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mensile - anno I numero 3 - ottobre 2007

3 euro

Somalia

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

Mogadiscio: la Baghdad sul mare

Iraq Il sesso degli angeli Brasile La guerra di Rio Corea del Nord Il mondo in un gulag Romania La città fantasma dei Carpazi Italia Scuola, il futuro è passato di D. Starnone Mondo Libano, Pakistan, Mali-Niger, Stati Uniti Gino Strada: Facciamo il punto sull’Afghanistan Il secondo fascicolo dell’atlante di PeaceReporter: Afghanistan



...Ci sono cose da non fare mai, né di giorno né di notte, né per mare né per terra: per esempio, la guerra (Gianni Rodari)

ottobre 2007 mensile - anno I, numero 3

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Direttore Maso Notarianni

Redattori Christian Elia Matteo Fagotto Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Vauro Senesi Stella Spinelli Naoki Tomasini Alessandro Ursic Progetto grafico Guido Scarabottolo Segreteria di redazione Silvina Grippaldi

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Blue & Joy Erminia Calabrese Gabriele Del Grande Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Nicola Falcinella Giorgio Gabbi Paolo Lezziero Sergio Lotti Karim Fael e Sheryl Mendez Angelo Miotto Claudio Sabelli Fioretti Domenico Starnone Gino Strada Gianluca Ursini

Relazioni esterne Marco Formigoni

Hanno collaborato per le foto Ugo Borga Redazione e amministrazione Francesco Cavalli Via Meravigli 12 Ibrahim Elmi 20123 Milano Anna Gregnanin Tel: (+39) 02 801534 Simone Manzo Fax: (+39) 02 80581999 Sheryl A. Mendez peacereporter@peacereporter.net Samuele Pellecchia Stampa Graphicscalve Fotoeditor Loc. Ponte Formello - 24020 Naoki Tomasini Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 30 settembre 2007 Amministrazione Annalisa Braga Pubblicità Via Meravigli 12 20123 Milano Tel (+39) 02 801534 Fax (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net

o scorso mese dicevamo che i venti di guerra da cui nacque il quotidiano online adesso sono diventati tempesta, e ci hanno spinto a fare di più, a fare il mensile. Mentre sta chiudendo questo numero del giornale, la tempesta si sta trasformando in un tornado. Sembra che il mondo abbia perso del tutto il lume della ragione. Dall’Afghanistan ci arrivano ogni giorno notizie di civili uccisi dai nostri bombardamenti, quelli della Nato. All’inizio di settembre il governo di Damasco denuncia la violazione del suo spazio aereo da parte di jet militari israeliani. Israele non commenta, ma soprattutto non smentisce, e il governo degli Stati Uniti si è dichiarato favorevole a un’azione dell’esercito israeliano in difesa della sua sicurezza. L’obiettivo del raid, secondo fonti statunitensi, era una centrale nucleare vicina al confine con la Turchia che il governo siriano starebbe costruendo in collaborazione con i tecnici della Corea del Nord. Ovviamente sia Pyongyang che Damasco smentiscono categoricamente e la Siria chiede addirittura l’intervento del Consiglio di Sicurezza per censurare l’atto ostile d’Israele. Verso la fine del mese scorso, il ministro degli Esteri francese Kouchner, fondatore di Médecins sans frontières, dice in una intervista che l’opzione militare nei confronti dell’Iran e del suo programma nucleare non è da escludere. Poi prova a mitigare i toni, ma nelle orecchie di tutti rimangono i giorni di polemiche sulla annunciata offensiva militare contro il paese degli ayatollah. Nonostante le ultime dichiarazioni dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica, che rende nota una inedita collaborazione del governo di Teheran. Mentre chiudiamo le pagine, la radio militare israeliana diffonde la notizia che il governo di Tel Aviv ha dichiarato lo stato di allerta al confine con la Siria, in prossimità delle alture del Golan, occupate nel 1967. Negli scorsi mesi, il confine tra Israele e Siria è diventato una immensa caserma: da entrambi i lati, sempre più soldati si guardano in cagnesco. Sembra che la guerra sia diventata non più l’ultima delle possibilità, ma l’unica. Noi non ci abbiamo mai creduto, peraltro, a questa storia dell’ultima possibilità: non escludere la guerra dalle possibilità contemplate, vuole dire renderla legittima. Di più, vuol dire essere certi che la si userà. E la cultura della guerra ha oramai pervaso ogni ambito della nostra vita. In questo desolante quadro, siamo contenti dei positivi segnali che ci giungono in risposta all’uscita del mensile. Anche queste cose, che possono sembrare piccolezze, ci dicono che la cultura della guerra non ha ancora vinto. Purtroppo, quasi tutto il resto ci dice che i nostri e i vostri sforzi per impedire all’intelligenza di soccombere sotto le bombe devono quadruplicarsi. Con la scommessa del mensile vogliamo dare più forza all’impegno di tutti coloro, sappiamo che sono tanti, che non cedono all’ineluttabilità della guerra. Utilizzando lo strumento che ci è proprio: quello della libera informazione. Ma la libera informazione costa, per questo vi chiediamo di darci una mano. Abbonandovi, diffondendo copie del giornale, facendolo leggere a quante più persone possibile. Perché l’unica sconfitta che ci piace è quella che deve subire, per sempre, la guerra. Italia a pagina 22 Brasile a pagina 14 Romania a pagina 20 Iraq a pagina 10

Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Meravigli 12 - 20123 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07

Foto di copertina Bambino-soldato del governo di transizione somalo pattuglia una via nei pressi dell’ospedale Banadir, a Mogadiscio. Somalia 2007 Grazie a Epa/Ansa/Ibrahim Elmi

Distribuzione in libreria Joo Distribuzione - via F. Argelati 35, 20143 Milano - Tel 028375671 Servizio abbonamenti e arretrati Picomax S.r.l. Via Borghetto 1 - 20122 Milano. Tel 0277428040 - fax 0276340836 Informativa abbonamenti: Ai sensi dell’Art. 13 del D. Lgs. 196/03 informiamo che i dati forniti saranno trattati da Picomax Srl in qualità di responsabile del trattamento, nonché da Dieci dicembre soc. coop. a r. l. titolare del trattamento, per le seguenti fiinalità: invio abbonamento della rivista PeaceReporter e invio di materiale promozionale inerente i prodotti di Dieci dicembre soc. coop. a r. l. Gli abbonati hanno diritto di esercitare i diritti di cui all’Art. 7 del D. Lgs. 196/03 inviando una email a privacy@picomax.it L’informativa completa è disponibile sul sito di Picomax: www.picomax.it Scritti, disegni e fotografie anche se non pubblicati non verranno resi.

Migranti a pagina 24

Somalia a pagina 4

Corea del Nord a pagina 18 3


Il reportage Somalia

La Baghdad sul mare Dal nostro inviato Matteo Fagotto

Alle quattro di pomeriggio Mogadiscio è deserta. Per le strade, oltre ai pochi passanti che si affrettano verso casa, solo poliziotti e militari dall’aria stanca, impegnati a controllare le strade di accesso al centro città. Tra poche ore si concluderà la conferenza di pace, durata più di un mese e voluta dal governo per porre fine alle violenze tra i clan. I delegati internazionali hanno fretta di tornare nell’accogliente Nairobi: l’aeroporto non ha luci e gli ultimi aerei partono alle sei di sera. o l’albergo più bello della città, potrebbero stare da me”, scherza Bashiir, impegnato a evitare con il suo fuoristrada i posti di blocco disseminati per le strade della città, mentre un sorriso beffardo e ironico vela il suo sguardo. “Peccato che, negli ultimi cinque anni, nessun diplomatico si sia mai fermato a dormire a Mogadiscio”. Subito dopo aver ricevuto una telefonata sul cellulare, l’auto di Bashiir devia bruscamente, abbandonando una delle (poche) strade asfaltate per gettarsi in un vicoletto sabbioso delimitato dal recinto di una moschea da una parte e da giganteschi cactus spontanei e cumuli di immondizia dall’altra. “Le strade principali sono le più pericolose, perché è lì che gli insorti organizzano gli attacchi contro i soldati e le truppe etiopi”, spiega Bashiir, continuando a guidare e senza staccare l’orecchio dal cellulare. I suoi informatori lo tengono in costante aggiornamento sui movimenti di poliziotti e soldati, sui posti di blocco e sugli eventuali scontri che scoppiano quotidianamente in città. A ogni telefonata, il fuoristrada cambia rotta immediatamente senza fermarsi mai, per nessuna ragione al mondo. I telefonini sono uno dei pochi servizi efficienti della città e le tariffe sono le più economiche di tutta l’Africa. A Mogadiscio, il cellulare è uno strumento fondamentale di sopravvivenza. Così come Bashiir, anche Guled non si separa mai dal suo cellulare: è uno dei pochi giornalisti rimasti a Mogadiscio, dopo che ad agosto due suoi colleghi dell’emittente HornAfrik sono stati uccisi in altrettanti attentati. Ogni giorno, prima di uscire di casa, telefona agli amici che ha nei vari quartieri della città. Un’abitudine comune a tutti i somali, che siano giornalisti, casalinghe, studenti o negozianti. Mai uscire senza sapere cosa sta succedendo nel resto della città. “Mogadiscio è allo stesso tempo la città più sicura e più pericolosa che abbia mai conosciuto”, confida ridendo, mentre la sua mano giocherella nervosamente con una penna. “Il tasso di criminalità è basso, alcuni quartieri di Nairobi sono molto peggio. Ma quando scoppiano gli scontri, non sei al sicuro nemmeno in casa tua. Un colpo di mortaio può ucciderti ovunque”. Nella capitale somala di integro è rimasto solo ciò che non si poteva distruggere: le spiagge bianche, il mare incontaminato, la temperatura primaverile e il verde delle palme. Qualità che meriterebbero qualcosa di più del sopran-

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nome di “Baghdad sul mare” che Mogadiscio si è guadagnata negli ultimi anni. Gli scheletri degli edifici coloniali ancora in piedi parlano di un passato fatto di pace e relativa prosperità, che i vecchi non dimenticheranno mai e che i giovani non hanno mai conosciuto. Ma se durante il regno dei signori della guerra gli scontri armati erano rari, da sei mesi a questa parte Mogadiscio vive una situazione di guerra permanente. A fine dicembre le Corti islamiche, la formazione politico-militare che aveva scacciato dalla città i signori della guerra, è stata battuta dalle truppe somalo-etiopi, che sostengono il governo di transizione riconosciuto dalla comunità internazionale. Da allora, gli ex-uomini delle Corti si sono reinventati guerriglieri, prendendo di mira uomini politici, poliziotti e militari con tattiche stile Iraq: attentati ai posti di blocco, bombe nascoste al lato della strada, attacchi suicidi. li scontri non sono l’unico problema da affrontare: tra coprifuochi, posti di blocco organizzati in fretta e furia e divieti di circolazione, uscire per le strade di Mogadiscio è sempre un’avventura. Se la notte precedente i combattimenti sono stati pesanti, muoversi diventa impossibile. Scuole e università rimangono semivuote perché gli studenti non riescono ad arrivarci, i negozi non aprono. Per riuscire ad allenarsi regolarmente i giocatori dell’Elman Football Club, la squadra di calcio campione di Somalia, usano sei campi sparsi per la città. Alle sei di sera, il buio comincia a calare sulla città, illuminando di una luce sinistra le case distrutte e le carcasse di auto disseminate per le strade. I pochi minibus, che attraversano le strade piene di buche provocate dalle bombe, si affrettano per arrivare a destinazione in tempo. Quando cala la sera, Mogadiscio diventa terra di nessuno. I soldati somali ed etiopi e i poliziotti rientrano nelle loro caserme e le strade si svuotano completamente. A Mogadiscio non c’è illuminazione, e la notte qualsiasi posto di blocco diventa indifendibile. Quando il sole tramonta completamente, un silenzio irreale

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Donna somala Somalia 2005. Francesco Cavalli per PeaceReporter


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avvolge la città, rotto soltanto dal rumore del vento e dallo stormire delle foglie. Mogadiscio è in attesa degli scontri, che possono scoppiare in qualsiasi zona e a qualunque ora, durare pochi minuti come protrarsi fino al mattino.

ne difficile da cambiare, anche perché il governo di transizione è stato abbandonato a se stesso una volta che le Corti islamiche sono state cacciate. Senza fondi, diviso al suo interno tra i vari clan e gli ex-signori della guerra che lo compongono, il governo sopravvive grazie all’appoggio delle truppe etiopi, che gran parte hanno avuto nella cacciata delle Corti islamiche. Ma se una volta le divisioni tra clan assicuravano al governo un minimo di supporto, la presenza degli etiopi ha semplificato di molto la situazione, facendo apparire la lotta degli insorti come una battaglia per liberare la Somalia dall’invasore straniero.

eduto sotto il pergolato che occupa metà del cortile interno dell’albergo, Bashiir non è preoccupato: il suo hotel è l’unico a non essere mai stato colpito dagli scontri. “Mi interessa solo fare business, e per fare affari c’è bisogno di pace”, dice sorseggiando l’ennesima tazza di tè della giornata. “Sono in contatto sia con la resistenza che con i membri del n anno fa, l’avvento delle Corti islamiche aveva suscitato grandi spegoverno, parlo con loro in continuazione, sento le loro ragioni e cerco di far ranze tra la popolazione. Mustafa, che dopo aver studiato dieci anni valere le mie. Noi somali siamo dipinti come testardi, ma in verità dobbiamo in California oggi lavora tra la Somalia e gli Emirati Arabi, aveva deciessere molto flessibili. E’ l’unico modo che abbiamo per sopravvivere in una so di tornare a Mogadiscio approfittando degli unici mesi di pace vissuti dal situazione del genere”. Paese negli ultimi diciassette anni. “Avevo tante aspettative, sembrava l’iniImprovvisamente, la sua voce viene interrotta da una raffica di mitra. A zio di una nuova era. Alcuni leader delle Corti erano estremisti, è vero. Ma poche decine di metri dall’hotel, una caserma della polizia è stata presa di erano gli unici leader politici di peso che abbiamo avuto dopo l’inizio della mira dagli insorti. Dopo pochi minuti la battaglia sale di intensità, scandita guerra”. Mentre riflette, lo sguardo di Mustafa si posa su un poster di Los dal sibilo inconfondibile dei razzi Rpg e dal rumore sordo dei colpi di morAngeles che campeggia sul muro al centro del salotto. Nei confronti della taio, esplosi contro i posti di blocco delle forze di sicurezza. Un’auto della sua seconda patria, Mustafa non ha parole di elopolizia, sorpresa dal fuoco incrociato, tenta di metgio. “Dopo aver cacciato le Corti islamiche a suon tersi in salvo dietro un muro, ma viene investita da Dal 1991, la guerra civile ha di bombe, gli Usa ci hanno abbandonato, come una selva di proiettili: rumori di vetri in frantumi, provocato almeno mezzo milione di morti. Dopo la caduta tutto il resto della comunità internazionale. Siamo pochi secondi dopo i fari dell’auto scompaiono nel dell'ultimo presidente, Siad i pariah del mondo”. L’unica presenza statunitenbuio. Passi rapidi sulla sabbia, gli insorti fuggono Barre, Mogadiscio e il resto del se a Mogadiscio è quella dei C-130 che, partendo per mettersi in salvo dopo aver esaurito le munizioterritorio somalo sono stati dalla vicina caserma di Gibuti, due volte a settini. La battaglia finisce così, improvvisamente, dopo spartiti tra i signori della guermana sorvolano la città scattando foto. Il rumore una ventina di minuti. Mogadiscio ripiomba nella sua ra. Per 14 anni, la Somalia non sordo dei loro motori dura tutta la notte. tranquilla serata estiva, interrotta solo dal frinire ha avuto un governo riconodei grilli e dall’ululare del vento. A pochi isolati di sciuto, e le tredici conferenze gni mattina, approfittando delle prime luci distanza, la voce del muezzin chiama i fedeli musuldi pace organizzate dalla dell’alba, alcune famiglie si mettono in mani alla preghiera. comunità internazionale per cammino verso il campo profughi di Hawa porre fine al conflitto sono tutte sistematicamente fallite. on è una coincidenza: gli uomini delle Corti Abdi, venti chilometri a sud di Mogadiscio. Sorto Solo nel 2005, a Nairobi, è stato islamiche sono profondamente religiosi, e nel 1991, subito dopo lo scoppio della guerra civipossibile giungere a un accorrispettano sia i momenti di preghiera che il le, il campo è una semplice distesa di sabbia di do tra signori della guerra e venerdì, il giorno di festa per i musulmani. I comsettanta ettari, puntellata di arbusti e tende capi clan, accordo che ha porbattimenti riprendono venerdì notte per aumentare costruite con pezzi di stoffa e vecchie coperte. La tato alla nascita del di intensità il sabato, regolari come le maree. La loro popolazione qui è inversamente proporzionale alla Parlamento, all'elezione a prereligiosità, unita alla disciplina, li rende ben accetti sicurezza in città: a febbraio c’erano 260 famiglie, sidente di Abdullahi Yusuf e alla popolazione civile, senza la cui protezione non ora sono quattromila. La dottoressa Hawa Abdi, alla nomina a premier di potrebbero operare. Così come quando erano alla che accoglie i visitatori in un semplice capanno di Mohammed Gedi, entrambi exguida di Mogadiscio, anche ora le Corti islamiche legno, dà il nome al campo. Lo gestisce da sedici signori della guerra e protagomantengono la disciplina in molti quartieri, aiutando anni e si definisce la donna più frustrata della nisti della guerra civile. Diviso al suo interno e senza economicamente i più bisognosi, punendo i ladri e Somalia. “Qui si muore come mosche, e si fa fatirisorse, il governo sopravvive svolgendo il lavoro delle forze di sicurezza. Il conca persino a nascere: negli ultimi quattro mesi solo grazie all'appoggio delle fronto con i poliziotti e i soldati somali non pagati, abbiamo avuto milleduecento aborti”, rivela con la truppe etiopi. costretti a taglieggiare la popolazione per sopravvivoce piatta e lo sguardo spento di chi ha perso vere, è impietoso. In cambio, gli insorti trovano rifuquasi ogni speranza. Da quando i caschi blu gio nelle case durante le retate della polizia, nascondono le armi nelle abidell’Unosom se ne sono andati, nel 1993, nessuna agenzia umanitaria fornitazioni vicine ai posti di blocco e reclutano nuovi adepti tra i giovani disocsce assistenza al campo. La razione per ogni famiglia è di un sacchetto di cupati. L’esercito somalo, già male in arnese, si trova a combattere contro fagioli e cinque chili di riso al mese, ricavata dalle saltuarie donazioni di un nemico efficiente e invisibile, che colpisce e si dilegua in pochi minuti. qualche Ong. Ma la lotta degli insorti non trova tutti d’accordo. Sadik è un ex studente uniAnche se qui la situazione è disperata, molti la preferiscono al caos di versitario di venticinque anni. Quando suo padre è morto, è stato costretto Mogadiscio. A Hawa Abdi non ci sono armi, la gente convive pacificamente ad abbandonare gli studi per lavorare e mantenere la famiglia. Con gli impiee l’appartenenza a uno o a un altro clan non decide della tua vita. “La miseghi saltuari che trova di tanto in tanto riesce a malapena a sfamare la madre ria insegna tanto: quando vedi che qualcuno ha fame come te, lo aiuti”, ripee la sorella. “Questa società sta precipitando in un pozzo senza fondo” dice, te la dottoressa, i cui occhi scuri vengono illuminati da un raggio di sole che mentre il suo sguardo si posa sui tetti bianchi di Mogadiscio. “Stiamo tiranentra obliquo nel capanno. “E’ triste che un posto così miserabile debba do su una generazione di giovani che sa solo fare la guerra e vive per ucciessere da esempio per la mia gente, ma ho fiducia. I somali sono un popodere quanta più gente possibile. Una bomba piazzata al lato della strada che lo forte e orgoglioso, capace di tutto. Anche di porre fine a questa guerra colpisce una pattuglia, quanti civili innocenti uccide?”. senza senso, un giorno”. Le preoccupazioni di Sadik non sono infondate. Se da una parte i somali hanno imparato ad adattarsi rapidamente a ogni nuovo governo (o presunto tale) che si insedia a Mogadiscio, dall’altra le nuove generazioni sono nate In alto: Una strada nel centro. In basso: l’Arco di trionfo e cresciute in guerra, e non sanno fare altro che combattere. Una situazioMogadiscio, Somalia 2007. Ugo Borga ©PeaceReporter

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I cinque sensi della Somalia

Udito I canti dei muezzin riempiono l’aria di Mogadiscio nei pomeriggi dei venerdì. Chiamano i fedeli musulmani alla preghiera. Per un’ora, si ha l’impressione che in città il tempo si sia fermato. Quando non sono rovinate dal rumore dei proiettili e dei colpi di mortaio, le notti di Mogadiscio sono calme e silenziose. L’ululato del vento e il frinire degli insetti viene accompagnato dal rumore delle onde dell’oceano, talmente forte da poter essere sentito anche a chilometri di distanza dalla costa.

Olfatto La puzza di sudore stantio che emana dai sedili lisi si mischia all’odore di nafta proveniente dai vecchi motori a elica e alla salsedine del mare, distante solo pochi metri dall’aeroporto di Mogadiscio. Dopo aver percorso i due chilometri di sabbia mista a asfalto della pista, l’Antonov russo diretto a Gibuti, con trent’anni di servizio sulle spalle, riesce miracolosamente a decollare nonostante sia stipato di bagagli e passeggeri fino all’inverosimile. Appena staccatisi da terra, i due piloti russi si cimentano in un’audace virata sul mare, con l’aereo che perde quota e l’estremità dell’ala che finisce a non più di cinque metri dal pelo dell’acqua. Dopo i primi dieci minuti di un’odissea che durerà quattro ore, l’aria all’interno dell’aereo è già irrespirabile. In soccorso dei passeggeri, dalle bocchette dell’aria esce una strana sostanza bianca, più simile a gas che a ossigeno. In poco tempo il tanfo di aria viziata diventa un odore pungente di frigorifero prossimo alla pensione, dall’effetto soporifero. Quando l’effetto sva-

nisce e ti svegli, l’aereo ha già cominciato la sua discesa verso Gibuti. L’aria è di nuovo cambiata, ora sa di verdure bollite e carne stufata andata a male: durante il sonnellino è stato servito il pranzo. Grazie a Dio il viaggio sta per finire, l’aereo tocca terra a metà pista e frena al limite della striscia d’asfalto, tra l’odore di pneumatici e circuiti elettrici bruciati.

Tatto La mano di Abdi Naim è piccola e fredda. Le sue braccia, sottili come il tuo pollice, tremano quando provi a prenderle tra le tue: i brividi malarici che lo investono sono l’unico segno di vita che dà il suo corpo. Abdi Naim ha tre anni e il fisico di un bambino di 18 mesi. E’ nato e vissuto ad Hawa Abdi, il campo profughi a 20 km a sud di Mogadiscio, dove la popolazione si riversa ogni volta che gli scontri tra l’esercito e gli insorti trasformano la città in un campo di battaglia. Assieme ad altri 17 bambini, Abdi Naim lotta tra la vita e la morte nell’ambulatorio del campo. Secondo l’unico medico che gestisce l’intera struttura, in due non supereranno la notte, mentre altri ragazzi moriranno senza neanche avere avuto la “fortuna” di essere accolti nell’ambulatorio, troppo piccolo per assistere le quattromila famiglie del campo. Prima di andartene, saluti Abdi Naim stringendogli delicatamente il polso. Il bambino non reagisce, il braccio abbandonato lungo le sponde del letto.

Gusto Le foglie di khat, la pianta stimolante più diffusa nel Corno d’Africa, prima di essere sputate devono

essere masticate per alcuni minuti perché facciano effetto, allora la sensazione di euforia pervade tutto il corpo. Coltivato in Kenya, il khat arriva in Somalia via aerea tre volte la settimana. E all’arrivo i velivoli sono circondati dai soldati per evitare che la gente in crisi di astinenza li prenda d’assalto. I consumatori abituali di khat, occhi rossi come il sangue e sguardo perso nel vuoto, spendono una fortuna per assicurarsi la droga il cui costo sale di quattro volte non appena lascia Nairobi. Le banane, i manghi e le papaye che crescono a Mogadiscio sono a ragione ritenuti tra i migliori frutti tropicali africani. I somali ne vanno fieri, soprattutto delle banane, piccole e verdi all’apparenza ma dolcissime all’interno.

Vista Spiagge incontaminate, mare blu intenso, un sole splendente e alberi ovunque per ripararsi dal caldo estivo. Se non fosse in guerra da 17 anni, Mogadiscio sarebbe un paradiso terrestre: con i suoi edifici coloniali diroccati e i vecchi resorts turistici sulla costa, la città porta le tracce di un passato sepolto sotto uno strato di odio e violenza difficile da lasciarsi alle spalle. Così come per i vecchi somali è impossibile dimenticare che, tanto tempo fa, Mogadiscio era una città, anzi un paradiso, come molti altri. Le moschee e i centri culturali religiosi sono tra i pochi edifici ben tenuti di Mogadiscio. Gli alti muri bianchi che circondano le strutture sono dipinti da murales di ogni foggia e colore, e nascondono alla vista cortili lussureggianti dove il profumo degli alberi da frutto si mischia ai colori fortissimi della natura tropicale. 9


Il reportage Iraq

Il sesso degli angeli Di Karim Fael e Sheryl Mendez

A giugno di un anno fa, le Nazioni Unite pubblicarono un rapporto sulle condizioni dei profughi iracheni in Siria, in cui si sosteneva che 450 mila di loro affrontano gravi difficoltà economiche. Gli iracheni che giungono al confine siriano possono ottenere un visto di tre mesi rinnovabile e accesso ad alcuni servizi sanitari, ma non un permesso di lavoro, fatto che li rende vulnerabili allo sfruttamento. Il rapporto delle Nazioni Unite metteva in guardia rispetto al fenomeno della prostituzione che, per via di quelle difficoltà economiche, “potrebbe diventare molto diffuso”. uattro anni fa Ayah (un nome inventato per proteggere l'identità della donna) si recò in Siria per accompagnare la madre a una visita medica. La donna era malata di cancro e morì poco dopo il loro ritorno in Iraq. Qualche tempo dopo, Ayah si sposò con un parente di sua madre. Fu una cerimonia da tempo di guerra visto che la casa di una zia era appena stata distrutta da un bombardamento e altri due zii erano morti in un attentato contro un ristorante a Baghdad. Restare in Iraq era troppo pericoloso. I parenti convinsero la coppia a lasciare il paese. Così i due decisero di recarsi in Siria, e dopo poche settimane si sistemarono alla periferia di Damasco. Affittarono un appartamento per 300 dollari al mese a Sait el Zeinab, il quartiere sciita poco fuori dalla capitale. Anche lì, però, era difficile sopravvivere con il solo reddito del marito carpentiere, soprattutto con nove fratelli e sorelle in Iraq, disperatamente bisognosi di aiuto economico. Ayah scelse allora di ballare in un night club di Damasco. Una notte, mentre il marito era in Iraq, Ayah ricevette la telefonata di un'amica che le propose di passare del tempo in un night. “All'inizio me ne dovevo stare semplicemente seduta con una persona, a parlare. Poi una volta un uomo mi chiese di fare del sesso. Sapevo che ballare era il primo passo verso la prostituzione” ammette Ayah, che spiega: “Il denaro mi acceca. Sono una donna e sono debole, mio figlio ha bisogno di soldi, cibo e un sacco di altre cose. La mia famiglia in Iraq anche. Decisi allora di sacrificare la mia vita per la famiglia, di fare sesso per soldi. Se qualcuno mi darà cento lire siriane (due dollari) io lo rispetterò e bacerò le sue gambe.

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Sera dopo sera, iniziai a recarmi al locale passando per una via segreta, per paura che la polizia mi beccasse”. Quando il marito tornò dall'Iraq Ayah gli raccontò del suo nuovo lavoro. Il marito, infuriato, sbattè la porta e non tornò a casa per tre giorni. “Da allora mi picchia ed è sempre arrabbiato con me -spiega Ayah- mi dice che mi rispetta solo perché suo figlio ha bisogno di cure, ma anche che presto si troverà una seconda moglie”. “Troverò un buon lavoro e lascerò la prostituzione”, risponde la donna quando le si chiede come vede il futuro. “Ma - conclude - non c'è speranza di rifarsi una vita nel mio paese, non c'è pace e nemmeno sicurezza”. Spinta dalla povertà Ayah ha scelto la prostituzione, ma molte altre donne e ragazze irachene non hanno nemmeno la facoltà di decidere. Secondo l'organizzazione per la Libertà delle Donne Irachene, con base a Baghdad, sono almeno duemila le irachene scomparse dal 2003. Molte di loro sono costrette alla prostituzione in Siria, ma anche nei paesi del Golfo, in Yemen e in Giordania. Mentre l'attenzione dei media internazionali si concentra sui rapimenti degli stranieri, i sequestri degli iracheni sono molto più comuni e rimangono nel silenzio. n nostro contatto ci aiuta a incontrare una prostituta che lavora nella periferia di Damasco per un'intervista. Il prezzo per stare con la donna tutta la notte è di 4.500 lire siriane. Circa 95 dollari. Per 500 lire affittiamo una stanza in un albergo frequentato da pro-

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Ayah. Damasco, Siria 2007. Sheryl A. Mendez/Wpn per PeaceReporter


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stitute nei pressi della città vecchia di Damasco. È una piccola stanza arredata con una cucina di fortuna e un cesso alla turca. Faccio qualche foto all'ambiente e poi mi reco a Seir al Zeinab per incontrare la prostituta. Il luogo dell'appuntamento è un call center dove gli immigrati vanno a chiamare i parenti rimasti in Iraq. Dopo quattro ore passate fumando sigarette e sentendo squillare i telefoni, finalmente suona il cellulare. “Venite ora, vi aspetta”. É il protettore della ragazza che ci dà le istruzioni per incontrarla.

che l'aveva ospitata e poi contrabbandata decise allora di sfruttare Aishiq per il suo maggior valore: la verginità. Aishiq dovette così contrarre un matrimonio temporaneo con un saudita residente a Damasco. Il matrimonio temporaneo - o matrimonio di piacere - è una pratica ammessa per gli sciiti, a condizione però che la donna sia maggiorenne, che ci sia il consenso della famiglia di lei e che non sia una vergine. La donna invece finse di essere sua madre e la offrì al saudita, che pagò l'equivalente di quattromila dollari per stare con una vergine.

a ragazza ora è seduta sul retro della nostra auto, indossa occhiauando mi sono sposata non avevo ancora nemmeno il ciclo”, li da sole, una giacca scura e corta, maglietta bianca e jeans attilracconta. Il saudita le regalò braccialetti e orecchini e si lati. Non capisco quanti anni abbia ma pare molto giovane. Sono prese cura di lei, che si affezionò all'uomo. Ma la donna che ormai le due di mattina quando raggiungiamo la stanza affittata a si era finta sua madre non tollerava la perdita del suo prezioso reddito, Damasco. Subito scopro che ha quindici anni, è stata rapita tre anni fa così un giorno, mentre Aishiq faceva la spesa al mercato, due dei figli in Iraq e da allora è costretta a prostituirsi. della donna la rapirono. Tornata nelle mani della matrona, Aishiq fu porLa sua vita cambiò per sempre quando il corpo della sorella venne tata da un medico che le ricucì l'imene per farla sembrare di nuovo verabbandonato davanti alla porta della sua casa di Baghdad. Era il 2003 e gine. “Fu troppo doloroso e piansi moltissimo -racconta- ma gli uomini lei -che chiameremo Aishiq- aveva dodici anni. Suo padre era morto per vogliono le vergini”. cause naturali due anni prima. La sua famiglia Per fortuna Aishiq non subì altre operazioni di dovette trasferirsi dalla casa di Baghdad a un Stando ai più recenti dati quel tipo. Venne nuovamente contrabbandata a piccolo appartamento affittato a Kerbala, dove dell'Unhcr, i rifugiati iracheni nel Dubai per ballare in un casinò dove incontrò un venne aiutata dalla carità dei vicini sciiti. Le difmondo sono ormai 4 milioni, 1,9 uomo degli Emirati, di cui si innamorò. Di nuovo, ficoltà e la disperazione costarono la vita anche dei quali sono interni. la finta madre le organizzò un matrimonio temalla madre, che morì di infarto mentre pregava Gran parte di quelli che sono poraneo. Vissero assieme per tre mesi, lui era in moschea, lasciando tre figli, uno solo dei riusciti a uscire dai confini si ma il matrimonio era illegittimo e la quali aveva un lavoro. Un lavoro disgraziato: il sono provvisoriamente assestati gentile, matrona iniziò a ricattare l'uomo, minacciandotraduttore dall'arabo per l'esercito Usa in Iraq. nei paesi confinanti: lo di denunciare la relazione alla famiglia di lui, Non ci sono stime precise su quanti siano gli Siria e Giordania soprattutto, ma negli Emirati. Per evitare il disonore l'uomo interpreti al soldo dell'esercito uccisi dall'inizio anche nel Golfo e, in misura restituì Aishiq. Dopo queste vicende, per evitadell'occupazione, ma per suo fratello quella minore, in Europa. re guai con la legge degli Emirati, Aishiq venne scelta fu fatale. Una notte, Aishiq sentì dei La Siria ha offerto permessi di riportata in Siria, dove venne costretta a prostirumori davanti all'uscio, aprì la porta di casa e soggiorno temporanei a tutti gli tuirsi. vi trovò il corpo del fratello, ucciso con un colpo iracheni in fuga ma oggi, con un Ora la ragazza vive in una casa con altre due al petto dai wahabben, gli stranieri di al Qaeda. milione e mezzo di profughi “Ho guardato fuori e ho visto il suo cadavere. prostitute e la loro matrona, “vecchia grassa e nelle città e nei campi di accoAveva ancora gli occhi aperti. Li ho chiusi”. culona” dice lei. Dorme su un sottile materasso glienza dell'Unhcr, il paese è al in un anfratto tra il bagno e la cucina. La maicollasso oco tempo dopo anche l'altra sorella tresse ha due figli che vivono nello stesso quarvenne rapita da cinque uomini, stuprata, tiere, accompagnano le ragazze dai clienti e uccisa e il suo corpo abbandonato davanti a casa. Aveva solo ogni tre giorni abusano di loro. E le picchiano se si rifiutano. Il corpo di quindici anni ed era uscita di casa per andare a studiare. A quel punto Aishiq è una mappa di torture, ci mostra un taglio di coltello lungo il Aishiq, sola e spaventata, fuggì da alcuni parenti del padre che però mento e un profondo segno alla base del pollice. Poi si leva la giacca e rifiutarono di accoglierla. Senza un posto dove stare e una famiglia che mostra un campionario di altre ferite subite dalla sua attuale 'famiglia': la potesse proteggere, Aishiq si unì ai pellegrini sciiti che celebravano braccia e mani piene di segni e cicatrici, alcune vecchie, altre fresche. l'Ashura alla moschea dell'Imam Hussain Ibn Ali, dove si addormentò “Quando chiedo soldi, i soldi che mi sono guadagnata, mi puniscono. Mi nella disperazione. “Sei tu Aishiq?” la svegliò la voce di una donna che pungono con gli aghi arroventati”. Poi si leva anche la maglietta e conosceva sua madre e sapeva della sua morte. La donna la baciò sulle mostra il torso segnato dall'olio bollente che le tirarono i suoi aguzzini”. guance e le disse “vieni con me” prima di accompagnarla a casa sua. I soldi guadagnati da Aishiq e dalle altre ragazze, la maitresse li spediNell'abitazione della donna c'erano altre due ragazze, rese orfane dalla sce in Iraq, a Kerbala, dove si sta costruendo una casa nuova. guerra, che spiegarono ad Aishiq come la donna che l'aveva riconosciuta si era presentata un giorno all'orfanotrofio di Baghdad lcune volte le punizioni o le violenze dei clienti erano troppo dure dicendo di voler adottare delle bambine. “Se qualcuno va in un e Aishiq è stata portata all'ospedale, dove opera un medico, orfanotrofio e dice che non riesce ad avere figli - le spiegarono le due amico e complice della maitresse. “Non ho mai potuto parlare bambine - loro gli danno un bambino senza preoccuparsi di come verrà delle violenze che subivo, perchè minacciavano di uccidermi se lo avesusato”. “Quelle due avevano undici e dodici anni”, ricorda Aishiq con si fatto”. Ogni mese l'aguzzina di Aishiq paga al medico cinquecento dolocchi tristi. lari per le sue visite -in cui 'ripara' le ragazze e dà loro pillole e preserQualche tempo dopo le tre orfane vennero contrabbandate fuori dal vativi- e il suo silenzio. Ancora oggi Aishiq lavora quasi ogni notte, la paese. Aishiq venne spedita a Dubai per fare la ballerina nei locali notmatrona organizza gli appuntamenti, anche tre o quattro al giorno, che turni, mentre le altre due vennero date in moglie a uomini degli Emirati lei non può rifiutare. I suoi clienti vengono dai paesi del Golfo: Iraq, Arabi. Aishiq venne poi trasferita da Dubai a Damasco, dove venne Arabia Saudita, Kuwait. Molti sono ubriachi, la schiaffeggiano e malmemessa a lavorare in un altro night club. “C'erano molte ragazze”, racnano. “Ora però mi sono abituata alla violenza”, dice. conta. “Al piano di sopra le siriane, a quello sotto le irachene. Io ero la più giovane, le altre avevano tra i sedici e i vent'anni”. Anche quell'impiego però non durò a lungo, perché a un certo punto la polizia siriana In alto: stanza di albergo. In Basso: Aishiq. iniziò a fare ispezioni nei night in cerca di ballerine minorenni. La donna Damasco, Siria 2007. Sheryl A. Mendez/Wpn per PeaceReporter

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L’intervista Brasile

La guerra di Rio Di Stella Spinelli

Rio de Janeiro è da anni teatro di un cruento scontro fra narcotrafficanti, polizia e gruppi paramilitari che ha causato migliaia di morti. A parlarcene è Waldemar Boff - fratello del teologo Leonardo - pedagogo brasiliano che vive e lavora nelle favelas della Grande Rio. Cosa sta succedendo a Rio? Si può parlare di guerra? Per capire quel che accade bisogna valutare due aspetti. Quello criminale, che spinge i poveri a guadagnarsi da vivere imboccando la strada della droga e del traffico di armi, e quello sociale. A Rio stiamo assistendo al grido degli esclusi, al rifiuto degli ultimi di essere rifiutati. Quindi, sì, è in corso una guerra sociale. Contro l’ingiustizia, contro la segregazione. Ed è un fenomeno che travalica i confini brasiliani. Le città sono sempre più grandi, la disoccupazione cresce, la concentrazione del reddito è sempre più forte, la violenza dilaga fra i reietti, e gli ‘integrati’ militarizzano la società. I poveri seguono questa traiettoria: dall’emarginazione all’esclusione, fino all’eliminazione. Questa la crudele filosofia degli ‘eletti’. È un modo per eliminare i poveri, rifiuti organici di cui sbarazzarsi. Masse enormi che potrebbero venir incluse solo attraverso un radicale cambiamento dei bilanci pubblici, delle politiche economiche. Quindi, molto più semplice risolvere il problema estirpandolo. Questo significa che il governo pianifica la militarizzazione dei quartieri violenti anziché il loro recupero sociale? Il concetto è: più morti nelle favelas, meno bocche da sfamare per il governo? Purtroppo sì. E anche un presidente-operaio come Luis Inacio Lula da Silva non può far niente per cambiare le cose. Lula ha un vissuto che lo dovrebbe porre dalla parte degli ultimi, eppure il suo governo non ha modificato la politica economica del passato. Lula non ha il potere per farlo. È il presidente, ha vinto le elezioni, ha il governo in mano, ma non ha il potere reale. Chi ce l’ha? Il potere reale è quello economico, quello dei grandi interessi. I governi non sono altro che l’espressione delle forze dominanti in una società. È una pazzia sociale, una follia collettiva. Non esistono paesi liberi dal condizionamento del capitale globale. E quello che succede qui, succede in molte altre zone del mondo. Questo sistema crea la società-fortezza, voluta dai pochi eletti, che si proteggono lasciando fuori gli emarginati. Questo è. La violenza di Rio è da inserire nel quadro globale per essere compresa. E come gli Stati Uniti in passato preparavano colpi di stato militare per tenere sotto controllo i paesi, adesso formano squadroni speciali contro le rivolte urbane. Anche a Rio? Certamente. È una strategia di protezione globale. La violenza è una sorta di calmiere sociale per mantenere sotto controllo le masse povere e affamate che potrebbero destabilizzare l’ordine costituito. E a ispirare questa politica sono proprio gli Usa, che addestrano anche gli squadroni speciali. La Cia ha il suo ufficio a Brasilia e nella tripla frontiera fra Brasile, Paraguay e Argentina, nei pressi della splendida Foz de Iguaçu, ha costruito una base militare. Gli Usa esportano il proprio modello con la nuova scusa della lotta al terrorismo e al narcotraffico. La loro strategia di controllo sociale è creare un regime di terrore, di insicurezza, e anche di banalizzazione della violenza. Oggi se si ammaz14

zano due, cinque, dieci persone è normale. È questa la conseguenza peggiore: l’assuefazione alla morte. Qual è lo scacchiere della guerra nella Grande Rio? Nella capitale carioca e nelle sue periferie (la Grande Rio, ndr) ci sono tre gruppi criminali: il Comando rosso, gli Amici degli amici e il Terzo comando, e ognuno ha il proprio territorio. Con loro, la parte corrotta della polizia, che intasca i soldi del narcotraffico; contro di loro, gli squadroni paramilitari, che combattono i narcos e i loro traffici con l’intento di ripulire le favelas e farsi paladini di una giustizia sommaria. In cambio, impongono la tassa di sicurezza. Vivono di estorsione, creando una sorta di contropotere quasi ufficiale. E lo Stato democratico? Militarizza. Nelle favelas lo Stato è assenza. E in quei gangli lasciati vuoti si inserisce lo Stato parallelo, che fornisce sicurezza, pulizia, posti di lavoro. Le milizie, lo spaccio, il traffico di armi creano un giro di posti di lavoro, di soldi. Lo Stato che arriva in quelle strade non è quello democratico delle urne, ma quello repressivo dei fucili a pompa. I narcos e i miliziani come si rapportano alla gente comune? Sono solitamente padri di famiglia e cercano di vivere una sorta di normalità, pur nella consapevolezza di avere le ore contate. Ogni criminale ha un’aspettativa di vita bassissima. E suonerà strano, ma la gente li rispetta. Si fida più di loro che della polizia, dato che gli agenti usano una violenza indiscriminata, entrano nelle case e sparano all’impazzata. E la testa di questa “grande piovra” che è la criminalità carioca, dove sta? A Medellin, Parigi, New York, Roma... Tra politici, giudici, generali, grandi imprenditori... E le armi, i favelados dove le prendono? La domanda è un’altra: le armi dove vengono fabbricate? Perché fino a che i grandi paesi, Italia compresa, firmeranno trattati di pace continuando a produrre armi, ci saranno conflitti. Cosa fare contro questa “pazzia collettiva della società-fortezza” che si regge su violenza e terrore? Lavorare con la gente per risvegliarne la coscienza e ritrovare l’umanità perduta. In questa società di esclusi ed eletti non c’è umanità. Quando il debole crederà nel debole, il mondo cambierà. Illuminando le coscienze, si sconfiggerà la dinamica malvagia che ci soggioga, e sia il debole-vittima che il debole-carnefice saranno liberati. Occorre lavorare anche con chi è violento, affinché cambi. E con la vittima, affinché acquisti il coraggio di dire basta. Qui non si tratta di una lotta di classe, ma di un percorso per ritrovare l’umanità e ricongiungersi nella famiglia umana. Il processo è lento, ma il cambiamento sarà profondo e irreversibile. E questa è l’unica rivoluzione sostenibile.

In alto e in basso: Nella favela di Rocinha Brasile 2006. Simone Manzo per PeaceReporter


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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

Elezioni: solo due mesi per trovare una soluzione allo stallo politico

Le buone nuove

Libano, speranza Usa, un round nel compromesso per i latinos

Una città ritira la legge anti immigrati Altre saranno presto costrette a copiarla

Grecia e Turchia: il gas distensivo In ottobre entra in funzione il nuovo gasdotto che trasporterà il gas naturale dalla Turchia alla Grecia. L'attivazione di questa sezione del progetto, che una volta ultimato porterà gas anche dalla Grecia all'Italia, conferma il recente clima di distensione tra i due Paesi in passato nemici.

Colombia: in concerto contro la violenza Quaranta musicisti colombiani tra i più amati e famosi si sono schierati contro la violenza come mezzo di approccio ai conflitti sociali. Usando parole in musica, hanno organizzato una kermesse contemporanea dalle tre città chiave del paese: Medellin, Cali e la capitale Bogotá.

Cina: salute a tutti Il governo di Pechino ha messo in cantiere una serie di riforme per garantire a tutti i cittadini una copertura sanitaria di base. Lo ha annunciato il premier Wen Jiabao a poche settimane dal diciassettesimo congresso del Partito comunista cinese. Il principio è semplice: ogni cittadino ha diritto alle cure mediche, senza distinzione di reddito, residenza e provenienza.

Siberia: smantellate le armi chimiche Sta sorgendo in mezzo ai campi di grano della Siberia occidentale il nuovo impianto per lo smantellamento di due milioni di bombe al gas nervino risalenti all'era sovietica. Ma la vera notizia è che, in un clima di ricomparsa di spettri da guerra fredda, a costruire l’impianto sono proprio gli statunitensi. Sia gli statunitensi che i russi, in base ai trattati internazionali, devono distruggere le giacenze di armi chimiche entro e non oltre il 2012.

Uganda, i profughi tornano a casa “Dichiaro questo campo chiuso, in nome di Dio e del mio Paese”, ha detto Musa Ecweru, ministro per i Soccorsi e la prevenzione dei disastri, alla cerimonia di chiusura del campo profughi di Otwal Railway, a 300 chilometri da Kampala. I negoziati tra il governo e i ribelli dell’Lra sono a buon punto, e il 90 percento dei 18 mila sfollati che abitavano a Otwal Railway farà ritorno ai propri villaggi.

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e elezioni presidenziali che si terranno in Libano tra la fine di settembre, data della riapertura del Parlamento, e la fine del mandato dell’attuale Presidente Emile Lahoud il 25 novembre, apriranno il nuovo capitolo della politica libanese. Dopo l’ennesimo omicidio di un esponente della maggioranza anti-siriana, il deputato falangista Antoine Ghanem, ucciso da un’autobomba lo scorso 19 settembre a Sin el Fil, quartiere a est di Beirut, il fragile equilibrio che tiene assieme le diciotto confessioni religiose del paese potrebbe sfaldarsi. Il Libano è in stallo dallo scorso novembre, quando tutti i cinque ministri sciiti e uno dei due ministri greco-ortodossi lasciarono il parlamento. A ciò seguì un sit-in dell’opposizione capeggiato dai partiti Hezbollah, Amal e Corrente Patriottica Libera di Michel Aoun, che blocca da allora il centro della città: chiedono le dimissioni del premier Siniora e un governo di unità nazionale. La maggioranza presenterà tre candidati: i deputati Butros Harb e Robert Ghanem e l’ex parlamentare Nassib Lahoud, mentre l’opposizione ha indicato un solo nome: l’ex generale Michel Aoun. Con l’avvicinarsi delle elezioni ci sono stati diversi tentativi di dialogo, il più recente dei quali è stato lanciato dal presidente della Camera, Nabih Berri, che ha invitato l’opposizione a rinunciare al governo di unità nazionale se la maggioranza accetterà che le elezioni si svolgano sulla base di un quorum dei due terzi dei deputati, cioé 86 su 128, come previsto dalla costituzione libanese. Inizialmente sembrava che attorno a questa proposta ci fosse un consenso da entrambe le fazioni, ma, dopo l’assassinio di Antoine Ghanem, parte della maggioranza al governo che prima si diceva d’accordo con la proposta di Berri ha respinto l’iniziativa, accusando l’opposizione di voler ridurre il numero dei loro deputati. Il governo attuale ha la maggioranza relativa in parlamento, 68 membri su 128, ma non il quorum dei due terzi. La situazione sembra più imbrigliata che mai, ma i libanesi sperano ancora in un compromesso.

on dodici milioni di immigrati illegali nel Paese e una riforma del settore arenatasi al Congresso, nell’ultimo anno oltre un centinaio di piccole città statunitensi si sono fatte le leggi in casa. Vietato assumere clandestini o affittare loro delle case, pena sanzioni salate. La prima è stata Hazleton, ventimila abitanti nella zona carbonifera della Pennsylvania: un anno fa, dopo le manifestazioni dei latinos in tante città degli Stati Uniti, le autorità di Hazleton emisero un’ordinanza che prevedeva multe di mille dollari e revoca della licenza per le imprese che trasgredivano. Dalla California al Vermont, Hazleton ha fatto scuola. Ma i ricorsi delle associazioni per i diritti civili e l’intervento di alcune corti federali hanno fatto cambiare la marea, proprio a partire dalla Pennsylvania. Lo scorso luglio, un giudice federale ha definito “incostituzionale” l’ordinanza anti-immigrazione di Hazleton, sostenendo che le decisioni sulla questione devono rimanere di competenza dello Stato, non delle singole comunità. E lo scorso 18 settembre le autorità di Riverside, nel New Jersey, hanno ritirato di propria iniziativa una legge simile, perché le casse comunali non ce la facevano a sostenere le spese legali per difendere il provvedimento nell’iter delle corti. Si prevede che le circa centoventi città nelle stesse condizioni saranno costrette a fare anch’esse marcia indietro, prima o poi. Nel frattempo, a livello nazionale il vuoto legislativo continua. L’amministrazione Bush aveva spinto per una riforma dell’immigrazione, con una legge che prevedeva controlli più severi ma anche un graduale percorso verso la cittadinanza per i milioni di stranieri non in regola. Ma il Congresso, controllato dai Democratici, l’ha bocciata. Il mondo degli affari sa benissimo che, senza immigrati a svolgere i lavori meno qualificati, gli Usa si fermerebbero. Ma il fastidio dell’americano medio verso l’ispanizzazione del Paese traspare sempre più. Nell’impossibilità di accontentare business ed elettori, i politici hanno preferito lavarsene le mani.

Erminia Calabrese

A. U.

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Afghanistan La guerra infinita

ei anni fa iniziava l’ultima guerra del quasi trentennale conflitto per il controllo dell’Afghanistan. Un conflitto iniziato con la ‘guerra di liberazione’ antisovietica dei mujaheddin afgani (sostenuti dagli Usa) negli anni ‘80, proseguito nei primi anni ‘90 con la ‘guerra civile’ tra le diverse fazioni militari afgane che, negli anni successivi, si unirono nell’Alleanza del Nord per resistere (con il sostegno di India, Russia e Iran) all’inarrestabile avanzata delle forze talebane (sostenute da Pakistan, Arabia Saudita e Stati Uniti). Tutto inutile. Durante il ‘medioevo talebano’ di fine anni ‘90, i rapporti dei ‘barbuti’ con Washington si raffreddarono a causa dell’ospitalità da essi offerta a Osama bin Laden (che negli anni ‘80 combatteva i russi per la Cia). Poi venne l’11 settembre e alle milizie sconfitte dell’Alleanza del Nord fu data dagli Stati Uniti una chance per prendersi la rivincita sui talebani. Il 7 ottobre 2001, in reazione agli attentati al World Trade Center attribuiti dalla Cia (non dall’Fbi) proprio a Osama bin Laden, iniziavano i bombardamenti aerei statunitensi sull’Afghanistan. Parallelamente, a terra, l’Alleanza del Nord (orfana del comandante Ahmad Shah Massud, poco incline a collaborare con Washington) lanciava la sua offensiva con il sostegno logistico, le armi e i soldi degli Stati Uniti. Terminata la campagna aerea anglo-americana (costata la vita a circa 4 mila civili e 10 mila combattenti talebani), cacciati i talebani da Kabul e installato al potere il pashtun Hamid Karzai (ex consulente della compagnia petrolifera californiana Unocal), Washington ha ricompensato i diversi signori della guerra dell’Alleanza del Nord dando loro posti al governo e poi al parlamento ‘democraticamente eletto’. Garantitisi preziose basi militari permanenti in una zona del mondo molto strategica (a ridosso della Cina e dell’Iran), dal 2002 gli Stati Uniti si sono disinteressati all’Afghanistan per dedicarsi ad altro, lasciando così mano libe-

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ra ai talebani che nel frattempo si sono riorganizzati nei loro rifugi nelle aree tribali pachistane e che nel 2005 sono tornati per prendere il controllo del sud dell’Afghanistan. Cosa che hanno fatto. Per fronteggiare la situazione, Washington ha chiesto aiuto agli alleati della Nato, chiamandoli a contrastare l’avanzata talebana. La missione Isaf, nata nel 2002 come “missione di pace” dell’Onu, è diventata una missione di guerra della Nato indistinguibile dalla missione di guerra Enduring Freedom degli Usa. Giunti i rinforzi alleati (migliaia di truppe, cacciabombardieri e carri armati) nel 2006 sono ricominciati i bombardamenti aerei, accompagnati da massicce offensive terrestri. A farne le spese, con migliaia di morti e decine di migliaia di sfollati, sono stati e sono tuttora i civili delle province meridionali e orientali controllate dai neo-talebani. Questi ultimi invece hanno solo tratto vantaggio dall’aggressività delle truppe occidentali, che nessuno più in Afghanistan considera come forze di pace. Le truppe Isaf-Nato sono ormai percepite come un esercito d’occupazione, al pari di quel che fu l’Armata Rossa sovietica. La popolazione afgana, inizialmente fredda verso i redivivi talebani, oggi li considera come il male minore e li sostiene, non fosse altro che per vendicare i propri familiari morti per mano delle forze Nato: “effetti collaterali” umani e politici di una guerra che invece di combattere il terrore lo semina a piene mani, generando sempre più rancore, odio e violenza nei confronti dell’Occidente. La forza militare dei talebani è ormai diventata tale da spingere Kabul e Washington a offrire loro un negoziato che, per quanto improbabile, ha già avuto un risultato non indifferente: ha messo in allarme i mai disarmati signori della guerra tagichi e uzbechi dell’ex Alleanza del Nord (nel frattempo emarginati dal governo Karzai) che ora minacciano un’altra guerra civile in caso di un ritorno al potere dei talebani. Per ora in Afghanistan la pace pare destinata a rimanere un miraggio.


Il mosaico afgano


Il nord dell’Afghanistan, abitato principalmente dalle minoranze tagiche e uzbeche (27 e 9 percento della popolazione), è controllato dai mujaheddin comandati dai signori della guerra dell’ex Alleanza del Nord – i taghichi Mohammed Fahim e Ismail Khan e l’uzbeco Rashid Dostum – ora riuniti nel Fronte Nazionale Unito (Unf) in funzione anti-Karzai e anti-talebana.

Il sud dell’Afghanistan, abitato dalla maggioranza pashtun (42 percento della popolazione) coincide con le regioni controllate dai talebani e perciò interessate dalle operazioni militari delle forze della Nato e del governo di Kabul. Dall’inizio della guerra (7 ottobre 2001) a oggi si contano circa 30 mila morti, in maggioranza civili.

Se le aree tribali pachistane del Nord e Sud Waziristan sono diventate roccaforti e retrovie dei talebani, quelle di Bajahur e la Valle di Swat, poco più a nord, sono considerate il nascondiglio dei capi di al Qaeda, tra cui lo stesso Osama bin Laden. Dal 2004 l’esercito pachistano, su pressione Usa, ha lanciato in queste zone un’offensiva militare costata finora la vita a 5 mila persone.


N. Comando Regione Nord, Mazar, Svezia E. Comando Regione Est, Bagram, Stati Uniti S. Comando Regione Sud, Kandahar, Canada O. Comando Regione Ovest, Herat, Italia

In Afghanistan sono attualmente dispiegati circa 50 mila soldati stranieri appartenenti ai contingenti di 37 diverse nazioni e inquadrati in due missioni militari che sono distinte sulla carta, ma nei fatti unificate dalla stessa natura operativa: combattere i talebani con attacchi terrestri e aerei. Alla missione Enduring Freedom a guida Usa partecipano 8 mila soldati delle forze statunitensi. Alla missione Isaf a guida Nato partecipano circa 42 mila soldati: i contingenti più numerosi sono lo statunitense (17 mila uomini), il britannico (7 mila), il tedesco (3 mila), il canadese (2.500), l’italiano (2 mila) e l’olandese (1.500). L’Italia, che ha il comando della regione Ovest (in viola nella mappa), coordina le operazioni militari Nato contro le forze talebane nelle province occidentali di Herat, Farah, Ghor e Badghis e vi partecipa direttamente con uomini (circa 200 soldati delle forze speciali) e mezzi da combattimento (carri armati cingolati ‘Dardo’ ed elicotteri da guerra ‘Mangusta’). Sul loro impiego in missioni ‘combat’ il ministero della Difesa ha imposto il massimo riserbo.

Ottʼ01-Febʼ02

Marʼ02-Dicʼ02

2003

2004

2005

2006

sett. 2007

In sei anni di guerra, i soldati stranieri caduti in Afghanistan sono 696. Dal 2001 a oggi le perdite militari occidentali sono in continuo aumento dopo la fine dei bombardamenti dell’inverno 2001-2002: dai circa 50 morti l’anno del 2002, 2003 e 2004, si è passati a 130 morti nel 2005, 191 nel 2006 e 180 nei primi tre quarti del 2007 (a questo ritmo, alla fine del 2007 si potrebbero contare 240 morti) .

Errata corrige: nella mappa “Il mondo in guerra” del primo fascicolo dell’atlante, è stato inserito un dato errato sul totale delle vittime del conflitto in Darfur (Sudan). I morti dal 2003 sono 250 mila, non 2.500.


A dodici anni dall’ultima ribellione, gli ‘uomini in blu’ riprendono le armi

Il regime di Musharraf tra l’incudine democratica e il martello integralista

Il numero dei morti nel mese di settembre*

Niger-Mali, la Pakistan, verso guerra dei Tuareg la resa dei conti

Un mese di guerre

i è aggravata la situazione al confine tra Niger e Mali, dove due gruppi ribelli stanno portando avanti da alcuni mesi una guerra per il riconoscimento dei diritti delle popolazioni Tuareg. In Niger è attivo il Mouvement des Nigériens pour la Justice, mentre in Mali a prendere le armi sono stati gli uomini fedeli a Ibrahim Ag Bahanga, un dissidente che non riconosce l’accordo di pace firmato nel 2006 tra il governo e i precedenti ribelli. Finora, i due gruppi si sono limitati ad attaccare isolati avamposti militari, uccidendo quasi un centinaio di soldati e rapendone alcune decine, oltre a prendere di mira impianti petroliferi e miniere di uranio, uniche risorse di due tra i Paesi più poveri al mondo. I due governi, che non riconoscono le ribellioni e qualificano gli insorti come “banditi” dediti al contrabbando di droga e armi, hanno inviato rinforzi nelle aree interessate. Ma, mentre il governo nigerino ha imposto la legge marziale nella regione di Agadez, quello maliano ha chiesto all’Algeria e ad alcuni leader Tuareg, protagonisti di ribellioni negli anni ‘60 e ‘80, di fare da intermediari, arrivando alla firma di tregue più volte violate. Il governo del Niger ha accusato la compagnia mineraria francese Areva e, più velatamente, la Libia per il presunto appoggio dato ai ribelli, che chiedono una più equa ripartizione dei proventi derivanti dalle miniere di uranio, il cui corso mondiale ha conosciuto un’impennata negli ultimi mesi. In particolare, l’Areva è sospettata di appoggiare la ribellione da quando le autorità di Niamey hanno concesso 80 nuove licenze per lo sfruttamento delle miniere di uranio, rompendo di fatto il monopolio, durato decenni, della compagnia francese. La Libia rivendica il possesso di alcuni giacimenti petroliferi scoperti vicino al confine, in territorio nigerino. I due eserciti ricevono assistenza dagli Usa, che da anni portano avanti in Nordafrica e nel Sahel programmi miranti a combattere la nascita di gruppi terroristici.

er il presidente pachistano Musharraf è arrivato il momento della verità. A sostenerlo è rimasta solo la Casa Bianca, che vede in lui l’unico personaggio affidabile per tenere sotto controllo l’arsenale atomico pachistano e per poter manovrare l’esercito di Islamabad a proprio comodo. All’interno del paese la popolarità del generale è in caduta libera e, nonostante i piani di Washington, il suo regime rischia di venire rovesciato da due rivoluzioni di segno completamente opposto, una “arancione” e una “verde”, espressioni delle due facce della società pachistana. Da una parte ci sono le sempre più agguerrite forze d’opposizione democratiche, non più disposte a scendere a patti con i militari al potere e a credere alle promesse di Musharraf. La media e alta borghesia pachistana non può tollerare altri otto anni di Musharraf. Dopo il ‘tradimento’ della ex-premier Bhutto, che su pressione di Washington si è offerta come ‘stampella civile’ in veste di premier a un secondo mandato presidenziale del generale, e dopo una nuova espulsione dell’ex premier Nawaz Sharif, le forze democratiche sono orfane di figure politiche di riferimento. Un vuoto che potrebbe lasciar spazio allo spontaneismo delle piazze, come già accaduto la scorsa primavera con le violente proteste a sostegno del giudice della Corte Suprema, cacciato dopo aver criticato Musharraf per il suo progetto di farsi rieleggere dall’attuale parlamento e non da quello che verrà rinnovato a fine anno, sicuramente a lui più ostile. Alla fine l’ha spuntata Musharraf, che ora però rischia una rivoluzione in stile ucraino. Dall’altra parte ci sono i ‘soliti’ integralisti islamici filo-talebani e filo-al Qaeda, che ormai controllano un quarto del paese e che hanno dichiarato la jihad contro Musharraf per ‘talebanizzare’ il Pakistan: un progetto sostenuto anche da molti generali e politici a Islamabad. Ma soprattutto dalle manipolabili folle di giovani poveri e disoccupati che vivono nelle degradate periferie delle grandi città pachistane.

PAESE

M.F.

Enrico Piovesana

S

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MORTI

Iraq Afghanistan Pakistan (talebani) Sri Lanka Sudan Rep. Dem. Congo India Nordest Somalia Cecenia e Inguscezia Algeria India (naxaliti) India Kashmir Thailandia del Sud Turchia (Kurdistan) Colombia Burundi Israele-Palestina Filippine (islamici) Balucistan (Pakistan) Nepal (maoisti) Filippine (comunisti) Bangladesh (comunisti)

1.312 663 393 269 53 80 72 64 61 52 52 47 37 30 30 20 16 16 11 9 6 3

TOTALE

3 .2 9 6

I dati che qui riportiamo sono dati ufficiali, raccolti da agenzie di stampa internazionali o locali. Per cui sono da intendersi sempre per difetto: in molti paesi del mondo non si contano i vivi, figuriamoci i morti.

*Il periodo considerato è quello compreso tra il 25 agosto e il 21 settembre

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Qualcosa di personale Corea del Nord

Il mondo in un gulag Di Shin Dong Hyok

Ho 25 anni, sono nato e cresciuto nel campo di prigionia 14 di Kaechon, Corea del Nord. Fino alla mia fuga, nel 2005, quel mondo disumano era per me l’unico esistente. Non ho mai odiato le guardie che picchiavano, torturavano e uccidevano perché quello era per me l’ordine naturale delle cose. o sempre ritenuto normale e giusto che io pagassi per le colpe dei miei avi. Ero dissidente per nascita: un peccato originale che grava sugli appartenenti alla ‘classe ostile’: categoria che comprende, e condanna al gulag, tutti i dissidenti e i loro discendenti fino alla terza generazione. Nel mio caso, la colpa risale a uno zio paterno che durante la guerra di Corea combatté con l’esercito ‘sbagliato’, quello sudcoreano. Sono forse l’unico a essere uscito vivo dal campo 14. Perché quello di Kaechon, novanta chilometri a nord di Pyongyang, non è un normale gulag di ‘rieducazione’, ma un campo di ‘controllo totale’. I suoi prigionieri non ricevono un lavaggio del cervello per poi essere reinseriti in società: vengono solo mantenuti in vita per lavorare nei campi e nelle miniere di Stato. Finché non muoiono di stenti o non vengono giustiziati per il minimo sgarro. Uno spietato allevamento di manodopera, privo di ogni connotazione ideologica. Nel campo non ci sono slogan comunisti o ritratti di Kim Jong Il, ma solo cartelli con su scritto ‘Tutti rispettano le regole!’. Anche le guardie devono rispettarne una: trattare i prigionieri come bestie, fino a privarli della loro umanità, fino a renderli incapaci di provare qualsiasi sentimento. Con me questo sistema, applicato fin dalla nascita, ha funzionato molto bene. A quattordici anni non ho versato una lacrima quando ho visto le guardie che impiccavano mia mamma e sparavano in testa a mio fratello. Mentre mettevano il cappio al collo di mia madre, lei si è voltata verso di me, ma io ho distolto lo sguardo. Non l’avevo mai amata. Anzi la odiavo per tutto quello che avevo passato a causa sua, a causa della sua trasgressione alle regole. Non l’ho ancora perdonata per quello che ha fatto: dopo la sua tentata fuga, le autorità del campo sospettavano un complotto familiare, così sia io che mio papà siamo stati interrogati e torturati per sette mesi. Per evitare ogni rischio di solidarietà familiare, le centinaia di bambini nati e cresciuti nel campo come me vengono strappati ai genitori da piccoli e mandati a lavorare nei campi o nelle miniere dall’alba al tramonto. Viene loro concesso di vedere la madre solo una o due volte l’anno. Anche la mia famiglia è nata nel campo. Mio padre e mia madre sono stati ‘accoppiati’ a caso dalle autorità del campo in uno dei tanti ‘matrimoni premio’ riservati, anche qui, ai prigionieri che eccellono nel lavoro. Non è una concessione alla famiglia, ma

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solo un sistema per promuovere la generazione di nuova forza-lavoro: moglie e marito si possono incontrare solo un paio di volte all’anno. La vita nel campo, vista col senno di poi, è un inferno, anche se allora pensavo fosse normale così. Da mangiare c’è solo una piccola scodella di mais bollito in brodo di verdure, servita tre volte al giorno. Chi non è sazio, cioè tutti, si arrangia con quel che offre la natura: radici, rane, topi, locuste e libellule. Questo nutrimento, assieme alle drammatiche condizioni igieniche e al duro lavoro, decima la popolazione più debole del campo. Per chi non soccombe, ci sono i quotidiani abusi e violenze delle guardie, che per ogni minima sciocchezza picchiano e torturano donne, vecchi e bambini. Sono riuscito a sopportare tutto questo solo perché non sapevo che fuori dalla rete elettrificata c’era un mondo diverso. Non avevo idea che esistessero le città, che ci fosse un’altra Corea e altri paesi come la Cina o l’America. Finché un giorno, un uomo che lavorava con me mi ha raccontato del mondo esterno che lui aveva conosciuto prima. All’inizio non gli credevo, poi ho iniziato a perdere la testa. Non riuscivo più a pensare ad altro: desideravo solo uscire da lì e andare a vedere tutte quelle cose fantastiche. na mattina di gennaio del 2005, io e un mio compagno stavamo raccogliendo legna nel bosco, ai margini del campo. Quando ci siamo accorti che le guardie non ci vedevano, abbiamo iniziato a correre verso la rete elettrificata. Il ragazzo che era con me è finito sul reticolato ad alta tensione, folgorato. Nella barriera si è aperto un varco dove mi sono infilato, passando di là. Mi sono voltato e quando ho visto che lui non si muoveva ho iniziato a correre giù per la collina. Senza più voltarmi. Devo a lui la mia libertà. Sette mesi dopo sono riuscito a entrare in Cina e da lì, con l’aiuto di un coreano, ho ottenuto asilo politico in Corea del Sud. Oggi vivo a Seul, dove sto cercando di ricominciare tutto da capo. Ma è molto difficile adattarmi alla vita fuori dal campo: lì mi spezzavo la schiena, ma almeno non dovevo far altro che obbedire alle regole.

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Immagine satellitare notturna delle due Coree. Da notare l’assenza di luci in quella del Nord



La storia Romania

La città fantasma dei Carpazi Dal nostro inviato Alessandro Ursic

Venti anni fa a Matasari c’erano gente, lavoro e soldi, anche se l’ormai traballante regime di Nicolae Ceausescu non riusciva più neanche a portare il cibo nei negozi. Mancavano le case: le migliaia di minatori fatti arrivare qui a forza da mezza Romania, con famiglie al seguito, vivevano in colonie di prefabbricati divisi per area di provenienza. rano sistemazioni provvisorie: nelle intenzioni del conducator, questo villaggio nei Carpazi occidentali sarebbe dovuto diventare il centro dell’industria carbonifera, fiore all’occhiello dell’autarchia rumena. Schiere di condomini identici, anonimi bloc grigi di cinque piani, furono innalzati per ospitare chi aveva zappato la terra per una vita, e da allora in avanti avrebbe dovuto annerirsi faccia e polmoni di lignite. Poi Ceausescu fu destituito e ucciso nella rivoluzione guidata dai suoi stessi oligarchi. E Matasari, proprio quando avrebbe dovuto fortificarsi, iniziò a morire. Ora le case ci sono, anche se lasciate a metà. Non mancherebbe neanche il cibo da comprare. Peccato che gente, lavoro e soldi non ci siano più. Sotto Ceausescu tutti avevano un lavoro, ti ricordano i rumeni; ma per le sei miniere intorno a Matasari diecimila lavoratori erano troppi, anche perché l’estrazione da alcuni di quei giacimenti non era più conveniente. Come per tutta la Romania negli anni Novanta, qui la transizione dal comunismo al capitalismo è stata dolorosa. Nel 1997 arrivò la prima ondata di licenziamenti: tre delle quattro miniere sotterranee furono chiuse, le due a cielo aperto sono più grandi di prima ma vanno avanti con meno personale. “L’unico giacimento sottoterra rimasto aperto, con trecento lavoratori, verrà chiuso tra tre anni al massimo”, spiega fumando una sigaretta dopo l’altra Mitica, un sindacalista a Matasari dal 1977, praticamente un pioniere. Oggi centinaia di famiglie, alcune con più di cinque bambini da sfamare, tirano avanti con sussidi di disoccupazione mensili di poche decine di euro. I mille e trecento minatori rimasti – molti di essi al minimo salariale di centonovanta euro al mese – sono fortunati, perché il lavoro ce l’hanno ancora. Ma insieme ai settemila abitanti di Matasari, rispetto ai venticinquemila degli anni Ottanta, si potrebbero anche definire coraggiosi.

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arà che in decenni di regime impari a convivere con la rassegnazione, o che l’unica alternativa percorribile è emigrare verso l’ignoto. Di certo, la vita in questa città fantasma ti mette a dura prova. Torrida d’estate e ghiacciata d’inverno, con temperature che scendono a meno venticinque gradi. Senza condutture per il metano, case riscaldate con stufe a carbone che impregnano l’aria di polvere nera, tanto che la neve a Matasari ha lo stesso colore dei bloc voluti da Ceausescu. Con il costante cigolio dei rulli sotto il nastro che trasporta carbone, quasi un ululato che l’eco della valle ti fa entrare nel cervello, unico sinistro rumore nelle notti dei Carpazi. L’acqua ci sarebbe, sgorga da tubature rotte per strada ma arriva nelle case, gelida, solo un paio d’ore la mattina e alla sera. Da almeno otto anni manca la pressione per pomparla: per questo, quel paio di appartamenti per condominio rimasti abitati sono tutti ai piani bassi. In molti casi, ciò non impedisce all’acqua di entrare dall’alto: ma è quella piovana, che penetra dalle crepe degli scheletri che dovevano essere dormitori. E che ora sono solo astronavi di cemento arma-

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to in mezzo a un paesaggio che fino a qualche chilometro prima sembra quello dell’Italia contadina di cinquant’anni fa, alla sera anche le vecchine rincasano con la zappa in mano. Alcuni ex minatori si sono reinventati cacciatori di ferro. Setacciano con un metal detector le pendici delle colline circostanti, in cerca di scarti di miniera ormai inutili. Il resto è lavoro di pala e piccone. Per estrarre una barra di un paio di metri, incastrata tra rocce e fango vicino a uno stagno dove regnano rane e moscerini, tre uomini scavano a turno da due giorni, ma sono ancora a metà del lavoro. Eppure per Razvan, Cornel e Georghe, quella barra è l’unica speranza di guadagno. “Il ferro si vende a dieci centesimi di euro al chilo, ma qui non c’è nient’altro da fare”, racconta Cornel, che dimostra quarant’anni ma ne ha dodici di meno. Quel blocco di ferro varrà al massimo qualche euro. “Sempre se qualcuno ce lo compra; a volte ci accusano di rubare proprietà dello stato”, aggiungono amareggiati i tre uomini, prima di fare pausa con il pane e la zuppa di acqua e poco altro, che si sono portati da casa. olti abitanti della città fantasma, senza un lavoro fisso, vanno all’estero per qualche mese e poi ritornano. Grazie al passaparola iniziato da qualche pioniere, Matasari ha un filo diretto con Canicattì. Da un villaggio rumeno in mezzo al nulla alla città siciliana lontana da tutto per antonomasia, sembra uno scherzo del destino. Ma pochi mesi d’estate a fare i braccianti, per gli stagionali di Matasari valgono centinaia di euro che bastano a tirare avanti per il resto dell’anno. Per le donne il percorso tipico è quello delle badanti, con destinazione Italia, Spagna e Grecia. E’ da paesi come questo che partono le migrazioni stagionali dei rumeni. Indietro rimangono città mezze vuote e una nazione di ventidue milioni di abitanti, ma solo sulla carta. “E’ da quando andavo a scuola io, quindici anni fa, che ripetono sempre quella cifra”, spiega Mirela, un’insegnante della Moldavia, una delle regioni rumene più povere. “In realtà tutti sanno che nel Paese saranno rimasti diciassette o diciotto milioni, e altri dieci milioni lavorano all’estero. In agosto tornano qui e le strade si riempiono di macchine con targhe straniere”. A Matasari quelli che non scappano sono i bambini. Che sono tanti: secondo i numeri forniti dal comune, il quarantun percento degli abitanti ha meno di diciotto anni. E sono anche i più felici. Giocano tra le rovine di quelli che dovevano essere i condomini del futuro, sono nati in una città moribonda ma grazie alla loro energia la fanno vivere. Forse non basterà a salvare la dimenticata Matasari. Ma la Romania, appena entrata nell’Unione Europea e con tanta strada ancora da fare, avrà bisogno del loro entusiasmo.

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In alto: Un cieco per le strade di Matasari. In basso: Bucarest, case popolari nel quartiere di Ferentari. Romania 2007 Alessandro Ursic ©PeaceReporter


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Italia

Scuola, il futuro è passato Di Domenico Starnone*

Ormai è diffusissima la convinzione – a destra e forse ancor più a sinistra, ammesso che questi termini significhino ancora qualcosa – che c’è stato un tempo in cui nella scuola pubblica sì che si poteva insegnare bene, sì che si poteva studiare con profitto. Sulla data della cacciata dal paradiso terrestre dell’istruzione c’è solo un po’ di disaccordo. Alcuni pensano che le cose si siano messe male a partire da Berlinguer ministro. Moltissimi sono convinti che il peggio sia arrivato con don Milani e il ‘68. uelli di memoria lunga vanno ancora più indietro, secondo loro il peccato originale sta nella media unica. A momenti, voi capite, si comincerà a lodare la scuola fascista. In realtà ciò che si rimpiange, spesso senza dichiararlo, è una scuola odiosamente selettiva. L’Eden di insegnanti e studenti capaci e meritevoli, ridotto al nocciolo sarebbe bocciare molto, rimandare a settembre, bocciare ancora? Così pare, visto che si vuole reintrodurre, tra tante altre cose del passato, l’esame di riparazione. Quando sono stato studente (anni ‘50, appunto), essere rimandati a settembre significava per le famiglie proletarie e della piccola borghesia sacrifici durissimi. I padri di famiglia dovevano trovare soldi da versare a professori o studenti universitari per le lezioni private. Soldi a volte buttati. Il rischio di essere bocciati a settembre, malgrado la spesa, era alto. Si spendeva danaro in ansia, per amore dei figli.

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l mercato delle lezioni private, assai vasto, era un modo per permettere agli insegnanti – mal pagati in ogni epoca - di arrivare più agevolmente alla fine del mese, o agli studenti universitari poveri di pagarsi gli studi. Io per esempio sono stato uno di questi studenti che giravano di casa in casa dando lezioni a domicilio. L’ho fatto per anni, fino a quando non ho preso la laurea. Andavo in appartamenti malmessi o di piccola agiatezza. Prendevo pochi soldi, molto meno di quanto prendevano i professori, che si muovevano dentro un sistema ben più articolato: c’erano accordi tra insegnanti, tipo tu mandi i tuoi alunni a me, io mando i miei a te; o c’era chi consigliava ai suoi alunni di rivolgersi alla professoressa Tal dei Tali, che era poi sua moglie. Io, che avevo tra i diciassette e i diciotto anni, mi limitavo semplicemente a chiedere compensi miserabili, cosa che in certe fasi mi costringeva a dare un numero spropositato di lezioni, da mattina a sera. Il congegno era perverso, ne ero consapevole già allora. I poveri finanziavano i poveri. L’inefficienza della scuola pubblica diventava una fonte di guadagno. Mi pagavo le tasse universitarie, i libri che mi occorrevano, vitto e allog-

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gio incuneandomi dentro il cattivo funzionamento della scuola di massa. Cercavo di fare a pagamento quello che la scuola non faceva. Levavo danaro a chi ne aveva poco solo perché l’istituzione pubblica minacciava di bocciargli i figli. riuscire male a scuola, infatti, erano in genere i ragazzi senza grandi privilegi culturali alle spalle, quelli che dovevano risalire la china sociale più faticosamente, visto che la repubblica, che avrebbe dovuto rimuovere ostacoli, non accennava a rimuoverne nemmeno uno. Gli insegnanti non si sprecavano molto: se i ragazzi avevano un loro genio volenteroso, una diligenza subalterna, bene, o se no chi se ne frega. Così insegnanti poveri e studenti universitari poveri tiravano avanti prendendo danaro da famiglie non agiate che affidavano i loro figli a una scuola incapace di istruirli come si deve. La nascita della media unica ridusse di molto quel mercato. L’ondata postsessantottesca lo ridimensionò ulteriormente. Riprese però quota negli anni ‘80. Poi arrivò D’Onofrio ed estinse gli esami di riparazione (riparazione di che? uno studente che arranca è una gomma bucata? o un penitente?). Fece bene. Ma a toglier questo o quello ci vuole poco, a pensare una scuola pubblica di elevata qualità per tutti ci vuole moltissimo. Niente di serio e di ben fatto è stato finora realizzato per fare in modo che sia l’istituzione stessa a risolvere efficacemente i problemi della disuguaglianza sociale e culturale nelle scuole. Conseguenza: si torna indietro. Di nuovo gli esami di riparazione. Di nuovo la voglia di bocciatura. Di nuovo la scuola per i Pierini (gli eccellenti) mentre per i Gianni pazienza. Forse si vive abbastanza solo per vedere come il tempo svolta a U e si dà a circoli viziosi.

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* Scrittore e sceneggiatore. Ha insegnato a lungo nella scuola media superiore e si è occupato di didattica dell'italiano e della storia.

Milano, Politecnico, facoltà di Architettura Italia 2007 ©Anna Gregnanin/Prospekt


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Migranti

Agosto, il mese più nero Di Gabriele Del Grande

Ad agosto 243 morti alle frontiere dell’Europa. Il mese peggiore di un anno, il 2007, che ha già visto morire 959 migranti, la maggior parte tra Malta e Lampedusa. Nel Canale di Sicilia le vittime dell’ultimo mese sono 161, 29 nel mar Egeo e 13 sulle rotte per le isole Canarie. gosto, il mese con più vittime del 2007. Due uomini sono rimasti uccisi, in Turchia, nel camion su cui viaggiavano nascosti verso la Grecia, e la stessa fine ha fatto un giovane investito dal camion sotto cui si era nascosto, nel porto di Algeciras, in Spagna. Morto un ventottenne albanese sui valichi del Carso, mentre tentava di superare la frontiera italiana a piedi. Ma la Fortezza Europa fa vittime anche nell’Oceano Indiano, dove, per raggiungere l’isola francese di Mayotte, ad agosto sono annegati in 36; otto erano bambini. Almeno 9.756 morti dal 1988. Intanto ad Agrigento va avanti il processo ai sette pescatori tunisini finiti in carcere per aver salvato la vita a 44 naufraghi. E nei porti italiani continuano i respingimenti dei richiedenti asilo, mentre nuove testimonianze denunciano abusi della polizia negli aeroporti francesi. Ufficialmente né l’Italia né Malta hanno mai dichiarato guerra alla Tunisia o alla Libia. Eppure nello stretto di Sicilia in dieci anni sono morte almeno 2.420 persone. Ad agosto il mare si è ingoiato la vita di almeno 161 giovani uomini e donne. Il 2007 si conferma l’anno più tragico per le rotte siciliane: 491 morti in otto mesi. Erano stati 302 in tutto il 2006. Eppure gli sbarchi sono diminuiti del 30 percento in un anno. Lo dice il Ministero degli interni. Ma allora perché aumentano i morti? I motivi sono quattro. Barche più piccole e meno sicure, niente più scafisti, rotte più lunghe, e mancato soccorso.

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a eroi a criminali. Salvarono la vita a 44 naufraghi, oggi rischiano il carcere. Fossero stati italiani ad annegare, i loro soccorritori sarebbero stati ricevuti al Quirinale per una medaglia al valore civile. Ma su quel gommone sedevano indesiderati marocchini, eritrei, sudanesi e somali. Ventinove uomini, undici donne e due bambini. E per i sette pescatori tunisini che li hanno tratti in salvo, la prospettiva è una forbice che oscilla tra i 4 e i 15 anni di carcere con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Non è bastato l’Sos inviato dal comandante Janzeri alle capitanerie di porto tunisine per richiedere un soccorso medico agli uomini presi a bordo dal Morthada e dal Hedi, così si chiamano i due pescherecci ora sotto sequestro. Allo sbarco a Lampedusa è scattato l’arresto e per i sette non resta che sperare in un processo la cui sentenza sembra già scritta, sebbene il Pm abbia chiesto la derubricazione del reato da favoreggiamento doloso e a scopi di lucro a ingresso irregolare nel territorio italiano. In caso di condanna, la difesa si è detta pronta a presentare ricorso fino alla Corte europea. Le associazioni si stanno mobili-

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tando, ma intanto i sette rimangono in carcere. E in mare si è già sparsa la voce. Da tempo i superstiti dei naufragi raccontano l’indifferenza di pescatori e mercantili di fronte alle barche in vetroresina semiaffondate. espingere invece che accogliere. Trecentosessantadue respingimenti alla frontiera in un mese non fanno notizia. E se 200 di loro sono iracheni e una trentina afgani, ancora meno. Non ne parla nessuno, ma nei porti italiani dell’Adriatico è in corso un attentato al diritto internazionale. I 362 respinti del mese di agosto, nei porti di Bari (190), Brindisi (17), Ancona (153) e Venezia (2), sono soltanto la punta dell’iceberg. Migliaia di respingimenti ogni anno, a fronte di poche decine di richieste d’asilo che riescono a essere presentate alle frontiere portuali. Vengono da Iraq, Afghanistan e Iran, e si imbarcano in Grecia, a Patrasso e Igoumenitsa, per i porti italiani, sui traghetti dei turisti in vacanza. Ogni giorno la polizia ne trova una decina. Senza nessun documento, nessun provvedimento scritto. Nessuna assistenza giuridica. Nemmeno si scende dalla nave. A Bari ogni mattina arrivano tre navi dalla Grecia. E ripartono in serata, con i respinti ancora a bordo. Molti sono addirittura minori. A Pasquetta dal solo porto di Bari furono respinti addirittura in 183, 150 dei quali iracheni. Allora ne seguì una protesta ufficiale del Cir, organizzazione presente nelle frontiere portuali e aeroportuali, e addirittura un’interrogazione parlamentare. Ma i dati di agosto mostrano che non è cambiato niente. I respingimenti collettivi nei porti italiani continuano a essere la norma. E una volta in Grecia? La Grecia ha firmato un accordo di riammissione con la Turchia già nel 2001, utilizzato anche per l’espulsione dei profughi iracheni. E la Turchia di iracheni ne ha espulsi 135 anche a fine luglio, sotto le inutili proteste dell’Acnur. Tragico destino quello dei profughi dell’Iraq dilaniato dalla guerra. Oltre due milioni hanno trovato rifugio in Siria e Giordania. Soltanto il 4 percento si trova in Europa. Il Parlamento europeo, in data 15 febbraio 2007, approvava una risoluzione sull’Iraq in cui invitava gli Stati dell’Ue a riconoscere l’asilo agli iracheni e a non espellerli per nessuna ragione. In Italia quella direttiva sembra non essere mai arrivata.

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In alto: Un gruppo di immigrati dopo essere passati dal CPA In basso: Un gruppo di immigrati appena sbarcati attende disposizioni dalle autorità. Lampedusa (Ag), Italia 2007 ©Samuele Pellecchia/Prospekt


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Rubriche

In edicola di Claudio Sabelli Fioretti

Lele Mora per Padoa Schioppa In tivù di Sergio Lotti

L’epiglottide di Bertinotti Chissà se il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, rimpiangeva una più comoda e rassicurante poltrona di fronte a Bruno Vespa, la sera dell’ultima (purtroppo) puntata di W l’Italia diretta, condotta da Riccardo Iacona, il quale, invece di gigioneggiare in giro per lo studio come usano molti suoi colleghi, pensa a fare il suo mestiere. Cioé le domande giuste, senza sconti per nessuno. Alle quali domade Fausto Bertinotti risponde con la pacatezza e la capacità dialettica di sempre, ma i movimenti dell’epiglottide denunciano un certo nervosismo. E non sempre convince. Prima chiede aiuto a Lapalisse: la politica è in crisi da decenni, dice, se la gente si arrabbia solo ora è perché sta peggio. Poi, quando gli chiedono se è d’accordo o no sul fatto di cacciar via dal Parlamento chi è stato condannato con sentenze passate in giudicato, si rifugia nei distinguo: c’è crimine e crimine. E poi devono essere i partiti stessi a ripulirsi. Peccato, gli fanno notare, che per ora i partiti non sembrano aver la minima intenzione di provvedere. Il presidente della Camera torna a suo agio, invece, quando la sponda del sociologo Luciano Gallino, con le sue crude cifre sul precariato e sugli incidenti sul lavoro (tre morti al giorno), lo riporta sul terreno che gli è più congeniale e gli consente di alzare il livello della discussione. Se è vero che il lavoro e l’impresa devono tener conto del vincolo esterno della competitività, dice, è anche vero che esiste il vincolo interno della civiltà del lavoro, senza rispettare il quale non ci può essere sviluppo equilibrato. Era ora che qualcuno lo dicesse chiaramente, al di là delle trite discussioni sugli effetti della famigerata legge Biagi: il vero problema è che la qualità del lavoro è scaduta. Poi però il lea26

I giornali italiani stanno un po' tutti cambiando. Ne ho parlato due numeri fa accennando al fatto che si sono trasformati in un contenitore di autopromozioni. Ma i giornali cambiano anche in mille altri particolari. Si rimpiccioliscono, si colorano, alzano la voce, abbassano la qualità. Li capisco, hanno dei problemi, stanno perdendo lettori paganti e i giovani non li considerano più una fonte di informazione degna di essere presa in considerazione. Loro hanno Internet, hanno la televisione e non hanno tempo da perdere. Di fronte a una crisi di mercato la reazione migliore dovrebbe essere quella di migliorare il prodotto. Nessuno compra più le torte? Bene, facciamole più buone, magari irresistibili. Invece no, le torte vengono fatte più cattive ma con tante spezie. Titolazioni choc che non corrispondono al testo dell'articolo, foto violente, cadaveri, sangue, spazio spropositato per il pettegolezzo.

der di Rifondazione comunista torna ad agitarsi sulla spinosa poltrona quando, sullo sfondo di procure calabresi che sembrano devastate da un’alluvione, con i faldoni che marciscono, le auto di scorta decrepite con le gomme lisce e gli organici incompleti, il procuratore antimafia Nicola Gratteri gli chiede come mai, per dare a queste procure i mezzi necessari a combattere la ’ndrangheta, non si è trovato in Parlamento l’accordo

Però quando c'è la foto di un bambino gli viene pixelato il viso. I bambini sui nostri giornali non hanno più volto. Hanno dei puntini colorati sopra il collo. In compenso i giornali italiani hanno tantissime pagine. E tantissimi articoli che parlano dello stesso argomento e tu non sai mai qual è quello che devi leggere per primo. E poi adesso hanno anche delle piccole pubblicità appiccicate sopra l'articolo più importante. Non bastasse te li vendono abbinati alle videocassette, ai dvd, alle enciclopedie, ai corsi di Internet. Vai all'edicola e se compri due quotidiani e due settimanali devi accendere un mutuo. I giornali fanno anche una grande confusione. In quasi tutte le altre nazioni c'è grossa differenza fra il quotidiano popolare e quello autorevole. Da noi se non stai attento confondi Padoa Schioppa con Lele Mora, la finanziaria col Billionaire. Il Billionaire lo riconosci perché è quello cui è dedicato il maggior numero di pagine. www.sabellifioretti.it

che ha consentito di varare l’indulto alla velocità della luce. La risposta è, in sostanza, che la mafia si combatte in tanti modi e che la politica non deve limitarsi ad amministrare, ma deve elaborare soprattutto grandi disegni. Purtroppo questi disegni per il momento non si vedono, gli ribattono, e neppure le persone che abbiano la capacità di concepirli. Forse nel frattempo sarebbe meglio cercare almeno di amministrare.


A teatro di Silvia Del Pozzo

Gomorra in scena Gennarino McKay, Sandokan Schiavone, Ciruzzo 0’ Milionario. Se non fossero uomini veri, imprenditori che muovono capitali enormi, con le mani sporche di sangue, potrebbero sembrare personaggi di fantasia, protagonisti di qualche film gangster statunitense. E invece sono i vertici di un “sistema” – così chi ne fa parte chiama, a Napoli, Secondigliano, Casal di Principe, la camorra - che ottocentomila lettori hanno scoperto e conosciuto con “Gomorra”, titolo che il ventottenne Roberto Saviano ha dato alla sua appassionante e brutale inchiesta-romanzo sul mondo del malaffare economico e criminale campano. Premio Viareggio opera prima nel 2006, il best seller di Saviano diventa ora una pièce teatrale (prodotta dal teatro Mercadante di Napoli, in scena dal 29 ottobre), scritta a quattro mani da Saviano e dall’amico Mario Gelardi (che ne cura anche la regia) già prima della pubblicazione del libro. Rivivono in palcoscenico alcune storie di quel drammatico intreccio di situazioni allucinanti e protagonisti spietati che Saviano ha documentato nel suo affresco criminoso. Boss arroganti e gregari asserviti, carnefici e vittime incoscienti che a Saviano gridano con protervia che “si è inventato tutto”. Vederli agire in scena, impersonati tra gli altri da Ernesto Mahieux (“l’imbalsamatore” del film di Matteo Garrone), Francesco Di Leva, Ivan Castiglione (che veste i panni dello stesso Saviano) sarà ancora più scioccante che leggerne le “gesta” nel romanzo. In attesa che Garrone li faccia rivivere sullo schermo, in un film (in preparazione) in cui vedremo ancora Mahieux, accanto a Salvatore Rocco e al bravissimo Toni Servillo.

fica “la strada”, “la linea”). E’ l’album che segna l’esordio discografico di Saba Anglana, un’italoafricana nata a Mogadiscio da padre italiano e madre etiope. Il suo volto è conosciuto perché ha interpretato per la televisione il ruolo della poliziotta Katia Ricci nella 2° e 3° serie della fiction Rai “La Squadra” (in cui l’attrice combatteva contro i pregiudizi razziali occupandosi di anche casi di immigrazione clandestina dall’Africa). Il suo disco è importante per più motivi. Primo: è pieno di belle canzoni (merce rara di questi tempi). Secondo: è un lavoro ricco. L’artista ha esplorato i rapporti tra la Somalia e l’Italia con sensibilità e delicatezza, mescolando, con chitarre acustiche e kora, ritmi della tradizione africana e suoni percussivi contemporanei. Fondamentale la presenza al suo fianco di alcuni musicisti emigranti provenienti da altre regioni africane come il Senegal, il Camerun, il Gabon, coordinati nel loro lavoro, da Fabio Barovero, anima storica dei torinesi Mau Mau. Terzo: le canzoni hanno qualcosa da dire. I testi, mai banali, parlano di premonizioni, fughe, speranze, separazioni, passioni, potere, politica… ma anche della vecchia nonna che faceva l’ostetrica all’ospedale di Mogadiscio. Quarto: è un disco di musica africana prodotto in Italia. Un segnale importante per una discografia, la nostra, sempre afflitta da pro-

vincialismo. Quinto: una speranza. “Questo mio lavoro” ha dichiarato Saba “è anche un vibrante spaccato delle conseguenze del contatto sviluppatosi con l’arrivo degli italiani in Somalia. Un contatto ancora vivo nelle migliaia di emigrati delle ex-colonie in Italia, nei figli meticci e nei profughi”. E se Jidka diventasse anche un pretesto per aprire una riflessione seria sull’eredità del colonialismo italiano nel Corno d’Africa?

(World Music Network)

“No child soldiers” Autori vari Forse un aiuto lo ha dato anche il Leonardo di Caprio di ‘Blood Diamond’, la pellicola che oltre a raccontare le tragedie che si possono nascondere dietro un diamante, ha ‘sbattuto’ nelle multisale del nord del mondo i drammi dei bambini soldato africani. Questa raccolta si inserisce in quel filone. Il CD mette insieme alcuni noti musicisti africani (Alpha Blondy, Angélique Kidjo, Mama Keita, Lokua Kanza, Bibie, Ben Okafor, Monique Séka, Charlotte M’Bango, Aïcha Koné and Madéka) e alcuni artisti che da sempre hanno combattuto con la forza della musica tali problematiche (Corneille, Tété, Rokia Traoré, Extra Bokaya, Youssou N’Dour & Geoffrey Oryema). Tutti i fondi recuperati da questa operazione saranno devoluti alle associazioni locali che si occupano della divulgazione della pace e dell’assistenza ai bambini coinvolti. (Harmonia Mundi / Egea)

Vauro

Napoli, Teatro Mercadante, dal 29/10 al 18/11 Roma, Teatro Valle, dal 27/11 all’8/12 Prato, Teatro Il fabbricane, dal 12 al 16/12

Musica di Claudio Agostoni

“Jidka - The Line” di Saba “Il mondo è crudele ed io sono così piccola. Il paese in cui sono nata aveva grandi mani calde ed accoglienti che mi hanno protetta da ciò che non conoscevo. Presto quelle mani si sono fatte sangue e polvere. Il mondo è crudele ed io sono così piccola”. E’ uno stralcio del testo di Je suis petit, una delle dodici tracce inedite di Jidka (parola che in somalo signi27


Al cinema di Nicola Falcinella

In questo mondo libero di Ken Loach Da sfruttato a sfruttatore in poche settimane. È il percorso di una giovane lavoratrice inglese di questi anni secondo Ken Loach. Il regista scozzese, uno dei cineasti preferiti di chi ha a cuore i temi sociali, sembra diventare ancora più pessimista. Oppure ottimista, visto nell’ottica di chi vorrebbe riportare i rapporti di lavoro all’epoca della rivoluzione industriale. It’s a Free World – In q u e s t o mondo libero, appena uscito in Italia, ha vinto all’ultima Mostra di Venezia l’Osella per la migliore sceneggiatura, scritta ancora una volta dal fedele collaboratore Paul Laverty. La protagonista è Angie (Kierston Wareing, la cui interpretazione è stata molto apprezzata), una

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trentenne sfruttata da un’agenzia di lavoro interinale che la usa per assoldare lavoratori immigrati polacchi. Passata la rabbia, con l’amica Rose (Juliet Ellis) Angie crea una propria agenzia di collocamento per manodopera straniera in una zona periferica di Londra. Pochi minuti e si trasforma da schiava a schiavista, assorbendo in sé tutte le contraddizioni del sistema globalizzato: metodi spicci, due occhi al profitto e sempre meno attenzione per le persone. Unici a cercare di farla ragionare il padre Geoff (che difende lo spirito dei lavoratori dei vecchi tempi) e Karol (un ragazzo polacco con cui aveva avuto una storia e che ritrova casualmente). Nessuno dei due riesce ad arrestare lo slancio “imprenditoriale” della giovane. Il finale, con Angie che torna in Polonia da padrona di un’agenzia, è ambiguo. Da una parte è pessimista perché mostra il cedimento della protagonista verso un comportamento che non era il suo. Dall’altro potrebbe essere letto dai fautori del capitalismo anarchico come un esempio da seguire. Al di là delle letture politiche, il film conferma dopo “Un bacio appassionato” le difficoltà creative del cineasta scozzese: ha sempre intuizioni giuste (la storia di giovani tifosi in Tickets con Olmi e Kiarostami o il corto inserito nel bellissimo film collettivo Chacun son cinéma) ma non sempre riesce a svilupparle e gestirle. In questo caso ci sono anche lacune narrative: il figlio di Angie compare dopo oltre mezz’ora di film, Karol e altri personaggi appaiono e scompaiono senza ragioni chiare.

In libreria di Giorgio Gabbi

La polvere sui guanti del chirurgo di Senadin Musabegovic Non spetta ai poeti dare ragione dell’assurdo: spiegare, per esempio, come sia potuto succedere che alle porte di casa nostra, nei luoghi dove tanti di noi avevano fatto le vacanze sotto la tenda con gli amici o la famiglia in mezzo a una popolazione tranquilla e ospitale, una ventata di guerre fratricide abbia spazzato via quella che era stata la Jugoslavia. E neanche Musabegovi, nato a Sarajevo nel 1970, in questo suo secondo libro di poesia, La polvere sui guanti del chirurgo tenta di dare spiegazioni sulla guerra che lui ha combattuto ventenne nel più debole dei tre eserciti che dilaniavano la BosniaErzegovina, quello musulmano. Ma la sua poesia trasmette con straordinaria efficacia l’assurdo vissuto nella quotidianità, la mancanza di senso in cui precipita chi ha la sventura di inquadrare nel mirino dell’arma che impugna il volto di un amico, di un compagno di scuola. E non può far altro che premere il grilletto. La poesia di Musabegovic, oggi docente alla facoltà di Lettere e filosofia dell’università di Sarajevo e all’università Džemal Bijedi di


Mostar, è fatta di frammenti di esperienze vissute e restituite dalla memoria come realtà sognate, e di esperienze oniriche sofferte come accadimenti reali. Così come i 1.260 giorni dell’assedio di Sarajevo, il più lungo subito da una città nel Novecento (“scandalo sterile”, lo definisce Gianluca Paciucci nella sua postfazione al volumetto e “schiaffo non sentito dai dodicimila uccisi da sniper, granate, freddo e fame”) nei versi dell’Autore si intrecciano con teneri ricordi d’infanzia, presenze di persone care (la nonna in particolare), amori. Più spesso che no, questi ultimi, fatti di sesso consumato nell’intervallo fra due esplosioni di granate. Come nella poesia Il respiro della polvere sui guanti chirurgici che dà il titolo alla raccolta: “Ti dico:/ Dobbiamo fare l’amore,/ Perché il tempo scade,/ Adesso da qualche parte/ i combattenti caduti/ stecchiti giacciono nelle proprie trincee/…E tu mi dici:/ Dobbiamo fare l’amore/ perchè già domani sul tavolo anatomico/ sotto i ferri del chirurgo possiamo l’uno all’altro/ sorridere”.

Senadin Musabegovic, La polvere sui guanti del chirurgo, Infinito edizioni, 2007 pagg. 96, € 12,00

In rete di Arturo Di Corinto

Censura e autocensura A settembre il commissario Europeo Franco Frattini ha proposto di chiedere alle corporation informatiche di operare una censura selettiva di parole indesiderate, come avviene in Cina, dove si selezionano le parole incriminate e poi si individua il nominativo corrispondente all'indirizzo IP utilizzato per risalire all’autore della loro diffusione. Una strategia che non ha ancora dato alcun frutto contro il terrorismo se non quello di mettere a tacere testimoni scomodi come i blogger e comprimere ulteriormente le libertà individuali inducendo negli utenti della rete autocensura e conformismo. Se ne sono accorti anche gli statunitensi che hanno addirittura rinunciato al progetto Carnivore - un software capace di individuare in tempo reale comunicazioni sospette via web o email attrverso la selezione di parole chiave – perché rivelatosi lesivo della privacy e inefficiente alla prova dei fatti. Ma a ogni censura corrisponde una denuncia. Come quelle di Project Censored (http://www.projectcensored.org), che nell’ultima edizione annovera nella top 25 delle notizie più censurate al mondo lo scandalo della ricostruzione in Afghanistan e il comportamento delle truppe mercenarie della Blackwater in Iraq.

lettere a un chirurgo confuso chirurgo@peacereporter.net Caro Gino, mi sembra che da un po’ di tempo più notizie arrivano dall’Afghanistan e meno si capisce cosa succede. Forse perché di giornalisti ce ne sono sempre meno, e quelli che vi si trovano sono embedded, come si dice, cioè imbeccati dagli ufficiali statunitensi. Oppure perché non si cerca neppure più la verità e si pensa ad altro, come avviene quando non si sa più come uscire da errori clamorosi di cui ci si vergogna. Non sarebbe ora di cominciare a fare un bilancio, prima che la residua credibilità dell’Onu affondi insieme alla Nato? Al momento infatti si fatica a capire persino chi combatte davvero, a fianco degli statunitensi, e per quale obiettivo. E quando muoiono i cosiddetti nemici, non si sa se si tratta di talebani o di civili a cui è stato messo un fucile in mano. La produzione di oppio che si voleva annientare, è molto aumentata, con forti sospetti che a trasformarlo in cocaina ci siano anche personaggi legati alle istituzioni locali. I rapimenti continuano, con la differenza che si fa sempre più fatica a capire chi sono i sequestratori e a chi consegnano gli ostaggi. Intanto la popolazione, che prima era contenta di essersi liberata dei talebani, ora si sta rassegnando al loro ritorno e fra poco comincerà persino a desiderarlo. Possibile che non ci fosse altra strada per combattere l’oscurantismo talebano, con tutto quello che ne consegue? A questo punto la domanda dovrebbero porsela anche coloro che erano convinti di combattere una guerra giusta, perché l’unica cosa chiara è che con le armi non si va da nessuna parte. Paolo - Napoli Caro Paolo, hai ragione, è tempo di bilanci. Il 7 ottobre 2007 la guerra in Afghanistan – questa guerra afgana, l’ultima di una lunga serie di conflitti che hanno insanguinato il paese – compie sei anni: più lunga della seconda guerra mondiale, e ancora non se ne vede la fine. Attentati e combattimenti sono all’ordine del giorno, come lo sono i raid della Nato contro le “postazioni talebane” che, nella maggior parte dei casi, fanno strage di civili. Stragi di cui non parla nessuno: con rarissime eccezioni – tra cui PeaceReporter che, unico caso in Italia, riesce a raccogliere informazioni di prima mano anche dalla provincia di Helmand, diventata da più di un anno l’epicentro della guerra – è impossibile trovare notizie che vadano al di là dei comunicati stampa dei combattenti. E questo è un elemento che rende particolare il caso afgano: sei anni di guerra, e nessun giornalista a raccontarla. D’altronde, quasi due anni fa il governo di Hamid Karzai aveva diffuso ai giornalisti locali e ai pochi stranieri presenti nel paese un vademecum in cui si stabilivano alcune regole: vietato

intervistare i talebani o recarsi nelle zone non controllate da Kabul, vietato parlar male delle forze militari occidentali in Afghanistan, vietato criticare il governo. Alcune associazioni internazionali a tutela della libertà di stampa erano insorte: questa è censura, si era detto. Ed era vero. Il governo di Karzai aveva allora ritirato il vademecum, solo per distribuirne pochi giorni dopo un altro – identico – che però in calce riportava la dicitura “è vietato riprodurre questo documento”. E così, in sei anni, decine di migliaia di afgani sono morti in nome della “guerra al terrorismo”, nel silenzio dell’informazione mondiale. Ma che cosa si poteva fare allora, chiedi, per fermare i pericolosi, integralisti, oscurantisti talebani? E’ una domanda piuttosto ricorrente, e spesso implica che sì, le vittime civili sono una sciagura, ma sono il prezzo da pagare per evitare un male peggiore. Che cosa si poteva fare contro i talebani? Innanzitutto, credo, si poteva fare a meno di crearli. Già, perchè – e questo sta ormai sui libri di storia – i talebani sono stati “inventati” proprio da quelli che ora li combattono, Stati Uniti e Pakistan per primi. Quando il nemico era l’Unione Sovietica, gli studenti con il turbante, il Corano e il kalashnikov sono stati addestrati, armati e pagati da quelli che oggi sono i paladini della guerra al terrorismo. C’è chi dice che poi il gioco gli è sfuggito di mano. C’è chi sostiene invece che un nemico faccia sempre comodo, perchè permette molte cose che in tempo di pace non ci si può permettere, come reprimere il dissenso interno, limitare le libertà civili, far girare miliardi e miliardi di dollari in armi, spese militari, spese per la ricostruzione di quello che si è appena distrutto. Può essere. Io penso che la storia dei talebani dimostri ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che la violenza produce violenza. “Se vuoi la pace, prepara la guerra” è una grossa bugia: se vuoi la pace, costruisci la pace. Case, ospedali, scuole, fabbriche costano infinitamente meno delle bombe. E se l’obiettivo è sconfiggere la guerra e il terrorismo, credo che migliorare le condizioni di vita della popolazione del mondo sia l’unico modo per prosciugare quello stagno di odio e disperazione di cui il terrorismo si alimenta. Gino Strada

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Per saperne di più Somalia LIBRI GIAMPAOLO CALCHI NOVATI, Etiopia, Somalia e Eritrea fra nazionalismi, sottosviluppo e guerra SEI, 1994 Sede di antiche civiltà e dello Stato africano che vanta una sovranità pressoché ininterrotta, il Corno d'Africa, la regione più orientale del continente nero, è entrato spesso nella cronaca degli ultimi anni per le sue crisi: guerre interne e interstatuali, per un intreccio mai completamente risolto di nazionalismi concorrenti e antitetici, carestie ricorrenti, regimi abusivi e tirannici. Questo libro cerca nella storia, passata e recente, le ragioni di tanta instabilità. GERMANA LEONI VON DOHNANYI E FRANCO OLIVA, Somalia. Crocevia di traffici internazionali Editori Riuniti, 2002 Le esercitazioni della politica estera italiana nell'ex colonia. Le complicità con il regime di Siad Barre. L'aiuto allo sviluppo come occasione di finanziamento del sistema dei partiti. Le discutibili regole d'ingaggio della cooperazione militare. Il ruolo delle istituzioni dietro ai traffici di armi e di rifiuti tossico-nocivi e radioattivi. Gli esiti fallimentari della missione Unosom e della politica di emergenza. La storia di un paese che negli ultimi venti anni è diventato il crocevia internazionale dei traffici di armi destinate alle aree calde dei conflitti mondiali. ABDI NURA, Lacrime sulla sabbia, Il Punto d'Incontro, 2006 Abdi è una ragazza che sopravvive alla guerra civile a Mogadiscio e ai raid nei campi per rifugiati ai confini etiopi. Si porta dentro l'orrore dell'infibulazione come una “sorte normale”, il destino di ogni “brava ragazza” somala. Cerca di raggiungere gli Stati Uniti, viaggia con un passaporto falso e viene bloccata a Francoforte. Intrappolata in una terra che non è la sua, Nura deve contare solo su se stessa e, per la prima volta, realizza di essere diversa da ogni altra donna intorno a lei. Grazie alla propria determinazione contro quella che chiama “la macellazione delle bambine”, Nura Abdi rivela il suo racconto straordinario e avvincente, facendoci scoprire la realtà di un'Africa ricca di fascino e spietata. NURUDDIN FARAH, Rifugiati. Voci della diaspora somala, Meltemi, 2003 L'autore ha intervistato rappresentanti delle comunità somale in Africa e in Europa. Nelle interviste di Farah i somali ci raccontano come hanno risposto al cambiamento e che cosa significhi ricominciare ogni volta in altre parti del mondo, confrontandosi con altre culture, stili di vita, leggi e lingue diverse. Epopea delle recenti migrazioni di massa, dei violenti esodi di intere popolazioni costrette a vivere vite frammentate a causa dei cambiamenti sconvolgenti della nostra epoca, questo libro racconta gli effetti e le vicende umane seguite all'avventura coloniale italiana.

http://www.shabelle.net/ Sito della più importante radio indipendente somala, fornisce notizie di cronaca e approfondimenti in inglese e somalo. Più volte presa di mira da parte delle autorità, che ne hanno chiuso gli studi almeno tre volte dall'inizio dell'anno, Radio Shabelle è una delle più autorevoli fonti di informazione del Paese. http://www.garoweonline.com E' il principale giornale online sulla Somalia. Rigoroso e indipendente, fornisce sia breaking news che notizie di approfondimento e editoriali delle principali firme del giornalismo somalo.

FILM RIDLEY SCOTT, Black Hawk Down, Usa, 2002 Tratto dal romanzo omonimo di Mark Bowden, il film racconta dei tragici eventi del 3 ottobre 1993, quando un gruppo di soldati statunitensi della Delta Force fu inviato nella capitale somala Mogadiscio a supporto delle truppe di pace dell’Onu. La missione prevedeva la cattura di alcuni esponenti e uomini fidati del generale Moussa Farah Aidid, capo della guerriglia somala, ma il piano inaspettatamente fallì, trasformandosi nel più grande scontro a fuoco sostenuto dalle forze armate statunitensi dai tempi della guerra del Vietnam. Il film non lascia nulla all'immaginazione, non risparmiando il sangue, le pallottole, i corpi feriti e straziati, la paura e la violenza. Una rappresentazione realistica e priva di qualunque filtro nei confronti dell’orrore della guerra.

Iraq LIBRI SERGE MICHEL E PAOLO WOODS. Caos Americano, Edizioni Contrasto, 2005. Una straordinaria testimonianza giornalistica e fotografica dei viaggi in Iraq e Afghanistan di Serge Michel e Paolo Woods. RIVERBEND. Baghdad brucia. Il blog di una giovane irachena, Baldini Castoldi, 2006. Riverbend, “ansa del fiume”, è lo pseudonimo di una giovane irachena di 24 anni che, all'inizio della guerra in Iraq, nel 2003, ha cominciato a scrivere un blog in inglese. Il volume raccoglie le testimonianze quotidiane della ragazza della media borghesia irachena, che osserva il suo paese travolto dagli eventi bellici. ALESSANDRA PERSICHETTI. La caduta di Baghdad. Venti giorni di jihad in Iraq nel racconto di un ragazzo arabo. Mondadori, 2006. Il 20 marzo 2003, quando gli Stati Uniti lanciano l'operazione Iraqi Freedom, un ragazzo siriano parte per andare a combattere la jihad in Iraq. Shadi, questo il nome del giovane, parte all'insaputa della famiglia, ma per sua fortuna riuscirà a tornare e a raccontare le sue esperienze tra la moltitudine di gruppi che compongono la guerriglia irachena. Uno sguardo lucido e spregiudicato sul fenomeno dei jihadisti e degli attentati suicidi.

SITI INTERNET SITI INTERNET http://www.hornafrik.com/ Hornafrik è un network somalo creato dal reporter Ali Iman Shermarke nel 1999, che comprende due radio, una rete tv e un sito web. Ritenuto vicino al governo, HornAfrik è comunque un'ottima fonte di notizie sulla Somalia, molte delle quali non vengono riprese dai grandi media internazionali. Ritenuto uno dei più bravi giornalisti somali, Shermarke ha perso la vita in un attentato dinamitardo lo scorso agosto. 30

http://www.unhcr.org/iraq.html Il sito dell'ufficio delle Nazioni Unite che si occupa dei profughi iracheni. Contiene notizie aggiornate sulla situazione degli sfollati nei diversi paesi d'accoglienza, immagini, filmati, statistiche e altro materiale utile. http://www.iraqbodycount.org Contiene informazioni aggiornate sulle vittime civili della guerra in Iraq. Un conteggio redatto analizzando i resoconti degli incidenti, degli attentati e delle battaglie che avvengono nel paese, tratti dai media di tutto il mondo. Il conteggio dei civili è una statisti-

ca di cui l'esercito statunitense non si occupa. http://www.osservatorioiraq.it Sito che monitora e traduce i migliori articoli sul Medio Oriente e in particolare sulla guerra in Iraq, tratti dalla stampa italiana e internazionale, dai quotidiani e dai siti internet. Pubblica approfondimenti, traduzioni, notizie flash e anche una rassegna stampa quotidiana.

FILM JAMES LONGLEY, Iraq in Fragments, Typecast Releasing, 2006. Il documentario racconta le vite dei civili iracheni. I loro pensieri, desideri, credenze e preoccupazioni sono lo specchio dell’Iraq di oggi: un paese spinto in direzioni divergenti da differenze etniche e religiose. Una nazione che potrebbe cessare di esistere come un intero. “Un giorno - scrive il regista – gli Stati Uniti lasceranno l’Iraq, ma gli iracheni rimarranno. Il mio film è su di loro”. Iraq in fragments è diviso in tre parti, come il paese nella percezione comune: sciiti, sunniti e curdi. La prima parte racconta la storia di Mohammed, un ragazzo orfano che vive a Baghdad e fa l’aiuto meccanico. La seconda è stata girata all’interno del movimento del leader sciita Moqtada al Sadr, tra Nassiriyah e Najaf, la terza a sud di Erbil, in una fabbrica di mattoni curda. DANNY SCHECHTER. WMD: Weapons of Mass Deception, Globalvision, 2004. Ci sono due guerre in corso in Iraq. Una combattuta con i soldati, l'altra con i giornalisti che applicano le più moderne tecniche della propaganda. La prima è stata realizzata con il pretesto di cercare le armi di distruzione di massa che Saddam non possedeva. La seconda viene combattuta con le ancora più potenti WMD, Armi per terrorizzare le masse. Il film, realizzato da uno dei più noti analisti dei media statunitensi prende in esame il modo in cui la guerra in Iraq è stata spettacolarizzata per mostrare al pubblico un punto di vista consono a quello del Pentagono. DEBORAH SCRANTON, ROBERT MAY, STEVE JAMES. War tapes, SenArt Films, 2006. The war tapes è realizzato utilizzando le oltre 800 ore di materiale video girato da tre militari dell'operazione Iraqi Freedom: Steve Pink, Zack Bazzi e Mike Moriarty, e vuole fornire uno spaccato senza filtri della vita quotidiana al fronte. Tre vite diverse: Steve è un aspirante scrittore, Zack, uno studente all'università statunitense in Libano, parla bene arabo e sogna una vita da viaggiatore, mentre Mike è un padre di famiglia tornato nell'esercito sull'onda emotiva del patriottismo infiammato dall'attentato dell'11 settembre. La sola cosa in comune tra i tre cameramen-protagonisti è la nostalgia di una donna (la fidanzata, la mamma, la moglie). TOSHIKUNI DOI, Falluja 2004, Giappone, 2005 Falluja è diventata simbolo della resistenza contro l’occupazione statunitense dell'Iraq, quando venne invasa nell’aprile 2004 dalle forze Usa. Il regista indipendente giapponese ha tentato di raccontare una delle fasi più atroci della guerra in Iraq, tentando di restituire umanità alle vittime disumanizzate nel racconto dei media. Nell'assedio di Falluja, rimasto nella memoria collettiva per l'impiego di armi al fosforo, sono morte almeno 700 persone.


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