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mensile - anno 2 numero 2 - febbraio 2008

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Ecuador-Colombia Veleni di frontiera

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

Belgio Libano Kenya Italia Mondo

Divisi nell’Unione L’infanzia nella falange Mathare-Manchester, andata e ritorno Bisogno di tempo intervista a Padre Kizito Benvenuti all’inferno Afghanistan, Iraq, Nigeria, Messico

Gino Strada

I giornali italiani, questi sconosciuti

Il quinto fascicolo dell’atlante: Israele e Palestina



Ora si resta con la terribile sensazione che la guerra non risolva niente, che vincere una guerra sia ugualmente disastroso che perderla... Agatha Christie

febbraio 2008 mensile - anno 2, numero 2

Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Christian Elia Matteo Fagotto Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Stella Spinelli Vauro Senesi Naoki Tomasini Alessandro Ursic

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Blue & Joy Valeria Confalonieri Gabriele Del Grande Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Nicola Falcinella Giorgio Gabbi Paolo Lezziero Sergio Lotti Claudio Sabelli Fioretti Gino Strada Gianluca Ursini

Progetto grafico Guido Scarabottolo Segreteria di redazione Silvina Grippaldi Relazioni esterne Marco Formigoni

Hanno collaborato per le foto Francesco Acerbis/Prospekt Massimo Di Nonno/Prospekt Anna Gregagnin/Prospekt Marie-Claire Houard Stefano Mariotti Samuele Pellecchia/Prospekt

Redazione e amministrazione Via Meravigli 12 20123 Milano Tel: (+39) 02 801534 Amministrazione Fax: (+39) 02 80581999 Annalisa Braga peacereporter@peacereporter.net Stampa Graphicscalve Loc. Ponte Formello - 24020 Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 26 gennaio 2007

Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Meravigli 12 - 20123 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07

Pubblicità Via Meravigli 12 20123 Milano Tel (+39) 02 801534 Fax (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net

Foto di copertina: Chupando Caña Ecuador, 2007. Stefano Mariotti ©PeaceReporter

ifficile scrivere un editoriale proprio mentre sta cadendo il governo e riuscire a occuparsi di altro. E non sapendo nemmeno come andrà a finire questa assurda vicenda che sta travolgendo il governo Prodi. Ma qualche ragionamento estemporaneo vale la pena di farlo comunque. Su cosa è scivolata la maggioranza di centrosinistra? Sulle opache vicende - poco importa se penalmente rilevanti - che hanno coinvolto il ministro della Giustizia e la sua famiglia. E non in un momento qualsiasi: negli stessi giorni in cui il Vaticano sferra la sua più potente offensiva contro Prodi, mentre le indagini statistiche italiane ed europee dicono che la classe politica di casa nostra è la peggiore d’Europa. Ed è soprattutto riconosciuta come tale proprio in Italia, dove oramai poco più di quattro gatti credono che la politica di palazzo, dei palazzi, abbia una qualche credibilità da spendere. In questi stessi giorni si sta scoprendo che, in barba all’articolo 11 della Costituzione e in barba al Parlamento, l’Italia è assai più coinvolta nella guerra afgana di quanto i ministri e i sottosegretari abbiano mai detto e ben oltre quanto il Parlamento e i cittadini della Repubblica abbiamo mai saputo. Ma il governo inciampa non sulla più grave violazione della Costituzione probabilmente mai perpetrata da sessant’anni a questa parte. Non sul disfacimento di tutta la classe politica, che oramai rappresenta solo se stessa e i suoi lauti stipendi. Non sul fatto che i governi che si sono succeduti da dieci anni a questa parte non sono riusciti a far arrivare con serenità alla fine del mese un terzo degli italiani, costretto ad indebitarsi fino al collo per poter campare. No, Prodi inciampa sulla indecente amoralità di un ministro e di sua moglie che, per telefono, piazzano i loro uomini a dirigere strutture vitali per il funzionamento della vita pubblica. Centri sanitari, strutture che dovrebbero organizzare e gestire lo smaltimento dei rifiuti, imprese e consorzi pubblici che gestiscono miliardi di euro e che dovrebbero produrre le migliori infrastrutture si sono trasformati in semplici occasioni per gestire il potere e il danaro, non per interessi collettivi, ma per interessi di parte politica. Ma il guaio vero è che non è lo scandalo (certamente morale, fors’anche giudiziario) a travolgere un governo. Al contrario, è la solidarietà che i travolti dallo scandalo non hanno ricevuto dal resto della casta, ad aver fatto tremare i palazzi. Della Costituzione non importa a nessuno. Della vita dei civili massacrati dalle bombe nostre nemmeno. Della vita delle migliaia di persone che muoiono negli incidenti sul lavoro ci si cura poco. Tutti presi a portare la loro solidarietà a un ministro della Giustizia che passa il suo tempo a raccomandare i suoi uomini. “Lo facciamo tutti”, il coro unanime. Il re è nudo. Ma perché nessuno lo prende a pedate?

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Belgio a pagina 10 Distribuzione in libreria Joo Distribuzione - via F. Argelati 35, 20143 Milano - Tel 028375671

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Libano a pagina 14

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Kenya a pagina 20 e 22

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Migranti a pagina 24

Italia a pagina 18 3


Il reportage Ecuador

Veleni di frontiera Dal nostro inviato Stella Spinelli

Un animale a pancia in su. Intorno, morte e desolazione. Alberi secchi, frutti appassiti e uno stormo di velivoli: sei elicotteri e un aereo che, alto nel cielo, inonda il paesaggio di una valanga liquida. iente colori, solo il bianco e il nero. In alto una scritta, a caratteri cubitali: “Il mio maialino è morto, io gli volevo tanto bene. Venderlo, mi avrebbe permesso di comprarmi l’uniforme per andare a scuola. A colui che vede o legge il mio disegno, chiedo di aiutarmi a finire le elementari. Non è rimasto niente: né piante, né animali”. Quindi un riquadro sopra il tracciato del rio San Miguel, frontiera naturale fra Colombia ed Ecuador: “Fiume contaminato dal Plan Colombia”. È così che Diego Gonzaga, otto anni, ha deciso di raccontare quanto i suoi grandi occhi neri sono costretti a sopportare da anni. Vive a San Pedro del Condor, provincia ecuadoriana di Sucumbíos, villaggio sulle rive di quel placido corso d’acqua teatro di grandi violenze. È uno dei tanti bambini vittime delle fumigazioni, la strategia pianificata dalla Casa Bianca col pretesto di aiutare Bogotà a sconfiggere il narcotraffico. Periodicamente San Pedro, come altre centinaia di luoghi lungo il cordón fronterizo, è ombreggiato da piccoli aeroplani scortati da elicotteri della polizia colombiana, che aspergono una mistura chimica a base di glifosato, il diserbante che l’Organizzazione mondiale della sanità, nel caso in cui venga usato nei limiti consentiti, considera “estremamente irritante”. Figurarsi se adoperato nella misura decuplicata propria del Round Up Ultra, il cocktail che periodicamente inonda case, scuole, fiumi e campi pazientemente coltivati a mais, riso, platano, yuca, caffè, cacao: non foglie di coca, dunque, almeno in Ecuador. E che resta un miscuglio dalla ricetta gelosamente custodita. “Nessuna istituzione è mai stata incaricata né di testarne ufficialmente la preparazione in laboratorio, né di controllarne l’uso che la Casa Bianca ha affidato alla DynCorp International” spiega Adolfo Maldonado, medico esperto in malattie tropicali e colonna portante di Acción Ecologica, l’associazione di Quito che sta portando avanti, fra le altre cose, la lotta contro le fumigazioni. “La DynCorp è un’impresa molto discussa per i trascorsi in Bosnia e Kosovo e accusata persino di aver trasportato eroina colombiana negli Stati Uniti. Ma che ha riconquistato la fiducia di Washington, tanto che le è stato affidato questo compito così delicato, per fare il quale ha bisogno che i suoi uomini ricevano il giusto addestramento direttamente dall’esercito statunitense”. A proteggere ulteriormente la missione, si erge il concetto di “sicurezza nazionale”, come ha precisato ufficialmente la Corte distrettuale di Columbia, Usa, nel rigettare la denuncia dei cittadini ecuadoriani colpiti dal glifosato: “Le operazioni di fumigazione concentrano molti milioni di dollari e tanti anni di duro lavoro e sono parte fondamentale della politica antiterrorista che gli Usa hanno pensato per la regione andina”. Quindi, altolà a chiunque voglia saperne di più, a quelle associazioni in dife-

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sa dei diritti umani preoccupate per le condizioni di salute di intere famiglie che hanno come unica colpa quella di vivere nel cuore dell’Amazzonia, alla frontiera con un paese in guerra. l conflitto che da oltre quarant’anni piega la Colombia, dunque, è arrivato fin qui, nell’assolato nord dell’Ecuador. Dall’altro lato del grande rio, a spingere le Forze armate rivoluzionarie colombiane (Farc) e l’Esercito di liberazione nazionale (Eln) a combattere da decenni una guerra fratricida è l’odio contro il governo centrale, considerato corrotto e ingiusto, il quale risponde con altrettanta determinazione. E spesso la contesa è condotta in barba alle regole. Negli ultimi mesi, i sospetti che l’attuale presidente Alvaro Uribe abbia ingaggiato truppe di paramilitari per arginare la guerriglia e manipolare il narcotraffico (fonte di guadagni ultramilionari dato che la Colombia è il primo paese produttore di pasta di coca, la materia prima da cui deriva la cocaina) si fanno sempre più forti. A farne le spese sono i civili, vittime inermi di un fuoco incrociato senza esclusione di colpi. Fra cui anche le fumigazioni, arma che Bogotà predilige per stanare la guerriglia, colpendo indiscriminatamente le aree rurali. E non solo colombiane. Gli sguardi dei contadini ecuadoriani di Sucumbios non lasciano entrare la speranza: frustrazione, incredulità e tanta rabbia. “Non è la nostra guerra. Ma a rimetterci siamo noi - racconta Maria Ynes Quesada, quaranta anni, contadina da sempre - Ci stiamo ammalando. C’è chi è morto. E ora siamo costretti a far la fame in Amazzonia. Non è un controsenso? Siamo venuti qua ventidue anni fa, attirati dalla terra fertile e dalla ricchezza dei corsi d’acqua. E prima che quei colombiani arrivassero dal cielo si viveva benissimo. Un paradiso: qualsiasi cosa seminassimo cresceva”. Maria parla con voce ferma, quasi cantilenante. È abituata a ripetere questa storia. Ha deciso di prendere le redini di San Francisco II, una manciata di case di legno nel bel mezzo di una fitta vegetazione, a due ore di macchina da Lago Agrio, capoluogo del dipartimento. Fa parte del direttivo dell’associazione che lotta per ricevere indennizzi e aiuti. Le smorfie sulla faccia scavata tradiscono la nostalgia, lo sconforto. “Da quel maledetto settembre del 2001 niente è più lo stesso. Prima raggiungevamo anche settanta quintali di caffè per ettaro. E ci vivevamo, vendendolo. Adesso va bene se i quintali sono due. Per questo la gente se ne sta andando. Se ne vanno ogni giorno. Ci stanno stanando come formiche dal buco”. Maria è circondata da tre amiche, timide, sguardi orgogliosi per quella compañera coraggiosa.

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Comunità ecuadoriana al confine con la Colombia. San Francisco II, Ecuador 2007, Stefano Mariotti ©PeaceReporter


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sconnessa e approssimata, è roba da fuoristrada. Siamo costretti a scende“Inizialmente non capivamo l’entità della cosa. Ce ne siamo resi conto re svariate volte, camminando di buon passo nonostante la calura. La vegedopo, con i primi sintomi. Malattie rare cominciarono a diffondersi, i nostri tazione domina rigogliosa, risparmiata dalla valanga chimica colombiana. animali a morire. E come loro le piante. Fra la gente, irritazioni, pustole, dermatiti, i bambini con vomito e diarrea, giramenti di testa. E qualcuno non ce ietro gli alti cespugli di un verde brillante, d’improvviso compare un l’ha fatta. Tanto che iniziammo a chiederci: ‘Perché? Perché quest’ombra avamposto militare: la via è sbarrata. Uomini dell’esercito ecuadorianera sulle nostre teste?’. Domande martellanti, come incubi. Fino a quella no spuntano armati e composti. “Siamo i difensori della sovranità risposta di due parole: Plan Colombia. Ma noi siamo in Ecuador, che c’ennazionale” - ci grida Carlos Obando, colonnello, piccolo di statura, ma dalla triamo? Siamo in Ecuador”. Un sentimento che ancora tradisce la sua canstazza robusta. “Chi oltrepassa questa sbarra lo fa a proprio rischio e peritilena: “Con gli anni abbiamo capito. Ci stanno punendo perché siamo i colo. Da qui comincia la zona dolente”. Ce lo dice citando il sommo poeta. guardiani della frontiera, i guardiani della porta per la ricca Amazzonia Questo è il lembo di terra più vicino alla Colombia, un’area di contrabbando, ecuadoriana. Ma non ci spaventano. Noi restiamo. E speriamo che il nostro di loschi affari e di regolamenti di conti fra gruppi armati. Ma anche zona di presidente Rafael Correa si faccia sentire con Uribe, come ci ha promesso rifugiati. Sono migliaia quelli che ogni anno scappano dalle violenze colomdurante la sua visita qui, proprio qui”. Le quattro donne si appoggiano al biane attraversando i fiumi di frontiera. Tanto che l’Alto commissariato delle muro della piccola scuola deserta. E si guardano, compatte. “Ogni volta che Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur) è di casa a Puerto Nuevo. Appena oltresento questa gente raccontare le fumigazioni, ripenso a Edith - spiega passiamo la barriera dello scrupoloso colonnello Obando, infatti, un fuoriMaldonado, sguardo nel vuoto, parole scandite - Quando visitai per la prima strada bianco con il marchio blu dell’Onu ci supera ad alta velocità, scortato volta la frontiera, subito dopo le prime fumigazioni e dopo che queste comuda due jeep con vetri oscurati. Sono due commissari Acnur, allarmati dall’enità disperate vennero fino a Quito per protestare e chiedere il nostro aiuto, mergenza degli ultimi giorni. Con loro il governatore della regione, Nancy incontrai una bambina. Aveva il corpo ricoperto di piaghe. Mi guardò e mi Armijos. Ad aspettarli, l’intera comunità riunita sotto un capannone. È il disse: ‘Perché mi stanno fumigando?’“. Edith si era trovata esattamente momento della denuncia, dello sfogo, dello sputare sotto la pioggia acida sparata dalla DynCorp. “È stato il desiderio di risponderle che mi ha spinto, in faccia alle autorità tutta l’amarezza. “Voi contiLe fumigazioni mirano più di ogni altra cosa, a cercare tenacemente un nuate a chiederci soltanto di quei disgraziati fratelufficialmente a distruggere le plausibile perché”, riprende il medico di Acción li colombiani che ogni giorno salpano verso le piantagioni di coca, per colpire Ecologica, quarant’ anni circa, spagnolo e di grannostre terre”, incalza irruente Juan, cinquantenne, il narcotraffico. de tenacia. L’unica risposta plausibile mi venne capelli bianchi, faccia scura come gli occhi, rivol“I dati dicono che nel mondo, ogni anno, muoiono cinque dalle parole di un comandante delle forze armate gendosi ai tre ospiti, seduti a un ampio tavolo cenmilioni di persone per il tabacdella Colombia, Octavio Romero, che ebbe il coragtrale. “Sì, arrivano, normalmente una trentina al co. Le vittime da cocaina sono, gio di sussurrarmi: ‘Tutto è parte di un progetto a giorno, ultimamente sono aumentati. Anche treceninvece, seimila. Per ogni morto largo raggio diretto da Washington, con l’obiettivo, to. Ospitarli? Certo, lo facciamo da sempre. Per una da polvere bianca, mille sono i attraverso il Plan Colombia, di occupare o due notti, però, dopodiché dovete intervenire o il morti per le sigarette. Credere l’Amazzonia, fonte energetica e di acqua’. Una vernostro equilibrio fragile si sgretola. Ma voi, piuttoche l’interesse principale degli sione che mi lasciò basito, detta da un uomo del sto, perché non ci dite qualcosa sulle continue Usa, quindi, sia combattere le potere, un capo militare al servizio di Uribe. Da incursioni dell’esercito colombiano nel nostro vildipendenze è difficile, dato che quel momento le mie indagini si concentrarono su laggio? Sulla sua prepotenza, la violenza, le minacsono, insieme a Cina e India, i questa pista. E un mondo mi si aprì”. ce. La notte si muovono anche i paramilitari. maggiori coltivatori di tabacco, Vogliamo sicurezza”. Questo centro di mille e quatcon una produzione annuale di 960mila tonnellate” aldonado da allora ha cercato di confutare trocento anime è l’emblema della normalità fronteogni dubbio su questa versione dei fatti, riza: il sessanta percento degli abitanti è di origine colombiana, risultato dello sfollamento forzato e della paura. Che li insegue andando a studiare le strategie di lotta alla droga imbastite dalla anche qua, pietrificando il villaggio. Questa gente è vittima di un tira e molla Casa Bianca. Dati alla mano. “Volevo capire se lo slogan nordamericano continuo fra esercito e gruppi armati che non guardano in faccia nessuno, sulle fumigazioni indispensabili per la salute globale, perché debellano alla tanto meno una labile frontiera. “Ci sorvolano con i caccia da combattimenradice la cocaina, fosse veritiero. E davanti ai numeri incrociati sobbalzai to - continua Juan - tirano mortai, improvvisano blitz e incursioni. Si accamspiega, sorriso ironico - Nel mondo, ogni anno, muoiono cinque milioni di perpano fra le nostre case, trasformandole in obiettivi per la guerriglia. Come sone per il tabacco. Se a questa cifra si sommano le vittime dell’alcol stiamo potete permettere che la nostra sovranità venga violata così impunemente? parlando di cinque milioni e 750mila persone. E per la cocaina? Seimila. E in più ci mentite”. Nonostante Quito abbia più volte intimato a Bogotà di Dunque, per ogni morto da polvere bianca ne muoiono mille per bacco e tabacco. Sostanze non solo permesse e socialmente accettate, ma che negli fermare le continue violazioni, le autorità locali preferiscono tentare di sedaUsa ricevono addirittura delle sovvenzioni”. Gli Stati Uniti, infatti, insieme a re gli animi confondendo le acque e, giocando sulle mimetiche senza troppi Cina e India, sono i maggiori coltivatori di tabacco, con una produzione stemmi dei militari colombiani, li spacciano per ecuadoriani. “Questo è menannuale di 960mila tonnellate. “E se consideriamo che circa 1.100 milioni di tire al popolo”, spiega gesticolando Carlos, un commerciante di prodotti persone soffrono di dipendenza da tabacco, una domanda sorge spontanea: agricoli. “Sono indignato. Comunque la girano, è un atto illegale. Bombe che com’è possibile credere che gli Usa vogliono combattere le dipendenze se ne piovono dal cielo e uccidono intere famiglie, nessuna protezione, nessun sono i principali produttori?”. Cala il silenzio. Attimi di cupo sgomento. indennizzo. Vedete questo granaio? Pochi mesi fa è stato distrutto da un Nessuno commenta, ma un campesino dal cappello di paglia calato sugli mortaio che ha ferito una bambina e suo padre. Per noi la normalità ha un occhi scaglia con violenza un sasso contro la parete sorda di una casupola sottofondo di proiettili e bombe. Laggiù, fra quella vegetazione di là dal abbandonata. Poi raccoglie una pezzo di caña de azucar, la spezza in due, a fiume, c’è una sorta di quartier generale dell’esercito colombiano. E le loro cercarne il cuore zuccherino, e la porge a suo figlio, Josè, poco più di due armi sono diventate i nostri incubi. Ma dalla Colombia noi vogliamo altro. anni: scalzo e magro, si attacca a quella polpa come al seno materno. Amiamo quel paese e la sua gente. E a tutti i colombiani onesti costretti a Maria prende a braccetto un’amica, e si avviano verso casa. Tutti a testa fuggire spalanchiamo le braccia, lottando anche per i loro diritti. Ma da bassa. Niente da aggiungere. Il sole del mezzogiorno amazzonico batte a Uribe esigiamo rispetto”. picco, illuminando ogni angolo. È il momento di affrontare le altre facce del grande gioco della guerra. Sopra: Nella Comunità Santa Marianita. Percorrere la strada verso Puerto Nuevo, avamposto di frontiera, arroccato Sotto: Rifugiati colombiani nella parrocchia General Farfán. sulle rive del San Miguel, è un’avventura. Crateri improvvisi su una pista Ecuador, 2007 Stefano Mariotti ©PeaceReporter

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I cinque sensi dell’Ecuador

Udito Il dolce sussurro della canoa che fende le acque dei fiumi che si insinuano nel parco Yasunì, cuore dell’oriente amazzonico ecuadoriano. È il mezzo di trasporto più diffuso in questa terra dominata dagli indigeni e dalle compagnie petrolifere, che da decenni stanno approfittando della debolezza dei governi centrali susseguitisi al timone dell’Ecuador per fare il bello e il cattivo tempo. Il risultato è uno: inquinamento, ecosistema minacciato e civiltà aborigene in pericolo, in una zona che è fra le riserve di biosfera più ricche al mondo. Gli slogan scanditi dai contadini durante le numerose manifestazioni in difesa dei loro diritti. Sono canti di lotta, pieni di ritmo e di vigore, che con sguardo fiero i campesinos ripetono all’infinito mentre, marciando nelle grandi città e nei piccoli centri, sventolano bandiere e striscioni. I movimenti di base e sindacali sono molto attivi nel paese e sempre pronti a scendere in piazza.

Vista Il maestoso vulcano andino Pichincha, che domina, con la sua parete orientale, la capitale Quito. Da qui si intravedono, nelle rare giornate sgombre di nubi, le due punte più alte: la Guagua, che in lingua quechua significa bambina, 4.784 metri, e il Rucu, che significa vecchio e che tocca i 4.698 metri. La Guagua è un cratere ancora attivo e tiene sulle spine tutti i quiteños, infondendo loro un rispetto reverenziale. Al Pichincha è legata anche una fondamentale data storica per il paese sudamericano: nel 1822 fu teatro di una battaglia cruenta che segnò il passo nella guerra di indipendenza contro gli

spagnoli, aprendo la strada al moderno Ecuador. I colorati poncho di alpaca degli andini. Nella fredda area rarefatta dei villaggi indigeni, a oltre tremila metri sugli altopiani, macchie di colore si muovono lente e decise, negli sterminati spazi a ridosso delle nuvole: è la gente delle Ande, avvolta in morbide mantelle di ogni colore, tessute a mano dalle donne che pazientemente hanno filato la soffice lana dell’alpaca, il docile quadrupede sudamericano che ricorda nell’aspetto un piccolo lama.

Gusto L’aspro ma gradevole jugo de naranjilla, il verde succo dell’arancia andina, da sempre usata dagli indigeni perché energizzante e afrodisiaca. Cresce alla fresca ombra delle piantagioni, fra i 1.200 e i 2.100 metri di altezza. Ma se esteriormente può ricordare le arance, con una buccia che varia dall’arancione chiaro al marrone, dentro la naranjilla assomiglia vagamente al melograno, ricca di piccoli semi affogati, però, in una polpa verdastra. Viene usata, oltre che per succhi a base di acqua o latte, anche per marmellate e dolci. Il vago gusto di limone delle piccole formiche rossastre che si annidano in una della miriade di piante dell’Amazzonia, dove tutto ha il suo posto e il suo ruolo. Insetti compresi. Questi, in particolare, vengono succhiati direttamente dal ramo, nei momenti di spossatezza, perché la cultura indigena attribuisce loro ottimi effetti sulla pressione sanguigna. L’onnipresente cilantro o culantro, ossia il coriandolo, perno di molte ricette del sudamerica. Erbetta verdastra, che impone il suo aroma in ogni piatto, spesso a discapito degli altri sapori. È forte e invadente. Può dunque non piacere,

quindi una raccomandazione: per evitare di dover deglutire piatti altrimenti gustosi trattenendo il respiro, ricordatevi la formula magica “sin cilantro, por favor!”

Olfatto Il potpourri degli odori sprigionati dalla terra amazzonica bagnata dalla pioggia insistente, ma soave. Inebriante aroma, che coccola i sensi. L’acre odore dei gas di scarico delle auto che intasano Quito. Non c’è attenzione agli agenti inquinanti, a cominciare dagli autobus, i più sfacciati con i loro soffocanti fumi neri.

Tatto La liscia scorza della canna da zucchero, dura e solida, a proteggere il cuore zuccherino, alimento base che i più poveri raccolgono nei campi e che si è soliti trovare in vendita ai bordi delle strade. Sono in tanti a ingegnarsi con bancarelle di fortuna e a esporre confezioni artigianali di caña già pulita e tagliata in piccoli bastoncini, pronti per essere succhiati. Si tratta di ruvidi filamenti color panna, una carica di energetico zucchero per affrontare ogni condizione meteorologica: dall’umida Amazzonia all’aria rarefatta delle altissime Ande. La rude corteccia dell’immenso Samauma, altrimenti detto Regina della foresta. È l’albero del tam-tam, dal tronco intrecciato e possente. Alto fino a trenta metri, con un tronco del diametro di tre, è dotato di grandi radici chiamate sapopernas, utilizzate dagli abitanti della Amazzonia per comunicare a chilometri di distanza. Colpendolo emette un cupo rimbombo che arriva lontano, sulle ali dell’eco. 9


Il reportage Belgio

Divisi nell’Unione Dal nostro inviato Alessandro Ursic

Una mappa, se vuoi girare il Belgio ti serve una mappa. Oppure devi conoscere i nomi delle città in due lingue. O intuire che Luik, per esempio, è Liegi in olandese. La vuoi raggiungere in auto da Leuven, nelle Fiandre, e all’inizio tutte le indicazioni ti mandano a Luik. no pensa: “Paese bilingue, i cartelli saranno doppi”. Macché: finché sei in territorio fiammingo, tutto è in olandese. Luik 55, 45, 35 chilometri. Quando passi il “confine linguistico”, una linea orizzontale che taglia il Paese di netto, il mondo diventa francese. A farti capire che sei in Vallonia basta un semplice “Province de Liège”, seguito da “Liège 31” e così via. Più che un Belgio bilingue, due Paesi, due popoli. Diversi per lingua, cultura, modo di vivere. Insieme da 178 anni, ma che ora si chiedono se ne valga ancora la pena. Non è la prima volta che si parla di divisione. Un partito secessionista fiammingo esiste dagli anni Sessanta, quando ci furono scontri tra estremisti delle due comunità, e nel 1968 l’università di Leuven – la più grande e antica del Paese – si sdoppiò in due atenei di lingue diverse. Oggi, i fiamminghi chiedono più autonomia economica e fiscale; i valloni li accusano di volere la scissione; i sondaggi mostrano che, anche se la maggioranza vuole l’unione, sempre più cittadini ritengono inevitabile una separazione. Nella sua storia il Belgio è rimasto senza un governo per mesi. Ma stavolta lo stallo è durato 192 giorni, un primato nazionale. Per mettere una toppa alla crisi, prima di Natale re Alberto II ha dovuto affidare un governo ad interim all’ex primo ministro Guy Verhofstadt, sconfitto alle elezioni del 10 giugno. Il problema è stato però solo spostato a marzo. Con i belgi l’argomento può suscitare discorsi appassionati, sarcasmo, fastidio. Ma non indifferenza. “Ridete di noi in Italia, bello ragazzo?”, ti chiede il donnone al banco di un bar di Wemmel, un’enclave a maggioranza francofona alla periferia nord-ovest di Bruxelles. “Ci stiamo coprendo di ridicolo per colpa dei politici, qui la gente convive in tranquillità. Vuoi sapere cosa sono io? Bilingue. Bruxelloise”. Fuori, nel gelo di un pomeriggio invernale, da alcune finestre penzola il tricolore belga. Si potrebbe scommettere che sono case in cui si parla francese. Tra le ordinate vie e i cartelli solo in olandese di Dilbeek, un altro sobborgo qualche chilometro più a sud, la bandiera nera-gialla-rossa è invece una specie sconosciuta. Siamo in zona di sovrapposizione tra due mondi. Attirati dai prezzi delle case più bassi, negli ultimi decenni decine di migliaia di abitanti di Bruxelles (ufficialmente bilin-

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gue, ma all’85 percento francofona) si sono trasferiti in questa fascia di periferia che sconfina nelle Fiandre. Wemmel, come altri cinque centri dell’entità amministrativa Bruxelles-Halle-Vilvoorde (Bhv), è uno dei “comuni a facilitazione linguistica”: qui i cittadini che parlano francese possono votare per candidati francofoni e hanno diritto a essere giudicati nella loro lingua. Ma questi vantaggi, secondo i politici fiamminghi, vanno eliminati. A novembre, la questione ha affossato i negoziati per il governo. l Belgio è forse l’unico Paese europeo che fa sembrare semplice la politica italiana. Dieci milioni e mezzo di persone in uno Stato più piccolo di Piemonte e Liguria, ma amministrate da un governo federale, tre regionali (Fiandre, Vallonia e Bruxelles) e uno per ogni comunità linguistica: olandofoni (il sessanta percento della popolazione), francofoni e – ci sono anche loro, per quanto estranei alle diatribe attuali – settantamila tedeschi incastrati in un angolo di Vallonia. Grazie al pragmatismo dei fiamminghi, che hanno unificato i loro due governi, le amministrazioni sono “solo” sei. Ma come la politica, in Belgio tutto è diviso secondo linee linguistiche: partiti, media, scuole e università, associazioni. E cittadini. “Quando è stata l’ultima volta che avete comprato un giornale fiammingo?”, ha chiesto recentemente ai suoi lettori Le Soir, il principale quotidiano in francese. Non serve una risposta. La barriera culturale è un problema, tanto che il re ha esortato i cittadini a imparare la lingua dell’altra comunità. Se non si contano gli abitanti bilingui di Bruxelles e quelli che vivono “al confine”, le due comunità hanno contatti solo quando vanno in vacanza: i fiamminghi tra i boschi delle Ardenne, i valloni sulle spiagge del Mare del Nord. Ma anche lì, si rimane all’interno del proprio gruppo. “Quando vado a Francorchamps per la Formula uno... è tutto diverso”, ti dice ad Anversa Mark, un giovane operaio, con la smorfia di disgusto di uno che descrive il suo impatto con il Terzo mondo, ma in realtà parla di una città 130 chilometri più a sud.

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Manifestazione del 18 novembre. Bruxelles, Belgio 2007. Per concessione di Marie-Claire Houard


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Riunite dal 1830 in uno Stato che faceva comodo a mezza Europa, in quanto cuscinetto tra Francia e Germania, Fiandre e Vallonia rimangono diverse. Una volta la regione francofona, grazie alle miniere e all’industria pesante, era più ricca delle Fiandre agricole. Ma dagli anni Sessanta la crisi della siderurgia, e l’avvento di una dinamica economia di servizi nel nord, hanno invertito i rapporti di forza. Oggi le Fiandre sono il motore dell’economia belga: il loro tasso di disoccupazione è la metà di quello della Vallonia, che invece ha il doppio di funzionari pubblici. Così, nel tempo sono nati stereotipi reciproci che ricordano quelli tra “terroni” e “polentoni” in Italia. I valloni, latini che si godono la bella vita e battono la fiacca; i fiamminghi, nordici efficienti ma gente monotona che pensa solo a lavorare. Aggiungiamo che tendenzialmente le Fiandre votano a destra e la Vallonia a sinistra, ed è lecito chiedersi come facciano a stare ancora assieme. Neanche l’inno nazionale è identico. La versione in francese parla di “unità invincibile”, quella in olandese di “armonia”: sembra lo specchio della situazione di oggi. he cosa hanno in comune, fiamminghi e valloni? Yves Leterme, il leader cristiano-democratico fiammingo trionfatore alle ultime elezioni, una risposta ce l’ha: “Il calcio, le birre e il re”, ha detto alcuni mesi fa. Fu la prima di una serie di gaffe politicamente scorrette. L’uomo che potrebbe ancora diventare premier ha definito il Belgio “un caso della storia”, i francofoni “incapaci di imparare l’olandese”, e ha intonato la Marsigliese quando gli è stato chiesto di cantare l’inno nazionale. A dicembre, infine, ha paragonato l’emittente pubblica francofona Rtbf a Radio Mille Collines, quella che aizzava gli Hutu allo sterminio dei Tutsi in Ruanda. Solo il partito di estrema destra Vlaams Belang (“Interesse fiammingo”) chiede apertamente la scissione. Ma il Belang – che gli altri partiti escludono da ogni coalizione – non c’entra: l’autonomia la vogliono tutti. Ogni anno le Fiandre passano alla Vallonia quasi sei miliardi di euro in trasferimenti, e i fiamminghi sono stufi. “Diamo soldi ai valloni e loro ci dicono cosa fare perché credono di essere migliori”, si lamenta Evelien, un’elegante signora di Anversa. Qui, nella principale città del nord, l’identità regionale è sempre più marcata. “Mi sento fiamminga e voglio la separazione: possiamo fare a meno dei valloni e dei loro politici statalisti”, continua Evelien. “Questo è un Paese artificiale, non lo voleva nessuno. Separiamoci!”, le fa eco Luuk, un ragazzo vicino. Neanche la monarchia mette d’accordo tutti, perché negli ultimi anni le Fiandre hanno sviluppato simpatie repubblicane. “Re Alberto? Quando parla olandese c’è da mettersi a piangere, e la regina Paola (italiana, ndr) non lo sa proprio”, conclude Luuk. Ci sono rancori storici ancora vivi. I fiamminghi si sono sempre sentiti considerati inferiori in un Paese dove l’élite parlava francese. E quando vedono la Rtbf che doppia i loro politici, mentre per le dichiarazioni dei leader francofoni le tv fiamminghe usano i sottotitoli, il fastidio riemerge. La stessa dinamica la rivedi nella Bhv, con i nuovi arrivati francofoni che non fanno molto per integrarsi. “Io non ho niente contro di loro, eh”, si lamenta Roos, una negoziante fiamminga di Vilvoorde. “Però qui siamo nelle Fiandre. Se uno entra nel mio negozio e mi saluta con un bonjour, un po’ mi rode. Cosa ci vuole a imparare un saluto?”. La maggior parte dei fiamminghi ti dice comunque che spaccare il Belgio non ha senso. “Siamo un Paese piccolo, ci completiamo a vicenda”, spiega Sebastiaan, uno studente di Mechelen. Le tendenze unitarie dominano poi in Vallonia, dove però la sensazione che i fiamminghi “non siano mai soddisfatti” ha suscitato una reazione di rigetto. “Il Belgio non esiste più, è un guscio vuoto in attesa di morire”, afferma André, un ricercatore di Liegi. “Io vorrei una Vallonia inglobata nella Francia, anche se qui in genere i separatisti sono per l’indipendenza”. Come del resto i fiamminghi (cattolici), che parlano sì una variante dell’olandese, ma non vogliono unirsi ai (protestanti) Paesi Bassi. I belgi sono abituati a sentirsi ridere dietro: in Francia, su di loro raccontano le stesse barzellette che noi abbiamo per i carabinieri. Ma hanno anche un’autoironia sferzante, e la crisi attuale è una fucina di spunti. Nel dicembre 2006, un’edizione straordinaria del tg della Rtbf

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annunciò la secessione delle Fiandre, con tanto di re Alberto in fuga: ci cascarono in molti, a riprova che l’idea non era poi così assurda. Alcuni mesi fa, qualcuno mise in vendita il Belgio su eBay. Leterme è ormai soprannominato “Leterminator”, e in un teatro di Bruxelles è in scena da settimane la commedia “Sois belge et tais-toi!”, sii belga e stai zitto. Ma non sempre c’è voglia di riderci su. “Qui, all’ora di uscita dagli uffici, senti parlare olandese e francese allo stesso tavolo”, confida Martijn, il barista di un pub nel centro di Bruxelles. “Una volta si discuteva di politica. Ora c’è più tensione, si evita la questione: troppo delicata”. Anche argomenti leggeri come Miss Belgio finiscono nel calderone: a dicembre la neoeletta Alizée Poulicek, bellezza ceca-vallone, ha ammesso di non conoscere l’olandese. Apriti cielo: fischi in sala (si era ad Anversa) e nel Paese non è si discusso d’altro per giorni. “Se non parla olandese, non è giusto che sia Miss Belgio”, ti dice Karlijn, una giovane commessa di Mechelen. Neanche Karlijn è bilingue, il francese l’ha studiato a scuola ma sa solo qualche parola. Non è uguale? “E’ vero, però il Belgio è più olandese, i francofoni vengono dopo”, conclude secca. Nessuno si aspetta di veder diventare Bruxelles come Sarajevo negli anni Novanta. Ma i belgi “unionisti” si stanno organizzando. Grazie alla petizione online lanciata da Marie-Claire Houard, una 46enne di Liegi, il 18 novembre scorso in decine di migliaia hanno sfilato nella capitale in un apolitico corteo nero-giallo-rosso. “La Vallonia è più povera, ok. Ma una famiglia non caccia il figlio in difficoltà economica: gli dà una mano a rialzarsi”, spiega la Houard nel salotto ancora pieno di volantini “Il Belgio ti vuole”. Per molti fiamminghi la donna – un’impiegata regionale, che non parla l’olandese – impersona però lo stereotipo negativo del vallone. E neanche la metafora familiare convince tutti. “Se il figlio da aiutare è sempre quello, meglio cacciarlo. Solo dandogli più responsabilità diventerà adulto”, ha scritto un lettore fiammingo di commento alla petizione. Non è un caso che alla manifestazione i francofoni fossero in netta maggioranza. “Mi deprime pensare che in un’Europa unita noi ci accapigliamo ancora per queste cose”, dice con amarezza Julie all’esterno della cattedrale di Bruxelles. La donna sarebbe una perfetta testimonial del Belgio misto: nata nelle Fiandre da genitori francofoni, istruita in olandese, bilingue, sposata con un fiammingo, bandiera nazionale alla finestra. Ce n’è, di belgi tristi per questa situazione. Come l’anziana signora di Anversa a passeggio con il marito per le strade di Liegi, “perché mi piace venirci a vedere l’opera”. O il sessantenne vallone con moglie fiamminga che abita a Tondres, a ridosso della linea linguistica, che ti dice “se l’intero Belgio avesse i contatti quotidiani con l’altra comunità, tutto si risolverebbe”. O come gli studenti di Leuven, proprio la città dell’università sdoppiata. A spasso per questa graziosa città a est di Bruxelles, trovarne uno che non si senta belga e che desideri la scissione è impossibile. e la futura élite del Paese è convinta che rimanere uniti sia meglio, è difficile immaginare una separazione. Tuttavia, molti – fiamminghi e valloni – non se la sentono di scommettere che tra venti, trenta anni il Belgio esisterà ancora. E quando te lo dicono, lo fanno distogliendo lo sguardo, come se pensassero pieni di rimpianti a cosa è andato storto. Come tutte le separazioni, per quanto consensuali, un fondo di tristezza lo lascerebbe. D’altronde, neanche pensando ai gioielli di famiglia è facile tirarsi su. Con un re che i fiamminghi non sentono loro, una Nazionale di calcio ferma al ricordo del quarto posto ai Mondiali del 1986 ma che non si qualifica a una manifestazione importante da sei anni, aggrapparsi ai simboli nazionali non consola. Rimangono le birre: che sono centinaia, eccellenti e soprattutto da pasteggio ragionato, più che da ubriacatura molesta. Che fiamminghi e valloni scelgano di andare ognuno per la sua strada o di sopportarsi ancora, è probabile che sapranno decidere con la testa sulle spalle.

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Sopra: Bandiere fiamminghe sulla cattedrale di Mechelen. Sotto: “Sii belga e taci”. Locandina di commedia teatrale a Bruxelles. Belgio 2007. Alessandro Ursic ©PeaceReporter


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L’intervista Libano

L’infanzia nella falange Di Erminia Calabrese

Joseph, ex miliziano della falange libanese, racconta la sua vita in un paese dilaniato dalla guerra civile e in mano alle milizie locali. Oggi pensa all’infanzia che non ha mai avuto e cerca di fare qualcosa per loro, per i palestinesi, forse perche possano perdonare chi a quel tempo non poteva essere un bambino. Quando sei entrato nel partito? “É stato nel 1982, dopo l’assassinio di Bechir Gemayel, quando suo fratello Amin è diventato Presidente. Avevo solo 14 anni. Mio padre, un kataeb, era un grande amico dei Gemayel e gli aveva dedicato una poesia per felicitarsi della sua elezione. Ricordo che la dovetti imparare a memoria e recitarla davanti a lui. Il palazzo presidenziale a quel tempo, non era a Baabda, ma a Bikfayye, non lontano da dove abitavamo. Ricordo ancora il ritornello di quella poesia che diceva: “Oh sheikh Amin oh presidente del paese, oh portatore della fortuna e della felicità”. Quando e perché i Kataeb hanno iniziato ad armarsi? “I kataeb hanno cominciato ad armarsi nel 1975, per far fronte a quella che chiamavano la ‘rivoluzione palestinese’ in Libano. La milizia era guidata dalla famiglia Hawi che poi fu assassinato, si dice dallo stesso Gemayel, che voleva prendere il suo posto. Prendevano le armi dagli israeliani che inviavano delle navi al porto di Junieh o di Dbayye. Andavamo di notte. Oggi non credo che queste navi arrivino ancora, perché le armi possono tranquillamente essere acquistate sul mercato nero. Allora la milizia esiste ancora oggi? Non lo so…. Non posso risponderti. (sorride, ndr) Cosa vuol dire essere un membro della milizia dei kataeb? Vuol dire uccidere tutto ciò che non è maronita. Come trascorrevi le tue giornate ai tempi della guerra? Ero sempre ai posti di blocco. Avevo 14-16 anni, ma non ti stupire perché con me c’erano anche dei ragazzini di 12 anni. Avevamo un passamontagna per non farci riconoscere. Controllavamo le macchine, rubavamo tutto quello che potevamo, anche un pezzo di pane. Nella mia regione erano tutti cristiani maroniti, quindi rubavamo a persone come noi. Per questo poi la gente, quando nel 1989 è arrivato Aoun, si é unita a lui: era stanca dei furti e della miseria. Ma noi con quei soldi dovevamo comprare le armi per combattere i palestinesi. Rubavamo anche nelle case. Mio padre era un grande amico di Pierre e di Bechir Gemayel, eppure la sua industria di ferro é stata bruciata dagli stessi kataeb. In cosa ti sentivi diverso dagli altri ragazzi della tua età? Non avevo contatti con altri ragazzi della mia età che non fossero membri della milizia come me. A quel tempo non c’era famiglia sulla montagna libanese che non fosse interamente composta da kataeb. Quelli che provavano a non esserlo venivano allontanati dalla regione del Metn o uccisi. Sentivamo spesso queste storie da piccoli. La famiglia Gemayel manteneva il potere con le armi e la paura. O eri con loro o ti facevano uscire dalla regione, se non ti uccidevano. Conosco molti ragazzi che hanno lasciato il paese per questo motivo. Chi erano per te i musulmani e i palestinesi? Avevo solo 10 anni quando vidi nella piazza del mio paese, Bikfayye, persone 14

uccise e poi messe in croce. Erano musulmani, diceva la gente. Restavano lì esposti come in mostra per un mese. È questo il ricordo che ho dei musulmani. Quanto ai palestinesi, mi dicevano che erano dei mostri, che non erano esseri umani. Mi dicevano che non dovevo uscire da solo perché avrei potuto incontrare un palestinese che mi avrebbe divorato. Da piccolo ricordo che alcuni miliziani della falange andavano nel vicino campo profughi palestinese di Dbayye e li catturavano. Poi li portavano nella piazza del paese, li legavano tra due automobili e li spezzavano in due. Tutto questo era come una manifestazione, chiamavano la gente perché accorresse a vedere. Mi vergogno di tutto questo ma loro facevano il lavaggio del cervello. Capisci? Cosa rappresentava per te Gemayel? Gemayel era la famiglia che controllava tutto, era un re, era come un Dio. La gente faceva di tutto per lui, era come una schiavitù. Quando c’era la milizia la gente era impaurita. Lui imponeva delle tasse, prendeva soldi dalla gente. Lui era lo Stato. Mi ricordo che faceva vendere ai posti di blocco giornali vecchi di due anni e tu eri costretto a comprarli. I posti di blocco erano dappertutto nel Paese. Cosa senti oggi, ripensando al tuo passato? Penso all’infanzia che non ho mai avuto, penso a mio padre che ha perso tutto a causa dei suoi “amici”. Penso alle immagini di quei musulmani in croce e di quei palestinesi con il corpo spezzato. Ho vergogna di me, anche se a quell’età ero solo uno spettatore, e vergogna della mia gente. È per questo che oggi cerco di fare qualcosa per loro, per i palestinesi, forse perche possano perdonare chi a quel tempo non era un bambino. Cosa pensi dell’assassinio di Pierre Gemayel, avvenuto il 21 novembre 2006? Non so chi l’abbia ucciso, il Libano è un paese troppo complicato. Però prima della sua uccisione Nasrallah e Aoun, che ora fanno parte dell’opposizione al governo, avevano annunciato una grande mobilitazione nel paese per far cadere il governo di Seniora. Poi è stato tutto annullato e sono stati i funerali di Pierre Gemayel e l’odio anti-siriano ad attirare i media. Capisci che voglio dire? Il Libano uscirà dalla crisi con un’elezione presidenziale? Non ci sarà un’elezione presidenziale in Libano. Almeno per ora. Forse si aspetterà fino alle legislative del 2009. D’ora in poi nel migliore dei casi ci saranno solo rinvii. Nel peggiore ci sarà un’altra guerra. Nel fronte sud Israele provoca e Hezbollah risponde tirando razzi. Nel fronte nord è ricomparso Alabsi, il capo dei jihadisti del campo palestinese di Nahr el Bared, e minaccia l’esercito. Dove possiamo andare? Certo non sono tanti gli scenari immaginabili. In alto: Beirut di notte. Libano 2004. Samuele Pellecchia/Prospekt In basso: Manifestazione a Beirut. Libano 2006. Naoki Tomasini ©PeaceReporter


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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

Organizzazione che vai, stime che trovi. Ma i morti sono comunque tantissimi

Missione segreta attiva dal 2006. Il popolo non deve sapere

Le buone nuove

Iraq, lo scontro è sulle cifre

Afghanistan, la guerra italiana

Australia: la Cina è un po’ più vicina

l calcolo del numero delle vittime del conflitto iracheno, iniziato a marzo 2003 e tuttora in corso, sta diventando una battaglia nella battaglia. Secondo uno studio del governo iracheno, in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), sono 151mila gli scomparsi per morte violenta in Iraq dal marzo 2003 al giugno 2006. L’Oms ha formato quattrocento funzionari del ministero della Sanità iracheno, mandati in giro per mille tra città e villaggi in Iraq, a intervistare quasi 10mila famiglie. Secondo i dati raccolti, le vittime di morte violenta nel periodo specificato vanno da un minimo di 104mila a un massimo di 223mila e per questo l’Oms fissa in 151mila morti la proiezione della loro stima. Una cifra enorme, ma che ridimensiona lo studio dell’ottobre 2006 della John Hopkins University e dell’università alMustansiriya di Baghdad, che stimava in circa 650mila le vittime nello stesso periodo. Secondo l’Organizzazione mondiale per la sanità, però, i dati di quella ricerca erano alterati da un campione di famiglie intervistate ristretto e limitato alle zone più violente del paese, che facevano impennare le proiezioni statistiche. La cifra, invece, risulta di molto superiore a quella di Iraq Body Count, network di ricercatori universitari britannici e statunitensi, che stima in cinquantamila le vittime in Iraq nello stesso periodo. Per l’Oms, però, quel dato è molto sottostimato, perché tiene in considerazione solo le vittime civili e non i miliziani e perché si basa su informazioni raccolte dai mezzi di stampa che, per l’agenzia Onu, riportano solo una vittima su tre. L’Oms ha concluso, quindi, in un contesto difficile come l’Iraq, (sia per il collasso delle istituzioni statali nel registrare i nati e i morti che per l’insicurezza personale alla quale sono esposti gli intervistatori), che l’unico metodo possibile per trarre delle stime credibili sulle vittime in Iraq sia quello delle proiezioni statistiche. Fino alla prossima stima.

ll’insaputa del popolo italiano, dal settembre del 2006 duecento uomini delle nostre forze speciali inquadrati nella Task Force 45 (comprendente i Ranger del 4° Alpini, gli incursori del Comsubin, il 9° Col Moschin e il 185° Rao della Folgore) e un centinaio di fanti della Forza di Reazione Rapida italo-spagnola (dall’estate 2007 i bersaglieri della brigata Garibaldi, dotati di otto carri armati Dardo e cinque elicotteri da combattimento Mangusta) combattono i guerriglieri talebani nell’ovest dell’Afghanistan. Nonostante la censura imposta dal ministero della Difesa, in un anno e mezzo sono trapelate almeno undici battaglie: da semplici scontri a fuoco in riposta ad attacchi nemici a vere e proprie offensive durate anche settimane, come la battaglia per la riconquista del Gulistan, un distretto della provincia di Farah, lo scorso novembre. Anche quando, a gennaio, questa guerra segreta è stata svelata a con tanto di nome in codice (operazione ‘Sarissa’), il mondo politico ha continuato a far finta di niente e a negare l’evidenza, insistendo nel dire che le nostre truppe d’assalto vengono impiegate solo a costruire scuole e pattugliare le strade. Un’offesa non solo all’intelligenza di un popolo, ma anche alla dignità delle nostre forze armate, che ben sanno cosa stanno facendo i nostro uomini laggiù. Nei prossimi mesi l’impegno bellico italiano in Afghanistan è destinato ad aumentare. Questo è quello che ci chiederanno, al prossimo vertice Nato di Bucarest, i nostri alleati: gli unici ai quali i nostri governanti si sentono di dover rendere conto. Tra i basilari principi di una democrazia c’è quello che vuole che i cittadini-contribuenti siano almeno informati, se non interpellati, sulle decisioni più importanti del proprio governo, come certamente è quella di combattere una guerra. In Italia, invece, i nostri politici ci hanno tenuto nascosta per un anno e mezzo la partecipazione delle nostre forze armate alla guerra in Afghanistan. Come se la faccenda non fosse affar nostro, come se il popolo fosse troppo immaturo per sapere e giudicare.

Christian Elia

Enrico Piovesana

Il governo australiano ha deciso di seguire l’esempio cinese, mettendo al bando le buste di plastica gratis nei supermercati. Il ministro per l’ambiente Garrett ha definito la misura decisiva, vista la situazione “critica” causata dalle buste alla natura nel continente oceanico.

Bhutan: al voto per la prima volta Il vento del cambiamento soffia sulle vette dell’Himalaya. Dopo l’abolizione della monarchia e la proclamazione della repubblica in Nepal, anche il Bhutan sta facendo un passo storico ponendo fine a un secolo di monarchia assoluta. Si sono tenute le prime elezioni nella storia di questo piccolo Paese per eleggere la camera alta. Difficile chiamarla Senato, visto che l’età media degli eletti è attorno ai trent’anni, con diversi neolaureati di venticinque. Effetto della legge elettorale, che impone l’obbligo della laurea ai candidati: in Bhutan solo le ultime generazioni hanno iniziato ad andare all’università.

Brasile: schiavi in libertà Cinquemila persone sottomesse a condizioni di vita “analoghe alla schiavitù” sono state liberate in un anno dal Governo brasiliano, che ha inserito questa piaga fra le emergenze da debellare. Erano tutti contadini, costretti a turni massacranti, in condizioni di vita misere, pagati con frustate e violenza. Nessun diritto. Nemmeno alla salute. Gli uomini di Lula li hanno scovati nelle più sperdute fattorie del Brasile, ridotti a pelle e ossa. “Il 2007 è stato uno degli anni più vittoriosi in questa lotta”, ha commentato il portavoce della Segreteria dei diritti umani, che dipende dalla Presidenza della Repubblica. “Ma la schiavitù continua a essere una realtà in molte regioni”.

Uruguay: sì alle coppie di fatto È il sesto paese al mondo ad approvare le unioni civili, pure tra persone dello stesso sesso. Il Congresso uruguagio ha approvato il disegno di legge che introduce nella cattolicissima nazione sudamericana l’istituto delle coppie di fatto. 16

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Israele-Palestina La questione del medioriente

on la dissoluzione dell’Impero Ottomano, dopo la Prima Guerra mondiale, la Palestina diventa un ‘mandato’ britannico. Già durante il conflitto la Gran Bretagna aveva giocato due partite in contemporanea: da un lato prometteva, con la Dichiarazione Balfour, al movimento sionista internazionale (che si batteva per la nascita di uno Stato ebraico) ‘’un focolare domestico in Palestina’‘, dall’altra s’impegnava a sobillare gli arabi alla rivolta contro l’Impero Ottomano promettendo loro l’indipendenza. La Seconda Guerra mondiale, dopo il dramma dell’Olocausto, rende improrogabile per la comunità internazionale la concessione di uno stato alla diaspora ebraica, ma la Palestina è abitata da secoli dagli arabi, che non hanno alcuna intenzione di spartire con loro quella terra che, santa per le tre grandi religioni monoteiste, diventa anche stretta. Le Nazioni Unite decidono di creare due stati equivalenti, uno arabo e l’altro ebraico. Nasce così, nel 1948, lo Stato d’Israele. Gli arabi rifiutano il progetto di spartizione. Il primo conflitto scoppia nel 1948, seguito dai conflitti del 1956, del 1967 e del 1973. Si calcola che, nelle varie guerre, abbiano perso la vita più di 100mila persone. Israele, nel 1967, occupa la Striscia di Gaza, Gerusalemme Est e la Cisgiordania, in pratica tutti i territori che avrebbero dovuto costituire il futuro stato palestinese, costellandoli di insediamenti illegali. Il tutto nell’assoluta impotenza delle Nazioni Unite, che continuano ad approvare risoluzioni di condanna per Israele, le quali restano però lettera morta per il veto che gli Stati Uniti pongono in ogni circostanza. Un equivoco, da sempre, accompagna il conflitto israelo – palestinese: questo non è un conflitto religioso. La posta in palio, molto più pragmaticamente, sono la terra e le scarse risorse in ballo, in particolare l’acqua. E non riguarda solo arabi e israeliani. Basta pensare ai milioni di profughi palestinesi che, in fuga dalle guerre, vivono inscatolati nei campi profughi nei paesi confinanti. Il conflitto israelo – palestinese non tarda a valicare i confini della terra stretta, con attentati in giro per il mondo e con l’invasione, nel 1982, del

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Libano da parte dell’esercito israeliano, che trascinerà il ‘Paese dei cedri’ in una drammatica guerra civile. Dopo anni di promesse non mantenute, il popolo palestinese insorge in una sollevazione popolare chiamata ‘intifada’: dal 1987 al 1992 perdono la vita duemila persone, in massima parte palestinesi. A metà degli Anni Novanta, con i cosiddetti Accordi di Oslo, pare raggiunto un quadro di pacifica convivenza, ma tutte le speranze naufragano nell’incapacità della classe dirigente israeliana e palestinese e della comunità internazionale di arrivare alla creazione di uno Stato palestinese. La rabbia palestinese esplode all’inizio della seconda ‘intifada’, nel settembre del 2000, che non è ancora finita, pur essendosi portata via più di seimila vite, circa cinquemila delle quali palestinesi. Molti attori sono, nel frattempo, cambiati. E’ morto il ‘padre’ di tutti i palestinesi, Yasser Arafat, e il suo arcinemico Ariel Sharon è da anni paralizzato da una grave malattia. L’uscita di scena di due dei protagonisti chiave del conflitto pareva aprire la porta di una nuova era di relazioni tra arabi e israeliani. Ma non è stato così. I palestinesi hanno dato prova di grande sensibilità, quando hanno dato vita alle elezioni più democratiche e trasparenti viste nel mondo arabo da anni. Ma la comunità internazionale, visto che aveva vinto Hamas, ha volutamente ignorato il risultato delle urne, paralizzando la vita politica palestinese e sospendendo gli aiuti umanitari. La Striscia di Gaza, dalla quale Israele si è ritirato nel 2005, è diventata una prigione a cielo aperto, all’interno della quale i palestinesi muoiono di fame. L’esasperazione popolare ha portato a uno scontro interno tra gli uomini del Fatah (eredi di Arafat) e quelli di Hamas, in uno scontro fratricida che ha causato centinaia di vittime che si sommano a quelle delle incursioni israeliane. Adesso la situazione è sospesa. La comunità internazionale, con la Conferenza di Annapolis, ha tentato di rilanciare il dialogo, ma lo ha fatto scegliendosi gli interlocutori indipendentemente dalle preferenze dei palestinesi.


Israele-Palestina



Israele - Palestina I lavori per la costruzione di quello che gli israeliani chiamano ‘barriera difensiva’, e i palestinesi ‘muro dell’apartheid’, sono cominciati nel giugno del 2002 intorno al distretto della città di Zububa, estremo nord della Cisgiordania. Nel luglio 2003 è stato completato il settore nord, che giunge poco più a sud della città di Qalqilya. La parte settentrionale del tracciato è lunga 145 chilometri: 132 chilometri costituiti da un recinto elettronico, mentre i restanti 13 chilometri sono in cemento armato. Il muro è alto otto metri, è circondato da fossati (larghi dai 60 ai 100 metri) e da reti di filo spinato. Ha torri di controllo ogni 300 metri. Lungo il tracciato sono state costruite strade di aggiramento per soli coloni. Il costo complessivo dell’operazione è di un milione di dollari al chilometro. Il muro, una volta terminato, sarà lungo circa 600 chilometri contro i 350 chilometri della linea verde. Il 1°ottobre 2003 il governo israeliano ha approvato con 18 voti favorevoli, 4 contrari e un astenuto, la fase due della costruzione. I due tracciati potrebbero comunque in futuro unirsi, ma non esistono mappe ufficiali della parte meridionale del muro. Alla fine dei lavori circa 200 mila palestinesi di Gerusalemme est si troveranno separati dai connazionali in Cisgiordania. Anche la città di Betlemme ed Hebron subiranno l’impatto traumatico della costruzione del muro.


Intentata una causa miliardaria contro le multinazionali del tabacco

Progressi per i diritti civili, ma in Messico continuano le contestazioni indigene.

Il numero dei morti nel mese di gennaio*

La guerra al fumo Tre passi indietro della Nigeria e uno avanti

Un mese di guerre

Africa si ribella al fumo: per la prima volta nella storia del continente, uno stato africano, la Nigeria, ha deciso di fare causa a tre multinazionali del tabacco, chiedendo un risarcimento di 30 miliardi di euro per i danni provocati dal fumo. Secondo l’accusa, la British American Tobacco, la Philip Morris e la International Tobacco Ltd. avrebbero causato miliardi di spese supplementari al sistema sanitario nigeriano, anche con campagne pubblicitarie miranti a colpire i minorenni. Stando alle cifre dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il diciotto percento dei giovani nigeriani fuma, in un Paese in cui la maggioranza dei centoquaranta milioni di abitanti ha un’età media inferiore ai vent’anni. L’accusa ha raccolto in un dossier migliaia di mail scambiate dai vertici della Bat, in cui i responsabili delle campagne pubblicitarie parlerebbero espressamente di colpire i bambini e di fare pressioni sui parlamentari, in modo da evitare ostacoli legislativi. Le compagnie interessate si difendono, sostenendo che la domanda di risarcimento è troppo alta e respingendo le accuse sulle campagne pubblicitarie verso i minori. A prescindere dall’esito del processo, le autorità hanno comunque attuato un giro di vite nei confronti del fumo: le pubblicità di sigarette sono scomparse dai cartelloni, mentre su televisione e radio potranno essere trasmesse solo dopo le dieci di sera. Inoltre, quattro stati della Nigeria hanno deciso di intentare cause separate contro le compagnie, cause che affiancheranno quella condotta dalle autorità federali. La battaglia non si preannuncia comunque facile: combattere il consumo di sigarette in un Paese in cui il contrabbando è florido e la vendita di singole sigarette favorisce proprio l’approccio ai più giovani (e squattrinati) non è semplice. E finora tutti i processi contro le grandi multinazionali, col passare dei gradi di giudizio, si sono ridotti a poca cosa. Prova ne sia la causa intentata in Florida, annullata in appello dopo che in primo grado l’accusa aveva spuntato un risarcimento di cento miliardi di euro. In Africa, la battaglia si annuncia ancora più dura.

el sud del Paese, soprattutto nel Chiapas, regione al confine con il Guatemala, i movimenti indigeni, Ezln (l’Esercito di liberazione nazionale capeggiato dal Sub Comandante Marcos) prima di tutti, continuano a denunciare intrusioni, minacce e attacchi da parte dell’esercito regolare messicano e dei gruppi paramilitari presenti nella regione che li vogliono allontanare dalle loro terre. A Oaxaca, gli aderenti al movimento sociale Appo (Asemblea Popular de los Pueblos de Oaxaca) continuano da mesi con le proteste e le manifestazioni per chiedere migliori condizioni lavorative per la popolazione, riforme sociali e l’abbandono dell’incarico dell’ultraconservatore Ulises Ruiz, governatore dello Stato. E le manifestazioni indette negli ultimi mesi hanno lasciato il segno: decine gli arresti, molte le violenze e gli abusi sui manifestanti. Non è certo migliore la situazione nel nord del Paese dove alla frontiera con gli Usa si sommano molti problemi. Due su tutti: la continua immigrazione clandestina e la diffusione di corruzione e narcotraffico. Ormai la situazione sembra davvero senza controllo, tanto che il governo è stato costretto a inviare a Tijuana centinaia di agenti di polizia a supporto delle forze di sicurezza locali. Ma ci sono anche novità positive e riguardano tutte la capitale, Città del Messico, considerata oggigiorno la più progressista delle città del continente americano. La giurisdizione del Districto Federal, infatti, consente da qualche tempo alle coppie omosessuali di unirsi in matrimonio, aspetto davvero rivoluzionario in un Paese machista come il Messico. Non solo. E’ in vigore da qualche tempo la “Ley de voluntad anticipada”, una legge che permette ai malati terminali di decidere quando “staccare la spina”. Ma, nonostante le buone notizie non si devono dimenticare gli omicidi dei giornalisti (trentacinque negli ultimi anni) e le limitazioni alla libertà di stampa che ancora oggi fanno del Paese uno dei più arretrati in tema di libertà d’espressione.

PAESE

Matteo Fagotto

Alessandro Grandi

L’

N

MORTI

Iraq Sri Lanka Pakistan-talebani Afghanistan Turchia Somalia India Nordest Israele-Palestina India (Naxaliti) Sudan (Darfur) R. D. Congo India (Kashmir) Caucaso del Nord Colombia Thailandia del Sud Filippine (Abusayyaf) Pakistan (Balucistan) Ciad Costa d’Avorio Filippine Npa Etiopia (Ogaden) Nigeria Algeria Myanmar (Karen) Bangladesh Nepal

1.081 701 496 403 163 93 93 79 77 75 63 48 40 32 28 23 23 17 8 6 5 5 4 3 2 1

TOTALE

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I dati che qui riportiamo sono dati ufficiali, raccolti da agenzie di stampa internazionali o locali. Per cui sono da intendersi sempre per difetto: in molti paesi del mondo non si contano i vivi, figuriamoci i morti.

*Il periodo considerato è quello compreso tra il 12 dicembre e il 16 gennaio

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Qualcosa di personale Italia

Benvenuti all’inferno di Roberto Della Giorgia testo raccolto da Luca Galassi

La pagina buia della giustizia minorile è stata scritta a Lecce qualche anno fa: ragazzi denudati e pestati in cella; agenti che si accaniscono su un albanese spaccandogli tre denti; pressioni psicologiche sugli ospiti extra-comunitari. Tutto tenuto nascosto per anni, finchè il medico dell’istituto, due poliziotti e un’educatrice non riescono a farsi ascoltare dalla magistratura. La Procura di Lecce ha aperto un’inchiesta a carico di undici agenti penitenziari e l’istituto è stato chiuso ‘per ristrutturazione’. o in quel posto ci ho lavorato venti anni. Ne ho quarantanove. Ho cominciato, quindi, fresco di laurea, e con le migliori intenzioni. Per quindici anni sono stato bene. La struttura aveva un ruolo importante nell’accogliere, recuperare e rieducare i ragazzi. Era un istituto modello. C’erano progetti e attività sociali di ogni tipo. Ma nel 2003, con l’avvento del nuovo comandante, Gianfranco Verri, le cose iniziano a cambiare. Lentamente, quest’uomo si circonda di suoi fedeli, poliziotti provenienti da fuori, e comincia a gestire l’istituto con mano violenta. Quando l’onorevole Luigi Vitali, all’epoca sottosegretario alla Giustizia, venne a Lecce a fare un’ispezione, io lo accolsi dicendogli: ‘Benvenuto all’inferno’. Esagerai, ma per fargli capire che la situazione aveva valicato i limiti dell’accettabile. Il Dipartimento di giustizia minorile di Bari riceve la mia prima denuncia il giorno in cui nasce mio figlio, il 22 ottobre 2004. Denunciai episodi di abuso e violenza ai danni di molti ragazzi. Vi fu violenza fisica e psicologica, sugli ospiti dell’istituto ma anche su di noi, sui membri del personale che si opponevano a questa situazione: io, un’educatrice, due poliziotti penitenziari. Un poliziotto fu costretto ad andare in pre-pensionamento. Io mi sono fatto venti giorni nel corridoio, perchè un bel giorno non avevo più il mio ufficio. Il mobbing era il meccanismo con il quale speravano che prima o poi cedessi, che me ne andassi, lasciandogli campo libero. Ma hanno fatto male i conti. Da quando ci siamo opposti con forza, hanno dovuto fare marcia indietro, e violenze non ce ne sono più state. La giustizia sta lentamente facendo il suo corso. Il carcere è chiuso ‘per ristrutturazione’. Hanno smantellato la squadra che Verri si era costruito. La polizia giudiziaria ha seguito in tutta Italia i ragazzi usciti dall’istituto, per interrogarli e chiedere conferma delle denunce. Sarà una lunga battaglia legale. Questi ragazzi si sono fatti la galera, pagando le loro colpe. Adesso deve pagare chi ha colpe nei loro confronti. Quali colpe? Entravano nella stanza di un ragazzo e lo riempivano di botte. Il giorno dopo lo costringevano a dichiarare che si era picchiato da solo. Uno psicolabile, che raccontò di aver passato la notte nudo su una branda di ferro, fu obbligato a ritrattare, convinto a farlo con la ‘dolcezza’ consueta delle guarde carcerarie. Un altro ragazzo, malmenato da cinque persone, accusò i poliziotti, ma il suo compagno di cella, obbligato dalle guardie, racconta il contrario: anche lui si è picchiato da solo. Subisce la beffa della

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punizione e viene mandato in isolamento per ‘aver denigrato’ i secondini. A un albanese rompono tre denti, e per non farlo vedere a nessuno lo imbarcano d’urgenza, durante la notte, verso il carcere di Bari. Ancora, un ragazzo mi si presenta con l’occhio nero e il naso gonfio. Mi dice: mi hanno picchiato. Dico alle guardie di portarlo giù in infermeria e nei cinque minuti che passano da quando ha parlato con me ha già ritrattato con la forza e le intimidazioni. Poi ci sono le violenze e le pressioni psicologiche. è stato un periodo, a fine 2004, in cui nell’istituto di Lecce si trovavano una decina di extracomunitari ‘difficili’. Avevano un consumo di psicofarmaci enorme. Dovevano sedarsi per reagire alle sopraffazioni, alle prevaricazioni, ai comportamenti razzisti dei secondini. Non potendo sfogarsi altrimenti, per farlo sceglievano il proprio corpo: si tagliavano, si provocavano sfregi sull’addome, sulle braccia, sulle gambe. Certo, l’autolesionismo è un male comune in tutte le carceri italiane, ma se le situazioni vengono indotte, stimolate, provocate, allora le colpe vanno cercate anche altrove. Io facevo referti, ma le carte venivano riscritte. Su cento episodi, io ne avrò visti venti. Di questi venti, poi, solo cinque sono stati confermati. Ricordo il volto di Angelo, che aveva da scontare una lunga condanna per omicidio ed è stato inserito in un processo di ri-socializzazione che ha dato i suoi frutti. Ricordo il suo volto, quando, ad una recita in cui faceva Cappuccetto Rosso, si illuminò guardando gli spettatori, bambini di una scuola elementare, che gli facevano festa. Aveva scoperto valori e sentimenti che non conosceva, che non aveva mai visto perchè cresciuto in un ambiente dove esisteva solo la violenza. Lo confronto con il volto di Marco, che mi perseguita. Marco, che aveva avuto il coraggio di venire a denunciare la violenza subita. Picchiato da cinque persone, mi guardava con l’animo umiliato, mortificato, offeso. Non solo per quello che gli avevano fatto, per le botte e le sopraffazioni. Ma perchè costretto a ritrattare le sue dichiarazioni. Perchè le carte rovesciavano la verità. Allora mi chiedo: cosa ha imparato il primo? Che esiste una speranza, fuori dalla violenza. Cosa abbiamo insegnato al secondo? Che è solo la violenza a comandare.

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Sopra: In galera. Archivio PeaceReporter Sotto: Carcere. Bergamo, Italia 2006. Francesco Acerbis/Prospekt


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La storia Kenya

Mathare-Manchester, andata e ritorno di Matteo Fagotto

La pioggia scende battente sulla “piazza” di Mathare, uno spiazzo erboso ampio pochi metri, che domina l’intera baraccopoli di Nairobi. Qui, Sammy Gitau ha raccolto i frutti di sette anni di sacrifici: tre container azzurri arrugginiti, ghiacciati d’inverno e roventi d’estate, stipati all’inverosimile di libri, attrezzi e uno sgangherato letto dove dorme. ueste sono la biblioteca e il laboratorio” dice con l’orgoglio di chi espone la ragione della propria vita. “Lo so che per gli standard europei non sono molto, ma questi tre contenitori di metallo aiutano migliaia di ragazzi a uscire dall’ignoranza e dalla delinquenza”. E che cosa siano la miseria e la criminalità, Sammy lo sa bene. Nato trentacinque anni fa e cresciuto in una delle baraccopoli più grandi della periferia di Nairobi, Sammy è rimasto orfano di padre a tredici anni, costretto a lavorare per mantenere l’intera famiglia. Una responsabilità troppo grande, che ha spinto Sammy nel tunnel della droga: anni a spacciare e prendere di tutto, fino al coma che l’ha quasi ucciso e, soprattutto, convinto a intraprendere una strada nuova. Oggi, dopo aver ottenuto un master all’università di Manchester, Sammy è diventato la nuova speranza di Mathare. “E’ una sensazione fantastica, il coronamento di un sogno” dice raggiunto telefonicamente a Manchester, in uno dei suoi ultimi giorni inglesi. “Non vedo l’ora di tornare in Kenya, nonostante in Inghilterra sia stato molto bene. Ma, con questo master, mi sento più utile che mai a Mathare. È ora di ripagare la sorte che ho avuto facendo qualcosa per i ragazzi di là”. E qualcosa Sammy l’ha già fatto, visto che da cinque anni lavora in progetti per il recupero dei giovani della baraccopoli. Cinquecentomila persone racchiuse in circa un chilometro quadrato fatto di violenza, disoccupazione e morte, in cui mancano i servizi più elementari e l’arrivo dell’elettricità (per le strade, non nelle case) lo scorso anno è stato visto come un cambiamento epocale. Un ambiente ben diverso da Manchester, dove Sammy è approdato due anni fa quasi per caso. “Mi trovavo a Mathare, stavo parlando con alcuni ragazzi nei pressi della biblioteca” ricorda, “quando trovai per caso un prospetto informativo dell’università nella spazzatura. Non so chi l’abbia portato e perché, ma quel piccolo pezzo di carta ha cambiato la mia vita”. Andare a Manchester: un sogno che Sammy giudica non realizzabile, tanto che non lo prenderà in considerazione che cinque anni dopo, durante la visita di un funzionario dell’Unione Europea allo slum. “Venne per rendersi conto dei progetti a favore dei giovani che avevo organizzato, la biblioteca, il laboratorio... Era curioso, aveva voglia di capire fino in fondo la realtà del posto. Tanto che accettò di passare un’intera notte in giro nello slum, perché quando cala il sole la baraccopoli si trasforma”. Una notte in cui Sammy confessa ad Alex il sogno che lo tormenta da cinque anni, finché il funzionario non decide di aiutarlo, assistendolo nella richiesta di domanda per il master. L’impresa si rivela molto difficile, visto che l’università richiede un diploma di scuola superiore mentre Sammy, in tutta la sua vita, è stato a scuola sì e no

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tre anni. Grazie all’intercessione di Alex, il rettore dell’università dà una possibilità a Sammy, a patto che superi un test di lingua e cultura inglese con un voto minimo di sette su nove. “Mi misi a studiare tutte le notti”, continua, “perché di giorno dovevo lavorare e gestire il centro per i ragazzi. Fu massacrante, ma quando riuscii a passare l’esame fu una soddisfazione enorme”. Ora, Sammy vorrebbe che la sua stessa fortuna venisse condivisa dagli altri ragazzi di Mathare. “Ricordo le difficoltà che incontrai quando cominciai a fare attivismo”, continua. “Negli slum i giovani conoscono il linguaggio della violenza, è molto duro riuscire a far passare loro un messaggio differente”. Una fiducia che Sammy si è dovuto guadagnare passo passo, cominciando coi bambini per passare ai ragazzi grandi, i più difficili da recuperare. Uscendo con loro, capendo il loro modo di comunicare e ascoltandone i problemi. “Ho cominciato riunendo i ragazzi assieme, coinvolgendoli in progetti per la comunità”, continua. “Prima erano visti solo come ladri o scansafatiche”. Ora, Sammy fornisce i testi in prestito a buona parte delle scuole di Mathare, grazie ai contatti che ha stabilito con i donatori. I container li ha trovati al porto di Mombasa, i libri arrivano principalmente da biblioteche inglesi, ma il centro ha bisogno anche di generatori e lampadine per permettere ai ragazzi di leggere anche la sera, di finestre, di sedie. Il segreto, dice Sammy, è quello di concentrare ogni donatore su una singola parte del progetto. Soprattutto ora, che all’università si sono stabiliti molti contatti che potrebbero tornare utili alla causa di Mathare. Un percorso non lineare, anche perché nelle baraccopoli tutto è precario. li abitanti di Mathare, come quelli di Kibera e Korogocho, sono tecnicamente degli abusivi, e potrebbero essere cacciati via dalle autorità per costruire nuovi quartieri alla moda, come già successo in passato. E, assieme a loro, verrebbe spazzato via anche il centro culturale, vanificando dieci anni di lavoro. Per questo gestire bene il centro non basta: bisogna anche mantenere contatti con i politici locali, i capi della polizia, gli amministratori, una cosa non facile in un ambiente dove politici e poliziotti si vedono solo durante le campagne elettorali o nelle operazioni anti-crimine. “Conosco le potenzialità di queste persone, che ogni giorno devono inventarsi come mettere assieme pranzo e cena”, conclude ridendo, mentre guarda alcuni ragazzi che giocano a pallone davanti allo spiazzo. “Ho fiducia in me, e in loro”.

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Sopra: Un pastore nei pressi del vulcano Magado. Kachury, Kenya 2007 Sotto: Carcasse di animali. Sheriki, Kenya 2007 Massimo Di Nonno/Prospekt


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L’intervista Kenya

Ci vorrà tanto tempo Di Karim Fael

Che fine ha fatto il Kenya? Ce lo racconta Padre Kizito, missionario comboniano. Del Kenya, della crisi politica che ha portato il Paese sull’orlo del baratro, nessuno sembra più aver voglia di parlare. Finite le vacanze, tornati in patria i turisti che si godevano le spiagge bianche di Malindi, sono stati spenti microfoni, luci e telecamere. Tutto di fretta. Perché è così che funziona. Anche se la conta dei cadaveri continua. Anche se gli sfollati, forse più di trecentomila, sono sempre senza una casa... Una crisi che viene da lontano quindi? Ci aiuti a capire... Il Kenya è un Paese che negli ultimi anni ha conosciuto uno sviluppo economico incredibile. Uno sviluppo senza pari in Africa. Sempre più ricchi e, paradossalmente, sempre più poveri, sempre più indigenti e isolati. Più del 50 percento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Il potere è concentrato nelle mani di pochi, un potere enorme. Quella che stiamo vivendo è una guerra per accaparrarsi il potere. Niente di più, niente di meno. In occidente, però, ci hanno raccontato di un conflitto etnico più che di una lotta tra potentati. Il risentimento che arde in molti keniani, soprattutto giovani che si vedono condannati ad una vita di povertà, è esploso in una guerra contro altri poveri. In Occidente la disuguaglianza economica e sociale può essere affrontata attraverso la rappresentanza politica. In Kenya tutto questo precipita nell’etnia, che maschera un conflitto che è prima di tutto economico e sociale. Nelle baraccopoli non si odia il “landlord” perché è kikuyu o luo, ma perché è uno sfruttatore. A questo dobbiamo aggiungere che il modo in cui questa crisi viene percepita dalla popolazione locale è in gran parte influenzato dai racconti e dalle analisi dei mass-media. E la cosiddetta coscienza di classe? Qui la coscienza di classe diventa invidia di classe. Il benessere sembra a portata di mano. Gli abitanti delle baraccopoli di Kibera, di Riruta, di Kawangware spesso aspirano semplicemente a saltare la barricata. È una corsa all’oro e il mio nemico non è più chi per anni l’oro se l’è intascato alle mie spalle, ma quello che corre al mio fianco. È innegabile però che le diverse etnie si siano scontrate nelle ultime settimane. Ci sono i morti, gli sfollati... Se anche la crisi politica dovesse risolversi in tempi brevi, è impensabile che tutto venga cancellato con un colpo di spugna. Questo è quello che più mi preoccupa. Se la pace verrà, sarà una pace difficile. È questa la vera catastrofe. Soprattutto alla luce del fatto che in Kenya la convivenza era vera, non forzata. Ci vorranno mesi, se non anni per archiviare questa triste pagina. Ma come è potuto succedere? Se gli scontri non sono nati dal basso, vuol dire che qualcuno li ha voluti e pilotati? Questo è sicuro. Così come è sicuro che, soprattutto nell’entourage di Odinga, c’è qualcuno che nella stanza dei bottoni ha il potere di infiammare gli animi, tanto per usare un eufemismo... C’è il rischio di un nuovo Ruanda? Vorrei poterlo escludere, ma siamo sempre in Africa. Speriamo che quella terribile lezione sia servita a qualcosa. 22

La crisi ha portato alla ribalta internazionale Kibaki e Odinga. Chi sono in realtà? Prima di tutto occorre chiarire che s’inganna chi crede che tra i due pretendenti ci sia il buono e il cattivo. Quello che imbroglia per tenersi ben stretto il potere e quello che vuole ridare al popolo ciò che gli è stato usurpato. Il Presidente Kibaki e il suo avversario Odinga sono a capo di due delle famiglie più ricche del Kenya, famiglie che si sono arricchite attraverso il potere politico. Il loro programma politico è quasi indistinguibile. Detto ciò Odinga sa che questa è l’ultima occasione per arrivare alla presidenza. Sono vent’anni che ci prova e, se dovesse fallire anche questa volta, sarà cancellato a livello politico. Capite cosa c’è sotto? Il rischio di nuovi scontri e nuove violenze è purtroppo altissimo. Perché la mediazione internazionale è fallita? Un po’ perché non si può pretendere che una crisi di queste dimensioni si risolva nel giro di poche ore. Un po’ perché l’intervento della cosiddetta comunità internazionale – e bisognerebbe spendere molte parole sul perché al Kenya è stato riservato un trattamento di favore quando la stessa comunità ci ha messo mesi e anni prima di intervenire in Sudan e Ruanda – si è trasformata in una farsa. O meglio in una passerella per mettersi in mostra. Non voglio essere troppo radicale e ci tengo a dire che confido nella mediazione internazionale, che da sola comunque non può bastare. E i paesi confinanti che fanno? Hanno avuto un ruolo negli scontri? Fonti che reputo affidabili oltre ogni dubbio mi hanno raccontato che militari ugandesi, vestiti da civili, hanno partecipato alle prime violenze nell’ovest del paese. L’Uganda confina con la parte più ricca di risorse naturali del Kenya, la Great Rift Valley. Gli interessi economici in gioco in quella zona sono enormi. Quanto al ruolo ufficiale dei paesi confinanti, beh, non possono che sperare in una rapida fine di questa crisi. Stanno a guardare e sperano. Il Kenya è fondamentale per la stabilità della zona. Soprattutto dal punto di vista economico. A livello umanitario è sempre emergenza? Che cosa si può fare nel concreto? Gli sfollati sono tantissimi: trecentomila, una cifra impressionante. E per il momento è assurdo anche solo pensare a un ritorno. Il conto dei morti ammazzati è fermo a settecento, ma probabilmente è una stima al ribasso. Grazie al cielo i kenioti non sono soli. Le tante associazioni che da anni lavorano fuori e dentro agli slum stanno facendo del loro meglio. Anche a livello di sensibilizzazione. Il paese ha disperatamente bisogno di aiuti. E oltre a questo, lo ripeto, al Kenya e alla sua popolazione, serve tempo. Molto tempo. Sopra: Posto di blocco al confine. Archivio PeaceReporter Sotto: Ragazzo con una tanica per l’acqua. Nanyuki Kenya 2007. Massimo Di Nonno/Prospekt


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Migranti

Non poteva finire peggio Di Gabriele Del Grande

Quello di dicembre è stato uno dei mesi con più morti. Un mese iniziato col summit euro-africano di Lisbona e proseguito con l’allargamento a est dell’Area Schengen e con la firma dell’accordo italo-libico per il pattugliamento congiunto. n mese finito con 243 vittime tra migranti e rifugiati, dei quali 120 nel mar Egeo, 96 sulle rotte per le Canarie, 17 lungo le coste algerine e 10 al largo dell’isola francese di Mayotte, nell’Oceano Indiano. Un tragico bilancio che chiude un anno, il 2007, che si lascia alle spalle almeno 1.861 morti. Erano stati 2.088 nel 2006. Ma confrontare i dati è difficile, visto che si basano esclusivamente sulle notizie riportate dalla stampa. Quel che è certo, è che gli arrivi sono sensibilmente diminuiti in tutta la frontiera sud - con l’eccezione di Malta, Cipro e Grecia – a causa dei respingimenti in mare di Frontex e degli arresti di massa in tutto il Nord Africa. L’anno non poteva finire peggio. Nella sola notte del 10 dicembre, un naufragio al largo delle coste di Seferihisar, nella provincia di Izmir, ha fatto più morti nella zona che non durante tutto il 2006. Erano partiti in una notte di tempesta per evitare i controlli, ma la nave si è rovesciata in mare con tutti gli 85 passeggeri. Soltanto 6 i superstiti. La loro meta era l’isola greca di Chios, distante meno di un’ora di navigazione. Nelle due settimane successive altri due naufragi hanno causato 8 morti a Bodrum e 32 a Lesvos. È l’anno nero dell’Egeo. Almeno 257 vittime, contro le 73 del 2006. Almeno 885 annegati dal 1994. Ma ad aumentare sono stati anche gli arrivi. Dati ufficiali parlano di 10mila persone sbarcate contro le 4.000 del 2006 e le 3mila circa degli anni precedenti. Tanto vale la diminuzione degli arrivi sulle coste spagnole nel 2007. Meno della metà del 2006. Eppure i morti sono ancora troppi. La nostra rassegna stampa parla di 876 morti nel 2007 contro i 1.250 del 2006. Gli ultimi 113 a dicembre, 91 dei quali in un solo giorno, quello stesso maledetto 10 dicembre in cui a Seferihisar, in Turchia, perdevano la vita 79 persone. Il numero degli arrivi alle Canarie è crollato, ma da Dakar si continua a partire. E si continua a morire. Le rotte si spostano in base ai pattugliamenti. Il 17 dicembre si è aperta la rotta portoghese. 23 cittadini marocchini sono sbarcati a Olhao, nel sud del Portogallo. Mentre più a est, si è ormai affermata la rotta algerina per le isole Baleari, dove nel 2007 sono arrivati in 577, contro i soli 8 del 2006.

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nvece il 29 dicembre il ministro italiano dell’Interno Giuliano Amato ha firmato gli accordi di pattugliamento congiunto con il ministro libico degli Esteri. I mezzi italiani opereranno in acque libiche, con equipaggi misti, e i migranti intercettati saranno respinti nei porti del Paese africano, detenuti e rimpatriati. Per Amato si potranno così “salvare molte vite umane”. Ma sulla questione libica pesano come un macigno le gravi denunce di Amnesty International, Human Rights Watch e Fortress Europe: 60mila

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migranti arrestati e deportati dalla Libia solo nel 2006, comprese donne e bambini, migranti economici e rifugiati politici. Eppure fu la Corte Europea dei diritti dell’uomo, il 10 maggio 2005, a dichiarare illegali le deportazioni collettive in Libia che l’Italia aveva imposto da Lampedusa. Ma ciò che ieri era illegale, oggi è l’obiettivo dichiarato dell’organo comunitario preposto al controllo delle frontiere esterne dell’Ue: Frontex, appunto. Sono state 22 nel 2007, e hanno portato all’arresto di 19.295 migranti, di cui 11.476 in mare, 4.522 a terra, e 3.297 negli aeroporti. Mentre nel 2006 il bilancio dell’agenzia di Varsavia si chiudeva con 32.016 arresti. Senza che nessuno se ne sia accorto, Frontex sta pattugliando tutte le frontiere: aeree, marittime e terrestri. Non solo l’Egeo, il Canale di Sicilia, lo Stretto di Gibilterra e l’Atlantico, ma anche e soprattutto le frontiere terrestri dell’Europa orientale e il Mar Baltico. Frontex sta addirittura preparando una missione speciale per gli Europei del 2008, in Austria e Svizzera, dopo che aveva fatto lo stesso durante i Mondiali di calcio in Germania nel 2006. Senza parlare delle missioni negli aeroporti di mezza Europa: Amazon, Agelaus, Hydra, Extended Family, Long Stop, Argonauts. E per il 2008 si potrà fare di meglio, dato che il budget di Frontex è stato raddoppiato a 30 milioni di euro. l 21 dicembre il muro di Schengen si è spostato a oriente, inglobando Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria. La frontiera tra Slovacchia e Ucraina è di 97,8 chilometri. L’ingresso nell’area Schengen ha significato la costruzione di un muro virtuale tra i due Paesi: 250 telecamere mobili, visori notturni, gps, rilevatori di calore, infrarossi e mezzi di pattugliamento fuoristrada. Su questa frontiera sono stati fermati 25.539 migranti nel 2004 e 32.756 nel 2005. Il loro destino è la riammissione in Ucraina. Human Rights Watch ha più volte denunciato gli accordi di riammissione tra i Paesi dell’Est Europa e l’Ucraina, esprimendo particolare preoccupazione per i rimpatri dei rifugiati della Cecenia e dell’Uzbekistan. Dall’Ucraina sono stati espulsi 5mila migranti nel 2004 e 2.346 nella prima metà del 2005, la metà verso ex Repubbliche sovietiche, gli altri verso Cina, India, Pakistan e Bangladesh. Bruxelles conosce questi rapporti, ma con Kiev ha già stretto un accordo di riammissione, firmato il 18 giugno 2007, che molto presto dovrebbe entrare in vigore.

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In alto: Madre e sorella di migrante guardano il mare In basso: Migranti. Archivio PeaceReporter


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Rubriche

In edicola di Claudio Sabelli Fioretti

Notizie tutte da stimare In tivù di Sergio Lotti

Genio italico Nel conformismo generale dei talk show, tutti così tediosamente simili uno all’altro, anche gli spunti più interessanti rischiano di passare inosservati, com’è accaduto in una delle ultime puntate di Ballarò. Quando già la trasmissione volge al termine e le solite facce dei politici che si rimpallano le responsabilità cominciano a conciliare il sonno ai telespettatori persino davanti allo spettacolo delle istituzioni che affondano nel pattume accumulato sotto il Vesuvio, quasi di soppiatto compare un servizio sulla Tirrenia, la società pubblica di navigazione che dovrebbe assicurare i collegamenti con le isole. Un altro disastro nazionale, ma con aspetti decisamente originali. Gestisce quattro tratte in croce accumulando 200 milioni di euro di perdite all’anno, coperte in qualche misura da un consistente contributo statale. Le navi in esercizio sono per lo più vecchie, ma ce ne sono quattro nuove, pagate 500 miliardi di vecchie lire e presentate come le più veloci del mondo, che non escono mai dai porti. Altrimenti si sciupano? No, restano all’ancora perché consumano troppo. Comunque l’efficienza è assicurata da ben quattro consigli di amministrazione, che consentono ad almeno un dipendente su quattro di starsene tranquillo dietro a una scrivania. I buchi di bilancio, si potrebbe pensare, derivano forse dal fatto che la Tirrenia gestisce tratte poco redditizie, assicura cioè un servizio costoso, ma utile ai cittadini di località che le società di navigazione private snobbano. E invece riesce ad accumulare perdite proprio sulle tratte dove gli altri guadagnano. Eppure il responsabile della Tirrenia è un signore che sta su quella sedia da oltre ventiquattro anni, passato indenne al vaglio di diciassette governi. Un autentico genio, tant’è vero che i dipendenti della società lo difendono a spada tratta. “Resta al suo posto perché sa fare bene il suo lavoro”, dicono. “Infatti non ha mai licenziato nessuno”. Purtroppo mancano come al solito le domande giuste: ma il servizio ai cittadini dov’è? Avete un’idea di che lavoro fate? Guai a togliere all’uomo il senso dell’utilità del proprio lavoro, diceva Dostoevskij. Ma era tanto tempo fa. Oggi, più prosaicamente, al viceministro Enrico Letta non resta altro che annunciare, mentre compaiono già i titoli di coda, la privatizzazione della Tirrenia. 26

“Secondo le stime ufficiali”, scrive il Corriere della Sera, “il presidente del Consiglio Romano Prodi percepisce come compenso per il suo lavoro 7.200 euro ogni mese”. Stime ufficiali? Lo stipendio di Romano Prodi non è un dato di dominio pubblico? Bisogna ricorrere a stime per conoscerlo? E quale perizia è stata in grado di ottenere questa stima? “La cifra che la Cancelliera tedesca Angela Merkel percepisce mensilmente come retribuzione per il suo ruolo”, continua il Corriere della Sera, “è 19.300 euro, secondo stime ufficiali”. Ma che cosa sono queste stime ufficiali? C’è bisogno di fare deduzioni, calcoli, valutazioni per arrivare a sapere quello che dovrebbero sapere tutti e che dovrebbe essere pubblicato dalla Gazzetta Ufficiale? E soprattutto, qualche giornalista potrebbe sforzarsi e fare qualche domanda in giro per sapere il dato reale dello stipendio del premier e diffonderlo come oggettiva certezza e non come stima ancorché ufficiale? Perché se si diffonde questo principio allora il mestiere di giornalista diventa veramente facile. Perché mai cercare le notizie quando ci sono in giro tante belle stime ufficiali? Meteo: “Ieri a Madonna di Campiglio secondo stime ufficiali è nevicato”. Tg: “Domani, secondo stime ufficiali, è l’ultimo dell’anno”. Anche il compito dei giornalisti politici risulterebbe semplificato:

Salute Di Valeria Confalonieri

Qualche tenue spiraglio Il 2007 ha portato con sé epidemie, disastri naturali, morte e sofferenza, ma anche qualche nota positiva. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha selezionato dieci notizie in campo sanitario considerate significative. La prima è l’influenza aviaria da virus H5N1, con continue segnalazioni di casi e morti (oltre 200 dalla fine del 2003). Altre infezioni hanno segnato l’anno passato, come le epidemie di febbre emorragica da virus Ebola e Marburg in Africa: il primo sia nella Repubblica Democratica del Congo che in Uganda, mentre il secondo sempre in Uganda. Proseguendo nella lista, non manca la

“Secondo stime ufficiali è caduto il governo”. E lo sport? “Il campionato italiano di calcio, secondo stime ufficiali, è stato vinto dall’Inter”. I giornalisti, diciamo una gran parte dei giornalisti, peccano di pressappochismo e di pigrizia. Si adagiano su notizie incerte e di dubbia provenienza oppure si attaccano a traballanti luoghi comuni. Basta qualcosa arrivata via Internet per costruire una breve, come se Internet fosse per sé una fonte e non semplicemente un mezzo. “Su Internet si è diffusa la notizia che…“ Come dire: “Sul telefono abbiamo appreso che…“ Tra le notizie che vengono aggiunte nelle biografie spesso si legge, come se fosse una prodezza: “Ha anche un sito, www eccetera eccetera”. Per non parlare del “popolo dei fax” una incredibile entità che viene tirata in ballo quando non si hanno reazioni ufficiali da usare a conferma delle proprie tesi (bastano due o tre fax pieni di idiozie per far titolare: “Il popolo dei fax vuole questo o vuole quello”. E poi ci sono le fonti ufficiose, cioè il contrabbando delle proprie idee e delle proprie speranze sotto forma di soffiata di cui non si può rivelare l’origine. Che dire? Secondo stime ufficiali i giornali italiani sono spesso pieni di notizie strane ed incontrollate. www.sabellifioretti.it

segnalazione di disastri naturali ed emergenze sanitarie: il terremoto in Perù, le inondazioni nell’Africa occidentale e il ciclone in Bangladesh, cui l’Oms aggiunge la situazione dei profughi iracheni. Chiudono la serie negativa i dati di mortalità materna, la cui riduzione è troppo lenta per riuscire a raggiungere gli obiettivi fissati dalle Nazioni Unite per il 2015. L’elenco finisce con gli spiragli di ottimismo affiorati nel 2007, nella speranza che il nuovo anno li confermi e ne aggiunga di nuovi: le campagne di vaccinazione contro la febbre gialla per le popolazioni più a rischio, la messa a punto di regole internazionali di protezione per malattie o eventi pericolosi per la salute globale, i progressi nei confronti di poliomielite, tubercolosi e morbillo, la correzione, verso il basso, del numero di persone con Hiv.


A teatro di Silvia Del Pozzo

Fra ordine ed eversione Bagdad, Beirut, Gaza, Gerusalemme, Islamabad. Non passa giorno che giornali e tv non diano notizia di un nuovo attentato terroristico, sempre più tragico, cruento, assurdo, quasi sempre indecifrabile nelle motivazioni e negli scopi. Cronache purtroppo quotidiane a cui seguono elaborate analisi di scenari socio-politico-culturali, costellate il più delle volte da molti dubbi e interrogativi. Gli stessi che già cento anni fa si era posto uno scrittore acuto come Joseph Conrad quando nel 1907 scrisse il romanzo “L’agente segreto”, da lui stesso ridotto per il teatro quindici anni dopo e ora portato in scena per la prima volta in Italia da Marco Sciaccaluga con la compagnia dello Stabile di Genova. A far riflettere l’autore di “Cuore di tenebra” sulla “criminale futilità della dottrina, dell’azione, della mentalità terroristica” fu un attentato vero (fallito) all’Osservatorio di Greenwich, compiuto nel 1894 dall’anarchico Bourdin. Questo è lo spunto per un intreccio dalla struttura hitchcockiana i cui protagonisti vivono un’esistenza apparentemente normale. Verloc, uomo mediocre e indolente che gestisce a Londra un negozietto di cianfrusaglie, spia prezzolata di un paese dell’est da cui riceve l’ordine di compiere un attentato che susciti nella pubblica opinione ostilità verso gli anarchici stranieri rifugiati a Londra, gente animata da progetti incendiari ma dalla vita tranquilla; sua moglie Winnie; il cognato subnormale Stevie, inconsapevole corriere della bomba, che salterà in aria con essa, inciampando nel parco dell’Osservatorio. Da qui si dipanano reazioni, rimorsi, e nuove morti, l’omicidio di Verloc e il suicidio della moglie… nell’affresco di un mondo di violenza in cui ordine ed eversione sono lo specchio l’uno dell’altra.

ternità. E in nome di questi ideali mandati a combattere (e spesso a morire) vestiti con divise spartane (sandali al posto degli scarponi, nessun indumento pesante nemmeno in pieno inverno) e con compensi dimezzati rispetto ai francesi doc. Il padre del räi, con impegno e commozione, ha la capacità di interpretare con passione le musiche composte da Armard Amar, ricavandone un lavoro che dà corpo alle illusioni, ai sogni e ai drammi di questi misconosciuti protagonisti di una storia che sino a oggi non era ancora stata raccontata dal cinema. Sulla rete è reperibile anche il dvd della pellicola.

rista Anoushka Shankar, figlia di Ravi, il nativo americano Carlos Nakai, il suonatore di kora del Gambia Foday Musa Suso, il coro polifonico Gyoto Tantric Choir, Tom Waits in compagnia dei camaleontici Kronos Quartet… Ed è proprio la partecipazione di Tom Waits a rendere questo cd da buono a eccellente. A chi gli chiedeva che cosa ci facesse lì in mezzo, l’ineffabile Tom ha risposto così: “Non sono

Healing the divide: a concert for peace and reconciliation di AA.VV. Il 21 settembre 2003, presso il Lincoln Center’s Avery Fisher Hall di New York, si tenne “Healing the Divide: a concert for peace and reconciliation”, serata benefica a favore del Tibet. Healing The Divide è un’organizzazione no profit fondata da Richard Gere nel 2001, che cerca nella collaborazione soluzioni per le crisi e i conflitti umanitari. Con qualche anno di ritardo esce un cd che fotografa quella serata. Il cartellone era di quelli che è difficile mettere assieme. Sua Santità il Dalai Lama, l’eclettico compositore Philip Glass, la sita-

uno stupido: si tratta di una polizza d’assicurazione spirituale. Diavolo, alla mia età, nella prossima band che metterò insieme, tutti potrebbero suonare l’arpa! Scherzi a parte, dovevo un favore a Sua Santità, è lui che a scuola mi faceva i compiti”. Serissima invece l’esecuzione dei brani: “Way down in the Hole” da “Franks Wild Years”, “Lost in the harbour” da “Alice” e “God’s Away On Business” da “Blood money” (all’epoca gli ultimi due dischi pubblicati) e il trascinante inedito “Diamond In Your Mind”.

Vauro

“L’agente segreto”: Genova, Teatro della Corte fino al 3 febbraio; poi in tournée.

Musica di Claudio Agostoni

Indigènes di Khaled È la colonna sonora, pubblicata da Universal, dell’omonima pellicola del regista franco-algerino Rachid Bouchareb, un lavoro che racconta pagine di storia cadute colpevolmente nell’oblio. Nel film si racconta dell’uso che l’esercito francese ha fatto, nel secondo conflitto mondiale, dei figli delle sue colonie. Algerini, marocchini, senegalesi cresciuti con il mito della libertà, dell’uguaglianza e della fra27


Al cinema di Nicola Falcinella

Tutta la mia vita in prigione di Marc Evans Il 9 dicembre 1981 Mumia Abu-Jamal, già capo dell’informazione delle Black Panthers (lo era diventato a soli 14 anni), venne arrestato per l’omicidio dell’agente di polizia Daniel Faulkner. Sebbene si proclamasse innocente, nel 1982 è stato condan-

nato a morte. Dal carcere quello che era uno dei più influenti giornalisti afroamericani, nonostante la giovane età (è nato nel 1954), ha scritto cinque libri (“In diretta dal braccio della morte” edito da

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Fandango Libri, “All Things Censored”, “Death Blossoms”, “Faith of our Fathers” e “We Want Fredom”) e collabora con un centinaio di emittenti radiofoniche statunitensi. Un caso esemplare di giustizia abbagliata dal pregiudizio razziale. La sua vita è raccontata in un documentario, “In Prison my Whole Life - In prigione tutta la mia vita” di Marc Evans, che esce nelle sale italiane distribuito da Fandango a febbraio. Un’inchiesta che ha per protagonista William Francome, un giovane bianco della media borghesia che intraprende un viaggio nel sistema giudiziario, fino al braccio della morte. Il legame tra William e Mumia è segnato fin dall’inizio: la notte in cui il primo nasce, il secondo viene arrestato a Philadelphia. Il giovane parte dallo schermo del suo computer, dove ascolta la voce del “ragazzo simbolo del movimento contro la pena di morte” e raccoglie le prime informazioni, per concludere l’avventura nel carcere dove è rinchiuso Mumia Abu-Jamal. Che presto avrà un altro appello contro la sentenza di condanna. Francome e Evans hanno percorso in lungo e in largo gli Usa per intervistare Noam Chomsky, Amy Goodman, Mos Def, Alice Walker, Angela Davis, Steve Earle, Robert Meeropol e altri per ricostruire con loro il contesto della vicenda e quattro decenni di storia statunitense non ancora investigati a fondo. Il film, con le musiche di Robert Del Naja dei Massive Attack e canzoni originali di Snoop Dogg, è prodotto dall’attore Colin Firth (il fidanzato buono di Bridget Jones, già diretto da Evans in “Trauma”) e da sua moglie Livia Giuggioli e coprodotto da Domenico Procacci.

In libreria di Giorgio Gabbi

Guantanamo di Dorothea Dieckmann Un romanzo di lettura non facile, un itinerario nelle sofferenze fisiche e mentali, negli incubi, nei vaneggiamenti, nei ricordi di un ragazzo che va in India come turista e finisce stritolato nell’ingranaggio costruito dalle forze armate statunitensi per fare la guerra al terrorismo. Rashid è un cittadino tedesco, di madre tedesca e di padre indiano musulmano: va a Delhi per trovare la nonna, poi a Katmandu, poi sfortunatamente in Pakistan. Qui la polizia lo arresta durante una manifestazione e lo consegna agli statunitensi. Rashid parla un po’ d’inglese imparato a scuola, dell’arabo conosce solo pochi versetti del Corano (è un musulmano non praticante), non sa niente di terrorismo, non ha mai avuto a che fare con gli estremisti islamici. Però non riesce a comunicare con poliziotti e militari: legato e incappucciato, finisce a Guantanamo, in quel lager fuori dal mondo dove i detenuti non sono protetti né dalla legge statunitense, né dalle convenzioni internazionali sui prigionieri di guerra. È alla mercè della brutalità della polizia militare e dell’accanimento degli esperti di antiterrorismo che lo tormentano con interrogatori senza fine. Vogliono farlo confessare cose che non ha commesso e lui, con la mente


annebbiata dalle torture e dalle privazioni, si inventa qualche colpa pur di farla finita, per essere trascinato di nuovo nella sua gabbia. Dove si consola con l’amicizia di una lucertola che lo viene a trovare e sembra ascoltare paziente i suoi soliloqui. L’autrice, nata a Friburgo nel 1957, ha ricevuto lusinghieri riconoscimenti per la sua attività letteraria, a cominciare dalla novella Die schwere und die leichte Liebe (L’amore pesante e leggero) premiata nel 1990 con l’Hamburger Literaturpreis. Non ha mai visitato la base Usa di Guantanamo a Cuba. Scrive nella premessa: “Mi

lettere a un chirurgo confuso scrivi a chirurgo@peacereporter.net Caro Gino, Vorrei sapere come fai, tu che sei spesso in giro per il mondo, a leggere i giornali italiani. Io ho ci riesco quasi più. Perché non si legge mai nulla di quel che nel mondo accade, e le pagine sono piene di pettegolezzi politici (non saprei come altro definirli, visto che non si parla mai di contenuti). Sono davvero spaesata. Se la realtà fosse davvero come i giornali la descrivono, e se il mondo fosse solo quello che descrivono i giornali, saremmo in un mondo davvero triste. Franca, Pesaro

sono basata su fatti reali e li ho descritti nei minimi dettagli: immagini e reportage di giornalisti, militari ed ex detenuti…solo due scene del terzo capitolo nascono da informazioni prese da un’altra base Usa, Bagram, presso Kabul. Ai dati può accedere chiunque senza difficoltà”. Certo: senza il ricordo di questi dati, a cominciare dalle foto orrende uscite proprio da Bagram, il romanzo potrebbe essere considerato un libello antiamericano fra i tanti. Invece è, soprattutto, un vibrante atto d’accusa contro gli esiti inumani impliciti in qualunque impresa bellica. Voland Edizioni, 2007, € 12,00

In rete di Arturo Di Corinto

Openopolis: adotta anche tu un politico! Ma se ogni cittadino potesse controllare il suo rappresentante in Parlamento, esisterebbe “la casta”? Probabilmente no. Se la memoria degli elettori fosse più lunga dell’attenzione dei media a scandali, baruffe, spesso disattese prese di posizione, il politico di professione sarebbe più cauto, sapendo che una parola di troppo, una scelta incoerente e dannosa per la comunità gli costerebbe la reputazione e forse l’elezione. È più o meno questa la ragione del progetto “Openpolis”, un progetto di monitoraggio della politica che raccoglie sul web le biografie dei

Cara Franca, forse ti deluderò. Non mi piace leggere i giornali italiani, fondamentalmente perché non mi piace spendere soldi per leggere notizie di cui potrei fare assolutamente a meno. A parte rarissime eccezioni il panorama editoriale italiano mi sembra piuttosto desolante. Una notizia di dodici righe seguita da un’intera pagina di commenti dei politici di turno. Che magari non hanno niente da dire, ma si sa, per par condicio non si può fare a meno di sentirli proprio tutti. Questo però, tutto sommato, è ancora informazione. Peggio è quando leggi, su una rivista di grandisima diffusione nazionale, il consiglio del pediatra (l’Italia, si sa, è un Paese di esperti): il cellulare fa bene, tutti i bambini dovrebbero averlo, dai tre anni in su. All’asilo con il cellulare? La perplessità assume tinte più fosche quando, a poche pagine di distanza, vedi la pubblicità di una nota azienda di telefonia mobile e del nuovissimo prodotto, che può usare – guarda caso – anche un bambino. Poi, l’emergenza rifiuti a Napoli. Emergenza è una parola interessante, che richiama l’urgenza, sì, ma anche altre cose: l’unicità della situazione, l’imprevedibilità, in una certa misura. Ma quando l’emergenza si ripresenta con cadenza periodica, allora questa parola serve bene a nascondere il fatto che il problema è strutturale: non è un’emergenza, come l’ambulanza che corre sul luogo di un inatteso, imprevedibile incidente, ma un dramma ben più antico, che per tanti, troppi anni è stato sistematicamente ignorato. A volte, invece, sogno un giornale che “traduca” gli altri giornali. Esempio: nota casa automobilistca indiana

circa 140 mila politici italiani (dal consigliere di circoscrizione all’eurodeputato), arricchendole ora per ora di notizie e informazioni su cosa costoro dicono ai giornali, come votano nelle assemblee, quanto guadagnano, da chi prendono soldi e ricevono favori. E pure il numero di condanne e denunce che collezionano. Openpolis è un progetto non profit fatto da volontari che usano lo strumento della rete per costruire questa grande

presenta la sua ultima creazione, la macchina che costa come una bici. Bella idea, no? Sì, e infatti ha avuto un ampio risalto su tutti i quotidiani nazionali. Ma che cosa c’è, dietro a un prezzo così scandalosamente basso? Beh, fra le altre cose ci sono migliaia di ettari di terreno espropriati ai contadini indiani che lo coltivavano, per fare posto allo stabilimento che produrrà questa incredibile vettura. Ci sono sgomberi forzati. Ci sono squadroni della morte che picchiano a sangue chi cerca di opporsi. C’è anche una ragazzina di sedici anni, che lottava per il diritto alla terra della sua comunità, brutalmente seviziata e bruciata, proprio sul terreno della fabbrica delle meraviglie. Ma queste cose, in fondo, non fanno notizia. Almeno, non come un’auto che costa come una bici. Gli esteri, sui giornali italiani, praticamente non esistono. Tra dicembre e gennaio, un’ondata di proteste e scontri in Kenya ha fatto centinaia di morti: un massacro. La nostra stampa ha dato ampio risalto alle notizia, anche perché (o soprattutto perché?) tra dicembre e gennaio, in Kenya, ci sono tanti turisti italiani. E infatti: pagine e pagine di interviste, a vip e meno vip, che sostanzialmente dicevano: questo è un paese bellissimo, mangiamo l’aragosta che costa pochissimo e, certo, ci torneremo anche l’anno prossimo. Quando gli ultimi settanta turisti sono rientrati in Italia, il Kenya è lentamente scivolato lontano dalla prima pagina, e poi fuori dai giornali. Chi sa che cosa è successo dopo? Come hanno risolto la crisi politica, se lo hanno fatto? Sono riusciti, alla fine, a contare le vittime? Ma di queste cose, in fondo, ci importa poco. Meglio riempire le pagine con le vacanze del Presidente francese e della sua giovane, bella fidanzata. A presto, Gino Strada

memoria collettiva, e si basa su una notevole intuizione: per non perdere una mossa di ciascun politico, ogni attivista ne adotta uno. Che da quel momento avrà una specie di cane da guardia appresso, pronto a squarciare quel sottile velo tra ciò che è noto e ciò che non lo è. A beneficio di chi sulla base di quelle informazioni farà delle scelte. Anche nell’urna. (http://www.openpolis.it/) 29


Per saperne di più Ecuador LIBRI A SUD, Il sangue della terra. Atlante geografico del petrolio. Multinazionali e resistenze indigene nell’Amazzonia ecuadoriana, Derive e Approdi Editore, 2006 Studio approfondito sull’impatto delle multinazionali petrolifere nell’oriente ecuadoriano, cuore dell’Amazzonia. Testo che ripercorre l’approccio delle compagnie dell’oro nero nel piccolo paese andino, e sul modo in cui si sono spartite il ricco sottosuolo, grazie alla connivenza dei governi di turno, e in barba a ogni principio ambientale e di rispetto per i diritti umani. ACCION ECOLOGICA, ACCION CREATIVA, CAS, CEDHU, CONAIE, FORCCOFES, PLAN PAIS, RAPAL ECUADOR, SERPAJ ECUADOR, CLINICA DE DERECHOS HUMANOS DE LA PUCE, Frontera: daños geneticos por la fumigaciones del Plan Colombia, Accion Ecologica Editore, 2003. (In spagnolo). Un rapporto dettagliato sui danni genetici che le fumigazioni autorizzate dal programma colombiano-statunitense Plan Colombia hanno causato sugli ecuadoriani che vivono al confine. Frutto di lunghe e serie ricerche sul campo, portate avanti da professionisti e assemblate da una squadra di esperti, dà il quadro della grave situazione in cui sono costretti a vivere intere famiglie, ormai segnate per la vita. PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO, Ecuador un paese che cambia, Provincia autunoma di Trento, 2007. Fotografia di un paese in piena transizione. L’arrivo al potere dell’economista di sinistra Rafael Correa ha rinnovato la speranza in un paese ingannato e deluso da troppi uomini politici. La corsa all’assemblea costituente è spiegata nel suo essere espressione di un complesso contesto di profondi cambiamenti, che inseriscono di diritto l’Ecuador fra gli Stati latinoamericani più intraprendenti e originali del momento, contro il vecchio neoliberismo e le sue istituzioni.

SITI INTERNET http://www.selvas.org È un centro di comunicazione sociale senza fini di lucro formato da giornalisti, ricercatori e membri e cooperanti di Ong e Onlus con l’obiettivo di portare a conoscenza della società e dei professionisti dell’informazione argomenti specifici per quanto attiene ai diritti umani, sociali, difesa dell’ambiente, infanzia, conflitti armati, risorse energetiche del continente latinoamericano e in particolare dell’Area Andina. Selvas crea inchieste e analisi originali su grandi temi svelando aspetti della realtà che non vengono trattati dall’informazione ufficiale, illustrando punti di vista spesso inediti e dando informazioni su settori sociali, popolazioni e tematiche spesso invisibili. http://www.conaie.org È il sito della Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador. Costituitasi nel 1986, come prodotto del processo organizzativo iniziato dalle comunità indigene ecuadoriane, è la principale rappresentante, la voce, il pensiero dei popoli indios, lottando per il riconoscimento dei loro diritti e per la difesa della natura. È una confederazione autonoma e mira a costruire uno Stato plurinazionale. Sta lavorando fianco a fianco con 30

l’Assemblea Costituente impegnata a varare la nuova Magna Charta d’Ecuador. http://www.accionecologica.org È il sito dell’organizzazione Acción Ecologica, fra le più attive e conosciute del Paese. Ha sede a Quito, ma il suo intervento è capillare. È un pozzo senza fine di documenti e studi sulla situazione ambientale del paese, ospita interventi di esperti, invita a eventi e conferenze e suggerisce letture e approfondimenti. http://www.abyayala.org Abya-Yala è un associazione culturale di Quito che si occupa di pubblicare testi di scienze sociali latinoamericane. Funziona anche da casa editrice, tanto da produrre il settanta percento delle pubblicazioni ecuadoriane. Il suo catalogo conta di oltre 1600 titoli, che includono 4.500 articoli, con 2000 autori, 320 dei quali indigeni.

FILM JOSHUA MARSTON, Maria piena di grazia, Colombia, 2004. Sebbene si concentri sul dramma del narcotraffico fra Colombia e Stati Uniti, il film, realistico e coinvolgente, è parzialmente girato anche in Ecuador, e comunque rispecchia il dramma che molti Paesi latinoamericani sono condannati a vivere TANIA HERMIDA, Qué Tan Lejos, Ecuador, 2006. Si svolge fra la costa e la sierra, fra il Pacifico e le Ande, due delle tre regioni geografiche che caratterizzano l’Ecudor, scrigno di ricchezze naturali. Uno sciopero di lavoratori manda all’aria un viaggio in autobus da Quito a Cuenca, costringendo due donne ad arrangiarsi in un viaggio fai da te. Lungo la strada incontrano, così, molti personaggi che compongono un quadro variegato e interessante del Paese, trasformando una veloce tratta in bus in un viaggio alla ricerca dell’Ecuador. CAMILO LAZURIAGA, Entre Marx y una Mujer Desnuda, Ecuador, 1995. Una finestra sulla vita dei giovani ecuadoriani di sinistra in un paese finora plagiato da un sistema feudale atavico e bloccato dai colpi di stato. È tratto dal romanzo di Jorge Enrique Adoum. SEBASTIAN CORDERO, Ratas, Ratones, Rateros, Ecuador, 1999. La storia di un diciottenne quiteño imbrogliato nei loschi affari di un cugino, molto più scaltro e senza scrupoli. Un ladruncolo che tenta di coinvolgere chiunque gli giri attorno. Il film è stato criticato da molti, perché darebbe un quadro estremo e distorto dei reali contrasti fra la costa, con la sua bella e reazionaria Guayaquil, e gli altopiani della sierra, con l’eccentrica capitale Quito, una contro l’altra a colpi di regionalismo all’italiana.

Belgio

TIM WEBB, Good beer guide to Belgium, Camra Books 1992 Con dettagli di 120 birrifici, 800 birre in commercio e qualsiasi festival, caffè e musei della birra nel Paese, è la guida più completa per scoprire il Belgio gustando la bevanda orgoglio nazionale. CLAUS HUGO, La sofferenza del Belgio, Feltrinelli, 1999 Nelle Fiandre del 1939, un ragazzino di dieci anni deve lasciare il collegio quando i nazisti invadono il Belgi. Scoprirà che la famiglia sostiene l’occupazione, fino a iscriversi anch’egli al Movimento giovanile hitleriano. Ma ben presto, esposto agli orrori della guerra e alle ipocrisie dei suoi parenti e vicini di casa, si distacca dal mondo nel quale vive, e comincia a osservarlo con un certo umorismo. SINOUÉ GILBERT, Il ragazzo di Bruges, Neri Pozza, 2004 Nel 1441 ad Anversa, Bruges e Firenze, tre giovani artisti sono misteriosamente assassinati. I cadaveri presentano mutilazioni simili, oltre a tracce di uno stesso veleno. Le vittime, inoltre, sono state tutti apprendisti del pittore Jan Van Eyck. La soluzione del mistero passa attraverso le vicende di un ragazzo di tredici anni, Jan, figlio adottivo di Van Eyck. Tra le brume delle Fiandre e il cielo luminoso della Toscana, si snoda un thriller carico di suspense e di avventura.

SITI INTERNET http://www.petitiononline.com/beornot/petition. html “Per una giusta amputazione del Belgio”: una petizione fasulla ispirata alla crisi politica degli ultimi mesi. Per sorridere, ma anche per ragionare su quanto fiamminghi e valloni abbiano in comune. http://www.lesoir.be Il principale quotidiano nazionale in lingua francese. http://www.frites.be Un sito belga semi-serio ma costantemente aggiornato, per conoscere meglio la cultura popolare nazionale e gli sfottò. In francese,olandese e inglese.

FILM LIBRI LARRY ZUCKERMAN, The Rape of Belgium: The Untold Story of World War I, NYU Press 2004. La storia dell’occupazione del Belgio neutrale da parte della Germania, durante la Prima guerra mondiale. Cinquanta mesi di terrore in cui il Paese, occupato anche dai nazisti 25 anni dopo, fu saccheggiato e molti dei suoi abitanti furono costretti ai lavori forzati in Germania e nella Francia settentrionale. FRANK MACLEAN, Belgium, Gallaher Press 2007 Un utile compendio per conoscere meglio storia, arte, cultura e politica del Paese.

JEAN-PIERRE DARDENNE, L’enfant, Belgio, 2004 Bruno e Sonia hanno appena avuto un figlio. Lui, 20 anni, vive di piccoli affari poco legali che combina con i suoi amici; lei ha 18 anni. Per Bruno la paternità sarà la prima occasione di affrontare la vita in un modo diverso. Palma d’oro a Cannes 2005. JACO VAN DORMAEL, L’ottavo giorno, Belgio, 1996 La storia dell’incontro di George, un ragazzo down fuggito dal suo istituto per riabbracciare la madre in realtà morta, ed Herry, un manager stressato e divorziato, troppo impegnato nel suo lavoro per occuparsi della propria famiglia e dei propri sentimenti. L’incontro cambierà le loro vite, ma ad un caro prezzo.


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