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mensile - anno 3 numero 2 - febbraio 2009

3 euro

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

Palestina, la terra stretta Reportage

Intervento

Mamma lasciami vivere La preghiera dell’assente Arthur Neslen, guerra per l’identità Avraham Burg, dal trauma alla fiducia Massimo Zucchetti, guerra sperimentale

Sri Lanka Usa Italia

Chi dissente muore Legge marziale contro la crisi Le brache del padrone di Frankie hi-nrg mc

Intervista

Il diciassettesimo fascicolo dell’atlante: Il mondo di Obama


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febbraio 2009 mensile - anno 3, numero 2

Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Christian Elia Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Nicola Sessa Stella Spinelli Naoki Tomasini

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Blue & Joy Francesca Borri Gabriele Del Grande Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Frankie hi-nrg mc Nicola Falcinella Giorgio Gabbi Paolo Lezziero Sergio Lotti Arthur Neslen Claudio Sabelli Fioretti Vauro Massimo Zucchetti

Progetto grafico Guido Scarabottolo Oliviero Fiori Segreteria di redazione Silvina Grippaldi Relazioni esterne Marco Formigoni

Hanno collaborato per le foto Mohamed Al-Zanon Amministrazione Alaa Bardaneh Annalisa Braga Alfredo D’Amato/Prospekt Luca Ferrari/Prospekt Redazione e amministrazione Wissam Nassar Via Meravigli 12 Hatem Oma 20123 Milano Haytham Othman Tel: (+39) 02 801534 Medical Relief Fax: (+39) 02 80581999 Alessandro Sala/Cesuralab peacereporter@peacereporter.net Ivo Saglietti/Prospekt Alessandro Ursic Stampa Graphicscalve Mamoun Wazwaz Loc. Ponte Formello - 24020 Vilminore di Scalve (Bg) Edito da Finito di stampare 30 gennaio 2009 Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Meravigli 12 - 20123 Milano Pubblicità Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07 SISIFO ITALIA SRL Vicolo don Soldà 8 Foto di copertina: 36061 Bassano del Grappa (VI) Palestinesi ispezionano Tel. 0424 505218 le macerie delle operazioni www.sisifoitalia.it militari israeliane a Gaza. info@sisifoitalia.it Wissam Nassar ©PeaceReporter

Distribuzione in libreria Joo Distribuzione - via F. Argelati 35, 20143 Milano - Tel 028375671

Guerra asimmetrica? No, semplicemente guerra. C’è chi bombarda e chi prende le bombe, c’è chi mette ordigni esplosivi e chi salta per aria. Chi agisce è un militare, con o senza divisa. Chi subisce è al novanta per cento dei casi un civile. Qui c’è una lista parziale dei bambini sotto i 15 anni morti a Gaza. Di fianco, l’elenco dei morti israeliani. Fuori dall’elenco ci sono i morti sopra i 15 anni. E poi feriti, centinaia, forse migliaia. Molti di loro saranno talmente devastati da rimpiangere di non essere morti anche loro, in questi giorni. Poi ci sono gli orfani, le famiglie distrutte. Non basterebbe un libro, per raccontarli tutti. La prossima volta i numeri potrebbero essere invertiti. Ma saranno comunque assurdi, incivili e soprattutto criminali. Anwar Salman Rushdi Abu ‘Eita, 6 anni Malak Salam ‘Abdul Hai Abu ‘Eita, 1 anno Mayar ‘Izziddin Abu al-’Eish, 15 anni Aaya ‘Izziddin Abu al-’Eish, 14 anni Nour Shihab Abu al-’Eish, 12 anni Ghaidaa’ ‘Ata Abu al-’Eish, 12 anni Mohammed Hamad Shihda al-Ashqar, 4 anni Bilal Hamad Shihda al-Ashqar, 5 anni ‘Ali Kamal al-Barrawi, 15 anni Islam al-Batran, 15 anni Iman al-Batran, 10 anni Ihsan al-Batran, 10 anni Bilal al-Batran, 7 anni ‘Izziddin al-Batran, 3 anni Ahmed Mohammed Islim, 14 anni Husam Mohammed Islim, 10 anni Zayed Matar, 10 anni Abed Matar, 12 anni Hamza Matar, 8 anni Sabrin ‘Ata Hassan al-Rmeilat, 15 anni Bara’a ‘Ata Hassan al-Rmeilat, 2 anni Arij ‘Ata Hassan al-Rmeilat, due mesi Amal ‘Eid Shteiwi, 14 anni ‘Abdul Rahman Ibrahim Jaballah, 12 anni Mahmoud Mohammed Jaballah, 13 anni Bassem Tal’at Jameel ‘Abdul Nabi, 11 anni Qassem Tal’at Jameel ‘Abdul Nabi, 4 anni Ahmed Mohammed Farahat, 13 anni Majed Nahidh Saleem, 15 anni Fadel Imad al-Najjar, 2 anni... ...seguono altri 250 nomi Usa a pagina 24

Babar Vaknin, 55 anni Hani Al-Mahdi, 27 anni Irit Sheetrit, 39 anni

Italia a pagina 26 Sri Lanka a pagina 22

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Migranti a pagina 28

Israele-Palestina a pagina 4, 8, 14, 16, 20 3


Il reportage Israele-Palestina

La preghiera dell’assente Di Christian Elia Dopo la preghiera del venerdì, nella tradizione islamica, può succedere che la guida inviti i fedeli a rivolgere una preghiera per un corpo sparito, un corpo mai più ritrovato. Breve e intensa, viene chiamata la preghiera dell’assente. l grande scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun ha titolato così uno dei suoi romanzi, citando questa preghiera particolare, che è insieme ricordo, cordoglio e speranza che, un giorno, quel corpo celato alla vista dei suoi cari possa ricomparire, magari ancora animato dalla vita. Pensare Gaza dalla Cisgiordania fa lo stesso effetto, come una lunga preghiera dell’assente, che ha accomunato per i ventidue giorni dell’operazione Piombo Fuso dell’esercito israeliano nella Striscia i palestinesi di Gerusalemme, Ramallah, Jenin, Nablus e delle altre città della Cisgiordania ai loro fratelli di Gaza. Non c’è un palestinese, in Cisgiordania, che non abbia parenti a Gaza e viceversa. Un cordoglio sordo, stanco, per uno sguardo al quale viene celata la realtà. Anche agli occhi dei giornalisti, degli attivisti, degli investigatori delle organizzazioni non governative. Dentro la Striscia solo i giornalisti che c’erano da prima, qualche cooperante internazionale e un milione e mezzo di palestinesi affamati e terrorizzati. Al mondo sono rimaste solo le immagini di al-Jazeera e il freddo bollettino di un’operazione tra le più violente della storia di questo conflitto, che ha compiuto sessanta anni, ma mantiene inalterato il suo carico di odio e speculazioni. E di morte. Il bollettino recita, alla fine dell’operazione Piombo Fuso, iniziata il 27 dicembre e finita il 17 gennaio scorsi, che sono morti 1.300 palestinesi e 13 israeliani. Secondo fonti di Hamas, sono 112 i miliziani del movimento islamico che hanno perso la vita, insieme a 180 poliziotti. Il resto delle vittime sono donne, vecchi e bambini. Per Israele le vittime civili sono tre, dieci i militari di Tsahal, l’esercito di Difesa, come lo chiamano loro. Secondo l’Ufficio statistico palestinese, sono 5mila le case distrutte e 20mila quelle danneggiate, situazione che ha generato una nuova ondata di sfollati interni. Sedici uffici del governo controllato da Hamas rasi al suolo, assieme a venti moschee. ‘’In questo momento è assurdo parlare di cifre’’, dice al telefono Aid, medico coordinatore delle attività del Palestinian Medical Relief nella Striscia di Gaza, una Ong palestinese che si occupa di assistenza sanitaria. ‘’Solo quando questo orrore sarà finito si potranno contare le vittime. Tante sono ancora sotto le macerie, altre sono nelle case, vegliate dai parenti che non sono potuti uscire neanche per seppellire i loro morti’’.

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utto questo, però, è negato allo sguardo della comunità internazionale. I giornalisti stranieri, al-Jazeera a parte, sono rimasti fuori. Sono rimasti ai bordi della Striscia di Gaza, vicino ai valichi. In particolare, come racconta la giornalista israeliana Amira Hass, sono stati tutti raccolti su una collina, dalla quale filmavano i ‘fuochi d’artificio’, come vengono chiamate le bombe al fosforo. Un’altura che i giornalisti hanno ribattezzato la ‘collina della vergogna’. Meglio allora andare in giro per la Cisgiordania, cercando di capire cosa succede nella società israeliana e in quella palestinese. Per cominciare bisogna seguire il filo rosso dell’assenza. Piazza al-Manara, il centro di Ramallah, capitale politica fantasma dello stato che non c’è. Ancora un assente, colui che tutti indicano, sostenitori di Hamas come quelli di Fatah, come l’unico vero leader rimasto ai palestinesi. Gli uffici della

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Campaign to Free Marwan Barghouti and All Prisoners si trovano in una palazzina cadente, dove i piani si ramificano in una specie di suq sviluppato in altezza. Uno striscione appeso a una balconata permette di individuare il posto giusto. Un affabile signore di mezza età, Said, portavoce di Marwan, parla un inglese perfetto. Aggiustandosi gli occhialini da intellettuale, riceve in una stanza dove campeggia una foto di Barghouti. All’uscita da un’udienza in tribunale, circondato da poliziotti israeliani, guarda un punto del cielo. Era il 2002, infuriava la Seconda Intifada, scatenata dalla frustrazione palestinese per la mancata applicazione degli accordi di Oslo. Dal 2000 a oggi, sono più di seimila i palestinesi che hanno perso la vita, più di mille gli israeliani. Barghouti era ritenuto l’architetto della rivolta. Oggi la moglie Fadwa, avvocato, e un movimento internazionale chiedono la sua scarcerazione, nonostante i cinque ergastoli ai quali l’ha condannato un tribunale israeliano come mandante di una serie di attentati. ‘’Marwan è sempre informato su tutto. Ha accesso ai giornali stranieri e la rete dei detenuti politici è un tam-tam senza sosta’’, spiega Said. Un gruppo di 11mila detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, dei quali Marwan è il leader indiscusso, non solo in cella. ‘’Lo sanno tutti che, in questo momento storico e dopo la morte di Yasser Arafat è l’unico vero uomo politico amato dai palestinesi, oltre i partiti e le divisioni’’, risponde Said, ‘’e dal carcere, attraverso i suoi avvocati, riesce sempre a far conoscere il suo punto di vista su quello che accade. Come ha fatto durante il conflitto tra Hamas e Fatah, riuscendo a mediare la tregua’’. na tregua andata in pezzi adesso, visto quello che accade e le divisioni tra i palestinesi. Può essere Barghouti l’uomo giusto per rinsaldare il fronte palestinese. Oppure è arrivato il momento per la ‘terza via’ tra Fatah e Hamas. ‘’Le divisioni, più di ogni altra cosa, preoccupano Marwan. Questo non è il momento di parlare né di nuovi partiti né di elezioni. Come ha comunicato Barghouti nell’ultimo appello dal carcere, bisogna lavorare sull’unione del popolo contro tutto quello che accade. Altrimenti siamo perduti. Lui non vuole sfruttare la situazione a suo vantaggio. Hamas ha sbagliato a reagire con la forza, ma è vero che non gli è stato permesso di governare. Barghouti è stato il primo a denunciare la corruzione all’interno di Fatah, pagata in chiave elettorale. C’è un gap tra la vecchia leadership del partito e la base, che Marwan può colmare. Ma vuole lavorare per cambiare Fatah dall’interno, non fondando un nuovo partito. Così come ha sempre detto che Hamas, piaccia o no, rappresenta il 30 percento della popolazione. Non si può negoziare senza di loro’’, spiega Said, sottolineando i concetti con una gestualità teatrale. Questo, però, non va bene alla comunità internazionale. Come in tanti non accettano che un leader che ha combattuto, come Barghouti, possa essere un partner moralmente accettabile. ‘’Barghouti ha sempre detto che entro i confini del

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Parenti di Yasser Al-Tmaizi, 35 anni, ucciso da un soldato israeliano durante un funerale. Foto di Mamoun Wazwaz.


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1967 i palestinesi hanno diritto a difendersi con tutti i mezzi, contro i militari israeliani occupanti e contro i coloni. Al di fuori di quei confini, non sono ammessi attentati, ancor più quelli che colpiscono i civili. Questo è diritto alla resistenza, non terrorismo. Quando Barghouti ha annunciato che si candidava alle presidenziali, tutto il mondo lo ha pregato di desistere – spiega Said – e lui lo ha fatto. Era una speranza per la pace. Abbiamo visto tutti cos’è successo: Abbas ha avuto un anno di tempo prima dell’arrivo di Hamas, eppure non è successo nulla. Anzi, l’occupazione si è fatta più dura. Una dimostrazione di maturità da parte di Marwan, come con gli Accordi di Oslo. Non era convinto, ma ha accettato di dare una possibilità all’accordo. E i risultati si sono visti. Allora è partita la Seconda Intifada. C’è un momento per negoziare e uno per combattere contro l’occupazione. Tutto ruota attorno all’occupazione. Quando finirà questa, tutto cambierà’’. A Gaza, però, l’occupazione è finita nel 2005 e non è cambiato nulla. Said risponde allargando le braccia, colpito dalla domanda: ‘’L’occupazione a Gaza non è mai finita! Dal 2005 è diventata una prigione a cielo aperto, dove la popolazione muore di fame. Chi si voleva colpire con l’embargo? Hamas? Si è finiti a massacrare innocenti, com’è accaduto con quest’ultima operazione’’. uindi, in attesa dell’unità, sono senza credibilità le ipotesi che vedono Barghouti lanciare un appello alla Terza Intifada dal carcere? ‘’Credo di sì, anche perché le sollevazioni popolari hanno bisogno di tanti elementi, che adesso mancano’’, risponde Said. ‘’Il popolo palestinese è indignato per quello che succede a Gaza, ma è anche a pezzi dopo la Seconda Intifada. Non è facile, perché oltre all’energia manca anche il coordinamento. Ben 48 deputati democraticamente eletti sono in carcere, mancano i leader per guidare una rivolta, tanto più quelli davvero carismatici’’. In un altro edificio di Ramallah c’è uno dei pochi deputati di Hamas ancora liberi. Ayman H. Daraghmeh, nella notte, è diventato portavoce del movimento islamico in Cisgiordania. La sua carriera politica ha poco di ortodosso, visto che l’organizzazione di Hamas prevede sostituzioni subitanee in caso di morte o arresto. Non che uno si aspetti un brutto ceffo, ma questo uomo ben stirato e lavato sembra più un ragioniere che un militante di Hamas. ‘’Questi sono i risultati della democrazia. In Palestina si sono tenute elezioni che l’ex presidente Usa Jimmy Carter ha definito una delle migliori tornate elettorali nel mondo, in quanto a trasparenza. Hamas ha dato prova di voler giungere alla svolta: nel 2006 siamo entrati in pieno nel processo democratico. Ma il risultato non è piaciuto a Olmert, alla Rice e ad altri. Allora cos’è questa democrazia? Nessuno ha imposto a Israele di rispettare le nostre elezioni. Israele viola apertamente il diritto internazionale e pretende di parlare di processo di pace’’. Vero anche che i vostri razzi su Israele non aiutano il dialogo. ‘’Abbiamo accettato una tregua, per permettere alla popolazione civile di Gaza di migliorare le sue condizioni di vita. L’accordo prevedeva, in cambio della sospensione degli attacchi contro Israele, l’apertura effettiva dei valichi di Gaza, perché potessero entrare generi di prima necessità per i civili. Il governo israeliano ha violato questo accordo, tenendo sigillata la Striscia di Gaza, portando la popolazione civile allo stremo’’. Ma quello che è successo cambia le cose per sempre o no? ‘’Chi può dire cosa accadrà’’, risponde il deputato di Hamas, ‘’la tregua ci permetterà di alleviare le condizioni dei civili, ma i rapporti con Fatah non sono buoni. Non è il momento di parlarne di fronte a questa tragedia, ma l’arresto della gente che in Cisgiordania voleva dimostrare per i fratelli di Gaza è un brutto segno. La realtà la conoscono tutti, anche se in tanti tentano di mistificarla. Hamas ha subito un colpo di Stato da parte di Fatah. L’amministrazione Bush e Israele sono responsabili di quello che è accaduto. Ci sono le prove del sostegno dato a Fatah per rovesciare il risultato delle urne a nostro danno. Vedremo’’, risponde, non troppo convinto, Daraghmeh. Ma vi sareste aspettati un’insurrezione generalizzata in Cisgiordania? ‘’La ribellione non si ottiene spingendo un bottone. Soprattutto se si combatte contro forze impari ci vuole coordinamento...ed è proprio quello che manca adesso’’. La società civile palestinese è spaccata, cosa che non accade in quella

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israeliana. Il consenso alla guerra raggiunge cifre da capogiro. Ancora un’altra assenza, quella del dissenso. Come quello di Yehuda Shaul, 25 anni, militare israeliano dei corpi speciali. Nel 2004, alla fine del servizio militare, ha deciso che la gente doveva sapere quello che i militari facevano ai civili palestinesi. Ha fondato Breaking the Silence, un’associazione che si occupa di raccogliere e diffondere le testimonianze dei militari che hanno prestato servizio nei Territori. ‘’Se qualcuno mi avesse detto, cinque anni fa, che adesso sarebbero stati seicento gli ex militari ad aderire all’associazione, gli avrei riso in faccia. Invece è successo, perché i cambiamenti si ottengono poco a poco’’, dice Yehuda, un ragazzone grande e grosso, un po’ buffo con i suoi sandali nella gelida serata di Gerusalemme. Ma non c’è da stare troppo allegri. ‘’Il novanta percento dei ragazzi in armi sono fieri di quello che fanno. Non c’è dubbio su questo’’, racconta disilluso con il suo inglese americano, infarcito di you know. ‘’Per me quello che accade a Gaza è uno di quei ‘segni di guerra’ contro cui Breaking the Silence ha deciso di costituirsi. Quando diventi abituato al male, il male non è più tale per nessuno. Chiami un’operazione guerra e tutti si concentrano sull’amor patrio e sulla nostra sicurezza. Ma nessuno dice che è quello che facciamo sempre. Siamo entrati a Gaza mille altre volte dopo i 2005. La prima volta vennero uccisi cinquanta civili e il comandante si è dovuto dimettere. Ora non succede nulla. La chiamano guerra e spostano il limite etico sempre un po’ più in là’’. Un limite etico che Michel Warschawski, intellettuale da sempre contrario alle logiche dell’occupazione, cerca di ridefinire. Il suo ufficio di Gerusalemme sembra un laboratorio, pieno di fumo di sigarette che sembrano non spegnersi mai e delle idee che vengono in testa a questo spettinato letterato, una vaga somiglianza con Albert Einstein. ‘’Di quale dannata autodifesa parla Israele? L’esercito israeliano affama, aggredisce e riduce allo stremo una popolazione di un milione e mezzo di persone. Solo piccoli settori della società israeliana reagiscono a tutto questo, chiamando le cose con il loro nome: Israele è l’aggressore e Israele è l’occupante’’, spiega Warschawski. Ma perché sono così poche le voci contro? ‘’La crisi dell’impegno tra gli intellettuali non riguarda certo solo Israele e Palestina. E’ un fenomeno mondiale, molto grave. Non ci sono in giro Jean-Paul Sartre e Bertrand Russell. Non ci sono veri intellettuali, ma abbondano i vestali ‘culturali’ dell’interesse nazionale. C’è un gran silenzio attorno a tutti noi. Sderot e le altre città vittime del lancio dei razzi vengono usati, in modo davvero cinico, dal governo israeliano in chiave elettorale. La vera classe dirigente, discendente degli ebrei dell’est europeo, vive tranquilla a Tel Aviv, ad Haifa e altrove. Ma si ricorda di Sderot, Ashkelon e le altre quando serve’’. shkelon, porto del Mediterraneo. L’aria limpida lacerata dal suono delle sirene: razzo in arrivo. Tutti fuggono verso i rifugi sotto casa o verso i centri di sostegno psicologico del governo. In città c’è anche qualcun altro. Sono i coloni che, nel 2005, vivevano a Gaza. Sgomberati dall’allora premier Sharon e parcheggiati qui, dopo essere stati incentivati ad andare a occupare la Striscia. Coloni come Tamir. “Vivevamo in una villetta bellissima, su due piani”, racconta, guardando il mare. Lo stesso che si vede da Gaza, anche se sembra lontano da qui. “L’ho distrutta io stesso, con un’ascia, assieme a mio figlio. Quando il governo, corrotto come Sharon, ci ha abbandonato, non volevo lasciare nulla agli arabi. I razzi? E cosa vuole che me ne importi dei razzi! Mi fanno ridere i cittadini di Sderot e di tutte le altre città sotto tiro: in quindici anni noi abbiamo subito quasi duemila attacchi!’’. Inutile ricordare a Tamir che quella non era la loro terra e che i palestinesi li combattevano per riprendersela. ‘’E’ scritto nei secoli, nelle Sacre Scritture che quelle terre sono Israele! Sharon, dopo averci usato per anni per vincere le elezioni, ci ha abbandonato, convinto di fare bella figura con voi’’, strilla Tamir, mentre rimpiange Gaza che brucia. Recitando, senza saperlo, la sua preghiera dell’assente.

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In alto: Palestinesi e attivisti stranieri durante un sit in contro la guerra a Gaza, nella chiesa della Natività a Betlemme. Foto di Haytham Othman. In basso: La sede del movimento per la liberazione di Marwan Barghouti. Foto di Christian Elia ©PeaceReporter


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Il reportage Israele-Palestina

Mamma, lasciami vivere Di Francesca Borri “Oggi che il ‘terrorismo’ è la violenza dei poveri e deboli, e ‘guerra al terrorismo’ quella dei ricchi e dei forti, noi siamo qui, vittime del terrorismo e della guerra al terrorismo, perché abbiamo titolo per dire che non esiste un modo civile oppure barbaro di uccidere innocenti, solo un modo criminale...” rrivarono qui dalla Russia, l’obiettivo uno stato binazionale, e per cui quando nel 1948 gli offrirono una bella casa espropriata a dei palestinesi, mio padre rifiutò - eravamo sionisti, ma di minoranza, clandestini delle narrazioni dominanti, solo ‘gente del Medio Oriente’, senza nessuna distinzione dagli arabi...” “Una famiglia normale, sopravvissuti alla nakbah, sono nato in mezzo al deserto, in una grotta come casa, come tanti, in una vita di povertà, senza alcuna prospettiva, onestamente non ricordo se ho mai avuto dei sogni, dei progetti, a un certo punto semplicemente mi sono ritrovato un combattente... Non sapevo niente della guerra, solo di questi soldati, catapultati addosso dal buio a sparare lacrimogeni, proiettili e manganelli e odiavano quella bandiera nera, verde rossa e bianca, sapevo solo questo - e allora di notte entrai nel cortile della scuola, e legai la mia bandiera all’albero più alto: e al mattino i soldati la tolsero, e io la legai di nuovo, e di nuovo i soldati la tolsero e di nuovo la legai, fino a quando non spianarono via ogni albero...” “Sapevamo della loro esistenza, certo, ma per quanto fossimo di Gerusalemme, e tutti di sinistra, non avevamo contatti, la prima volta che ho incontrato dei palestinesi studiavo letteratura, e già vivevo a Parigi...” “Poi un giorno trovammo delle armi, avevo sedici anni, abbandonate, granate e una pistola, e pensammo che finalmente Israele sarebbe finito, avevamo delle armi adesso, un proiettile per ogni israeliano e tutto sarebbe finito... Ma le granate non ferirono nessuno, e il proiettile mancò la jeep, e ci risvegliammo tutti in carcere, io per sette anni, e anche se neppure ho mai sparato, perché zoppico, e quel giorno sarei stato solo di intralcio - e però è stato così che per la prima volta ho incontrato un israeliano, in carcere” “Poi fu nominato comandante di Gaza, e fu allora che decise di studiare l’arabo, perché capì di avere potere di vita e di morte su decine di migliaia di persone di cui non sapeva assolutamente nulla... In seguito organizzò i primi incontri illegali con Arafat, e quando ero giovane questo è quello che ricordo, vivevamo nella paura, minacciati perché traditori - ma mio padre rimase un sionista fino all’ultimo, voleva solo realizzare i princìpi della Dichiarazione di Indipendenza, l’eguaglianza, la libertà per tutti, il suo arabo non era una scelta politica, voleva solo chiacchierare con i suoi vicini...”. “Fino a quando una sera non proiettarono Schindler’s List, e io non sapevo dell’Olocausto... E vedevo tutti quegli ebrei morire, umiliati, e accatastati e nudi, e solo perché ebrei e vedevo tutte quelle persone morire, e tutti quei palestinesi, umiliati, e accatastati e nudi e per nessuna colpa che fosse loro ma come poteva, un popolo che aveva conosciuto quella sofferenza, e l’ingiustizia il razzismo, la deportazione, come poteva adesso fare ad altri la stessa cosa?”. “Oslo è stata una grande speranza ma è svanito tutto, ovunque è la stessa area, la stessa prigione, spediscono qui migliaia di giovani convinti di essere eroi, sono solo assassini che minano la sicurezza di Israele...”. “Ma chi mai può rovesciare Israele in mare, una potenza nucleare? La verità è che questa guerra si combatte ora dopo ora ai checkpoint, non è una guerra di grandi scontri, ma di ragazzini il cui compito è solo stare lì, aspettare che la giornata goccioli via... E invece arriva il momento che ti accorgi di cosa

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è densa quella noia: impregnata di centinaia di migliaia di persone affamate, disperate, cancellate - disposte a esplodere contro tutto questo... E non mi si inganni, ancora, che è per la mia sicurezza, perché le barriere esistono da molto prima degli attentati suicidi: l’obiettivo è solo stremare, e costringere a emigrare è solo apartheid...”. “Ma è una normalità che è solo un’illusione, sono fisicamente liberi, mentalmente occupati, è un paese di sfiducia reciproca, paura, sospetto, vivono blindati. Solo un nuovo ghetto di ipocondrie, non fabbricano che armi e per ogni mitragliatrice altre emarginazioni e periferie, e più emigrati che immigrati...”. “E noi poi, ma come avremmo reagito se fossimo stati sorteggiati dall’altra parte del Muro? Perché sono certa che avremmo organizzato la resistenza, combattuto per la libertà - e ne sono certa perché è anche la storia di Israele, la storia di mio padre”. “E quando mi ha detto che sarebbe rimasta da un’amica a giocare, le ho detto non se ne parla neppure, perché il giorno dopo aveva un esame - se ancora potessi dirle qualcosa, direi solo Vai... Vai, gioca - vivi... E so quello che sostiene la polizia, ma che importa se i ragazzi tiravano o non tiravano pietre? Se è stata una granata o un proiettile, e se il soldato voleva o non voleva sparare, se è stato omicidio doloso o colposo - l’unica domanda sensata è perché mai deve esserci la polizia in una scuola... Cosa ci fa una frontiera in una scuola? un muro, tra le aule e il cortile...”. “Perché il dramma è quando tutto questo non è l’esito tragico di un errore, ma della corretta applicazione delle procedure, della banalità del male, diciottenni a cui si affida una mitragliatrice e si insegna che i nostri bambini sono il loro peggiore nemico, l’incubo demografico di Israele, e loro sanno che qualsiasi cosa accada, non ci sarà nessun processo, e nessun carcere...”. “Perché Abir aveva nove anni, e era armata solo di un righello, e hanno detto che avrebbe tirato una granata, Abir, che le sarebbe esplosa tra le mani, ma le sue mani erano intatte, e aveva invece solo questo foro alla nuca, perché è stata colpita alla schiena, che autodifesa è? Un soldato che spara da un blindato alla schiena di una bambina di nove anni? Che stato di necessità è, che pericolo è, per la quinta potenza militare al mondo, una bambina con un righello?” “E quando allora quella mattina uscì di casa, io non volevo, perché erano mesi di attentati a Gerusalemme, ma poi lei disse Mamma, lasciami vivere” i dice che l’occupazione ci corrompe, ma l’occupazione prima che corrompere noi devasta gli altri, io non potrò mai essere sullo stesso piano di una madre che oltre ad avere perso una figlia, sa che non avrà mai giustizia, io non ho che ammirazione per queste donne che in condizioni terribili - causate dal mio esercito, finanziato dalle mie tasse hanno il coraggio di vivere comunque, amare, creare famiglie e futuro in case

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In alto: Donna palestinese presso le macerie di una moschea a Rafahm nel sud della Striscia. Foto di Hatem Omarn. In basso: Il corpo di un palestinese e di un neonato, all’obitorio di Gaza. Foto di Mohamed Al-Zanon.


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bombardate all’improvviso, mentre accompagnano i bambini a scuola attraverso chilometri di macerie, tra i fucili dei soldati e gli sputi dei coloni... Ma è la sola cosa che abbiamo in comune, qui, il dolore, perché se l’assassino di Smadar non fosse esploso, sarebbe stato immediatamente ucciso, e la sua casa demolita sul resto della sua famiglia - e quando sono con Salwa, e le dico che siamo vittime della stessa occupazione, so che è solo parte della verità...”. “Dopo l’undici settembre tutto è diventato più difficile, perché il nostro nemico non è il terrorismo, ma la parola terrorismo, questa minaccia, questo ricatto indefinito... Ma in quanti paesi è undici settembre ogni giorno? Hamas offre prima di tutto moltissimi servizi sociali - e comunque, qualunque sia la mia opinione, non dimentico che tutto questo arriva dall’occupazione...”. “Io non amo i movimenti religiosi, ma queste sono scelte dei palestinesi, e poi cosa posso insegnare?, dite che vivo in una democrazia, e poi dite l’Iran ma qui abbiamo la Torah invece che una costituzione... Io combatto le ingiustizie, la religione è una questione personale - e invece i ministri israeliani sono dei criminali secondo qualsiasi ordinamento giuridico”. io padre fu uno dei generali del 1967, ma capì presto che quella vittoria sarebbe degenerata in cancro... Non siamo mai stati pacifisti, a volte combattere è necessario: però poi bisogna sapersi fermare, ottenere la pace, altrimenti è tutto inutile...”. “E allora abbiamo fissato un incontro, quattro palestinesi, sette israeliani: temevamo fosse un’imboscata, ma poi ci siamo guardati... E non è stato facile, davanti a uno che ogni giorno ti umilia al checkpoint, e ti arresta ti spara contro - e eppure ti appare così simile, improvviso, così fragile e incerto... Ma non è in discussione la loro fedeltà a Israele, siamo stati tutti combattenti, qui, e molti ancora sono riservisti, solo si rifiutano di servire nei Territori come non è in discussione la nostra fedeltà alla Palestina, la resistenza armata è un diritto... Ma semplicemente non funziona”. “Ma non siamo traditori, al contrario, il vero patriottismo oggi è criticare Israele, perché il vero antisemitismo è quello di chi si ostina in una guerra che non conquista che odio nei nostri confronti...”. “E non siamo dei codardi, perché quanto sarebbe stato più facile, recuperare un fucile... Ma adesso ho parlato con i miei carcerieri, adesso conosco la loro sofferenza... Qui abbiamo tutti sparato, torturato, ucciso - ma è il solo modo per fermare quest’onda che ci travolge, il solo coraggio, fermare noi stessi, cercare non la vertigine della vendetta, ma il punto fermo della giustizia, perché è l’odio a costringerci prigionieri più di ogni Muro...”. “E invece ai progetti di incontro tra palestinesi e israeliani non è stata destinata che la metà del costo di un singolo carro armato - oggi che la cosa più difficile non è superare le differenze di idee, ma il Muro, perché noi non possiamo entrare in Israele, loro non possono entrare nei Territori...”. “La verità è che siamo soli, e invece come in Sudafrica, l’unica strada è una tenaglia internazionale - mentre voi europei vi limitate pigri a rispolverare ogni tanto l’idea del boicottaggio: ma boicottare chi? Il boicottaggio condanna tutti in modo vago e indistinto - cominciate piuttosto a boicottare i criminali di guerra, arrestateli alle frontiere, usate questa cosa chiamata giurisdizione universale, non colpite a caso, inchiodate le responsabilità al loro nome e cognome”. “Oggi che il ‘terrorismo’ è la violenza dei poveri e deboli, e ‘guerra al terrorismo’ quella dei ricchi e dei forti, noi siamo qui, vittime del terrorismo e della guerra al terrorismo, perché abbiamo titolo per dire che non esiste un modo civile oppure barbaro di uccidere innocenti, solo un modo criminale... Siamo qui perché non è vero che non esiste un partner per la pace, qui per dimostrare che esiste qualcuno con cui parlare - perché l’obiettivo non è perdonare, dimenticare, ma solo cominciare a stare insieme: se continuiamo a rovistare nelle nostre vite, a scavare domande, non impileremo che ragioni per scontrarci ancora, perché tutti abbiamo sangue sulle mani, e dolore alle spalle...”. “Nessuno contesta il diritto di entrambi a questa stessa terra, ma dobbiamo cominciare a raccontare la storia di qui, imparare a localizzare - perché ormai questa terra appartiene più agli ebrei e arabi di ogni luogo e tempo che a noi che ci abitiamo, e che come tutti voi abbiamo molteplici identità, e sovrapposte, non siamo interamente rappresentati da un’etichetta etnica, o

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nazionale o religiosa, un’etichetta sola...”. “La parola popolo ci viene sguainata contro come un destino... I giornalisti mi chiedono sempre come posso accettare condoglianze ‘dall’altra parte’ - ma quando Ehud Olmert è venuto a trovarci io non gli ho stretto la mano, e sono andata via, perché non accetto condoglianze dall’altra parte, e questa ‘altra parte’ per me sono loro, io distinguo solo, qui, tra criminali e pacifisti... Ma perché mai il mio ‘noi’ dovrebbe riferirsi agli ebrei o agli israeliani? La fraternità non si coltiva su astrazioni come la nazione, la razza, ma vite in comune in un luogo comune”. “Ma i libri di testo definiscono i palestinesi ‘un problema da risolvere’ - sono le scuole ad addestrare i soldati, non le caserme, perché sono le scuole a insegnare a non dubitare mai della ‘verità’, a insegnare una visione del mondo come necessità, come causalità in cui ognuno disciplinato deve adempiere il proprio ruolo... A insegnare che Israele non si trova negli atlanti, ma nella Bibbia: e ogni cosa ha un settore ebraico e un settore non ebraico, qui, un’agricoltura ebraica e un’agricoltura non ebraica, le città ebraiche e quelle non ebraiche - ma chi sono questi ‘non-ebrei’, questi ‘altri’?, non si sa... Sono riassunti cumulativamente come arabi - non vivono mai in città, giovani che navigano internet, studiano per un dottorato: sono le mille e una notte, le babbucce ai piedi e un cammello al seguito, il contadino nero di terra dietro l’aratro trascinato dai buoi... E quando sono i cittadini dei Territori, sono il terrorista mascherato... Ed è così, con questo razzismo che non è educazione ma infezione, che uccidere non è più uccidere, ma evolve in altri nomi altre legittimazioni, operazione, missione contromisura...”. “E li inganniamo che sono magnifici in uniforme, li chiamiamo martiri, il ritratto con la mitragliatrice. Bisogna cominciare a dire che nessuno è bello vestito di brutalità”. ppure l’ebraico ha questo uso bellissimo, la stessa parola per reality e invention: significa che la realtà è quello che inventiamo, e che dunque può essere cambiata...” “Mi chiedono sempre come so essere così forte, ma la mia non è che vulnerabilità, ed è la mia unica ricchezza, l’impossibilità di guarire, perché le ferite non sono al fondo che un’apertura, una disponibilità al mondo all’altro, una possibilità che ci viene ancora proposta...”. “Perché so solo che dopo quarant’anni, Israele non è sicuro e la Palestina non è libera... Ma c’è un giardino adesso, nel punto in cui Abir è caduta - perché quella non è l’unica relazione possibile tra israeliani e palestinesi, perché qualcosa di diverso può crescere al sole lì dove è stato versato il nostro sangue”.

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Bassam Aramin, è tra i fondatori di Combatants for Peace, associazione di ex combattenti israeliani e palestinesi. Sua figlia Abir aveva 9 anni il 16 gennaio 2007, quando è stata uccisa da un proiettile sparato a quattro metri di distanza da una pattuglia di frontiera, all’uscita da scuola. Nonostante un foro alla nuca, secondo l’esercito israeliano è stata colpita da una pietra tirata da un compagno di classe. Le indagini - avviate su pressione internazionale - sono state archiviate per insufficienza di prove. Nessuno dei molti testimoni oculari è mai stato ascoltato. Nurit Peled-Elhanan, figlia del generale Mattiyahu, membro della Palmach e tra i fondatori di Israele, insegna pedagogia all’università di Gerusalemme. Sua figlia Smadar aveva 13 anni il 4 settembre 1997, quando un palestinese si è fatto esplodere, in rappresaglia a dieci civili uccisi a Gaza. Nei giorni precedenti, un’imboscata aveva falciato via dieci israeliani. Nei giorni precedenti, Arafat era stato bombardato a Ramallah negli uffici dell’Autorità Palestinese. Nei giorni precedenti, attentati suicidi per ventisei vittime israeliane avevano seguito l’assassinio di un leader di Hamas. Nei giorni precedenti...

In alto: Un blocco stradale israeliano in Cisgiordania, operatori del Medical Relief aiutano le persone ad attraversarlo. Foto di Medical Relief. In basso: Un soccorritore del Medical Relief trasporta un ferito su un’ambulanza, davanti a una Jeep dell’esercito israeliano. Foto di Alaa Bardaneh.


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SMEMORANDA 12 MESI 2009 È NO EFFETTO SERRA >

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INEDITI DI GRANDI SCRITTORI . . .. . .. .. ........ ........ .. ... ... .. .. .. ... ... .. ........ ... ... .. ..... ... .. ..... ........ .. ........ .. .. .. .. .. .. ... .. ... .. .. .. ... .. ... .. ......... .. .. .. ....... .... ....... .. .. .. .. ........ ..... .. .. .... ... ..TANTE .. .. .. .. . . . .. . . . .. .. .. .. . . . .. .. . . . .. ITALIANI E PAGINE .. . . .. . . . .. .. .. .. .. . . .. .. .. .. .. . .. .. . .. .. . . . . .. .. .. . . . .. .. .. . .. . . . .. .. .. . . . .. .. .. . .. ... .. .. .. .. ... .. ... ... .. ....... ......... .. .. .. ... .... ...... .. ........ .. ...... . ........ . .......... .. .. .. ........ .... .. .. .. . .. .. .. .. . .. . .. .. . .. .. . .. .. .. . .. .. . .. .. . .. .. .. .. . .. .. .. .. .. . .. .. . .. .. . .. . . . .. .. .. . . . .. .. . .. . .. . . . .. .. ... .. ....... .. .. ... . .... ... .. .. .. .. ...... .. .. .. ... .. .. .. ... .. .. .. .. .. ...... .. . . . .RIEMPIRE .. .. ...... .. .. . . . . . . . . ... .. .. ... . . . . . . . . . . .DA .... .. .. .. ...... .. .. .. ...... .. .. .. ....... .. .. ... .. ....... .. .. .. .. .. ....... .. .. .. .. ... .. .. .. .. .. .. .. .. ....... .. .. .. .. ...... .. .. .. .. .. .. .. .. .. ...... .. .. ....... ............................................................................................ .. .. .. . .. .. . . .. .. .. .. . .. .. . . .. .. .. .. .. . .. .. . .... . .. .. . . .. .. .. . . .. .. . . .. .. .. . . .. .. .. . . .. .. .. . . . .. .. .. . . . .. .. .. .. . . . .. .. .. . . .. . .. . .. .. . . . . .. .... ... .. .. ....... .... ... .. .. .. .. .. .. ... .. ... ... ... .. .. ... .... . . ........ . ........ . . ........ . ........ . . ........ . ........ . .......... . .......... .. .. .. .... .. ....... .. . . .. .. . .. . .. .. .. . . .. .. .. . .. .. . .. .. .. .. . .. .. . . .. .. . .. .. . . .. .. . .. .. . . .. .. . . . .. .. . . . .. .. . . . .. .. . .. .. . . . . . . . .. .. .. . . .. ... .. . . . .... ... .. .. .. .. UN ANNO CON I .. RACCONTI .. ... ... .. .. ...... .. .. .. .. ...... .. .. .. ........ ...... . ........ . ........ . . ........ . ........ . . ........ . .......PUOI ...... .. .. .. ...... ..... .. .. .. ...... ... .. .. ...... .. .. .. ...... ..>.. ...... .. .. .. ...... ..... .. .. ...... ... .. .. .. .. .... ..............SCEGLIERE .. .. .. ..... 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PIERO COLAPRICO > SANDRONE DAZIERI . . .. ... . . . . . . . .. . . .. .. . . . . . . . . .. .. . . .. . . . . . . . . . .. .. ... .. ... .. .. .... ... ........ .. ... .. ... ...... .. ...... ....... ... .. ...... ...... ...... ...... .. ...... ...... ........ ... ...... ...... ...... ...... .. ...... .. ...... ...... .. ...... ...... ...... ........ .................COLORI. .. ...... .. ...... ...... ...... ...... ...... ...... ................................................................................BELLISSIMI ...... .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. . .. .. .. .. .. .. . . .. .. .. .. . .. .. . . . . .. .. .. . . . .. . .. CHIARA GAMBERALE > GINO & MICHELE . . . . . . .. .. . . . . . . . .. . .. .. . . . . . . . .. .. .. . .. . . . . . . . . .. . . .. . . .. . . . . . . . . .. .. .. . . .. . . . . . . . . .. .. . . .. . . .. . . . . . . . . .. .. .. . . .. . . . . . . . . .. .. . . .. . . .. . . . . . . . . .. . . .. .. .. .... ......... ... ... .. ... .. .. .. .. . . . .... . . . ...... . . . .... . . . ...... . . . .... . . . ...... . . ...... . . . ...... .... ... .. .. ... .. ... .. .. ... .. .. ..... ....... ........ ....... ......... ....... ..... ...... .... .. .MURGIA ...>.....MICHELA .... ...... ........ .. ..... ... ...... . .. . . . . . . . . .. . . . . . .. . . ...... . . .. . .. . . .... .. .. . .. .. .. . . .. .. .. . . .. .. .. .. RAUL MONTANARI . . . . . . . .. .. . . . . . . . . . .. .. . . .. .. . . . . . . . .. . . .. .. . . .. . . . . . . . . .. . . .. .. .. . . . . . . . .. . . ... ... .. ... . .. .. .. .... ......... .. .. ....... . ... .. . ... ...... ....... ... ...... ...... ... ... ....... ........ ...... .. ...... .... ..... ...... ...... . .......... .......... . .......... .......... . .......... .......... ............ ............ .. ...... ..... ...... .. ..... .. .. . ... ...... ...... . ... ..... ...... .. ... .. ... .. .... .. ..... ...... ..... ... .... .. .. .... ... ..... ..... .. ALDO NOVE >... TIZIANO SCARPA ..... .. .......... ............. ....... .. ..... .. ....... ....... .... .. .. ..... ..... .. .......... .. ... .. ... ..... ..... ............ ...... .. .. ... ... ... ..... ........ . ........ . .......... . ........ . .......... . ........ . ........ . .......... . ................. .... ........ .. ..... ... ... . . . .. . . . . . .. .. . .. . . . .. .. . .. . . . .. . .. . .. . .. . . . .. . .. . . .. .. . . .. ... . . . .. .. .. . . . .. . . . .. .. . . . . . . . .. . . . . . . . .. .. . . . . . . . .. .. .. . . . . . . .. .. .. .. . . . . . . .. ... .. .... .. .. ... .. ... .. ... .. .. .. ..... .... ... ...... ...... .. ... .. .. ..... .. ...... ...... ...... .... . . ........ . ...... .. .. ... . ... ...... .... . . ........ . ........ . . ........ . ........ . . ........ . ....WWW.SMEMORANDA.IT .... .... ...... .. .... .. .... ...... ...... .... ...... .... .. . . . . . . .. . . . . . . .. . .. . . . . . . . . .. .. . . . . . .. . . . . .. . .. . .. .. . .. .. .. . .. .. . .. .. . .. .. .. .. .. . . . . . . . . .. . . . . . . .. .. . . . . . . . . . . .. .. . . .. . . . . . . . . . . .. .. . . .. .. . . .. ... .. ... ... .... .... .. .... ... .. ... ........ .. ... ....... .. .... ........ . . ...... . . . ...... . . ...... . . . ...... . . ...... . . ........ . . ...... . . .... ...... .. .... ... ... .. ....... ... ...... ...... .... ... .. .. .. ... .. .... ...... .... ...... ....... ..... .... .... ...... .... .. ...... .. . . . . . ...... .. . . . . . .. . . . . .. . .. .. . . . . .. .. . .. .. . .. . .. .. .. .. .. .. . .. .. . . . . . . . . .. .. . . . . . . . . . . . . .. .. . . . . . . . . . . .. .. . . . . . . . . . . .. . . .. .. .. ... .. ... .. .. .... ........... ... .. ... .. ...... ...... ...... .. ...... ...... .. ...... ...... ...... ...... .. ...... .. .. ...... .. ...... ...... .. ...... ...... ...... ...... .. ...... ...... ...... ...... ...... ...... .. ...... ...... ...... .... ......................................................................................................... .. ...... ...... ...... ...... .. .. .. .. .. .. .. .. .. ...... .. .. .. .. ...... .. ...... ...... .. ...... .. .. .. ...... ...... .. .. .. ...... ...... ...... .... ..... ...... .... .. .. ...... .... ...... ...... .. . . . .... . . . ...... . . . .... . . . ...... . . . .... . . . .... . . . ...... . . ... .... ..... .. .. .. .... ...... .... . . . .. .. . . .. .. . .. . . . . .. .. .. . . . . . . .. . . .. .. . . ...... . . . .. .. . . . . . .. . .. .. . . . .. .. . .. . . .. .. . .. .. .. . .. .. .. .. .. .. .. .. .. . . . .. . . .. .. . .. .. . . . . . . .. .. . . . . . . . .. . .. . .. . . . . . .. .. .. . . . . . . . . .. .... ... .. .. .. .. .... ... .. ... .. . . . .... . . . ...... . . . .... . . . ...... . . . .... . . . ...... . . ...... . . . ....... .. .. .. ... .. .. ... ... .. .. .. ........ ... ... ..... ...... .. ...... .... ... ...... .......... ...... .... ...... .... .... .. ...... .. .. .. ...... . . . . .. . . . . . . .. . .. . . . . . .. . . . . . . ...... . . .. . .. . . . . .. .. .... . .. .. . .. .. .. . . .. .. .. . .. .. . .. . . .. .. . . . . . . . . . .. .. . .. . . . . . . . . . .. .. . . .. .. . .. . . . . . . . . .. .. .. . . . . . . . . . . . . .. .. . .. . . . ... .. ... .. ... ... . .. . .. . . ... . .. ...... . ... ... .... ....... ......... ....... ... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ... ...... .... ........ ...... ...... ..... ... ... . ... ..... . ... . . . ... ........ ...... ...... ...... ........ ... ........ .... ........ ....... ... ......... .. ... .. .....12 ...... .. .. ... ..... .. .. ... ........ ....... .......... ........ .... .. ...... ...... ... ...... ..... ............................................................................................................................................................................... .... .... ....... .... . . . .. . . . . .. . . . . .. .. . . . ... . .. .. ........ .. . . ... .. . . . ...... . .. ....... . . . . . .. . . . . . . . ...... . . . . . . . . . . ....... . ... ... . . . . . . . . . . . . . . . .


I cinque sensi della Palestina

Udito Non sei stato in Palestina se non hai preso uno shufat, un taxi collettivo. Nelle città e nei punti di scambio, ci sono centinaia di pulmini, con gli autisti assiepati attorno ai venditori di tè e caffè, mentre chiacchierano e fumano mille sigarette. Non ci sono tabelloni, non ci sono info point. Le destinazioni vengono urlate a squarciagola e bisogna tendere le orecchie. Perché annunceranno lo shufat per al-Quds, non per Gerusalemme; e per al-Khalifa, non per Hebron. Almeno sono liberi di chiamare le loro città come gli pare. Il suono delle sirene di Sderot, Ashkelon, Ashdod, Beer Sheva e di tutte le città nello spazio di quaranta chilometri dalla Striscia di Gaza. Sono le sirene che squarciano l’armonia mediterranea delle città sul mare o la quiete delle città del deserto del Negev. Un rumore brutto, innaturale. Che scatena ansie e impone fughe verso rifugi sicuri.

Vista I televisori di ogni casa, di ogni ufficio, di ogni negozio sintonizzati su al-Jazeera, dalla mattina alla sera. Occhi rapiti, a volte distratti, ma calamitati inesorabilmente verso quelle strisce verdi nella notte. Sembrano come fuochi d’artificio, ma non celebrano nessuna festività, né islamica né ebraica. Sono il simbolo

delle armi al fosforo, usate contro i civili inermi nella Striscia di Gaza. La guerra per immagini. Giornali arabi e giornali israeliani, al di là della lingua utilizzata, sarebbero riconoscibili lontano un miglio. Dalle foto in apertura. Bimbi e mamme terrorizzate nelle città sotto il tiro dei razzi dalla Striscia e bimbi massacrati a Gaza. Verità contrapposte? Infanzie negate? Strumentalizzazioni? Tutto può essere, nel contesto di un’amarezza profonda.

Gusto Correndo il rischio di precipitare nell’ovvio, non si può non citare il tè al gusto di menta. Bollente e allo stesso tempo dissetante. Tra i tanti sapori che caratterizzano questa parte di mondo, un discorso a parte merita l’hummus, una salsa a base di pasta di ceci e pasta di semi di sesamo, aromatizzata con olio di oliva, aglio, limone e paprika, semi di cumino (in arabo kamun) in polvere e prezzemolo finemente tritato. Un’autentica delizia, tipica della cucina palestinese ma ormai di uso comune anche in quella israeliana.

Olfatto Il profumo del mare, che i bambini palestinesi della Cisgiordania non possono sentire, perché

divisi dai loro fratelli di Gaza. Il profumo dell’olio è intenso e ha memoria. Memoria di Mediterraneo e di storia, di luoghi benedetti per qualcuno e contesi per altri. L’ulivo, in Palestina, è un simbolo che va oltre il suo aspetto produttivo. È identità, è storia. Ogni tronco, in ognuna delle sue pieghe, racconta una storia. Un profumo inebriante, che stimola la riflessione.

Tatto Le ceramiche, quando le sfiori, danno un brivido. Freddo, intenso. Ma le dita scorrono veloci sui rilievi dei decori, sui motivi colorati che raccontano, come in una scrittura Braille dell’immaginario, l’unica forma riuscita di sincretismo in Terra Santa. La stessa tradizione della lavorazione della ceramica, che unisce religioni e tradizioni. I prodotti dell’artigianato beduino sono particolari, figli dell’abilità tessile delle donne originarie delle tribù nomadi. Lana delle pecore delle greggi che, per secoli, hanno rappresentato l’unica forma di sostentamento dei nomadi. La guerra e la nascita dello Stato d’Israele ha significato la fine di uno stile di vita. I beduini sono diventati, loro malgrado, stanziali. Alcuni in Israele, altri nei Territori Occupati palestinesi, sballottati dal conflitto e dalla legge che li protegge. Una storia stravolta, un’identità nomade negata. Le borse, le sacche e tutto il resto, con la loro trama fitta, sono rimaste le ultime testimonianze di un grande passato. 13


L’intervista Israele-Palestina

Guerra per l’identità Di Naoki Tomasini

Arthur Neslen, giornalista, è stato per anni corrispondente della Bbc. Poi è passato ad Al-Jazeera, ed è il primo ebreo a lavorare per la tv araba. E’ autore di Occupied Minds, un testo fondamentale per comprendere il conflitto arabo-israeliano. Israele aveva svariati motivi politici e strategici per fare quella guerra. In un quadro più ampio, però, è stata solo l’ultimo capitolo dell’offensiva lanciata, fin dal 1948, contro ogni resistenza palestinese. È importante è capire che la tempistica della guerra è stata determinata prima di tutto dall’avvicinarsi delle elezioni in Israele. In passato, l’uccisione di militanti palestinesi è stata spesso usata dai politici laburisti come un mezzo per guadagnare voti, nonostante si sia spesso ritorta contro di loro. Ad esempio, nel periodo elettorale del ‘96, il primo ministro Shimon Peres ordinò l’omicidio dell’ingegnere che fabbricava le bombe per Hamas, Yahya Ayyash, e si imbarcò in un’avventura militare in Libano che culminò col massacro di 106 civili in un complesso delle Nazioni Unite a Qana. Il risultato dell’invasione libanese fu militarmente inconcludente per Israele, mentre Hamas rispose con un’ondata di attentati suicidi che aiutarono il canditato del Likud, Benjamin Netanyahu, a tornare al potere. Questa volta, inoltre, c’era da aggiungere il fattore Obama: i leader di Israele non potevano essere sicuri che, dopo il 20 gennaio, avrebbero avuto una tale libertà di azione contro Hamas, anzi, molti consiglieri di Obama erano favorevoli ad aprire un dialogo col gruppo islamico. Dunque bruciare in anticipo le possibilità del negoziato deve essere stato molto invitante per il governo israeliano.

considerata un problema al di sopra della politica. L’identità degli ebrei israeliani è strutturata attorno all’idea di sicurezza e l’esercito ne è il garante. È l’ultima linea di difesa contro i gruppi arabi, le ingiustizie e le paure su cui il paese è stato fondato, come la Shoah. Questa è una delle ragioni per cui la morte di soldati ebrei è vissuta dagli israeliani in modo più traumatico che quella dei civili. La tendenza di Israele a espandere i propri confini, però, è politica prima che psicologica. Fin dai tempi di Ben Gurion, il modus operandi israeliano è stato di prendere ciò che si può, tenerlo stretto, aspettare fino a che la situazione cambia e vedere che cos’altro si può prendere. Questa volta, però, sembra che la pazienza del mondo per questo genere di comportamenti si stia esaurendo. L’aggressione di Israele a Gaza riaccenderà la resistenza palestinese, che i politici e i media israeliani dipingono come terrore, antisemitismo e ferocia primitiva. Questo a sua volta nutrirà un istintivo senso di minaccia, persecuzione e ipocrisia tra la maggior parte della popolazione. Una paura esistenziale che causa anche la perdita di sensibilità di fronte alla morte di nemici arabi. É un circolo vizioso che non può essere interrotto solo dall’interno di Israele. Coloro che, in occidente, cercano di sedare le paure israeliane invece di affrontarle ottengono solo di incoraggiare questo sistema.

Israele punta forse a sigillare la Striscia e a consegnare Gaza alla responsabilità egiziana? Da lungo tempo Israele ha cercato di lavarsi le mani di ogni responsabilità umanitaria riguardo le vite degli abitanti di Gaza, dicendo che l’occupazione è finita e, allo stesso tempo, cercando di rafforzare il controllo su tutti gli aspetti della vita di chi vive nella Striscia. Le ultime notizie, che indicano l’intenzione di Israele di controllare i lavori di ricostruzione nella striscia di Gaza, sembrano confermare questa visione. Molti personaggi nell’establishment politico-militare israeliano non chiederebbero di meglio che consegnare Gaza all’Egitto e la Cisgiordania alla Giordania. Tuttavia, inglobare Gaza sarebbe una mossa esplosiva per l’Egitto. Il regime di Hosni Mubarak è instabile e nondemocratico, e la Fratellanza mussulmana, organizzazione progenitrice di Hamas, rimane il principale gruppo di opposizione. Se l’Egitto si prendesse la responsabilità su Gaza, questo potrebbe significare l’inizio di una rivolta islamica.

Guerre come quella a Gaza e quella del 2006 in Libano hanno forse dimostrato che le soluzioni militari in certi casi sono inadeguate? Ne dubito. L’esercito è stato istituito al centro della vita e dell’identità israeliana quando lo stato è stato fondato, anzi, ancora prima, nell’Yishuv. L’esercito domina l’economia del paese, la gerarchia politica, la società civile e, sempre di più, la religione. Una decisiva sconfitta militare potrebbe cambiare la situazione, ma questo non è successo a Gaza. Anzi, se l’attacco venisse percepito come un fallimento militare, questo rafforzerebbe quelle forze in Israele che chiedono di allargare l’offensiva per distruggere Hamas una volta per tutte. Non va dimenticato che, nei sondaggi fatti pochi giorni prima del cessate il fuoco, più del novanta percento degli ebrei israeliani erano a favore della guerra e l’ottanta percento era contro l’apertura dei passaggi verso Gaza, anche dopo la fine dei bombardamenti.

Israele è una società molto sfaccettata, eppure, su certi temi come quello dell’identità ebraica minacciata, la popolazione israeliana sembra comportarsi come un corpo unico. Israele è una società molto frammentata ma, in generale, l’azione militare è

In alto: Soldato israeliano si riposa appoggiato a un tank al confine della Striscia di Gaza. In basso: Bambino palestinese si copre il volto durante una manifestazione in Cisgiordania. Foto di Alessandro Sala/Cesuralab

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L’intervista Israele-Palestina

Dal trauma alla fiducia Di Marco Formigoni

Avraham Burg, intellettuale israeliano, autore del libro Sconfiggere Hitler: “Non abbandono mai la speranza che un giorno vi sarà pace”. Come ex attivista di Peace Now, non ho mai considerato la guerra come un’opzione efficace, se non in circostanze di emergenza. Di solito non giudico gli effetti o i risultati di una guerra durante la guerra stessa. Ciò che mi chiedo è una cosa molto semplice: se questo conflitto condurrà a nuove animosità, allora è stato un fallimento. Se porterà alla ripresa dei negoziati, alla riapertura del dialogo, a una nuova road map per la pace, allora è stato necessario. Faccio un esempio: la guerra con l’Egitto del 1973 è stata devastante, ma è stata una necessità. Ci ha condotti al negoziato e alla pace con l’Egitto. L’impressione esterna è quella di un paese che negli ultimi anni ha agito solo sul piano militare, senza una precisa strategia politica: come se ritenesse che la sola dimostrazione di forza fosse sufficiente a risolvere i problemi. Ma gli ultimi dieci-quindici anni non hanno insegnato nulla? E’ quasi impossibile rispondere solo da un punto di vista israeliano. La situazione coinvolge il Medio Oriente e tutto il mondo. La questione mediorientale, dagli anni Ottanta e Novanta, si è avvitata in una spirale di violenza, è entrata in un vicolo cieco. Israele è solo una parte del problema. La domanda è: se in questo puzzle, noi, i palestinesi, ma soprattutto l’amministrazione Usa, riusciamo a trovare un punto d’incontro, allora sarà bene seguire un approccio riconciliatorio. Tale approccio sarà dettato soprattutto dal nuovo corso della politica di Obama e dovrà prevedere l’inclusione al tavolo negoziale di tutti gli attori: la comunità internazionale, la comunità regionale e noi israeliani. Tra le vittime dell’operazione Piombo Fuso rischia di esserci anche la volontà di pace di una parte degli Israeliani? Non c’è dubbio che gli israeliani desiderino la pace. Ma questa non è stata vittima dell’operazione ‘Piombo Fuso’. Paradossalmente, coloro che si sono presi la responsabilità dell’opzione militare rispondevano a un desiderio di pace. Di cessazione delle ostilità da parte di Hamas. Da parte mia, io non abbandono mai la speranza che un giorno vi sarà pace. Nel settembre 2008 Olmert ha denunciato, in un’intervista a Yedioth Ahronoth, quarant’anni di cecità: sua e di Israele. Disse che era arrivato il momento in cui lo Stato doveva scegliere se guerreggiare in permanenza, o cercare la pace coi vicini. Parlò dell’automatico e quasi paranoico ricorso all’opzione militare e invitò le gerarchie militari a ritrovare il valore della pace, perseguibile a un’unica condizione: liquidare le colonie, restituire “quasi tutti se non tutti i territori”, dando ai palestinesi “l’equivalente di quel che Israele terrà per sé”. Cosa è cambiato in pochi mesi? Credo di non avere una risposta. Sono un ex politico, forse per capire la mentalità di Olmert dovrei essere un ex psicologo. Tuttavia, preferisco le sue dichiarazioni riconciliatorie che prevedono la necessità di rimuovere gli 16

insediamenti e di superare la violenza e il radicalismo religioso di Hamas. Questo preferisco, alla sua politica di guerra. Lei qualche tempo fa scriveva: “Vi sono concrete probabilità che la nostra sia l’ultima generazione sionista. In Israele potrà anche esservi uno Stato ebraico, ma sarà di un genere diverso, strano e spiacevole. C’è poco tempo. Occorre una visione nuova di una società giusta e la volontà politica di attuarla”. Oggi c’è ancora tempo per questo? Ciò che accade oggi in Israele viene letto da voi attraverso la televisione e internet, mentre io ascolto le voci quotidiane della gente di strada. Molti israeliani non considerano la guerra come un’opzione privilegiata. Non sappiamo quale sarà il risultato delle prossime elezioni, né il futuro del processo di pace, ma sappiamo che c’è una significativa massa critica nella società israeliana che è realmente decisa a trovare soluzioni per evitare una nuova guerra. Israele ha dimostrato anche in questo caso di non avere scrupoli nell’ignorare i moniti, i consigli, anche solo i miti suggerimenti della comunità internazionale. Ma questa ha un modo per farsi ascoltare dal governo di Tel Aviv? Non credo sia un’interpretazione corretta. Nella maggioranza dei casi Israele ha avuto un dialogo intenso e conversazioni serrate con la comunità internazionale, specialmente con l’ala contraria al fondamentalismo islamico. In questo caso, è vero, non abbiamo ascoltato. Questo perchè la maggioranza degli israeliani ritiene che la comunità internazionale abbia pregiudizi e non sia oggettiva. Da qui la chiusura nei suoi confronti. Nel suo ultimo libro Sconfiggere Hitler, edito da Neri Pozza, lei scrive che la cultura, o meglio il culto della Shoah, ha modificato la cultura politica dello Stato israeliano ed è diventato, mi perdoni la sintesi, la pubblica giustificazione della durezza con cui Israele amministra i territori occupati. Nel mio libro sostengo che il problema di Israele è che le sue azioni sono guidate dal traumatico ricordo della Shoah, e che sia la società civile che quella politica devono progressivamente sforzarsi a passare dal trauma alla fiducia, perché se il trauma rimane la forza che guida le proprie azioni, alla fine si tende a preferire un’approccio aggressivo anziché uno riconciliatorio. Ciò è deleterio per noi e per i nostri vicini. Credo che la reazione a volte spropositata della società israeliana provenga da qualcosa che sta in profondità, nella psiche stessa di questo popolo, che ha le sue radici nel trauma dell’Olocausto e vuole prevenire un nuovo trauma. Io intendo persuadere gli israeliani che non tutte le minacce, non tutti gli ostacoli, non tutti i pericoli sono letali, assoluti e definitivi, ma che alcuni di questi sono del tutto normali e lo Stato deve affrontarli senza ricorrere sempre all’uso della forza. In alto: Bambino palestinese tra le macerie di una moschea distrutta a Rafah. In basso: Palestinese ispeziona le macerie di una moschea distrutta a Rafah. Foto di Hatem Omar


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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

El Salvador

Afghanistan

Le buone nuove

Elezioni pari e patta

La guerra di Obama

Ecuador, il rifugio dei colombiani

C’

era molta attesa a El Salvador per le elezioni di domenica 19 gennaio. Più di quattro milioni di persone aventi diritto al voto sono state chiamate ai seggi per eleggere sindaci, consigli comunali e ben 84 membri dell’Assemblea Legislativa. Una prova fondamentale in vista delle elezioni presidenziali che si terranno nel Paese il prossimo 15 marzo. La campagna elettorale è stata combattuta e i sondaggi davano le due principali formazioni politiche del paese, Arena (Alianza Republicana Nacionalista) di destra e l’Fmln (Frente Farabundo Martì de Liberacion Nacional) di sinistra, più o meno allo stesso livello. E non sono mancate le sorprese. Se infatti da un lato la sinistra del Fmln ha ottenuto una straordinaria vittoria per quanto riguarda l’Assemblea Legislativa (nonostante tutto Fmln dovrà ottenere l’appoggio dei partiti di sinistra per poter fare riforme alle leggi nazionali), a livello comunale i risultati dicono esattamente il contrario. Arena (che governa il Paese da due decadi) infatti, si è aggiudicata la maggioranza dei comuni e soprattutto può vantare il più importante, quello della capitale San Salvador che sarà comandato da Norman Quijano. Da dodici anni la capitale era in mano al Fmln. Ora la battaglia si sposta sul campo delle elezioni presidenziali. Fmln, visto il buon risultato ottenuto nelle votazioni per l’Assemblea legislativa, tenterà di aggiudicarsi anche la maggioranza delle preferenze nelle elezioni presidenziali del 15 marzo: sarebbe l’unico modo per sostituire Arena, al governo dal 1989. A vigilare sul corretto funzionamento della macchina elettorale sono giunti nel Paese almeno duemila osservatori internazionali, soprattutto provenienti da organismi indipendenti come l’Organizzazione degli Stati Americani (Oea) e l’Unione Europea. Le elezioni hanno comunque lasciato un segno tangibile della volontà di cambiamento presente nel Paese. Adesso l’attesa è per il 15 marzo per una nuova battaglia elettorale dove chi vincerà governerà il Paese. E lo dovrà fare in nome di tutti. Senza distinzioni.

B

Grazie a un accordo firmato fra il governo ecuadoriano e l’alto commissario Onu per i diritti umani Martha Juarez, almeno 50mila cittadini colombiani riceveranno lo status di rifugiati. Il provvedimento riguarda i cittadini colombiani che fra il 2000 e il 2007 sono entrati in Ecuador fuggendo dagli orrori causati dalla guerra fra le Farc (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) e le forze di sicurezza di Bogotà.

Usa, a piccoli passi L’abolizione è ancora lontana e parlarne è politicamente un tabù, dato che due terzi degli americani sono ancora favorevoli. Ma per la pena di morte negli Stati Uniti il 2008 è stato un anno di magra. Sono diminuite sia le esecuzioni sia le nuove condanne, a evidenziare quella che è ormai una tendenza in atto da anni. Le esecuzioni sono state “solo” 37: il numero più basso da quattordici anni a questa parte.

Turchia, per amor del vero Un tribunale turco ha assolto un celebre cantante e attore transessuale, processato per aver messo in discussione la campagna militare di Ankara contro la guerriglia del Pkk. Il capo d’imputazione contro Bulent Ersoy è stato quello di “incitare la popolazione contro il servizio militare”, un’accusa che nella nazionalista Turchia è un crimine.

Togo e Burundi, abolita la pena di morte Togo e Burundi hanno deciso di abolire la pena di morte, confermando il ruolo centrale dei Paesi del continente africano nell’approvazione, da parte dell’Assemblea delle Nazioni Unite, della moratoria contro le esecuzioni capitali.

Australia, vittoria degli aborigeni Gli aborigeni australiani hanno vinto la loro causa contro il gigante minerario anglo-svizzero Xstrata: quarto produttore mondiale di rame e di nichel, produce l’otto percento dello zinco comperato nel mondo ed è inoltre tra i primi esportatori mondiali di carbone.

Christian Elia 18

arack Obama l’aveva detto chiaro e tondo prima di essere eletto: l’Afghanistan, assieme al Pakistan, sarà il fronte di guerra su cui si sarebbe concentrata la sua amministrazione. Il nuovo Presidente - su consiglio del generale David Petraeus e del suo consigliere per la politica estera, Zbigniew Brzezinski - ha dato il via libera al surge afgano: un aumento di truppe senza precedenti che nel giro di pochi mesi raddoppierà il numero dei soldati Usa che combattono in Afghanistan, portandoli a sessantamila dai trentamila attuali. Una strategia di ‘guerra totale’ duramente criticata dallo stesso presidente afgano Hamid Karzai, secondo il quale più guerra porterà solo più morte e distruzione e quindi maggior sostegno popolare ai talebani. Ma la sua parola ormai conta poco: non è un mistero che a Washington stiano cercando un uomo più ‘affidabile’ con cui rimpiazzare Karzai alle prossime elezioni afgane di fine anno. A Kabul già circola un nome: quello dell’attuale ministro dell’Interno, Mohamad Hanif Atmar. Per quanto riguarda il Pakistan, i progetti di Obama sono altrettanto bellicosi. Le aree tribali pachistane alla frontiera con l’Afghanistan verranno considerate parte integrante del teatro di guerra afgano, in quanto ritenute - non a torto - la retrovia strategica della guerriglia talebana che combatte in Afghanistan contro le truppe Usa e Nato e che qui ha i suoi centri politico-militari di reclutamento, addestramento, armamento e finanziamento. La strategia militare di Obama in questa regione prevede un aumento dei bombardamenti missilistici Usa (già regolarmente in corso) accompagnata da un’ulteriore intensificazione dell’offensiva militare ‘appaltata’ alle forze armate pachistane (e magari ‘assistita’ da consiglieri militari e forze speciali Usa). Alcuni analisti militari intravedono un parallelo storico tra questa strategia e la decisione del presidente Richard Nixon, nel 1969, di bombardare le retrovie dei Vietcong in Cambogia. Allora per gli Stati Uniti non andò a finire bene. Magari Obama avrà più fortuna. Enrico Piovesana


L’eredità di Bush a Obama

o commesso alcuni errori”, ha ammesso George W. Bush lasciando la presidenza degli Stati Uniti d’America. Errori che ora toccherà al nuovo presidente Barack Obama correggere. La situazione mondiale che Bush ha lasciato in eredità è a dir poco problematica. La nuova amministrazione Usa deve affrontare una drammatica crisi economica, archiviare la pratica irachena senza fare passi falsi e soprattutto cercare di rovesciare le sorti della guerra in Afghanistan, dove gli Usa (e non solo loro) dopo sette anni rischiano di impantanarsi in un nuovo Vietnam, con tanto di incremento di truppe e regionalizzazione del conflitto nelle retrovie talebane in Pakistan (come quando nel 1969 gli Usa iniziarono a bombardare le retrovie vietcong in Cambogia). In quest’ottica la piena collaborazione militare del Pakistan (per nulla scontata) diventerà sempre più importante per Obama, ma per garantirsela dovrà disinnescare la crescente tensione tra Pakistan e India (divenuta esplosiva dopo gli attacchi terroristici di Mumbai), cimentandosi nell’ardua impresa di risolvere il cinquantennale conflitto in Kashmir. Un proposito espresso da Obama già in campagna elettorale, ma che dovrà essere accantonato dalla nuova amministrazione Usa per concentrarsi su una crisi ben più urgente: il conflitto israelo-palestinese, tragicamente tornato alla ribalta con la guerra di Gaza. Il surriscaldamento del quadrante mediorientale riporta inevitabilmente alla ribalta anche la questione nucleare iraniana, che Obama aveva dichiarato di voler risolvere con il dialogo, e i difficili rapporti con il regime siriano. Obama dovrà decidere anche come comportarsi sugli altri fronti della

“H

Guerra globale al terrorismo iniziata da Bush: quello africano in Somalia, dove il ritiro delle truppe etiopi rischia di riaccendere la guerra civile tra governo filo-occidentale e ribelli islamici, e quello asiatico nelle Filippine, dove il riaccendersi del trentennale conflitto tra governo e indipendentisti islamici complica non poco la situazione. Un’altra area di conflitto molto delicata per la Casa Bianca è quella caucasica della Georgia, il cui processo di adesione alla Nato (che dovrebbe ripartire assieme a quello dell’Ucraina) rischia di far risalire la tensione tra Washington e Mosca ai livelli di guardia sperimentati dopo la breve guerra russo-georgiana dell’estate scorsa. Nel giardino di casa latinoamericano, Obama si ritrova a fare i conti con due guerre legate al narcotraffico (quella in Messico - che solo l’anno scorso ha causato oltre cinquemila morti - e quella in Colombia tra Farc e governo Uribe) e con ben cinque governi dichiaratamente antiamericani: la Cuba di Raul Castro, il Nicaragua di Daniel Ortega, il Venezuela di Hugo Chavez, la Bolivia di Evo Morales e l’Ecuador di Rafael Correa. Gli altri regimi ‘ostili’ con cui la nuova amministrazione Usa dovrà decidere come comportarsi sono la Corea del Nord e la Birmania, entrambi sostenuti dal principale ‘competitor’ economico degli Stati Uniti, la Cina, con la quale Obama sembra intenzionato ad avviare un costruttivo dialogo basato sulle reciproche convenienze economiche. E, in Africa, il Sudan di Omar Bashir (sotto processo per i cirmini di guerra in Darfur) e lo Zimbabwe dell’inossidabile dittatore Robert Mugabe.


L’eredità di Bush a Obama


Paesi Alleati degli USA Paesi in “cattivi rapporti� con gli USA Paesi competitor degli USA Aree di crisi e conflitti armati rilevanti per la politica estera USA


6,8

Nella sfera economica Obama eredita da Bush una situazione drammatica: nel 2008 2,6 milioni di statunitensi hanno perso il lavoro, la borsa di New York ha perso quasi il 40 percento bruciando oltre 7 mila miliardi di dollari e il dollaro ha perso quasi un quinto del suo valore.

13.000

1,47 1,42 4,7 9.000

Borsa di New York Euro/Dollaro Gen

Feb

Mar

Apr

Mag

Giu

Lug

Ago

Set

Ott

Nov

Dic 2008

768 719

700

703 676

Disoccupazione

Bush lascia in eredità a Obama una spesa militare raddoppiata in otto anni e due guerre da combattere: l’Iraq, in fase di “stabilizzazione”, e l’Afghanistan, che invece è in piena fase di escalation e che è destinata a diventare “la guerra di Obama” (che per il 2009 ha previsto un aumento di truppe di 30 mila soldati oltre i 32 mila attuali)

323 294 232

380

222

191

Caduti USA in Afghanistan

130 69

Caduti USA in Irak 57

58

12

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

Spese militari (miliardi di dollari al valore del 2007)


Messico

Iraq

Il numero dei morti dal 17 dicembre al 21 gennaio*

Tijuana la dolce morte

Kirkuk non vota e attende

Un mese di guerre

l dibattito sulla dolce morte o sulla possibilità di staccare la spina a un malato terminale o ancora di decidere in piena autonomia di dire basta all’accanimento terapeutico è aperto a livello internazionale. Schiere di medici, politici e amministratori discutono da tempo su cosa sia meglio fare. Ma c’è anche chi decide di risolvere tutto da solo e non dare retta a nessuno. E’ il caso dei seguaci del medico Philip Nitschke, australiano, autore di The Peaceful Pill Handbook (Manuale della pillola della pace) un testo molto venduto ma che oggi si fa fatica a recuperare anche su internet. Nel testo si spiega come procurarsi senza molti problemi il Nembutal, farmaco utilizzato in veterinaria per uccidere gli animali in modo indolore, e con esso la possibilità di mettere fine alla propria vita. Il percorso è semplice. Da tutto il mondo, e da Australia e Nuova Zelanda soprattutto, partono gruppi di persone alla volta del Messico, di Tijuana in particolare, con lo scopo di procurarsi il farmaco in libera vendita nel paese centroamericano. E nel viaggio della dolce morte tutto è organizzato perfettamente: il dottor Nitschke, infatti, fornisce informazioni dettagliate su come fare a trovare il Nembutal in confezioni da 100 ml a 30 dollari circa. Spesso sono gli stessi malati a percorrere il viaggio ma è facile che, impossibilitati a muoversi per via di una lacerante malattia, chiedano a amici o parenti di farlo al posto loro. E in questo caso si apre anche un aspetto legale: l’importazione nei due paesi del Pacifico del Nembutal è vietata. I “corrieri” del Nembutal infatti, se scoperti, una volta rientrati nei paesi d’origine rischiano fortissime pene detentive: vengono infatti considerati assistenti al suicidio. Dopo le vibranti proteste delle associazioni in difesa della vita, comunque, oggi trovare il Nembutal sugli scaffali dei negozi per animali di Tijuana è un po’ più difficile.

o scorso 31 gennaio in Iraq si sono svolte elezioni amministrative, le prime dalla fine del mandato del presidente Usa George W. Bush, e le prime a cui tutti i gruppi e le confessioni hanno partecipato senza boicottaggi. Il voto segna un passo, per quanto piccolo, verso la normalizzazione del paese. Una provincia dopo l’altra, le forze Usa stanno lasciando il posto a quelle irachene, e si ritirano nelle basi all’esterno delle città come previsto dall’accordo bilaterale tra Washington e Baghdad. Alla vigilia della consultazione il generale Ray Odierno parlava persino di un processo di pacificazione “irreversibile”, in corso nel Paese, ma alcuni nodi non sono ancora venuti al pettine. Le elezioni, infatti, si sono tenute solo in 14 delle 18 province irachene. Escluse sono state le tre province del Kurdistan iracheno e quella di Tamim, dove si trova Kirkuk, la città petrolifera contesa tra arabi, curdi e turcomanni, nella quale si gioca una partita che vale il futuro della prosperità irachena, oppure solo quella della regione curda. Il rischio che riesplodessero le violenze a Kirkuk e la lentezza del processo politico, che cerca di traghettare in sicurezza la città verso il referendum che deciderà se assegnarla alla regiorne curda o a quella araba, hanno fatto sì che il parlamento iracheno escludesse Tamim dalla consultazione. Anche se le elezioni non si sono tenute, a gennaio la tensione tra il governo regionale curdo e quello di Baghdad si è innalzata pericolosamente. Il governo di Baghdad ha inviato una divisione dell’esercito a pattugliare la provincia, già controllata dalla milizia curda, i peshmergha. Una mossa che i partiti curdi hanno definito “una provocazione del governo di Baghdad” che, secondo il leader della coalizione curda della provincia Muhammad Kamal, punterebbe a fare pressione sul processo politico di Kirkuk, imponendo “un assedio militare intorno alla provincia”. A gennaio Baghdad ha mandato l’esercito anche a Mosul, e la stessa cosa aveva fatto nell’agosto 2008 a Kanaqin, due città accomunate con Kirkuk dalla maggioranza curda e dal fatto di essere contese tra il Kurdistan e Baghdad.

PAESE

I

L

Alessandro Grandi Naoki Tomasini

MORTI

Israele Palestina Sri Lanka Nigeria Pakistan Talebani Afghanistan Iraq Rep. Dem. Congo Sudan Somalia Filippine Milf India Naxaliti India Nordest Pakistan Beluchistan Nord Caucaso India Kashmir Thailandia del sud Filippine Npa Uganda Colombia Turchia

1.981 948 804 739 700 678 252 202 155 145 118 111 53 49 41 37 18 9 6 2

TOTALE

7.048

* I dati che qui riportiamo sono dati ufficiali, raccolti da agenzie di stampa internazionali o locali. Per cui sono da intendersi sempre per difetto: in molti paesi del mondo non si contano i vivi, figuriamoci i morti.

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La storia Israele-Palestina

Guerra sperimentale Di Massimo Zucchetti* Ci sono poche notizie certe, per ora sull’utilizzo di ordigni all’uranio impoverito. Le nazioni arabe unanimemente accusano Israele di aver usato uranio impoverito a Gaza: sue tracce sarebbero state rinvenute dai medici su diversi feriti negli ospedali di Gaza. e nazioni arabe invocano un’indagine da parte dell’Agenzia Atomica Internazionale, mentre Israele nega ogni addebito, afferma essere tutta propaganda e magari potrebbe essere vero. Occorre esercitare prudenza nel lanciare allarmi, per evitare di perdere credibilità se questi allarmi si rivelassero poi infondati: questa semplice regola di buon senso e di correttezza deve ancora entrare nella mente di parte dei miei amici scienziati “ecologisti”. Ad esempio la missione dell’Unep (Agenzia per l’ambiente dell’ONU) non ha trovato uranio impoverito in nessun sito del Libano del sud, a seguito della guerra del 2006.

L

Se sull’uranio impoverito vi sono dubbi, è invece assodato l’utilizzo da parte dell’esercito israeliano di bombe DIME (Dense Inert Metal Esplosive). Si tratta di un tipo innovativo di bomba, con una testata di fibra di carbonio e resina epossidica integrata con acciaio, e che fa uso di tungsteno. Queste armi hanno un ampio potere esplosivo, ma che si dissipa molto rapidamente: il raggio interessato non è molto lungo, forse dieci metri; le persone travolte da questa esplosione però vengono letteralmente tagliate a pezzi. E’ stata concepita proprio per uno scenario di guerriglia urbana perché consentirebbe - nella delirante logica militarista - di colpire obiettivi mirati. Quest’arma non è una novità: è stata già usata in Libano e a Gaza nel 2006. Le ferite che si vedono oggi all’ospedale Shifa di Gaza rendono assodato che sia stato fatto largo uso di armi DIME da parte degli israeliani in questa guerra. Di DIME avevano già parlato ad esempio giornalisti di RaiNews24 nel 2006. nvito i lettori, con i quali mi scuso per la crudezza delle immagini, a dare un’occhiata ad alcune delle foto disponibili su internet per capire quali effetti producano queste bombe DIME. Ad esempio la mia vecchia presentazione (http://staff.polito.it/massimo.zucchetti/Nuovearmi.pdf). Vi è anche la questione, che in questo momento pare secondaria visto quanto succede, ma che va comunque citata, che a lungo termine queste armi avranno sui sopravvissuti un effetto cancerogeno. Inglobare schegge o respirare micropolveri di tungsteno, metallo pesante, non potrà che provocare nella popolazione che vive nei dintorni (specie anziani e bambini) un aumento della frequenza di insorgenze tumorali. Su questo sono state fatte ancora relativamente poche ricerche, ma ce ne sono alcune, condotte anche negli Stati Uniti, che mostrano che queste armi hanno una tendenza molto alta a provocare il cancro. Così chi non resta ucciso sul colpo rischia di ammalarsi poi di tumore.

I

Per quanto riguarda la questione del bombe al fosforo bianco, si sta ripetendo lo stesso balletto che si ebbe quando queste armi incendiarie, di distruzione di massa, proibite, vennero usate a Falluja in Iraq dagli USA. Si giustificò il loro utilizzo asserendo fossero solo “bombe illuminanti” e non incendiarie: infatti le prime sono permesse, le seconde sono proibite. Le testimonianze di medici di ospedali palestinesi sulla crescente presenza di ustionati gravissimi da fosforo bianco si moltiplicano, le foto di “strisce” 20

a bassa altezza e quindi non illuminanti delle bombe al fosforo nei cieli di Gaza non mancano. Anche l’organizzazione umanitaria “Human Rights Watch” ha accusato le forze israeliane di avere fatto uso di munizioni al fosforo bianco, accertato dai ricercatori di HRW nel corso dei bombardamenti del 9 e 10 gennaio scorso sul campo profughi di Jabaliya. “Sono bombe illuminanti, ma un po’ di fosforo nelle munizioni c’è”: questa è la prima ammissione, arrivata durante il conflitto da una fonte israeliana citata dalla Radio svizzera italiana, sull’uso di bombe al fosforo bianco, le micidiali “Willy Peter” come vengono chiamate nel gergo militare dalle iniziali di “whitephosphorus”. Citiamo Sting? “It’s a lie we don’t believe anymore”. Oppure diciamo per prudenza che accertamenti più definitivi si potranno fare una volta che a Gaza- o in quello che ne rimarrà - si potrà entrare senza essere bombardati, possibilmente. omunque, per quello che può valere il diritto internazionale dopo quanto sta succedendo, queste sono armi sperimentali di tipo chimico, vietate dalle Nazioni Unite. Di nuovo, a chi importa, in questo momento? Direi che più importante sia però affermare con forza disperata che tutto quanto è successo a Gaza è contro il diritto internazionale, è contro l’umanità, è contro tutto ciò che significa essere persone dotate di senso morale. Ma porrei ancora, da scienziato responsabile, su un piano separato i soldati israeliani, che fanno in fondo il loro mestiere, sebbene orribile, da quanti queste armi hanno studiato e messo a punto: la ricerca sulle DIME ad esempio è stata condotta dal US Air Force Research Laboratory in collaborazione con il Lawrence Livermore National Laboratory (LLNL) americano. Nel 2007, sono stati spesi oltre 40 milioni di dollari per lo sviluppo di queste bombe dal governo USA. Invito a vedere anche il sito militare (http://defense-update.com/products/d/dime.htm). In ultimo: lo scrivente aveva organizzato un workshop internazionale sull’inquinamento all’Università di Gaza, cui dovevano partecipare scienziati di diversi paesi, inclusi forse anche alcuni colleghi israeliani. Ma l’Università di Gaza è ancora chiusa, e non per ferie, e c’è soltanto da sperare che gli israeliani permettano in futuro che ce ne sia ancora una. Comunque, dopo il “cessate il fuoco”, le voci dei miei colleghi palestinesi hanno ripreso timidamente a manifestarsi via e-mail; hanno ripreso a pianificare il nostro workshop come se niente fosse stato. Pensiamo al mese di maggio, quando, dicono loro, la primavera già si trasforma in prima estate e si può anche andare al mare.

C

*Massimo Zucchetti è professore ordinario al Politecnico di Torino, dove insegna “Protezione dalle Radiazioni”. E’ membro e coordinatore del “Comitato Scienziate e Scienziati contro la guerra”. In alto: Bambini palestinesi giocano sui resti di un missile israeliano a Gaza. In basso: Pompieri palestinesi cercano di estinguere le fiamme al quartier generale delle Nazioni Unite a Gaza, colpito il 15 gennaio 2009. Foto di Mohamed Al-Zanon


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Qualcosa di personale Sri Lanka

Chi dissente muore Di Enrico Piovesana Lo scorso 8 gennaio due sicari hanno assassinato a Colombo Lasantha Wickrematunga, direttore del Sunday Leader: il più battagliero giornale d’opposizione dello Sri Lanka, da tempo impegnato nel denunciare la corruzione del governo nazionalista di Mahinda Rajapaksa e coraggioso critico della guerra contro la minoranza tamil. Questo assassinio ha suscitato un gran clamore, in Sri Lanka e nel mondo. Per i colleghi di Lasantha e i locali attivisti per i diritti umani non ci sono dubbi: si è trattato dell’ennesimo tentativo del governo di far tacere ogni voce critica. Per Reporter Senza Frontiere “il presidente Rajapaksa è da ritenere direttamente responsabile di questo omicidio”. “Negli ultimi tempi i giornalisti indipendenti qui in Sri Lanka sono in pericolo – ricorda Vedivel Thevaraj, direttore del giornale tamil Virakesari – e il mio collega e amico Lasantha, uno dei più coraggiosi, ha pagato con la sua vita. Gli attacchi politici, le minacce, le aggressioni sono sempre più frequenti. Solo pochi giorni fa una banda di uomini armati ha devastato gli impianti di una televisione accusata dal governo di scarso patriottismo per la copertura data alle vittorie dell’esercito contro le Tigri tamil”. Da quando tre anni fa Rajapaksa è salito al potere in Sri Lanka, undici giornalisti sono stati assassinati e uno è sparito dopo l’arresto. “I responsabili di questi fatti non sono mai stati individuati e perseguiti dalle autorità governative”, fa notare Poddala Jayantha, segretario generale del sindacato nazionale dei giornalisti dello Sri Lanka. PeaceReporter aveva recentemente incontrato e intervistato Lasantha Wickrematunga nel suo ufficio di Colombo. Ecco cosa ci aveva detto. Direttore, cosa pensa della sanguinosa guerra civile riesplosa con tanta violenza negli ultimi tre anni? La guerra è il principale strumento di potere del regime. Rajapaksa usa la guerra per giustificare la povertà della popolazione, le limitazioni alla libertà di stampa e perfino la violazione dei diritti umani. Il governo di Rajapaksa viola i diritti umani? 22

Poliziotti, soldati e agenti governativi commettono gravi crimini contro i civili tamil: rapimemti, torture, esecuzioni extragiudiziali, violenze, stupri, bombardamenti di obiettivi civili. Anche le Tigri tamil, che sono un gruppo armato illegale, commettono gravi crimini, ma il governo, che in quanto tale deve rispettare le leggi internazionali, non può farlo! Perché la popolazione continua a sostenere la guerra? La povertà spinge migliaia di giovani singalesi ad arruolarsi come volontari per il fronte solo per i soldi. L’opinione pubblica è vittima della massiccia propaganda militarista del governo e nella società civile non esistono più movimenti pacifisti che la contrastino. Non parliamo del clero buddista, tradizionalmente nazionalista e favorevole alla guerra. E la stampa? La televisione? Anche loro schierati con il governo? In Sri Lanka non c’è libertà di stampa. Non c’è censura formale, ma ogni voce fuori dal coro viene duramente attaccata dal governo, intimidita, minacciata e spesso fisicamente aggredita. Questo basta a a ridurre al silenzio le voci critiche e a imporre un’efficace autocensura”. Anche per lei? Io non mi faccio intimidire. So di rischiare, ma continuo a fare il mio lavoro. Lo scorso novembre una banda di scagnozzi del governo ha incendiato le rotative del mio giornale. Tempo fa ho addirittura avuto l’onore di ricevere una breve telefonata del presidente Rajapaksa che mi disse, non me lo dimentico, “Figlio di puttana, ti distruggerò!”. In questa pagina: Lasantha Manilal Wickramatunga, direttore del giornale Sunday Leader, ucciso l’8 gennaio scorso. In alto a destra: Il Sunday Leader, quotidiano diretto da Lasantha Manilal Wickramatunga. Foto di PeaceReporter. In basso a destra: Soldato singalese nella città di Batticaloa. Foto di Luca Ferrari/Prospekt.


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La storia Usa

Legge marziale contro la crisi? Di Enrico Piovesana L’Istituto di Studi Strategici della Scuola di Guerra dell’Esercito degli Stati Uniti, il prestigioso U.S. Army War College della Pennsylvania, ha pubblicato un documento1 (Incognite note: shock strategici non convenzionali nello sviluppo della strategia di difesa) in cui si sostiene la necessità di infrangere uno dei principali tabù della democrazia Usa: il divieto di usare le forze armate in patria contro gli stessi cittadini statunitensi. n dogma anti-marziale che molti, negli ambienti politici e militari Usa, ritengono ormai incompatibile con le nuove minacce della nostra epoca: non solo il terrorismo ma, novità degli ultimi mesi, le rivolte popolari che potrebbero scatenarsi in caso di aggravamento della crisi economica. Guerra civile e legge marziale. “Il ruolo dei militari nel combattere i ‘nemici interni’ in un contesto di rapida dissoluzione dell’ordine pubblico negli Stati Uniti non è mai stato approfonditamente esaminato”, si legge nel documento redatto dal colonnello Nathan Freier, esperto di strategia militare. “Questo scenario di violenza organizzata contro le autorità merita di essere preso in considerazione dal dipartimento della Difesa e da quello della Sicurezza Interna. Una diffusa violenza civile all’interno degli Stati Uniti, scatenata da un attacco terroristico, da un collasso economico, da un’insurrezione o da un movimento di resistenza interna, costringerebbe l’establishment militare a riorientare in extremis le sue priorità verso la difesa dell’ordine interno. Questo significa prevedere anche l’uso della forza militare contro gruppi ostili all’interno degli Stati Uniti e, in caso di conflitto civile o ribellione, un ruolo essenziale dei militari nel garantire la continuità di governo”.

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uesto documento, per quanto di valore accademico e non politico, è la prima teorizzazione ufficiale di uno scenario che, secondo le associazioni statunitensi per le libertà civili, è tutt’altro che fantasioso. Anzi, sarebbe già in avanzato stato di preparazione. Amy Goodman2 e altri intellettuali radical hanno fatto un salto sulla sedia lo scorso ottobre quando la pubblicazione ufficiale dell’Esercito Usa, l’Army Times3, ha dato la notizia che il Comando del Nord (USNorthcom) - istituito dopo l’11 Settembre per la difesa interna e basato a Colorado Springs diventava operativo con quattromila e settecento reduci dall’Iraq (la 1^ Brigata da Combattimento del 3° reggimento di fanteria) che “potranno essere impiegati in caso di disordini” (Civil Unrest and Crowd Control nel testo originale), oltre che in caso di attacchi con armi di distruzioni di

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massa. Immediate e poco convincenti le imbarazzate smentite dei generali Usa. Questa Forza di reazione rapida, denominata ‘Puffi’ (Smurf in inglese, dall’acronimo di Consequence Management Response Forces), arriverà ad avere ventimila uomini, in buona parte riservisti della Guarda Nazionale. er i giuristi liberal statunitensi, l’impiego dell’esercito con compiti di ordine pubblico sul territorio nazionale è vietato dal Posse Comitatus Act4, la legge federale adottata nel 1878, dopo la guerra di secessione. Ma secondo i militari quel divieto non vale se il Presidente invoca un’altra legge, l’Insurrection Act5 del 1807, che gli consente di dispiegare l’esercito per reprimere un’insurrezione. Su questa base il dipartimento della Difesa nel 1968 elaborò un piano d’emergenza (Operation Garden Plot) per l’intervento dell’esercito in caso di sommosse popolari (Civil Disturbance Operations). Tale procedura - attivata sia in occasione delle rivolte razziali di fine anni ‘60 che dei riots di Los Angeles del 1992 e periodicamente aggiornata secondo le direttive del Pentagono - dopo gli attentati del 2001 è stata posta in carico al nuovo Comando del Nord (come risulta dall’US Army Posture Statement del 20046 ). Nell’aprile 2005 il capo di stato maggiore dell’esercito Usa, generale Peter Schoomaker, ha diffuso un manuale di combattimento7 interamente dedicato a questo tipo di operazioni.

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1. http://www.strategicstudiesinstitute.army.mil 2. http://www.democracynow.org 3. http://www.armytimes.com 4. http://en.wikipedia.org/wiki/Posse_Comitatus_Act 5. http://en.wikipedia.org/wiki/Insurrection_Act 6. http://www.army.mil 7. http://www.fas.org In alto: Reparti della polizia statunitense. Archivio PeaceReporter. In basso: Wall Street. Foto di Alessandro Ursic ©PeaceReporter


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Italia

Le braghe del padrone Di Frankie hi-nrg mc (www.frankie.tv) Sono onorato di poter scrivere un articolo su un giornale come questo, fatto da cronisti e fotoreporter che vivono la guerra e le altre mostruosità del mondo per poterle raccontare a tutti, me compreso, che teorizzo la rivoluzione dal divano di casa, rischiando la pelle (loro) per muovere le coscienze (nostre) a far qualcosa di utile affinché quegli orrori cessino e tutti possano tornare a casa a riposare sui propri divani. n giornale “speciale” perché completamente dedicato al tema della pace in tutte le sue declinazioni, ma che assolve al compito di documentare ed informare il lettore in maniera puntuale ed obiettiva su quanto accada in giro per il mondo: quello che di norma ci si aspetta da un giornale. Altri poi, più “generalisti”, ma sicuramente più diffusi, con cadenza quotidiana (anche sotto forma di telegiornali) si propongono di fare altrettanto, dedicando dunque una parte dei cosiddetti “esteri” alle notizie dai territori di guerra: ma in genere c’è poca roba. Non perché ci sia penuria di notizie (e questo giornale lo dimostra), ma perché la guerra stanca, avvilisce, genera un senso di impotenza e in breve - secondo chi i giornali “li fa” - straccia le palle al pubblico. E dunque lo spazio a disposizione per le notizie dal mondo si riduce a poche pagine (o pochi servizi), in cui si legge quasi nulla di quanto sia accaduto. Gli articoli “seri” si contendendono preziosi centimetri/secondi con pezzi di costume (Tanga sì? Tanga no? Tanganica!) scritti con l’unico obiettivo di occupare spazio: intrattenere piuttosto che informare. Siamo passati dalla cronaca [oggi, qui, è successo questo] alla velina [mi dicono di dire che è successo questo] all’ opinionismo [succede questo: tizio dice la sua] per approdare infine? - all’ipotesismo [tizio ha detto la sua: chiediamo a caio cosa secondo lui - intendesse dire], ultima frontiera della info-fuffa. Alle 19.30 di domenica scorsa ricevo una telefonata da una redattrice esteri di un quotidiano che voleva (con grande urgenza) raccogliere una mia opinione su questa notizia: “.. pare che Obama abbia detto che i pantaloni col cavallo basso non gli piacciano: lei ci legge una presa di distanze dalla base nera del ghetto, l’ala hip-hop della rappresentanza afroamericana?”. Non ho reagito benissimo. Non me la sono sinceramente sentita di rilasciare una dichiarazione sulla “notizia” e la cosa più carina che ho detto alla frettolosa redattrice è stato l’augurio di poter scrivere di argomenti che valgano almeno quanto la carta su cui sono stampati, anche se tre veli. La braga di Obama sfratta i profughi del Congo. E ancora più avvilente è vedere come l’immaginario della guerra venga utilizzato più come scenografia che come tema, per arricchire di pathos la cronaca politica e di costume invece che incentrarvi una sezione del giornale: a

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mo’ di rucola, non pietanza. Titoli come “Villari in trincea”, “Riesplode la guerra mediatica”, “L’ira di Veltroni”, “Berlusconi furibondo” (ricordate la “gioiosa macchina da guerra”? - roba da fare invidia a Brancaleone..) sono strilli che dipingono una situazione abbastanza tipica del dibattito politico nazionale, ma in un crescendo di asprezza e rovente belligeranza, in cui le parti in causa - quasi - tentano di farsi passare per eroi epici rapiti dall’agone politico e una loro pernacchia finiscono per amplificarla fino a mutarla in tuono. l problema é che questo stile di comunicazione alla lunga ha finito per costruire l’immagine da operetta del nostro Paese, con un premier tutto paonazzo che straparla mentre il leader dello schieramento opposto strabuzza gli occhi, entrambi mulinando i pugni nell’aria, come certi ubriaconi quando sono in serata. Leggendo le cronache me li immagino entrambi col fumo che esce dalle narici ed i fulmini dalle pupille, come in certe parodie che propone “Striscia la notizia”; tutto questo cinema non mi descrive quanto sia aspro nella realtà l’attrito tra le parti, mi descrive sempre tutti incazzatissimi e punto. Nell’esacerbare i toni dello “scontro istituzionale” è stata realizzata l’istituzionalizzazione dello scontro, legittimando chiunque a mettersi in armi e dichiararsi apertamente incazzato e punto. Alcuni giornali ci impostano addirittura la campagna promozionale. Credo dunque ci sia una strategia (parte di quel Piano di Rintronamento Nazionale ben avviato da anni) volta a sterilizzare i temi di pubblico interesse, svuotandoli del contenuto ed allontanando così chi vorrebbe capirci qualcosa - essendo suddetti pagliacci diretti responsabili delle nostre sorti nazionali - ed incoraggiando il pubblico ad interagire, aggiungendo un commento, chiedendo l’add in questo grande fakebook in cui ci stanno impacchettando. Così tutti diventano fornitori di contributi, tutti autori, tutti sempre talentuosi, tutti amici di qualcuno: tutti giornalisti. Perfino io, dal divano di casa.

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Genova, Italia, 2006. Foto di Ivo Saglietti/Prospekt


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Migranti

Tripoli bel suol d’amore Di Gabriele del Grande Almeno 41 morti alle frontiere europee a novembre. Otto migranti sono annegati nel Canale di Sicilia, 4 alle Canarie, e 21 al largo dell’isola francese di Mayotte, nell’oceano Indiano. Sei vittime nel deserto algerino e due in Grecia. Reportage dalla Libia: siamo entrati nel carcere di Misratah. i notte, quando cessano il vociare dei prigionieri e gli strilli della polizia, dal cortile del carcere si sente il rumore del mare. Sono le onde del Mediterraneo, che schiumano sulla spiaggia, a un centinaio di metri dal muro di cinta del campo di detenzione. Siamo a Misratah, duecentodieci chilometri a est di Tripoli, in Libia. E i detenuti sono tutti richiedenti asilo politico eritrei, arrestati al largo di Lampedusa o nei quartieri degli immigrati a Tripoli. Vittime collaterali della cooperazione italo libica contro l’immigrazione. Sono più di seicento persone, tra cui cinquantotto donne e diversi bambini e neonati. Sono in carcere da più di due anni, ma nessuno di loro è stato processato. Dormono in camere senza finestre di quattro metri per cinque, fino a venti persone, buttati per terra su stuoini e materassini di gommapiuma. Di giorno si riuniscono nel cortile di venti metri per venti su cui si affacciano le camere, sotto lo sguardo vigile della polizia. Sono ragazzi tra i venti e i trenta anni. La loro colpa? Aver tentato di raggiungere l’Europa per chiedere asilo. Da anni la diaspora eritrea passa da Lampedusa. Dall’aprile del 2005 almeno seimila profughi della ex colonia italiana sono approdati sulle coste siciliane, in fuga dalla dittatura di Isaias Afewerki. La situazione ad Asmara continua a essere critica. Amnesty International denuncia continui arresti e vessazioni di oppositori e giornalisti. E la tensione con l’Etiopia resta alta, cosicché almeno trecentoventimila ragazzi e ragazze sono costretti al servizio militare, a tempo indeterminato, in un paese che conta solo quattro milioni e settecentomila abitanti. Molti disertano e scappano per rifarsi una vita. La maggior parte dei profughi si ferma in Sudan: oltre centotrentamila persone. Tuttavia ogni anno migliaia di uomini e donne attraversano il deserto del Sahara per raggiungere la Libia e da lì imbarcarsi clandestinamente per l’Italia.

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l direttore del centro, colonnello ‘Ali Abu ‘Ud, conosce i report internazionali sulle carceri libiche e in particolare Misratah, ma respinge le accuse al mittente: “Tutto quello che dicono di noi è falso” dice sicuro di sé seduto alla scrivania, in giacca e cravatta, dietro un mazzo di fiori finti, nel suo ufficio al primo piano. Dalla finestra si vede il cortile dove sono radunati oltre duecento detenuti. Abu ‘Ud ha visitato nel luglio 2008 alcuni centri di prima accoglienza italiani, insieme a una delegazione libica. Parla di Misratah come di un albergo a cinque stelle comparato agli altri centri libici. E probabilmente ha ragione. Il che è tutto dire. Dopo una lunga insistenza, siamo autorizzati a parlare con i rifugiati eritrei. Scendiamo nel cortile. S. parla liberamente: “Fratello, siamo in una pessima situazione, siamo torturati, mentalmente e fisicamente. Siamo qui da due anni e non conosciamo quale sarà il nostro futuro. Puoi vederlo da solo, guarda!” Intanto l’interprete traduce tutto al direttore del campo, che interrompe immediatamente l’intervista e ci allontana di peso dai rifugiati. Saliamo di nuovo nel suo ufficio. Con toni molto nervosi, il colonnello cerca di convincerci del suo impegno. Per ben due volte l’ambasciata eritrea ha inviato dei funzionari per identificare i prigionieri. Ma i rifugiati hanno sempre rifiutato di incontrarli. Hanno addirittura organizzato uno sciopero della

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fame. Comprensibile, visto che rischiano di essere perseguitati in patria. La Libia dovrebbe averlo capito da un pezzo, visto che il 27 agosto 2004 uno dei voli di rimpatrio per l’Eritrea partiti da Tripoli venne addirittura dirottato in Sudan dagli stessi passeggeri. Ma il concetto di asilo politico sfugge alle autorità libiche. Eritrei o nigeriani, vogliono tutti andare in Europa. E visto che l’Europa chiede di controllare la frontiera, l’unica soluzione sono le deportazioni. E per chi non collabora con le ambasciate - come i rifugiati eritrei - la detenzione diventa a tempo indeterminato. Così per tornare in libertà non rimangono che due possibilità. Avere la fortuna di rientrare nei programmi di reinsediamento all’estero dell’Alto commissariato dei rifugiati (Acnur) - che finora hanno interessato circa duecento rifugiati, tra cui settanta arrivati in Italia - oppure provare a scappare. Koubros ha fatto così. Lo incontro sulle scale della chiesa di San Francesco, nel quartiere Dhahra di Tripoli, dopo la messa del venerdì mattina. Un gruppo di eritrei è in fila per lo sportello sociale della Caritas, dove lavora l’infaticabile suor Sherly. A Misratah ha passato un anno. Era stato arrestato a Tripoli durante una retata nel quartiere di Abu Selim. E’ scappato durante un ricovero in ospedale. Poi però è stato di nuovo arrestato e portato al carcere di Tuaisha, vicino all’aeroporto di Tripoli. Lì è riuscito a corrompere un poliziotto facendosi inviare trecento dollari dagli amici eritrei in città. Gli chiedo di accompagnarci nel quartiere di Gurgi, dove vivono gli eritrei pronti a partire per l’Italia. cendiamo in una traversa sterrata di Shar’a Ahad ‘Ashara, l’undicesima strada. Qui vivono molti immigrati africani. La piccola stanza è sul terrazzo. Ci togliamo le scarpe per entrare. I pavimenti sono coperti di tappeti e coperte. I muri spogli. Ci dormono in cinque ragazzi. La televisione, collegata alla grande parabola montata sul terrazzo, manda in onda videoclip in tigrigno di cantanti eritrei. E’ un posto sicuro, dicono, perché l’ingresso della casa passa dall’appartamento di una famiglia chadiana, che è a posto coi documenti. Si sono trasferiti qui da poco, dopo le ultime retate a Shar’a ‘Ashara. Adesso quando sentono la sirena della polizia non ci fanno più caso. Prima correvano a nascondersi. Ci offrono cioccolata, una salsa di patate e pomodoro con del pane, 7-Up e succo di pera. Sul muro, accanto al poster di Gesù, c’è una foto in bianco e nero di una bambina di pochi anni, con su scritto il suo nome, Delina, con il pennarello. L’ho riconosciuta. E’ la stessa bambina che giocava sulle scale della chiesa. Anche lei dovrà rischiare la vita in mare. “L’importante è arrivare nelle acque internazionali”, dice Yosief. I Dallala, gli intermediari eritrei che organizzano i viaggi, hanno diverse reputazioni. Ci sono intermediari spregiudicati e altri di cui ci si può fidare. Ma il rischio rimane. Non posso non pensarci, mentre sull’aereo di ritorno per Malta, comodamente seduto e un po’ annoiato, sfoglio la mia agenda con i numeri di telefono e le email dei ragazzi eritrei conosciuti a Tripoli. Buona fortuna Delina.

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In alto: Un gruppo di migranti a Lampedusa, Italia 2008. In basso: Cimitero delle barche dei migranti a Lampedusa, Italia 2008. Foto di Alfredo D’Amato/Prospekt


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Rubriche

Pensieri e Parole di Claudio Sabelli Fioretti

La politica politicata In tivù di Sergio Lotti

Uno spettacolo indecoroso Le notizie non arrivano, lamenta una ragazza palestinese che vive e lavora in Italia, parlando della guerra nella striscia di Gaza in una delle ultime puntate di Annozero. Non facciamone un dramma, signorina, dal momento che sui nostri teleschermi faticano ad arrivare anche le notizie serie dall’Italia, che è in pace con i suoi vicini da più di sessant’anni. In questo caso poi, più illuminanti di qualsiasi notizia sono le immagini dei bambini palestinesi che muoiono fra le braccia di genitori disperati, escono mutilati dalle macerie o ti fissano impietriti con gli occhi pieni di quel terrore che alimenterà l’odio di domani. Lo stesso odio che molti giovani presenti in studio o in collegamento esterno non riescono a dissimulare, dicendola lunga sulle speranze di pace futura. Purtroppo i giornalisti, invece di fare il loro lavoro, non trovano di meglio che mettersi in mezzo e litigare fra loro, facendo il verso ai politici. Lucia Annunziata monta in cattedra e punta il ditino su Michele Santoro, dicendogli come dovrebbe condurre la trasmissione, lui perde le staffe e la mette sul personale, con una brusca caduta di stile. Alla fine Lucia Annunziata prende cappello e se ne va, come aveva fatto con lei Berlusconi, invece di restare a spiegare le sue ragioni e contribuire a “orientare” i telespettatori, come dice lei stessa (forse sarebbe meglio dire aiutare a capire). Uno spettacolo indecoroso, che fa precipitare gli indici d’ascolto, mettendo in fuga soprattutto i telespettatori più giovani, evidentemente meno stupidi di come la televisione vorrebbe dipingerli (o farli diventare). Forse non cambierebbero canale se, invece di inveire contro i politici perché sulla questione palestinese “non fanno un tubo”, come dice Santoro, i conduttori facessero un passo indietro per dare più spazio agli ospiti più qualificati e consapevoli. Come Manuela Dviri, la scrittrice ebrea che ha perso un figlio in questa guerra infinita e che confessa di sentirsi un po’ come un’assassina. E non pensa solo a suo figlio, ma a tutti coloro che continuano a odiarsi e a uccidersi e che lei non è riuscita a fermare. Perché, dice, non ha fatto abbastanza, tutti noi non facciamo abbastanza, giornalisti compresi. Peccato che sui giornali, il giorno dopo, si parli soprattutto della lite fra Lucia e Michele. 30

I deputati lavoreranno tre giorni alla settimana, dalle 14 del martedi alle 14 del venerdì, per un totale teorico di ore 30. A fronte di questo orario massacrante potranno non fare nulla una settimana al mese e dedicarla alle “attività sul territorio”, cioè quelle che una volta molto più sinceramente venivano chiamate clientele. Viene subito da chiedersi: perché bisogna occuparsi delle clientele visto che i deputati vengo nominati dai partiti e non scelti dagli elettori? E poi: che cosa faranno il giovedì mattina, il venerdì pomeriggio, il lunedì e il martedì mattina, mentre tutti gli altri italiani lavoreranno? I pianisti. Quei deputati che votano anche per i loro colleghi assenti. Il loro canto del cigno è stato in occasione dell’approvazione della legge del ministro Gelmini sull’Università. Da quel giorno alla Camera si vota con le impronte digitali. Già immagino che cosa diranno i “giustizialisti”: con tutti quei pregiudicati, le impronte digitali sono il minimo! Ma non lasciamoci andare al facile qualunquismo populista. Anche perché sono sicuro che qualche rimedio i pianisti troveranno. Siamo sicuri che la fotocopia dell’impronta digitale non risolverà il problema? L’ultimo giorno, i pianisti hanno dato il meglio di sé. Molti dei 281 voti a favore della legge Gelmini erano falsi. E i pianisti non cercavano nemmeno di nascondersi. Sono stati fotografati, tra gli altri, Paolo Russo

A teatro di Silvia Del Pozzo

Palcoscenico mediterraneo Il Mediterraneo, da sempre culla di culture ma anche di scontri violenti nei tanti paesi che vi si affacciano, oggi più che mai ribolle di tensioni, di sconfitte e illusioni, che vanno anzitutto capite per tentare magari di porvi rimedio. Per questo Maurizio Scaparro ha scelto il “mare nostrum” come tema della 40° edizione della Biennale Teatro (dal 20/2 all’8/3) . Molte le tessere che compongono il complesso mosaico mediterraneo del festival veneziano: accanto alle riletture di antichi miti (Ulisse e il Ciclope, Antigone e Don Giovanni) altri spettacoli raccontano realtà socio politiche recenti. Ne segnaliamo quattro: lo spagnolo “Argelino servidor de dos amos” (regia di Andrés Lima) che è una trasposizione nel XXI secolo dell’Alecchino goldoniano, trasformato in un magrebino naufragato sulle coste italiane, privo di tutto compresi i documenti, vittima di

(Pdl), Melania Rizzoli (Pdl), Eugenio Minasso (Pdl), Lucio Barani (Pdl). Giorgio Stracquadanio (Pdl) non è stato fotografato ma ha confessato con orgoglio di averlo fatto: ho suonato il piano anche io. Mariella Bocciardo (Pdl) ha spiegato che non c’è niente di male: “Ho dato una mano a un collega che non poteva esserci, ma ho votato come avrebbe votato lui”. E ci mancava pure che votasse contro. Melania Rizzoli ha invece rispolverato la vecchia giustificazione: “È difficile a volte fare diversamente. Le votazioni sono molto serrate. Si tratta di ripianare non l’assenteismo di un collega, ma una sua assenza momentanea, magari perché è andato in bagno”. Ma quanta pipì fanno questi deputati? E tutti contemporaneamente? E tutti durante le votazioni? E non potrebbero farla prima? E che razza di coda ci sarà ai bagni durante le votazioni? A destra si litiga, Bossi con gli ex An, Fini con Berlusconi, tutti contro tutti su tutto. A sinistra non ne parliamo. Nel microcosmo della sinistra radicale si meditano microscissioni, ma tutti ce l’hanno con Veltroni e gli ex Pd ce l’hanno con la Margherita. La chiamavano semplificazione del quadro politico. Adesso provate a entrare nella casa di un operaio specializzato che litiga tutti i giorni col suo stipendio. E provate a pensare che cosa stia pensando di votare alle europee. Scheda bianca? Nemmeno. Troppo impegno.

ogni sopruso e sfruttamento nella lotta quotidiana per la sopravvivenza. Altri clandestini si raccontano in “Bladi mon pays” (scritto e diretto dal marocchino Driss Rokh): le difficoltà, il razzismo che i giovani immigrati incontrano sbarcando in Europa, le delusioni che riserva loro l’agognata terra promessa e la nostalgia per il mondo che hanno lasciato. “Winter Gardens”, scritto e diretto dal serbo Nikita Milovojevic, intreccia invece le voci di un campione dei settecentomila giovani che durante e dopo la guerra hanno lasciato la Serbia in cerca non di un’altra patria, ma di un paese decente in cui vivere. Cosa provano, come vivono e cosa pensano di quelli che invece sono rimasti?


Vauro

Infine i volti di 15 ragazzi di Jenin ci portano nel “Nero Inferno” dei Territori Occupati dagli israeliani: un quotidiano vissuto nascosti nel sottosuolo, evocato con disegni, suoni e parole arabe, è l’inizio della “Trilogia quasi dantesca, sicuramente non salvifica” ideata dal gruppo Ponte Radio, che prevede altre due tappe, un Purgatorio Rosso e un Paradiso Bianco. Quale “umana commedia” potrà mai incontrare Dante vagando per le strade impolverate del Medioriente? “Argelino servidor de dos amos”, Mestre, teatro Toniolo, 20 e 21/2. “Winter Gardens” ,Venezia, T. Piccolo Arsenale 25 e 26/2 . “Bladi mon pays” , Venezia , T. Giovanni Poli Santa Marta, 26 e 27/2. “Nero Inferno”, Venezia, T. Piccolo Arsenale, 1/3. Info e biglietti tel. 041 2424, www.labiennale.org 31


Al cinema di Nicola Falcinella

Cinema da presidenti Sono i due presidenti americani meno amati, almeno a fine mandato, della storia recente: Richard Nixon e George W. Bush. A entrambi sono stati dedicati film usciti da poco. Ne escono figure molto diverse tra loro e anche dissimili dall’immagine pubblica che si ha ora, o che si è tramandata. Oliver Stone, che già aveva fatto un ritratto di Nixon privilegiando il lato personale (e si era già occupato di presidenti ricostruendo in “Jfk” l’omicidio di John Kennedy), ha raccontato in “W” gli ultimi anni del rampollo della famiglia di petrolieri texani. Una giovinezza dissoluta e una conversione adulta, per sempre una figura paterna ingombrante e il tarlo di non poterla emulare. Se non facendosi eleggere presidente degli Usa come il padre dodici anni prima. Non basta, il padre non lo prende sul serio, il vicepresidente Cheney lo surclassa (in cinismo è quasi imbattibile, dice uno dei momenti più intensi del film), la moglie lo tratta con fare materno come un bimbo mai cresciuto e il sogno di diventare un asso del baseball resta sospeso come quella palla lanciata che non si abbassa più. “W”, a tratti commedia contro la sua volontà, è passato su La7 e in pochissime sale italiane. È un bel film (convincente l’interpretazione di Josh Brolin, candidato all’Oscar) che ci aiuta a capire di più chi ci ha condotto in sette anni e più di guerre e limitazioni delle libertà. Ron Howard

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per “Frost / Nixon” si è preparato girando “Cinderella Man” con Russell Crowe pugile. Match di pugilato per preparare quello verbale tra Nixon e lo show man David Frost che nel ‘77, appena dimesso il presidente, trovò il colpo che vale una carriera: farlo capitolare davanti alle telecamere e fargli ammettere le sue responsabilità nel “Watergate”. Un’intervista preparata nei dettagli e dove anche i preliminari, come sul ring, contano: l’ultimo che abbassa lo sguardo ha vinto. Un film classico, composto, tutto giocato sul duello con una forte tensione fino alla fine: Howard e Frank Langella che interpreta Nixon sono candidati all’Oscar. “Forse lei avrebbe dovuto fare il politico e io lo show man” conclude, con un certo intuito, Nixon. Che a differenza del suo successore sapeva bene il fatto suo.

In libreria di Giorgio Gabbi

Iraq Confidential di Scott Ritter (prefazione all’edizione italiana di Gino Strada) È troppo presto per fare la storia dell’ultima guerra irachena: siamo ancora alla cronaca, si continua a sparare, ogni settimana altri civili innocenti vengono ammazzati. Ma non è troppo presto per guardare dentro ai meccanismi perversi costruiti dal governo americano (e inglese) per convincere i propri elettori, e per quanto possibile l’opinione


armi

In rete

Iraq e, al edito

di Arturo Di Corinto

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Il conflitto israelo-palestinese è un tema da sempre difficile da raccontare per via di tabù e rimozioni collettive, forti interessi geopolitici e traballanti interpretazioni della storia e del diritto internazionale fornite da entrambe le parti in causa. Quando si uccidono dei bambini però nessuna giustificazione può reggere. La guerra non può essere mai lo strumento per la risoluzione di controversie e per ottenere la pace l’unico strumento legittimo è il dialogo, a oltranza, per capire le ragioni dell’altro, trovare un accordo, costruire la fiducia reciproca, magari con la mediazione della comunità internazionale. Ma in una situazione dove il dialogo è impedito, la conoscenza dei fatti negata, l’informazione distorta, neppure la forza della parola può vincere. E quando anche i media, voce e strumento dell’opinione pubblica contribuiscono a impedire il dialogo, il risultato è sempre un disastro. Nel dicembre scorso i media internazionali a Gaza hanno dato l’ennesima brutta prova di sé in occasione dell’operazione Piombo Fuso in cui l’esercito israeliano ha fatto ricorso a un uso massiccio di armi pesanti e sperimentali provocando la morte di circa millecinquecento persone, per la maggior parte civili, per punire i lanci di razzi degli integralisti di Hamas sulle loro case e per, almeno ufficialmente, piegarne la capacità militare. È qui che, tra veline dell’esercito e dichiarazioni di leader fanatici, notizie di terza mano e improbabili ricostruzioni giornalistiche, si è consumato l’ultimo “delitto” dei media in Palestina. Israele aveva impedito ai reporter di entrare nel territorio palestinese, le notizie arrivavano col contagocce e per tutti è stato difficile capire l’enormità di quello che stava accadendo. Chi voleva sapere, capire da lontano la tragedia di due popoli, poteva solo affidarsi alle notizie e alle poche immagini diffuse via Internet dai rari giornalisti presenti sul terreno oppure dai network internazionali, i cui reporter erano acquartierati sulla cosiddetta Collina della vergogna, lontano dai bombardamenti. A un certo punto però è accaduto qualcosa.

La verità prima dei soldi

della e un onte

pubblica internazionale, che l’invasione dell’Iraq e l’abbattimento del regime di Saddam Hussein erano indispensabili per evitare al mondo una italianasciagura al libro“…Ci eravamo abituati, peggiore, una guerra condotta con le ecifico,famose si presentasse quando i «servizi “armi di distruzione di massa”, nucleari, chimiche e batteriologiche. Scott Ritter, l’autore di dalla responsabilità del legittimo potere questo coraggioso memoriale che può essere pere che non è necessariamente meglio letto anche come un thriller, è un ufficiale dei iva e assoluta….”. marines americani distaccato presso l’Onu per partecipare alla missione di pace Unscom, che a introduzione librosuledisarmo scriveiracheno “La cosa prevedeva il al controllo dopo la guerraCi deldisse 1991. Una missione ufficial- nel va ragione. più e piùche,volte, aveva come obiettivo di accertare se si sh e ilmente, Primo Ministro Tony Blair l’Iraq stava ai patti, se cioè rinunciava alle armi rmi. Lechearmi irachene di distruzione di gli erano state proibite per ottenere, in cama, nonbio, esistevano. Con dichiarazioni l’abolizione dell’embargo che privava il suo di i dei politicanti alla Casa Bianca, popolo dei prodotti alimentari e dei medicinali dei necessari. Ritter, che si era distinto come ispettontagono e dell’intero corpo della stampa re del parziale disarmo atomico in Russia, aveva la guerra). accettato il suo nuovo incarico con entusiasmo, dell’operazione “colpisci e terrorizza” a pensando che avrebbe lavorato per la pace. E ti al seguito delle invece, attraverso i truppe contatti conpresentavano agenti della Cia, n addosso surriscaldate scoprele cheloro costoro stanno sabotandouniformi il compito degli ispettori dell’Onu e che lui è stato ingannato: il suo governo lo ha incastrato in un’operazione truffaldina. Le ispezioni dell’Onu, per il governo (ITALY) di Bush hanno l’unico scopo di prendere 412.623tempo per preparare la caduta del governo di Saddam Hussein. Attraverso una cospirazione architettata dalla Cia, se realizzabile, oppure con un’invasione diretta. Già nel 1992, un anno prima dell’aggressione militare, gli ispettori dell’Onu, ma anche l’intelligence americana, sono più che convinti che gli arsenali di Saddam Hussein sono vuoti: in dieci anni di ricerche non è stato trovato niente. Ma questa verità è taciuta, la farsa deve continuare. Fino al giorno in cui Bush e Blair, quando la catastrofe irachena avrà provocato ormai centinaia di migliaia di morti, balbetteranno un’altra bugia: quella di essere stati tratti in inganno da informazioni inesatte delle loro spie. Che ingiustizia: obbedendo agli ordini superiori, le spie avevano lavorato con grande professionalità. Per provocare la guerra. Nuovi Mondi Media, 2006, 336 pagine, 19,50 euro.

L’unica Tv presente con una redazione a Gaza ha deciso di mettere online tutte le riprese video dei propri operatori, senza commento e sottotitoli, consentendo a chiunque di farne uso gratuitamente con l’unica richiesta di attribuirgliene la paternità. La Tv è Al Jazeera International e il tipo di licenza applicata al footage è la Creative Commons, solo attribuzione. Da quel momento nessuna giustificazione è stata più possibile. http://cc.aljazeera.net

Musica di Claudio Agostoni

Gora “My Flow” Noir Crew Records In Senegal è impossibile addentrarsi nei polverosi vicoli di città e villaggi senza imbattersi nelle rime grintose di un rap. Nei coloratissimi mercati di Dakar, sugli scassati taxi brousse, su minibus stracarichi alla deriva su strade dissestate e persino nei lussuosi alberghi per turisti, risuonano, senza soluzione di continuità, i potenti bassi che caratterizzano questo genere musicale. Al limitare della savana potrà capitare di chiedere informazioni a un pastore che indossa una maglietta con l’immagine di Tupac o di 50 Cents. Da tutte le radio i DJ annunciano imminenti esordi di nuovi gruppi, anche se nella sola capitale un censimento informale calcola che sono attivi già circa quattromila gruppi rap (oggi quello senegalese, come numero di interpreti, è terzo al mondo, dietro solo agli States e alla Francia). Non c’è quindi da stupirsi se un giovane immigrato, al momento di lasciare il suo paese, nella valigia oltre al burro di karite e ai suoi sogni ci infila anche la passione per l’hip hop. Gora è cresciuto tra St. Louis (la città del più importante festival del jazz in Africa) e il sud del paese. I suoi genitori, quando lui aveva 4 anni, emigrarono in Italia, lasciandolo prima in compagnia della nonna, poi di uno zio. Una storia simile a quella di molti figli di immigrati, che si ritrovano come fratelli una sfilza di cugini. Nel 1993 sua madre decide, contro il volere del padre, di portarlo in Italia. Non vanno in una grande città del nord, ma a Bovalino, piccolo borgo della provincia calabrese. Due anni dopo il trasferimento a Novara, e qui le prime esperienze musicali che lo porteranno a diventare il frontman della reggae band dei Rastaflow. Gora fonda il “Blackteam”, un team che si occupa di organizzare party hip hop. Da lì a iniziare una carriera rappettara il passo è breve. Questo è il suo album di esordio. Canzoni crude, ma sincere, ricche di influenza R&B. A fargli compagnia alcune importanti figure del rap alternativo italiano ((Esa, DanT, Tormento). Il lavoro è dedicato ad Abba, il ‘fratello’ di colore ucciso la scorsa estate a Milano da un negoziante per futili motivi. Con lui parlava di vu cumprà, di sogni, di speranze, di amore, di guerre tra poveri, di stranieri… le stesse cose di cui ‘rappa’ (in italiano) nelle 18 canzoni dell’album. Gora è un vicino di casa da conoscere. 33


Per saperne di più Palestina

li palestinesi, scomparso nel 2003, è una raccolta degli scritti che l’autore ha dedicato al ‘dopo Oslo’, il processo di pace conclusosi con gli accordi tra israeliani e palestinesi del 1993. Per Said è in quel periodo che sono stati gettati i semi dei frutti avvelenati che hanno portato all’impasse attuale.

FILM LIBRI MICHEL WARSCHAWSKI, Programmare il disastro, Shahrazad Edizioni, 2009 Warschawski è un intellettuale israeliano da sempre impegnato nella ricerca di una pace giusta in Palestina e Israele. E’ membro dell’Alternative Information Center, ong israelo-palestinese. Il suo testo scritto dopo le elezioni legislative palestinesi del gennaio 2006 (con una prefazione per l’edizione italiana) è un instant book che spiega l’intreccio delle dinamiche che hanno portato Hamas a vincere le elezioni. Ma accanto a questo Warschawski esamina il dibattito in atto in Israele e le diverse forme di aggregazione politica tra la gioventù israeliana e della sinistra anticolonialistica israeliana che si batte contro la guerra e l’occupazione anche in rapporto con il movimento sociale internazionale. ILAN PAPPÉ, Storia della Palestina moderna, Einaudi, 2005 Pappé, storico israeliano, è tra i fondatori del movimento dei Nuovi Storici che hanno come fine scientifico ed etico quello di sottoporre a un accurato riesame basato su documenti la documentazione orale che ha prevalso nel tracciare le linee della ricostruzione storica relativa alla nascita dello Stato d’Israele e del Sionismo. Le sue posizioni gli sono costate spesso l’ostracismo dei suoi compatrioti. BENNY MORRIS, Vittime, Storia del conflitto arabo – sionista, Rizzoli, 2001 Anche lui nel movimento detto della Nuova Storiografia, se ne allontana successivamente. Questo libro, però, racconta come il conflitto in Medio Oriente non sia cominciato nel 1948 con la proclamazione dello Stato di Israele, ma risale agli ultimi decenni dell’Ottocento, quando nacque il movimento sionista fondato da Theodor Herzl. Con uno sforzo di oggettività Benny Morris ricostruisce le fasi del conflitto, ne analizza i presupposti ideologici, dà conto delle profonde differenze religiose, etniche e culturali fra gli emigrati ebrei e le popolazioni arabe che da decenni convivono in Palestina. ILAN PAPPÉ, La pulizia etnica della Palestina, Fazi editore, 2008 Contestando la vulgata tramandata ufficialmente, che racconta di come i palestinesi abbiano volontariamente abbandonato le loro case nel 1948 alla nascita dello stato di Israele, Pappé (nato ad Haifa nel 1954 da genitori scampati alla Shoah) ricostruisce tramite documenti desecretati il processo di vera e propria pulizia etnica pianificato a tavolino dalla leadership ebraica del tempo. Assedi, bombardamenti di villaggi e centri abitati, incendi di case, proprietà e beni, espulsioni e demolizioni e infine la posa di mine tra le macerie per impedire agli espulsi di ritornare: questa la strategia pianificata e messa in atto nel 1948 secondo la ricostruzione di Pappé che, rifacendosi alle definizioni ufficiali di pulizia etnica, accusa quindi Israele di aver compiuto un crimine contro l’umanità e di essere moralmente e politicamente responsabile della cacciata dei palestinesi. EDWARD SAID, «Fine del processo di pace. Palestina e Israele dopo Oslo», Feltrinelli, 2002 Questo saggio di Said, uno dei più noti intellettua34

MOHAMMED BAKRI, Jenin, Jenin, 2002 Un documentario che descrive gli effetti della prolungata aggressione israeliana alla città palestinese di Jenin, nel nord della Cisgiordania. L’attacco, durante la Seconda Intifada nel 2002, si è concluso con la distruzione totale del quartiere centrale del campo profughi, un chilometro quadrato fitto fitto di abitazioni in cui vivevano stipate circa 15mila persone. Un documento duro, incentrato sulle testimonianze delle vittime, un grido d’accusa corale contro la brutalità dell’occupante. Iyad Samoudi, produttore esecutivo del film, è stato ucciso dall’esercito israeliano il 23 giugno, al termine delle riprese. JAMES LONGLEY, Gaza Strip, 2002 Un documentarista statunitense, durante l’inverno del 2001, segue con la sua videocamera l’insieme di eventi e persone che seguono le elezioni del primo ministro israeliano Ariel Sharon nella Striscia di Gaza. L’inasprirsi della Seconda Intifada, la distruzione delle case, le vittime dei bombardamenti, viste attraverso gli occhi del tredicenne Mohammed Hejazi; fino all’incursione di Khan Younis, che segnerà l’inizio della rioccupazione delle aree autonome palestinesi. AVI MOGRABI, Z32, 2008 Film documentario che raccoglie la testimonianza di un ex militare israeliano. Il soldato racconta alla sua fidanzata l’azione di rappresaglia a cui ha partecipato costata la vita a due poliziotti palestinesi. Z32 indica il codice del soldato nell’archivio dall’associazione Breaking the silence, associazione di ex combattenti che hanno deciso di rompere il muro di omertà attorno alle violenze commesse nei Territori Occupati palestinesi. ERAN RIKLIS, «Il giardino dei limoni», 2009 Storia di Salma, vedova palestinese che vive da sola in un villaggio della Cisgiordania, prendendosi cura di un giardino di limoni lasciatole del padre. Il ministro della Difesa israeliano si trasferisce in una villetta che costeggia il terreno: arrivano esercito e servizi segreti, recinzioni di metallo e cecchini. Ma non basta: il limoneto guarda “minaccioso” la villa del ministro, dice l’intelligence, bisogna raderlo al suolo. Una piccola storia, che racconta il grande dramma degli espropri per la ‘sicurezza’ d’Israele. SAVERIO COSTANZO, «Private», 2004 Mohammed è un insegnante d’inglese, la cui casa viene sequestrata dai militari israeliani che la usano come base operativa. Il dramma di un uomo e della sua famiglia, che vuole star fuori dalla guerra. Ma la guerra entra nella sua vita. HANY ABU ASSAD, «Paradise Now», 2005 Due amici palestinesi di Nablus. Il lento precipitare dalla amara quotidianità di una vita senza slanci, senza prospettiva, all’attentato suicida in Israele. A tratti grottesca, la storia di un dramma individuale e collettivo, che lascia appena percepire.

pubblica notizie e informazioni culturali, politiche e sociali sulla Palestina, dirette al mondo della comunicazione giornalistica, della politica, della cultura e dell’associazionismo italiani, e ai semplici navigatori. http://www.alhaq.org Al-Haq è un’organizzazione non governativa con sede a Ramallah. Al-Haq, grazie al lavoro di 32 tra giuristi, ricercatori e investigatori sul campo, monitora quotidianamente le violazioni dei diritti umani nei Territori Occupati palestinesi, commessi da Israele ma anche dall’Autorità Nazionale palestinese. http://www.shovrimshtika.org/index_e.asp L’associazione Breaking the Silence è nata anni fa per raccogliere, e divulgare, le testimonianze dei militari israeliani che alla fine del servizio militare decidono di raccontare cosa accade nei Territori Occupati. Storie di brutalità e violenza, abuso e violazione dei diritti, raccontati in prima persona. http://www.haaretz.com Haaretz è il più importante quotidiano israeliano. Vicino alla sinistra, si caratterizza per essere una voce ritenuta libera nel panorama dell’informazione d’Israele. http://www.btselem.org/index.asp Il sito di B’Tselem, un’associazione fondata nel 1989 da noti giuristi, parlamentari, giornalisti ed esponenti della società civile. B’Tselem, The Israeli Information Center for Human Rights in the Occupied Territories, si occupa di tutela legale e di monitoraggio delle violazioni dei diritti umani dei palestinesi. http://www.palestinemonitor.org/spip Il sito di Palestine Monitor, organo d’informazione legato alla organizzazione non governativa Medical Relief, fondata e diretta dal dottor Mustafà Barghouti. http://electronicintifada.net/new.shtml Electronic Intifada è un sito indipendente, che racconta il conflitto dal punto di vista della popolazione civile. http://www.jpost.com Il sito del Jerusalem Post, quotidiano vicino alla destra israeliana. http://www.sderotmedia.com Sito di divulgazione delle storie delle persone che abitano a Sderot, la città israeliana più vicina alla Striscia di Gaza, obiettivo del lancio dei razzi Qassam. http://www.palestine-info.co.uk Il sito ufficiale di Hamas.

SITI INTERNET http://www.infopal.it Infopal è un’agenzia stampa online, edita da un’associazione senza fini di lucro che

http://english.wafa.ps Il sito di Wafa, agenzia stampa vicina all’Autorità palestinese e quindi sulla linea di Fatah.


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