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mensile - anno 4 numero 2 - febbraio 2010

3 euro

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

L’Italia siamo noi

Palermo Rosarno Milano Italia Mantova Marche Foggia Italia Migranti

Diritti ritrovati Cattivo esempio Stranieri sui banchi di scuola “Sempre più intolleranti”, intervista a Pap Khouma Vijay Kumar Il mondo in un palazzo Sono io quello sfruttato Seconda generazione Cinque stelle di lager

Inserto speciale: 24 ore senza di noi, 1 marzo 2010 Portfolio: eritrei a Milano



Non può esistere una guerra contro il terrorismo. La guerra è terrorismo Howard Zinn

L’editoriale

febbraio 2010

di Marco Formigoni

mensile - anno 4, numero 2

Perché non lo avete fatto? Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Christian Elia Luca Galassi Alessandro Grandi Benedetta Guerriero Enrico Piovesana Nicola Sessa Stella Spinelli

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Blue & Joy Gabriele Del Grande Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Nicola Falcinella Gabriella Kuruvilla Licia Lanza Paolo Lezziero Sergio Lotti Giampaolo Paticchio Stefania Ragusa Marco Rovelli Gianluca Ursini Seble Woldeghiorghis

Progetto grafico Guido Scarabottolo Oliviero Fiori Segreteria di redazione Silvina Grippaldi

Amministrazione Annalisa Braga Redazione e amministrazione Via Bagutta 12 20121 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net

Hanno collaborato per le foto Germana Lavagna Francesco Pistilli Luca Spano/OnOff Luca Vannicola

Stampa Graphicscalve Loc. Ponte Formello - 24020 Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 5 febbraio 2010

Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Bagutta 12 - 20121 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07

Pubblicità Foto di copertina: Via Bagutta 12 Palermo 2010. Foto di Germana 20121 Milano Lavagna per PeaceReporter Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net

ono un papà preoccupato. Mio figlio ha 10 anni da pochi giorni. Sono preoccupato come tanti padri per quello che potrebbe succedergli quando tra qualche anno uscirà la sera; l’alcool, la droga, l’auto. Quando torni? Stai attento, non fare stupidaggini. Ti fidi, è tuo figlio…Non puoi mica rinchiuderlo perché hai paura. Ma se diventare grandi non è facile, vederli crescere fa anche un po’ paura. Ma oggi sono preoccupato perché il mio ragazzo ha la pelle scura. Guardo le foto di Abdul Guiebre sui giornali e gli occhi si spostano su quelle di mio figlio, qui sulla mia scrivania. Come sarà tra 5 o 6 anni? Ma soprattutto cosa avranno già sentito le sue orecchie? Comincia a succedere già oggi. Quest’estate in spiaggia, mentre lui giocava con altri bambini, un signore scocciato gli ha detto negro di merda. Ha fatto finta di non sentirlo; ma solo finta, perché poi me ne ha parlato e mi ha detto che ha pensato che quel signore fosse uno stupido ignorante. La cosa che mi ha fatto più male è che ho capito che si sta abituando alla stupidità, all’ignoranza. La prima volta che era successo che qualcuno lo apostrofasse con riferimenti al suo colore era stato un bambino: “Sei marrone come la cacca”. Erano stati pianti e lacrime. Qualche anno prima un tale l’aveva chiamato Bin Laden, ma per lui appena arrivato dal Brasile era una delle tante cose nuove e incomprensibili che gli stavano capitando per la prima volta, come la neve, gli spaghetti e “o mia bela madunina”. Stasera tornerò a casa e gli racconterò di Abdul, leggeremo insieme il giornale e cercherò di spiegargli che cosa è successo. Ma non sono tanto sicuro di riuscirci. Perché dovrei dirgli che oggi ci sono persone che hanno paura di quelli con la pelle scura come la sua. Ma la colpa, amore mio, non è del colore della pelle, piuttosto di quello che quelle persone hanno nella testa e nel cuore. E a quelle persone bisogna spiegare che il colore della pelle non c’entra. Ma non basta che glielo spieghiamo noi, il compito è soprattutto di chi ci governa. E a quel punto mi chiederà perché non lo hanno ancora fatto. Se lo avessero fatto, forse quel ragazzo sarebbe ancora vivo. Sindaco Moratti, le giro questa domanda di mio figlio. Perché non lo avete fatto?

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Due brevi note. Abbiamo deciso di ripubblicare la lettera aperta che il nostro Marco Formigoni scrisse nel settembre del 2008 al sindaco di Milano subito dopo l’omicidio di Abdul Guiebre, un cittadino italiano con la pelle scura, ad opera dei gestori di un bar a cui Abdul e i suoi amici avevano sottratto qualche dolce. Non poteva non esserci, Marco, in questo numero speciale. Chiediamo umilmente scusa ai lettori: nello scorso numero sono andate in stampa delle pagine che erano ancora in bozza. Milano a pagina 14

Italia a pagina 26 e 32

Marche a pagina 28

Distribuzione in libreria Joo Distribuzione - via F. Argelati 35, 20143 Milano - Tel 028375671

Foggia a pagina 30

Servizio abbonamenti e arretrati Picomax S.r.l. Via Borghetto 1 - 20122 Milano. Tel 0277428040 - fax 0276340836 Informativa abbonamenti: Ai sensi dell’Art. 13 del D. Lgs. 196/03 informiamo che i dati forniti saranno trattati da Picomax Srl in qualità di responsabile del trattamento, nonché da Dieci dicembre soc. coop. a r. l. titolare del trattamento, per le seguenti fiinalità: invio abbonamento della rivista PeaceReporter e invio di materiale promozionale inerente i prodotti di Dieci dicembre soc. coop. a r. l. Gli abbonati hanno diritto di esercitare i diritti di cui all’Art. 7 del D. Lgs. 196/03 inviando una email a privacy@picomax.it

Mantova a pagina 25

L’informativa completa è disponibile sul sito di Picomax: www.picomax.it

Palermo a pagina 4

Scritti, disegni e fotografie anche se non pubblicati non verranno resi.

Rosarno a pagina 10

Migranti a pagina 34 3


Il reportage Palermo

Diritti ritrovati Di Alessandro Grandi “Io non voglio che i miei amici facciano lo stesso viaggio che ho intrapreso io. Non voglio che qualche giovane, per inseguire un sogno o per scappare da una guerra, affronti pericoli tali da mettere a repentaglio la propria vita. Io mi chiedo ancora oggi: per cosa lo sto facendo?”. uesto pensa Ibrahim ivoriano di circa 35 anni che per un violento attacco di mal di denti si mette in fila come gli altri pazienti nella sala d'attesa del poliambulatorio di Emergency, l'organizzazione non governativa fondata da Gino Strada e Teresa Sarti, che si occupa di dare assistenza sanitaria gratuita a chi ne abbia necessità. L'azione umanitaria di Emergency dettata dal rifiuto della guerra, è riconosciuta universalmente. In Afghanistan l'Ong curato gratuitamente milioni di persone. Così in Cambogia, Sierra Leone e Sudan. Ma il discorso di Ibrahim non giunge da uno di questi martoriati paesi. Le sue parole arrivano da Palermo, Italia, capoluogo della Sicilia, terra che per decenni è stata uno dei simboli della migrazione italiana verso il nuovo continente e che oggi è il punto d'approdo per migliaia di persone in fuga da guerre, carestie e situazioni sociali degradanti. Vengono quasi tutti dal mare. Con loro portano un bagaglio che difficilmente può restare chiuso in una valigia. Hanno storie diverse che poi alla luce dei fatti sembrano un po' tutte uguali. C'è chi è arrivato a bordo di una barca dopo giorni passati in balia delle onde. E chi ha dovuto attraversare deserti conoscendo morte e disperazione. Tutti hanno in comune la ricerca della libertà. E di una vita migliore. Sono i cosiddetti clandestini, parola che nel 2010 non dovrebbe più esistere ma è sulla bocca di tutti quotidianamente. Arrivano al poliambulatorio grazie al passaparola. Il posto è sicuro. Affisso su quasi tutte le pareti infatti c'è un enorme cartello che sintetizza uno dei modus operandi dell'Ong di Strada: “Io non ti denuncio”. Ed è scritto in tutte le lingue 'migranti' più conosciute: spagnolo, arabo, inglese e francese. Una garanzia di rispetto per tutte quelle persone bisognose di aiuto medico. Un punto sanitario di questo tipo è molto utile specie in una regione divenuta nel giro di pochi anni uno degli snodi più imponenti dell'industria malavitosa che controlla il transito dei clandestini.

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l Poliambulatorio di Emergency si trova all'interno della più grande Azienda Sanitaria Locale della Sicilia, quella che controlla anche Lampedusa. “Ci hanno accolto con enorme piacere al di là di tutte quelle che sono le vicende politiche che hanno interessato la città o la regione” racconta dal suo posto di comando del Poliambulatorio Francesca Mercadante. “E' normale, poi, che la contrattazione con le istituzioni su cosa ci sarebbe servito per intraprendere il progetto sia stata lunga. In realtà abbiamo avuto tutto ciò che ci serviva. Inoltre, in questi anni abbiamo sviluppato una serie di rapporti specifici con i vari uffici competenti indipendentemente dal fatto che fossero legati alle istituzioni. Ad esempio lavoriamo da tempo con l'ufficio del comune che si occupa di Rom e migranti che si occupa di permessi e di sociale. La collaborazione, però,

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non è partita per via del loro legame con le istituzioni, ma perché lavorare con loro è utile per Emergency. In effetti rapporti con il comune non ne abbiamo. La cosa è positiva. Non ci si confronta mai con le istituzioni ma con le persone, con gruppi che hanno le nostre finalità” aggiunge Francesca. n Poliambulatorio, quello di Emergency che a fine 2009 ha garantito oltre 32mila prestazioni a persone che ne hanno fatto richiesta. Quasi tutti immigrati, quasi tutti senza documenti né lavoro. “Vengo dal Sudan” dice con aria abbastanza preoccupata e guardandosi frequentemente intorno Saul appena entrato nel poliambulatorio di Emergency a Palermo. “Se mi garantisci che non scrivi il mio nome e che non riprendi il mio volto allora parlo con te”. La paura è tanta in questi giovani uomini e donne. Hanno paura soprattutto di dover tornare indietro nei loro paesi d'origine. “Io ho paura. Ho avuto molti problemi in Sudan. Soprattutto in città anche se oggi la situazione è leggermente migliorata. Se torno, questa volta mi fanno fuori. E se parlo, parlo troppo intendo e loro mi riconoscono, potrebbero far passare dei brutti momenti anche ai miei familiari. Non voglio in nessun modo che la mia famiglia possa pagare al posto mio”. Saul ha avuto problemi politici. “Tutto è un problema politico in Sudan. Qualsiasi cosa riguarda la corruzione e la violenza. Io me ne sono dovuto andare anche se avevo la fortuna di vivere in città. Il viaggio è stato lungo e faticoso. Ho visto la morte in faccia più volte. Ho lasciato lungo il percorso molti cadaveri sia maschi che femmine. Una era incinta. Lo sapevamo che era pericoloso. Sapevamo tutto tutti. L'unica cosa che il gruppo in viaggio non conosceva era la data in cui saremmo partiti dalle coste della Libia verso l'Italia. Aspettavamo un cenno, una telefonata da parte dei nostri traghettatori. Solo a cose pronte il gruppo sarebbe stato avvertito che era giunto il momento di partire. La traversata è stata abbastanza complicata. Non tanto per le condizioni del mare. Quelle erano buone. I problemi sono arrivati non molto tempo dopo la partenza. Il caldo pressante, la mancanza di acqua, i lamenti dei miei compagni di viaggio si sono sommati alla cosa peggiore che potesse capitare: l'abbandono da parte dei trafficanti della piccola imbarcazione”. Non solo hanno lasciato in mezzo al mare senza cibo né acqua decine di persone. Li hanno lasciati in balia della morte, o della vita. Li hanno lasciati così al loro destino. Un epilogo che poteva costare moto più caro delle migliaia di dollari lasciati nelle mani dei trafficanti. “Già nel deserto quando abbiamo iniziato il viaggio, qualcuno non ce l'ha fatta. In molti sono morti. Tanti corpi senza vita già giacevano nell'area.

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Donna al Poliambulatorio di Emergency. Palermo 2010. Foto di Germana Lavagna per PeaceReporter


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Lo spettacolo che ci si apriva davanti allo sguardo era terribile. Quando stavamo in mezzo al mare ho avuto la sensazione che ciò che ci stava aspettando fosse la morte. Non aspettavo altro. Credevo proprio che non sarei arrivato a raggiungere la salvezza. Per fortuna una nave italiana ci ha avvistati e aiutati. Immediatamente ci hanno dato acqua, ne avevamo immediato bisogno e qualche cosa da mangiare. Senza il loro soccorso non saremmo mai sopravvissuti. Se ripenso a quel viaggio dannato mi rattristo molto”. a vita quotidiana al Poliambulatorio non è tutta rose e fiori. Ci sono difficoltà di diversa natura. “La cosa più difficile è parlare con i pazienti. É molto difficile rapportarsi con i cittadini del Bangladesh perché hanno difficoltà ad imparare la nostra lingua. Con altri invece, ad esempio i romeni, le cose sono più semplici”. In ogni caso sono ben altri i problemi che lo staff di Emergency è stato costretto ad affrontare. “In tutta sincerità quando abbiamo iniziato a rapportarci con le persone che ci chiedevano supporto sanitario abbiamo provato una sorta di imbarazzo. Troppo spesso ci sono state raccontate storie di umiliazioni subite da queste persone da parte di nostri connazionali. Lunghe contrattazioni per la cura di un dente. Sono le piccole mortificazioni quotidiane subite da questa gente che ci fanno vergognare spesso dei nostri connazionali” conclude Francesca. Si entra poi nella sfera privata. “Certo, vedere poi nelle case degli amici ragazze del Ghana oppure filippine che badano ai bambini o fanno i mestieri di casa mi fa stare male. Mi sento a disagio e ho la percezione che tutto quello che sto facendo non sia sufficiente a compensare la situazione da cui arrivano, che mediamente è drammatica, e nemmeno quella che vivono a Palermo che senza ombra di dubbio non è da attribuire a loro. Mi imbarazza vivere in un Paese dove il livello di civiltà è così altalenante” aggiunge Francesca. Intanto lo staff del poliambulatorio conferma che dalla sua apertura è aumentata di molto la presenza di italiani. “Funziona sempre con il passaparola. Il ghanese lo dice al suo connazionale e l'italiano fa lo stesso. Sicuramente negli ultimi periodi è capitato spesso che ci contattassero i Sert o le case di accoglienza per gli alcolisti. Strutture che fanno riferimento a noi”. Storie di vita difficile che si intrecciano senza mai sfiorarsi all'interno del Poliambulatorio di Emergency. “E' il passaparola la cosa vera che funziona. Queste persone hanno comprensibilmente una grande paura. Non hanno documenti. Arrivano da Paesi molto diversi dal nostro. Hanno paura di essere presi e rimpatriati. La campagna 'Io non ti denuncio' ci ha molto aiutato”, racconta la responsabile del centro. Said, cittadino marocchino, sguardo furbo, capelli corti ben pettinati e abbigliamento all'ultima moda, è l'unica voce fuori dal coro. Si siede e mentre giocherella con le stringhe delle sue ultra tecnologiche calzature da jogging e inizia a raccontarmi la sua storia. “Io lavoravo in Marocco. Poi ho deciso che era arrivato il momento di andare via e iniziare una nuova avventura. Nessuno mi ha fatto attraversare confini, mari o frontiere. Nessuno mi ha imposto il pagamento di cifre per trasportarmi in Europa. Ho fatto tutto da solo. Sono arrivato a Palermo e mi sono trovato subito a mio agio. Che ne sappia io nessuna delle persone che ho conosciuto si è imbarcata per un viaggio simile. Molte storie sono inventate. Soprattutto in Italia dove in questo momento conviene dire che il cittadino straniero è pericoloso. Soprattutto se si tratta di africani e maggiormente se si tratta di nordafricani. Senza ombra di dubbio il fatto di essere nato in un Paese nordafricano, che per voi italiani significa musulmano, non mi ha agevolato. Sono sempre stato considerato un poco di buono, uno spacciatore. A Palermo, però, mi trovo bene: abbiamo molte cose in comune noi marocchini e i gli abitanti di questa splendida città”. Nonostante una sprizzante sicurezza nel raccontare una serie di bugie, se ne accorge anche lui che non gli si crede proprio, una verità assoluta che abbraccia tutti i cittadini senza documenti che abbiamo incontrato la dice: “A Palermo non c'è lavoro e la vita quotidiana è difficile”. Il lavoro manca. La crisi non ha fatto altro che peggiorare la situazione in un'area già depressa da decenni di disoccupazione. “Non c'è lavoro, non sappiamo come fare. Senza un lavoro non possiamo avere i documenti necessari per la nostra regolarizzazione”. Dice sorridente una giovane

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donna romena dall'aria molto sicura di sé. E' arrivata alcuni anni fa con la speranza di trovare un lavoro per poter mandare a casa alla sua famiglia un po' di denaro. “La vita in Romania è meno costosa rispetto all'Italia ma ci sono cose che devo comprare qui a Palermo e poi mandarle a casa perchè là non si trovano”. Anche lei come moltissime altre donne romene ha dovuto combattere contro la crudeltà dei trafficanti di clandestini. “Avevo trovato un annuncio secondo cui in Italia ci sarebbe stata la possibilità di lavorare da subito. Mi sono messa in contatto con l'inserzionista che subito mi ha chiesto una cifra di denaro spropositata. Ho pagato. Avevo dei dubbi ma la voglia di venire in Italia era troppa. All'inizio non me ne sono preoccupata. Ero felice. Finalmente partivo, andavo a stare meglio. E potevo anche guadagnare dei soldi per aiutare la mia famiglia”. Una storia che all'inizio sembra la realizzazione positiva di un sogno. Ben presto però le cose cambiano e si rivelano per quello che sono. “Già alla prima frontiera abbiamo pagato molti soldi alle guardie per lasciarci passare senza avere problemi. In quel periodo il mio paese non era ancora parte dell'Unione Europea e la corruzione alla frontiera era cosa di ordinaria amministrazione. Era evidente una sorta di accordo fra i nostri trasportatori e i doganieri. Dovevamo capire allora ciò a cui stavamo andando incontro. Ma la voglia di partire e lasciare le difficoltà alle spalle era troppo grande”. Tutto questo non è nulla in confronto a ciò che sta per accadere alla giovane donna. “Arrivati in Italia un'altra donna romena ci ha preso in consegna. Credevamo fosse il contatto che ci avrebbe portato a ottenere un lavoro. In effetti di un lavoro si trattava: una casa di appuntamenti frequentata da prostitute straniere e clienti italiani. Mi è cascato il mondo addosso. Sono riuscita a andarmene senza non poche difficoltà”. on è la sola Irina che ha dovuto affrontare viaggi assurdi. Anche Nicolae e Rosa romeni entrambi, hanno fatto il diavolo a quattro per potersi stabilire in Italia. “E' stata difficile ma adesso ci troviamo bene” dice Rosa mentre attende il suo turno per essere visitata dal ginecologo che sta monitorando settimana dopo settimana la gravidanza della donna. “E' il nostro secondo figlio. Il Poliambulatorio ci è stato di grande aiuto. All'inizio non avevamo documenti e questo era l'unico posto in cui ci garantivano assistenza sanitaria senza chiedere nulla in cambio. E senza chiamare la polizia o i carabinieri. Sono bravissimi e ringraziamo Emergency per questo aiuto. Adesso poi che hanno aderito alla campagna 'Io non ti denuncio' abbiamo notato che ci sono molte più persone che richiedono i servizi”. Nel frattempo dal grande giardino pieno di alberi da frutto, soprattutto mandarini, provengono strani rumori. Potrebbe essere il vento che arriva dal mare a scuotere le foglie delle piante. Oppure qualche gatto che approfittando della situazione si gusta un buon pasto a base di frutta. Ma non è così. Curiosando bene in mezzo ai rami ci si accorge che non si tratta di natura o animali. E' un uomo, Jalil, marocchino di circa 30 anni. Non ha bisogno dell'assistenza del Poliambulatorio. Quando sente rumori arrivare dalla sua parte si ferma. Ancora non è ben visibile. Quando mi paleso davanti al piccolo albero di mandarini lui cede, scende dalla pianta e viene verso di me con in mano due sacchetti di plastica pieni di mandarini. Lo sguardo è quello di un bambino sorpreso con le mani nella marmellata. Chissà, forse in un primo momento Jalil ha pensato che fossi una guardia, un medico del Poliambulatorio o chissà chi altro. “Non sto rubando” dice. Non ci sono dubbi. Si sta solo impossessando di ciò che la natura regala. Non deve entrare al Poliambulatorio. Ha solo accompagnato un amico marocchino afflitto da un terribile mal di denti”. “Ho visto i mandarini e ho pensato che se ne avessi preso qualcuno non sarebbe successo nulla di male. Sai, a Palermo non c'è lavoro e si fa fatica a mangiare. Questi mandarini mi sfamano e se ne avanzano un po' cerco di andare a Ballarò (uno dei mercati della città, ndr) e li rivendo. Varranno anche pochi euro ma a me servono per mangiare” racconta Jalil giustificando il possesso dei frutti. Ma in fondo all'anima Jalil un sogno ce l'ha: “Vorrei avere un futuro. Tutti, qui. In questo momento penso di non averne”.

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In alto: Dal dentista. In basso: A consulto. Palermo 2010. Foto di Germana Lavagna per PeaceReporter


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RIPUDIO LA GUERRA E SOSTENGO EMERGENCY:: EMERGENCY LA MIA IDEA DI PACE. PACE. ^d hdiidhXg^iid$ ^d hdii dhXg^iid$V V

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EMERGENCY


I cinque sensi

Udito Idiomi provenienti da ogni angolo del mondo s'intrecciano nella sala d'attesa del Poliambulatorio di Palermo. Frasi veloci e armoniche pronunciate in arabo, si mescolano con le sonorità romene. Nomi francofoni giunti dall'Africa gentilmente sussurrati dai medici del Poliambulatorio si abbracciano con altri nomi marocchini, tunisini, sudanesi, romeni e bengalesi, in una torre di Babele unica e inconfondibile. All'interno delle mura del Poliambulatorio, però, tutti si sforzano di parlare una sola lingua. E quello che ne esce è un suono, a volte incomprensibile, che però ha un grande significato: l'integrazione.

Vista Silenziosi e composti e in fila ad attendere il loro turno per una visita medica. Guardinghi. Così si presentano gli immigrati a Palermo. Hanno paura, molti si loro sono senza documenti. Si guardano intorno in continuazione. Sembrano

distratti dalla paura di essere visti da qualcuno. Se ne vedono a decine, centinaia in città. Ma sono invisibili ai più. Quasi una presenza ingombrante, fastidiosa. I loro occhi, però, raccontano anche la storia della loro vita, spesso drammatica, tesa, ricca di eventi drammatici. E la lucentezza e l'allegria inevitabilmente svaniscono.

Gusto “Non dimenticherò mai il sapore dell'acqua di mare. Un gusto impossibile da accettare. Ma in mare faceva troppo caldo e l'unica acqua rimasta era quella del mare. Speravo piovesse: avremmo rischiato la vita ma sarebbe finito tutto velocemente. E non avremmo patito la sete. E soprattutto non saremmo morti disidratati” racconta Yanik, cittadino sudanese giunto a Palermo dopo il più classico dei viaggi delle carrette del mare

Olfatto

Palermo sono simili a quelli delle loro città d'origine, dove hanno lasciato sogni, speranze, cuore. “A casa mia è pieno di alberi di mandarino” racconta un ragazzo marocchino che stacca frutta da un arbusto di dimensioni importanti. Respirano e sentono gli odori che i fantastici giardini siciliani regalano all'olfatto e ricordano i loro luoghi natii. “Anche per questo ci sentiamo un po' a casa” dice Jalil.

Tatto Le mani ruvide, ruvidissime. Sia quelle degli uomini che quelle delle donne. La sensazione è strana quando si stringono, sembra di toccare carta vetrata. Sono così per via del duro lavoro quotidiano durato anni e anni nei loro paesi d'origine: pescatori, contadini, raccoglitori di ferro e legno, falegnami o coraggiosi portatori d'acqua. Stessa sorte per le donne: ore e ore passate a lavare indumenti nelle acque dei fiumi o dei canali hanno contribuito a rendere le loro mani forti e ruvide.

Gli odori che gli immigrati incontrano a 9


Il reportage Rosarno

Cattivo esempio Di Gianluca Ursini “Cugineeeetto- hoo! Cugineeettoooo…. Dove sei?” La mazza percuote la rossa terra della Piana di Gioia Tauro, punteggiata di aranci e mandarini; tra i filari di agrumi ogni tanto una quercia solitaria, un pioppo basso, radi cespugli dove Amadou si è andato a nascondere, scappando alla ronda che lo bracca per pestarlo. l ragazzo del Burkina Faso deve essere lì, tra la macchia con la faccia schiacciata a terra, a pregare che i calabresi non vedano i piedoni spuntare da un cespuglio, come ci spiegherà ore dopo all’Opera Sila, il lager dove divide una tenda gelida con altri burkinabè disperati. “Cugineeettoooo? Vieni qua che c’è una sorpresa per te...” è la cantilena che ripete Totò a bassa voce, capelli imbrillantinati e giubbotto di pelle, mentre con altri esaltati si aggira nella macchia con la mazza che sbatte in terra a intervalli regolari, per instillare il puro terrore nel ‘cugino’, il ragazzo dalla pelle nera venuto dall’altra parte del mare. Fino a pochi anni fa i ‘cugini’ erano accolti come parenti nemmeno troppo lontani. Ora sono preda da caccia grossa. Sembra Shining, ma è Italia, anno 2010. Non siamo nei corridoi dell’Hotel Overlook dell’incubo di Stephen King e l’invasato che cerca tra i cespugli spranga in mano non è Jack Torrance con l’ascia nell’albergo innevato, ma un cotraro (ragazzotto) di Rosarno deciso a vendicare ‘i himmini’, le donne del paese aggredite dai migranti poche ore prima. Totò è circondato da altri adolescenti come lui e perlustra un fondo con poche decine di alberi dove Amadou si è rifugiato, saltando il muretto divisorio dalla Statale 18 tra Rosarno e Gioia. “Chi fici, satau?” Che ha fatto, ha saltato? “Satau”. I ragazzi si rivolgono a una massaia affacciata al balcone, in contrada Bosco, intorno la favela Opera Sila, per chiederle dove sia finito il ‘’marocchino’’; “satau il muretto, è entrato in quel giardino (così i calabresi chiamano i campi), acchiappatelo, ‘mmazzateli tutti ‘ssi bastardi!”. Non è l’unico caso, anche 4 chilometri più in là, in pieno paese, nei dintorni della stazione, i ragazzotti che bivaccano al bar Suprema si sono radunati per i raid punitivi, richiamando altri cotrari da Rizziconi e san Ferdinando, paesoni limitrofi; un insieme da 25mila abitanti. Tra di loro si sono ritrovati oltre 3mila migranti, per la raccolta degli agrumi e delle olive, che da sempre vede in Rosarno il centro dei braccianti a giornata, capitale del caporalato. I cotrari sulla Nazionale saranno duecento: ammonticchiano i cassonetti rovesciati il giorno prima dalla manifestazione dei migranti; formano barricate; bisogna fermare gli sbirri. Con ventiquattro ore di ritardo, le questure di Gioia e Reggio si sono rese conto della rivolta in corso e richiamano reparti da tutta la regione, addirittura da Catania. Tutta Rosarno nel venerdì 8 gennaio di follia e 'caccia al negro' esplode di sirene, pantere dei carabinieri di Vibo Valentia che provano a forzare le barricate delle ronde di autodifesa, e cariche fasciste appena si avvista il nemico. “Nu nivuru, nu nivuru, veniti i ssa banda!” (Un nero, un nero, venite qua!). la signora appostata al balcone richiama la squadraccia sulla via principale;

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svoltato l’angolo, in venti si lanciano su tre malcapitati ghanesi per strada da soli; nessuno li aveva avvisati di come quel venerdì non fosse igienico portare in giro la propria pelle nera. Comincia il pestaggio, ma prima che le spranghe possano spaccare le ossa si sentono le grida dei celerini che accorrono a strappare i malcapitati dal linciaggio. “Oi nenti cucciardi (allodole) e marbizzi (tordi), oi gghjmu a nivuri (oggi cacciamo neri)”, scherza un adolescente dalla pelle scurissima fuori dal Suprema, tra le risate generali: qui in molti hanno le carabine in casa, la tradizione venatoria è la più radicata. L’ilarità cede il passo all’adrenalina da caccia; da un altro vicolo si sentono i passi di migranti in fuga che hanno fiutato il pericolo. La ronda razzista parte in quarta; qualcuno nota i cronisti che li seguono con telecamere e fotocamere; “Tu fatti i cazzitòi! Oggi niente foto e niente tv a Rosarno: abbiamo dei conti da regolare!” Le voci si alzano di tono, le facce si contraggono per l’ira, i denti digrignano, le mascelle in bassorilievo: un giovane cronista di Africanews prova a difendere la sua minicamerina digitale. Rimedia schiaffi. La troupe del Tg3 regionale non vuole rimetterci l'attrezzatura pregiata; vengono scortati in un portone appartato dove ne prendono un fracco e una sporta. Al cronista di PeaceReporter capita di trovarsi spalle a un muro di cemento armato a crudo, con una dozzina di brutte facce che gridano e indicano la macchina fotografica: le foto vanno cancellate. Si fa sotto un viso da capo indiano, cotto dal sole, che grida in dialetto “Hai capito che te ne devi andare, o no?”. Attimi di tensione, finchè non arriva il reparto mobile di Palmi con manganelli e scudi in plexiglass, la ronda sloggia. Migranti e giornalisti si guardano, sospirano per lo scampato pericolo: siamo tutti contenti di vedere celerini caricare coi manganelli. Dopo il G8 a Genova, è paradossale vedere la salvezza nei poliziotti in assetto antisommossa. osarno rimarrà come esempio. Di come tutto possa andare storto, sul crinale incerto dove un passo sbagliato fa deragliare l’accoglienza dignitosa in rivolta, una comunità contro l’altra. Una convivenza che per quindici anni era filata liscia, con feste in piazza dedicate alla fratellanza umana ogni 6 gennaio, “monache che friggevano zeppole e i migranti a suonare le loro musiche sul palco” ricorda l’ex sindaco peppino Lavorato. “Come ero fiero allora di Rosarno – commenta tra le lacrime – pensavo a quanti futuri capi di Stato stavamo ospitando, mi ricordavo dei nostri politici emigrati: chissà quanti Pertini ci sono tra questi ragazzi, sognavo”.

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Bambina sierraleonese. Calabria 2009. Foto di Luca Galassi ©PeaceReporter


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Lavorato ha guidato il comune per 9 anni dal ’95 al 2002, con in media due intimidazioni mafiose l’anno. Aveva istituito le pubbliche assemblee con delegazioni per ogni comunità di migranti, a risolvere eventuali conflitti. Una pratica cancellata dalla successiva amministrazione di Forza Italia del sindaco Martelli; adesso a guidare Rosarno c’è il prefetto Domenico Bagnato perché Martelli è indagato per mafia, con i suoi assessori. ella totale assenza di interventi del Comune, i migranti sono aumentati esponenzialmente per effetto della crisi della fabbriche al nord, mentre il loro lavoro non era più richiesto. “I Purtualli (arance in calabrese, dal turco Portokàl) sui rami rimangono, a marcire!” commentavano i padroncini di contrada Bosco, mentre aspettavano i nivuri al varco della barricata eretta a due passi dall’Opera Sila: “A loro i braccianti non servono”, spiega Antonino Calogero della Cgil di Gioia. Un chilo di arance viene pagato quest’anno a 6 centesimi “sulla pianta, ma raccoglierlo costa più di 7 centesimi”. Meglio far marcire la frutta e aspettare i rimborsi europei,che col nuovo sistema adottato dal 2007, vede i contadini rimborsati ad ettaro e non più a prodotto raccolto. Si guadagna di più: 7mila euro annui sono garantiti, bene o male quanto poteva ricavare un piccolo proprietario da un fondo di un ettaro quando le arance venivano ancora pagate 30 centesimi il chilo. “Qui nella Piana si produce arancia da succo: produrre la spremuta calabrese costa 1,70 euro a litro. Al porto di Gioia viene sdoganato succo brasiliano a un euro e mezzo; il governo italiano ha abbandonato i produttori a se stessi”, tuona Luigi Genco, Cgil calabrese. Primo disinteresse dei politici. Nei lager che i migranti stanno per abbandonare, le valigie erano pronte già venerdì 8. “Vado a Napoli (ossia Castelvolturno, dove 25mila villette abusive della camorra sotto sequestro possono ospitarne fino a 100mila, ndr) anche se lì non ho più amici nè lavoro. Ma almeno non mi sparano addosso”, spiega in perfetto italiano l’ivoriano Djibril. L’inferno di Castelvolturno è comunque meglio di queste stamberghe come l'ex fabbrica Rognetta dal tetto sfondato, dove la pietà della Regione Calabria aveva dato a 300 migranti capanne in alluminio che l’Anas utilizza nei cantieri autostradali; o alla ex Opera Sila, oleificio aperto coi contributi Ue che non ha mai funzionato, dove si stipavano in 600 tra lastre di amianto accatastate o addirittura nei silos dell’olio. Niente bagni (solo 10 servizi chimici alla Rognetta) niente acqua corrente, niente stufe per cucinare o per riscaldarsi. La regione Calabria avrebbe dovuto disporre controlli sanitari: mai fatto in dieci anni. Secondo abbandono da parte della politica. Ma il primo allarme di Medici senza Frontiere (Inferno calabria) risale al 2005. Mai nessun ispettore delle Asl è stato visto da queste parti. Terzo abbandono dei politici. “I cessi venivano puliti ogni settimana, quindi funzionavano solo il primo giorno; per 50mila euro la Regione avrebbe potuto costruirli in muratura”, mormora tra i denti don Pino Demasi di Libera, unico prete sempre al fianco di questi ragazzi negli anni. I politici, loro, non si sono visti negli ultimi 5 anni: né i parlamentari Pino Arlacchi o Maria Grazia Laganà, vedova Fortugno, né i responsabili della Provincia, che sarebbero di sinistra. “Vedere in tv come vivevano quei migranti mi ha scioccato”, confidava un assessore. Ma come in tv, signor assessore Pd? “Il ministero dell’Interno mise a disposizione 200mila euro nel 2009, ma il prefetto non li ha usati: non è popolare usare soldi per gli stranieri”, confida il tecnico edilizio del comune. “Ora che in gran parte se ne vanno, useremo i fondi sicurezza per una struttura d’accoglienza in muratura in una fabbrica di calce sequestrata al clan mafioso dei Bellocco, la Beton medma”. Un po’ tardi per degli alloggi umani. Quarto abbandono della politica: nella piana di Gioia, un territorio da 100 mila abitanti, 9 comuni su 20 sono commissariati per ‘Ndrangheta. Cinque sono riuniti qui: Rosarno, Rizziconi, San Ferdinando, Taurianova e Gioia Tauro, dove il partito di Berlusconi aveva preso percentuali bulgare: record italiano al 66 percento. “La ‘Ndrangheta decide su quale cavallo puntare, fa e disfa giunte a suo piacere”, chiarisce Genco. Uno stato parallelo che decide quando i migranti sono ben accetti, o quando sono troppi. “Il problema dei migranti se lo deve pigliare lo Stato. Che vuol dire che c’è la ndrangheta dietro gli scontri? Che, ce lo dobbiamo pigliare noi ‘sto problema?” gridava Francesco Bellocco ai microfoni di Mediaset lunedì 11; il giorno dopo l’ultimo rampollo del Clan dominante a

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Rosarno era latitante: altri 17 tra parenti e prestanome in galera, negozi, aziende e supermarket sotto sequestro. A Rosarno senza questi signori non si muove foglia. “Le bande scese in piazza venerdì per le spedizioni punitive avevano un obiettivo: colpire i neri, gli altri si ignorino” confida il procuratore di Palmi Peppe Creazzo che indaga sul coinvolgimento di Pesce e Bellocco nei giorni del Ku Klux Clan. Quel maledetto venerdì c’erano solo tre empori aperti. Quelli dei cinesi. Mentre le squadracce agivano, a bordo strada ragazzi marocchini, coppie di bulgari di mezza età, argentini residenti in paese da anni assistevano preoccupati. “Te saludo, viejo, io vado a mangiare a casa, sta roba non mi riguarda, vivo qua da 8 anni e non voglio problemi”, la barba bionda di Angel da Bahia Blanca corre, abbassa la saracinesca del market e via a casa. “Adesso come sarà per noi?” si chiedono Olga e Kolya da Kiev, mentre discutono con degli amici bulgari, impegnati nella raccolta. “I rosarnesi ci sparano addosso da anni – spiegano Ibrahim e Ahmed da un villaggio vicino Marrakesh – ma noi non reagiamo. Perché loro hanno dovuto fare casino? Bastava non reagire”. osarno è il paradigma; di come la mano tesa che per anni sfama i migranti, si trasformi in un pugno chiuso pronto a colpire. Perché a un calabrese non puoi toccare donne e bambini. Gli stessi che per anni aiutavano Mamma Africa, la 83enne Norina Ventre che ogni domenica imbandiva una tavolata da cento coperti per i migranti in campagna, hanno formato ronde in 12 ore, per presidiare a centinaia gli accampamenti, fino alla deportazione finale. “Altri quattro migranti sono stati feriti da colpi di carabina nei giorni seguenti – spiega il procuratore Creazzo – tutti colpiti con la stessa arma, e sempre nello stesso modo”. Un'unica regia per fomentare la rivolta e la cacciata; unica arma a colpire i migranti, sempre per ferire, non per uccidere. Ai neri gambizzati si dice “vattene se no alla prossima ti ammazziamo”. Lo stato parallelo al comando ha deciso di sfoltire i ranghi troppo numerosi degli stagionali. “Facevo il metalmeccanico a Monza, ma la fabbrica ha chiuso, sono venuto qui per raccogliere le arance per due soldi, ma questa non è l’Italia che ho conosciuto, anche a Palermo. Bisogna scappare, per la vita”. Spiega Suleimane Bah, senegalese di 20 anni. Su 300 migranti deportati dalla ex Rognetta, PeaceReporter ne ha intervistati un centinaio, di cui almeno la metà scacciati dalla crisi al Sud, dai distretti del Nord: piastrelle a Sassuolo, metalmeccanici a Seriate, acciaio a Lumezzane... troppi per le ‘Ndrine. E, soprattutto, ribelli. “Gli africani salveranno la Calabria”, titolava Antonello Mangano il libro sulle denunce del 2008 che avevano portato all’arresto di Fortugno. “Solo i migranti si ribellano alla mafia, a Castelvolturno e Rosarno”, scrisse Roberto Saviano. Tra i calabresi, non tutti. “Andrea Fortugno è innocente” recitava un cartello del comitato di Autodifesa in comune. In 200 assediavano la commissione prefettizia gridando: “I neri se ne devono andare”. E il cotraro del tirassegno al kalashnikov era innocente. Rientro dal comune presidiato dagli autoctoni; mentre scatto le ultime foto, mi viene incontro in Vespino 50 la faccia da capo Cherokee che si era frapposta tra me e le ronde. “Mi lasci lavorare..” è l’abbozzo di una scusa. “Vedi che oggi ti ho salvato picchi eu sugnu zzinguru!” Sulle prime non capisco. “Zingaru sugnu. Tu sei di Reggio? Io ho i parenti al campo li… Ma io sugnu zingaru i Rosarnu”. Uno dei clan minoritari a Rosarno sono gli Amato, detti ‘’i zzingari’’, Sinti che risiedono in Calabria dal ‘600. “Se ti ho salvato stamattina è perché anch’io alle volte mi sono trovato spalli o’muru. Ma ora è meglio che vai, ieri i neri hanno sbagliato a alzare le mani sulle donne”. I calabresi accorsi per la Seconda rivolta dei Migranti di Calabria lasciano Rosarno col sangue amaro: di tutte le infamie che accompagnano la nostra reputazione, in tutta Italia si riconosceva, in subordinata, almeno la nostra ospitalità. Adesso non sarà mai più così. La Piana di Gioia rimarrà nella memoria collettiva come il nostro Alabama. ‘’Frati meu’’ ci si saluta in questa terra di solidarietà, di lotte contadine. Anche gli africani erano Frati Meu per questo popolo ospitale. Ma ci sono cose che non si fanno, da buoni ospiti. Ribellarsi alle lupare delle ‘ndrine, per esempio.

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In alto: La raccolta. Puglia 2008. Foto di Luca Galassi ©PeaceReporter In basso: Mercato dell’ortofrutta. Calabria 2009. Foto di Luca Galassi ©PeaceReporter


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Il reportage Milano

Stranieri sui banchi di scuola Di Benedetta Guerriero Essere migranti significa essere soli. Da un giorno all'altro tutti i riferimenti cambiano e ci si trova persi in un Paese di cui non si conosce nulla. Tradizioni, cultura, abitudini e perfino la lingua sono entità indecifrabili. ella città di Milano, ormai consolidata meta d'immigrazione, le scuole di italiano per stranieri sono sempre più numerose. Qualcuno le frequenta semplicemente per imparare la nostra lingua, ma per molti la scuola diventa un'occasione, forse l'unica possibile, di socialità, dialogo. Sherif, 30 anni, non nasconde il proprio desiderio di comunicare e di intessere nuove amicizie. Ha abbandonato l'Egitto cinque anni fa per venire in Italia alla ricerca di un lavoro e di un futuro migliore. I professori gli hanno spiegato che oggi arriverà una giornalista a intervistarlo e Sherif si è preparato. Puntuale ed elegante, è seduto ad aspettarmi, accompagnato da un cugino. Lo sguardo è intenso, vivo. Tra le mani stringe con fierezza il libro di italiano, il quaderno e l'astuccio. “Sono arrivato attraverso il mare – dice Sherif col sorriso sulle labbra –. Ho provato più di una volta a raggiungere l'Italia e, proprio quando avevo deciso che sarebbe stato l'ultimo tentativo, ce l'ho fatta. Dio ha fatto il miracolo. Sono stato molto fortunato, comunque, molte persone che avevano viaggiato con me sono state arrestate. Appena sbarcato in Sicilia, ho cercato di raggiungere Milano, lì c'erano sei cugini ad aspettarmi. I primi mesi sono stati infernali, non capivo nulla e mi sentivo un fantasma. Ma sono un ottimista e alla fine ce l'ho fatta. Ho lavorato come muratore, addetto alle pulizie e adesso faccio il badante. Il mio sogno è avere il permesso di soggiorno, perché senza questo sono condannato alla clandestinità e non ho alcun diritto. Non sono nemmeno libero di andare a casa a trovare la mia famiglia o di farmi una vita. In Egitto ho nove fratelli, molti di loro si sono sposati, io purtroppo sono ancora sospeso. Due anni fa ho avviato le pratiche per la regolarizzazione, ma non ho ancora ricevuto una risposta”. La macchina burocratica si muove con lentezza e congela le speranze e le aspettative dei migranti. Molti dei quali lavorano, ma sono in balia dei lunghi tempi dei funzionari e delle questure nostrane. Sherif, però, non si scoraggia e come dice lui stesso è un ottimista e innamorato dell'Italia che definisce come “un Paese dal grande cuore, una seconda casa” in cui ama vivere. “Certo – prosegue il ragazzo – non mi piace quando mi guardano male o vengo additato come un terrorista, semplicemente perché sono islamico. Non è così. Sono un ragazzo curioso, mi piace comunicare e sentire le storie di chi viene da una nazione lontana e diversa dalla mia. Anche per questo motivo mi sono iscritto a scuola. La frequento ormai da tre anni ed è stata un'occasione importante per stringere dei rapporti. Attraverso la scuola ho potuto prendere parte a tante iniziative che mi hanno aiutato a crescere. Mi sono iscritto al movimento Gente di pace e con loro vado a trovare gli anziani, in gita. In una parola siamo amici”. Come Sherif sono tanti gli stranieri che hanno scelto di studiare e sono tor-

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nati sui banchi di scuola. Non solo per imparare, ma anche per avere dei rapporti e uscire dalla solitudine e dall'abbandono. Il senso di estraneità, la paura di essere scoperti e di conseguenza espulsi o rimpatriati costringono gli immigrati a condurre una vita appartata, fatta di pochi e saltuari rapporti coi propri connazionali. Un universo clandestino e silenzioso che corre parallelamente a quello molto più rumoroso e sfavillante degli italiani. Ogni tanto, questi due emisferi, normalmente tanto lontani, si toccano. Come avviene alla scuola Louis Massignon, presente a Milano dal 1997 su iniziativa della Comunità di Sant'Egidio. Da principio fu in via Verga, zona Paolo Sarpi, quartiere situato nell'area nord-occidentale del capoluogo lombardo, per far fronte all'enorme richiesta che proveniva dalla comunità cinese che vi risiedeva. Una comunità sommersa, dedita al commercio, ma totalmente isolata e distaccata rispetto agli altri circuiti cittadini. “Abbiamo iniziato con una classe sola – racconta Giorgio Del Zanna, uno dei primi professori della Massignon –. Tre insegnanti per ventisette alunni. A spingerci ad aprire la scuola sono state le incessanti domande dei genitori dei bimbi cinesi che già accompagnavamo nel loro percorso scolastico”. Oltre che per gli adulti, l'integrazione è difficile anche per i più piccoli. “I nostri primi alunni – prosegue Giorgio – non erano, come ci aspettavamo, in prevalenza cinesi, ma persone provenienti dallo Sri Lanka e dall'America Latina. Il boom cinese è arrivato l'anno successivo. Tra il 1998 e il 2003 circa l'80 percento dei nostri studenti era cinese e la scuola ha iniziato a crescere. In breve ci siamo trovati a gestire otto classi con duecento studenti. Abbiamo abbandonato la sede di via Verga e ci siamo trasferiti in via Bramante, sempre nel quartiere di Paolo Sarpi. Ma anche da qui abbiamo dovuto traslocare e abbiamo trovato alloggio in via Timavo, vicino alla Stazione Centrale. Questo è un'area a forte pressione migratoria e le iscrizioni si sono moltiplicate. Ogni anno frequentano la scuola assiduamente circa 430 alunni, per la maggior parte originari dello Sri Lanka. Ma noi non vogliamo essere una scuola mono-etnica. E' contrario ai nostri principi”. ista l'enorme richiesta, oltre a via Timavo, sono state aperte altre sedi. “Una in via Verga, siamo tornati alle origini – prosegue Giorgio - e una a Corvetto”. Quartiere situato nell'area occidentale di Milano, dove vivono molti stranieri. “Questa è una scuola a sé – dice l'insegnante serale, frequentata principalmente da uomini originari del Nord Africa. Muratori che la sera trovano la forza di tornare sui banchi per studiare. Il Corvetto è una zona difficile, dove le tensioni sociali sono alle stelle e

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Immigrati in aula per apprendere l’italiano. Milano 2010. Archivio PeaceReporter


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potrebbero esplodere da un momento all'altro. Per questo abbiamo pensato di aprire lì una succursale della Massignon. Per dare un segnale di integrazione e per far sentire gli immigrati meno soli. Non solo oggetto di intolleranza o insofferenza”. Camminando per i corridoi dello stabile di via Timavo, gestito dalle suore, che ospita la scuola di italiano per stranieri, la sensazione è gradevole. Al centro del lungo corridoio principale è posizionato un tavolo, che costituisce lo snodo principale di tutte le comunicazioni. Qui si prendono le iscrizioni. Questa volta tocca a Marzia, una delle insegnanti, fare la segretaria e raccogliere nomi e cognomi dei futuri studenti che dovranno anche sostenere una sorta di test d'ingresso per capire in quale classe dovranno essere inseriti. L'esame spaventa e c'è chi desiste. Mentre i nuovi arrivati attendono di essere immatricolati, gli altri aspettano l'inizio delle lezioni. C'è chi ripassa, chi confronta i compiti col compagno di classe, chi copia, chi racconta della settimana trascorsa. È domenica pomeriggio e il tempo del lavoro, per i fortunati che ce l'hanno, è ancora lontano. Molte persone più che di studiare hanno voglia di parlare, essere ascoltati. “Conoscere la lingua del Paese dove ci si trova – spiega sempre Giorgio, il professore – è fondamentale per vivere, comunicare e raccontare se stessi. Ci si sente stranieri, quando non c'è nessuno che ti ascolta. La lingua è un grande strumento di integrazione umana. Molti stranieri non reggono la situazione dell'immigrazione per la solitudine. La scuola è costruita, non solo per insegnare, ma per essere un grande spazio di amicizia e per permettere a chi è qui di sentirsi parte di una causa comune. Chi viene a lezione, è chiamato a conservare la propria identità. Non deve perderla, ma lavorare insieme per un discorso di solidarietà e di dialogo”. Raccontare, comunicare, ascoltare: queste le necessità dei migranti per essere meno soli e per sentirsi parte viva del nuovo stato. Spesso si tratta l'integrazione come un concetto astratto. Si fanno complicati progetti per realizzarla, che non tengono conto dei concreti bisogni di chi arriva da lontano. In primis comunicare. Necessità che non nasconde nemmeno Teresa, giunta in Italia dalla Polonia. I vivaci occhi azzurri, lo spiccato senso dell'umorismo e la risata contagiosa sembrano fatti apposta per far passare il cattivo umore. Dopo dieci anni trascorsi in Italia, di cui tre a Roma e sette a Milano, la donna è consapevole che il periodo peggiore è passato e che la vita da irregolare sia un ricordo lontano.

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proprio questa sensazione che consente a Teresa di parlare con tanta naturalezza e allegria della sua avventura in Italia. “Finalmente dopo dieci anni – esclama – posso dire di stare bene e di aver raggiunto un equilibrio, ma i primi tempi sono stati duri. In Polonia lavoravo e studiavo, ma i soldi non bastavano mai e così ho scelto di emigrare. Ero molto spaventata, anche perché a scuola sono sempre andata molto bene, tranne che nelle lingue. Un vero disastro. In più avevo studiato russo e tedesco che con l'italiano non hanno nulla a che spartire. Il mio incubo peggiore era proprio quello di non riuscire a comunicare, a farmi capire. Ma in Italia era più semplice entrare, per cui la scelta è stata quasi obbligatoria”. Nonostante ogni governo si vanti di aver bloccato i flussi degli immigrati, le frontiere italiane, stando alle testimonianze degli stranieri, sono un colabrodo da cui si entra e si esce a proprio piacimento. Basta essere furbi e avere fortuna. “La mia prima meta è stata Roma – prosegue Teresa - e, nonostante quel che si racconta sull'apertura e la simpatia dei romani, non sono riuscita ad ambientarmi. La figlia della signora per la quale lavoravo si è poi trasferita a Milano e mi ha chiesto di seguirla. Sono felice di averlo fatto: la mia esperienza in questa città è stata decisamente più positiva. Ho conosciuto molte persone e, sentendomi più sicura, ho anche trovato il coraggio per iscrivermi a una scuola per imparare bene la lingua. Ed eccomi qui a frequentare il livello super avanzato della scuola di italiano per stranieri”. Non tutti, pero, possiedono la forza e l'energia di Teresa. C'è chi fa fatica a raccontare la propria storia, senza cedere alla tristezza. Il passato, se carico di sofferenze, abbandoni e dolore si dimentica volentieri. Letty, l'amica ecuadoregna di Teresa, ha voglia di parlare di sé, ma più si va indietro negli anni coi ricordi, più affiora la malinconia. Sono trascorsi dieci 16

anni da quando Letty è giunta nel nostro Paese e ora, dopo tanti sacrifici, è una bellissima donna di trent'anni con regolare permesso di soggiorno. Avvolta in un elegante cappotto blu con al collo una vistosa sciarpa verde smeraldo, Letty, spronata dall'energia di Teresa, Claudia e Sebastian, amici conosciuti sui banchi della scuola, inizia a raccontare. “Sono arrivata a Milano con il visto per il turismo – afferma la ragazza –. All'inizio dormivo in un hotel, ma poi i soldi sono finiti. Parlavo solo spagnolo e inglese e nessuno mi capiva. Più di una volta mi sono persa, mentre tentavo di tornare all'albergo. Chiedevo le indicazioni, ma tutti mi ignoravano. Per fortuna ho conosciuto una signora peruviana che mi ha aiutato ad integrarmi e mi ha trovato un posto dove dormire. Il lavoro, però, non arrivava. Sono stata senza un impiego per circa cinque o sei mesi. Alla fine mi hanno buttato fuori dalla casa dove alloggiavo, perché non avevo più nemmeno un soldo. Ho dormito per alcune notti nei giardini di Porta Venezia. Grazie a Dio era estate”. La drammaticità del racconto di Letty è rotta dall'umorismo di Teresa, che interviene per prendere in giro l'amica. “Ma proprio nei giardini vicini alla questura dovevi andare a dormire? Non potevi trovare un altro posto?”. Teresa sdrammatizza e ci aiuta a riprendere il discorso. Anche Letty si rende conto dell'ingenuità della sua scelta e non trattiene le risate. “In quei giorni – continua a raccontare l'ecuadoregna con un po' più di coraggio – mi hanno finalmente contattato per un lavoro sul Lago di Como. Dopo poco, però, mi hanno cacciato, non parlavo l'italiano. Da Como sono tornata a Milano e tramite la signora peruviana, il mio angelo, ho avuto un'altra proposta di lavoro. Mi hanno tenuto tre giorni. Poi per il solito problema della lingua, mi hanno mandato via. Non ne potevo più, passavo le giornate a piangere, ho resistito solo perché avevo un obiettivo. Ho nove fratelli e, visto che non siamo ricchi, volevo aiutare mia madre. Come per miracolo, la stessa signora di Milano che mi aveva lasciato a casa mi ha richiamato e mi ha chiesto di tornare. Mi avrebbe aiutato lei con la lingua. da allora è stato tutto in discesa, ma che fatica”. a determinazione della giovane dell'Ecuador è stata premiata. Non solo Letty ha imparato l'italiano, ma quest'anno frequenta il corso avanzato della scuola e a fine anno sosterrà l'esame per ottenere il Celi, il certificato europeo di lingua italiana, rilasciato dall'università per stranieri di Perugia, con la quale la Massignon collabora. Nonostante Letty sia timida e riservata, negli occhi si legge la fierezza per il traguardo raggiunto e per aver trovato il coraggio di andare avanti. E' felice Letty di essere rimasta, anche se le dispiace conoscere pochi italiani. “ In fondo – afferma la ragazza – gli unici italiani che conosco sono i professori della scuola, che sono anche nostri amici, e la famiglia dove lavoro”. Mentre Letty si lamenta per la poca disponibilità degli italiani a conoscere chi viene da lontano, Claudia, un'altra ragazza dell'Ecuador, sogghigna divertita. Dopo qualche finta rimostranza, spiega il motivo del suo sorriso sornione. “Sono sposata con un italiano – dice la donna – e ho anche un bimbo. Sono venuta in Italia, perché mia madre era arrivata qui per lavorare e a mi mancava molto. Troppo. Non potevo resistere senza di lei. La mamma mi consigliava di rimanere in Ecuador e di studiare, ma alla fine l'ho convinta e l'ho raggiunta. Appena arrivata ho fatto di tutto, la baby sitter, la badante. Tutti lavori temporanei. Poi ho conosciuto mio marito e ho smesso di lavorare”. I vissuti con i quali si viene contatto alla Massignon sono di tutti i tipi. Variano per la provenienza e la sensibilità dei migranti. Chi è stato più fortunato è riuscito a mettersi in regola, ma c'è anche chi non ha ancora finito il lungo calvario per uscire dall'irregolarità e diventare un cittadino con diritti e doveri. C'è chi guarda al nostro Paese con un occhio di riguardo. Veronica, peruviana sposata con un marito argentino e madre di un bimbo, sogna di diventare una maestra d'asilo ed è contenta di essere qui. Per dieci anni è stata emigrante in Argentina e prima ancora in Svizzera. Paese dove racconta di non essere stata in grado in integrarsi a causa dell'eccessivo rigore e severità. Anche Kareena, nata nelle Mauritius, ha studiato e lavorato in Inghilterra e in Irlanda, ma poi ha scelto l'Italia. “Mi sono trasferita – afferma – sia perché è più facile ottenere il permesso di soggiorno, ma perché qui mi trovo bene. Ormai mi sento italiana. Voglio rimanere”.

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Portfolio

Eritrei a Milano Testo di Gabriella Kuruvilla. Fotografie di Francesco Pistilli

iazza Oberdan è una striscia d’asfalto, nel cuore di Milano, stretta tra i giardini di Porta Venezia e i negozi di Corso Buonos Aires: sullo sfondo, su un tratto di muro incorniciato da due colonne, è stato dipinto il viso di Gesù. Ma qui, la pietà, sembra non trovare alcun posto. In questa “isola pedonale”, da oltre 8 mesi, incuranti del freddo e della pioggia, vivono e dormono alcuni rifugiati politici provenienti dal Corno d’Africa. Sono soprattutto eritrei: inizialmente erano uomini, donne e bambini. Oggi, sono in prevalenza uomini. “Prima eravamo in trecento, adesso siamo in quaranta”, spiega Paulos, uno dei portavoce. Gli altri, quelli che non ci sono più, o sono riusciti a scappare dall’Italia correndo il rischio di infrangere le leggi oppure hanno trovato rifugio in uno dei tanti stabili dismessi e abbandonati della città. Stabili simili a quello da cui sono stati sgomberati, a fine aprile. L’unica alternativa, provvisoria, che si sono visti offrire dal

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Comune di Milano è stata quella del dormitorio: le famiglie venivano smembrate dividendo i maschi dalle femmine e tutti erano obbligati ad entrare alle 20 e a uscire alle 7”. Non era una casa, questa. Ma un toppa, troppo piccola rispetto al buco da coprire. Quindi loro, in strada, hanno deciso di stare, sempre: per manifestare pacificamente il loro dissenso verso un’amministrazione comunale che infrange la convenzione di Ginevra e non investe i finanziamenti versati dall’Unione Europea per i rifugiati. Soldi che non arrivano ai diretti destinatari. Privati di quello che gli spetta, in base alle leggi internazionali: un alloggio, in primo luogo, ma anche corsi di lavoro e di lingua, oltre ai ticket per mangiare e per accedere al trasporto pubblico. “Come dice un proverbio cinese”, conclude Paulos, “dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno. Insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita”.



cominciato tutto lo scorso novembre, con una telefonata. Daimarely Quintero, un’amica cubana, mi ha chiamata per dirmi che in Francia una giornalista d’origine marocchina, Nadia Lamarkbi, stava organizzando per il 1° marzo 2010 la Journée sans immigrés, una manifestazione pensata a spingere la gente a riflettere, finalmente, sul valore e l’importanza dell’immigrazione. La Journée francese sarebbe stata consacrata prevalentemente allo sciopero dei consumi e degli acquisti. Il tam tam era partito da internet, raggiungendo oltre 45mila persone, senza l’appoggio di sindacati o partiti. Lei, Daimarely, ne aveva già parlato con Nelly Diop, un’amica comune. Entrambe si erano dette: perché non provarci anche noi? Detto e fatto. Abbiamo contattato Nadia, creato il gruppo Facebook e cominciato a raccogliere le adesioni. Abbiamo scelto di chiamarci Primo marzo 2010, per “sintonizzarci” con la Francia: ci piaceva l’idea di dare all’iniziativa un respiro europeo. Abbiamo visto giusto. Mentre scrivo, il nostro movimento viaggia verso le 43mila adesioni virtuali ma, con i suoi numerosissimi comitati territoriali, è vivo e attivo anche fuori dalla rete. In Spagna e in Grecia sono già nati coordinamenti gemelli. Noi vogliamo richiamare l’attenzione su un dato incontrovertibile e documentato ma troppo spesso rimosso: i migranti sono indispensabili in una società complessa e carente come la nostra. Tamponano le falle del welfare (basti pensare alla presenza capillare di badanti e baby sitter), fanno quadrare i conti dell’Inps e dello Stato (nel 2008, tra tasse e contributi, hanno versato circa sei miliardi di euro) e contribuiscono alla crescita economica (9,5% del Pil italiano è riconducibile al loro lavoro). Vogliamo far capire anche che la saldatura tra razzismo popolare e istituzionale, caratteristica della nostra epoca e responsabile delle leggi e delle ordinanze xenofobe che tutti conosciamo, non è un problema solo degli stranieri ma minaccia la società nel suo insieme. I diritti o valgono per tutti o cominciano a non essere per nessuno. La mixité è un trend del presente rispetto al quale chiudere gli occhi non paga. Lo ha detto benissimo Jacques Le Goff: può piacere o meno, ma il carattere distintivo del ventunesimo secolo è il meticciato.

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Separare in modo netto chi è migrante da chi non lo è, tracciare una linea chiara di demarcazione tra “noi” e “loro” oggi non è proprio più possibile. E, infatti, anche in questa battaglia vecchi e nuovi cittadini siamo uniti e mescolati per la ragione, semplice e incontrovertibile, che nella vita di tutti i giorni siamo uniti e mescolati, legati da vincoli affettivi, rapporti di lavoro, relazioni di vicinanza. Spesso ci chiedono cosa succederà concretamente il Primo marzo. Stiamo definendo azioni e iniziative con i comitati. Ma è assai probabile che anche la nostra giornata, come quella francese, sarà in buona parte orientata al non acquisto e al non consumo. Ma ci sarà dell’altro: dal lancio sincronizzato di eco-palloncini gialli (è il colore di questo movimento), alla veglia di digiuno e preghiera davanti alle prigioni (chiamiamole col loro nome) in cui sono rinchiusi i cosiddetti clandestini, a - perché no - lo sciopero come astensione dal lavoro. Di fronte a questa eventualità, i principali sindacati hanno fino ad ora storto il naso. Molti comitati, però, fanno richieste esplicite in questo senso e ignorare ciò che la base chiede forse non è la cosa più azzeccata da fare per chi è ai vertici. Ci è stato detto che uno sciopero su base etnica potrebbe essere ghettizzante. Siamo d’accordo e infatti non lo abbiamo mai proposto, anche perché sarebbe in contraddizione con quel superamento della contrapposizione tra “noi” e “loro” che è un tratto fondamentale del nostro movimento. E non capiamo se dietro questo refrain (“lo sciopero etnico no”) ci sia solo una strutturale incapacità di capire o un tentativo di delegittimazione. In ogni caso, i nasi storti non fermano l’onda di una manifestazione spontanea e partecipata, che riflette il bisogno condiviso di difendere i diritti (a proposito, da quanto tempo in Italia non si fa uno sciopero per i diritti?) e correggere le storture che stanno viziando il nostro sistema sociale. Ci sentiamo forti e ottimisti: il Primo marzo 2010 non sarà un punto di arrivo, ma l’inizio di un nuovo percorso, tracciato fuori dalle logiche sindacali o di partito, con l’impegno della società civile». Stefania Ragusa


Storia di un immigrato diventato padrone del suo destino

Almir San Martin L'integrazione culturale passa anche dall’arte

Sono nato a Lima, in Perù, e risiedo a Bergamo da quindici anni, per la precisione dal 1994. Lavoro nell'ambito dell'educazione interculturale come mediatore museale per la Gamec di Bergamo e come educatore in una comunità per adolescenti con problemi comportamentali. Ho studiato scienze dell'Educazione a Lima e mi sono diplomato in regia teatrale nell'allora Unione Sovietica. Sono approdato in Italia con la speranza di costruirmi un futuro degno, negatomi per le condizioni socio-politicheeconomiche in cui versava il Perù degli anni ‘90. Ho realizzato, dal mio arrivo, i lavori che a Bergamo sono permessi agli immigrati: lavapiatti, venditore ambulante, aiutocuoco, cuoco, barista, barman, musicista di strada, cameriere, ma sempre con la speranza di essere un giorno io il protagonista del mio destino. Bergamo è una città bellissima, storica, benestante, cattolicissima e contraddittoria, l'immigrazione degli anni ‘90 in Italia era vista per qualche gruppo secessionista come una minaccia alla preservazione delle radici occidentali e cristiane, fenomeno ampiamente discusso nei salotti universitari, convegni, conferenze, symposium, workshops, giornate informative, giornate preventive. Iniziative solo teoriche che approdano in un nulla di fatto, ma in questi eventi manca sempre la presenza maggioritaria degli immigrati e il nostro protagonismo si limitava molte volte alla preparazione di un buffet multietnico. La diffidenza nei nostri confronti aumentava e la visione stereotipata e xenofoba diffusa da questi gruppi riassunta in una sola parola: EXTRACOMUNITARIO. Un giorno mi recai in un phone-center, dove trovai un volantino che catturò la mia attenzione. Era un invito a partecipare a un corso di formazione per mediatori museali, organizzato dalla Gamec. La Gamec ha pubblicizzato il corso tramite dei volantini lasciati nei luoghi più frequentati dagli immigrati. Si sono presentate più persone del previsto, originari di tutti i continenti, tanto che la Gamec ha dovuto selezionare, arrivando ad ammettere al corso, circa quarantacinque persone. Cosa é un mediatore museale? Colui che serve da ponte per facilitare la visita dei migranti al museo. L'idea è stata lanciata dalla Responsabile dei servizi educativi della Galleria, Giovanna Brambilla Raise ispirata adll'Art.27 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'uomo che auspica la partecipazione di ogni individuo alla vita culturale della comunità. Un'iniziativa prima nel suo genere sia in Italia che in Europa. "Gli esami non finiscono mai" diceva il grande Eduardo De Filippo e anche noi, al termine del corso, abbiamo sostenuto un esame. Non è stata una pura formalità, perché non tutti i corsisti hanno superato la prova. Chi è stato promosso ha ricevuto il diploma di mediatore museale e, alla cerimonia di consegna, sono intervenuti anche i rappresentanti dei vari consolati e il sindaco di Bergamo. Mi sono dovuto ricredere, ed è decaduto ogni mio pregiudizio su questa iniziativa. Tramite il passaparola e i mezzi di comunicazione gratuiti, siamo riusciti a portare al museo circa milleduecento persone che hanno visitato la Gamec e molti per la prima volta. La forza della visita guidata nella propria lingua è che si riesce ad esprimere e capire meglio l'opera e la vita dell'artista. Per quanto un immigrato parli e capisca perfettamente l'italiano, comunque pensa quasi sempre nella propria lingua-madre. Al dil à del successo quantitativo dell'iniziativa, voglio sottolineare il successo qualitativo. Con un evento del genere si è cominciato a pensare agli immigrati, non più solo come braccia con solo bisogni primari, bensì come cervelli. Anche gli immigrati possono visitare un museo d'arte moderna e contemporanea, interessarsi alla cultura locale, italiana e mondiale. Anche gli immigrati possono fare da guida in un museo. Voglio portarvi la mia esperienza come mediatore museale con un aneddoto. Essendo peruviano chiaramente ho fatto da guida ai latinomericani, madrelingua spagnola. Davanti alla opera "Catrame" di Alberto Burri si è suscitata più curiosità rispetto ad altre da parte dei partecipanti. La maggior parte dei latinoamericani lavora nel campo dell'edilizia stando spesso a contatto proprio con il catrame. Così in molti mi hanno rivolto domande sul significato del catrame per l'artista. Un visitatore ci ha mostrato i segni lasciati dal catrame nelle sue braccia e ci ha detto "Questa é un'opera d'arte". Chiudo ribadendo che anch'io avevo un pregiudizio. Pensavo di trovare persone che volessero approfittarsi dei migranti, invece mi sono piacevolmente sbagliato. Ho trovato delle bellissime persone che non mi hanno mai trattato come

un "diverso". Inoltre, si è creato anche un nuovo gruppo di amici che, ormai, non si trova più solo per le iniziative legate alla Gamec ma, anche per prendere un aperitivo insieme e condividere un pezzo di nostri mondi, prima lontani e adesso affettivamente vicini.

Siamo tutti sulla stessa barca

Domenico Tambasco Sono un avvocato che, da diversi anni, difende gli immigrati dalle molteplici aggressioni che, continuamente, subiscono sia dalle istituzioni (penso alle lotterie dei permessi di soggiorno), sia dai privati (penso alla marea di lavoratori immigrati in condizioni da prima rivoluzione industriale). In questi anni, il loro destino è stato il mio; le loro difficoltà e le ripetute ingiustizie le ho vissute io stesso sulla mia pelle. Non posso tacere che, soprattutto negli ultimi due anni, la situazione è andata degeLa testimonianza nerando a passi da gigante. Non posso dimenticadi un avvocato re l'ormai famosa sentenza che mi sentii pronunda tempo al servizio ciare dal tribunale di Como, sezione lavoro, con degli immigrati cui si definì privi del tutto di tutela gli immigrati sfruttati sul posto di lavoro ma senza permesso di soggiorno o con permesso di soggiorno in attesa di rinnovo, perché privi di capacità processuale ed equiparati, in quanto tali, ai minorenni o agli incapaci. Ho visto il parlamento promulgare una legge che, sulla base della sola assenza del permesso di soggiorno, commina un'aggravante di pena a chi compia qualsiasi reato. Ho visto famiglie di immigrati in Italia da decenni che, dopo avere perso il lavoro e nell'impossibilita di trovarne un altro, sono state destinatarie di decreti di espulsione, anche in presenza di numerosi figli minori, pienamente integrati. Ho visto, soprattutto, l'introduzione di una norma che credevo relegata nei libri di storia: la sanzione penale per il solo fatto di essere immigrati senza un regolare permesso di soggiorno. La conseguenza concreta è stata, nei molteplici casi di sfruttamento sul lavoro, la fine delle denunce e la fuga di chi, prima, aveva denunciato datori senza scrupoli. Questa deriva mi ha ricordato e mi ricorda quella drammaticamente delineata in un libro sulla Shoah, Badenheim 1939, scritto alcuni anni orsono da Aharon Apphelfeld. Oggi, tuttavia, un barlume di speranza rinasce: alcune settimane fa il tribunale di Voghera, nella persona della dott.Ssa Dossi, ha trasmesso alla corte costituzionale la questione di legittimità del reato di clandestinità, perché lesivo dell'uguale diritto alla tutela giudiziale di tutti, in quanto persone umane. Oggi, con l'iniziativa Primo marzo 2010, gli immigrati hanno l'opportunità, per la prima volta, non solo di dimostrare che sono la base del nostro sistema socioeconomico ma hanno altresì l'occasione di una forte e determinata presa di autocoscienza. Un osservatore superficiale, tuttavia, potrebbe chiedere cosa c'entrino gli italiani con tutto questo. La risposta è nelle perenni parole di Piero Calamandrei: "Voi sapete di quel contadino imbarcato per l'America che dormiva durante la tempesta e che al compagno impaurito che lo svegliò per dirgli che il bastimento andava a fondo, rispose nel sonno: che vuoi che me ne importi, il bastimento non è mica mio!". Ma il bastimento è di tutti, cari signori, quando si tratta della giustizia: perché su questo bastimento sono imbarcati la dignità e le speranze, l'onore e la vita di ciascuno di noi. Ecco perché partecipo.

Paura bianca

Cecile Kashetu Kyenge Mezzanotte ... Ero sveglia in mezzo alla mia camera Che condividevo con altri quattro fratelli Piangevo, avevo paura, paura di te Non ti conoscevo ancora poiché ero solo una bambina Ma una bambina che poteva leggere nel cuore degli uomini E con gli occhi di una bambina potevo giudicare


Guardando dentro l'anima, bianco, nero, rosso, giallo Dei grandi All'improvviso accese la luce Vedevo solo te Vedevo solo ciò che rappresentavi per me Ciò che gli altri non potevano capire Ciò che il mondo non riusciva a spiegarsi Ciò che una bambina poteva leggere dietro a quel nome BIANCO Avevo paura Tremavo di paura , invaso da un sudore freddo eri lì immobile che mi fissavi Paura bianca...

Una poesia per scacciare la paura del diverso

Mi sentivo ancora più piccola della mia età Urlavo di paura Tutte le notte la scena si ripeteva Urli , pianti , sudore freddo Avevo paura del bianco Ricordo le parole di mia sorella Che cercava di consolarmi Di che cosa hai paura? Del bianco le rispose Ero diventata lo zimbello di tutte le mie sorelle Ed io mi sentivo ridicola Perché avevo paura di te Svegliarmi la notte e vederti accanto a me Era un vero incubo Ero più credibile se dicesse Che avevo paura del nero Del buio , della notte... Ma poco importava Io avevo paura di te Svegliarmi ed accorgermi che il mio colore della pelle era nero era una vera benedizione

Ero tranquilla Mi sentivo protetta , stranamente dal mio colore Era come essere avvolta in una coperta d’amore Che nessuno poteva rubarmi Era mio quel colore E non lo avrei scambiato con il bianco per nessuna fortuna Chi sei? Cosa sei? Che cosa vuoi da me? Tante sono le domande che invadono la mia mente Che cosa mi stai comunicando? No, non ti voglio Torna da dove sei venuta Paura bianca Un bel giorno ebbe un idea Perché i colori hanno un nome? Se provasse a scambiare i nomi dei colori Chi sa se avrò ancora paura di te? PAURA BIANCA.... Detto e fatto Da quel giorno il bianco si chiamava nero Il nero si chiamava bianco Il giallo si chiamava arancione e così via Nessun colore corrispondeva ai nomi dategli dagli adulti, Era il gioco dei colori Non fu facile Ma dovevo vincere la mia paura Angelo nero, angelo bianco Per me non era altro che un angelo tout court mi rifiutai a credere al mondo degli adulti

Per me c’era troppa confusione che mi portò appunto alla fobia del bianco Sfortuna bianca, sfortuna nera Non eri altro che sfortuna Non sapevo più chi era bianco e chi era nero Eravamo semplicemente tutti uomini PAURA BIANCA Passarono mesi prima che cominciasse a vedere dei risultati Finalmente il bianco non mi faceva più paura Avevo imparato a decodificare il linguaggio Avevo capito il segreto dei grandi Avevo cominciato a ragionare con la mia testa Avevo cominciato a dare un nome ad ogni colore Mi sentivo una pittrice Avevo in mano tutte le matite colorate Avevo davanti a me un mondo incolore Avevo in mano il mio destino Dovevo ricolorare il mondo Dovevo codificarlo secondo le mie regole Finalmente cominciò a sparire il colore bianco E con esso, anche te Paura bianca

Sfidare l'impossibile

Sergio Gaudio Riflessioni di un ex emigrato sulle sfide poste dall'integrazione

Sento in prima persona, come ex emigrato e marito di una donna straniera, il problema dell'integrazione. Chi emigra sa bene che immergersi in una realtà diversa provoca uno sconvolgimento del proprio modo di pensare perché inizialmente, mancando i riferimenti, c'è la necessità di adattarsi a modi di pensare completamente diversi. Dove e a chi sta fare la differenza allora? La differenza la fa chi sta dall'altra parte. Accentuare le differenze non crea una società, ne crea mille, non crea senso di appartenenza, crea solitudini, non crea solidarietà, crea identità singole e disperate. Io cristiano, io del Sud, io musulmano, io gay, io nero, io giallo, io disabile. L'emarginazione genera paura. E' la solidarietà a generare la società e il senso di società, una società in cui l'unico elemento comune non è ciò che caratterizza quell'io, ma può essere soltanto quell'unico desiderio di vivere in pace, che e' di tutti. Per questo penso che a volte bisogna provare a sfidare l'impossibile. A volte bisogna provare a pensare che anche gli oltre quattro milioni di immigrati possano incrociare le braccia. Perché dobbiamo comprendere che il progresso della società passa anche per la condivisione e l'apertura verso i nuovi elementi del nostro Paese e che tutto ciò non può che essere un bene. Ecco perché partecipo a quest'evento.

Non in nostro nome

Tahar Lamri L'esperienza di integrazione di uno scrittore, immigrato storico

Vengo dall'Algeria, mi sono trasferito in Italia nel 1987. Essendo un immigrato "storico" in Italia, ho assistito al graduale e (sembra) irreversibile deterioramento della situazione politica italiana, iniziato con un imbarbarimento del linguaggio a cui ha fatto seguito un imbarbarimento della politica. Le esternazioni di certe forze politiche che negli anni Novanta venivano bollate come "folklore" o "circoscritte manifestazioni di cattivo gusto" sono diventate quadro politico e hanno imposto una xenofobia, un razzismo dapprima istituzionale con leggi inique e segregazioniste al quale sta congiungendosi una xenofobia e un razzismo popolare e una orizzontalizzazione del conflitto che rende la vita incerta e


il futuro precario a centinaia di migliaia di immigrati, e mina di fatto le regole della convivenza all'interno della società italiana. Aderisco a questa manifestazione per dire basta al razzismo, per far capire ai politici italiani che gli immigrati sono individui che partecipano a pieno titolo al benessere dell'Italia e spero che la partecipazione dei cittadini italiani sia massiccia perché le recenti leggi, quali il cosiddetto pacchetto sicurezza, sono un attentato alla dignità dei cittadini italiani stessi che in questa occasione potranno dire alto e forte: non in nostro nome.

e all'indice demografico come ogni cittadino italiano, debbano vivere in una società comune in cui tutti difendiamo le regole, il rigore e una vita dignitosa per tutti! Credo che queste parole possano essere tradotte in un concetto, "Io voglio solo riuscire a vivere in un paese CIVILE, mi sembra di non chiedere troppo!".

Un popolo meticcio di italiani e stranieri

Elvira Georgopoulos

Un mondo migliore per i nostri figli Un’italo-greca

Carla Cicalese Sono originaria della provincia di Napoli, ma vivo a Parma da nove anni e in questa città ho conosciuto mio marito, un uomo ivoriano. Stiamo insieme da quando sono qui e ci siamo sposati nel 2006. Oggi sono al terzo mese di gravidanza e la mia principale preoccupazione è dare un futuro sereno e felice al mio bambino. Io e mio marito, soprattutto all'inizio della nostra relazione, quando in un città di provincia, non certo una metropoli, era raro incontrare coppie miste, ci siamo trovati di fronte a sorrisi imbarazzati, a stupidi commenti e, a volte, anche a pesantissime offese. Di fronte a queste cose non ci siamo certo scoraggiati, anzi, ci è sembrata una bella sfida portare avanti la nostra coppia mista, e oggi, al consultorio, ho visto ben tre coppie miste e di nazionalità tutte diverse...il mondo sta cambiando e anche l'Italia, per quanto vogliano impedirlo è solo un chiudere gli occhi di fronte alla realtà già multietnica del paese. Come sempre è la società e il modo in cui si muove a fare la verità del cambiamento, non quello che ci raccontano politici, giornali e media in generale. Come dicevo, la mia preoccupazione è il mondo in cui sto per far nascere il nostro bambino...io ho affrontato serenamente la mia integrazione nel tessuto sociale in cui vivo, ma per lui come andrà? Ai commenti stupidi di una volta ormai si è sostituito il perbenismo di facciata, che forse mi spaventa ancora di più: si sa davvero chi si ha di fronte? Si può capire se il suo modo di fare è solo "politicamente corretto" mentre nasconde un profondo senso di disgusto per lo straniero, l'estraneo, lo sconosciuto? Non so, in verità, cosa mi aspetto dal Primo marzo, ciò che mi auguro in generale è trovare una modalità di dialogo con chi si chiude al diverso non comprendendo la ricchezza che ne potrebbe trarre; trovare un modo per preparare un'Italia più accogliente e giusta nei confronti dei suoi abitanti, cittadini e non; prepara-

le preoccupazioni e le sfide di una famiglia multietnica

re la strada ad un futuro in cui le differenze sono la forza positiva per lo sviluppo e l'armonia.

L'Italia che vorrei

Klodiana Cuka presidente di Integra Onlus rivendica il suo diritto a vivere in un paese civile

Lo sciopero non va inteso come una protesta e basta, deve essere uno strumento propositivo per trovare delle soluzioni, lo sciopero deve nascere dal basso, essere diretto dal basso con lo spirito dei più deboli che vogliono cambiare le cose. L'esperienza accumulata in tutti questi anni impegnandomi quotidianamente sul tema immigrazione, oggi mi porta ad affermare che sono una persona che crede che anche in Italia si possano raggiungere obbiettivi come quelli raggiunti da Eric Besson in Francia, Naser Khader in Danimarca e di Obama in America. Voglio un’Italia diversa che dia dignità a chiunque la richieda, non un’Italia accogliente in apparenza, e che usa i tanti problemi con i quali si trova a fare i conti, sbattendo gli immigrati sotto i ponti, o creando ghetti in cui si vive in condizioni disumane. Voglio un’Italia che dia una risposta alternativa ai centri di identificazione secondo modelli europei, voglio un’Italia in cui gli immigrati che lavorano e vivono nel rispetto dei diritti e dei doveri, contribuiscono al PIL

Sono di origine greca per parte paterna e italiana per parte materna. Vivo in Veneto da 36 anni. Ho un figlio il cui padre è a sua volta figlio di profughi ungheresi del '56. Ritengo che la politica sull'immigrazione italiana, così come quella europea, abbia passato il limite, da molto tempo, dell'umana tolleranza. Dalla manifestazione del Primo marzo mi aspetto di dare un minimo di forma e senso alla necessità individuale di non sentirmi complice del razzismo dilagante, che viene formalizzato e legalizzato, in Italia e in Europa. Inoltre se davvero si riuscisse a fermare il lavoro, nero o bianco, di una minima parte del popolo straniero residente in italia, per una giornata, credo sarebbe un segnale forte, visibile e tangibile dell'importanza per l'economia italiana e per la sopravvivenza dello nostro stato sociale, della presenza di migranti, immigrati e cittadini di altri paesi, nel nostro paese.

Elena La fidanzata di un clandestino

Il mio compagno è cittadino tunisino irregolare (senza permesso di soggiorno). Vedo in Italia una deriva razzista e xenofoba molto preoccupante e la vivo anche sulla mia pelle nella vita di tutti i giorni. Mi aspetto una grande adesione a questa iniziativa anche da parte di cittadini italiani. Aderisco perché vorrei che la gente capisse che clandestino non è sinonimo di criminale ma di essere umano.

Tindara Ignazzitto Un’insegnante di italiano agli stranieri

Sono italiana, di Palermo. Sono la referente di Primo Marzo 2010 nella mia città. Dopo una lunga esperienza di emigrazione all'estero e al nord, ho scelto di "emigrare al sud" tornando nella mia città, dove insegno italiano agli stranieri da oltre dieci anni. Sono autrice del blog http://stranieromavero.blogspot.com, portale siciliano su intercultura ed educazione alla pace. L'Italia farebbe bene a ricordare la sua storia, a prendere finalmente coscienza della sua vera identità, a smettere di vivere di ipocrisie e falsità. Il mondo ha sempre guardato all'Italia come ad una terra di grande saggezza, ingegno - non solo artistico - e civiltà. Questo gli stranieri lo sanno: perché gli italiani continuano a ignorarlo? Forse è più un problema di comunicazione e di cultura: i mezzi di comunicazione di massa e gli operatori culturali in genere dovrebbero dare maggiore spazio a ciò che ci avvicina alla nostra natura più vera di popolo accogliente, curioso e in grado di valorizzare ciò che di nuovo nasce in esso. Le ragioni della mia adesione alla manifestazione e le aspettative che in essa ripongo sono fondamentalmente due. Una ragione utilitaristica: la presenza degli stranieri mi permette di lavorare, ciò che invece non mi ha mai garantito il governo del mio Paese. La nostra figura di insegnanti di italiano agli stranieri non è mai stata riconosciuta ufficialmente, nonostante esistano numerosi corsi di laurea in didattica dell'italiano agli stranieri. Una ragione di civiltà, la seconda: non mi riconosco negli italiani che non vogliono gli stranieri in Italia. Il popolo di coloro che li vogliono è certamente la stragrande maggioranza e io mi considero parte di quest'ultimo, un popolo meticcio di italiani e stranieri insieme.




La storia Mantova

Vijay Kumar Di Marco Rovelli

A Salina di Viadana, in provincia di Mantova. Vijay Kumar. 44 anni. Indiano. ono tanti gli immigrati, nella zona di Viadana. Più di duemila su ventimila abitanti. E sono tanti anche i clandestini. In tutto il mantovano è così. Secondo un'indagine dell'Ismu fatta sulle domande di assunzione presentate per il decreto flussi del 2007, in Italia ce ne sono di più solo nel bresciano, trentadue ogni mille abitanti, contro i trenta del mantovano. Nella graduatoria seguono altre dieci città del nord – Veneto ed Emilia Romagna in particolare. L'Ismu stima che nel 2007 ci fossero 650mila clandestini in Italia, per una media dunque di undici ogni mille abitanti. Le zone dove si concentrano migranti regolari si sovrappongono a quelle dove si concentrano migranti irregolari: Brescia, ad esempio, è la città dove c'è la presenza più alta di immigrati non comunitari, il 13,2 percento. Ovvio, la questione è elementare: il migrante va dove c'è lavoro. E qui nel mantovano, come nel bresciano, c'è molta richiesta di lavoro, specialmente nell'agricoltura (Brescia, poi, è bacino di imprese edili per tutta la Lombardia, compresa Milano). Sono zone ricche, la domanda di lavoro supera l'offerta, e così si attinge al serbatoio di clandestini. Salina, dunque, via Bordenotte. L'estate sobbolle. Non si respira. E Vijay fatica. Stavolta ha trovato una cooperativa che lo ha mandato a raccogliere meloni nella proprietà di Mario Costa. Senza contratto, ovviamente, Vijay è clandestino. Lo hanno trovato sul bordo della strada. L'ambulanza è arrivata dopo ore. Vijay è stato lasciato morire il 27 giugno 2008 dal suo padrone. In un interrogatorio, Mario Costa ha detto di non aver caricato Vijay sul furgone per paura che morisse prima di arrivare all'ospedale. Memoriale eucaristico del prete Paolo Farinella a Viadana: “Di fronte alla morte di Kumar che nessuno scalpore ha suscitato nella civilissima e cristianissima bassa padana, dove il ministro padano non ha mandato i soldati a vigilare il territorio per assicurare lo «stato dei diritti». In queste condizioni, noi ci mettiamo automaticamente fuori del vangelo, fuori della Costituzione italiana, fuori della civiltà, fuori della dignità e del rispetto che non possiamo più pretendere. La morte di Kumar non è un incidente, ma il sigillo della nostra disumanità e il marchio della nostra ingordigia di cristiani falliti e di cittadini senza coscienza. Con lui noi abbiamo dato il nostro ostracismo anche a Dio.” Quello era il primo giorno di lavoro per Vijay. Lo aveva mandato una cooperativa, la cooperativa Facchini Vitelliani di Viadana, per sei euro l'ora. Una cooperativa che manda al lavoro clandestini. Il nome giusto per questa pratica è: caporalato. In India Vijay non lavorava nei campi, ma in un ufficio postale. Lo stipendio c'era, ma basso. E Vijay voleva che la sua famiglia, moglie e due figli, potesse star meglio. Così, cinque anni in Inghilterra, da clandestino. Attende il permesso. Ma il permesso non viene. E allora di nuovo in India.

S

Ma se non ripartisse, a Vijay parrebbe di aver sprecato cinque anni. Così parte di nuovo, stavolta con un visto turistico di nove mesi. Nel mantovano c'è già suo fratello Baljit. Mario Costa diede ordine ai colleghi di Vijay che lo spostassero di lì, quell'indiano che aveva avuto un infarto. Non era ancora morto, ma non poteva permettersi di chiamare un'ambulanza e far scoprire che impiegava clandestini. Che piuttosto trovassero un'auto per trasportarlo fuori dalla sua terra. Ma passa tempo, tanto tempo. Prima che si riesca a trovare un compaesano con la macchina. E prima che questo arrivi da Suzzara, venti chilometri da Viadana. Due ore. Nel frattempo Vijay sta peggiorando visibilmente. A quel punto, il panico per tutti. Lo lasciano vicino a un fosso, in uno spiazzo a fianco di una roggia, tra il granturco e i pioppi. Anche loro sono clandestini, è meglio che non si facciano trovare. Allora parte la telefonata al 118. Sono quasi le otto di sera. Dev'essere stato un secondo infarto: l'ambulanza, quando arriva, Vijay lo trova morto. Per dieci giorni raccontano che Vijay è morto di caldo. Poi ai carabinieri sono arrivate voci che le cose non stavano così, che quell'uomo ritrovato ai bordi di un campo, vicino a un fosso, morto per un apparente infarto, non era un passante, ma stava lavorando nella proprietà di Mario Costa. Vijay Kumar era nato a Nawashar, nel Punjab. Gli agricoltori e allevatori indiani che arrivano in Italia – e trovano lavoro nelle stalle della pianura padana, o nelle campagne del nord e del sud (nel basso Lazio in particolare) come braccianti - vengono in maggioranza dal Punjab o dall'Haryana, due regioni più ricche della media indiana: è più facile dunque per gli abitanti di quelle zone riuscire a trovare i soldi necessari all'esodo. (Gli altri immigrati indiani in Italia invece vengono da Tamil Nadu e Kerala, sono concentrati in massima parte a Roma e provincia, e per lo più sono portinai, badanti e collaboratori domestici, autisti, infermieri, ma anche commercianti e ristoratori). I punjabi, agricoltori o allevatori, già versati in queste mansioni nel loro paese, sono tra quella minoranza che riesce a sfruttare anche nel paese di immigrazione le proprie competenze. Sono quasi tutti di religione sikh. Anche Vijay lo era. Molti punjabi sono appassionati di kabaddi, uno sport a metà tra rugby e lotta libera. E si svolgono tornei tra le comunità migranti delle varie città, e quando si tratta di campionati europei gli incontri arrivano ad avere migliaia di spettatori. Non sono riuscito a sapere se Vijay fosse uno di questi. Vijay era in Italia da sette mesi, viveva in una casa isolata e malmessa al limitare di un bosco di pioppi. Sul tetto, due antenne paraboliche. A Salina di Viadana, in provincia di Mantova. Vijay Kumar. Quarantaquattro anni. Indiano. 25


L’intervista Italia

Sempre più intolleranti Di Benedetta Guerriero Pap Khouma, classe 1957, è una delle voci più autorevoli della letteratura senegalese in Italia. Emigrato nel nostro Paese nel 1984, appena avuta la possibilità, Khouma ha impugnato la penna per raccontare la propria storia. Risale al 1990 la sua prima pubblicazione, Io venditore di elefanti. Storia autobiografica in cui Khouma narra i suoi primi anni in Italia e il duro lavoro di venditore ambulante e immigrato. Da allora non ha più smesso di scrivere e oltre a pubblicare libri, collabora anche con alcuni prestigiosi quotidiani italiani. Come reputa il clima politico che si respira in Italia in questo momento relativamente alla questione migratoria? Ha senso parlare di razzismo? Per gli stranieri la situazione è molto pesante, si respira un clima imbarazzante. Dopo i fatti di Rosarno purtroppo siamo costretti a parlare di razzismo. Quando si iniziano ad utilizzare espressioni quali “caccia al negro” non è possibile catalogarle che sotto la categoria del razzismo. Alle espressioni verbali sono poi seguiti i fatti di violenza. Perché si è arrivati a questa situazione? A creare questo clima di intolleranza e cospirazione sono stati alcuni partiti politici. Spesso sento dire che questa situazione di imbarbarimento è un problema culturale. Non sono d'accordo. E' anche una questione politica. I vari partiti non sono in alcun modo interessati alla quotidianità dei cittadini, specie se si tratta di quelli stranieri. C'è qualcuno che ha avuto il coraggio di difendere gli immigrati e di denunciare il clima di odio? L'unica voce che mi viene in mente è quella del cardinale Tettamanzi che qui a Milano ha sempre preso delle posizioni molto chiare, coraggiose. Va contro chi vuole instaurare un clima di odio e intolleranza tra italiani e stranieri. Le sue dichiarazioni gli sono costate chiare. Tettamanzi si è sentito dare dell'imam, solo perché ha osato parlare di dignità per gli immigrati. Altre voci forti e contro corrente non mi vengono in mente. Non vedo prese di posizione significative da parte degli uomini di cultura, né da parte di altri. Specie da coloro che fanno parte delle istituzioni. Cosa pensa della politica migratoria italiana, ammesso che ne esista una? Non credo che esista una volontà di spingere verso l'integrazione degli stranieri e non ho molta fiducia nelle politiche migratorie. Mi sembrano effimere, in balia dei fatti di cronaca. Quando si verifica un episodio grave o violento, come possono essere gli stupri o le rapine, si agisce in maniera irrazionale. Di norma si procede all'emanazione di un decreto, sempre più repressivo, che va a colpire tutti gli stranieri e non il singolo delinquente. Repressione per tutti, quasi vivessimo in una società tribale. Che conseguenze comporta questo modo di agire? Fa scattare meccanismi strani che portano ad accomunare gli stranieri. Non esistono più i polacchi, i senegalesi, i romeni, gli indiani. Tutti veniamo equiparati in una massa informe e pericolosa. Più che una politica 26

migratoria sembra una politica di vendetta generalizzata. Aumentano le espulsioni e il rinnovo o l'acquisizione del permesso di soggiorno sono sempre più difficili da ottenere. Capisco che non sia facile per legislatori e politici risolvere e gestire la questione migratoria, ma una maggiore organizzazione sarebbe utile. Anche i tempi burocratici sono diventati lunghissimi. Scaduto il permesso di soggiorno, d'improvviso ci si trova nell'irregolarità. Condizione che, a causa delle lungaggini burocratiche, può durare mesi, senza alcuna considerazione per chi in Italia ha una famiglia, dei figli. Ha mai subito episodi di razzismo? Purtroppo sì, ma più che della mia esperienza vorrei parlare di quella degli altri. Non solo a Rosarno, ma anche a Milano capitano fatti molto gravi. Fino a pochi mesi fa c'era quasi la moda di accoltellare i ragazzi di colore. Ricordo, ad esempio, Mohamed Ba, accoltellato alla fermata dell'autobus, e non parliamo di coloro che subiscono violenze, ma non possono nemmeno denunciarle, perché irregolari. Queste persone non avranno giustizia. C'è un eccesso di tolleranza da parte degli amministratori verso chi usa violenza verso gli stranieri? C'è chi si sente legittimato a compiere atti di razzismo. Affermazioni come quelle del ministro degli Interni Maroni che, davanti ai fatti di Rosarno, ha parlato di eccessiva tolleranza da parte degli italiani farebbero ridere, se la situazione non fosse così drammatica. Un simile intervento è pericoloso: incentiva e giustifica certi atteggiamenti. L'Italia ora, visto che sono qui da 25 anni, è anche il mio Paese e ci tengo molto a vivere qui serenamente. Si sente di dare un messaggio agli immigrati di Rosarno? In un certo sento mi sento un po' responsabile. La comunità straniera non ha fatto abbastanza per aiutarli e non c'è stata una reazione forte. Né gli africani, né gli altri stranieri hanno organizzato una gara di solidarietà o fatto sentire la loro indignazione. Mi sento colpevole per questo. Questa volta è toccato ai neri, ma domani potrebbe capitare ai rom, agli indiani e cosa facciamo? Rimarremo sempre zitti a guardare? Almeno gli stranieri di Rosarno hanno avuto il coraggio di ribellarsi alla schiavitù.

Pap Khouma alla manifestazione spontanea per protestare contro l ‘uccisione di Abdul Guiebre detto “Abba”. Milano 2008. Archivio PeaceReporter


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La storia Marche

Il mondo in un palazzo Di Giampaolo Paticchio

Più o meno a metà delle Marche, scorrendo lungo la statale che fa il pelo all’Adriatico, capita di imbattersi in un’anomalia architettonica. Un baraccone di cemento a sedici piani si materializza all’improvviso nel susseguirsi omogeneo di costruzioni basse. Siamo a Portorecanati e quel colosso in muratura, pianta a croce, tutti lo chiamano Hotel House. esposizione permanente del bucato steso riveste l’intero palazzo e rianima il rosso slavato della superficie esterna. Le facciate sono percorse da lunghi balconi e da lì sporgono, come enormi occhi bianchi, centinaia di antenne paraboliche. Varcato il cancello, il trauma estetico si stempera davanti al fluire di umanità varia del piazzale. Qui all’Hotel House l’italiano è lingua di minoranza. Eppure è l’unico collante comunicativo in tanta diversità di codici e di linguaggi. In questa sorta di enclave multietnica, popolata da circa due migliaia di persone di quasi trentacinque paesi del mondo, persino gli odori rimandano ad altri universi. Viene da pensare a Babele. Ma se la torre del mito crollò sotto il peso delle differenze, l’Hotel House invece regge bene la forza d’urto della promiscuità culturale. Universi antropologicamente dissonanti vi riescono a convivere, dividendosi quattrocento ottanta appartamenti di sessantasei metri quadrati l’uno, infilati lungo corridoi dritti e scuri. Alla rovina degli intonaci fa da controcanto la vitalità delle voci, la varietà dei vestiti, l’attività diffusa. L’atmosfera da sud del mondo. Come se all’altezza dello sterno d’Italia, per trapianto quasi involontario, ci si ritrovasse un piccolo cuore meticcio. L’Hotel House è una specie di riserva indiana. Isolata come in un ghetto, la popolazione migrante del palazzo è l’emblema del modello anti-integrazionale applicato di fatto da molti amministratori pubblici da quando, negli anni ’90, l’Italia è meta privilegiata di emigrazione. Nel condominio molti, non tutti, sono regolari e spesso proprietari di appartamento. Come in tutte le realtà periferiche e un po’ abbandonate a se stesse, racchiude sacche di disagio sociale, comunque meno che in passato. Ma gli stranieri dell’Hotel House rappresentano anche un serbatoio, tacitamente benedetto, di lavoro a buon mercato o in nero, in un territorio industrializzato e disseminato di realtà agricole. In realtà l’Hotel House è soprattutto un posto per famiglie, magari allargate; e il lavoro -che sia in nero, che sia regolare- è il comune denominatore della quotidianità della maggioranza dei suoi abitanti. Hamid è l’imam. È lui che guida la preghiera nella piccola moschea ricavata in un magazzino. Di domenica tiene la catechesi ai piccoli musulmani di ogni continente. “Non parlo loro solo di Islam”, dice. “È un momento di crescita umana, di educazione, di lingua”. Poi confessa: “È dai bambini che ho imparato l’italiano. Tutti gli adulti, qui, lo apprendono da loro”. All’Hotel House l’integrazione parte letteralmente dal basso. Dai più piccoli. Data l’età media, l’Hotel House potrebbe essere un vivaio per l’Italia di domani. Pare che la nostra popolazione stia invecchiando inesorabilmente. Come se lo aspettano il futuro, dal canto loro, i ragazzi venuti da lontano, in

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un paese che non riesce ancora a sentirli come propri cittadini? Nel piccolo supermarket, una ragazza nigeriana avanza tra i sacchi da dieci chili di riso basmati. Sorride gentile ma non ha voglia di parlare. Indica l’area dietro. Ci sono i ragazzi che giocano a pallone. Basta avvicinarsi ai margini del campetto, dove troppi giocatori si contendono uno spazio troppo angusto, per attaccare bottone con due adolescenti che presidiano la ringhiera. In breve si crea intorno a noi una piccola folla di ragazzi e il gioco passa in secondo piano. lì ha ventun’anni ed è pakistano. È in Italia da otto e fa l’operaio. Dice di sentirsi a casa sua anche qui. Crede che gli italiani siano più accoglienti degli altri europei. “Le leggi invece sono migliori altrove”. Alì si dice realista, sa di non poter aspirare a niente di più che alla fabbrica. Per i posti migliori i giovani italiani sono avvantaggiati. “Loro hanno una famiglia alle spalle, io, la mia famiglia, invece la devo mantenere. Se venissimo formati meglio, anche noi stranieri potremmo aiutare questo paese a diventare migliore”. Zied è tunisino e ha diciotto anni da un mese. Il suo sogno è circoscritto agli elementi di una vita normale, dignitosa: la qualifica di cuoco, un lavoro, una ragazza. In quanto agli italiani, dice: “Ho paura di fare loro paura”. Molti degli altri intorno a noi sono africani, soprattutto senegalesi. Ci tengono che i loro nomi siano pronunciati bene: Matar, Bathie, Aliou, Serigne, Sekha. “Qui non si fa nulla per l’integrazione, mentre in Francia c’è persino un ministro per gli immigrati”, protesta uno di loro. “In Africa tutti abbiamo un forte senso della famiglia, degli amici. Qui siete più soli”, sentenzia il piccolo Bathie. Sekha la sa lunga ed è un fiume in piena: “Tre secoli di schiavismo, poi la colonizzazione e oggi le multinazionali. È per questo che l’Africa è povera e noi siamo costretti a partire”. Ma non è tutta rabbia la sua, c’è anche l’incertezza del domani: “Io ho paura per il futuro. C’è la crisi, non si trova lavoro e io non ho nemmeno il diploma. La legge italiana è ostile agli stranieri e i nostri genitori hanno subìto questa discriminazione a lungo, perché avevano problemi più urgenti, di sopravvivenza. Ma noi ci faremo sentire”. Gli altri lo ascoltano in religioso silenzio, con evidente rispetto. “È forte il mio amico”, mi mormora uno smilzo all’orecchio, in francese. Mais oui, ha un futuro da leader. Mentre il gioco è già ripreso. E tutti vi si buttano dentro.

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Hotel House. Italia 2009. Foto di Luca Vannicola per PeaceReporter.


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Qualcosa di personale Foggia

Sono io quello sfruttato testo raccolto da Luca Galassi A. G. è un imprenditore, uno che sta dall'altra parte. Per alcuni, uno dei tanti che sfruttano il lavoro nero. Ma, secondo lui, nella Capitanata, in provincia di Foggia, gli imprenditori sono spesso costretti a reclutare tra le fila degli extracomunitari. Perché i contributi costano. E lo Stato, come al solito, non c’è. l nostro problema non è quello del lavoro in nero. È il problema dell'occupazione. Non di quella degli stranieri, ma di quella italiana. Qui occupazione non ce n'è, e gli italiani stessi, quelli che riescono a trovare lavoro, prendono trenta euro al giorno. Non sono gli stranieri a venire sfruttati qui in Italia, ma gli italiani, che avrebbero bisogno di un contratto da millecinquecento euro al mese per sopravvivere, e invece ne prendono novecento. Nei magazzini e nei capannoni di questo territorio, tra Stornara e Stornarella, ci sono innumerevoli comunitari ed extra-comunitari che stanno benissimo. È gente che si è integrata benissimo. Ma questi stranieri che la mattina chiedono lavoro, vogliono il sole e la luna. Queste persone, che hanno visto sempre il buio, pensano di venire nel nostro Paese e di vedere il sole. Purtroppo nel boom della raccolta del pomodoro o dell'uva dobbiamo andare in piazza a prendere questi lavoratori, di cui abbiamo bisogno perché la nostra è merce deperibile. Qui lo Stato, invece di aiutare l'imprenditore che assume questi extracomunitari, penalizza e punisce. Arrivano le ispezioni e scattano le multe: quindicimila, settantamila euro, perché magari un operaio non è assunto coi contributi. La legge italiana vuole che l'imprenditore assuma l'operaio tre giorni prima. Se devo far lavorare una squadra di persone che oggi ci stanno e domani no, devo andare a fare la segnalazione all'ufficio di collocamento e all'Inps, con dei nominativi ben precisi. Se quel giorno, quattro degli operai che ho chiamato tre giorni prima si ubriacano e non vengono a lavorare, io devo per forza andare in piazza, a prendere queste persone che sono lì, sempre, per guadagnarsi un chilo di pane. Io non posso sapere se gli operai la mattina verranno a lavorare tutti quanti, per quello c'è questa manodopera pronta. Solo che l'ispettorato del lavoro fa multe salatissime. Purtroppo ci siamo capitati anche noi in questa situazione. Mia sorella ha una causa con l'Inps di Foggia, perchè un giorno hanno trovato dodici extracomunitari. Come ho detto, capita che la mattina alcuni operai non si presentino al lavoro. Così siamo dovuti andare in piazza a dar del lavoro agli extracomunitari per fargli guadagnare un chilo di pane. Ma non è che li sfruttavamo, noi gli davamo lo stipendio che diamo agli italiani a Cerignola, quarantacinque euro nell'arco di sei ore. E non è vero che diamo agli extracomunitari dieci o quindici euro. Qui c'è gente che se ne approfitta per far vedere il male oscuro del Sud, ma noi piccoli imprenditori, che lavoriamo dalla mattina alla sera, siamo costretti a buttare pomodori, broccoletti e verdure perchè non si vendono. Dicono che noi siamo gli sfruttatori degli extracomunitari, invece è tutto il contrario. Noi diamo da vivere a queste

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persone. È lo stato che sfrutta noi, che chiede cose che non possiamo sostenere. Per quanto riguarda il lavoro nero… a noi l'assunzione di un operaio ci costa diciotto euro al giorno, che sommati ai quarantacinque di salario, fanno oltre settanta euro. Dove li andiamo a prendere questi soldi, con l'uva a tredici euro...? Lo stato deve intervenire con integrazioni per queste aziende che fanno assunzioni a comunitari o agli extracomunitari, magari non facendo pagare i contributi. Allora sì, se ne possono assumere, tre, quattro, o di più. Io purtroppo devo fare i conti con i soldi che ho in tasca. E di soldi in tasca non ne abbiamo più. Abbiamo bisogno di gente qualificata. Non di persone che rubano o si ubriacano dalla mattina alla sera, o che non hanno voglia di lavorare. Abbiamo bisogno di persone che lavorano. Io ho assunto due bulgari, e loro lavorano benissimo, sono perfettamente integrati. Ben vengano gli extracomunitari, ma non quelli che arrivano clandestinamente per spacciare cocaina o altro. Non abbiamo bisogno di queste persone. e anche noi agricoltori non fossimo in una situazione di estremo bisogno, allora tutto questo sistema non esisterebbe. Le aziende non hanno la possibilità di metterli a posto, non possono pagare diciotto euro al giorno per i contributi. La responsabilità è dello Stato e della Regione. Facessero loro il primo passo per l'integrazione di queste persone, dicendo: assumete la manodopera extracomunitaria e noi vi aboliamo i contributi. Solo allora vieni a farmi i controlli, e non le multe. Dovrebbero premiarci, a noi imprenditori agricoli, che diamo loro da mangiare. Perché se non glielo dessimo noi, succederebbe la fine del mondo. La loro mentalità è diversa dalla nostra. Lo dico senza razzismo, siamo tutti quanti esseri umani. Ma la sera sono tutti quanti ubriachi. Non è gente su cui puoi fare affidamento, questa qua. Li vedi buttati a terra, si uccidono tra di loro, il problema qua è che se devono venire in Italia devono essere qualificati. Chi sta qua e impara, rimane. E chi rimane fa anche i quattrini, ha tutele, ha una casa. Tutti quelli che non stanno bene vuol dire che non hanno voglia lavorare. Non è questione di clandestinità o di lavoro in nero, perchè anche gli italiani lavorano in nero. Il novanta percento degli italiani lavora in nero, perché le aziende non possono pagare i contributi. I contributi costano. Ci vengono a dire che sfruttiamo la manodopera nera, ma non è che si sfrutta, è che non si può proprio... Nessuno ha voglia di avere i verbali dall'ispettorato dell'Inps. Solo se a me i soldi in tasca mi entrano io sono a posto.

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Immigrato rumeno nella Caritas. Cerignola 2008. Foto di Luca Galassi ©PeaceReporter


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La storia Italia

Seconda generazione Di Seble Woldeghiorghis

Luglio 2006, una data memorabile per molti italiani. Quel giorno, milioni di occhi erano puntati sugli schermi televisivi che trasmettevano la finale del campionato mondiale. L'Italia si trovava a contendersi la coppa del mondo con la Francia. na partita sofferta e con molti colpi di scena. Le infinite sigarette accese, la rabbia e la tensione finalmente spezzate da quel rigore di Grosso che decretò l'Italia campione del mondo. E' come se tutto il paese avesse esultato nello stesso momento, una sensazione unica, che ti fa sentire parte di una grande famiglia. Quella sera io e i miei amici decidemmo che era l'occasione giusta per aprire una bottiglia di champagne costosissima. Presi dall'euforia, ci dirigemmo verso la piazza del Paese dove al nostro arrivo fummo accolti da una folla in festa. Gli sconosciuti si abbracciavano e condividevano le lacrime di gioia. C'era addirittura chi era sceso in strada con il trattore. I cori e la musica facevano da sottofondo assordante a un popolo fiero di sé. A un angolo della piazza un gruppo di ragazzi africani aveva portato con sé i tamburi e i bonghi, saranno stati una decina, anche loro colmi di felicità per la vittoria. Attirarono subito l'attenzione di tutti e alcuni italiani decisero di farsi trasportare dal suono degli strumenti ballando e cantando. Una scena che avrebbe potuto essere il simbolo di un'Italia multietnica, ma che purtroppo fu interrotta dall'ignoranza di pochi che però finì col contagiare i molti. Un gruppo di ragazzi si avvicinò ai percussionisti intimandogli di smettere di suonare. Secondo loro gli africani non avevano il diritto di suonare in quanto non italiani. Se ne sarebbero dovuti tornare a casa loro, in quella piazza non erano ben accetti. Ne nacque un'accesa discussione in cui i toni si alzarono e che se non fosse stato per la calma rassegnata degli “stranieri” avrebbe potuto trasformarsi in una rissa. Ad un certo punto uno dei ragazzi chiese di poter continuare a festeggiare in pace perchè pur essendo di origini africane lui era nato e cresciuto in Italia, voleva semplicemente far festa per il suo paese e per cercare di spezzare le ostilità pronunciò qualche parola in perfetto dialetto lombardo. L'effetto fu proprio il contrario. Il sentir pronunciare quelle parole in dialetto riaccese gli animi, sentire un nero usare la loro lingua era inaccettabile. Per il ragazzo non ci fu nulla da fare, con la delusione profonda in volto, decise di abbandonare i festeggiamenti per il suo paese che era diventato campione del mondo. Quella non era la sua squadra, non era la sua nazione. Non importava che fosse nato in Italia e che parlasse italiano alla perfezione, un italiano non poteva assomigliare a lui ed era gentilmente pregato di abbandonare la festa. Questa è una vicenda che mi ha molto colpita, visto che anche io ero in mezzo a quella folla e anche io ragazza di colore, nata e cresciuta in Italia, non avevo il diritto di essere felice per il mio paese. Ho coltivato dentro di me la felicità con la paura e la vergogna di mostrarla apertamente e pro-

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vocare l’ira di qualche altro beota. i parla molto del problema dell'integrazione e dell'accoglienza dello straniero, molto spesso però ci si dimentica delle difficoltà vissute dalle cosiddette seconde generazioni. Sono ragazzi e ragazze nati in Italia che non hanno nulla di diverso dal loro amico Mario Rossi, se non il cognome e alle volte il colore della pelle. Potremo dire che le difficoltà vissute da un ragazzo nato in Italia da genitori stranieri sono maggiori rispetto a chi arriva qui in età adulta. Nel paese d'origine dei genitori molti non ci sono neanche stati e a malapena ne parlano la lingua. Sono visti come stranieri in entrambi i paesi. Sarebbero la forza di un'Italia dal nuovo volto, ma troppo spesso la lentezza burocratica nell'assegnazione della cittadinanza li fa vivere in un limbo identitario. L'episodio dei mondiali risale al 2006, ma è evidente come la problematica dell'accettazione di questi nuovi cittadini sia ancora aperta. Considerarli italiani a tutti gli effetti potrebbe essere una vera e propria minaccia per l'Italia? Di sicuro il numero crescerà sempre di più nel tempo se si pensa che nel 2009 oltre il 20 percento dei nati aveva genitori stranieri. Non è solo una questione di principio, ma anche e soprattutto logistica. La cittadinanza che a loro spetterebbe di diritto, eviterebbe a questi ragazzi le interminabili file fuori dall’Ufficio stranieri per ottenere il permesso di soggiorno. Certo è che il passaporto è solo un pezzo di carta che non li farà accettare come italiani agli occhi della gente, ma sicuramente rappresenterebbe un primo passo delle istituzioni verso un ripensamento delle forme di identità nazionali. Dopo la vittoria di Barack Hussein Obama negli Stati Uniti molti si sono domandati se in Italia fosse possibile avere un giorno un presidente di colore o comunque non di discendenza italiana. Ma se la situazione dovesse rimanere così, la risposta sarebbe un secco no perché un cittadino non munito di cittadinanza italiana non potrebbe mai diventare Presidente del Consiglio, tantomeno della Repubblica. Ovviamente bisogna andare per gradi, ma ignorare ora questo problema creerà grossi problemi nel futuro con il rischio che questi cittadini, vedendosi le porte dell’integrazione chiuse si ghettizzino e nutrano ostilità verso il loro paese natale. Per evitare ciò è necessario riconoscere che l’Italia è già un paese dal volto nuovo e tentare di trovare il modo per accelerare il processo di accettazione dei nuovi italiani.

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In alto: Davide, italo/filippino. Roma 2008. In basso: Lina, nata in Italia da genitori cinesi, studentessa dell'università. Cagliari 2008. Foto di Luca Spano/OnOff


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Migranti

Cinque stelle di lager Di Gabriele Del Grande

Chi ancora si ostina a chiamarli "lager" si sbaglia. Esiste una nuova generazione di centri di identificazione e espulsione. Progettati su misura, dotati di servizi e di qualità certificata. Centri a cinque stelle, che allo Stato costano molto caro, ma che dal punto di vista delle condizioni di detenzione degli immigrati senza documenti in attesa del rimpatrio forzato, sono inattaccabili. l Cie di Modena è sicuramente uno di questi. Costruito appositamente nel 2002, a fianco del carcere, dall’esterno ha l’aspetto di un albergo. Niente filo spinato, niente mura di cinta. Da fuori, le gabbie non si vedono e il colore arancione delle pareti rassicura. Le celle sono state rinominate “moduli abitativi”. Ce ne sono sei in tutto, per sessanta persone. In ogni modulo ci sono camere e sala da pranzo, con tanto di televisione collegata alla parabola, incastonata nel muro e protetta da un vetro infrangibile. Ogni detenuto ha diritto a un menù personalizzato, a un kit di indumenti, e a una serie di accessori quotidiani, che gli vengono scalati da un bonus di 2,50 euro che matura per ogni giorno di detenzione. Al primo piano c’è una specie di “banca” dove si aggiorna un registro contabile delle entrate e delle uscite per ogni ospite. A disposizione ci sono sigarette, schede telefoniche, merendine, coca cola, shampoo antiforfora e quant’altro. Il servizio di lavanderia è gratuito. Gli indumenti sono igienizzati e sterilizzati a ogni lavaggio. E poi c’è un servizio di assistenza sociale e medica e la possibilità di ottenere prestazioni specialistiche al policlinico. Tutte attenzioni che “servono a diminuire le tensioni” secondo la direttrice del centro, Anna Maria Lombardo. Già, perché la qualità della struttura detentiva non cambia la violenza di fondo: la violenza istituzionale di uno Stato che priva della libertà persone che non hanno commesso reati. Il conflitto è latente e riesplode a scadenze regolari anche all'interno dei centri di espulsione a cinque stelle. Come lo scorso 17 agosto 2009, quando il centro di Modena venne messo a ferro e fuoco dai detenuti per protestare contro l'entrata in vigore del pacchetto sicurezza. La famosa legge 94 che aveva prolungato da due a sei mesi il limite della detenzione nei centri per gli stranieri in attesa di essere identificati e rimpatriati con la forza.

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a quanto costa un centro di espulsione a cinque stelle? Per ogni persona detenuta a Modena, lo Stato paga settantacinque euro al giorno. Tanto o poco? Tanto, addirittura il triplo della diaria di ventisei euro che lo Stato paga per ogni detenuto nel centro di Crotone. In un anno fanno un milione di euro. Una pioggia di denaro affidata sin dall'apertura del centro alla Confraternita delle Misericordie di Modena, presieduta da tale Daniele Giovanardi, fratello dell'ex ministro Carlo, deputato dei Popolari Liberali confluiti nel Popolo della libertà. Coincidenza. Una pioggia di denaro che, per il controllo di sessanta detenuti, dà lavoro a ventitre operatori sociali, cinque medici, trentadue infermieri, sei mediatori culturali e quattro amministratori. Senza contare i servizi di pulizia e la prepa-

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razione dei pasti, appaltati a ditte esterne. È questo il secondo effetto della seconda generazione dei centri di identificazione e espulsione. L'appalto della gestione delle strutture al privato sociale, non solo ha elevato gli standard delle condizioni di detenzione, al punto che l'opinione pubblica li ritenga addirittura necessari al controllo dell'immigrazione, ma ha fatto molto di più. Li ha resi una ghiotta opportunità per il terzo settore. Tutti vogliono spartirsi la torta. Dalle Confraternite della Misericordia alla Croce rossa, dalle Cooperative rosse ai consorzi tipo Connecting People. La partita vale milioni di euro l'anno. Soldi che servono a fare cassa e creare decine di posti di lavoro. Posti di "tecnici", di gente che sicuramente lavora con tanta buona volontà, ma con altrettanta cecità. Utili idioti, mai così utili come in questi tempi di crimini di pace. crivevano Franco e Franca Basaglia nel 1975: “In questi ultimi anni va delineandosi sempre più chiara la compresenza di due tipi di guerra: la guerra imperialista e i movimenti antimperialisti presenti un po’ ovunque nel mondo; e la guerra quotidiana, perpetua, per la quale non sono previsti armistizi: la guerra di pace, con i suoi strumenti di tortura e i suoi crimini, che ci va abituando ad accettare il disordine, la violenza, la crudeltà della guerra come norma della vita di pace”. Allora erano i manicomi il fulcro della violenza istituzionale, oggi sono i centri di identificazione e espulsione. Sempre meno “lager”, sempre più qualificati, sempre più ambiti dal terzo settore, perché la loro gestione in appalto vale milioni di euro l'anno. “Tutto questo – per dirla ancora con Basaglia – in nome del bene della comunità, in nome del progresso che darà all’uomo il benessere e la felicità. Ma quale uomo?" Nell'ottobre del 2007, a distanza di due giorni uno dall'altro, due tunisini detenuti nel centro di identificazione e espulsione di Modena, si legarono un lenzuolo intorno al collo e si impiccarono. Sono passati due anni da allora, chissà se le loro madri avranno mai avuto risposta alla domanda di fondo. Perché i loro figli erano stati arrestati? Cosa avevano fatto di male? La verità è che non avevano fatto niente di sbagliato, ma che erano qualcosa di sbagliato. Erano uomini nati nelle terre dei barbari e privi del foglio di carta con il timbro d'inchiostro e la marca da bollo che nell'Europa civile si chiama permesso di soggiorno e dà diritto ad esistere. L'opinione pubblica italiana invece di domande probabilmente continuerà a non farsene. E per lavarsi la coscienza continuerà a chiamarli “ospiti” anziché “detenuti” e continuerà a chiedere che sia garantita la pulizia e l'ordine all'interno dei centri, per il rispetto dei diritti umani.

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Rubriche

In tivù di Sergio Lotti

Alabama, Italia Per il ministro leghista dell’interno, Roberto Maroni, a Rosarno è tutta colpa delle autorità locali: la sanità calabrese che non fa i dovuti controlli, il comune che non assegna alloggi decorosi a chi ha un contratto di lavoro, come prevede la legge Bossi-Fini, persino i sindacati che tollerano lo sfruttamento selvaggio degli immigrati e il lavoro nero. Scusi ministro, ma è il federalismo, gli fa notare Fabio Fazio a Che tempo che fa. Il cattivo federalismo, ribatte Maroni, che solo per puro caso, s’intende, riguarda il sud e per di più la sinistra. Una miscela certamente esplosiva. Come faceva lo Stato a prevedere che sarebbe diventato un problema di ordine pubblico? Poteva, ministro, poteva. Perché in un filmato mostrato ad Annozero appare chiaramente che dieci anni fa la situazione era identica: già allora si volevano mandar via i neri, gli si sparava addosso, li si sfruttava fino anche a pagarli con soldi falsi. E in otto di questi dieci anni la Lega nord era al governo con Berlusconi. Ma secondo lei, gli italiani sono razzisti o no, gli chiede alla fine Fazio. Assolutamente no, risponde con fierezza Bobo, e la Lega non è un partito xenofobo. Risposta comprensibile, in un paese in cui è diventato difficile chiamare le cose col loro nome, anche se al nord certi leghisti vorrebbero addirittura posti riservati per i cittadini italiani sui mezzi pubblici. Per combinazione, pochi minuti dopo Che tempo che fa, La Sette ha ritrasmesso il bellissimo film di Alan Parker, Mississippi Burning, una storia vera di razzismo degli anni Sessanta nel profondo sud degli Stati Uniti, dove si trattano i neri come animali, si inveisce contro le bugie dei giornalisti comunisti, si parla di proteggere i veri cristiani dalle contaminazioni di civiltà inferiori. Tutte frasi che sempre più spesso riecheggiano, non nel Mississippi o in Alabama, ma sui teleschermi del Belpaese 45 anni dopo. E ancora più inquietante, come osserva Gad Lerner ad Annozero, è il fatto che non in Alabama, ma qui da noi il governo per la prima volta sia dovuto intervenire per trasferire in massa gli immigrati in altro luogo soltanto perché il colore della loro pelle poteva provocare problemi di ordine pubblico. Però l’abbiamo fatto per il loro bene, per proteggerli, continua a ribattergli imperturbabile Roberto Cota, capogruppo della Lega nord e aspirante governatore del Piemonte. Ma certo, la Lega nord non è mica xenofoba. Parola del ministro dell’Interno.

A teatro

Al cinema

di Silvia Del Pozzo

di Nicola Falcinella

In scena i cattivi

Un profeta di Jacques Audiard

Un uomo violento, un rumeno semianalfabeta, spacciatore di droga. E suo figlio, un ragazzo schiacciato da questo padre-padrone nevrotico, che cerca di emanciparsi con lo studio, ma a poco a poco cade vittima dell’eroina. Sono i due poli di un crudo dramma familiare e insieme sociale che sempre più spesso ormai si fa realtà quotidiana nella nostra società. Lo ha scritto negli anni ’80 l’americano Reinaldo Povod (morto a 34 anni per overdose), e tradotto Edoardo Erba che ha ambientato la vicenda nella più squallida delle periferie romane. A portare in scena “Roman e il suo cucciolo” è Alessandro Gassman che veste anche i panni del padre, un ruolo già interpretato a Broadway dal grande Robert De Niro. L’idea del regista-attore (reduce da un successo teatrale “La parola ai giurati” che gli è valso l’anno scorso il premio Eti), era quella di raccontare quei cattivi - e perché lo diventano- che vivono nel degrado sociale e umano in un ambiente fatto di razze, lingue, culture diverse, tra ignoranza e disonestà, coltivando comunque la speranza di un futuro migliore almeno per i figli. Roman infatti vorrebbe che il “suo cucciolo” diventasse carabiniere, ma il ragazzo lo teme e lo rifiuta, e trova un padre putativo in uno pseudo intellettuale tossicodipendente, con evidenti conseguenze… Se i protagonisti della pièce di Povod sono tutti vittime della miseria morale e sociale, “La bellezza e l’inferno” ruota invece intorno alla nobile figura di un uomo coraggioso, ma vittima anche lui di una tremenda violenza, quella dell’ndrangheta: è Roberto Saviano, l’autore di “Gomorra”, il saggio-romanzo che gli ha dato successo e fama ma gli ha anche “blindato” la vita, per proteggerlo dalle minacce mafiose. Nel monologo di cui è protagonista, Saviano ripercorre il suo percorso, dagli inizi dell’attività di scrittore e giornalista, la militanza antimafia, i personaggi famosi e non incontrati davvero o tra le pagine dei libri, fino all’invito a Stoccolma da parte dell’Accademia dei Nobel. Un racconto emozionante che si snoda lungo il filo rosso della Parola, unica forma di resistenza (e bellezza) in una vita segregata, capace di opporsi a ogni forma di potere, a testimonianza che la verità, nonostante tutto, esiste.

Un giovane carcerato arabo che dentro la prigione diventa un boss della malavita. Il film è “Un profeta” del francese Jacques Audiard, premiato con il Gran Premio per la giuria al Festival di Cannes 2009. Una pellicola poco politicamente corretta, che non si occupa degli aspetti sociologici, bensì si limita a mostrare la parabola di un uomo, la sua caduta agli inferi da quando impara a uccidere un uomo di cui si era conquistato l’amicizia. L’opera del regista di “Sulla tua bocca” e “Tutti i battiti del mio cuore” è una vera e propria consacrazione per un autore finora sottovalutato. Lo fa raccontando la storia del diciannovenne Malik, francese di famiglia araba, in un modo lontano dalla cronaca ma utilizzando gli stilemi del film di genere. Ne risulta un lavoro di due ore e mezza asciutto e teso fino alla fine e con un paio di personaggi memorabili. Tutto inizia quando il giovane, che già aveva trascorso un’adolescenza in un dentro e fuori dai carceri minorili, viene messo dietro le sbarre con gli adulti. Appena entrato subisce le prime minacce e le prime violenze, ma il forte clan dei detenuti corsi lo prende sotto la protezione individuandolo come l’uomo giusto per eliminare un rivale. Malik, dopo aver superato la prova iniziatica, si cala nella parte, diventa parte del gruppo degli isolani e si rivela privo di scrupoli e pronto a salire in fretta la gerarchia. Si crea inimicizie fra i detenuti arabi, mentre impara persino la lingua corsa. In apparenza il suo comportamento è talmente impeccabile da riuscire a ottenere dei permessi per buona condotta, durante i quali esegue delle missioni segrete per conto dei suoi capi. Nel contempo cresce anche la sua ambizione che lo porta a lavorare in proprio rimpiazzando il boss Luciani, del quale provoca la caduta in un faccia a faccia quasi tra padre e figlio in un finale durissimo.

“Roman e il suo cucciolo”: Siena. Teatro dei Rinnovati (tel. 0577 292225) dal 23 al 25/2. Altre tappe: Pistoia (T. Manzoni, 12-14/3), Cesena (T. Bonci,18-21/3), Brescia , Vicenza, Venezia. “La bellezza e l’inferno”: Milano, Teatro Grassi (tel. 848800304) dal 16 al 28/2.

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Musica di Claudio Agostoni

Appunti per una compilation migrante Dieci canzoni da scaricare per farvi un cd o da inserire nel vostro iPod in vista del 1° marzo. O semplicemente uno stimolo per cercarne altre. Track 01. Domenico Modugno: Amara terra mia Struggimento e nostalgia infinita di un migrante che saluta la sua terra: “…io vado via, amara terra mia, amara e bella”. Track 02. Ivano Fossati: Italiani d’Argentina Quando gli extracomunitari eravamo noi: “…trasmettiamo da una casa d'Argentina /illuminata nella notte che fa / la distanza atlantica / la memoria più vicina / e nessuna fotografia ci basterà”. Track 03. Beppe Gambetta: Costumi siciliani “Con gli immigranti, durante la traversata, viaggiava un patrimonio culturale e musicale che si esprimeva attraverso il mandolino e la chitarra…”. L’apporto degli italiani alla musica delle Americhe. Track 04. Matteo Salvatore: Lu furastiero Il padre del cantautorato italiano ha lavorato per anni, come bracciante, negli stessi campi dove oggi ‘faticano’ i migranti. “Per coperta una racanella, per cuscino la sacchettola”: sembra la descrizione di un dormitorio di Rosarno, invece è una canzone di parecchi lustri fa.

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Track 05. Luigi Maieron: Mago Tiraca Luigi canta nella lingua del Friuli, terra di emigrazione sino a non molti anni fa. “La musica era un modo popolare di trasferire la tristezza nell'allegria, era il loro modo di spiegare le anime emigranti, spesso in bilico fra il sorriso per un'occupazione ed il pianto per la lontananza da casa”. Track 06. Gianmaria Testa: Al mercato di Porta Palazzo È il mercato multietnico di Torino. La canzone è tratta “da questa parte del mare”, un concept album dove Gianmaria espone la sua riflessione poetica, aperta e senza demagogia, sugli enormi movimenti di popoli che attraversano questi nostri anni. Track 07. Radiodervish: Io vittima del CPT Un brano tratto da ‘Amara terra mia - esseri umani in costante movimento”, uno spettacolo che narra di terre, viaggi, partenze e approdi. Track 08. Modena City Ramblers: Ahmed l’ambulante Non ha importanza se la canzone è tratta da un fatto di cronaca o è pura fiction. Il problema è che fatti così, nell’anno di grazia 2010, capitano per davvero… Track 09. Orchestra di via Padova: El Menfi Via Padova è l’arteria multietnica di Milano. Dopo una certa ora incontrare per strada un italiano è cosa rara. Non è quindi un caso se tutti i musicisti sono stranieri. Track 10. Raiz: W.O.P. Wop, "lavoratori senza passaporto": la sigla con cui venivano ‘marchiati’ gli italiani emigrati negli Usa, a cavallo tra fine Ottocento e primi del Novecento.

In libreria di Licia Lanza

Le avventure del cous cous di H. Mouhoub e C. Rabaa Il couscous appartiene al mondo dei berberi che ha radici millenarie. Ovunque si ritrovi traccia del couscous, si intravedono legami con il suo paese d’origine, il Magreb. Nutrimento per eccellenza, è un cibo viaggiatore che spostandosi nel mondo incontra colori e sapori diversi e mescolandosi ad essi dà origine ad una straordinaria varietà di ricette differenti. Nasce dal lavoro paziente di mani femminili, da segreti tramandati di madre in figlia, capaci di trasformare ciò che è grezzo in granelli leggeri e finissimi. E’ l’attore principale di momenti di convivialità, allegria, festa; è un cibo mitico, protagonista di una festa di nozze come di un ritrovo familiare. Il libro spiega dettagliatamente come preparare il couscous ed offre una sessantina di modi diversi di cucinarlo, ricette provenienti da svariati paesi – Algeria, Marocco, Tunisia, Libia, Libano, Mali, Mauritania, Senegal, Francia segnando un itinerario alla scoperta dei rituali che segnano la vita di ogni popolo, illustrando tradizioni agricole, feste, rapporti tra uomini e donne. Guido Tommasi Editore, 2009, pagg. 178, € 13,00


scrivono al sindaco denunciando le violenze e l’impossibilità di vivere in abitazioni idonee perché “per paura la brava gente rifiuta di affittarci le case”. Gli autori cercano di spiegare Rosarno, un luogo che riassume drammi e contraddizioni del nostro paese e di questa epoca, esplorando il fenomeno migratorio e il contesto mafioso in cui immigrati ed italiani vivono. Dove però gli africani hanno trovato il coraggio della rivolta, pur se clandestini e con la consapevolezza di rischiare l’espulsione. Perché, come racconta un giovane immigrato, “se ci devono far vivere come animali in gabbia, tra i topi e la paura della gente che fuori di qui ci spara pure addosso, perché ci chiamano per raccogliere le arance? Si decidano: o serviamo, e allora vorremmo essere trattati un po’ meglio e lavorare dignitosamente, oppure ce ne torniamo nei nostri paesi. Qui non ha più senso stare”. L’Italia non è vittima dell’immigrazione. Ha bisogno dell’immigrazione. Terre Libere.org, 2009, pagg. 104, € 8,00

In libreria di Licia Lanza

Gli africani salveranno Rosarno (E, probabilmente, anche l’Italia) a cura di Antonello Mangano Varcare il confine tra rassegnazione e protesta. Avere consapevolezza della propria situazione, rifiutare il fatalismo, ribellarsi per difendere il diritto ad esistere, questo è successo a Rosarno il 12 dicembre 2008, ben un anno prima della recente rivolta. Quel giorno due lavoratori ivoriani vengono feriti e gli africani di Rosarno si ribellano. In serata oltre 400 stranieri manifestano di fronte alla polizia: è la prima rivolta antimafia spontanea degli ultimi decenni. Gli immigrati partecipano attivamente alle indagini, fornendo informazioni essenziali per la cattura dei due giovani italiani che avevano sparato sugli africani mentre tornavano dal lavoro nei campi. I colpevoli vengono arrestati ma oggi, con la più recente rivolta, sappiamo che la situazione non è minimamente cambiata. Fin dal 1992 gli immigrati arrivati nella piana di Gioia Tauro per la raccolta delle arance sono vittime di gravi episodi di violenza. Corrono i pericoli maggiori nel percorso per andare e tornare dal lavoro, sulla Nazionale buia del primo mattino e della sera, perché loro sono gli unici ad andare a piedi. Se succede qualcosa non possono sporgere denuncia perché spesso sono irregolari. Sono i bersagli ideali. Il gioco della strada Nazionale si chiama “andare per un marocchino”: in gruppo sugli scooter, i ragazzi italiani colpiscono gli immigrati con i bastoni. Nel 1999 gli africani di Rosarno

In rete di Arturo Di Corinto

Human Rights first! Google e la censura cinese Google ha dichiarato di non essere più disposta a censurare i contenuti reperibili con la versione cinese del suo motore di ricerca. Ufficialmente la ragione andrebbe ricercata nella violazione di alcuni account di Gmail appartenenti ad attivisti per i diritti umani, in Cina e all’estero, e in una serie di non meglio precisati cyber-attacchi nei confronti dei suoi server, di cui il governo sarebbe corresponsabile. Affermazioni molto gravi che hanno indotto i cinesi a reagire prima diplomaticamente e poi, dopo l’intervento a favore della libertà di Internet del segreteraio di Stato Hillary Clinton, ad attaccare: “Le aziende che lavorano in Cina devono rispettare la legge”. Sì, ma quali? Le leggi in questione riguardano la sicurezza naziona-

le della Cina e la sua stabilità sociale, minacciate, secondo i burocrati del partito/stato, da tutte le informazioni che riguardano il massacro di Tien An Men, la setta religiosa dei Falung Gong, il Tibet e il Dalai Lama, argomenti considerati potenzialmente dannosi dal paese del socialismo di mercato realizzato. Non sappiamo se questa schermaglia da guerra fredda digitale fra Usa e Cina porterà a una rottura diplomatica, gli interessi in gioco sono troppi, ma dimostra come la politica della moral suasion non può funzionare verso uno stato autoritario. Google sbarca in Cina nel 2006 e da subito accetta di censurare pagine e informazioni sgradite al partito comunista al potere. Per un’azienda il cui motto è sempre stato “don’t be evil”, la giustificazione era duplice: da una parte l’interesse commerciale ad essere presente in un mercato assai ampio come quello cinese, accreditato della crescita più veloce in termini di utenti e servizi Internet, dall’altra quella di non precludere agli utenti cinesi la possibilità di accedere a contenuti non controllati ed a servizi rispettosi della privacy individuale. Entrambe le previsioni si sono rivelate inesatte. Nonostante l’elevato tasso di crescita di Google in Cina, dopo tre anni l’azienda californiana non è riuscita a insidiare il primato della rivale Baidu.com, e si è trovata impossibilitata a offrire alcuni servizi di pregio come Youtube. Perciò la mossa di Google è stata criticata anche dai blogger cinesi come il tentativo di rifarsi il trucco e migliorare la propria immagine con un perdita potenziale molto modesta, 600 mln di dollari di fatturato annui in Cina contro i 26 miliardi di dollari che guadagna a livello globale, ma anche come un tentativo di mettersi al riparo da future tragedie nel caso in cui le violazioni dei server avranno come effetto incriminazioni e arresti nei confronti dei dissidenti che ne avevano usato i servizi certi della protezione del gigante commerciale. I precedenti sono noti. La rivelazione da parte di Yahoo dell’account di un giornalista cinese colpevole di aver ricordato in una email la data del massacro studentesco di Tien An Men aveva portato al suo arresto, ma secondo Amnesty International nel solo 2008 in Cina sono stati arrestati 30 giornalisti per i loro post su Internet, mentre secondo Reporters sans Frontiers nel 2009 sono stati imprigionati 108 cyberdissidenti di cui diversi cinesi. E ora la crisi con Google che potrebbe portare l’azienda a ritirarsi dal mercato cinese. Alcune voci dicono che anche altri player come Microsoft, siano pronti a irrigidire la propria posizione se il governo cinese non offrirà delle garanzie in termini di diritti umani, che però intanto non ci sono state. La faccenda ha avuto comunque il merito di far conoscere al mondo lo stato del rispetto dei diritti umani in Cina dopo le Olimpiadi pure funestate dalle polemiche sul controllo dei giornalisti e di Internet. Ma quello che è accaduto, da solo, dovrebbe insegnare che mentre da un punto di vista etico non è accettabile fare compromessi tanto pesanti con governi autoritari, non si può derogare dal rispetto per i diritti umani neppure in maniera strumentale e che, probabilmente, le aziende che pensano di poterlo fare prima o poi ne pagheranno il prezzo, almeno in termini di popolarità presso il proprio pubblico. 37


Poesia

Racconti di uno Di Erri De Luca Da giorni prima di vederlo il mare era un odore Un sudore salato, ognuno immaginava di che forma. Sarà una mezza luna coricata, sarà come il tappeto di preghiera, sarà come i capelli di mia madre. Beviamo sulla spiaggia il tè dei berberi, cuciniamo le uova rubate a uccelli bianchi. Pescatori ci offrono pesci luminosi, succhiamo la polpa da scheletri di spine trasparenti. L’anziano accanto al fuoco tratta con i mercanti Il prezzo per salire sul mare di nessuno.

(…)

Notte di pazienza, il mare viaggia verso di noi, all’alba l’orizzonte affonda nella tasca delle onde.

Vogliono rimandarci, chiedono dove stavo prima, quale posto lasciato alle spalle. Mi giro di schiena, questo è tutto l’indietro che mi resta, si offendono, per loro non è la seconda faccia. Noi onoriamo la nuca, da dove si precipita il futuro che non sta davanti, ma arriva da dietro e scavalca. Devi tornare a casa. Ne avessi una, restavo. Nemmeno gli assassini ci rivogliono. Rimetteteci sopra la barca, scacciateci da uomini, non siamo bagagli da spedire e tu nord non sei degno di te stesso. La nostra terra inghiottita non esiste sotto i piedi, nostra patria è una barca, un guscio aperto. Potete respingere, non riportare indietro, è cenere dispersa la partenza, noi siamo solo andata.

Nel mucchio nostro con le donne in mezzo Un bambino muore in braccio alla madre.

(...)

Sia la migliore sorte, una fine da grembo, lo calano alle onde, un canto a bassa voce.

Faremmo i servi, i figli che non fate, nostre vite saranno i vostri libri d’avventura.

Il mare avvolge in un rotolo di schiuma La foglia caduta dall’albero degli uomini.

Portiamo Omero e Dante, il cieco e il pellegrino, l’odore che perdeste, l’uguaglianza che avete sottomesso.

(...) Tratto da Solo andata. Righe che vanno troppo spesso a capo Giangiacomo Feltrinelli Editore, 2005 38


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