unità dei marines di pattuglia incappò nell’esplosione di una mina. Un soldato perse la vita, e i suoi commilitoni persero la testa. Tre famiglie irachene, i Waleed, gli Younis e gli Ayed vengono brutalmente massacrati dai soldati Usa, che dopo vengono coperti dai loro superiori, che li aiutano a nascondere le prove del massacro. Solo una bimba sopravvissuta è riuscita, parlando con un giornalista, a raccontare quello che era accaduto, del quale non avremmo saputo nulla. Ma una Corte militare Usa ha deciso che non ci sono elementi per procedere. L’impunità per il massacro si aggiunge a tutta una serie di violazioni ai danni della popolazione civile irachena che resteranno senza colpevoli, come racconta un’inchiesta del settimanale statunitense The Nation, che ha intervistato 50 veterani Usa che hanno prestato servizio in Iraq. Iraq Body Count, network di ricercatori universitari statunitensi, fissa la cifra dei civili morti in Iraq a più di 70mila. Ma sempre più questa cifra pare una sottostima. Tempo fa la rivista inglese The Lancet calcolò in circa 200mila le vittime civili delle forze di occupazione dell’Iraq, una cifra che all’epoca era stata ritenuta eccessiva. Sempre più pare che sia giunto il momento di rivedere le stime dei civili iracheni morti dal marzo 2003 a oggi. Anche perché la violenza del conflitto non accenna a diminuire, e il numero delle vittime tra i militari della Coalizione ha superato le 4mila unità. Si combatte ancora in tutto il paese, e anche l’Iraq settentrionale, a maggioranza curda, che pareva pacificato, è stato teatro di uno degli attentati più sanguinosi dall’inizio del conflitto: più di 400 morti, appartenenti alla setta degli Yazidi, una minoranza religiosa che, come altre presenti da millenni in Iraq, sono in fuga dalla guerra.

PAESE

I

A

MORTI

Iraq Afghanistan Pakistan (guerriglia islamica) Sri Lanka Somalia Filippine (guerriglia islamica) Assam (India) Darfur (Sudan) Kashmir (India) Algeria Cecenia (Fed. Russa) Balucistan (Pakistan) Colombia Nepal Israele-Palestina Thailandia del Sud Nigeria India (guerriglia comunista) R.D.Congo Filippine (guerriglia comunista) Kurdistan (Turchia)

3.405 754 332 229 125 124 117 87 84 61 56 55 50 50 45 41 30 29 19 12 10

TOTALE:

5 .7 1 5

I dati che qui riportiamo sono dati ufficiali, raccolti da agenzie di stampa internazionali o locali. Per cui sono da intendersi sempre per difetto: in molti paesi del mondo non si contano i vivi, figuriamoci i morti.

* Il periodo considerato è quello compreso tra il 20 luglio e il 24 agosto 17


Qualcosa di personale Kenia

Donne dell’altro Kenia Di Rose Ouko Testo raccolto da Matteo Fagotto

Mi chiamo Rose, ho 25 anni. Vivo a Mathare, una delle baraccopoli piu grandi di Nairobi. Sono venuta qui da un villaggio nella foresta di Kakuma nove anni fa. Vivo gestendo un banchetto di verdure. a vita qui è dura, una volta che entri a Mathare è impossibile uscirne. Eppure, quando tre anni fa conobbi W., pensai che la mia vita fosse cambiata. Era così dolce, buono, amato da tutti. Dopo qualche mese eravamo già sposati. Due anni fa cambiò tutto. Era una giornata d’estate, e i Mungiki arrivarono a Mathare. Erano la setta religiosa più importante del Kenya: capelli rasta, armati di bastoni e machete, si ispiravano alla ribellione Mau Mau contro la Gran Bretagna degli anni ‘50 e pregavano rivolgendosi al monte Kenya, la casa del loro dio Ngai. Combattevano i costumi occidentali e il cristianesimo e volevano far tornare la comunità Kikuyu, la più numerosa del Paese, alle proprie radici culturali. Promisero ordine e legge, e ci misero meno di tre mesi a mantenere la promessa: in quel periodo Mathare sembrava la Svizzera. I Mungiki erano diventati un esempio per tutti. Fu allora che W. decise di entrarci, ‘per dare ai nostri figli un futuro migliore’ mi disse. Non potevo sapere che la sua decisione sarebbe stata l’inizio della fine. All’inizio, i mutamenti furono impercettibili: cambiamenti d’umore improvvisi e poco altro, tanto che non ci feci caso. Fino a quando, una notte, W. tornò a casa tardissimo. Io lo avevo aspettato sveglia, come al solito, e gli chiesi arrabbiata dove fosse stato. Lui prese a pestarmi selvaggiamente fino a lasciarmi mezza morta sul pavimento. Da quel giorno, le violenze diventarono quotidiane. W. picchiava me e i miei due bambini, che avevano quattro e sei anni.

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ome prova di fedeltà, i Mungiki gli avevano chiesto di ripudiare la sua famiglia. Mi proibiva di indossare i jeans, e mi diceva di prepararmi a essere infibulata per entrare nella setta. Diventare una di quelle bestie era l’ultima cosa che volevo. Trovai la forza di dire tutto ai miei genitori. Mio padre venne a prendermi per portarmi via, ma dopo due giorni W. si presentò a casa dei miei. Mi disse di tornare immedia-

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tamente a Mathare da lui, altrimenti quella notte i Mungiki avrebbero ucciso mio padre e mia madre. Ero terrorizzata, ma non potevo mettere in pericolo la loro vita. Decisi di tornare e di capire che cosa avesse trasformato l’uomo che amavo in un animale. Presi informazioni sui Mungiki, ma non era cosa facile: i membri della setta sono vincolati da un giuramento che può essere sciolto solo con la morte. I pochi che l’hanno tradito sono stati uccisi e fatti a pezzi. Parlai con un’altra ragazza sposata a un membro della setta. Mi raccontò delle cerimonie nello spiazzo della fattoria di Mathare. Prelevavano a forza i nuovi adepti dalle case e li costringevano a giurare fedeltà bevendo un intruglio a base di resti umani e animali. Poi li cospargevano di escrementi di capra e li facevano pregare rivolti verso il monte Kenya. Mungiki controllavano il racket dei trasporti pubblici, chiedevano il pizzo ai negozianti, avevano in mano le forniture di acqua e luce. Da quando era diventato segretario della setta per l’intera Mathare, W. passava tutto il giorno in giro a raccogliere soldi, tornava a casa per cena, mangiava senza neanche parlarmi e usciva per andare alle riunioni del gruppo. Io soffrivo, perché lo amavo ancora, e odiavo quella setta maledetta che me l’aveva portato via. Sette mesi fa è finito tutto. W. è stato ucciso in un’operazione di polizia, la gente di Mathare si è ribellata e ha cacciato i Mungiki, bruciando le loro case per non farli tornare più. Sono di nuovo una donna libera. Quando ripenso a lui vorrei uccidere con le mie mani quel bastardo che mi ha fatto passare due anni d’inferno. Ma la sera, quando vado a dormire, ripenso a quel ragazzo dolce che tre anni fa mi fece sognare di poter essere felice. Anche vivendo a Mathare.

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Nella baraccopoli di Mathare. Nairobi, Kenia 2007. Ugo Borga per PeaceReporter



La storia Italia

La nostra Africa Dal nostro inviato Luca Galassi Don Pasquale è solo. Anche il dottor Ruggero è solo. E’ sola Antonella, direttrice della cooperativa ‘Oasi 2’, che si batte contro la tratta delle donne. E Giuseppe, che con la sua associazione, ‘Finis Terrae’, assiste i clandestini. a fine della terra si chiama Capitanata, ieri la Daunia di Federico II. Oggi il più grande agro d’Italia. Compreso tra i comuni di Cerignola, Foggia, San Ferdinando, Lucera, Manfredonia. Terra di pianure e solitudini. E dove la terra finisce, comincia l’Africa. L’Africa di Gabriela e del suo bar, piovuto quasi come un dono sulla terra degli ultimi. Gli ultimi della terra frequentano Borgo Tre Titoli, strada provinciale 95, che da Cerignola, tagliando un piatto mosaico di appezzamenti coltivati a ortaggi, ulivi e viti, porta fino a Candela. Siamo nel cuore della Capitanata, dove il lavoro nei campi comincia all’alba e finisce chissà quando. Anche al tramonto. Per tre o quattro euro all’ora. Al sorgere del sole la piana brulica di migliaia di uomini e donne. Le schiene chine a raccogliere i prodotti dell’ortofrutta: zucchine, carciofi, cavoli. E pomodori, l’oro rosso della Puglia. A tonnellate, i frutti prendono la via della Campania, dove si concentra il cinquanta per cento delle industrie di trasformazione. Il bar di Gabriela è l’unico ristoro per centinaia di maghrebini, polacchi, rumeni, bulgari e africani che, a fine giornata, arsi dal sole e dalla fatica, cercano un po’ di refrigerio in una birra. A volte si cucinano patatine fritte. Se capita, un cous-cous, ma solo per gli amici. Qui è come al Baghdad Cafè del film di Percy Adlon, e Gabriela è come Brenda. Nera, magra, forte. A volte aggressiva, “perchè se non lo sei ti mettono i piedi in testa”, dice. Ha 40 anni, ed è fuggita da Genova. Da un rapporto coniugale in crisi. Forse da un marito violento. Ha preso un treno, la cui corsa non finiva più. “Quanto è lunga la terra? Dove finisce la terra?”, si chiedeva durante il viaggio. E’ fuggita, come chiunque altro qui. Da un altrove che si chiama povertà. O galera. O guerra. Sui volti che frequentano il bar di Tre Titoli si disegna una geografia di fuga e solitudine che accomuna l’uno all’altro. Li fa consanguinei, li affratella. Fugge Fouad, marocchino, da un passato trascorso in galera. Kojoli, ghanese, da un processo per tentato omicidio: ha sparato a un parente che lo minacciava nella piantagione di cacao dove lavorava. Fugge Piotr, polacco, dopo una lite con un poliziotto che gli ha sospeso la patente, facendogli perdere il lavoro di una vita. Camionista, ha girato in lungo e in largo i Balcani, guidando anche i convogli umanitari per il Kosovo. E Ahmed, la cui fuga ha forse avuto termine nell’amore. Si è sposato con un’italiana, dopo quindici anni in giro per l’Europa. E finalmente ora ha un permesso di soggiorno. Gabriela li accudisce tutti, con polso e tenerezza. ‘Mama’, la chiamano. “Non sapevo che avrei trovato un luogo così simile all’Africa”, racconta. E non perché qui il sole spacca la terra, o i salari sono da fame. Non perché qui cani e topi sono animali ugualmente domestici. O perché le masserie diroccate, senza acqua né luce, a sera si stipano di corpi. “Qui ho trovato gente di cuore, persone che hanno meno di me. Ho trovato la semplicità, l’umiltà, la sincerità di gente a cui mi sono affezionata. Questa è la mia Africa”. Non possiamo chiamarla col suo vero nome, Gabriela. Non ce lo permette. “Voi giornalisti siete come i preti. Promettete sempre e non mantenete mai”. Don Pasquale non sarebbe d’accordo con questa donna senza paura e senza peli sulla lingua. Questa donna

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è come lui. Lui le sue promesse le mantiene. Sempre. Dirige la Caritas di Cerignola, paese che d’estate pullula di mani tese a implorare elemosina. Sono madri e bambini Rom che “fenomeno del tutto nuovo – racconta il parroco – rovistano nei cassonetti dell’immondizia. Mai successo, da noi. Abbiamo toccato il fondo della dignità umana”. E’ nato qui, questo prete corpulento e deciso, 33 anni fa. Ed è solo. In prima linea, ma solo. “Dalle istituzioni solo parole”. Due volte a settimana accoglie i diseredati al centro di ascolto della Caritas. Pasta, vestiti, scarpe. Consigli, informazioni, sostegno legale, aiuto materiale. “Mica come il Comune. Mica come l’assessorato al Sociale, che ai bambini, invece di cibo o medicine, porta giocattoli. Gesto lodevole, ma che se ne fanno dei giocattoli? Qui siamo gli unici, con una rete di associazioni, a gestire l’emergenza dei clandestini”. ntonella De Benedictis gira da dieci anni per le campagne con un’auto sulla quale è impresso il nome della sua cooperativa: ‘Oasi 2’. Incontra le vittime dello sfruttamento e della tratta di esseri umani. Incontra le prostitute. Offre loro quel po’ di accoglienza che i progetti finanziati dal ministero delle Pari Opportunità le consentono. Una goccia in un mare. I clandestini sono migliaia. E sono invisibili. Lo sa bene Giuseppe De Mola, che con l’associazione ‘Finis Terrae’, in convenzione con la Asl e Medici Senza Frontiere, lavora come mediatore culturale negli ambulatori di Cerignola e Stornarella, offrendo assistenza medica gratuita e medicinali anche a chi non ha né documenti né nome. “Le patologie più frequenti - spiega il dottor Ruggero Giuliani - sono legate alle condizioni di lavoro e di vita: malattie della pelle, problemi osteo-muscolari. E poi malattie infettive, epidemie di diarrea, gastroenterite, perché bevono dai pozzi di irrigazione”. Ci si lavano, gli invisibili, nei vasconi dell’irrigazione. Ci bevono. E ci muoiono anche. Come Claudia, 27 anni, polacca, annegata a giugno. O uno slovacco senza nome, affogato due anni fa. Sono scomparsi a centinaia nelle campagne di Cerignola. Molti di loro sul lavoro. Per le istituzioni, i sindacati, gli enti previdenziali, le forze dell’ordine, gli irregolari non esistono. Il sindaco di Cerignola, Matteo Valentino, ha spiegato più volte che “la volontà politica di fornire assistenza agli immigrati c’è. Sono le risorse che non ci sono”. Il Comune ha inaugurato un centro di accoglienza a Borgo Tressanti. Ma solo per chi è in regola. La Cgil ha aperto da pochi mesi uno sportello di assistenza. Ma solo per chi ha un contratto. La realtà è che un manipolo di pochi, in solitudine, combatte per garantire a un esercito di braccianti senza nome condizioni di vita appena dignitose. Per chiunque altro, questi uomini e queste donne sono vuoti a perdere, come le bottiglie di birra abbandonate tra i cespugli del bar di Gabriela, dove i ratti già avvicinano la lingua in cerca di umidità e di refrigerio. Merce rara, in questa terra rovente e desolata.

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In alto: Nei campi di pomodoro. In basso: Al bar di Gabriela. Puglia, Italia 2007 Luca Galassi ©PeaceReporter


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Italia

‘Nduja connection Di Nicola Gratteri*

La strage di Duisburg ha riportato la ‘ndrangheta in prima pagina. Come era successo dopo l’omicidio del vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria, Francesco Fortugno. Analisi, inchieste, articoli per ribadire la pericolosità di una organizzazione criminale tra le più ricche e pervasive del mondo, con un volume d’affari pari al 5% del prodotto interno lordo e con pericolose ramificazioni in Europa, Nord America, Sud America, Australia ed Africa. uella stessa organizzazione che fino ad alcuni anni fa era considerata un’accozzaglia di criminali, protetta da un’omertà senza tempo, minata da vecchie faide paesane e dedita prevalentemente al pizzo e ai sequestri di persona, è ormai diventata una holding del crimine che gestisce tonnellate di cocaina in tutto il mondo. La droga ha cambiato tutto. Anche i pastori della Locride, quelli che tra Africo, San Luca, Platì e Natile di Careri fino al 1991 avevano messo a segno 147 rapimenti. Ora anche loro, assieme ai figli e ai nipoti, trafficano in droga, ma senza venire meno a quel modello di società tipico delle ’ndrine con regole e valori, come il silenzio e il vincolo di sangue. Raccontano i pochi collaboratori di giustizia che la forza della ’ndrangheta sta nella sua propria natura, nella impenetrabilità della sua struttura e nella risorsa dei legami primari. Pentirsi significa tradire i propri congiunti e questo comporta problemi di ordine morale e psicologico assai più pesanti della paura di vendette e ritorsioni. Negli ultimi anni, la ’ndrangheta in provincia di Reggio Calabria si è ancora di più blindata. Ha modificato la propria struttura, dotandosi di un’organizzazione di tipo verticistico-federativo, qualcosa di simile alla ‘camera di controllo’ propria del crimine organizzato degli anni Cinquanta e Sessanta, rispettosa degli equilibri geopolitici ma soprattutto della natura parentale delle ’ndrine, basata sull’omertà, sulla coesione interna e sulla sostanziale autonomia nelle rispettive aree di influenza. Ma questi ‘accorgimenti’ non sempre riescono a frenare l’impeto delle ‘ndrine. Spesso le faide esplodono con il loro carico di odio selvaggio che ruota sempre attorno al soldo, alla proprietà o semplicemente al prestigio e all’affermazione sociale. Interessi, più che vendette. Oggi, nessuno fa più mistero sulle potenzialità della ’ndrangheta, entrata nei più importanti circuiti dell’economia illegale rivelando una grande capacità di adattamento ai processi di modernizzazione. Secondo la Dia (la Procura Nazionale Antimafia) le ’ndrine sono quelle che usano di più Internet per riciclare i proventi delle loro lucrose attività. Proprio questa capacità di adeguarsi alle nuove realtà ha fortemente contribuito ad aumentare il livello di affidabilità della ’ndrangheta, come confermano i solidi rapporti che essa è riuscita a creare con organizzazioni criminali italiane e straniere, ma anche con potenti gruppi terroristici.

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egli ultimi tempi la ’ndrangheta ha cominciato a investire anche nella produzione di cocaina, grazie ai rapporti che da tempo intrattiene con l’Auc, l’Autodefensas Unidas de Colombia, il braccio armato del narcotraffico colombiano. Ormai anche la Drug Enforcement Agency (Dea), l’Antidroga americana, parla di coca colombiana e di regìa calabre-

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se. Grazie ai proventi della cocaina, ma anche dell’eroina e dell’hashish, del commercio delle armi e dello smaltimento dei rifiuti solidi e tossici, i boss calabresi hanno assunto una dimensione sempre più internazionale, riciclando e reinvestendo ingenti capitali in attività del tutto lecite non solo in Italia, ma anche all’estero. el 1993, un broker legato alle ‘ndrine più potenti del reggino ha cercato di acquistare da un istituto di credito tedesco una somma di rubli per un valore di 2.600 miliardi di vecchie lire, con cui avrebbe dovuto acquistare una banca, un’acciaieria e un’industria chimica in Russia. Nel marzo del 2004, un’inchiesta del Gruppo Operativo Antidroga (Goa) della Guardia di Finanza ha scoperto investimenti enormi della ’ndrangheta in Belgio, dove le cosche Ascone e Bellocco di Rosarno, alleate con quelle di San Luca, in un solo giorno erano riuscite a riciclare 28 milioni di euro, acquistando un intero quartiere di Bruxelles. Interessi da capogiro sono emersi anche in Germania dove la ’ndrangheta controllerebbe una rete di 300 pizzerie, mentre a Roma alcune ’ndrine avevano messo le mani su un convento di suore ed erano in trattativa per acquistare una scuola privata.

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cresciuto anche il rapporto con la politica. La ’ndrangheta non delega più come un tempo, ma partecipa, corrompe, si infiltra e decide, governa i meccanismi di mercato e condiziona la democrazia rappresentativa. Non ha preferenze, è bipartisan, ma non sta mai all’opposizione. Purtroppo, la ‘ndrangheta ha potuto contare anche su un vantaggio fatto di decenni di disattenzione. Nonostante i molti proclami e le tante promesse, negli ultimi tempi il legislatore ha fatto poco o niente per mantenere in piedi la legislazione che dopo le stragi di Palermo aveva consentito di raccogliere importanti successi investigativi e giudiziari. Il patteggiamento in appello, il rito abbreviato, la revoca del 41 bis a molti affiliati e l’indulto hanno favorito le mafie, mortificando coloro i quali si sono sempre battuti per assicurarli alla giustizia. A chi giova questo atteggiamento permissivo? Il tempo delle parole è finito. Il politicismo o l’antimafia del giorno dopo devono essere messe da parte. Bisogna colpire ora e con durezza. Altrimenti, arginare o fronteggiare la ‘ndrangheta sarà sempre più difficile.

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* Sostituto procuratore distrettuale antimafia a Reggio Calabria e autore, con Antonio Nicaso, del libro ‘Fratelli di Sangue’ (Luigi Pellegrini Editore)

Vebicaro, Calabria. Italia 1984 ©Tano D’Amico


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Migranti

Il massacro di luglio Di Gabriele Del Grande

Duecentodiciassette morti in un mese, luglio, che si conferma il peggiore del 2007: 79 annegati nel Canale di Sicilia e almeno 98 sulle rotte per le Canarie, in Spagna; 34 morti disidratati nel deserto del Sahara, tra Niger e Libia; 3 giovani trovati asfissiati su un camion diretto in Germania, a Mestre; 2 morti ammazzati sotto il fuoco della polizia di frontiera marocchina, durante un tentativo di imbarco, a El Ayun, e una ragazza investita a Calais, in Francia, mentre fuggiva dalla polizia. all’inizio dell’anno le vittime dell’immigrazione clandestina sono già 666. Nell’intero 2006 i morti furono 1.582. Eppure gli sbarchi sono dimezzati. Meno 55% in Spagna, con 6.306 arrivi nei primi sei mesi del 2007. Meno 45% in Italia, dove da gennaio al 25 luglio sono sbarcate 5.200 persone contro le 9.389 dello stesso periodo nel 2006. É un corollario del pattugliamento in mare. Senza l’apertura di canali legali di ingresso, la pressione migratoria non cala. Le navi militari spostano solo i tragitti su rotte più lunghe e pericolose, e su imbarcazioni sempre più piccole, e quindi meno sicure, per sfuggire ai radar. I dati del Ministero degli interni italiano parlano chiaro. Nel 2005 viaggiavano in media 101 persone a bordo di ogni nave diretta in Sicilia. Nel 2006 erano 53 e nel 2007 sono 41. E i racconti di chi sbarca confermano la scomparsa della figura dello scafista. Al timone siede a caso uno dei passeggeri. Gli organizzatori risparmiano e i morti del Canale aumentano: già 327 nel 2007 contro i 302 di tutto il 2006.

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ammutinamento dei clandestini. Diciotto luglio 2006. Un gommone carico di 37 persone, tra cui 11 donne e due bambine di 6 mesi e 5 anni, chiede aiuto al peschereccio tunisino “el-Hagg Mohammad”, 42 miglia a sud di Lampedusa. Il peschereccio fa salire a bordo le donne, i bambini e alcuni uomini. Sul gommone rimangono 15 passeggeri, che però tagliano la corda alla vista della motovedetta tunisina Bizerte, riprendendo la rotta per Lampedusa. I 22 a bordo allora prendono il comando del peschereccio per timore di essere riportati in Tunisia. Due delle donne hanno lasciato i mariti sul gommone, ormai lontano. La vicenda si risolve all’alba dopo una notte passata in acque internazionali, tra Malta e Lampedusa, scortati dal Bizerte. Il Bizerte carica i 22 e li riporta nel porto di Sfax, in Tunisia. Il gommone intanto è intercettato e soccorso dalla Guardia costiera e i 15 sono portati a Lampedusa. É un respingimento collettivo in mare. L’Acnur (Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni unite) chiede a Tunisi di incontrare il gruppo. A bordo c’erano eritrei, sudanesi, somali ed etiopi. Tutti possibili rifugiati politici. Ma nel silenzio più assoluto, le autorità tunisine riaccompagnano i 22 in Libia, da dove si erano imbarcati il 15 luglio. Un mese dopo, nessuno ha più notizie dei 22. Presto potrebbero fare la fine dei 443 eritrei detenuti a Misratah, in Libia, in condizioni allarmanti. Stanno dentro da oltre un anno, tra loro

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ci sono 60 donne, di cui una incinta al nono mese, e 7 bambini, il più piccolo di soli tre mesi, nato in carcere ad aprile. Saranno tutti espulsi, contro ogni Convenzione internazionale. E anche questa volta la Comunità internazionale resterà a guardare. a Libia ha già deportato eritrei, nel 2006 e prima ancora nel 2004, a più riprese, anche su un volo pagato dall’Italia. Il 27 agosto 2004 uno degli aerei venne dirottato dai deportati eritrei a Khartoum, in Sudan. 60 dei 75 passeggeri vennero riconosciuti rifugiati politici dall’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite. In patria avrebbero fatto la fine dei 223 deportati da Malta tra settembre e ottobre del 2002. Tornati in Eritrea, furono detenuti e torturati. A giugno, in Libia sono stati arrestati 1.500 migranti irregolari. A maggio erano stati 2.137. Dati a cui corrispondono espulsioni alla frontiera sud, in pieno deserto del Sahara, o rimpatri aerei anche verso Paesi in guerra. É questa la Libia con cui l’Europa continua a siglare accordi di collaborazione per il controllo delle frontiere, l’ultimo tra le righe del memorandum firmato il 23 luglio 2007, dopo il caso delle infermiere bulgare.

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la politica dei nuovi gendarmi. Con il Marocco ha funzionato. Salvo gli effetti collaterali. Come i due morti ammazzati la notte del 30 luglio, sotto il fuoco dell’Armée Royale, lungo le coste di el-‘Ayun. Erano in 37 sub-sahariani, si stavano imbarcando per le Canarie. Un agente ha sparato. Diversi colpi. Oltre ai due morti altri due uomini sono ricoverati nell’ospedale della capitale del Sahara. Quattro giorni prima, la notte del 26 e del 27 luglio, 300 migranti sub-sahariani venivano arrestati durante una retata nel campus universitario di Oujda, lungo la frontiera Marocco-Algeria, dove da anni i deportati trovano rifugio prima di ripartire a piedi verso la capitale. Il campus è stato passato al setaccio, e l’accampamento dato alle fiamme. I migranti arrestati sono stati espulsi all’altezza di Galla.

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In alto: Porto Empedocle, Madonna del mare. Sicilia, Italia 2004 ©Archivio PeaceReporter In basso: Preghiera. Campania, Italia 2007. Ugo Lo Presti per PeaceReporter


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Rubriche

In edicola di Claudio Sabelli Fioretti

Testate e testate In tivù di Sergio Lotti

Un’occasione perduta Forse la ricostruzione della saga degli Agnelli illustrata da Enrico Mentana in una recente puntata di Matrix ha soddisfatto il palato degli amanti del gossip, dal momento che si basava su un ben documentato libro fresco di stampa, ma chi considera Matrix un programma di approfondimento si aspettava qualcosa di più di una semplice dinasty. Era l’occasione giusta per andare un passo oltre il libro e rileggere con occhi distaccati la storia della Fiat, rimasta orfana del patriarca-simbolo, e del suo intreccio con lo Stato, sempre prodigo di aiuti e prepensionamenti per proteggere il gracile gigante torinese, poverino, dalla troppo spietata concorrenza internazionale. Si sarebbe così potuto capire meglio perché, mentre le nostre autostrade sono intasate e le grandi città sono camere a gas, per un pendolare raggiungere il posto di lavoro in treno è un incubo quotidiano. Per mezzo secolo, mentre le ferrovie marcivano, il Belpaese si riempiva di autostrade, anche dove transitavano meno auto che nei deserti dell’Arizona, perché stimolavano la richiesta di cilindrate sempre più alte che servivano alla Fiat per allinearsi alla media delle vetture europee e accrescere le esportazioni. E quando il gigante aveva bisogno di altre quote di mercato, gli si lasciavano inghiottire le aziende nazionali concorrenti, magari decotte al punto giusto e impacchettate in confezione regalo, senza badare alle migliaia di posti di lavoro e alla perdita del patrimonio di idee e tecnologia che questi doni costavano. Intanto i dirigenti del gruppo investivano buona parte dei profitti in altri settori che gratificavano di più gli azionisti. Su tutto questo Mentana ha sorvolato, ma bisogna capirlo. La dinasty sarebbe stata poco suggestiva se si fosse chiarito una volta per tutte che non si tratta qui di una famiglia geniale che ha fatto grande la Fiat, la quale a sua volta ha fatto grande l’Italia. E’ stata piuttosto l’Italia, con i suoi contribuenti, e soprattutto con la professionalità e i sacrifici di alcune generazioni di progettisti, tecnici e operai, a far grande la Fiat, anche a dispetto di vistosi errori di gestione e di un diffuso grigiore sabaudo che la genialità tendeva a schiacciarla. E senza la Fiat, della famiglia Agnelli non si parlerebbe più da un pezzo, se non per qualche lite sull’eredità. Ma non nelle trasmissioni serie. 26

La storia della testata di Zidane a Materazzi è una storia che, come direbbe mia nonna, ormai ha fatto venire il latte alle ginocchia di tutti. Ma è una storia a tappe e l’uscita del prossimo libro del giocatore dell’Inter ha stimolato l’ultima puntata della telenovela. Che cosa ha detto veramente il prode Materazzi per suscitare le ire del prode Zidane? Lo sapevano tutti. Aveva detto che la sorella di Zidane era una puttana. Frase volgare, inutile, maschilista e cretina ma che fa parte da decine di anni del peggiore gergo calcistico che come tutti sanno si riferisce a un ambiente che non è esattamente Oxford. Lo sapevano tutti che aveva detto quella frase. Io lo avevo anche scritto sul Magazine all’interno di una intervista al presidente Moratti qualche mese fa. Ma si sa, non c’è nulla di più inedito della carta stampata. Non mi hanno meravigliato quindi le paginate che i giornali hanno dedicato alla zuccata di Zidane. Che cosa è che invece mi ha sorpreso? Che anche in questo caso i giornali hanno applicato un nuovo sistema di

illustrazione. Ricordo una volta che in una intervista a un quotidiano un politico diceva: “E poi lui è venuto a Canossa”. Illustrazione: Matilde di Canossa. Stavolta come si è illustrata la frase “portami quella puttana di tua sorella”, frase chiaramente idiomatica? Con la foto della sorella di Zidane. Ha un senso tutto ciò? E se Materazzi avesse detto “brutto figlio di una mignotta”, i giornali avrebbero pubblicato la foto della mamma di Zidane? E se avesse detto “ma li mortacci tua” i giornali avrebbero pubblicato le foto dei nonni defunti? E se avesse detto “sei uno stronzo”? La foto di una cacca? E se gli avesse urlato “finocchio”? La foto di un finocchio? E se gli avesse detto “cornuto” la foto di uno stambecco? E se gli avesse detto “bastardo”? La foto di un cagnetto? Mi sarebbe piaciuto se gli avesse detto “vai a quel paese”. Li avrei voluti vedere gli uffici iconografici dei quotidiani impegnati a trovare la foto del paese natale di Zidane. www.sabellifioretti.it

Ragazzi negli anni ‘60. Poi adulti. In mezzo, la storia di un gruppo di donne e uomini con le loro scelte, le avventure, le gioie, le ambizioni, gli obiettivi raggiunti e mancati. Intorno il boom economico e il Sessantotto, la motorizzazione di massa e le manifestazioni studentesche. Romanzo di Paolo Lezziero prezzo 10 euro disponibile presso Edizioni La Vita Felice Via Hayez 6 20129 Milano tel 0229402703 info@lavitafelice.it copertina di Paolo Derno Ricci


In libreria

A teatro

di Maria Nadotti

di Silvia Del Pozzo

Niente sesso in città di Suad Amiry

Teatri e danze di guerra

Che Suad Amiry – architetta palestinese innamorata del suo paese e della sua storia al punto da avere dato vita a Riwaq, un’organizzazione il cui scopo è la protezione del patrimonio architettonico locale – sia anche una storyteller naturale lo sappiamo dai suoi primi due libri narrativi: Sharon e mia suocera (Feltrinelli, 2003) e Se questa è vita (Feltrinelli, 2005). Nati quasi per caso, per ingannare i lunghi periodi di coprifuoco imposti dall’esercito israeliano a tutte le principali città della Cisgiordania, questi due primi volumi erano un dissacrante e umanissimo modo di esorcizzare le brutture di una vita privata delle libertà fondamentali. Una maniera mite e scoppiettante di humour di descrivere dal basso le mortificazioni di una vita in gabbia, ma anche le deformazioni che a poco a poco alterano la postura e lo sguardo di chi alle sbarre finisce, se vuol sopravvivere, per adattarsi. Oggi, con Niente sesso in città (Feltrinelli, 2007), Amiry sceglie di premere fino in fondo sul pedale della commedia, costruendo un’opera a più voci (femminili) sui guasti, personali e collettivi, dell’invecchiare. Attraverso i racconti di vita, intimi e politici, di un gruppo di amiche come lei over 50 e da sempre attive nell’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina), l’autrice riesce a costruire un teorema ardito, tragico e esilarante insieme: la Palestina, oltre che dell’occupazione militare più duratura e perniciosa della storia moderna, soffre di un deficit organico all’apparenza irreversibile. Come spiegare la vittoria di Hamas, se non attraverso la fase climaterica acuta in cui verserebbero la Palestina e i suoi più o meno arrugginiti leader? Come giustificare il crollo di un progetto politico a cui tutte le donne del libro hanno dedicato la vita, se non attraverso una défaillance della memoria collettiva, un atto mancato, un cupio dissolvi depressivo, tutti sintomi di una menopausa patologica? Tenendo con polso fermo i fili di una complessa trama narrativa, Amiry convoca le sue ‘compagne di crimine’ per una cena di gruppo nel ristorante più ‘in’ di Ramallah e, strada facendo, dà a ciascuna lo spazio per raccontare in prima persona la propria biografia. Ne esce un quadro inedito e irresistibile, tenero e grottesco, sempre fuori cliché, di una società sull’orlo del baratro e tuttavia più viva che mai. Un balletto spastico che non ha paura di mescolare disincanto politico e amnesie senili, crollo dei sogni e cruccio per il seno che cade. Suad Amiry, Niente sesso in città, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2007, pagg. 176, € 13,00

“La guerra è solo la continuazione degli affari con altri mezzi, ma i grandi affari non li fa la povera gente”. Parola di Bertolt Brecht. Ma sono loro, la povera gente, a pagare, in sofferenze, perdite, devastazioni fisiche e psicologiche. Di fronte alla follia di una guerra diffusa in mille angoli della terra, il teatro sembra riflettere e prendere posizione. Ogni gruppo con il linguaggio, la gestualità della sua personale ricerca, teatrale o coreografica che sia. Il festival Roma Europa, in novembre, propone almeno tre spettacoli (tutti al Palladium) che affrontano, direttamente o simbolicamente, il tema dei conflitti religiosi e sociali, che producono martiri inutili e una catena assurda di morte che sembra trascinarsi per rabbiosa inerzia. Rabin Mroué, un quarantenne di Beirut, ha messo in scena e interpretato “How Nancy wished that everything was an april fool’s joke”, scritto con Fadi Toufic: lo sgre-

tolarsi della società libanese in violente fazioni, una guerra per bande ormai cronica che in trent’anni ha ridotto un paese “felice” a un luogo di desolazione e paura. La performance di Mroué srotola, tra farsa e tragedia, i monologhi ansiosi e paradossali di alcuni protagonisti della recente storia libanese. E’ invece il melting pot linguistico e culturale dell’Anatolia, con i suoi scontri e aggressività, il tema di “Ashura” (nome della pietanza preparata da Noé alla fine del diluvio), giorno di festa per ebrei e musulmani, armeni e zoroastriani che Mustafa e Ovul Avkiran (attore/regista lui, danzatrice/attrice lei) rievocano tra canti, danze e parole in turco, armeno, curdo, siriano, arabo, ebraico. Per superare, almeno sulla scena, i conflitti tra arabi ed ebrei, l’israeliana Ofira Henig (regista) e due palestinesi, Taher Njib (autore) e Khalifa Natour (attore) lanciano uno sguardo comune, pieno di umorismo noir, alla vicenda di un palestinese con passaporto israeliano che all’aeroporto di Tel Aviv cade nella rete di surreali controlli burocratici mentre intorno giovani palestinesi sputano per terra rabbiosi, metafora di una violenza quotidiana appunto a “Spitting distance”. Ma non sono solo gli artisti di quei paesi in guerra ad affrontare simili tematiche: il coreografo Virgilio Sieni, una delle personalità più interessanti della danza italiana, ha dato vita, sulle note di Bach, a uno spettacolo che in 11 capitoli ripercorre il racconto drammatico di altrettanti momenti di guerra: da Sarajevo 1994 a Srebrenica ‘95, da Tel Aviv 2001 a Baghdad ‘03, da Gaza ‘06 a Kabul 2007, Kigali 1994 , Beslan 2004. Con “Sonate Bach,” Sieni e la sua compa-

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gnia evocano, con il movimento di corpi che si affrontano e si allontanano, si sorreggono e cadono, si sciolgono “di fronte al dolore degli altri” (come recita il sottotitolo), l’angoscia, l’orrore di quei conflitti, nello sforzo di evocare, come dice il coreografo “una bellezza impossibile e paradossale anche da quelle macerie esistenziali”. RomaEuropa Festival: www2.romaeuropa.net Virgio Sieni: 14 Dicembre 2007 Teatro dei Rozzi Siena e 8 Aprile 2008 Teatro Bonci Cesena

In cuffia di Claudio Agostoni

“Ceasefire” di Emmanuel Jal Emmanuel Jal rappa in quattro lingue: arabo, inglese, swahili e nuer. E’ uno strano rapper che non parla mai di pistole, in compenso usa spesso la parola “pace”. Jal non è cresciuto nelle periferie di New York o Los Angeles. E nemmeno in uno slum di Nairobi o di Dakar. Per la maggior parte della sua giovinezza è stato un soldato dell’Esercito popolare di liberazione del Sudan (Spla). In comune con i rapper del resto del mondo ha il classico paradigma rap: oppressione-trasformazione. Jal, giovane cristiano del Sudan meridionale, alla morte della madre si unì alle migliaia di persone in fuga verso l’Etiopia, confidando di trovarci una vita migliore e un’istruzione. Invece subì la sorte di molti suoi coetanei, i cosiddetti ‘ragazzi perduti’: venire rapiti dallo Spla per essere utilizzati come ‘armi leggere’. Così leggere che riescono spesso a camminare sulle mine, e se non ci riescono pazienza. La prima volta che ha impugnato una pistola aveva sette anni. La prima volta che ha sparato, nei campi di addestramento militare nelle foreste dell’Etiopia, ne aveva otto. Dopo più di quattro anni di servizio, alla vigilia di un attacco ai governativi, scappò dal campo di Juba assieme ad altri 400 bambini soldato. L’intenzione era di vendersi a un nuovo signore della guerra, uno capace di trattarli con più umanità. Ma dopo tre mesi vagavano ancora nella boscaglia, decimati dalla fame. Una notte un amico gli morì accanto e Jal pensò di mangiarselo il giorno dopo. Intorno al cadavere piazzò delle mine anti-iena. Ma anche le iene sono leggere e riuscirono a portarsi via il corpo durante la notte, impedendo a Jal di diventare un cannibale. Quando raggiunsero il villaggio di Waat i fuggitivi erano rimasti solo in 14. Qui incontrò Emma McCune, una inglese che aveva abbandonato l’Occidente 28

per aiutare i bambini in Sudan, ma era la seconda moglie del signore della guerra Riek Machar, futuro Vicepresidente del Sudan meridionale. Allora Jal aveva 11 anni e Emma divenne la sua seconda madre. Fu lei a imbarcarlo clandestinamente su un aereo cargo diretto a Nairobi, in Kenya. Qui Jal iniziò a fare musica, mettendo a segno un successo (Gua, una specie di inno pacifista alla I have a dream) che lo trasformò in una star. In Sudan una sanguinosa lotta tra cristiani e musulmani, per decenni, ha lacerato il Paese. Il suo cd invece, Jal l’ha realizzato con un musicista musulmano: Abdel Gadir Salim. Qualcosa di più di un auspicio. Grazie all’Egea finalmente il suo disco è distribuito anche in Italia. (River Boat Records / World Music Network)

“Ishumar” di Toumast La musica Ishumar, termine derivato dal francese ‘chomeur’ (disoccupato), è la voce dei ribelli tuareg che resistono per la sopravvivenza del proprio popolo e della propria cultura. Un genere musicale che ha in Tinariwen e Tartit le sue punte di diamante. Il loro è uno straordinario blues elettrico, commisto a una sorta di prosa musicale sfruttata per fare proclami politici, ma anche per esprimere il dolore dell’esilio e la nostalgia per la vita nomade del deserto del Sahara. ‘Toumast’, identità nel linguaggio tuareg, è un progetto nato nel 1990 grazie ad un guerriero nigeriano convertito alla chitarra. Incredibile l’amalgama di ritmi sincopati e melodie tradizionali nordafricane rivisitate in chiave urbana con elementi di blues e rock. Ne esce uno straordinario blues elettrico che riflette i grandi spazi vuoti del deserto e l’indicibile dolore di chi non possiede né patria né pace. (Wagram / Audioglobe)

Al cinema di Nicola Falcinella

Hollywood, e non solo, si accorge dei rapimenti della Cia La “rendition”, ovvero i sequestri che la Cia compie ai danni di sospetti terroristi islamici. Uomini che vengono “prelevati”, trasportati in luoghi ignoti, fuori da ogni legislazione, interrogati, torturati e qualche volta rilasciati. Dall’Italia al Medio Oriente, dall’Europa al Canada i casi sono numerosi e se n’è accorto anche il cinema. I film sulla “rendition” saranno una moda dei prossimi mesi, all’interno di un filone sempre più corposo sulla guerra in Iraq e le sue implicazioni e complicazioni. Dalla parte di chi attende a casa è raccontato

“Rendition”, grande produzione americana diretta dal sudafricano Gavin Hood, già premio Oscar per Tsotsi. Un thriller che negli Usa uscirà a ottobre e che fa già discutere. Non fosse altro per il numero di star impegnate a sollevare il silenzio su quel che agli statunitensi non si vuole far sapere. Reese Witherspoon è Isabella, la moglie americana di un cittadino egiziano sospettato e fatto sparire mentre è in volo verso Washington. Si metterà alla ricerca del marito imbattendosi nell’analista della Cia impersonato da Jake Gyllenhaal. Con loro anche Meryl Streep, Alan Arkin e Peter Sarsgaard. Gli interrogatori, le percosse e le violenze che non lasciano segni sono invece mostrati in “Extraordinary Rendition”, presentato in gara in agosto al Festival di Locarno. Una produzione indipendente inglese di James Theapleton convincente e credibile solo in parte – soprattutto negli interrogatori – mentre è narrativamente lacunosa in vari passaggi: un giovane professore è rapito a Londra e portato in un deserto mediorientale. Peccato perché lo stile debitore dei lavori recenti di Michael Winterbottom ma anche del “Garage Olimpo” di Marco Bechis sui desaparecidos argentini è sporcato dalla tentazione di fare un videoclippone politicamente impegnato. Il torturatore è impersonato da Andy Serkis, noto soprattutto per aver prestato i movimenti ai digitali King Kong e Gollum (ne “Il signore degli anelli”), di padre iracheno d’origine armena. Che il tema sia caldo lo conferma il documentario, “Road to Rendition”, cui sta lavorando tra NY, Washington, Yemen e Marocco Jon Alon Walz, noto finora per i suoi documentari sugli Ufo. E forse non è un caso.

In rete di Arturo Di Corinto

La governance di Internet Nei suoi quasi 40 anni di vita Internet è diventata un’infrastruttura di comunicazione globale grazie alla semplicità della sua architettura e alla cooperazione di utenti, hacker, ricercatori, che l’hanno trasformata in uno strumento immaginifico per sognare un mondo dove tutta la conoscenza disponibile sia a distanza di un click. Ma questo sogno non riguarda tutti. Internet rimane inaccessibile a cinque miliardi di persone ed è questo il principale motivo che a novembre porterà a Rio de Janeiro le delegazioni di decine di paesi per partecipare all’Internet Governance Forum (http://www.intgovforum.org con) l’intento di ribadire che un’infrastruttura abilitante dello “sviluppo”, democratico ed economico, non può prescindere dall’universalità del suo accesso e dalla tutela della diversità del patrimonio culturale mondiale. Internet come strumento per raggiungere i millenium goals: sradicare la povertà, favorire il dialogo fra i popoli e dare a tutti un futuro di pace e democrazia. Chi può non essere d’accordo?


La posta Scrivete a: peacereporter@peacereporter.net, oppure a PeaceReporter, via Meravigli 12, 20123 Milano Carissimo Direttore e redattori di PeaceReporter, ciao a tutti. Innanzi tutto volevo ringraziarvi per l’invio del vostro giornale, che ho trovato veramente interessante, completo ed esaustivo su ogni argomento trattato. Spero davvero che questo nuovo progetto vi porti bene, perciò sono corsa ad abbonarmi con il mio piccolo contributo. So che ogni articolo o notizia che tratterete sarà supportata da un’informazione sempre obiettiva e dettagliata, come siete abituati a fare già nel vostro sito che visito grazie a mia nipote di 14 anni (io ne ho 36 ma internet non lo so usare!). Scusate se mi sono dilungata con le parole, ma è come scrivere a degli amici. Un bacio a tutti voi La vostra Paola Che bella notizia! In bocca al lupo per tutto. Mio figlio Gino tra un’ora sosterrà la prova orale dell’esame di maturità. Tra poco smetterà di essere un liceale e l’abbonamento al giornale sarà il mio regalo di benvenuto nel mondo dei grandi. Un caro saluto. Rosa E’ veramente una bella notizia!!!! Tutti i giorni mi collego con il vs. sito per vedere le novità e per avere notizie vere, non quelle che ci propinano i soliti tg, ma devo dire che al computer preferisco ancora la “vecchia” ma bellissima carta per cui sottoscriverò l’abbonamento per riceverla a casa. Grazie e buon lavoro e soprattutto auguri di tanto successo. Donatella Malagoli Auguri e complimenti per la bella rivista! Spero per voi una valanga di abbonamenti e sono sicura che ci sarà di grande aiuto per il nostri lavoro nelle carceri. Buon lavoro a voi. Paola Ledda Ho ricevuto il 1° numero di PeaceReporter e vi ringrazio. E prorio “bella”! Oggi ho fatto l’abbonamento. Cari saluti e buon lavoro. Livio Valmassoi Spett.le Segreteria, a nome mio personale e del Centro “Gabrio Avanzati” per il quale lavoro, i più sentiti ringraziamenti per l’invio del primo “storico” numero della rivista in formato cartaceo, con l’augurio che questa vostra ulteriore iniziativa riscontri il meritato successo e contribuisca a diffondere maggiormente una cultura di pace e la richiesta di un’informazione libera ed indipendente. Cordiali saluti dal Comune di Siena. Cosimo Ciampoli Buongiorno, recentemente mi è capitata in mano per caso la prima copia del vostro cartaceo; vi conoscevo già e vi seguivo da internet, ma credo che questo sia stato un passo molto importante: per quanto l’informazione su internet abbia innegabili vantaggi, la materialità ha ancora un impatto diverso, forse anche

lettere a un chirurgo confuso Buongiorno, Lavoro come operaio metalmeccanico per un noto gruppo multinazionale che produce semilavorati nel settore dell’acciaio. Tramite una ricerca su internet scopro che alcuni clienti hanno rapporti di affare con industrie di armamenti. Nel contempo la direzione della ditta organizza corsi sulla sicurezza nel lavoro dove si citano articoli della Costituzione e del Codice Civile, in cui si lega al lavoro il rispetto della dignità umana. Tra circa due mesi verrà inaugurato l’ampliamento dello stabilimento, con la presenza della famiglia proprietaria, della stampa, tv locali, e persino del prete per la benedizione! Tutti gli operai sono pregati di presentarsi con la “divisa” ufficiale della ditta ben pulita e il “casco” protettivo in testa( utilizzato in verità solo per tali occasioni o per foto pubblicitarie)... tutto ciò mi dà l’impressione vi sia una ipocrisia generalizzata a tutti i livelli della società. Dov’è il rispetto della dignità umana nel lavoro che concorre a produrre strumenti di morte ? Dov’è il sindacato che protende i suoi striscioni contro l’ampliamento di basi militari? Dov’è la Chiesa - ora che serve un suo pronunciamento - laddove il lavoro dell’uomo anzichè essere co-creatore con Dio, si fa artefice di distruzione? Mi rendo conto che il bene lavoro è oggi così raro, che porre tali questioni di principio, parrebbe il vezzo di un idealista schizzinoso. Eppure non credo si tratti di vana disserzione intellettuale ma bensì di questione che interroga la società tutta, sulla sua coerenza o ipocrisia rispetto ai valori che enuncia e declama. E-mail firmata Pochi mesi fa l’Istituto di ricerca sulla pace di Stoccolma ha diffuso il suo annuale rapporto sulle armi, il disarmo e la sicurezza internazionale. Abbiamo così appreso che l’Italia è il settimo paese al mondo per spese militari, e il sesto esportatore mondiale di armamenti. Un triste primato, per uno stato che, nato all’indomani di una guerrra sanguinosa, ha deciso di dire basta, mai più. “L’Italia ripudia la guerra”. Non la rifiuta, la ripudia: e si può ripudiare soltanto qualcosa che prima si possedeva, si accettava, si faceva. Eppure, questo paese che ripudia la guerra è il sesto esportatore mondiale di di credibilità... Detto questo, apprezzo molto lo stile sobrio che avete scelto, e trovo interessante lo spazio dato alle immagini fotografiche (peraltro di qualità e scelte attentamente). Vi saluto cordialmente. Laura Ghirlandetti Salve, ho ricevuto con l’ultimo notiziario di Emergency il primo numero cartaceo di PeaceReporter, bello! Si, farò l’abbonamento perché anche se appartengo alla generazione che fa un monte di cose fra tastiera e monitor preferisco ancora leggere la carta stampata quando voglio rilassarmi e capire con calma. Spero che la pubblicazione rimanga di queste dimensioni, così da poterla leggere tutta senza problemi. Ci sono

armamenti. A che cosa servono, queste armi? A fare la guerra. A farla in modi sempre più avanzati, tecnologici, sofisticati. Ma tutto questo non significa che i conflitti siano diventati migliori: al contrario. Nelle guerre di oggi, più del novanta percento delle vittime sono civili. Un’arma prodotta nel nostro paese e venduta all’estero al miglior offerente, nove volte su dieci colpirà un civile. La Costituzione italiana dice anche che il nostro paese è una Repubblica fondata sul lavoro.Il lavoro come strumento per lo sviluppo e l’affermazione dell’individuo. E qui hai ragione: dov’è la dignità umana, in un lavoro che contribuisce a distruggere vite e dignità altrui? Come si può, allo stesso tempo, ripudiare la guerra e inondare il mondo di strumenti per farla? Come posso tornare a casa la sera, dai miei figli, dopo una giornata passata a produrre oggetti che ucciderano i figli di qualcun altro? C’è però, come hai sottolineato, un problema: opporsi a questa logica significherebbe, per molti, perdere il proprio posto di lavoro, una cosa che nessuno si può permettere. Ci sarebbero d’altronde anche delle soluzioni, a questo problema, come la riconversione dell’industria bellica. Un individuo, pur dilaniato da un problema di coscienza, può non avere altra scelta che continuare a produrre strumenti di morte. Ma poiché, come giustamente sostieni, questo è un problema che investe la società nel suo complesso, dovrebbe essere la società a farsi carico della sua soluzione. Si accettava l’obiezione di coscienza sul servizio militare, si accetta l’obiezione di coscienza sull’aborto: non sarebbe ora di cominciare un serio discorso anche sulla produzione e la vendita di armiche possa tutelare il lavoro degli individui ma anche la loro dignità? Gino Strada così tante cose da fare oggigiorno (purtroppo...) che non è facile trovare il tempo per informarsi e avere troppa informazione diventa come non averne... Così il giornale mi piace, sia il taglio, sia la veste, sia le dimensioni come dicevo e ovviamente i contenuti :) Insomma... complimenti! Lapo Pieri

Per una volta ci facciamo fare un po’ di auguri e di complimenti senza imbarazzo. Sappiamo quanto sia difficile, ma più bella che difficile, l’impresa che abbiamo cominciato con il mensile di PeaceReporter. Che per andare avanti ha bisogno di “sentire”il vostro sostegno, grazie a tutti voi. Maso Notarianni 29


Per saperne di più Algeria LIBRI HABIB SOUAÏDIA, La sporca guerra, editrice Terre di Mezzo, 2002 L’autore, a soli vent’anni, si arruola volontario come paracadutista nell’esercito algerino, animato dal sacro fuoco del patriottismo e della lotta contro il fondamentalismo religioso. Il libro è un diario della scoperta, ogni giorno più angosciosa, di come in una guerra non ci siano buoni e cattivi. Il suo racconto finirà per rendere uno spaccato unico dei massacri e delle tecniche manipolatorie che furono messe in campo durante la guerra civile degli anni Novanta. MÉLAZ YACOUBEN, Fiabe berbere della Cabilia, Datanews, 2000 Per tradizione secolare, e per l’ostracismo del potere centrale, la regione della Cabilia è sempre stata caratterizzata dalla tradizione orale. Il patrimonio immenso della cultura berbera, raccontato da una generazione all’altra, fino a giungere ai giorni nostri. Questo libro raccoglie una serie di storie, di quelle che i cantastorie narrano nelle piazze dei villaggi cabili, o che le famiglie si raccontano in casa. JAIME SEMPRUN, Apologia per l’Insurrezione algerina, Porfido, 2001 Gli abitanti della Cabilia, organizzati in modo orizzontale mediante coordinamenti di Aarch, autonome assemblee di villaggio in cui le decisioni vengono prese consensualmente, hanno dimostrato una tenacia e una determinazione incrollabili. Eppure, sebbene non siano mancate esplosioni di rabbia in tutto il paese, l’insurrezione in Cabilia è rimasta isolata. Calunniata e fatta passare per una battaglia separatista nel resto dell’Algeria, del tutto taciuta e occultata dai mezzi d’informazione negli altri paesi. GIAN PAOLO CALCHI NOVATI, Storia dell’Algeria indipendente, Milano, Bompiani, 1998 Uno strumento essenziale per conoscere la storia contemporanea dell’Algeria, tra la lotta per l’indipendenza e il fondamentalismo islamico, passando per il socialismo reale.

FILM GILLO PONTECORVO, La battaglia di Algeri, Italia, 1966 Ottobre 1957: i parà francesi, guidati dal colonnello Mathieu, rastrellano la Casbah di Algeri, il cuore pulsante della ribellione anticoloniale. Attraverso i ricordi di Ali La Pointe, uno dei capi della guerriglia algerina, si rivivono gli avvenimenti che hanno portato il Fronte di Liberazione Nazionale a liberare il paese. Alì muore, ma le sue idee no, e il ricordo del milione di algerini ucciso negli 8 anni della guerra di liberazione, dal 1954 al 1962, si specchia nel bianco e nero (magistrale il contributo alla fotografia di Marcello Gatti) della sceneggiatura di Pontecorvo e Franco Solinas, accompagnata dalle musiche di Ennio Morricone. Una pietra miliare della storia del cinema, Leone d’oro alla mostra del cinema di Venezia, e della storia del colonialismo. MICHELANGELO SEVERGNINI E KARIM METREF, Il ritorno degli Aarch - I villaggi della Cabilia scuotono l’Algeria, Italia, 2003 Uno documentario sul movimento di autogoverno nato dalla protesta dei berberi, la cui rabbia esplode nel 2001 dopo l’assassinio di uno studente cabilo da parte della polizia algerina. In breve la rabbia popolare si allarga a tutta la regione, alimentata dall’identità collettiva rappresentata dagli Aarch, i comitati di villaggio, eredi delle tradizioni di autogoverno della regione. Saranno oltre 100 i morti della repressione di Algeri, ma la lotta per la rivendicazione del diritto di esprimere liberamente la propria identità non cessa. DJAMILA AMZAL, Il tutore della signora ministro, Italia-Algeria, 2004 È il primo film in cui l’attrice cabila Djamila Amzal, già interprete di diversi film recitati in lingua amazigh, si cimenta nella regia. Un cortometraggio, su soggetto e sceneggiatura della stessa Djamila Amzal, che affronta uno dei temi più delicati dell’Algeria odierna: la posizione della donna, che può aspirare a qualunque carica, anche ai vertici dello Stato, ma quando si tratta del suo statuto all’interno della famiglia è sottoposta alla legge sharaitica, che la vuole sottoposta all’autorità dei maschi della famiglia.

Haiti LIBRI

SITI INTERNET http://www.algeria-watch.org Un osservatorio sulla situazione del rispetto dei diritti umani in Algeria. Nato dal movimento Observatory on Human Rights in Algeria (Odha), che si costituì nel 1992, quando i militari presero il potere in risposta alla vittoria elettorale del Fronte Islamico di Salvezza, dando inizio a una sanguinosa guerra civile, è il punto di riferimento degli esuli all’estero e dei dissidenti antigovernativi in patria. http://www.elwatan.com/ El Watan è il più importante quotidiano algerino privato, anche se il governo ha un forte controllo sui mezzi d’informazione. Nonostante questo, in un panorama non entusiasmante per la libertà di stampa, tenta di raccontare la vita quotidiana del paese. Il direttore Omar Belhouchet, incarcerato nel 1993 e scampato miracolosamente a un attentato, ha ricevuto nel 1994 il premio Piuma d’oro dell’International Press Freedom. http://www.echoroukonline.com/ Sito d’informazione sopra le righe, che meglio degli altri racconta la battaglia quotidiana tra l’esercito e i fondamentalisti. Buono strumento per monitorare il livello della violenza nel paese e non solo. http://www.kabyle.com/ Sito sulla vita politica, culturale e sociale della regione berbera dell’Algeria. 30

MARIE VIEUX CHAUVET. Amore rabbia follia, romanzo, Bompiani, Milano 2007 Forse il romanzo cardine della letteratura haitiana. Apprezzato da Simone de Beauvoir, che lo volle far pubblicare alla fine degli anni Sessanta a Parigi. Ma il marito dell’autrice comprò in tutta fretta le poche copie distribuite, per paura di un’eventuale vendetta del dittatore haitiano ‘Papa Doc’ Duvalier. Nelle tre parti del romanzo, amore rabbia e follia uno spaccato reale della vita quotidiana nel martoriato paese caraibico: la schiavitù, la prostituzione, l’arte di arrangiarsi, la ‘bella vita’ dei ricchi proprietari terrieri, la sete di vendetta del popolo e gli orrori della dittatura. Nelle 389 pagine del romanzo si incontrano le passioni di tre sorelle mosse dall’amore per lo stesso uomo ma anche l’umiliazione subita da una donna, giovane e bellissima, costretta a prostituirsi per non far cadere la propria famiglia nelle grinfie della ferocia militare. Riproposto in Italia grazie anche alla traduzione dal francese all’italiano di Marina Rotondo. GRAHAM GREENE, I commedianti, Mondadori 1971 Chiunque ami almeno un po’ Haiti non può non conoscere questo romanzo ambientato in un’isola stretta nella morsa del terrore imposto dalla dittatura di Papa Doc Duvalier e dai suoi feroci ‘Tonton

Macoutes’. Il destino dei tre protagonisti, Smith (un americano vegetariano) Johns (un bugiardo che si spaccia per un ufficiale dell’esercito britannico) e Brown (l’erede di un hotel) fra intrighi sentimentali, storie d’amore e comportamenti ambigui, nello scenario truculento e oppresso della vita quotidiana, scandita dal pugno di ferro di ‘Papa Doc’, dove la corruzione aleggia perennemente nell’aria. Questo romanzo sembra presagire quello che sarebbe diventato il Paese in futuro.

SITI INTERNET http://www.hpn.com Il sito internet di un’agenzia d’informazione indipendente haitiana. Aggiornato da una redazione composta da giovani giornalisti, Haiti Press Network fornisce notizie di politica interna, costume e società. Ricco di infromazioni, facile da consultare, il sito è un ottimo strumento per conoscere la situazione sociale haitiana. Le pagine web di Haiti Press Network sono in lingua francese. http://www.un.org/french/peace/peace/cu_mission/minustah/ La missione di pace delle Nazioni Unite presente in Haiti dal 2004. Il sito è leggibile in francese e spagnolo. http://www.robertostephenson.com/ Il sito internet di Roberto Stephenson, fotografo haitiano-italiano di stanza a Port au Prince che dopo aver esposto in mezzo mondo le sue immagini, Stephenson ha aperto un centro culturale a Petion Ville, quartiere residenziale, dove tiene corsi di fotografia per i giovani della capitale.

FILM NICOLAS ROSSIER, Aristide and the endless revolution, Usa 2005. La storia affascinante e deludente degli ultimi anni di Haiti. Sullo sfondo l’ambigua figura di Jean Bertrande Aristide, ex padre salesiano amato dalle folle e capace, nei primi mesi del suo mandato, di puntare il dito contro gli interessi stranieri nell’isola colpevoli della situazione critica di gran parte della popolazione. Le violenze nei quartieri bidonville, un’economia inesistente, la disoccupazione e nessuna speranza per il futuro sono in questo film/documentario che narra toccanti realtà dell’isola. Un documentario utile, anzi indispensabile, per chi vuole avvicinarsi e capire un Paese dalle mille risorse ma anche dalle mille problematiche. JONATHAN DEMME, The Agronomist, Usa 2003 Una delle storie più affascinanti e commoventi dell’isola di Haiti raccontata da una pellicola: quella di Jean Domenique, fondatore di “Radio Haiti Inter”, considerato una vera leggenda dalla popolazione del suo Paese. Il film documentario racconta un Jean Domenique paladino della democrazia e dei diritti a tutto tondo. Dai suoi pensieri sulla politica interna fino a quelli sulla Casa Bianca, raccolti con devozione e cura da un suo amico, il regista Jonathan Demme. “The agronomist” è un documento denuncia, un film, uno spaccato di vita e una storia che ha fatto il giro del mondo e che ha riscosso enorme successo alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2003.


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