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mensile - anno 2 numero 3 - marzo 2008

Russia

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

I pupilli dello zar

Italia

Il distretto dei compari Sei precario? Addio al futuro di Michela Murgia Ecuador La vittoria del piccolo popolo Kosovo Sotto gli occhi dei caschi blu Birmania Legno di regime Mondo Cuba, Iran, Zimbabwe, Libano, Kosovo, cluster bombs Gino Strada

L’aborto e il valore della vita

Il sesto fascicolo dell’atlante: Colombia

3 euro



Mai pensare che la guerra non sia un crimine, indipendentemente dal quanto la si possa ritenere necessaria o dal come la si giustifichi. Ernest Hemingway

marzo 2008 mensile - anno 2, numero 3

Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Christian Elia Matteo Fagotto Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Stella Spinelli Vauro Senesi Naoki Tomasini Alessandro Ursic

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Blue & Joy Valeria Confalonieri Gabriele Del Grande Silvia Del Pozzo Nicola Falcinella Giorgio Gabbi Paolo Lezziero Sergio Lotti Michela Murgia Claudio Sabelli Fioretti Gino Strada Gianluca Ursini

Progetto grafico Guido Scarabottolo Segreteria di redazione Silvina Grippaldi Relazioni esterne Marco Formigoni

Hanno collaborato per le foto Massimo Di Nonno/Prospekt Stefano Mariotti Samuele Pellecchia/Prospekt Alexey Pivovarov/Prospekt Andrea Pagliarulo/Prospekt

Redazione e amministrazione Via Meravigli 12 20123 Milano Tel: (+39) 02 801534 Amministrazione Fax: (+39) 02 80581999 Annalisa Braga peacereporter@peacereporter.net Stampa Graphicscalve Loc. Ponte Formello - 24020 Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 26 febbraio 2008

Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Meravigli 12 - 20123 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07

Pubblicità Via Meravigli 12 20123 Milano Tel (+39) 02 801534 Fax (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net

Foto di copertina: Russia, Mosca: centro. Alexey Pivovarov/Prospekt

erché la tragedia del World Trade Center dell’11 settembre 2001 dev’essere diventata un pezzo della storia e della cultura mondiale e invece quella dei mille 11 settembre che ogni giorno nel mondo accadono deve restare nel dimenticatoio? Perché della tragedia del Wto ci hanno raccontato le emozioni, le storie, le vite, le facce dei protagonisti. Hanno reso concrete, vicine, amiche, le vittime. E così una notizia (quasi tremila morti a New York) è diventata conoscenza, cultura. Di tutti gli altri 11 settembre, quando va bene, ci arrivano cifre, numeri, nomi di località lontane e sconosciute. E quindi restano “altro da noi.” Per questo, ci siamo detti, dobbiamo provare, e possibilmente riuscire, a presentare storie, nomi, volti, sofferenze, parole, delle tante tragedie legate alle nostre guerre o alla nostra fame di materie prime. Dobbiamo far parlare tra loro le pance e i cuori di chi sta qui con quelli di chi sta lì. Solo così, ci siamo detti, possiamo sconfiggere la cultura della guerra, che oggi sovrasta tutto e tutti. Costruendo un’altra cultura. Una cultura di pace. PeaceReporter ha quattro anni. Da settembre, abbiamo raddoppiato gli sforzi e abbiamo deciso di passare, in controtendenza, dall’internet alla carta, con questo mensile. Follia? Certamente, anche. Come follia era stato quattro anni fa pensare di avere successo con un quotidiano on line che si occupasse solo di esteri in un paese dove agli esteri è dato pochissimo spazio, e quello spazio è occupato dalle beghe politiche statunitensi o europee. Eppure, il quotidiano on line è andato sempre meglio, e tutt’ora cresce a ritmi che vengono giudicati abbastanza impressionanti. PeaceReporter, sito e mensile, sono editi da una cooperativa di lavoro. Una cooperativa che ha scelto di non avere padrini o madrine nel Palazzo, per poter dire tutto quello che c’è da dire senza fare sconti a nessuno. E probabilmente questa scelta la stiamo pagando, in termini di possibili aiuti dalle istituzioni locali, dalla prossima legge sull’editoria, che è facile prevedere sarà fatta su misura per tutti quei giornali, giornalini o giornaletti o radio che invece di padrini politici (ma la p è necessariamente minuscola) qualcuno se lo sono trovato. Siamo in un paese strano, nel quale in ogni dove si inneggia al liberismo, alla concorrenza, al mercato. E poi alla libertà, soprattutto a quella di stampa. Eppure su un tema come quello dell’editoria c’è ancora tutto da fare, dal punto di vista legislativo. Ma nessuno ne parla, perché le cifre con cui la “casta politica” si è comprata quella giornalistica sono davvero da capogiro, circa centocinquanta milioni di euro all’anno. Noi abbiamo scelto di camminare con le nostre gambe, di non chiedere nulla a chi si è riempito per anni la bocca con la parola pace e poi – ad esempio - ha votato il finanziamento di un contingente militare che è (lo scrive proprio in questi giorni Analisi difesa, non un foglio sovversivo) in Afghanistan a fare la guerra. In mezzo a mille difficoltà, siamo riusciti ad arrivare al quarto compleanno e a raddoppiare. Ma per continuare ad esistere, e non è una frase retorica, abbiamo bisogno di tutto il vostro aiuto possibile.

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Kosovo a pagina 18 Ecuador a pagina 14

Russia a pagina 4

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Birmania a pagina 20

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Migranti a pagina 24

Italia a pagina 10 e 22 3


Il reportage Russia

I pupilli dello zar Dal nostro inviato Luca Galassi Viaggio tra i Nashi, la gioventù putiniana. Disciplina, sfoggio di atletismo, patriottismo, esaltazione della famiglia e della procreazione sono i pilastri della loro fede. natoly l’hanno beccato a dicembre alla frontiera con l’Estonia. Voleva fare il soldato vivente. Una vera faccia di bronzo. Si sarebbe introdotto in pullman fino a Pskov, poi cinquanta chilometri in treno fino al confine, trecento fino alla capitale Tallinn, venticinque minuti a piedi dalla stazione al parco Tönismägi e, se fosse stato possibile, in quel momento, oltre alla faccia, avrebbe desiderato avere anche il corpo, di bronzo. L’idea era salire sul piedistallo del soldato sovietico rimosso dalle autorità estoni nell’aprile scorso e sostituirlo. Risultato della (tentata) bravata: trentacinque giorni di prigione, l’espulsione dal Paese e l’interdizione a viaggiare nel territorio dei Paesi aderenti all’accordo di Schengen per un tempo indefinito. Anche Mariana, ventun anni, dovrà dimenticarsi l’Europa, meta ormai da tempo di centinaia di giovani russi che, incuranti dell’anti-occidentalismo del loro ex presidente, trascorrono sulle nevi di Neuchatel o sulle spiagge delle Cicladi le loro vacanze. Le autorità di frontiera finlandesi l’hanno rimandata indietro mentre cercava di raggiungere il Paese baltico. Come Anatoly, Mariana è finita sulla lista nera, persona non grata perché lo scorso anno aveva fatto ‘un po’ troppo casino’. Ma ad essere ingrata, per Mariana e Anatoly, è invece l’Estonia. In un Paese il cui sguardo è sempre più fiduciosamente rivolto al Vecchio Continente, un terzo della popolazione è russa. E la rimozione del soldato, nell’aprile 2007, è stata subìta da loro e dalla loro madrepatria come un’onta, un inaudito affronto alla memoria di chi ha salvato la Madre Russia, e l’Europa tutta, dall’invasione nazista. A Tallinn, per giorni, in centinaia si abbandonarono a furiose proteste nel parco Tönismägi. I disordini culminarono nella morte di un manifestante e in centinaia di feriti. A quasi un anno di distanza, la ferita del soldato rimosso sanguina ancora in Russia. Eppure, anche a Mosca, pochi anni fa, la statua di un militare dell’Armata Rossa venne spostata in un museo. In quell’occasione, però, nessuno protestò. E a chi si domanda il perché, Mariana e Anatoly suggeriscono che ‘oggi il momento storico è diverso. Oggi la Russia è animata da un nuovo, energico fervore patriottico. Uno slancio alimentato soprattutto dall’agonismo del nostro presidente Vladimir Vladimirovic Putin’. È un fatto, dicono i giovani attivisti, che nel corso dei suoi due mandati Putin abbia ridotto l’inflazione, creato nuova ricchezza, incrementato il salario medio di due volte e mezzo, gli investimenti esteri di sette volte, oltre alla promessa di far diventare il Paese una ‘nuova potenza globale’. Come è un fatto, dico io, che a livello diplomatico nessuna azione sia stata intrapresa per agevolare un clima distensivo con i Paesi europei. Gli uffici del British Council sono stati chiusi per ritorsione contro la richiesta britannica di estradare Lugovoi, ex spia del

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Kgb e ora parlamentare della Duma. Gli osservatori europei dell’Osce non hanno monitorato le elezioni politiche del 2 dicembre (e solo una sparuta pattuglia ha partecipato a quelle presidenziali del 2 marzo) perché tanto non c’era niente da monitorare, tanto vaste sarebbero state le frodi elettorali. Infine, cercando di incalzare i due ragazzi, azzardo che la risposta migliore di Putin allo scudo missilistico statunitense nel cuore dell’Europa è preconizzare il rischio di una nuova proliferazione nucleare, ed eventualmente puntare i propri missili sull’Ucraina. È vero, dicono i due cercando di scansare ogni critica. È vero, e il loro volto acerbo si riempie di soddisfazione: perché Putin è stato forte; Putin è stato intelligente; Putin ha saputo confrontarsi alla pari con le grandi potenze. natoly e Mariana sono due Nashi, il movimento dei giovani sostenitori di Putin fondato cinque anni fa. Ora che sul trono presidenziale è salito Medvedev, mi chiedo che ne sarà di Anatoly e Mariana, e delle migliaia di altri giovani che nello zar di tutte le Russie (o almeno di quelle rimaste) avevano visto l’uomo nuovo, e nei Nashi la strada che preludeva a un sogno. O forse, più cinicamente, a un lavoro, a una carriera, alla definitiva emersione da un’insopportabile condizione di anonimato. Per giunta, a gennaio l’ex presidente si è anche portato dietro il loro leader storico, Vassily Yakemnenko, un trentaduenne dai lineamenti regolari, l’altezza inferiore alla media e il corpo compatto di un lottatore. Da quando è stato eletto capo della Commissione statale per i giovani, prebenda ottenuta grazie al lavoro svolto nei tre anni di fedele acquiescenza allo zar, anche il movimento dei Nashi è cambiato. Esaurita la sua funzione di sostegno, negli anni in cui servivano volti e cuori giovani per dar corpo al progetto putiniano di modernizzazione del Paese, l’organizzazione sta oggi cercando nuove strade per rendersi visibile. Non senza fatica. Ma neppure senza nascondere l’abituale predilezione per l’azione eclatante, il colpo di teatro, eventualmente anche lo scontro fisico. Dall’ex presidente hanno mutuato la retorica, diventando un potente mantice per soffiare con forza sul fuoco della propaganda anti-occidentale. Per questo l’Estonia è un bersaglio doppiamente utile allo scopo. Per la storia del soldato. E perché membro dell’Unione Europea. La sede del movimento è un’ex scuola elementare poco distante dallo stadio della Dinamo Mosca. Evgeny, il mio Cicerone, il tecnico informatico dell’organizzazione, è uno dei pochi che parla inglese. Mi spiega il funzio-

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In alto: Mosca, Russia. Alexey Pivovarov/Prospekt. In basso: Manifestazione. Mosca, Russia 2008. Luca Galassi ©PeaceReporter.


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namento di ogni ufficio: la sala stampa, la sala riunioni, la sala ‘analisi’, l’amministrazione. Dappertutto un brulicare di adolescenti. L’età media degli aderenti al movimento è di ventitrè anni. Il nuovo leader di Nashi (che in russo significa ‘i nostri’) si chiama Dimitri Borovikov. Ha ventisei anni, ed evidentemente ancora molta strada da fare prima di poter eguagliare, per popolarità, acume intellettuale e abilità diplomatica, il suo predecessore Yakemenko. Risponde con sorriso sarcastico alle domande. Sa nascondere con volto mite e voce pacata la sua natura di militante inflessibile. Indottrinato come i suoi coetanei a un credo che non lascia alternative. Disciplina, sfoggio di atletismo, patriottismo, esaltazione della famiglia e della procreazione sono i pilastri della fede nashista. Perché si capisse chiaramente che i Nashi sono per la procreazione, all’inizio dell’anno disseminarono la Piazza Rossa di piccole croci, a simboleggiare con forza la loro contrarietà all’aborto. Su ciascuna di esse vi era il nome e il cognome di qualcuno mai venuto al mondo: ‘Nato nel 2006, morto nel 2006’, recitavano le parole scritte sulle croci . ‘Nel nostro Paese gli aborti hanno superato le nascite’, mi sussurra all’orecchio Evgeny, come a suggerire che quello è l’argomento migliore con cui iniziare l’intervista a Borovikov. Ma la mia curiosità è un’altra. Sosterrete Medvedev, ora che Putin non è più Presidente? ‘Veniamo accusati di coltivare un culto per la figura presidenziale – risponde il giovane leader – solo perché crediamo fermamente nella sua politica. Ma per noi è poco importante che a capo dello Stato ci sia Putin, o Medvedev, o Ivanov. Noi abbiamo fede nel nostro Presidente. E crediamo che anche Medvedev seguirà la linea politica di Putin. Per questo lo sosterremo’. Non rischiate un pericoloso isolamento con la vostra campagna di odio contro l’Estonia? ‘Non ci interessa che ci venga vietato l’ingresso nell’Unione Europea. Noi non siamo disposti a dimenticare la memoria dei nostri avi, né della nostra storia. È da qui che bisogna partire, dall’unità della madrepatria, per far diventare la Russia un leader globale del ventunesimo secolo. E poi, non siamo noi a isolarci, è l’Estonia con la sua politica anti-democratica’. La propaganda putiniana deve aver lavorato a dovere nei malleabili intelletti di questi giovani, se è vero che anche ciò che segue la terza domanda è una frase fatta e confezionata, che sembra afferrata di peso da un discorso presidenziale e riproposta in versione junior. Qual è il vostro manifesto politico? Avete una programma, una piattaforma di ideali, di valori? ‘Crediamo nella modernizzazione della Russia, crediamo in un Paese forte, sovrano. Crediamo in una società democratica. Molti ritengono che Nashi sia un’organizzazione politica, e si attende da noi un manifesto politico, ma noi siamo solo un’organizzazione giovanile’. Una società democratica non soffoca le opposizioni, non arresta i loro leader, come accaduto a Kasparov lo scorso anno, o a Kasyanov, a cui è stato impedito di partecipare alla corsa presidenziale con l’accusa che parte delle firme da lui raccolte erano false. Che ne pensa poi delle restrizioni imposte agli osservatori internazionali? ‘Negli Stati Uniti gli osservatori internazionali hanno forse accesso? Sono mai stati invitati? E l’Europa ha mai protestato per questo? L’Unione Europea sta giocando il suo Risiko con la Russia, per questo ci accusa di essere anti-democratici, ma è solo per interesse geopolitico che lo fa. Le elezioni in Russia seguono le leggi dello Stato: Kasyanov voleva presentarsi alle presidenziali con un’organizzazione che non era un partito politico. Per questo è stato escluso. Noi non siamo un Paese anti-democratico. Lo sono alcuni Paesi europei, come per esempio l’Estonia, che viola i diritti umani e i diritti a libere manifestazioni’. E Kasparov? ‘Kasparov è semplicemente un provocatore. È stato arrestato perché è uscito dal percorso concordato con le autorità per la manifestazione. Ripeto: noi non siamo un Paese anti-democratico’. on ho altre domande da rivolgere a Borovikov. Ammaestrato a puntino alla cautela, ad essere elusivo, all’obbedienza incondizionata, a nulla gioverà ricordargli gli episodi in cui il movimento da lui presieduto è stato coinvolto in passato. Nel 2006 i Nashi condussero una violenta campagna contro l’ambasciatore britannico, Tony Brenton, perché aveva parlato a un meeting del partito di opposizione di Garry Kasparov, Altra Russia. Nello stesso anno i Nashi bruciarono davanti al teatro Bolshoi i libri dello scrittore dissidente Vladimir Sorokin, bollandolo come

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pornografia. Nell’aprile 2007 i Nashi diedero il via alle proteste contro l’ambasciata di Estonia, mentre a maggio circondarono e bloccarono le auto degli ambasciatori estone e svedese. Il 2 dicembre, il giorno delle elezioni per il rinnovo della Duma, occuparono i luoghi chiave della capitale per scongiurare il rischio di una rivoluzione arancione. Un rischio inesistente, data l’inconsistenza dei partiti di opposizione e l’assenza, in Russia, di una compiuta società civile. Il movimento dei Nashi annovera tra i dieci e i ventimila adepti. Fu fondato da Yakemenko per contrastare ciò che egli stesso definì ‘il crescente potere dei movimenti fascisti in Russia’. Tra questi movimenti, in un’interpretazione tutta personale del termine ‘fascista’, il leader dei Nashi aveva incluso, in un’intervista rilasciata alla Komsomolskaya Pravda, anche il partito della sinistra liberale ‘Yabloko’. Finanziata ufficialmente da alcune grandi aziende filogovernative, tra cui la Gazprom, secondo molti l’organizzazione dei Nashi riceve direttamente fondi dal Cremlino. Il capo dello staff presidenziale, Vladislav Surkov, uno dei grandi sostenitori dei giovani putiniani, disse in occasione di una visita al campo estivo che si tiene annualmente sul lago Seliger (qualche centinaio di chilometri a nord di Mosca): ‘Siate preparati a disperdere le manifestazioni fasciste. Siate pronti a impedire con la forza che la Costituzione venga rovesciata’ entre mi congedo da Borovikov, Evgeny mi dà appuntamento alla grande manifestazione che si terrà di lì a qualche giorno di fronte all’ufficio della Commissione Europea, in piazza Bolotnaya, tra la Moscova e il canale Vodootvodny. Non mancherò, dico garbatamente, dissimulando a fatica un’espressione distaccata. Piazza Bolotnaya è transennata, e il luogo della manifestazione, individuabile a grande distanza dallo sventolio di centinaia di bandiere rosse e bianche, è presidiato dalla polizia. Un agente mi conduce di fronte al palco attraverso un varco a raggi X, per verificare se non abbia addosso dell’esplosivo. A gruppi ordinati, inquadrati da ‘accompagnatori’ con megafono, decine di ragazzi provenienti da tutta la Russia ascoltano il discorso di Borovikov brandendo cartelloni e agitando bandiere con la croce di Sant’Andrea (simbolo militare russo) a colori invertiti. Molti di loro vestono l’uniforme del soldato sovietico della Seconda guerra mondiale. Gli striscioni recitano slogan retorici (‘Oggi siamo mille, domani saremo un milione’), o battute contro il divieto di viaggiare nei Paesi Schengen (‘L’onore della patria vale più di una vacanza all’estero’). Qualcuno ha il volto dipinto con i colori della bandiera russa, altri indossano giacche a vento rosse o gialle con la scritta ‘Nashi’. Mentre sul palco a Borovikov succede Mariana, la militante fermata al confine con la Finlandia, mi aggiro tra i ragazzi, cercando di raccogliere qualche impressione con l’aiuto di Evgeny, che traduce le mie domande. Chi racconta di essere partito la notte scorsa da Omsk, nella Russia centrale; chi spiega di essere qui per partecipare a una grande festa; chi afferma di preferire Putin a Medvedev. Tutti si agitano, sorridono, gridano. La festa dura solo un’ora. Dopo il discorso e i saluti, gli altoparlanti diffondono la canzone dei Nashi, una melodia facile e orecchiabile come l’inno di una squadra di calcio. Come una scolaresca in gita, ciascun gruppo si mette in riga disciplinatamente, seguendo le indicazioni del capofila col megafono. Si mettono in posa per le foto di rito e, senza fretta, incuranti del vento gelido, tornano al pullman, marciando a passi regolari. Evgeny mi si avvicina, chiedendomi se mi sono divertito. Evito gentilmente di rispondere, e gli chiedo se ha costruito lui il sito del movimento, www.nashi.su. Mi dice di sì, annuendo fieramente. Gli chiedo se nella scelta del dominio non si sia abbandonato a qualche tentazione nostalgica, scegliendo .su (Soviet Union) anziché .ru (Russia). ‘No – risponde – quello è semplicemente un errore tecnico’. Ma lo fa sogghignando, lasciando intendere di sapere che quasi certamente il suo interlocutore non gli crederà.

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In alto: Metropolitana. Mosca, Russia 2008. In basso: Palestra di lotta greco-romana. Nizjniy Tagil, Urali, Russia 2008. Alexey Pivovarov/Prospekt.


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Udito In Russia l’orecchio è attratto principalmente dal suono della lingua. Un idioma tra i più ostici per un occidentale, poiché annovera accostamenti di consonanti assai improbabili, fonemi inesistenti nella lingua italiana. Per chi ha imparato almeno l’alfabeto cirillico, azzardarsi a pronunciare le parole è quasi una sfida, uno scioglilingua, se non addirittura un supplizio. Mentre è uno spasso per i nativi che ascoltano. Ma se non si articola un vocabolo con esattezza, nessuno si sforzerà di capirci. Provate a cimentarvi con le seguenti parole, traslitterate ed elencate in ordine crescente di difficoltà: branirovannyi (blindato), kremobrazny (cremoso), neprivietlivyi (freddamente), zlaupatribliat (abusare), gygroscopichieskyi (idrofilo).

Vista Esistono due capitali russe: quella in superficie e quella del sottosuolo. La prima stupirà il passante con i suoi edifici. Ministeri, chiese, statue, condomini sono costruiti per impressionare e sconcertare. Tutto è monumentale, scenografico. Spesso fastoso. Il Cremlino, per esempio, ha mura turrite lunghe 2,5 chilometri. In una giornata di sole, l’occhio sarà abbagliato soprattutto dallo sfavillare delle cupole dorate di chiese e conventi ortodossi: Novodevichy, la Chiesa del Salvatore, la Cattedrale dell’Arcangelo Michele. Infine, San Basilio, con le sue cupole colorate che sembrano di pan di zucchero. Nella Mosca sotterranea, la vista è incantata dalle volte delle stazioni. Le meravigliose decorazioni a mosaico dei soffitti a Tverstkaya, Komsomolskaya, Kievskaya, Maijakovskaya raffigurano la decaduta gloria dell’impero sovietico: avieri, soldati, contadini, poeti, monumenti, navi, aerei da guerra sono il corredo iconografico che il regime ha riproposto ossessivamente all’occhio dell’astante. In chi è nato prima degli

anni Novanta, a malapena si può indovinare un accento di nostalgia, sospirato appena, nell’alzare il capo sulle volte effigiate, prima di uscire.

Gusto L’onnipresente bliny, a metà strada tra la crêpe francese e il pancake statunitense, ma enormemente più saporita, è la colazione per eccellenza, con panna e marmellata di mirtilli. Apprezzata anche nella versione salata, con carne di manzo, agnello o caviale rosso. Poi le zuppe, solyanka o borsch, la prima con manzo a pezzetti, olive nere, alloro e verdure varie, la seconda solo con rape, cipolle, aglio e aceto di vino. Entrambe derivano la loro composizione dalla tradizione rurale, piatto principale nei duri inverni dei contadini. Per pranzo, ovunque sono diffusi i pelmeny, enormi ravioli ripieni di carne di manzo o di maiale. Si servono con panna acida, aceto, burro. Il griechke è invece uno dei alimenti principali della dieta russa. Si tratta di un legume simile all’orzo. Popolare come dessert è il miedovik, una torta tradizionale a base di uova, farina, lievito e molto miele. Al tempo dell’Unione Sovietica in ogni cucina russa non poteva mancare la smietannik, dolce con panna montata, o la jablochnyj perog, simile a uno strudel, con la mela come ingrediente principale.

Olfatto Le esalazioni delle marmitte di scarico sono, purtroppo, il principale odore di Mosca. O almeno quello più diffuso. Si spandono omogenee, coprendo tutti gli altri odori. Talvolta solo i venditori di shaurma (girarrosto di carne di pollo), in prevalenza uzbeki o turkmeni, riescono a far distrarre il naso: il violento odore di carne speziata è uno dei pochi che fa dimenticare i miasmi dell’ossido di carbonio. Si calcola che il centro cittadino sia percorso quotidianamente da due

milioni di automobili, che rilasciano nell’aria quintali di sostanze inquinanti. All’interno dei locali, degli uffici pubblici, dei centri commerciali, l’odore predominante è quello di sigaretta, essendo ancora consentito fumare. Nella metropolitana, oltre all’odore ferrigno dei binari, colpisce il sovrapporsi di effluvi corporei: i profumi di alta classe delle signore impellicciate, lo stantìo odore di vecchia cucina delle babushka (nonnine) intabarrate con colbacco, gli uomini in tulup (cappotto di pelle di agnello o montone), che spesso disdegnano una buona doccia, o i ragazzi caucasici dai vistosi giubbotti di pelle sintetica che ancora sanno di nuovo.

Tatto Se si è all’aperto, magari senza guanti, si rischia di perdere ogni percezione tattile a causa del freddo. Tutto è perciò filtrato dal nostro abbigliamento e dalle nostre calzature. Se si decide di scoprire le mani, lo scorrere delle dita sulla pelliccia di un colbacco, aprire il palmo per tastare la neve fresca, o affondarvi con gli scarponi, sono tra le poche sensazioni che può offrire un luogo dove la temperatura media è meno quindici. La più gradevole, rientrando a casa, è senza dubbio stringere una tazza di tè caldo, possibilmente riscaldato da un samovar, tradizionale teiera di metallo tradizionale, con un piccolo rubinetto che dosa l’appetita – e bollente – bevanda. La rude corteccia dell’immenso Samauma, altrimenti detto Regina della foresta. È l’albero del tam-tam, dal tronco intrecciato e possente. Alto fino a trenta metri, con un tronco del diametro di tre, è dotato di grandi radici chiamate sapopernas, utilizzate dagli abitanti della Amazzonia per comunicare a chilometri di distanza. Colpendolo emette un cupo rimbombo che arriva lontano, sulle ali dell’eco. 9


Il reportage Italia

Il distretto dei compari di Fabio Abati e Igor Greganti “Emanuele, non salire più lì sopra e non fare più danni!”. Non sono le parole di una mamma, indirizzate al suo bambino. È la raccomandazione che un mafioso rivolge a un altro mafioso, intercettata dai carabinieri. er “lì sopra” si intende il nord Italia. Emanuele, 36 anni, sta per essere estromesso dalla gestione di affari e cantieri che la “famiglia” siciliana dei Rinzivillo, di Gela, controlla in diverse zone del Settentrione. È inaffidabile, parla troppo. Qualcuno lo spiffera al capofamiglia, Crocifisso Rinzivillo: “I cazzi nostri non li deve far sapere a nessuno!”. È in una riunione nel profondo nord, a Busto Arsizio in provincia di Varese, dove il clan gelese ha da anni una sua propaggine, che viene deciso di sganciare Emanuele dalla consorteria. Ma per uno che se ne va, tanti altri arrivano. Si fa così su al nord. Dove, in quei giorni, mentre Emanuele lascia, continua l’incessante attività finanziaria, imprenditoriale ed estorsiva di almeno cinque gruppi mafiosi. Origini diverse, un obiettivo comune e frequenti contatti. Affiliati alla ‘ndrangheta, a Cosa Nostra e alla camorra, sono circa 200 e hanno deciso di prenderselo quel pezzo di nord, da Varese, a Bergamo, a Brescia, fino al lago di Garda, e giù tra Mantova e Cremona, per un volume d’affari di centinaia di milioni di euro. Al telefono si chiamano “compari” e nel cuore delle province più produttive del Paese hanno la loro base. È il “distretto” delle mafie al nord. Giovanni, origini siciliane, lo incontriamo a Brescia, dove vive da una decina d’anni. Là ha conosciuto i “compari”, quelli del “distretto”. Per circa un anno ha lavorato per loro. Ricorda, in particolare, una cena. “È il 2004. Ci troviamo in un ristorante, a Peschiera del Garda”, racconta. “Ci raggiunge al tavolo un uomo di mezza età. Tutti si alzano in piedi, lo salutano col baciamano e gli cedono il posto migliore. Chiedo ai presenti, con discrezione, chi sia quell’uomo. Mi rispondono: È Zio Michele. È di Gioia Tauro ma abita a Modena”. Alla cena partecipano mafiosi, ‘ndranghetisti e camorristi. Dopo aver mangiato e discusso a lungo, si trasferiscono tutti in un night del bresciano, dove Giovanni inizia a fare quello che farà per mesi: accompagna in auto le spogliarelliste-prostitute, ucraine, romene, russe e moldave dal locale alle case dei clienti e controlla che non ci siano problemi. “Quel night era cosa loro – prosegue Giovanni -, me lo dissero quella sera. Come molti altri e come molte altre attività, anche se non formalmente. Non ho mai saputo il cognome di “Zio Michele”. So per certo, però, che è un pezzo grosso dei Piromalli. Quella sera era venuto a chiedere come andavano gli affari”. “Lì sopra”, infatti, il gioco è in mano a due cosche calabresi: i Piromalli e i Bellocco. Sono loro che governano, con strategiche alleanze con Cosa Nostra e con la camorra, grossa parte dell’economia illecita del “distretto dei compari”. Sempre lì reinvestono, nel lecito. Per scoprirlo basta unire i tasselli di alcune operazioni condotte in Lombardia dalle forze dell’ordine negli ultimi due anni. Il 13 luglio scorso tocca agli uomini del Gico della Guardia di Finanza di

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Brescia. L’operazione “Mafia sul Lago” porta al sequestro di ville, appartamenti, terreni, auto di lusso, locali notturni, aziende e attività commerciali, per un valore di 30 milioni di euro. Due cosche, ‘ndrangheta e camorra, con base operativa vicino al lago di Garda, hanno scelto un’area ricca e centrale del nord Italia, per ripulire il denaro nel settore edile, nei trasporti e nell’intrattenimento notturno. ““Mafia sul Lago” è di assoluto rilievo - spiegano dal Comando della Finanza di Brescia. È il primo caso di emissione, nel Distretto della Corte d’Appello di Brescia, di un provvedimento preventivo antimafia. Si è riconosciuta l’esistenza, tra il Garda, Brescia, Mantova e Cremona, di persone che operano in nome e per conto di associazioni mafiose”. Ma chi sono questi mafiosi? “Li conosco. Ho lavorato proprio per loro”, ci dice Giovanni. “Sono così uniti dai profitti – spiega - che difficilmente si dichiarano guerra a vicenda”. E ci porta a vedere una strada. Bisogna partire da lì per raccontare il radicamento delle mafie nel distretto. Taglia una pianura ondulata, immersa fra campi coltivati, macchie di alberi e poche case sparse senza ordine. È via XXIV maggio, frazione di Sedena, comune di Lonato, provincia di Brescia, a una quindicina di chilometri da Desenzano e dalle acque del Garda. Lì, a pochi metri di distanza l’una dall’altra, le case dei fratelli F.: Marcello, 40, anni e Gaetano, 45. Il terzo fratello, Rocco, vive qualche chilometro più a nord, a Padenghe sul Garda. Uno dei pentiti più importanti nella storia della ‘ndrangheta, Francesco Fonti, già nel 1994 dichiara all’autorità giudiziaria che i tre fratelli sono affiliati alla mafia calabrese. Nel paese dove sono nati, Gioia Tauro, provincia di Reggio Calabria, hanno lasciato gli affetti: il padre Domenico e la madre, Concetta. Un’intera famiglia, quella dei fratelli F., affiliata alla ‘ndrangheta, al locale di Gioia Tauro e alla cosca dei Piromalli. Quei Piromalli che si sono costruiti negli anni il controllo quasi totale delle attività economiche del porto e della piana di Gioia Tauro, capaci anche di costituire basi al di fuori della Calabria. Un punto di forza della cosca che i fratelli F. incarnano alla perfezione: saliti al nord, passando per l’Emilia, negli ultimi 10 anni si sono stanziati nel bresciano, sul Garda. mpongono manodopera clandestina, pagata poco e in nero, in molti cantieri del bresciano e chiedono il pizzo ai gestori dei locali notturni del Garda”, racconta Giovanni. Coi fratelli F. la ‘ndrangheta da esportazione incontra la camorra in trasferta. Sul Garda ci sono

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Ricettatori acquistano un telefono. Torino, Italia 2007. Massimo Di Nonno/Prospekt.


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gli uomini del clan Moccia di Afragola (Napoli). Gli affari che i napoletani intrecciano col gruppo calabrese partono dalla gestione dei locali notturni, come una discoteca di Desenzano e una di Lonato, entrambe sequestrate dalla Finanza. “Le ragazze nei night non valgono nulla - spiega Giovanni, che era il loro autista e bodyguard. O meglio, valgono fino a 800 euro a prestazione, se il cliente decide di averle direttamente in casa. Soldi che vanno dritti nelle tasche dei fratelli F. e dei camorristi”. “Gli affari però vanno ben oltre il bresciano”, chiarisce Giovanni. Il “distretto dei compari” comprende diverse province, coinvolge altri personaggi e altre mafie e si tira dietro la collusione e l’abilità di una serie di prestanome, professionisti e colletti bianchi. È in provincia di Mantova, infatti, che ha sede legale un’azienda del gruppo. Sua ragione sociale è l’attività di costruzione e ristrutturazione di immobili. Per la Guardia di Finanza, però, è solo una scatola vuota. Nessuna delle attività presenti nella sua ragione sociale è mai stata messa in pratica. Ma per i fratelli F. rappresenta una ricchezza. L’affare sta nell’utilizzare quella scatola per ottenere finanziamenti e aprire linee di credito in banca. In un’area residenziale di Brescia, in un appartamento anonimo come tanti, c’è un fax che suona in continuazione. La stampante si mette in moto e i fogli entrano ed escono quasi senza fermarsi. È il fax della signora M. M., una broker bresciana. È lei che si occupa, per conto dei fratelli F., di comunicare con clienti, camere di commercio, istituti bancari, finanziarie, specie quelle dei paradisi fiscali. La broker intrattiene rapporti soprattutto con un catanese di 60 anni, G. C.. Questi ha un ufficio a Desenzano nella centralissima via Motta. È una pedina chiave nella gestione di tutti gli affari che i “compari” hanno nel nord della Lombardia. Nel suo ufficio a Desenzano sono di casa i fratelli F., ma anche i camorristi che vivono sul Garda. C. frequenta anche un gelese suo coetaneo. Quest’ultimo se lo prende come socio, e G. C. si tira dietro tutto il gruppo dei fratelli F.. C’è da lavorare con la cosca dei Rinzivillo, “famiglia” gelese da tempo attiva anche al nord. A Busto Arsizio e nel varesotto i Rinzivillo possono contare su una cinquantina di affiliati. “Busto è come Gela, una polveriera! Il bordello che c’è a Gela, succederà al nord! Mi stai capendo?”: così la pensa, intercettato, un affiliato al clan. Nel dicembre del 2006 scatta l’operazione “Tagli Pregiati”. Si scopre che i fratelli Rinzivillo, Antonio, Salvatore e Crocifisso mantengono il controllo di appalti e subappalti edili al nord come in altre parti d’Italia. Con l’aiuto dei compari, tra il 2004 e il 2006, i gelesi si aggiudicano infatti i lavori di ampliamento della centrale dell’Enel Power di Tavazzano, in provincia di Lodi. Gli operai lavorano tenuti sotto il giogo del caporalato, lì come nell’alto milanese, a Verona e nel parmense. I prestanome, intanto, vengono arruolati direttamente sul territorio. Quando, ad esempio, la società che deve gestire i subappalti alla centrale di Tavazzano ha bisogno di una “testa di legno”, viene scelta una venticinquenne di Lodi. Assunta inizialmente come segretaria, poco dopo le viene intestato tutto. Convincerla è semplice: mensilità da diecimila euro, una Bmw, una Volvo e un bel purosangue, dato che ha la passione per i cavalli. Nell’estate del 2005 i Rinzivillo hanno tra le mani un nuovo affare che propongono anche ai fratelli F.: l’alleanza ‘ndrangheta-Cosa Nostra ha un altro progetto. I “compari” preparano una serie di truffe ai danni delle banche e dello Stato. Predispongono una strana procedura contabile, da loro chiamata “lo strumento”, e la utilizzano per aprire e chiudere società, cambiare amministratori da un giorno all’altro, manipolare i bilanci, gonfiare o sgonfiare le spese. Creano una serie di scatole vuote utili solo per mungere soldi alle banche, alle finanziarie e agli istituti di credito. Per fare tutto questo possono contare sull’intermediazione dei colletti bianchi collusi. “I compari diventano una cosa sola quando si tratta di affari”, spiega Giovanni. “I gelesi assieme ai fratelli F. hanno gestito traffici di droga, ma soprattutto decine e decine di aziende e appalti. Alcuni anche a Milano, in corso Buenos Aires per esempio”. Nel 2005 è l’operazione “‘Nduja”, condotta dai Ros di Brescia, a colpire un’altra cellula ‘ndranghetista. Radicata stavolta nella bassa bergamasca e in Franciacorta, ha però forti legami con la cosca del Garda. Al vertice c’è il calabrese

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Giovanni Condello, referente in Lombardia dei Bellocco di Rosarno. “Un clan forte e pericoloso - spiega Roberto Di Martino, procuratore della Dda di Brescia. Manteneva un controllo capillare su alcune fette di territorio. Lo dimostrano le intercettazioni. I mafiosi dicono che nel bergamasco non deve muoversi foglia senza il loro volere”. Tra loro Pino Romano, al tempo stesso membro del clan Bellocco e parente dei fratelli F.. “Me lo ricordo eccome Pino - racconta ancora Giovanni -. L’ho visto varie volte nell’ufficio dei fratelli F.”. Romano coi suoi alleati scambia appalti, ma soprattutto manodopera clandestina che loro gestiscono alla maniera dei caporali, pagandola in nero. “Quando li ho conosciuti controllavano un esercito di operai - prosegue Giovanni. Almeno un migliaio di persone tra le province di Bergamo, Brescia e Cremona”. Come ci si deve comportare nel “distretto” lo spiega bene G. C., intercettato della Guardia di Finanza: “Voglio andare fino in fondo. Tutelare gli interessi che sono sì i miei, ma anche quelli del mio compare!”. In quel mondo la vita è sempre a rischio. ono stato a una riunione in cui si è parlato di spartizione del territorio. C’era gente che faceva paura, gente dura, con la pistola”. A parlare così, intercettato dalle forze dell’ordine, è Angelo C. L’uomo, un bresciano nato a Desenzano del Garda, viene ammazzato il 28 agosto del 2006 nella sua villetta di Urago Mella, frazione di Brescia. Il nostro Giovanni lo ha conosciuto, ma non se la sente di dire molto. “Frequentava il night dove lavoravo”, spiega. I padroni del locale sono sempre loro, i catanesi, i fratelli di Gioia Tauro e i camorristi di Afragola. Angelo, piccolo imprenditore, con precedenti penali per alcune truffe finanziarie, frequenta quel locale e quella gente. Un giorno… “Bé, un giorno ho visto entrare nel night quei siciliani. Si sono seduti e hanno parlato a lungo con Angelo”, racconta Giovanni. Vito e Salvatore vivono a Trapani, sono cugini, figlio e nipote di un boss mafioso locale, ucciso nel 1986. Secondo la Procura di Brescia, sono loro ad aver ucciso Angelo. Il processo è ancora in corso e i due sono attualmente in carcere. Con loro, prima di morire, Angelo riesce a mettere in piedi un affare che frutta parecchi soldi. Il meccanismo è semplice: si tratta di sfruttare illecitamente i vantaggi di una legge, la 488 del 1992, nata per favorire lo sviluppo delle attività produttive e dei livelli occupazionali nel Mezzogiorno. A far la parte degli imprenditori che investono nel trapanese, ci pensano Vito e Salvatore. Fanno solo finta. In realtà, le aziende agricole che dovrebbero dar lavoro e produrre, esistono solo sulla carta. A lavorare, invece, ci pensano le “cartiere” bresciane. Viaggiano, infatti, da Brescia a Trapani le fatture false attraverso due società. Con quelle si gonfiano le spese delle cooperative interessate e si ottengono finanziamenti pubblici per circa sette milioni di euro, senza spendere una lira sul campo. È partecipando al gioco, però, che Angelo finisce tra le braccia della morte. Secondo la ricostruzione della Procura, a un certo punto decide di chiamarsi fuori e così i cugini siciliani partono da Trapani per andare a prendere i soldi che gli spettano e arrivano a Brescia. Angelo si rifiuta di darglieli e loro si prendono la sua vita. “Compare” chiamava al telefono Angelo uno dei capi dell’organizzazione, quando gli chiedeva di trovare un appartamento dove alloggiare otto ragazze dell’Est. Un “compare”, dunque, era anche il bresciano Angelo. Un investigatore, alcuni giorni dopo il suo assassinio, si lascia sfuggire una frase significativa: “Era diventato negli anni una specie di finanziaria della mala, che investiva e disponeva di denari non suoi”. Quando si amministra il denaro delle mafie nel “distretto del nord” si diventa “compari” all’istante, anche se non si è affiliati. Si entra, però, anche in un mondo fatto di strategie, di guerre e di codici che non si conosce e che si fa fatica a comprendere. Soprattutto al nord, dove convive con l’economia più produttiva del Paese. Quel nord che troppo spesso, anche davanti ad una strage mafiosa come quella di Brescia, fa finta di non vedere. Non si cura della serpe che, negli ultimi anni, gli sta crescendo in seno.

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In alto: Quarto Oggiaro. Milano, Italia 2007. Massimo Di Nonno/Prospekt. In basso: Sequestro droga. Milano, Italia 2007. Andrea Pagliarulo/Prospekt.


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L’intervista Ecuador

La vittoria del piccolo popolo Dalla nostra inviata Stella Spinelli Il mio nome è Patricia Gualinga, sono del popolo quichua di Sarayacu. Sono un assessore del consiglio della mia comunità e coordino una rete di resistenza dei popoli dell’Amazzonia. Attraverso questa rete stiamo diffondendo quello che accade con le compagnie dell’oro nero, e in particolare con l’italiana Agip nel blocco dieci, da sempre considerato esempio tecnologico di punta dello sfruttamento petrolifero in Ecuador. Ci dica di più del suo popolo. Noi di Sarayacu siamo un popolo molto piccolo se comparato ad altri. Siamo 1.200 abitanti, suddivisi in cinque comunità, per un territorio di 135mila ettari. Viviamo nel cuore dell’Amazzonia ecuadoriana e per proteggerla siamo disposti a tutto. Abbiamo cominciato a lottare contro Agip da anni, perché una porzione del nostro territorio ancestrale è stato inglobato nel blocco dieci dato in concessione alla compagnia petrolifera. Da allora non abbiamo mai abbassato la testa e da quando abbiamo iniziato a difenderci dai soprusi che queste multinazionali mettono in atto indisturbate, abbiamo scoperto cose molto interessanti: innanzitutto la gravissima contaminazione, di cui nessuno parla mai. Contaminazione comprovata da dati precisi, raccolti da un’organizzazione che fa capo proprio ad Agip e dai risultati allarmanti. Lo dicono gli esperti. E Agip cosa fa? Ha deciso di non renderlo pubblico integralmente, ma di pubblicare solo delle conclusioni che sono molto lontane dal contenuto reale. La compagnia conta sulla nostra presunta incapacità di interpretare un rapporto e quindi di capire la verità. Ma noi abbiamo tanta gente che ci aiuta. E ora siamo ben coscienti di tutte le conseguenze dell’inquinamento prodotto da Agip. Tanto per cominciare sta pregiudicando gli affluenti del rio delle Amazzoni e con loro tutte le comunità indigene che vivono nell’area. Con che armi vi difendete? Smuovendo l’opinione pubblica internazionale per dire al mondo che non esiste in Ecuador un modo tecnologicamente all’avanguardia per estrarre petrolio: è una farsa. E il comportamento della Compagnia lo testimonia. Agip è ben cosciente di quel che fa e lo dimostra il fatto che sta tentando con ogni mezzo di non far comunicare fra loro le comunità dei blocchi. Tenerci isolati e metterci l’uno contro l’altro è la maniera per indebolirci. Solo così la presa di coscienza dei nostri diritti, riconosciuti anche dalla Costituzione dell’Ecuador, verrà evitata e l’ignoranza delle leggi che ci proteggono regnerà sovrana. Situazione ideale per le multinazionali del petrolio per continuare a corrompere e inquinare. Perché questa guerra contro lo sfruttamento petrolifero? Lo sfruttamento petrolifero va contro la nostra identità di popolo e non lo permetteremo mai. Se lo facessimo, spariremmo poco a poco. Questo è quello che ci aiuta a resistere. In passato ci siamo scontrati con militari e paramilitari ingaggiati dai petrolieri. Ci sono stati feriti, torturati, contusi. Molti dirigenti perseguiti dalla legge, processi. Ma mai ci siamo arresi. Lottando compatti. E siamo riusciti a fare tanto. Abbiamo ottenuto che Amnesty International si pronunciasse contro la mancanza di rispetto dei diritti umani, che premi Nobel prendessero le nostre difese, abbiamo guadagnato l’interesse della stampa internazionale e la solidarietà di molta gente all’estero. Nonostante Sarayacu sia un posto nascosto nel verde della foresta, siamo riusciti a realizzare una grande mobilitazione. Per arrivare a Sarayacu non ci sono strade. C’è soltanto un piccolo aereo a cinque posti, l’unico velivolo che può atterrare nel nostro territorio. La via fluviale è stata chiusa. Adesso ricominciamo a passare, ma con molta 14

cautela, dato che lungo quella via vivono molte delle comunità indigene che ci considerano nemici. E come mai? Ci opponiamo al presunto sviluppo portato dalle compagnie, ecco perché. Si tratta di gente pagata profumatamente dalle aziende. Il conflitto fra i popoli indigeni fomentato dall’Agip è un’arma potente. Mette l’uno contro l’altro popoli da sempre in pace. Per fortuna Sarayacu, quando sono iniziati gli attacchi, è riuscito a realizzare chi fossero i veri responsabili e ha protestato con la compagnia, con lo Stato. Perché è la storia di queste terre che racconta la tranquillità di questa gente. Solo un fattore esterno, scatenante, avrebbe potuto provocare questo cambiamento epocale e spingere i nostri fratelli quichua ad attaccarci: le promesse dell’Agip. Siamo coscienti che molti popoli si lasciano abbagliare dalle promesse delle Compagnie. Scuole pagate, libri, pannelli solari, una profumata pensione agli anziani. Una gran quantità di cose che spesso offrono e che per la maggior parte non mantengono, ma che può confondere. È una strategia consolidata. E il nordest ecuadoriano è l’esempio tangibile dei “benefici” che hanno le comunità dalle compagnie petrolifere: Lagro Agrio, El Coca sono totalmente contaminate da Texaco, ma solo adesso se ne rendono conto. Ed è forse troppo tardi. Invece nel territorio Sarayacu? Noi da sempre abbiamo detto no, anche se non è stato facile. Ma adesso il nostro caso è arrivato davanti alla Corte interamericana, che ha riconosciuto tutte le violazioni da noi subite, imponendo allo Stato ecuadoriano di intervenire. E presto si pronuncerà la Commissione di inchiesta. Se tutto va come speriamo, Agip sarà chiamata in una vera e proprio aula di tribunale a rispondere delle sue azioni. E questo sarà il risultato di tutta solidarietà internazionale che abbiamo ricevuto e che ha frenato la barbarie. Per un periodo, infatti, pur di permettere alle compagnie di estrarre l’oro nero ci hanno persino militarizzato. Sarayacu è uno dei pochi popoli che davanti a una attività petrolifera così invadente è riuscita a toglierla. E adesso? Ora restano alcuni problemi, non semplici da risolvere, come le tonnellate di esplosivo lasciato sparso ovunque, in zone agricole, di pesca e di caccia, fonti di sostentamento per noi, essenziali per la sicurezza alimentare. La Corte ha ordinato di toglierlo, quell’esplosivo, e il ministro dell’Energia e Miniere è già intervenuto. Ma la situazione è complessa, dato che l’esplosivo è 12-15 metri sottoterra. Infatti, questa parte del nostro territorio è stata dichiarata offlimits. E già il fatto che un ministro si interessi direttamente è il segnale che siamo riusciti a guadagnarci rispetto. Una lotta titanica. Abbiamo vinto contro ogni pronostico: un piccolo popolo, in un momento in cui il movimento indigeno era debolissimo, ha iniziato a lottare da solo. Quando ci dicevano che stavano per militarizzare la nostra terra, che andavamo a scomparire come popolo, siamo riusciti a dimostrare che si sbagliavano, che invece si poteva resistere. Sappiamo di essere una piccola realtà contro le grandi leggi della globalizzazione, ma proprio per questo stiamo cercando strategie, piani di sostentamento, che possano far sì che questa resistenza continui. Questo è Sarayacu.

Campi contaminati dal petrolio. Ecuador, 2007. Stefano Mariotti ©PeaceReporter


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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

Le buone nuove India: concesso asilo a scrittrice femminista Le autorità dello stato del Bengala Occidentale hanno deciso di estendere il visto per una contestata scrittrice femminista bengalese e di permetterle di vivere per altri sei mesi in India. Taslima Nasrin era da anni nel mirino degli integralisti musulmani per il contenuto di alcune sue opere, critiche contro il Corano, e per le sue posizioni sul ruolo femminile, tanto da dover scappare come esule politica dal suo Paese natale, il Bangladesh; ma la sua stessa presenza a Calcutta nell’ultimo anno era stata messa a repentaglio dalle minacce di due partiti islamici integralisti, tanto che Nasrin era stata messa sotto scorta e protetta in una abitazione segreta a Delhi.

Emirati arabi: la prima donna giudice Una donna di nome Tani Siri Dano Yakoub passerà alla storia. La dottoressa Yakoub, originaria della Malesia, è la prima donna a essere eletta giudice negli Emirati Arabi Uniti.

Congo: finalmente la pace? Dopo dieci anni di guerra ininterrotta, governo e ribelli hanno firmato un accordo di massima, che prevede un cessate-il-fuoco nella regione orientale congolese, teatro di continui scontri tra l’esercito, i ribelli dell’ex-generale Laurent Nkunda e le milizie Mayi-Mayi. A quattro anni dalla fine della guerra civile, il Congo fa un passo importante verso il raggiungimento di una pace duratura.

Tasmania: quanto costa il dolore Tre mesi fa era arrivato il primo risarcimento, ma solo a una persona. Ora, grazie alla decisione del governo dello stato di Tasmania, saranno invece 106 gli aborigeni che verranno risarciti per aver fatto parte della “Generazione rubata”. A loro saranno destinati 5 milioni di dollari australiani (circa 3 milioni di euro), in quello che rappresenta il primo risarcimento collettivo per la tragedia umana che ha colpito decine di migliaia di bambini nativi sottratti ai genitori e dati in adozione a famiglie bianche, tra il 1915 e il 1969. 16

Saranno le nuove leve a prendere il potere dopo Fidel Castro?

Si vota in Iran e Zimbabwe. In Libano invece si aspetta ancora

Cuba, è l’ora dei giovani

Marzo, elezioni in arrivo I

ià nell’aprile 2006 a Cuba c’era nell’aria un profumo di cambiamento. Alcuni importanti dirigenti impegnati nelle missioni all’estero furono fatti rientrare in tutta fretta. Il ringiovanimento del sistema stava prendendo sempre più forma. Nulla, però, lasciava intendere che di lì a breve il Lider Maximo, Fidel Castro, avrebbe avuto problemi di natura fisica che lo avrebbero costretto all’abbandono della politica attiva. Sta di fatto che il passaggio di consegne politiche nelle mani del fratello di Fidel, Raul, ha aperto una nuova fase storica per l’isola caraibica. Lo stesso Raul aveva chiesto alla popolazione di parlare, di confrontarsi con le autorità, di discutere dei problemi che affliggono la società cubana. Ma anche questa non è una grande novità. Tutti sapevano da decenni che Raul era mosso da un differente pensiero politico rispetto a Fidel e che il suo orientamento si avvicinava maggiormente alla Cina. Oggi sembra davvero che le previsione fatte allora si siano avverate. Nonostante abbia ottenuto quasi un plebiscito alle ultime elezioni, Fidel ha deciso di lasciare la vita politica attiva del Paese. E lo ha fatto nel modo che in questo momento gli è più congeniale: con una lettera pubblicata sul quotidiano organo del partito comunista cubano, il Granma. E nonostante questo da Washington arriva la conferma che il blocco economico imposto quasi 47 anni fa da Kennedy non verrà revocato. Insomma, grandi novità. Ma la notizia più clamorosa sembra essere quella che riguarda i giovani cubani. Lo stesso Lider Maximo aveva più volte detto di voler lasciare spazio alle nuove leve, facendo sapere di “non voler restare attaccato alla poltrona presidenziale”. E questa volta sembra davvero che i giovani, soprattutto gli universitari, lo abbiano preso sul serio interpellando il presidente del Parlamento, Ricardo Alarcon, e sottoponendogli domande come: “Perchè, se voglio andare a vedere dove è morto il Che, in Bolivia, non ci posso andare?”. Il fatto che adesso tutto questo si possa vedere grazie a un video postato su Youtube e faccia il giro del mondo è davvero una bellissima notizia.

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Alessandro Grandi

l 14 marzo si vota in Iran per il rinnovo della Majlis, l’assemblea di duecentonovanta seggi. Come accade ogni volta, le oltre settemila candidature sono passate al vaglio del Consiglio dei Guardiani, anche se sarebbe più corretto dire che non sono passate, visto che due terzi dei candidati non sono stati ammessi al voto. L’ineleggibilità è dovuta ad accuse come frode, complicità con gruppi terroristici e tendenza verso culti perversi. Gli esclusi sono tutti ‘riformisti’, vicini all’ex presidente Khatami o conservatori moderati vicini a Rafsanjani, acerrimo rivale dell’attuale presidente Ahmadinejad. Le esclusioni hanno causato molte polemiche, ma il potere di Ahmadinejad sembra sempre più basato solo sulla retorica nazionalista e sulla repressione. La situazione resta tesa anche in Libano, dove per la tredicesima volta non si è riusciti a eleggere il Presidente della Repubblica, carica vacante dal 28 novembre 2007. L’accordo tra maggioranza, di orientamento anti siriano, e l’opposizione, di orientamento filo siriano, sembrava raggiunto attorno alla figura di Michel Suleiman, comandante in capo delle forze armate libanesi. La sua figura però, nonostante la mediazione della Lega Araba in suo favore, è uscita ammaccata dagli incidenti scoppiati a Beirut a fine gennaio, quando l’esercito ha aperto il fuoco sui dimostranti uccidendo almeno otto persone. L’opposizione ha chiesto e ottenuto un’inchiesta parlamentare sulla vicenda che ha indebolito Suleiman. Tempo di elezioni anche nello Zimbabwe, dove il 29 marzo il presidente uscente, Robert Mugabe, proverà a ottenere il sesto mandato consecutivo. A sfidarlo sarà Simba Makoni, ex-ministro delle Finanze ed esponente di spicco del partito al potere, lo Zanu-Pf, da cui è però stato espulso non appena ha ufficializzato la sua candidatura alternativa a Mugabe. Il Movement for Democratic Change, il principale partito di opposizione, si presenterà invece diviso, con il leader storico Morgan Tsvangirai che difficilmente riuscirà a ottenere un buon risultato. Il favorito rimane dunque Mugabe, che potrà contare sulla formidabile macchina organizzativa del partito.


Colombia Quarant’anni di guerra

a Colombia è un paese in guerra da oltre quaranta anni. Guerriglieri delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) e dell’Esercito di liberazione nazionale (Eln) si scontrano con i governi di turno, difesi dall’esercito regolare e da gruppi di paramilitari che per decenni hanno combattuto sotto il segno dell’Autodifesa Unita della Colombia (Auc), adesso meno in auge. Si tratta di un lotta interna violenta e radicalizzata, che coinvolge indistintamente civili e religiosi, politici e sindacalisti, donne e bambini, in ogni parte del paese. In realtà il conflitto colombiano affonda le sue radici nella notte dei tempi. Si tratta di un Paese che non ha mai conosciuto lunghi periodi di pace, teatro di una profonda ingiustizia sociale e vittima di una gestione del potere politico corrotta e antidemocratica. Indipendente dalla Spagna dal 1819, raggiunge l’attuale struttura solo nel 1886, ereditando una storica opposizione fra liberali e conservatori, che in cinquant’anni la rendono teatro di nove guerre civili, quattordici conflitti territoriali e undici costituzioni differenti. Nel 1964, alla massiccia quanto sterile offensiva contro i ribelli, alcuni di loro rispondono fondando le Forze armate rivoluzionarie della Colombia, che ancora oggi sono il gruppo guerrigliero più potente del Paese. Di ispirazione marxista-leninista, contano migliaia di uomini e donne, addestrati a sovvertire un sistema di potere considerato corrotto e ingiusto. Capeggiati dal loro fondatore, Manuel Marulanda detto Tirofijo (colpo sicuro), controllano vaste zone del sud del Paese, mantengono numerose pattuglie nel centro-nord, sono ben posizionati in tutta la regione centrale del Magdalena Medio e vantano migliaia di infiltrati nella vita politica e sociale colombiana. Stessa data di nascita anche per l’Esercito di liberazione nazionale (Eln), gli anni Sessanta, ma formazione ideologica distinta: comunismo filo-cubano e teorie cristiane della Teologia della liberazione. Meno consistente in termini di uomini armati, l’Eln è ancora molto forte dal punto di vista socio-politico. Migliaia di militanti in abiti civili lavorano a contatto con la gente, tentando di cambiare la società partendo dal basso. Alla guerriglia i vari Presidenti hanno sempre cercato di alternare repressione a tentativi di dialogo, tanto che in passato le altre formazioni armate più piccole, che pullulavano fino agli anni Ottanta, si sono sciolte grazie ad accordi più

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o meno rispettati. Altra strategia, invece, quella adottata dall’ultimo Presidente, Alvaro Uribe. Salito al potere il 7 agosto del 2002 e rieletto nel 2006, ha risposto con la lotta aperta: accantonando l’apertura propria del suo predecessore, Andrès Pastrana, ha militarizzato il Paese. Risultato: la violenza cresce, le minacce sono la normalità, gli sfollamenti forzati stanno portando la Colombia fra i primi tre Paesi al mondo per numero di desplazados interni (3 milioni circa, dati Acnur) a causa dei combattimenti, delle minacce, degli omicidi e della violenza generalizzata. Eppure, grazie anche alla ricca macchina propagandistica dell’entourage governativo, specialmente nelle grandi città, il consenso per Alvaro Uribe cresce. Ma i morti all’anno sono migliaia. In questo gioco di forza, si inseriscono i paramilitari. Nati negli anni Settanta come guardie delle grandi proprietà terriere o come gruppi di giustizia privata dei cartelli del narcotraffico, il loro ruolo è mutato nel tempo, diventando il braccio illegale del governo, a difesa dello status quo. Nella loro lotta ai guerriglieri compiono innumerevoli massacri, perlopiù di coltivatori di terre ricche di risorse minerarie da sfruttare. Nel 1996, fondano l’Autodifesa Unita della Colombia (Auc), che assume un ruolo fondamentale nel traffico di droga. I colombiani definiscono i loschi quanto stretti legami tra le alte sfere della politica, il narcotraffico e il paramilitarismo il ‘manto de la Virgen’ che tutto nasconde, sotto una facciata pulita e democratica. Quella perseguita da Alvaro Uribe, con l’aiuto e il costante appoggio degli Stati Uniti. Attraverso il Plan Colombia, sono gli Usa che, con la scusa della lotta alle coltivazioni di coca, finanziano l’esercito colombiano. E lo stile statunitense si ritrova anche nella legge Giustizia e Pace: dichiarando di lavorare per la fine del conflitto, Uribe lancia la smobilitazione e il reinserimento dei paramilitari. In realtà non fa che legalizzare il paramilitarismo e i suoi metodi. Di contro la guerriglia, assetata di soldi per mantenere in piedi la macchina della guerra, intensifica il terrore: rapimenti a scopo di riscatto, imposizione di “tasse rivoluzionarie”, rapimenti a fini politici per far pressione sul governo e sostegno alle coltivazioni di coca. Un traffico, quello degli stupefacenti, che quindi finanzia tutto e tutti, e che serve a ognuna delle parti in conflitto.


Colombia



Colombia

Sono migliaia le persone sequestrate nel paese andino. La più nota, grazie alla pressione internazionale esercitata dalla famiglia e dal governo francese, è la franco-colombiana Ingrid Betancourt, rapita dalle Farc nel febbraio 2002, quando era candidata alla presidenza della Repubblica. Con lei anche Clara Rojas, suo braccio destro, liberata nei primi giorni del 2008 assieme a un altro ostaggio, Consuelo Gonzales, grazie alla mediazione del presidente venezuelano Hugo Chávez. Ma uno spiraglio di speranza pare aprirsi anche per la Betancourt, e per almeno 54 prigio-

nieri politici delle Farc, fra cui ci sono anche tre contractors statunitensi. Al centro del gioco, infatti, c’è l’eterna questione dello scambio umanitario, perseguito dalle Farc, ma ostacolato da Uribe, che dice di non voler trattare con i terroristi: le Farc infatti sono state inserite nella lista dei gruppi terroristi internazionali stilata dopo l’11 settembre 2001. Condizione irrinunciabile dettata dalla guerriglia è il rilascio di tutti i guerriglieri in mano allo Stato e la smilitarizzazione di due municipi. Ma Alvaro Uribe non sembra intenzionato a concederla.

La partita è aperta. I problemi della Colombia, però, non si esauriscono qui, dato che oltre a quello dei sequestrati, degli sfollati, del narcotraffico, degli omicidi mirati (politici, sindacalisti, giornalisti), ha messo a segno anche un altro record: il più alto numero di vittime da mina antiuomo al mondo. Ordigni artigianali o già assemblati vengono disseminati dai gruppi armati illegali durante gli scontri, ma colpiscono poi, irrimediabilmente, i civili. La media è di tre vittime al giorno.


Il separatismo contagioso. Dalla Cecenia all’Ungheria un solo grido: indipendenza

Probabile un accordo entro maggio ma si discute su quali modelli proibire

Il numero dei morti nel mese di febbraio*

Kosovo, il mondo Bombe a grappolo Un mese è meno stabile verso il divieto di guerre l 17 febbraio 2008, come annunciato dal governo di Belgrado, il Kosovo ha proclamato l’indipendenza. Ai caroselli per le strade di Pristina hanno fatto da contraltare gli incidenti a Belgrado e alla frontiera tra la Serbia e il Kosovo. La missione dell’Unione europea, composta da duemila funzionari civili, è pronta a dislocarsi in sostituzione di quella delle Nazioni Unite, ma la nascita di una nazione è processo complesso, soprattutto in una regione piena di problemi come il Kosovo. Quello che accade a Belgrado e Pristina, tutto sommato, era prevedibile. Meno chiaro è quello che capiterà adesso in giro per il mondo. Gli Stati Uniti, coerenti alla loro linea di sempre, hanno subito garantito la tutela al nuovo stato, ma già l’Unione europea è spaccata: se Italia e Gran Bretagna si sono subito schierate a favore dell’indipendenza, la Spagna ha reso noto che non ha alcuna intenzione di riconoscere il nuovo stato. Dai guerriglieri ceceni alla Cina, da Taiwan ai palestinesi, fino all’Ungheria che rivendica i suoi diritti sulla Transilvania il temuto effetto Kosovo sembra dispiegarsi in tutto il mondo, e sarà più difficile, adesso, dire di no alle regioni che chiedono l’indipendenza. Vero è che la comunità internazionale non ha alcun interesse a sostenere altre secessioni, ma la sensazione di un vaso di Pandora scoperchiato resta forte. La situazione è tesa, anche perché Mosca non ha alcuna intenzione di placare gli animi. La diplomazia russa ha scelto il profilo duro dello scontro, arrivando a mettere in discussione i rapporti con l’Unione europea e gli equilibri militari nei Balcani. È assai improbabile che l’esercito russo, come in un nuova Guerra Fredda, scenda in campo per la Serbia, ma la valutazione delle conseguenze della decisione di Pristina non è ancora possibile, in un rinnovato quadro d’instabilità generale. Intanto la Serbia richiama gli ambasciatori da tutti gli stati che riconoscono il Kosovo, in un moto di orgoglio che rischia di renderla ancora più isolata a livello internazionale.

ontinuano a fare centinaia di vittime civili all’anno, perché le loro munizioni inesplose infestano almeno 25 Paesi nel mondo. Ma se il processo iniziato l’anno scorso a Oslo arriverà ai risultati voluti, il 2008 potrebbe essere l’anno in cui le bombe a grappolo – almeno alcuni delle tipologie esistenti – saranno messe al bando. Il mese scorso, in Nuova Zelanda sono proseguiti i negoziati per arrivare a un’intesa globale, alla presenza di circa 500 delegati di 122 Paesi tra cui l’Italia. La speranza è che si raggiunga un accordo in maggio a Dublino. Anche se finora i grandi Paesi produttori – Usa, Russia, Cina su tutti – si sono tenuti fuori. Nessuno mette in dubbio la potenza distruttiva di questi ordigni, né il fatto che la maggior parte delle vittime non siano militari. Non ci sono rapporti ufficiali sul numero di uccisi o mutilati. Ma secondo Handicap International, il 98 percento delle vittime sono civili, mentre l’Unicef ha calcolato che il 40 percento delle persone colpite sono bambini, che raccolgono gli ordigni inesplosi per giocarci. Le bombe possono rimanere sul terreno per decenni: in Laos, si stima siano presenti ancora 270 milioni di munizioni dagli anni Sessanta. E nel conflitto tra Israele e Hezbollah dell’estate 2006, quando Tel Aviv lanciò circa un milione di cluster bomb, nell’anno successivo alla fine delle ostilità sono state circa 200 le persone che hanno perso la vita. Un consenso mondiale verso l’abolizione delle bombe a grappolo è però tutto da costruire. Anche tra gli Stati a parole favorevoli, c’è chi fa pressioni per introdurre un periodo di transizione prima dell’applicazione del divieto, o per escludere dal trattato alcuni tipi di cluster, come quelle che spargono paglia trinciata per deviare missili in volo. L’obiettivo base del “processo di Oslo” (l’iniziativa è partita dalla Norvegia) è comunque quello di giungere all’identificazione delle cluster che causano un danno “inaccettabile” ai civili. Un primo effetto, intanto, è già stato raggiunto. Nell’attesa degli sviluppi, in molti Paesi la produzione di bombe a grappolo è stata sospesa.

Christian Elia

Alessandro Ursic

I

C

PAESE

MORTI

Iraq Sri Lanka Pakistan Talebani Ciad Afghanistan Sudan (Darfur) Somalia India Nordest R.D.Congo Algeria Israele-Palestina Russia (Nord Caucaso) India-Kashmir Thailandia del Sud Filippine Abusayyaf India Naxaliti Filippine Npa Colombia Turchia Pkk Pakistan Balucistan Nepal

1.341 947 481 193 146 109 76 60 45 43 42 41 40 39 28 19 15 13 10 8 8

TOTALE

3.696

I dati che qui riportiamo sono dati ufficiali, raccolti da agenzie di stampa internazionali o locali. Per cui sono da intendersi sempre per difetto: in molti paesi del mondo non si contano i vivi, figuriamoci i morti.

*Il periodo considerato è quello compreso tra il 17 gennaio e il 13 febbraio

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Qualcosa di personale Kosovo

Sotto gli occhi dei caschi blu testo raccolto da Christian Elia Mi chiamo Halit Barani, da trent’anni mi occupo di teatro, con il Centro culturale di Mitrovica, ma sono anche il direttore per il Centro dei diritti umani della città da diciotto anni. Il Centro esiste fin dagli anni Quaranta, ed è sempre stato sede di attività culturale albanese, serba e rom. Aperta a tutti. er anni la mia vita è stata legata al palcoscenico, ma come albanese in Kosovo non potevo ignorare quello che subiva la mia gente. Per voi il dramma della mia terra è cominciato alla fine degli anni Novanta, quando i vostri media hanno deciso di occuparsene, invece fin dal 1974 nella ex Jugoslavia esisteva l’obiettivo della pulizia etnica in Kosovo. La forma più brutale di colonizzazione è cominciata nel 1988, con l’avvento al potere di Slobodan Milosevic. Da quel momento, fino al 1997, abbiamo vissuto in un clima di violenza permanente che non ho remore a definire un tentato genocidio, verso tutti coloro che avevano l’unica colpa di essere albanesi. Ho deciso che dovevo fare la mia parte per denunciare tutto questo, perché il mondo intero sapesse cosa stava accadendo. Da quel momento ho registrato tutte le violenze di Mitrovica. Per le mie denunce ho subito settantasei arresti, conditi ogni volta con botte e persecuzioni. Non mi sono fermato però. Nei tre anni che vanno dal 1997 al 1999 è cominciato il tentativo di realizzare fino in fondo questo progetto. Dal 13 marzo 1999 al 19 giugno 1999, nella sola Mitrovica, vennero uccise cinquecentoventi persone senza alcun motivo. La vittima più piccola era un bimbo di due anni, la più vecchia un uomo di ottantatré anni. Ho fotografie, videocassette, registrazioni audio. Ancora, di quel periodo, ci sono duecentosettantanove desaparecidos. Vennero bruciate più di novemila case di albanesi, solo nel 1999, e nello stesso anno vennero arrestati più di cinquemila albanesi, trecento di loro hanno ricevuto condanne da un mese a vent’anni di galera. Per il mio impegno ho pagato, ma quello che mi ferisce di più è che hanno pagato degli innocenti. Nella parte serba della città mi vogliono morto e, in passato, mi hanno cercato. Quelli che sono stati interrogati per ottenere informazioni sul mio conto, e non hanno parlato, sono stati uccisi per questo. Ma anche se porto questo dolore nel cuore, so che è importante il mio lavoro. Nel 2001, l’allora procuratore capo del Tribunale Internazionale dell’Aja, Carla Del Ponte, mi ha chiamato come testimone al processo contro Milosevic. Sono partito con due valigie enormi, consegnando alla corte più di settemila fotografie e diciotto ore di interviste registrate. Quello che è accaduto non sarà dimenticato. La violenza non è finita con la guerra. Tutti parlano di quello che è accaduto nel 2004, quando la notizia dell’annegamento di tre ragazzi albanesi ha scatenato l’inferno. Gli albanesi si sono voluti vendicare: di nuovo morte e distruzione. Anche questa volta mi sono impegnato a raccogliere prove e testimonianze, anche delle violenze subite dalle famiglie serbe, perché le

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ingiustizie non devono essere celate da una bandiera. Il mio lavoro, come sempre, ha dato fastidio, anche alle Nazioni Unite. Il giorno dopo l’inizio degli scontri ero in ufficio. Nei pressi del ponte di Mitrovica sono arrivati studenti serbi e kosovari che hanno cominciato a fronteggiarsi e a manifestare. Ho cominciato a filmare tutto, anche le auto dell’Onu che dicono ai serbi di seguirli e li aiutano ad arrivare fino al ponte. Nella bolgia sono morti quattro kosovari e due serbi. I caschi blu francesi hanno portato i serbi in caserma, mentre gli albanesi bruciavano le loro case. Ho continuato a raccogliere filmati e fotografie, intervistando tutti. Il giorno dopo i militari francesi della Kfor mi hanno obbligato a tornare in ufficio contro la mia volontà. i hanno legato e mi hanno sequestrato le chiavi del Centro Culturale. Sono stato trascinato in un blindato e mi hanno tenuto dentro per tre ore, ammanettato e maltrattato. Sono stato interrogato per ore. Alle undici di sera, dopo tutta una giornata nelle loro mani, è arrivato finalmente un funzionario della procura militare che mi offriva un avvocato, ma io ho rifiutato. Volevo solo sapere perché mi avevano arrestato, ma nessuno mi spiegava la situazione. I gendarmi francesi mi chiedevano solo: ‘’Perché hai fatto le foto? Perché hai filmato? Perché hai diffuso del materiale?’‘. Volevano sapere, in particolare, perché avessi fotografato i militari francesi durante le proteste. Gli ho risposto che lo faccio dal 1989 e che registro tutte le violenze, indipendentemente da chi le commette. Mi hanno sequestrato il materiale, anche le macchine fotografiche e mi hanno rilasciato in mezzo alla strada dopo un fermo illegale di venticinque ore. Ero scosso e intontito, sono stato soccorso dai passanti che mi hanno accompagnato a casa. Per duecentocinquanta giorni non ho potuto mettere piede nel Centro Culturale. Ancora oggi sono in causa con i militari francesi per quello che mi hanno fatto e ho riottenuto la documentazione solo a giugno del 2006. Ma sono ancora qui, a raccontare le violazioni che continuano. Ho raccolto tutto il mio materiale in un libro, ma nessuno lo vuole pubblicare, perché racconta di crimini albanesi e di crimini serbi. Non ho mai usato la mia esperienza personale nelle mie opere teatrali perché la mia storia è nulla rispetto a quella di tanti altri. Come mio fratello. Lui è uno dei desaparecidos, ed è anche per lui che faccio tutto questo.

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In alto: Halit Barani, Mitrovica, Kosovo. In basso: Ponte di Mitrovica. Massimo Di Nonno/Prospekt.


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La storia Birmania

Legno di regime di Gianluca Ursini L’Unione Europea impone sanzioni contro la Birmania. Nel mirino, l’importazione di gioielli e soprattutto del pregiato legno. Che gli imprenditori italiani non hanno nessuna intenzione di smettere di utilizzare. ui non sappiamo cosa fare tra poco. Siamo alla crisi. E voi giornalisti siete venuti a dirci se ci sentiamo “le mani sporche di sangue” perché usiamo tek birmano. Ma cosa credete che facciamo? Non stiamo mica a divertirci! Qui si lavora. E non siamo di quelli che vanno per il mondo a vendere armi....” Il tono da ragiunatt brianzolo dell’ufficio acquisti non lascia spazio alla discussione. È chiaro come la pensano alla seconda ditta italiana per import di tek dalla Birmania, la Nord Compensati, due milioni e mezzo di euro di merce passata per le dogane. Le prime sei importatrici insieme, al 2006 (dati ministero Commercio estero, riportati da Cisl) arrivavano a quattordici milioni e trecentomila euro di legno importato, con la Bellotti spa, di Cermenate, Como, a capeggiare: sette milioni e duecentomila. Nonostante il bando all’import di preziosi e legname del Myanmar, che l’Unione europea ha varato il 19 novembre passato. “Sanzioni non ancora effettive – precisa Roberto De Martin, direttore di Federlegno, associazione delle imprese del settore – in attesa della pubblicazione sul bollettino ufficiale. Ma l’onorevole Piero Fassino (ex ministro del Commercio estero, ora inviato Speciale Ue per Myanmar) ha incontrato gli otto maggiori produttori della filiera qui in Federlegno a inizio febbraio e ci ha detto che c’è poco da fare: le sanzioni andranno rispettate. Un disastro per un settore italiano che tirava tantissimo, soprattutto nella cantieristica, e che favorirà la concorrenza cinese”. Le sanzioni non arrivano da un giorno all’altro. In settembre, c’è stata la repressione brutale di regime della protesta pacifica di trecentomila monaci buddisti e studenti, in piazza a chiedere la liberazione di Aung San Suu Kii, leader della lotta democratica, e libere elezioni. I generali che da quarantacinque anni dominano il Paese hanno risposto mettendo in strada sei divisioni con licenza di uccidere: i morti sono trentuno per l’Onu, duecento per i dissidenti birmani. Circa seimila gli arresti, di cui duemila ai lavori forzati. I ministri degli Esteri Ue si riuniscono il 3 ottobre, per fermare la mattanza militare. Producono sanzioni limitate a 386 pezzi grossi del regime. Ma dopo le consistenti sanzioni commerciali degli Usa a fine ottobre, la commissione vara il 19 novembre un regolamento che proibisce l’import di tek (settanta percento della produzione mondiale), giade e rubini, (novanta percento). “Ce lo dicono anche dal ministero, che queste sanzioni sono inutili se non colpiscono gas e petrolio, vere fonti di reddito per i militari! La realtà è che la francese Total fa i suoi affari con i militari e ha bloccato la Ue”. La sfuriata arriva dalla Nord Compensati, ma è la stessa linea di decine di mail e conversazioni con FoppaPedretti, FederLegno, Bellotti e grandi operatori del tek. La francese Total estrae un quarto del petrolio birmano; ma anche l’italiana Saipem partecipa alla costruzione di un gasdotto

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per traportare il gas birmano. Un affare da un miliardo di dollari annui, solo il gas dello stabilimento di Yadana. Delle diciannove aziende che si rifornivano di tek birmano, per un volume di import pari a diciannove milioni di euro, solo FoppaPedretti ha deciso di “non ricorrere mai più all’import dal Myanmar”. Dalle reazioni delle altre aziende, si capisce come siano già pronte all’andazzo probabile in regime di sanzioni: compreranno in Malesia, Taiwan, Cina e Thailandia, dove i locali acquistano tek dalla Myanma Timber Enterprise (azienda in mano ai militari) per poi rivenderla con un certificato di origine del proprio paese. “Ci rivolgeremo ai mercati dei paesi vicini” è il refrain che viene ripetuto. Alcuni hanno provato con inventiva italiana ad aggirare le norme: “Ci riforniamo già da anni al mercato delle piantagioni, legalizzate, thailandesi”, ci vien detto dalla Teak Point di Viareggio (un milione e mezzo di euro d’import) e dalla Thai teak di Villaricca, in provincia di Napoli. “Ma quando mai! In Thailandia è proibito staccare anche un ramo di tek dal 1983” ci spiega un addetto acquisti di una ditta milanese. Particolarmente ermetici alle domande di PeaceReporter nella sede della Tragni (novecentomila euro d’import). Sul loro sito viene ancora esposto con orgoglio il certificato della Myanma Timber Enterprise dei militari; tra i clienti vengono segnalati nomi grossi del design italiano come Molteni, Dada, B&B, TiSettanta, Poliform, Tecno, Plaxil, Mediland, Fantoni. Abbiamo provato a contattare queste aziende per chiedere se hanno in catalogo prodotti fatti con tek birmano, ma nessuna di loro ha voluto rispondere. Inutile anche chiedere ai negozianti che trattano questi marchi: da una nostra personale indagine nei negozi milanesi del grande design, nessun commerciante sapeva dare delucidazione sulla provenienza delle componenti in legno di questi marchi. “Anche se parliamo di un mercato pari a soli diciassette milioni di euro (diciannove per la Cisl) – afferma De Martin – quando saranno finite le scorte di magazzino si prevede una situazione di crisi per tutto il comparto. Un peccato soprattutto per la cantieristica italiana , di cui il tek rappresenta l’orgoglio, con commesse di prestigio”. Ecco un punto saliente: il tek birmano viene in prevalenza usato, più che per i parquet, dai cantieri nautici che sfornano mega yacht (dai trenta metri in su, soprattutto oltre sessanta metri) destinati al mercato dei super ricchi. Miliardari che ordinano yacht da venti milioni di euro in su, arredati con tek birmano. I committenti? “In generale, il mercato dei multimilionari Usa o più spesso emiri del Golfo”, spiegano dalla Fiera Nautica di Genova. Su quarantotto milioni di birmani, trentotto milioni di loro vivono sotto la soglia della povertà, con meno di un dollaro al giorno. Imbarcazione di lusso rivestita in Tek al Porto vecchio di Genova. Italia 2007. Ivo Saglietti/Prospekt.


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Italia

Addio al futuro di Michela Murgia Il lavoro precario in Italia: una generazione che non fa più figli, che non si può permettere un affitto e che spera a ogni fine del mese che non gli vengano meno i genitori, almeno fino a quando le condizioni non cambieranno. o sanno tutti che in Italia, a parlare del lavoro come di qualcosa che ha qualche relazione con la vita di chi lo svolge, si corre il serio rischio di sentirsi dare dei mistici. Pur di non affrontarlo in questi termini si dà vita a uno “stupidario sul precario” al quale ogni tanto, oltre ai politici di ogni schieramento, contribuiscono volentieri anche giornalisti compiacenti, con sedicenti inchieste mirate a dimostrare quanto si possa essere incredibilmente felici anche con un impiego a singhiozzo. Che sui contratti precari non fosse il caso di farci su nessuna lotta deve essere apparso evidente non appena il governo Prodi, che aveva in programma una riforma della legge 30/2003, detta impropriamente legge Biagi, nel gioco del do ut des ha ceduto alla regola che non si può avere tutto: pseudo-liberalizzazioni contro flessibilità. In cambio della rinuncia, la parte sinistra del suo cuore debole ha ottenuto un abbozzo di redistribuzione che consolasse le fasce di votanti iscritte ai sindacati. Alla legge sul lavoro sono stati fatti insignificanti ritocchi: intatto lo spirito e tutti i suoi evidenti danni, nel più placido dei silenzi sociali. Allora il rischio di farsi dare del mistico forse vale la pena di correrlo, fosse anche solo per ricordare l’ovvietà che il lavoro umano è indivisibile da chi lo compie, perché è una espressione fondamentale dell’identità della persona che lo svolge. Non è frutto solo di un fare, ma anche di un precedente saper fare, di un voler fare, di una contestuale attenzione, del senso di responsabilità, del tempo, della cura, della passione, del genio umano a qualunque livello lo si consideri. Ogni lavoro è diverso anche quando è lo stesso lavoro, perché i lavoratori sono tutti diversi e nello svolgere quel mestiere mettono in campo elementi personali ai quali non è possibile attribuire un valore economico che non sia puramente simbolico. Per questa sua natura di espressione dell’identità umana irripetibile, il lavoro è strettamente collegato agli altri aspetti della vita del singolo: gli affetti, i legami familiari, la salute, l’istruzione, il tempo libero. Ecco perché i contratti di lavoro nazionali prevedono che la salute sia tutelata, che le ferie e i periodi di aggiornamento professionale siano riconosciuti, che la malattia sia coperta, che l’assenza per maternità e i congedi

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per altri fatti personali siano economicamente coperti: ciascuno di questi aspetti influenza in modo determinante la qualità del lavoro e la possibilità stessa di svolgerlo al meglio. Perciò chi elabora le norme che regolano i contratti di lavoro deve restare consapevole agire in maniera diretta su tutti gli altri ambiti vitali delle persone sotto contratto. a se chi legifera non ha questa concezione del lavoro, e lo considera una merce o un elemento puramente funzionale alla produzione, alla stregua di un macchinario o di una partita di materia prima, è ovvio che gli aspetti collegati al lavoro non verranno più considerati interdipendenti, ma elementi del tutto estranei al suo svolgimento, quando non veri e propri impedimenti al processo produttivo. In questa logica ammalarsi rende il lavoratore inabile, che voglia fare un figlio lo rende dannoso, le ferie sono una pretesa, i permessi un privilegio da chiedere con gratitudine, la pensione il regno dei forse e dei non so. Se il lavoro è davvero una merce, tutto quello che è collegato al lavoro diventa un costo di produzione, e in ambito aziendale ridurre i costi di produzione è indispensabile per rendere il soggetto competitivo sul mercato. Anche se questi costi si chiamano diritti. È secondo quest’ultima disumana concezione che è stata concepita la legge 30/2003 . Ed è quindi secondo questa ultima concezione che va ridefinita la precarietà: precario non è il mestiere di chi non ha un lavoro stabile, non è una nuova inevitabile categoria sociale, non è il vezzo dei giovani che vogliono l’emozione di “restare liberi”. Precario è qualunque mestiere che abbia condizioni contrattuali tali da ledere in modo duraturo la vivibilità degli altri ambiti dell’esistenza. Non è il futuro: dopo cinque anni di legge 30/2003 una generazione così in Italia c’è già, ed è quella che non fa più figli, che non si può permettere un affitto e che spera a ogni fine del mese che non gli vengano meno i genitori, almeno fino a quando le condizioni non cambieranno. Mistici anche loro, probabilmente.

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In alto: Lavoro temporaneo. Italia 2007, Massimo Di Nonno/Prospekt. In basso: Colloquio di lavoro presso un’agenzia di lavoro interinale. Milano, Italia 2007. Massimo Di Nonno/Prospekt


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Migranti

Tregua apparente Di Gabriele Del Grande I migranti morti lungo le frontiere dell’Unione europea nel mese di gennaio 2008 sono almeno 22, divisi tra Spagna, Sahara occidentale, Algeria, Grecia, Italia e Turchia. ono 11.778 le vittime dal 1988. Un dato in netto calo rispetto alle oltre 243 vittime censite a dicembre. Ma la situazione alle frontiere è tutt’altro che rosea. Rivolte nei campi di detenzione dei migranti in Francia, Grecia, Cipro e anche in Italia, dove a Cassibile sono stati arrestati cinque richiedenti asilo per aver bloccato i cancelli del centro in segno di protesta. Continuano i respingimenti dei profughi da Ancona e Venezia verso Patrasso, dove la polizia greca sta deportando centinaia di rifugiati verso la Turchia. Un nuovo rapporto della Commissione Libe attacca le condizioni di detenzione a Malta. E intanto la Libia, che ha appena firmato un accordo con Malta, dopo quello con l’Italia, annuncia l’imminente deportazione di un milione di stranieri, tra i quali potrebbero finire anche i 600 rifugiati eritrei detenuti da ormai due anni a Misratah. La stessa sorte toccata ad almeno 4.000 richiedenti asilo eritrei rimpatriati dal Sudan, secondo il Sudan Tribune. Per loro, come testimonia un esclusivo video recentemente diffuso da Fortress Europe, la prospettiva è quella di anni di carcere e torture. Come spetta ai disertori di un esercito in guerra. Mariano Ruggiero, 46 anni, è finito in carcere con l’accusa di omicidio. I fatti risalgono alla notte del 10 gennaio. Cinquanta miglia a sud di Lampedusa, un gommone con a bordo 60 profughi somali incrocia il peschereccio barese comandato da Ruggiero. Uno dei profughi si tuffa in mare e raggiunge a nuoto il peschereccio per chiedere soccorso. Ma Ruggiero non lo vuole a bordo e dopo una colluttazione lo butta in mare. L’uomo annega. Il suo corpo scompare tra le onde. A denunciare l’accaduto sono gli altri profughi, una volta arrivati a Lampedusa. La versione è confermata dagli altri quattro uomini dell’equipaggio. Si tratta di un episodio senza precedenti. Il 14 gennaio 2008, il Gip di Agrigento convalida l’arresto di Ruggiero. Lo stesso giorno, il tribunale di Agrigento ospita le udienze di altri due processi, niente affatto distinti dal caso Ruggiero. Quello contro i sette pescatori tunisini e quello della Cap Anamur. Ovvero i due processi simbolo contro il soccorso in mare. Due processi che hanno insegnato ai pescatori a girare alla larga dalle barche dei migranti per non avere guai giudiziari. Gli stessi guai che forse anche Ruggiero voleva evitare.

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adar contro le stragi? Delle 22 vittime censite a gennaio, 18 erano dirette in Spagna. Si continua a morire, nonostante il sistema integrato di vigilanza Sive, una rete che conta 23 stazioni radar lungo la costa andalusa e altre 27 nelle Canarie (di cui 16 in costruzione). Un sistema capace di distinguere un oggetto di mezzo metro a una distanza di 21 km dalla costa e quindi di rendere più celeri i soccorsi. Peccato però che per sfuggire agli occhi del Sive i migranti si avventurino su barche sempre più piccole, che sotto il soprappeso navigano al pelo dell’acqua e sono invisibili ai raggi infrarossi dei radar, nascoste dalle creste delle onde. Come

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la barca arrivata a Conil il 22 gennaio e capovoltasi a un metro dalla spiaggia, o quella naufragata a Barbate all’inizio dell’anno: dieci morti annegati. Certo gli arrivi nella Penisola sono diminuiti del 24 percento nel 2007 e i morti nello stretto di Gibilterra, anche grazie ai radar, sono passati da 215 nel 2006 a 131 nel 2007. Ma questo costo di vite umane rimane inaccettabile. Non saranno i radar a fermare la strage, in assenza di politiche di mobilità dei migranti africani, di re-insediamento dei rifugiati e di forte investimento economico nell’area mediterranea. le Nodye, discendente di una famiglia di pescatori di Kayar, in Senegal, da sei anni guadagnava dalla pesca sì e no il necessario per coprire le spese del carburante della piroga. Così ha deciso di partire, con 87 passeggeri, a bordo di quella stessa barca, verso la Spagna. Il viaggio è finito male. È stato rimpatriato. Suo cugino è morto annegato. Eppure Nodye vuole ripartire. “In Spagna potrei lavorare in mare, qui non c’è più pesce” dice al New York Times. Gli scienziati gli danno ragione. La pesca intensiva e spesso clandestina di una flotta di pescherecci europei, russi e cinesi hanno devastato i banchi di pesce. Lo stesso presidente del Senegal, Abdoulaye Wade, accusa l’Europa: “Vogliamo pescare pesce , non cadaveri”. E continua: “Avevamo i banchi più ricchi del mondo, ma i nostri fondali sono stati spogliati dalla pesca clandestina europea e asiatica”. La storia si ripete. E il protagonista è l’Unione europea, che con una mano depreda le risorse di un intero continente e con l’altra chiude le vie di fuga di chi cerca di tornare a prendersi ciò che gli spetta. Gennaio conta tre vittime anche sulle rotte che dalla Turchia, via Grecia, portano in Italia verso il nord Europa. La prima frontiera da valicare è quella tra Edirne e Didimotiho, tra Turchia e Grecia. Lì il confine corre lungo il corso del fiume Evros. Basta attraversarlo, il più delle volte su gommoni, per ritrovarsi in Grecia e da lì proseguire nascosti nei camion che ogni notte attendono il loro carico umano. Il 15 gennaio era una di quelle notti. I passatori turchi stavano trasportando un carico di profughi da una parte all’altra del fiume. Qualcosa è andato storto. La barca si è rovesciata. E una donna è finita in acqua ed è morta annegata subito dopo, scomparendo tra le acque gelate dell’Evros. Due settimane dopo, il 30 gennaio, l’equipaggio dell’Ariadne, un traghetto di linea tra Patrasso e Venezia, scopre i resti di un uomo nella stiva della nave, dove si era nascosto per raggiungere l’Italia e proseguire il suo viaggio. Lo stesso progetto che aveva il quattordicenne afgano morto una settimana prima, il 22 gennaio, divorato dall’asfalto mentre viaggiava legato sotto un camion partito dalla Grecia e sbarcato ad Ancona.

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In alto: Gruppo di immigrati. In basso: Una donna con il figlio appena sbarcati. Lampedusa, Italia 2007. Samuele Pellecchia /Prospekt


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Rubriche

In edicola di Claudio Sabelli Fioretti

Che fatica leggere i giornali In tivù di Sergio Lotti

Scatti di orgoglio Sarà anche vero che questa campagna elettorale è iniziata all’insegna della chiarezza, come dicono gli esperti. Ma per il momento, in televisione, aumentano soprattutto i dubbi e gli interrogativi. Quando, per esempio, il leader dell’Udc Pierferdinando Casini dice che lui non si sognerebbe neppure di essere un trasformista, che cosa vorrà dire? Si tratta di una battuta a effetto o di una excusatio non petita? La prima volta che l’ha detto, i telespettatori, nel dubbio, si sono trattenuti dal ridere e hanno fatto bene, perché dal momento che ha continuato a ripeterlo nei vari talk show, vuol dire che forse Pierferdy parlava sul serio. Difatti da qualche settimana non ha più cambiato idea. Quello che ancora non si è chiarito, invece, è il dubbio sollevato da Giulio Tremonti, vice segretario di Forza Italia, quando a Ballarò Dario Franceschini, vice di Walter Veltroni, in un afflato di generosità dialettica ha ammesso che considerava positiva per la politica italiana l’operazione di Forza Italia di unirsi alla destra, portandola verso il centro. Invece di gongolare, Tremonti si è irritato moltissimo, davanti ai volti attoniti dei presenti, che pensavano: forse ci siamo persi qualcosa, non sarà che nel frattempo il leader di An, Gianfranco Fini, nei giorni di carnevale è volato nei Caraibi a rendere omaggio al subcomandante Marcos, travestito da Bertinotti? Quanto tutte queste discussioni interessino i cittadini, lo ha spiegato un gruppo di ragazzi invitati ad Annozero, che vivono nelle periferie milanesi, guadagnano poche centinaia di euro al mese facendo lavori saltuari e vedono i loro amici e parenti morire di cancro perché da decenni nessuno si preoccupa di togliere l’amianto dalle loro case. Delle vostre inutili chiacchiere di privilegiati che se la spassano a Roma grazie a stipendi d’oro non ce ne potrebbe fregare di meno, hanno detto testualmente, ci fanno solo incazzare di più. E qui si è sfiorato il dramma: mentre un cupo Furio Colombo, senatore democratico, continuava a chiedere sgomento ai quei ragazzi di cosa volevano che parlasse, la fascinosa Stefania Prestigiacomo ha avuto uno scatto d’orgoglio: ma come si permettevano, quegli screanzati, di trattare così una donna che lavora tutta la settimana lontana dalla famiglia? E l’indignazione era tale che è apparsa visibile anche da una ciocca di capelli di traverso sulla fronte e da una insolita piegolina sul candido pullover di cachemire. 26

Ogni tanto mi capita di sfogliare vecchi quotidiani o, visto che ho quasi sempre lavorato in periodici, mi capitano fra le mani anche collezioni di Panorama, dell’Espresso, dell’Europeo. L’impressione è agghiacciante. Sembra di scoprire pubblicazioni dell’Ottocento. In questi trent’anni l’aspetto grafico esteriore delle pubblicazioni è stato sconvolto. Le pesanti colonne di piombo hanno lasciato il campo a impaginazioni leggere, piene di box, foto, titoli colorati. La rigida contrapposizione fra pubblicità e testi redazionali è praticamente scomparsa. Spesso sembra di comprare dei depliant invece che dei quotidiani politici. Sembra impossibile che noi abbiamo passato il nostro tempo con gli occhi persi su quel nero plumbeo, su quelle foto grigie, su quei titoli pesantissimi, su quegli articoli lunghissimi che riempivano pagine e pagine, composti con caratteri molto piccoli. Oggi, bisogna dirlo, la lettura ci viene facilitata in tutte le maniere. I colori brillanti mettono allegria e invogliano addentrarsi nell’articolo. I titoli colorati fanno pensare a testi comprensibili e chiari. Gli articoli corti e spezzati da continui titoletti non mettono paura e consentono di “entrare” nel pezzo anche a metà, saltando inizi magari supposti noiosi. Titoli, occhielli e catenacci si moltiplicano nella pagina e consentono di leggere anche senza leggere, lasciandoci nella convinzione di avere letto. Insomma, i giornali di oggi, da questo punto di vista, sono molto più gradevoli di quelli di ieri. E allora perché leggere i giornali è diventato più faticoso? Probabilmente è perché alla continua rivoluzione grafica ha fatto riscontro una involuzione dei contenuti. Oggi i giornali sono brutti dentro. L’arrivo dei computer e il conseguente ridimensionamento degli organici ha causato un decadimento del controllo della qualità e della qualità stessa. Titoli che

non corrispondono al contenuto dei pezzi, continui refusi causati spesso dai correttori automatici dei computer (convincere un elaboratore elettronico a non correggere in “bottiglione” quando io scrivo Buttiglione è un’impresa disperata), ripetizione di articoli messi uno accanto all’altro ma contenenti le stesse notizie, abbandono quasi totale della regola delle cinque “W”, chi, come, quando, dove e perché, sono gli aspetti più evidenti di questo abbassamento di livello. Io credo che alla fine aver trasformato i giornalisti in tanti polli in batteria, inchiodati davanti al video per tutto il giorno dopo aver sognato per una vita di fare un lavoro romantico e divertente sia all’origine di tutto questo. È vero, ci sono le firme, le grandi firme, che viaggiano, fanno le grandi inchieste e le grandi interviste. Ma poi tutto il materiale viene riversato dentro i file, titolato, riempito di box e boxini, affiancato alla stragrande quantità dei pezzi di provenienza di agenzia. E alla fine il minestrone è immangiabile. La mancanza di fantasia e di idee è totale e la gara è a chi insegue di più e meglio l’agenda dettata dalla televisione. E la prospettiva non è bella. Il futuro si presenta peggiore. Gli editori si guardano bene dall’investire – come si dice - sulle risorse (cioè i giornalisti). Comprano nuove rotative, pubblicano nuovi supplementi, e nel prodotto sempre più gadget. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Completamente disinteressati a quello che comprano, la maggior parte degli italiani vanno in edicola (in quella specie di souk che è ormai diventata l’edicola) e chiedono: “Mi dà il quotidiano con allegato il mazzo di carte? Mi raccomando, quelle col dorso blu. Quelle col dorso rosso le ho già prese ieri”. Fine della centralità del giornalista. Trionfo della centralità del burraco. www.sabellifioretti.it


A teatro di Silvia Del Pozzo

L’era degli uomini-libro Se in una società schiava di una globalizzazione televisiva di basso livello, il regime, un regime, uno qualunque, imponesse di bruciare i libri, per distruggere la memoria, la cultura, la libertà di

pensare e quindi scegliere? Lo scenario è terrificante e giureremmo che può appartenere solo a un futuro lontano, eppure già oggi sono molti i segni che lo fanno intravedere. Ray Bradbury, mago americano della letteratura fantascientifica, lo ha immaginato negli anni Cinquanta nel romanzo Fahrenheit 451 (la temperatura a cui brucia la carta), da lui stesso ridotto per il teatro e che Luca Ronconi porta oggi in scena. Uno spettacolo “incendiario e incendiato”, in senso letterale visto che ogni sera in palcoscenico prendono fuoco cataste di libri. Il regista lo propone come una metafora, un monito, dice, “alla necessità della memoria” che in quella società di pompieri trasformati in piromani sono in pochissimi ad avvertire. Lo capiscono Clarissa e suo nonno, lo nega con rabbia il duro e provocatorio capo dei pompieri (che pure si è nutrito di libri ma in essi non ha trovato le “sue” risposte) e lo coglie poco a poco Montag, il pompiere semplice, un po’ ingenuo ma curioso di quelle parole che fa fatica a leggere. Lo spettacolo di Ronconi è magnifico e intensissimo, recitato benissimo e con una regia che regala sorprese emozionanti. Come quegli uomini-libro (ciascuno ha imparato a memoria un testo perché non vada perduto) che appaiono tra gli spettatori a ricordarci forse, come dice Ronconi “che un libro non letto è già un libro bruciato”.

Motown nel cuore, era assurto a eroe della classe operaia britannica negli anni delle feroci battaglie contro Margaret Thatcher. Fondamentale anche il suo supporto all’antirazzismo, e successivamente alla perestrojka di Gorbaciov quando il comunismo russo stava iniziando a sgretolarsi. Erano sei anni che non incideva un disco, ma non era fermo: numerosi show, molte buone cause sostenute con le sue canzoni, una biografia pungente come la sua testa e la sua vita (The Progressive

Patriot), perfino un nuovo testo inglese, preparato su commissione, da adattare all’Inno alla Gioia di Beethoven. Le fonti di ispirazione del nuovo lavoro sono le solite: Dylan, Donovan, Johnny Cash, e in questo caso molto Van Morrison. A dargli una mano un quintetto di bei perdenti come lui, i Blokes. Più un prezioso cameo targato Robert Wyatt. L’album, disponibile in due versioni (una con la band e una con le stesse canzoni suonate da solo), è come vorresti che fosse: piacevole e impegnato. D’altra parte Bragg non ha perso il vizio. In questo periodo ha lanciato il progetto “Jail guitar doors”: raccoglie soldi per comprare strumenti musicali da offrire ai detenuti. Ha già messo assieme 10.000 sterline, circa 14.000 euro. Una statistica ha richiamato l’attenzione di David Hanson, il ministro il cui dicastero controlla le prigioni di Sua Maestà: i detenuti che hanno collaborato con Billy Bragg, una volta rimessi in libertà, sono tornati a commettere reati in una percentuale che va dal 10 al 15 percento. La media nazionale britannica è invece del 61 percento. Il ministro sta pensando a come sponsorizzare l’iniziativa… Billy Bragg, “My love justice”, Cooking Vinyl

Modena City Ramblers In un periodo in cui l’Italia esporta solo le inquietanti immagini della immondizia napoletana e le imbarazzanti cronache dai palazzi della politica, ben

Vauro

“Fahrenheit 451”, Palermo, Teatro Biondo, dal 7 al 20 marzo.

Musica di Claudio Agostoni

Billy Bragg Teorico del “socialismo del cuore”, Billy Bragg è l’erede naturale della tradizione folk protestataria di Woodie Guthrie e Phil Ochs: è un menestrello punk-comunista dalla mente lucida e dalla lingua affilata. Nato cinquant’anni fa nell’Essex, Regno Unito, con il Capitale di Marx in mano e il soul della 27


venga un disco che cerca di dare una immagine diversa dell’Italia. I MCR sono da sempre una band con la vocazione per il viaggio: da una parte concerti in giro per l’Europa tra piccoli club ed importanti festival, dall’altra ‘missioni’ cultural politiche in angoli del mondo dove più che musica si sentono suonare bombe e mitragliatrici (Palestina, Sahara Occidentale…). Ora arriva un disco da ‘esportazione’: “Bella Ciao - Italian combat folk for the masses”. L’ album, realizzato in collaborazione con Terry Woods, storico musicista dei Pogues (che ha affiancato la band emiliana alla produzione e alla composizione della track list), verrà distribuito in tutto il mondo partendo da Olanda, Belgio, Svizzera, Francia, Lussemburgo, Austria e Germania. Gran parte delle canzoni appartiene al repertorio storico dei MCR, dal primo disco “Riportando tutto a casa” (1994) fino proprio al recente “Dopo il lungo inverno” (2006). I brani selezionati sono stati risuonati, ricantati, riarrangiati ed in qualche caso trasposti in lingua inglese come “Ebano” (divenuta “Ebony”) e “Musica del Tempo” (“Music of the Time”). L’album presenta anche due inediti di conclusione: la storica versione di “Bella Ciao” delle mondine (completamente “reinventata” e interpretata da Betty in una struggente e malinconica versione, “Mondina’s Bella Ciao”) e un “traditional” americano dalle evidenti origini “irish”, “Roisin the Bow”. Modena City Ramblers, “Bella Ciao - Italian combat folk for the masses”, Mescal

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Al cinema di Nicola Falcinella

interrompe bruscamente. Il film - nominato all’Oscar per le musiche di Alberto Iglesias – è stato proibito nell’Afghanistan “liberato” di oggi perché “potrebbe incitare alla violenza” per via

Il cacciatore di aquiloni Dalle pagine di carta al film, da uno dei grandi successi letterari degli ultimi anni a una pellicola ben confezionata che aspira a replicarne la risonanza. È “Il cacciatore di aquiloni” di Marc Forster, dal bestseller di Khaled Hosseini, nelle sale dal 21 marzo. Una storia di amicizia attraverso i decenni fra due ragazzini afgani che si perdono e si ritrovano sullo sfondo dei travagli di uno dei Paesi più sfortunati di oggi. Una produzione americana, nientemeno che la Dreamworks di Spielberg, con un regista svizzero di nascita e adottato da Hollywood, già autore di diverse opere lodate da pubblico e critica: tra i suoi lavori “Monster’s Ball”, “Neverland – Un sogno per la vita”, “Stay” e “Vero come la finzione”. Il film, sceneggiato da David Benioff (“La 25° ora”, “Stay”, “Troy”), racconta la storia di amicizia e separazione di Amir, ragazzo afgano pashtun di Kabul, e Hassan, figlio del suo servo hazara. La storia si muove lungo trent’anni, dal periodo precedente all’invasione dei sovietici dell’Afghanistan fino all’avvento dei talebani, passando per la violenza al piccolo Hassan da parte di coetanei pashtun e per quelle subite da un intero popolo da parte di fanatici religiosi. Dalla tranquilla Kabul degli anni ‘70 ai giorni nostri. Un forte legame d’amicizia tra due bambini che si

della scena di stupro ai danni di uno dei ragazzini. E i tre bambini protagonisti – afgani anche se le riprese sono state effettuate nella Cina occidentale (Kashgar, Pamir Mountains, Tashgarkan, Xinjiang) – sono stati allontanati da casa per paura di ritorsioni. Gli attori sono quasi tutti non professionisti, ma ci sono Shaun Toub (visto in “Crash – Contatto fisico”) e Said Taghmaoui (“L’odio”, “Ideus Kinky – Un treno per Marrakech”, “Three Kings”, “Oceano di fuoco – Hildago”).


In libreria di Giorgio Gabbi

lettere a un chirurgo confuso

Sonata per i porci di Giorgio D’Amato La materia è greve. La narrazione ha il suo climax nella rievocazione del periodo più tragico delle tante (e tutt’altro che finite) sofferenze del popolo curdo: quando nel 1988 la popolazione civile fu bombardata con i gas tossici durante la guerra fra Iraq e Iran. Di fronte all’orrore delle conseguenze genetiche del gas sui sopravvissuti, l’autore impiega forme amarissime di sarcasmo. “Le donne incinte sono rimaste di stucco nel vedere uscire dai loro grembi figli barocchi. Figli senza mani… talvolta senza un piede… per non dire dei palati lupini, così che il muco passi direttamente nella cavità orale. Incommensurabile il risparmio in fazzolettini di carta.” Insomma, una lettura per palati forti, come ci si può aspettare da un testo che fa rivivere, con le parole dei sopravvissuti, le infamie del genocidio perpetrato dalle milizie baathiste di Saddam Hussein contro la popolazione curda nel Nord dell’Iraq. Basti pensare che nella regione dei Monti Zagros, al confine con l’Iran, furono rasi al suolo 4.000 dei 4.655 villaggi dell’area e ne furono sterminati 182.000 abitanti, in gran parte civili inermi: uccisi dai gas tossici, dalle fucilazioni in massa, o vittime di stenti e di malattie contratte in luoghi di detenzione di indicibile orrore. Il titolo del libro è un po’ sconcertante: si riferisce all’atteggiamento dei carnefici che macellavano i propri concittadini come se fossero animali immondi, negando loro ogni dignità umana. Protagonista del romanzo è una donna siciliana dal cuore arido: nata in una famiglia benestante di piccoli imprenditori, diventata imprenditrice lei stessa per ragioni di eredità, quindi fallita, ridotta in miseria, scappata in Germania e infine costretta a guadagnarsi da vivere nella cucina di un modestissimo ristorante. Dove detesta tutto quello che fa e che le sta intorno, finché incontra un profugo curdo. E la sua esistenza disperata riacquista un senso. Michele Di Salvo Editore, 2007, pagg. 176, € 10,00

scrivi a chirurgo@peacereporter.net Caro Gino, in questo periodo si è tornati a parlare tanto di interruzione di gravidanza, addirittura Giuliano Ferrara ha fatto una lista elettorale incentrata sul tema dell’abolizione dell’aborto. Addirittura si chiede che le Nazioni Unite facciano, come per la pena di morte, una richiesta di moratoria internazionale. Mi piacerebbe sapere da te, che sei anche medico, cosa ne pensi. Sara - Modena

Cara Sara, ho visto che negli ultimi tempi, in Italia, è stato riaperto il dibattito sull’aborto. È stata anche lanciata una grande “campagna per la vita”. Uno slogan inattaccabile. Chi può dire di essere contro la vita? I promotori della campagna, però, espongono le loro motivazioni con toni violenti. Si sente odore di caccia alle streghe contro chi non la pensa come loro, e questo è il primo dato inquietante. I toni violenti, generalmente parlando, non sono il miglior indice di “rispetto per la vita”. Nel mio lavoro di medico in giro per il mondo mi sono trovato ad affrontare il problema, ad esempio, degli aborti selettivi contro le bambine. È pratica ancora in uso in una buona parte del mondo e ha poco a che fare con i dettami religiosi, se si pensa alla sua diffusione geografica. In quei Paesi dove il rischio di aborti selettivi è concreto, la politica di Emergency è di non rivelare ai genitori il sesso del nascituro. Una soluzione per contrastare una pratica che, eticamente, non potremmo condividere, proprio in nome del rispetto della vita umana contro qualsiasi discriminazione. Poniamo invece il caso di una gravissima malformazione del feto, incompatibile con una vita dignitosa: in quel caso, da medico, sarei tenuto a dare tutte le informazioni di cui dispongo alla mia paziente, e di impegnarmi a fare tutto il possibile per migliorare la qualità della vita sua e del bambino che porta in grembo. Però mai potrei sostituirmi alla coscienza dei miei pazienti: la scelta spetta a loro. Anche perché saranno loro a dovere fare i conti, tutta la vita, con la malattia di loro figlio. Peraltro, la società in cui viviamo è in grado di accogliere e convivere con la malattia?. La risposta è sconfortante. Anche nel nostro ricco mondo (o soprattutto nel nostro ricco

mondo?) le famiglie sono sempre più lasciate sole, senza mezzi per occuparsi delle malattie croniche o invalidanti, senza sostegno da parte dello Stato, senza strutture. Io credo che ragionare sulla vita abbia poco senso se non si parla anche di qualità della vita. E non solo per i nascituri, per i feti, per gli embrioni, ma anche per i bambini, per gli adulti, per gli anziani. Questa “campagna per la vita” si richiama ai valori della Dichiarazione universale dei diritti umani. Un documento fondamentale, che a dicembre compirà sessant’anni, e che tuttavia continua a rimanere lettera morta. Non c’è un posto al mondo in cui quei diritti, sanciti e sottoscritti, siano davvero applicati. Decine di milioni di persone muoiono ogni anno per la fame, undici milioni di bambini ogni anno muoiono per malattie prevenibili, centinaia di migliaia per la guerra e i suoi effetti. Com’è possibile che questi difensori della vita ad ogni costo siano pronti a levare gli scudi per i diritti degli embrioni e si trovino entusiasticamente, per dirne una, a difendere le guerre? Se sono davvero così interessati alla vita, perché non proporre anche una moratoria sulla guerra, che senza dubbio nega la vita, è proprio il contrario della vita? Si discute se otto cellule siano già una vita oppure no. Il dibattito scientifico è aperto. Io non ho la risposta. So di per certo, però, che ogni giorno, negli ospedali di Emergency in giro per il mondo, ci troviamo di fronte pazienti che per colpa della guerra e dei suoi effetti hanno perso miliardi di cellule certamente vive: braccia, gambe, e anche bambini. Ogni trenta secondi, nel mondo, muore un bambino. I nostri ospedali sono aperti ventiquattr’ore al giorno: questo è il nostro modo di rispettare la vita. Gino Strada

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Per saperne di più

http://www.russia.it Panoramica generale sulla Russia, in italiano. http://www.yandex.ru/ Tutto, ma veramente tutto, sulla Russia.

Russia LIBRI ANNA ZAFESOVA, E da Mosca è tutto, Utet, 2005. Un libro che per la profondità dell’analisi e per la prosa brillante e ‘visiva’ si inserisce a pieno titolo nella più alta tradizione del reportage giornalistico. Dalle stragi cecene all’organizzazione della scuola, dalle irresistibili ascese degli oligarchi post-comunisti al ‘problema casa’, dalla religiosità alle discoteche, non c’è aspetto della Russia odierna che sia sfuggito all’occhio partecipe e ironico dell’autrice. La Zafesova, che lavora a La Stampa, è stata per anni corrispondente da Mosca. LILIA SHEVTSOVA, Russia, Lost in Transition, Carnegie Endowment, 2007. Purtroppo non ancora tradotto in italiano, è probabilmente il miglior contributo per comprendere la Russia contemporanea. L’autrice, ricercatrice del prestigioso istituto Carnegie Endowment For International Peace, analizza l’ultimo ventennio, focalizzando la sua attenzione sull’eredità di Eltsin e Putin. Con l’avvento della Russia come attore principale nel mutato palcoscenico internazionale, diventa di fondamentale importanza comprendere (e far comprendere) ciò che sta accadendo nel Paese alla luce del recente passato: gli anni di Eltsin e Putin percorrono infatti fasi diverse, dal paradosso – e dalle debolezze – del ‘capitalismo burocratico’ all’integrazione degli oligarchi nell’apparato statale, fino alla nuova aggressività nella politica estera russa. ANNA POLITKOVSKAYA, Diario Russo 2003-2005, Adelphi, 2006. Gli ultimi tre anni di lavoro di una giornalista che ha sacrificato la vita per la verità. Il libro-testamento della redattrice del principale quotidiano di opposizione russo, la Novaya Gazeta, narra di un Paese che ha mandato in esilio la propria coscienza, dove le forze democratiche si sono condannate a morte politica, dove solo chi è toccato nel proprio interesse si sveglia per puntare il dito contro il ‘potere’. È quest’ultimo il bersaglio della denuncia civile della Politkovskaya: “Mosca sta diventando la città politicamente più inerte. Se la rivoluzione ci sarà, verrà dalla provincia”, scrive il 27 marzo 2005. Oppure, il 18 agosto dello stesso anno: “Questo è uno Stato che fagocita senza saper digerire. Poi, profeticamente, qualche giorno dopo: “La crisi è inevitabile, ma non la vedremo. Peccato, avrei gradito”.

SITI INTERNET http://www.ruvr.ru Il sito migliore per capire i processi politici che stanno trasformando il Paese è la Voce della Russia, una radio che trasmette in italiano i suoi notiziari e rubriche. http://www.moscowtimes.com Il più grande quotidiano russo in lingua inglese. Fondato nel 1992 dall’ex direttore del quotidiano ‘Izvestia’, si rivolge alla comunità straniera e ai businessmen della capitale. La versione stampata vende circa 150 mila copie. http://www.izvestia.ru In russo, è il sito di uno dei più antichi quotidiani del Paese. Fondato nel 1917, ‘Le notizie’ è stato il quotidiano di riferimento della perestrojka e delle riforme democratiche. Attualmente privilegia inchieste sulla corruzione e sull’inerzia degli apparati statali. 30

FILM MIKHAIL KALATOSOV, Quando volano le cicogne, U.R.S.S. 1957. Veronika e Boris sono due giovani moscoviti che si innamorano l’uno dell’altro appena prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. Boris deve partire per il fronte e Veronika, rimasta sola, per far fronte alle difficolta economiche della sua famiglia accetta di sposare il ricco cugino, pur non amandolo. Alla fine della guerra, lei attenderà il ritorno di Boris dal fronte, nella speranza vana di poterlo riabbracciare. NIKITA S. MIKHALKOV, Oci Ciornie, U.R.S.S. 1987. Vecchio viveur imbarcato su una nave da crociera, racconta a un passeggero russo la storia della sua vita, dal fallimento del suo matrimonio con una ricchissima donna, alla dolcissima passione per una donna dagli occhi neri conosciuta alle terme e poi inseguita fino in Russia. ANDREI KONCHALOVSKY, La casa dei matti, Russia1996. Durante la prima guerra cecena, un ospedale psichiatrico si trova vicino alla prima linea. Janna e gli altri pazienti vivono ignari degli eventi esterni, ma sono stupiti quando il treno che ogni sera li divertiva tanto non passa più di fronte all’istituto. Una mattina il personale medico scompare, e nell’ospedale si scatena l’inferno, qualcuno decide di fuggire, ma l’eco dei bombardamenti li fa tornare di corsa, fino a quando le truppe russe si installano nell’ospedale e Janna si innamora di un soldato. Una riflessione amara sulla guerra e le sue atrocità.

Mafia LIBRI ADA BECCHI, GUIDO REY, L’economia criminale, Laterza, 1994. Scritto in forma di dialogo intervista, necessita di qualche conoscenza di base di economia per essere letto con profitto, ma è molto chiaro e interessante. Ha anche il pregio di affrontare i problemi dei rapporti tra mafia ed economia a 360 gradi. TOMMASO BUSCETTA, La mafia ha vinto, Mondadori, 1999. In una lunga e appassionata intervista concessa a Saverio Lodato, il capomafia spiega perché l’intreccio fra mafia, politica e istituzioni non è stato sciolto, perché - fra pregiudicati rimessi in libertà, infinite discussioni sul ruolo della magistratura, dispute sull’articolo 513 del Codice Civile e scioperi di avvocati - Cosa Nostra viene ancora sottovalutata. GIUSEPPE MARINO, Storia della mafia, Newton & Compton, 2008. Di mafie al mondo ce ne sono molte, ma è quella siciliana la mafia storica e la madre di tutte le altre. Il quadro degli eventi è tale da produrre un forte impatto sia sul lettore comune che sullo specialista. FRANCESCO BARRESI, Mafia ed economia criminale. Analisi socio-criminologica e giuridica di un’economia sommersa e dei danni arrecati all’economia legale, EdUP, 2007. La mafia con le enormi risorse finanziarie acquisite illegalmente altera il funzionamento della libera concorrenza. Il volume illustra il quadro internazionale della criminalità organizzata, analizza i meccanismi dell’economia criminale, le alterazioni

che essa provoca sui mercati economico-finanziari e riporta le misure di prevenzione e repressione della mafia adottate nel nostro paese. DANILO GUERRETTA, MONICA ZORNETTA, A casa nostra. Cinquant’anni di mafia e criminalità in Veneto, Baldini e Castoldi, 2006. “Parlare di mafia in Veneto? Ma se qui la mafia non c’è”. Quante volte si è detto e ripetuto: in Veneto si lavora sodo. In nessun’altra regione italiana, al di fuori di quelle meridionali, è nata un’organizzazione con le caratteristiche del 416 bis. Il Veneto l’ha avuta e l’ha chiamata Mala del Brenta. CORRADO STAJANO, Un eroe borghese. Einaudi, 2005. È la storia di Giorgio Ambrosoli, avvocato di Milano, incaricato dal governo di liquidare la banca di Sindona e assassinato nel 1979 da un killer giunto dagli USA su ordine del finanziere. È un libro costruito su documenti, sentenze, atti delle commissioni parlamentari d’inchiesta, diario di lavoro di Ambrosoli, testimonianze dirette. Ma sono i fatti, che si svolgono a Milano, nella Roma dei politici, nella Svizzera delle banche, a New York, a dare al libro un andamento romanzesco. Sullo sfondo l’ombra sinistra di Sindona e degli uomini politici che l’hanno aiutato.

FILM ROBERTA TORRE, Angela, Italia, 2002. Una storia di mafia al femminile girata con un registro diverso rispetto ai precedenti lavori della Torre. Esula dai soliti cliché di rappresentazione del fenomeno. MICHELE PLACIDO, Un eroe borghese, Italia, 1994. Il libro di Corrado Stajano molto ben trasposto in versione cinematografica. PASQUALE SCIMECA, Placido Rizzotto, Italia, 2000. La sera del 10 marzo 1948 scompare nel nulla il segretario della Camera del Lavoro di Corleone, Placido Rizzotto. Per uno strano caso del destino, attorno alla sua sparizione ruotarono a vario titolo alcuni giovani che in seguito diventeranno importanti per la storia dell’Italia contemporanea: il capitano dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, che fece le indagini e arrestò gli assassini; il giovane studente universitario Pio La Torre, che sostituì Rizzotto alla guida dei contadini; e, dall’altra parte, Luciano Liggio e gli uomini della sua banda che, in seguito, diventeranno sempre più potenti all’interno della mafia.

SITI INTERNET http://www.misteriditalia.it/lamafia/ Senza avere l’ambizione di addentrarsi in analisi squisitamente sociologiche, l’obiettivo di queste pagine è quello di illustrare la nascita, il radicamento, lo sviluppoe gli intrecci con il potere legale dello Stato di queste organizzazioni criminali. http://www.libera.it/ Il sito della associazione Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, nata il 25 marzo 1995 con l’intento di sollecitare la società civile nella lotta alle mafie e promuovere legalità e giustizia. Attualmente Libera è un coordinamento di oltre 1.300 associazioni, gruppi, scuole, realtà di base, territorialmente impegnate per costruire sinergie politico-culturali e organizzative capaci di diffondere la cultura della legalità.


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