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mensile - anno 3 numero 3 - marzo 2009

3 euro

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

Gaza, la striscia capovolta

Transnistria Argentina Birmania Ucraina Egitto

Il coccodrillo che dorme Musica in caserma Un guerrigliero karen si racconta Chernobyl negli occhi di Pavel Nica Un quartiere di Milano al Cairo

Il diciottesimo fascicolo dell’atlante: Palestina: la terra, Gerusalemme, i profughi


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La guerra che verrà Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell'ultima c'erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente. Bertold Brecht

marzo 2009 mensile - anno 3, numero 3

Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Christian Elia Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Nicola Sessa Stella Spinelli Naoki Tomasini

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Blue & Joy Gabriele Del Grande Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Nicola Falcinella Giorgio Gabbi Paolo Lezziero Sergio Lotti Claudio Sabelli Fioretti Alessandro Ursic Vauro

Progetto grafico Guido Scarabottolo Oliviero Fiori Segreteria di redazione Silvina Grippaldi

Hanno collaborato per le foto Relazioni esterne Marco Formigoni

Samuele Pellecchia/Prospekt Alexey Pivovarov/Prospekt

Amministrazione Annalisa Braga Redazione e amministrazione Via Meravigli 12 20123 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net Stampa Graphicscalve Loc. Ponte Formello - 24020 Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 9 marzo 2009

Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Meravigli 12 - 20123 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07 Foto di copertina: Donna palestinese nella sua abitazione colpita da munizioni al fosforo bianco nel villaggio di Khuza'a. Gaza, 2009. Naoki Tomasini©PeaceReporter

Pubblicità SISIFO ITALIA SRL Vicolo don Soldà 8 36061 Bassano del Grappa (VI) Tel. 0424 505218 www.sisifoitalia.it info@sisifoitalia.it

L’editoriale di Maso Notarianni

Fossimo tutti americani...

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uba ai ricchi per dare ai poveri. Cerca di costruire un sistema sanitario nazionale nel Paese che dice di essere il faro della democrazia e del progresso e del benessere ma nel quale quasi novanta milioni di persone non hanno potuto curarsi nell'ultimo

anno. Poi, inaspettatamente, dice anche che vuole ripensare la strategia in Afghanistan, sospende l'invio di nuovi soldati, e addirittura - e finalmente - annuncia che sarà con i Talebani che si dovrà trattare. Chiude Guantanamo e vieta ai sui agenti segreti e ai suoi militari l'utilizzo della tortura. Mette le mani nella melma mediorientale e comincia forse a plasmare qualche forma. Per risollevare le sorti Usa dalla crisi annuncia che saranno tassati i capitali e redistribuite le risorse. E infine ribadisce la laicità dello Stato (lui solo purtroppo) permettendo la ripresa della ricerca con l’utilizzo delle cellule staminali che il bigotto suo predecessore aveva vietato. Insomma, parrebbe proprio che il nuovo presidente degli Stati Uniti d'America - perchè di lui stiamo parlando e non di un novello Martin Luther King - faccia sul serio. E di conseguenza che noi, giudicandolo forse troppo frettolosamente, ci si sia sbagliati nel dire che comunque, un capo di Stato Usa, non avrebbe potuto fare un granché visti i condizionamenti che subisce. Sarebbe davvero bello. Continuiamo a sperare nel meglio. E a darci da fare - soprattutto perché il meglio si realizzi, un poco alla volta. Qui da noi invece il vento non cambia. Ronde, xenofobia, neofascismo più o meno in doppiopetto ma senza alcuna vergogna. La violenza monta e viene celebrata da giornali e televisioni senza che nessuno abbia un sussulto. Senza che nessuno abbia la forza di fare un gesto, di lanciare un urlo. Il tutto mentre l'economia va a rotoli. Ma non quella della finanza virtuale. Quella reale. Fabbriche che chiudono, centinaia, migliaia di licenziamenti, produzioni ferme ovunque, ordini bloccati e magazzini traboccanti. Ma nulla di questo si vede nei telegiornali del regime democratico della Repubblica italiana che dovrebbe essere fondata sul lavoro. Migranti a pagina 24

Ucraina a pagina 22 Transnistria a pagina 12

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Birmania a pagina 20

L’informativa completa è disponibile sul sito di Picomax: www.picomax.it Scritti, disegni e fotografie anche se non pubblicati non verranno resi.

Argentina a pagina 18

Palestina a pagina 4 3


Il reportage Palestina

La Striscia capovolta Di Naoki Tomasini “Assapora il gusto delle olive e odora il profumo del gelsomino. Jawal ti dà il benvenuto in Palestina”. Questo l’sms con cui la compagnia telefonica che serve la Striscia di Gaza accoglie i medici e i giornalisti, appena superato il valico di Rafah, al confine con l’Egitto. Il furgone imbocca Salah ed Din street, la via che collega Rafah con Gaza città, quaranta chilometri più a nord. Rari lampioni e mille luci di generatori privati fanno emergere dalla penombra della sera sagome di edifici diroccati, inconclusi, abbandonati e distrutti. L’operazione Oferet Yitzuka, Piombo fuso, è conclusa da dieci giorni e il confine meridionale - rimasto chiuso dalla conquista della Striscia da parte di Hamas nel giugno 2007 - è stato parzialmente aperto per consentire l’ingresso di aiuti umanitari, per la popolazione della Striscia. a città di Rafah è divisa in due parti, una sul lato egiziano, l’altra su quello palestinese. Una barriera di metallo sormontata dalle torrette di osservazione delle guardie del Cairo divide famiglie e vicende storicamente intrecciate, e discrimina due economie radicalmente diverse. Il Sinai egiziano non è certo un territorio ricco, ma varcando i cancelli della Striscia si entra in un mondo diverso: è la vita sotto embargo. Per le strade dissestate della Striscia, auto fatiscenti e una moltitudine di carretti trainati da asini sono una conseguenza delle croniche carenze di carburante e dell’impossibilità di importare automezzi, se non a cifre esorbitanti. E gli strati di edifici abbandonati durante la costruzione, o danneggiati e mai riparati, si spiegano con il divieto di importazione di ferro e cemento. Ogni genere commerciale vale meno e costa di più. Fino a qualche anno fa le bancarelle del bazar di Rafah erano lussurreggianti di frutta, verdure e merci provenienti da tutto il mondo, i prezzi erano bassi e vi si poteva rimediare qualsiasi cosa. Oggi la varietà degli alimentari è molto ridotta e i prezzi sono alle stelle. Mentre i prodotti d'altri generi, dagli abiti agli elettrodomestici, sono per la quasi totalità prodotti in China. Questi ultimi, perlomeno, sono ancora alla portata delle tasche palestinesi, il cui potere d'acquisto si riduce sempre più. La chiusura dei confini della Striscia, imposta da Israele nella speranza che ciò spingesse la popolazione locale a rovesciare Hamas, ha avuto tra gli altri nefasti effetti quello di creare un ricco business, almeno per qualcuno: quello del contrabbando. La spianata di terra a ridosso della barriera che divide la parte palestinese di Rafah da quella egiziana si chiama Philadelphi route. E’ stata

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creata negli otto ultimi anni dai bulldozer israeliani, abbattendo centinaia di abitazioni civili. Dall’inizio dell’embargo, questa striscia di terra si è trasformata nel territorio delle talpe palestinesi, gli operai che scavano i tunnel per il contrabbando. Senza queste gallerie la popolazione della Striscia morirebbe di fame ma Israele, sostenendo di contrastare il commercio di armi, le bombarda. Qui la celebre accoglienza palestinese lascia il posto alla diffidenza: i gruppi di operai, alcuni nascosti dietro teloni di plastica scura, altri in piena vista, schivano ogni curioso. “Andate via! - gridano - Niente foto per carità, Tsahal (l'esercito di Israele, ndr) potrebbe usare le immagini per individuare il nostro tunnel e seppellirci vivi”. Tra le centinaia di dune di terra create dagli scavi si lavora intensamente, ma con le orecchie sempre tese: al minimo sentore di un caccia F16 o di un elicottero Apache in volo, tutti sono pronti a fuggire dai cantieri. entro una specie di serra un gruppo di palestinesi sta completando la costruzione di un tunnel. Un ragazzo sulla ventina con una lunga barba nera sta sul bordo del pozzo d'ingresso. In una mano un rudimentale interfono per comunicare con gli scavatori, venticinque metri più sotto, nell'altra il comando per azionare un montacarichi: cala bidoni di plastica vuoti e li issa, poco dopo, colmi di terra. Altri due uomini riepiono le carriole e le vuotano all'esterno, dove un quarto, a bordo di

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In alto: Muezzin chiama alla preghiera. In basso: Venditore di frutta. Moschea di Shifa, Gaza city 2009. Naoki Tomasini©PeaceReporter


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sono crollate, altre sono ancora in piedi, ma sventrate: rivelano dettagli una ruspa, raccoglie i detriti e li ammucchia di fronte alla tenda, nascondi vita privata come l’arredamento delle stanze, i poster alle pareti o il dendola in parte alla vista. La carrucola viene usata anche per calare le lampadario in finto cristallo che ora dondola esposto al vento. Questa persone dentro la bocca del tunnel, un pozzo quadrato largo circa un zona, però, è stata colpita intensamente anche da un altro tipo di munimetro, le cui pareti sono rivestite da assi di legno per impedire al conzioni, quelle al fosforo. Lo si osserva in alcune abitazioni, esternamente dotto di franare. Scendendo, appesi a una corda su un precario seggioliquasi intatte, e all’interno completamente bruciate. no di plastica, non si può fare a meno di sbattere goffamente su tutti i lati. Non fosse per una lampadina piazzata a metà discesa il buio sarebe munizioni al fosforo sono un'arma considerata convenzionale per be totale. Sul fondo un ragazzino fuma e parla con la superfice all'inilluminare le zone di combattimento, ma sono illegali se impiegate terfono: non vede la luce del sole per tutto il giorno e non sembra sofcontro aree densamente abitate. Nel corso dell’offensiva israeliana frirne. “Da quella parte” dice, indicando l'inizio della galleria. Il tunnel è decine di persone sono rimaste colpite da questo tipo di frammenti lungo circa centocinquanta metri, tanto basta per arrivare dall'altra incendiari, che continuano a bruciare finché non sono interamente conparte del confine. Ogni venti, una piccola lampadina rivela le pareti grafsumati. Molte sono state inizialmente trattate come comuni ustionati, ma fiate nella terra viva, non c'è rivestimento. Sul terreno fangoso scorrono le loro ferite anziché guarire si aggravavano. Alcune di queste persone i bidoni che trasportano i detriti, mentre in fondo gli scavatori stanno sono decedute, molte altre hanno subìto amputazioni radicali per rimuoapprontando l'uscita sul lato egiziano. Si procede chinati all'inizio, busto vere ogni residuo di fosforo, mentre i casi più gravi sono stati evacuati e ginocchia flesse. A stento c'è spazio per fare dietrofront. Poi dopo verso cliniche militari in Egitto e altri paesi. Tra le viuzze del villaggio di poche decine di metri tocca inginocchiarsi e procedere a carponi, mentre Abasan al Sa’ir, nugoli di ragazzini irrequieti la temperatura diventa insopportabile e l'aria giocano tra le macerie. Ogni tanto qualcuno sempre più rarefatta. Si suda come in un bagno trova un frammento di missile, un proiettile, e a turco, si respira a fatica e non si può fare a “No, no, niente contrabbando volte anche dei pezzettini che a prima vista meno di pensare cosa possa accadere qua sembrano schegge di legno. Sono residui di sotto durante un bombardamento. Al termine di armi. I guadagni del fosforo, ossidati in superficie. I bambini fanno del cunicolo c'è una bombola di ossigeno per riprendere il fiato, ma gli operai sembrano commercio ordinario sono più cerchio attorno allo scopritore, che con un bastoncino smuove la superficie annerita... in poterne fare a meno. E' un lavoro disumano, che sufficienti, perchè dovrei un attimo il frammento sprigiona fumo acre e “Ma ne vale la pena” spiega il proprietario del poi s’incendia, generando tra i ragazzini grida cantiere: “quando il tunnel sarà ultimato rischiare? di incosciente divertimento. Una decina di chilopotremo importare quintali di cibo, vestiti, eletCostruire un tunnel costa metri più a nord, sempre vicino al confine con trodomestici, medicine ...”. “Armi?” domando, Israele, c’è il villaggio rurale di Al Fara’in, i cui “Niente armi - ribatte - i guadagni del commercome minimo dieci o campi coltivati si trovano a ridosso della recincio ordinario sono più che sufficienti, perchè quindicimila dollari, zione presidiata dai militari israeliani. Durante rischiare? Costruire un tunnel costa dai dieci ai di gennaio, le prime abitazioni dal quindicimila dollari, ma con i prezzi alle stelle ma con i prezzi alle stelle della l’offensiva confine e un allevamento di pollame sono stati della Striscia di Gaza si rientra in fretta delle distrutti dai tank israeliani. Per gli agricoltori spese”. Una volta completato questo sarà un Striscia di Gaza della zona, però, l’incubo era cominciato da tunnel di media misura, ma lungo la Philadelphi route ce ne sono di ogni tipo. Poche decine di sotto embargo si rientra in fretta tempo, almeno dal giugno 2007, con la chiusura della Striscia e la stretta anche sui confini. La metri più in là occultata dentro un'altra serra, delle spese”. terra che separa le prime case rimaste in piedi una dozzina di operai ha appena terminato il e il confine verdeggia di prezzemolo pronto per rivestimento in cemento di un altro, largo circa la raccolta, ma ogni volta che i palestinesi si due metri e profondo una trentina. I tunnel in avvicinano i soldati israeliani aprono il fuoco. Nel giorno in cui Israele funzione sono i più difficili da vedere, vengono custoditi gelosamente. Un dichiarava la tregua unilaterale, un contadino è stato ucciso in questa palestinese ci racconta orgoglioso del suo, ma non vuole rivelarne la zona, e sei giorni dopo altre fattorie sono state colpite dall’artiglieria di posizione per non compromettere i suoi affari: “Lo uso per importare Tsahal. Il cessate il fuoco è ufficialmente in vigore in tutta la Striscia, ma benzina” spiega. “In vintiquattro ore riesco a portare dall'Egitto quindiqualunque palestinese si avvicini ai confini, specialmente se armato di cimila litri di carburante. Perché dovrei contrabbandare armi se così coltello da tavola per tagliare gli ortaggi, può essere ucciso. posso guadagnare tre-quattromila dollari netti al giorno?”.

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pochi chilometri da Rafah, a nord, verso Gaza città e il confine israeliano, c’è la città di Khan Younis, la più povera e rurale della Striscia. Sui sedili posteriori del taxi collettivo viaggiano un omone barbuto e due donne occultate dentro chador neri, alla radio la registrazione di un comizio di Hamas. L’amplificatore gracchiante riproduce il climax vocale dell’oratore, mentre benedice i leader del partito a Gaza e quelli in esilio, e la rumorosa esaltazione del pubblico. A destinazione il trio di passeggeri scende soddisfatto e il maschio allunga una generosa mancia al guidatore. Si riparte e il tassinaro cambia cassetta, si passa alla dance-pop libanese, mima con un gesto la lunga barba del passeggero islamista, toccandosi il mento glabro, e ride. Secondo le autorità di Khan Younis, nel corso dell’ultima offensiva l’esercito israeliano ha distrutto completamente quasi cinquecento abitazioni della zona, e ne ha danneggiate almeno duemilacinquecento. La parte più colpita della provincia è stata quella dei villaggi a est, vicino al confine con Israele. Qui i civili si sono trovati in prima linea di fronte all’avanzamento delle forze terresti di Tsahal. Diverse abitazioni centrate dai colpi sparati dai tank

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al tetto di una casa di Beit Lahiya, a nord di Gaza città, si possono vedere in lontananza le luci di Ashkelon, la città costiera israeliana che, insieme al paese di Sderot, è obiettivo dei razzi sparati dai palestinesi. Ai piedi dell’edificio, invece, l’intrico delle strade di Gaza, di Jabaliya e dei campi profughi circostanti si svolge nel buio. Il proprietario del palazzo non saliva sul tetto da prima della guerra, per paura di essere colpito dai cecchini israeliani, o dall’artiglieria, come accaduto a due suoi nipoti all’inizio di gennaio, mentre osservavano da un terrazzo lo spettacolo pirotecnico della guerra israeliana. Non immaginavano che il tank di Tsahal avrebbe sparato contro di loro. Le storie dei civili uccisi si ripetono in tutti i quartieri più colpiti a Gaza e nel nord della Striscia: l’esercito israeliano ha demolito abitazioni e ucciso famiglie intere senza distinguere tra civili e miliziani, o forse, come ci è più volte stato detto, proprio nella speranza di stanare i combattenti di

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In alto: Tendopoli per gli follati di Piombo Fuso ad Atatra. In basso: Parco giochi nel quartiere Zaitoun a sud di Gaza city. Gaza, 2009. Naoki Tomasini©PeaceReporter


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Hamas. Le parti in conflitto si accusano di avere usato i civili palestinesi ora come esche, ora come scudi umani, ed entrambe cantano vittoria: Israele sostiene di aver raggiunto i propri obiettivi, anche se i razzi palestinesi continuano a cadere sul suo territorio. Hamas ostenta ancora capacità di governo e sostiene di godere del sostegno popolare, con buona pace dei milletrecento martiri e delle circa centomila persone, che ora non hanno più una casa. Nel quartiere di Zeitoun, roccaforte di Hamas nella periferia sud di Gaza, sono rimasti in piedi solo due condomini occupati durante l’attacco dai soldati israeliani. Dai tetti, che venivano usati dai cecchini, si osserva la spianata di terra e macerie che parte dal confine israeliano e arriva fino alla ex colonia di Netzarim, sul mare. Si vedono la carcassa di una moschea e i resti delle case bombardate, tra cui quella in cui hanno perso la vita ventinove membri della famiglia Samouni.

del 2006, i palestinesi di Gaza guardano sempre più verso est. Per pregare. Negli ultimi anni, l’identità islamica si è espansa nella Striscia come l’unico elemento di dignità e unità ancora possibile. E’ un sentimento che si coglie parlando con gente di qualunque estrazione l’orgoglio di essere musulmani in questo lembo di terra Santa. Per le strade, sui bus e nei luoghi pubblici, ovunque è consentito fumare, ma sempre meno persone lo fanno. Sempre più gazawi, anche quelli abituati alla frequentazione con cooperanti e giornalisti occidentali, riscoprono il significato dell’astinenza dall’alcol, della preghiera e si scagliano contro la degenerazione morale angloamericana. Ogni vittima di Tsahal, miliziano o civile che sia, guadagna il paradiso per sé e per sessanta suoi congiunti. E’ causa di pianti disperati, ma anche di quei sorrisi inestirpabili che caratterizzano i palestinesi in generale, ma soprattutto la gente senza pace della Striscia.

anno distrutto tutto, non erano mai andati così a fondo” un mese dalla tregua a Gaza città molte delle macerie sono state racconta uno dei parenti superstiti. “Non c’era motivo per sgomberate, si cerca ancora di capire cosa fare degli edifici colpire questa zona” aggiunge il proprietario di un’azienda semi-distrutti ma ancora in piedi, come il Parlamento. La ricoagricola, mentre con la fiamma ossidrica struzione per ora è iniziata solo in alcune Tra le viuzze del villaggio cerca di rimuovere le macerie del suo capanmoschee: è una delle priorità del Governo e la none, in cui sono morti venticinquemila polli. gente sembra condividere. Hamas vuole di Abasan al Saíir, nugoli Molti degli abitanti di Zeitoun sono andati a mostrarsi attivo nonostante la distruzione di ragazzini irrequieti giocano vivere da parenti, mentre chi non ha nessuno delle infrastrutture politiche e di polizia. Anche tra le macerie. Ogni tanto si rifugia in tende improvvisate ai piedi delle nell’anarchia del dopoguerra, dal punto di vista qualcuno trova un frammento rovine. Nel nord di Gaza città, sul quartiere di della criminalità comune, le strade di Gaza di Atatra, sembra si sia abbattuto un terremoto. notte erano tra le più sicure al mondo. La sendi missile, un proiettile, e a volte E’ difficile trovare edifici senza fori di cannosazione di trovarsi di fronte a un conflitto relianche dei pezzettini che nate o proiettili. Molte case hanno pareti fratgioso - Israele che bombarda le moschee e a prima vista sembrano schegge turate e il manto stradale è stato distrutto dai Hamas che le ricostruisce - diventa però scondi legno. Sono residui di fosforo, cingoli dei Tank. Il governo Hamas, che ha inicerto di fronte alla distruzione di edifici come ossidati in superficie. zialmente requisito (e poi reso) buona parte scuole e università. Oggi il futuro delle centidegli aiuti umanitari, qui ha allestito una tennaia di migliaia di giovani che vivono nella I bambini fanno cerchio attorno dopoli per ospitare i senzatetto. Nelle tende Striscia assomiglia alle rovine dell’American allo scopritore, che con gli uomini fumano per passare il tempo, menschool di Gaza, che paiono schiacciate a terra un bastoncino smuove la tre all’esterno i bambini giocano a biglie. Sotto da un gigante, o alle facciate delle scuole superficie annerita... in un attimo dell’Unrwa, segnate da esplosioni e crateri. gli occhi della polizia di Hamas, il responsabile del campo, un distinto capofamiglia della zona, Visitando il cortile dell’università islamica nel il frammento sprigiona sovrintende alla distribuzione dell’acqua potacentro di Gaza, uno dei fiori all’occhiello dell’ifumo acre e poi s’incendia, bile e degli aiuti alimentari forniti dalle Ong struzione superiore e scientifica palestinese, generando tra i ragazzini grida internazionali. Nessuno nel campo sa dire ordine e pulizia sono impeccabili. Solo a un di incosciente divertimento. quando potrà tornare a vivere in una casa, secondo sguardo ci si accorge che buona parte nessuno ha i mezzi per ricostruire. A est di dei vetri è stata sostituita con pellicola di plaGaza, invece, nel quartiere di Izbat Abd Rabo, il confine è troppo vicino stica trasparente, e che alcuni palazzi del campus hanno delle bruciatue le incursioni dei mezzi di terra israeliani sono ancora troppo frequenre. Quando si entra nel cortile principale, però, c’è una palazzina comti per dormire in una tenda. La tendopoli è stata allestita davanti alla pletamente sventrata e accanto un’altra gravemente danneggiata. Gli sede dell’Unrwa (l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei profuoperai lavorano allo sgombero delle macerie di quelli che erano i laboghi palestinesi) e nel mezzo delle macerie del quartiere devastato dai ratori per la facoltà di scienze, non proprio un obiettivo militare. “Erano bombardamenti. Ma è deserta. I responsabili con il berretto verde dei costati quattro milioni di dollari solo in attrezzature” spiega l’addetto volontari di Hamas distribuiscono generi di prima necessità agli sfollati, alle pubbliche relazioni dell’ateneo, “e ci vorranno degli anni per ripriche però non si rassegnano alla disgrazia e tornano ai piedi delle loro stinarli visto che molti dei materiali e macchinari necessari non possocase abbattute. Cercano di tirare avanti come non fosse successo nulla, no entrare nella Striscia”. “Dopo la guerra - continua - abbiamo deciso si riparano negli spazi pericolanti tra i tetti e i pilastri franati. Come cala di riprendere in fretta la vita accademica. Abbiamo rimosso le macerie la notte la temperatura scende e le macerie del quartiere si illuminano e ripreso le sessioni di esami, ma abbiamo anche permesso di rimandadi tanti piccoli fuochi, attorno a cui si riuniscono le famiglie. “Nelle re le prove agli studenti che hanno subito delle perdite”. Ai piani alti, tende non c’è abbastanza spazio e fa troppo freddo” spiega una donna intanto, è in corso un esame: lo stesso per uomini e donne, ma in classi mentre allunga le mani verso la fiamma per scaldarsi. “E poi non vogliaseparate. I posti liberi sono pochi e il silenzio totale. In fondo all’aula mo essere profughi un’altra volta” conclude, ammettendo anche lei di maschile un ragazzo con in testa una kufyia bianca e nera sbircia un non sapere per quanto tempo lei e la sua famiglia dovranno vivere in appunto scritto a penna sul palmo della mano. Nell’altra stanza, una quella condizione. “Inn Sha Allah”, ripete ostentando fiducia, siamo studentessa coperta da guanti neri e chador sul filo dello sguardo, forse nelle mani di Dio. vorrebbe fare altrettanto.

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mpotenti di fronte allo strapotere militare israeliano e spettatori senza diritto di parola anche riguardo al conflitto interno palestinese, tra il partito di Fatah, che governa in Cisgiordania, e quello di Hamas, isolato dalla comunità internazionale dalla vittoria elettorale

In alto: Esami in corso all’università di Gaza In basso: Distruzione nel quartiere di Izbat Abd Rabo, vicino al confine con Israele. Gaza, 2009. Naoki Tomasini©PeaceReporter

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I cinque sensi di Gaza

Udito Nostante la tregua, a Gaza non è raro udire saltuarie esplosioni e sonic booms, i rumori assordanti simili a esplosioni prodotti dai caccia F16 che infrangono la barriera del suono a volo radente sulla Striscia. Gli spari delle guardie di confine israeliane non appena ci si avvicina alla barriera che segna il limite della Striscia. Le voci del mercato di Gaza, i mercanti che urlano le offerte sempre con lo stesso tono. Il rumore dei generatori privati che forniscono elettricità alla maggior parte dei condomini di Gaza.

Vista Il colore delle case annerite dagli incendi, in buona parte causati dalle munizioni al fosforo. La luce entra dai fori nei muri creati dall'artiglieria, e illumina le pareti e i soffitti scuri come il carbone. L'impatto visivo dei quartieri rasi al suolo dai colpi

sparati dai tank e dalle bombe gettate dai caccia israeliani. Indistinti cumuli di macerie grigie che in piena luce si confonde con il colore rossastro della terra e il grigio della sabbia sollevata dal vento. Il verde intenso dei campi di prezzemolo vicino al confine. Il rosso delle fragole - oggi in buona parte d'importazione - vendute per le vie della città.

quando i bambini smuovono la superficie dei frammenti di fosforo. Quello del disinfettante negli ospedali. Il profumo della menta e della salvia che i palestinesi infondono insieme al tè. L'odore salmastro del mare che i palestinesi della Cisgiordania non possono sentire.

Gusto

Tatto

Il sapore della carne cucinata alla maniera araba: kufta, shish kebab, shawerma. Il gusto del tonno appena pescato, cucinato alla griglia dai pescatori del porto di Gaza. Il falafel di Gaza è considerato tra i migliori di tutto il mondo arabo.

Pezzi di missili, comuni proiettili, schegge di metallo delle flechettes e di tungsteno delle munizioni Dime, frammenti di fosforo. Nella Striscia di Gaza se ne trovano in abbondanza, specialmente tra le macerie delle abitazioni colpite, ma non bisognerebbe toccare nulla. Molte di quelle munizioni possono avere effetti tossici al solo contatto con la pelle, ma i bambini di Gaza non lo sanno e le prendono in mano per giocarci.

Olfatto L'odore irritante dei fumi che si sollevano

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Il reportage Transnistria

Il coccodrillo che dorme Di Nicola Sessa “La Transnistria è come l’hotel Aist”, mi dice Aliona, una ragazza di Tiraspol. A guardarlo da fuori tutto decrepito, grigio e arrugginito, non ti verrebbe mai voglia di entrare per chiedere una camera dove dormire. alvo poi esservi obbligati, dal momento che gli alberghi in città non abbondano, ed essere accolti da personale gentilissimo che ti accompagna in stanze nuovissime, calde, arredate con gusto e con una meravigliosa vista sul fiume Nistro. Il fiume Nistro... sarebbe un corso d’acqua come tanti altri, se non fosse che a un certo punto, dopo aver lasciato i Carpazi e percorso qualche centinaia di chilometri in Ucraina si precipiti in territorio moldavo dove diventa il filo della lama, l’arbitro - dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica a oggi - del braccio di ferro tra Chisinau e Tiraspol, capitale della Transnistria, protagoniste nel ‘92 di una guerra lampo durata pochi mesi, che come risultato ha portato al consolidamento dell’indipendenza de facto della Repubblica Moldava di Pridnestrovie (Pmr). Nessun paese ne riconosce la legittimità. Nemmeno la Russia, che pure ha sempre guardato a quella striscia di terra incastrata tra il fiume e l’Ucraina con occhio paterno. I primi giorni a Chisinau li spendo a raccogliere il maggior numero di informazioni possibile per raggiungere la Transnistria. Tutti sono d’accordo nel dire, però, che si va nel “Buco Nero d’Europa”, tra la perduta gente, in un luogo dove tutto è permesso: dal mercato d’armi alla droga, dalla prostituzione al traffico d’organi a quello di auto rubate fino al mercato di polli. Chiedo a imprenditori, professionisti, membri di Ong: “Se vorrai andarci, lo farai a tuo rischio e pericolo: avrai solo problemi... ammesso che ti lascino passare alla dogana”. Stessa risposta ricevo dal cameriere del Caffè Nistru che mi ha appena servito un cognac Kvint, distillato nella fabbrica di Tiraspol: “L’unica cosa buona che hanno da quella parte”. Delle due l’una: o stavo davvero andando nel castello di Dracula, oppure dovevo rassegnarmi al fatto che i due popoli, quello di origine moldava e quello di origine russa, fossero divisi oltre che dal fiume e da tre diversi posti di blocco anche da una cortina fumogena che non permette ai cittadini di Chisinau di vedere un angolo di terra a settanta chilometri di distanza.

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on un pò di difficoltà convinco Ecaterina Deleu, giornalista del quotidiano moldavo Flux, ad accompagnarmi oltre il fiume. Arriviamo a un compromesso: non andremo a Tiraspol, cosa che anche lei giudica troppo pericolosa da fare, ma ci muoveremo nel distretto regionale di Dubasari, dove quindici villaggi sono sotto l’amministrazione di Chisinau e la popolazione è al cento percento di etnia moldava. Una sorta di enclave. Sul ponte superiamo due posti di controllo: il primo tenuto dalla polizia moldava, il secondo, quello di interposizione, tenuto dalle forze di peacekeeping russe. Il terzo posto di controllo, quello dei miliziani transnistriani, è a una decina di chilometri più avanti. La procedura è molto rapida, nessun controllo di documenti. Vitali, il nostro autista, deve solo aprire il portabagagli della sua Nissan rossa per dimostrare che non trasportiamo armi. Prima di lasciare il ponte mi accorgo appena di un carro tirato da due cavalli e spinto da tre uomini che arrancano sulla terra ghiacciata dell’argine fluviale. Tre soldati russi che sbuffano fumo da naso e bocca, guardano divertiti la scena affacciati al parapetto. È sabato, la strada è deserta. Arriviamo nella piazza di Cosnita. L’umidità not-

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turna si è trasformata in una patina bianca e lucente su cui il sole della mattina rimbalza creando un bagliore boreale. Dopo una lunga chiacchierata con Grigore Policinschi, il presidente del consiglio regionale, mi rendo conto di aver parlato con un amministratore di frontiera, con un uomo che si sente abbandonato da Chisinau. Gli chiedo se per caso il governo e il presidente Vladimir Voronin non avessero rinunciato definitivamente alla Transnistria come parte integrante del territorio moldavo. Da buon politico evade con mestiere la domanda e con un sorriso che dura un istante mi dice: “Il governo fa tutto il possibile, ma i cittadini del distretto si sentono soli”. Una risposta più diretta l’avevo invece ricevuta da Ion Manole, il giovane direttore di Promolex, un centro studi di Chisinau sui diritti umani in Transnistria: “In venti anni nessuno ha fatto nulla: la stampa, la società civile, gli intellettuali. Hanno tutti fatto finta che il problema non esistesse. E senza parlare della politica: Snegur, Lucinski e adesso Voronin, tre presidenti che hanno concesso alla Russia tutto quello che c’era da concedere”. A Tiraspol, mi dice Ion, c’è una specie di ufficio consolare russo che rilascia passaporti in serie. Secondo i dati di Promolex, sono molti anche i moldavi che scelgono di prendere il passaporto russo. I motivi sono semplici: così facendo, possono accedere alla pensione di Tiraspol che è più alta di quella che può pagare Chisinau e in più ci sarebbe un incentivo di dieci dollari che arriverebbe direttamente dal Cremlino. nche Ion mi aveva confermato che i cittadini moldavi al di là del Nistro si sentono abbandonati: “Eppure nel ‘92 hanno combattuto con le unghie e con i denti per conservare quel territorio, da soli, senza l’aiuto dell’esercito moldavo”. Mi piacerebbe incontrare qualcuno di loro. Ecaterina con due telefonate chiama all’adunata sei veterani. Anatoly, il presidente dell’associazione, mi presenta uno a uno gli uomini in semicerchio davanti a me: “Lui è Ghenadi, ha una gamba di legno. Gli è saltata su una mina mentre portava a spalla un suo compagno. Lui è Vladimir, anche lui è senza una gamba e per di più ha anche un occhio di vetro”. Qui nel Platoul Cosnita ci sono state le prime provocazioni, i primi morti di una guerra passata quasi inosservata. Sergiu, uno dei reduci, si propone di portarci in giro nelle campagne, per mostrarci i luoghi dove si è combattuto e la sua trincea. Non è di molte parole, ma in poco più di un’ora riesce a farmi vedere il suo film, la sua storia. Come quando rallenta, scende dalla macchina e indica una croce di legno con dei fiori secchi. “Là è morto Dovgan Boris”. Non aveva raggiunto i trent’anni ed era rientrato solo da qualche anno dall’Afghanistan. “Un missile anticarro Pturs centrò in pieno il Btr, il blindato su cui viaggiava”. Ripresa la strada, arriviamo nella campagna di Pohrebea: ci arrampichiamo sul fianco di un terrapieno aderente al fiume e ci affacciamo sul campo di battaglia di Sergiu, dove un vallo largo cinque metri e lungo più di cinque chilometri arriva fino a Dorotcaia. Il grande fossato doveva tagliare la strada ai carrarmati dei

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La statua di Lenin davanti al palazzo presidenziale. Tiraspol, Transnistria 2009. Nicola Sessa©PeaceReporter


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miliziani e della quattordicesima armata russa e, stando a quanto racconta Sergiu, sembra abbia fatto bene il suo lavoro. Non lontano, la sua trincea. Gli anni, le piogge e l’erba non hanno cancellato quella cicatrice nel terreno. “Ogni dieci ore, per due si andava a riposare. Quella croce di ferro è per Mucam, il miglior amico di Ilia”. “Chi è Ilia?”, gli chiedo. E lui: “Anatoly ti ci porterà”. lia è una “vittima postuma” del conflitto. Seduto su una sedia a rotelle vicino alla finestra fa oscillare il suo sguardo come un pendolo tra il pavimento e la vista - filtrata da tende linde e tese – sulla strada. Vive tutto il giorno nella sua stanza. Sei metri per quattro dove trovano posto un letto, un tavolo con tante scatole di medicine e una stufa in mattoni. Sua madre lo accudisce dal ‘95 da quando, all’improvviso, Ilia non è riuscito più a muoversi. “Aveva ventisette anni Ilia, nel 1992. Molte volte saltava il suo turno di riposo per stare con noi”. Chi parla è Anatoly, che era il suo comandante e lo segue costantemente nella sua malattia. “Lui si definisce un meticcio: suo padre era moldavo e la madre è russa. Poteva scegliere da quale parte stare e ha scelto la nostra”. Anatoly mi racconta del dolore della madre che ha visto suo figlio spegnersi così poco alla volta. Prima l’uccisione del suo amico Mucam, poi i reumatismi dono della trincea umida e gelida di un marzo che ancora non aveva aperto alla primavera. E infine l’alcol. A quanto pare Ilia ne fa un uso smodato. “Ma posso negargli l’unico piacere che ha?”, dice la madre ad Anatoly che vorrebbe vedere il suo amico lontano da cognac e vodka. Lasciamo la casetta di Ilia senza che lui abbia pronunciato anche solo una parola. Ma alla fine sono riuscito a strappargli un sorriso di saluto. Dico a Ecaterina che è arrivato il momento di andare a Tiraspol , di tentare questo salto nel vuoto. “Non posso, ma ho chiamato Dana. Ti accompagnerà lei”. Alle sette del mattino, quando è ancora buio, Dana arriva puntuale nella hall dell’hotel “Chisinau”. E’ molto dinamica e senza perder tempo andiamo al mercato a cercare un taxi. “Ci serve un autista che sia di Tiraspol. Magari ci può dare una mano alla frontiera”. Nonostante sia molto sicura di sè, durante il viaggio in macchina verso la Transnistria mi confessa che per tutta la notte non ha chiuso occhio. Anche lei sembra essere spaventata per quello che troveremo dall’altro lato. In realtà Dana non è mai stata oltre il Nistro - se non quando era bambina e la stella di Mosca brillava sulle quindici Repubbliche “come molti altri che ne dicono di tutti i colori, ma parlano solo per sentito dire”. Venceslav va veloce e sicuro su una strada che sembra conoscere a memoria. Anche con la nebbia fitta e un filo di ghiaccio sull’asfalto. Passiamo agevolmente i primi due posti di controllo, quello moldavo e quello di interposizione russo. Dopo duecento metri, è la volta della postazione dei miliziani separatisti. Il nostro autista si è rivelato un ottimo affare: oltre che portarci in macchina si occupa anche delle pratiche “frontaliere”. Nonostante mi presenti come giornalista, perdiamo solo dieci minuti per compilare un documento da consegnare in città al ministero dell’Immigrazione. Rimontiamo in macchina e sia Dana sia io tiriamo un sospiro di sollievo. Attraversiamo la città di Bendery che sebbene sia sul lato destro del Nistro, ricade sotto l’amministrazione separatista. La storia è molto lunga, ma questa è una di quelle concessioni fatte ai russi dai presidenti moldavi cui accennava Ion Manole di Promolex. Secondo gli accordi del ’92, infatti, la città doveva essere sotto amministrazione congiunta, ma a un certo punto Tiraspol ha preso il sopravvento e gli uomini di Chisinau si sono trovati sbattuti fuori senza neanche accorgersene. Appena superato il ponte, sfioriamo il villaggio di Parcani. Venceslav mi racconta che si tratta di un agglomerato di diecimila abitanti per la quasi totalità bulgari. Gode di uno status speciale e ha una propria amministrazione. A quanto pare si tratta della più grande comunità fuori dai confini della Bulgaria riunita qui ai tempi dei gulag. Parcani era un centro di smistamento di prigionieri forzati bulgari. Il tempo di ascoltare il racconto e siamo arrivati a Tiraspol. Venceslav ci scarica davanti all’Hotel Aist. Il primo passaggio obbligato è il cambio della valuta: il rublo della Pmr, una moneta che ha valore solo qui. Le uniche carte di credito utilizzabili sono quelle emesse dalla Gazprombank e dalla Agrobank, due banche locali. Nella nebbia delle sette del mattino, grosse placche di ghiaccio scivolano sul

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fiume Nistro facendo a gara tra di loro. Due fari tondi di un vecchio filobus Ziu beccheggiano morbidi negli avvallamenti della strada. Tutto è silenzioso. Le porte si aprono su Uliza 25 Ottobre, la strada principale della città. Una ventina di viaggiatori si mette in fila davanti a un cancelletto oltre il quale ci sono due soldati russi con i loro colbacchi grigio-azzurrognoli. È gente che aspetta di ricevere il passaporto russo, così come mi aveva detto Ion. Gli altri vanno al mercato. Lungo il viale che dalla statua equestre di Suvorov porta al mercato, ci sono molte donne che vendono dei manufatti in lana. “Non abbaimo molta scelta”, mi dice Lidia: “Con una pensione di seicento rubli (poco più di cinquanta euro), mi rimane ben poco con cui vivere dopo aver pagato le spese; ma tanto fra poco arriverà la milizia e ci costringerà ad andar via”. Il mercato è invece ricchissimo e molto grande: storioni e cernie dal Mar Caspio, frutta dall’Abkhazia, spezie, carni e formaggi di tutte le qualità. Mi sembra molto nord-europeo: uomini in camice bianco si aggirano tra i banchi per tenere sotto controllo l’igiene; l’ufficio del veterinario è subito di fianco al padiglione delle carni e una decina di bilance “da verifica” sono addossate lungo il muro di fronte ai banchi cosicché i clienti possano controllare la conformità del peso della merce acquistata. Dana è meravigliata della vivacità della città. lle undici Venceslav passa a prenderci. Abbiamo appuntamento con i veterani di Bendery. Grigory e Nikolaj ci aspettano in un appartamento dove tutto costituisce reliquia. Nikolay ha una camicia nera, una cravatta rossa, pizzetto e baffi rossicci; una figura che ricorda moltissimo... “Sì, Vladimir Lenin! Ho studiato e l’Università di Kishinev (Chisinau) mi ha rilasciato il ‘patentino’ di Lenin, così che nelle pubbliche manifestazioni io potevo apparire come il sosia ufficiale”. Grigory prende un album di fotografie e lo apre sul tavolo: “Questa è la storia degli eventi del ‘92. Ma bisogna fare un passo indietro: nell’89 il parlamento approvò una legge per cui lo status di lingua ufficiale era attribuito solo al moldavo. Su questa base nazional-fascista nacquero diversi movimenti che avevano come slogan ‘Moldova solo per i moldavi!’ e ‘Ebrei nel Nistro! Russi oltre il Nistro!’”. Sfogliando l’album, Grigory mi mostra le foto dei primi scioperi organizzati nelle fabbriche in Transinistria: tecnici, funzionari, insegnanti e medici di lingua russa furono rimossi dalle loro posizioni. Intanto in Moldova prendeva forma un movimento che guardava a Bucarest e all’unione dei popoli rumeni. “Non abbiamo avuto scelta. Da marzo fino a giugno ci sono state solo delle schermaglie nell’area di Dubasari. Il vero fronte è stato qui a Bendery. Il 19 giugno l’esercito moldavo ha attaccato da più lati e in poche ore ha occupato la città.” Gli chiedo del ruolo della 14° armata, il terrore dei volontari moldavi. “La quattordicesima ci ha traditi! Ha mantenuto una neutralità totale. Si sono rinchiusi nella fortezza turca Ismail e anche quando siamo andati a chiedere di accogliere le centinaia di feriti ci hanno respinto dicendo di non voler entrare nel conflitto. Le cose sono cambiate solo dopo la rimozione del generale Netkachef e l’arrivo del comandante Lebed che lanciò dei chiari segnali a Chisinau. Quella che si è consumata tra il 19 e il 21 giugno noi la ricordiamo come la tragedia di Bendery.” Nella stanza della commemorazione al centro c’è il “Mazzo della morte” composto da residui bellici e sedici candele, una per ogni 19 giugno trascorso dal ’92 a questa parte. Grigory tira un lungo sospiro e indicandomi i volti dei morti di quella guerra, con un filo di voce mi dice: “La Transnistria non è figlia di un nazionalismo cieco. Io comandavo un battaglione di 420 uomini; 367 erano moldavi.” Riaccompagnandoci alla macchina, Grigory ci parla del palazzo a nove piani che è proprio di fronte al muncipio: “Lì c’era una donna lituana, campionessa di Biathlon. Era un cecchino pagato dai moldavi per uccidere. Quando la prendemmo ci disse che come lei ce n’erano altre sette sparse in città”. In piazza c’è una grande cartina della Transnistria. Sembra un grande coccodrillo con la bocca chiusa. Un coccodrillo che dorme. Nel viaggio di ritorno, Dana non parla molto. Le chiedo cosa ne pensa di quello che ha visto negli ultimi tre giorni: “Non conoscevo questa storia. A me l’hanno raccontata in modo diverso. E poi la Transnistria non è così nera come la dipingono”.

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In alto: Nikolas “lenin”. In basso: Mercato della carne. Tiraspol, Transnistria 2009. Nicola Sessa ©PeaceReporter.


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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

Le buone nuove Il leggendario capo Apache onorato a 100 anni dalla morte La camera dei Rappresentanti Usa rende omaggio alla memoria del leggendario capo degli indiani Apache, a 100 anni dalla morte. In una risoluzione si afferma che il centesimo anniversario “deve offrire un'opportunità di riflessione e l'avvio di una riconciliazione con il popolo Apache'”. Il più famoso capo indiano del XIX secolo trascorse gli ultimi vent’anni della sua vita in carcere a Fort Sill, Oklahoma, dove morì nel 1909 all'età di novant’anni.

Mali, scocca l'ora della pace Si sono presentati in centinaia alle porte della città di Kidal. Hanno deposto le loro armi e, a bordo di pick-up, sono giunti nel centro della città, dove una folla festante li ha accolti inneggiando alla pace riconquistata. Così circa settecento guerriglieri Tuareg, protagonisti di una rivolta che negli ultimi anni ha insanguinato la parte nordorientale del Mali, hanno sancito la loro entrata nel processo di pace, già sposato negli anni scorsi da altre formazioni armate. Un passo in avanti importante, anche se alcuni uomini rimasti fedeli al leader ribelle Ibrahim Ag Bahanga hanno deciso di continuare la lotta.

Tanzania, una speranza dal sole Un piccolo imprenditore riesce a diffondere l'uso di pannelli solari e a dare l'impulso per lo sviluppo del suo poverissimo paese dove il sessanta percento della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e elettricità e acqua potabile raggiungono metà della ppolazione. Mohamedrafik Parpia, un imprenditore locale, ha ricevuto quarantacinquemila dollari dall'organizzazione inglese Ashden Awards per ampliare la propria attività di produttore e distributore di pannelli solari e trovare il modo di portare l'elettricità anche ai più poveri. In appena tre anni la piccola impresa di Parpia, Zara Solar, ha installato circa quattromila impianti fornendo elettricità a un numero molto maggiore di persone, evitando loro, oltre alle spese per i rifornimenti, anche i rischi connessi all'uso dei combusibili tradizionali: esplosioni, bruciature e intossicazioni da kerosene. 16

Algeria: il presidente succede a se stesso

Sri Lanka, la fine della guerra

Elezioni ad personam

L’estinzione delle Tigri

issata la data per le elezioni in Algeria. Le urne si apriranno il 9 aprile prossimo e, ancora una volta, il presidente Abdelaziz Bouteflika sarà candidato a succedere a se stesso. Sarebbe la terza volta, grazie alla modifica costituzionale fatta approvare dal Parlamento di Algeri nei giorni scorsi. Una modifica che ha suscitato molte polemiche nel Paese, ma che le istituzioni hanno fortemente voluto, rimarcando il ruolo centrale che il presidente Bouteflika ha avuto nella pacificazione del Paese dopo la terribile guerra civile degli anni Novanta e nella lotta al fondamentalismo islamico. Bouteflika non è certo considerato un modello di gestione democratica, viste le violazioni dei diritti che hanno caratterizzato la sua presidenza dal 1999 a oggi. I governi occidentali, però, vedono in lui un alleato sicuro per la lotta al terrorismo e per la gestione delle risorse naturali algerine che fanno gola a tanti, Italia in primis. Sembra tutto spianato, insomma, verso una rielezione sicura di Bouteflika. L'unico ostacolo è al-Qaeda in Maghreb, il gruppo fondamentalista, nato nel 2006 dal vecchio Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, unica formazione a non deporre le armi alla fine della guerra civile. Al-Qaeda continua a combattere nell'Algeria meridionale e nella regione montuosa della Cabilia, ma sembra sempre più in difficoltà. Il gruppo è spaccato tra coloro che rifiutano gli obiettivi civili degli attentati e coloro che vorrebbero una guerra senza confini, ma le divisioni sono accentuate da defezioni importanti. Indebolito, ma non vinto. Le voci su un’epidemia di peste diffusa negli accampamenti del gruppo, generata da un tentativo maldestro di preparare un attacco batteriologico, si è rivelata una bufala. Gli attacchi delle ultime settimane dimostrano che le unità combattenti del gruppo sono ancora operative, nonostante un'attività costante dell'esercito e della polizia in Algeria, e si teme in vista delle elezioni un attentato in grande stile. Il rapimento, al confine con il Niger, di un alto funzionario Onu rappresenta un segnale a Bouteflika e alla sua politica.

opo ventisei anni di combattimenti costati la vita a oltre ottantamila persone, la guerra civile in Sri Lanka tra governo singalese e separatisti tamil è finita. Le Tigri per la liberazione della patria tamil (Ltte), che fino a due anni fa controllavano ancora tutto il nord e la costa orientale dell'isola, mentre scriviamo resistono solo in meno di cinquanta chilometri quadrati di giungla nei pressi di Mullaitivu. Una resistenza inutile, vista la sproporzione di forze in campo, e dannosa per le decine di migliaia di civili tamil ancora intrappolati nella zona dei combattimenti. L'inarrestabile offensiva finale delle forze armate di Colombo, seguita alla presa della capitale ribelle Kilinochchi il 2 gennaio, ha provocato in due mesi almeno duemila morti civili tra i tamil. Donne e uomini, bambini e anziani morti sotto i bombardamenti indiscriminati dell'aviazione e dell'artiglieria singalesi, che non hanno risparmiato nemmeno i campi profughi e gli ospedali gestiti dal personale delle Nazioni Unite e della Croce Rossa: ‘obiettivi legittimi’ per il ministro della Difesa (e fratello del presidente) Gotabhaya Rajapaksa. Ai crimini di guerra del regime nazionalista di Mahinda Rajapaksa, hanno fatto da contrappunto quelli commessi dai guerriglieri dell'Ltte, accusati di aver impedito ai civili di fuggire dalla zona dei combattimenti per farsi scudo di loro e di aver forzatamente reclutato uomini e bambini per lavorare nelle trincee. Accuse respinte dall'Ltte, secondo cui erano i civili tamil a non voler fuggire per paura di finire in mano ai militari. Human Rights Watch ha effettivamente denunciato il fatto che le decine di migliaia di sfollati e feriti tamil scappati in territorio governativo sono stati rinchiusi in campi di internamento (Welfare Villages) circondati da filo spinato e sorvegliati da soldati armati che impediscono agli “ospiti” di uscire. Inoltre, secondo Hrw, molti sfollati sono stati arrestati come presunti sostenitori dei ribelli e torturati durante la detenzione.

Christian Elia

Enrico Piovesana

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Israele-Palestina La terra, Gerusalemme, i profughi

l conflitto israelo – palestinese dura da più di sessanta anni e non è mai facile ridurlo a mere schematizzazioni. Questo numero dell'Atlante di PeaceReporter, però, tenta di focalizzare alcuni dei grandi temi che caratterizzano una questione irrisolta che destabilizza tutta la regione. La questione dei profughi, in primo luogo interni ed esterni alla Palestina, ci sono almeno cinque milioni di palestinesi che dal 1948 a oggi hanno perduto la loro casa. I campi profughi vennero pensati come una soluzione transitoria, ma sono diventati ormai il simbolo di una situazione cristallizzata dall'indifferenza della comunità internazionale e dal rifiuto ostinato di Israele a riconoscere il 'diritto al ritorno' di queste persone. Un'altra mappa è dedicata alla terra, troppo spesso dimenticata posta in palio di questo conflitto. Gli insediamenti illegali israeliani, in quella terra che l'Onu assegna ai palestinesi e la costruzione del muro di separazione, che non rispetta i confini stabiliti dalle Nazioni Unite, rappresentano una guerra nella guerra. I coloni ebrei, strumentalizzati dai governi israeliani, creano una situazione di fatto che poi si vuole imporre in un eventuale negoziato di pace. In modo da disegnare una divisione della terra a favore di chi controlla le scarse risorse idriche del territorio.

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L’ultimo approfondimento è dedicato alla città di Gerusalemme. Sacra per le tre grandi religioni monoteistiche e non solo, Gerusalemme per le Nazioni Unite doveva essere divisa in due: la parte occidentale gestita da Israele e quella orientale gestita dai palestinesi. Restava da capire se Gerusalemme sarebbe stata la capitale di due stati o le sarebbe stato conferito lo status di città aperta, considerando che si parla del patrimonio della storia dell'umanità. Niente di tutto questo: l'esercito israeliano ha occupato la parte orientale di Gerusalemme nel 1967. Nel 1980, la Knesset (il parlamento israeliano) ha votato l'annessione della città e l'ha dichiarata capitale indivisibile d'Israele. In evidente sprezzo delle leggi internazionali. Questo atlante, dunque, mentre non si sono ancora spenti gli echi dell'ultima, terribile, operazione militare nella Striscia di Gaza, vuole essere uno strumento per rendere l'idea di come fino a quando non verranno risolti questi tre punti fondamentali non si arriverà mai a un vero e giusto accordo di pace. Aver rimandato il problema dei profughi, della terra e dell'acqua e di Gerusalemme ha reso inutili gli accordi di Oslo e ha generato quella disillusione generale che attraversa ormai la società civile palestinese e quella israeliana.


La terra Muro completato Muro in costruzione Percorso del muro approvato Percorso del muro in attesa di approvazione Green Line

Jenin

(confine sancito dall’armistizio del 1949)

Strade Strade proibite Aree edificate dagli insediamenti

Nablus

Aree all’interno dei confini municipali dell’insediamento Aree di giurisdizione del consiglio regionale dell’insediamento

GIORDANIA

Aree annesse a Israele Basi militari israeliane

Ramallah

Aree chiuse esistenti e in progetto

Jerico

Aree edificate palestinesi ISRAELE Area A (pieno controllo civile e militare palestinese)

Gerusalemme

Betlemme

Area B (pieno controllo civile palestinesee controllo militare congiunto) Area C (pieno controllo civile e militare israeliano)

Hebron

MAR MORTO


Gerusalemme

Gerusalemme ovest

ISRAELE

Betlemme

Gerusalemme est


I profughi Aleppo

Neirab

Latakia

Hama

CIPRO

Hama

Homs Homs Nahr el-Bared Beddawi

Tripoli

LIBANO

MAR MEDITERRANEO Beirut

Shatila Mar Elias

Burj el-Barajneh Saida Beach Gaza city Jabalia Nuseirat Deir el-Balab Bureij Maghazi

Rashidieh

Wavel

SIRIA Damasco

Ein el-Hilweh Mieh Mieh

Tyre

Baalbek

Dbayeh

El Buss

Sbeineh Khan Eshieh

Qabr Essit Khan Danoun

Burj el-Shemal Quneitra

Khan Younis Khan Younis

Dera’a

Rafah Rafah

Sweida

Dera’a Jenin

Gaza city

Irbid

Irbid Tulkarm Tulkarm Far’a Askar Nur Shams Souf Camp No. 1 Nablus Jerash Balata Deir Ammar Jalazone Zarqa Ramallah Am’ari Ein el-Sultan Baqa’a Zarqa Kalandia Jericho Amman Marka Jerusalem Shu’fat Bethlehem Beit Jibrin Jabal el-Hussein Amman New Camp Dheisheh Arroub Hebron Talbieh Fawwar

ARABIA SAUDITA ISRAELE

EGITTO

Campi profughi

GIORDANIA


Il Giappone vittima della recessione

Libia, libertà di stampa

Il numero dei morti dal 22 gennaio al 4 marzo*

La tigre digitale è di carta

Leggere l'Herald Tribune a Tripoli

Un mese di guerre

a recessione globale ha fatto della più grande economia asiatica la sua più grande vittima. È stata la dipendenza di Tokyo dai mercati stranieri a provocare un crollo della domanda dei prodotti di punta dell'industria nipponica: auto, televisori, alta tecnologia. Il deficit commerciale ha raggiunto a febbraio il suo record: quasi dieci miliardi di dollari, con un crollo delle esportazioni del quarantasei percento. È stato il mese peggiore, dal 1979, per l'economia nipponica. Un'economia abituata a vivere di rendita, beneficiando di grandi surplus derivanti da una domanda, ininterrotta nel tempo, di prodotti di alta tecnologia. Gli economisti hanno sempre ritenuto il sistema Giappone relativamente immune alle congiunture globali. Oggi è una delle economie più vulnerabili e più colpite dalla crisi “proprio a causa del commercio, così centrale nella vita economica del Paese”, secondo quanto dichiarato dal presidente della World trade organization, Pascal Lamy. Gli analisti si attendono che nei prossimi mesi la produzione industriale crolli del dieci percento, e che la disoccupazione superi di gran lunga il 4,4 percento attuale. Due icone dell'industria corporativa, la Toyota e la Sony, hanno annunciato migliaia di esuberi entro l'estate. Alla condizione critica della bilancia commerciale ha contribuito il rafforzamento dello Yen, che ha reso difficile per gli esportatori rimanere competitivi. A gennaio, le esportazioni verso Stati Uniti, Unione Europea e Cina si sono dimezzate. Quelle di automobili sono diminuite dei due terzi. Il governo di Taro Aso, che nelle settimane scorse ha attraversato una profonda crisi politica – quattro quinti dei giapponesi vorrebbero che il premier si dimettesse il prima possibile – ha dichiarato che l'economia giapponese sta attraversando la sua peggiore crisi dalla Seconda guerra mondiale. La borsa ha perso il quasi il tredici percento nell'ultimo trimestre del 2008: la peggiore performance in trentacinque anni.

opo venticinque anni di rigido controllo sulla stampa, torna a essere permessa in Libia la vendita di novanta testate giornalistiche internazionali. Una scena che sarà possibile rivedere dopo lo stretto controllo sulla stampa da parte dell’Ufficio generale della stampa libica. La distribuzione dei più importanti giornali internazionali e arabi è operata dalla società privata Al-Ghad, fondata da uno dei figli di Gheddafi, Seif al-Islam. Fra le testate che sarà di nuovo possibile leggere ci saranno, oltre a Herald Tribune, Financial Times e Le Monde, anche Daily Mirror e Le Figaro, in aggiunta a quotidiani arabi come Al-Hayat e Asharq Al Awsat. L’importante apertura è stata mitigata dalle parole di Abdessalem Meshri, direttore di Al- Ghad . Meshri ha annunciato che la distribuzione dei giornali non sarà controllata dallo Stato, ma dovrà comunque tener conto dei valori sociali e culturali islamici. Il fatto che la novità giunga dalla società di distribuzione del figlio di Gheddafi è un segno importante. Seif del resto non è nuovo a iniziative di questo genere. Già nel 2004, aveva accennato all’assenza di una stampa libera nel Paese “senza la quale non può esistere un sistema democratico”, aveva sottolineato. “È vero che la nostra stampa deve essere riformata da un punto di vista strutturale”, aveva dichiarato in un’altra occasione, “ma la cosa più importante da fare è cambiarne i contenuti, fatti al momento solo di propaganda e belle notizie. Tutto questo ha fatto perdere ai nostri mezzi di informazione tutte le caratteristiche di una vera stampa che rispecchi le necessità della società”. L’uscita del figlio del leader libico aveva poi dato il coraggio a una quarantina di giornalisti e professori universitari di lanciare un appello su internet, proponendo una serie di misure concrete per sviluppare una stampa libera e indipendente. I primi, timidi, segnali d’apertura, si sono avuti tra il 2006 e il 2007, con l’autorizzazione alla vendita di alcune testate straniere e l’apertura di due giornali locali indipendenti. La nascita poi di un’emittente televisiva, fortemente critica nei confronti del potere, ha costituito un altro importante passo verso la libertà d’espressione, insieme all’apertura di un ufficio della France Press a Tripoli, nel novembre scorso.

PAESE

Luca Galassi

Angelo Miotto

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MORTI

Sri Lanka Pakistan Talebani Afghanistan Iraq Rep. Dem. Congo Sudan Somalia Algeria India Nordest India Naxaliti Nigeria Filippine Npa Nord Caucaso Turchia Filippine Milf Thailandia del Sud India Kashmir Pakistan Beluchistan Colombia Israele-Palestina

1942 564 395 353 175 142 117 78 60 54 46 44 34 30 24 24 18 17 16 13

TOTALE

4.146

* I dati che qui riportiamo sono dati ufficiali, raccolti da agenzie di stampa internazionali o locali. Per cui sono da intendersi sempre per difetto: in molti paesi del mondo non si contano i vivi, figuriamoci i morti.

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L’intervista Argentina

La musica della speranza Di Angelo Miotto Miguel Angel Estrella è un pianista argentino, classe 1940. È stato desaparecido, poi è riemerso dall'operativo Condor grazie alle pressioni internazionali e alla sua fama di concertista. Dal 1982 viaggia nelle caserme dei militari per suonare un programma che ha chiamato Musica della speranza. Ho iniziato a studiare musica in maniera metodica intorno ai diciott’anni, ma io ho sempre fatto musica. Conobbi Marta, la donna della mia vita a vent'anni. Era una giovane cantante, aveva una voce bellissima. Dopo tre anni vinsi un concorso e diedi il mio primo concerto a Buenos Aires: avevo tanta paura. Suonai Preludi e fughe di Bach e mi resi conto che io ero nato per fare quello. Poi la carriera internazionale Sono riuscito a studiare con Nadia Bulanger fino al 1972, a Parigi. Ma tornammo in Argentina tante volte, perché lavoravamo con la gente povera. Andavamo a suonare e cantare nelle villas miserias, i quartieri poveri, nelle tribù degli indios, nei campi di zucchero, nelle fabbriche e condividevamo con quei posti tutta l’esperienza che man mano conquistavamo con la musica nel mondo con i concorsi, i premi. Ancora ventenni avevamo deciso di non lasciarci prendere dal marketing. A trent’anni siamo entrati nel peronismo. Quando venne sequestrato? Nel 1977. Ero in Uruguay. Fu un'azione del Plan Condor. I miei carnefici erano uruguaiani ma chi ci faceva le domande erano militari che venivano dall’Argentina. Noi non abbiamo mai visto nessuno perché avevamo gli occhi bendati e il cappuccio. Ma li riconoscevo dalla voce. Io ero il portavoce internazionale della Federazione Indigena della Precordigliera delle Ande e gestivo l’attività dell’educazione e cultura con un altro giovane, il regista direttore di cinema Gerardo Vallejos: per quello mi avevano sequestrato. Come ne uscì? Per fortuna ci fu un movimento internazionale molto forte da parte di molti miei colleghi ma anche di molti intellettuali, premi Nobel e organizzazioni come Unesco, Amnesty, il Vaticano grazie ai contatti che aveva Nadia Bulanger. I momenti più duri della prigionia? Nell’ultima sessione di tortura simularono di tagliarmi le mani con una sega elettrica, mi legarono le mani a un tavolo e la misero in moto. Nel momento in cui mi stavano avvicinando la sega, mi dissero: “Siccome non vuoi collaborare, ti faremo la stessa cosa che abbiamo fatto al chitarrista Victor Jara in Cile”. In quel momento dissi: “Che Dio vi perdoni per quello che state per fare, io cercherò di perdonarvi”. Siccome sono cristiano, durante le sessioni di tortura parlavo con Dio e pensavo: con mia moglie abbiamo fatto una scelta di aiutare i poveri e abbiamo fatto tante cose, sono molto giovane per morire, lasciami vivere e se posso sopravvivere a questo inferno, farò musica contro le torture, contro le discriminazioni, contro l’apartheid, contro tante cose, io stesso mi sono stancato di sentirmi dire contro, contro, contro. E non so se era la voce di un angelo o la mia che disse: “Fai qualcosa in positivo non in negativo, fai musica per qualcosa”. Così nacque il progetto Musica para la esperanza, quello che ho iniziato a fare dopo essere stato liberato e in Messico, Francia e Svizzera, durante l'esilio. Anche sua moglie fu sequestrata? No, Marta morì molto giovane, nel 1970 e io fui sequestrato nel ’77. In quel momento ero a Montevideo perché tenevo un corso ed ero con i miei figli, Paola e 18

Javier, ma ero riuscito a nasconderli in tempo. Quando fu la prima volta, dopo la dittatura, che suonò la sua musica in una caserma?

Nel 2007 chiamai la Ministra della Difesa e le dissi che avevo voglia di fare concerti sui diritti umani nelle caserme, per i militari e le loro famiglie, ma volevo restare solo due giorni in ogni luogo e chiacchierare con loro. La ministra restò in silenzio e mi chiese se me la sentivo di fare questa cosa. Io risposi di sì, ho pensato fosse necessario chiudere quella ferita che c’è tra i militari che non hanno mai chiesto scusa e la società civile. Che accoglienza ha avuto? Nella maggior parte delle caserme ho avuto sempre il benvenuto, mi facevano domande all’inizio con molta accortezza ma poi si lasciavano andare e volevano sapere tutto, dal momento del sequestro fino al giorno della mia liberazione, volevano che raccontassi tutto dettagliatamente, mi chiedevano scusa perché mi facevano così tante domande. Mi dicevano: “Facciamo fatica a immaginare come tu, che hai subito tutte queste cose, possa bere il mate o startene qui a mangiare con noi” e io rispondevo che non erano stati loro e che quelli che mi avevano torturato e sequestrato, io li avevo perdonati. È troppo pesante vivere con il desiderio di vendetta. Cosa suona? Il programma si chiama Memoria e suono Bach e una suite del romanticismo con opere di Chopin, di Fauré e Mendelssohn. Prima di suonare Bach, racconto quando con Marta, mia moglie, andavamo a suonare nelle fabbriche, nei villaggi degli indios, nelle villas miserias, nei quartieri poveri di Buenos Aires, Asuncion, La Paz. A loro piaceva molto questa musica e pensavano fosse nostra, pensavano che l’avessimo scritta noi. Così una volta a Tucuman, in una raffineria di zucchero, gli operai e i campesinos mi chiesero se la musica era mia. Io risposi che era Bach, e loro mi chiesero se era argentino. Risposi che era tedesco, e diedi a loro la sua biografia. Dopo averla letta, mi dissero: “Ma Bach era povero come noi, aveva tanti figli come noi, pure a lui morirono dei figli perché non poteva mantenerli, non tollerava la gerarchia come noi, lottava per i salari come noi... e quando dopo diventò famoso, lui che era semplice come noi, passò dalla parte delle grandi cattedrali e dei castelli!”. Mi dissero: “Restituisci a noi quella musica che è anche nostra!”. E così suonai una partita di Bach in do minore. Perché racconto questa cosa ai militari? Perchè i golpisti durante la tortura mi dicevano: “Non ti perdoneremo mai che tu faccia credere ai negri che possono ascoltare Beethoven, questo è il tuo peccato capitale”. Racconto tutto questo ai militari così si rendono conto del razzismo che c’era nei loro predecessori. Questa è musica di amore e di morte, di ribellione, di ansia, inquietudine, preghiera, di pace. Miguel Angel Estrella al pianoforte. Archivio PeaceReporter


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Qualcosa di personale Birmania

Una vita da guerrigliero Testo raccolto da Alessandro Ursic Mi chiamavo Augustine. Fino a quando avevo quattro anni, abitavo con la mia famiglia in un villaggio nella divisione di Bago. Di quei tempi ricordo poco: la mia seconda vita è iniziata quando io, i miei genitori e i miei due fratelli ci siamo trasferiti nella brigata 3 dello stato Karen. Mi hanno raccontato dopo perché: mio padre uccise due spie birmane in un cinema, con un pugnale. liel'aveva chiesto la guerriglia, con cui aveva già dei legami: lui sapeva a cosa sarebbe andato incontro. Ma lo fece comunque. Così, non avevamo altra soluzione che rifugiarci in territorio Karen. A 10 anni, due guerriglieri chiesero a mio padre di potermi arruolare, assicurandogli che avrebbero pensato anche alla mia istruzione. E così, partii. Non ero l'unico: arrivato al quartier generale, vidi tanti ragazzi che conoscevo. Eravamo studenti e soldati allo stesso tempo. Nella stagione calda c'era l'addestramento, in quella delle piogge si andava a scuola. Ma se l'esercito birmano era all'offensiva, se c'era un improvviso bisogno di soldati, capitava che un leader della guerriglia entrasse in classe con la lista di chi doveva partire per il fronte, dal giorno dopo. Almeno per tre settimane si andava a combattere, sapendo che forse non si sarebbe tornati. A me le ragazze non interessavano ancora – l'unica cosa che avevo in mente era diventare un leader della guerriglia – ma tanti piangevano prima di queste partenze, perché i primi amori c'erano già. Quando ero al fronte, la cosa peggiore non era la paura di morire: era cercare di fare sempre meno rumore possibile, per non essere scoperti dai birmani. Mangiavamo riso, riso e riso. Condito con un po' di pasta di pesce, se andava bene. Ogni tanto capitava una lattina di fagioli, ma te la facevi durare per tre settimane. Quando passavamo per i villaggi, prendevamo qualche frutto dagli agricoltori. Ma mi ricordo che una volta, per 29 giorni non mangiai neanche riso: solo germogli di bambù, banane e fiori di banano crudi. L'anno peggiore fu il 1992: non avevamo più armi, l'esercito ci costrinse alla ritirata a Manerblaw. La guerriglia Karen si divise, con i buddisti che formarono il Dkba. C'erano decine di combattimenti ogni giorno, con pause di mezz'ora tra l'uno e l'altro. Intorno a me, i miei compagni morivano. Ogni plotone era composto di 12 guerriglieri, e a un certo punto io mi ritrovai a essere l'unico sopravvissuto nel mio. Le perdite erano pesanti anche tra gli altri, così dovemmo riorganizzare i superstiti in nuovi plotoni. Io ho ricoperto diversi compiti: prima mi misero nei battaglioni d'assalto, poi mi trasferirono nei reparti di difesa, infine di nuovo tra le truppe di attacco. Ero in grado di maneggiare tutte le armi del nostro arsenale, dai kalashnikov ai mortai di 107 millimetri. Ho ucciso. Almeno sei soldati ma forse di più, nel buio della giungla non puoi sempre sincerarti della fine di chi hai colpito. Quando finivano i combattimenti, tornavo a scuola. Ma non era facile: quando sei al fronte dimentichi tutto quello che hai studiato, sei troppo impegnato a sopravvivere. Una volta, nel 1993 non potei fare gli esami, perché ero a combattere per sei mesi di fila. Altri 300 ragazzi erano nelle mie stesse con-

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dizioni. Ma un giorno il maestro ci convocò e ci promosse tutti comunque. Nel 1995, quando Manerblaw cadde definitivamente, mi rifugiai in Thailandia. Passai tre anni in due diversi campi profughi, poi mi stabilii a Mae Sot e cominciai a lavorare per la Lega nazionale per la democrazia, il partito di Aung San Suu Kyi. Volevo semplicemente iniziare una nuova vita. Ma nel 2001 sentii come se il dovere mi chiamasse: per un anno e otto mesi, con una guerriglia etnicamente mista sono tornato a combattere contro l'esercito birmano. Volevamo spezzare le loro linee, impedire il traffico illegale di legname e di droga. on ho avuto notizie della mia famiglia per 21 anni, a parte una lettera che riuscii a ricevere da loro dopo cinque anni nella guerriglia. L'anno scorso, però, mio padre è riuscito a venire a trovarmi a Mae Sot: ho saputo così di avere sorelle che non conoscevo, sono cinque ormai. I miei due fratelli maggiori erano morti di malaria quando ancora abitavo con loro nella brigata 3. Non rivedrò più mio padre: è morto sulla strada del ritorno, neanche so se in un incidente o in un'imboscata. Sono andato al suo funerale e ho incontrato alcuni suoi parenti, così almeno mia madre saprà che io sto bene. Mi manca, la mia famiglia. Altre volte però mi sento forte, perché so quello che ho passato e sono ancora qui. Mi mancano anche quei piccoli momenti di relax con i miei compagni di guerriglia, quando giocavamo con quel poco che avevamo. Quando iniziammo a combattere insieme, avevamo accenti così diversi che a volte non ci capivamo. Ma con il tempo abbiamo imparato a parlare in una lingua comune. Tanti Karen oggi si sentono sconfitti, depressi, ed è per questo che emigrano appena possono. Una volta, nel campo profughi dove stavo arrivò un reclutatore. Ci chiese “Amate il vostro popolo?”. Tutti risposero di sì. Ma quando si fece l'alzata di mano per vedere chi voleva arruolarsi, tutti la tennero bassa. Oggi che mi chiamo Khaing Mar Phyoe e ho 32 anni, se ripenso alla mia vita da guerrigliero, penso che sia stata inutile. Sono fortunato a essere ancora vivo. Ma se potessi tornare indietro, non lo rifarei: baderei agli affari miei. Ho perso amici, affetti, anni di vita, e per cosa? E' abbastanza.

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In alto: Khaing Mar Phyoe oggi. In basso: un ritratto di Saw Ba U Gyi, il padre fondatore della rivoluzione Karen, nel campo profughi di Mae La. Birmania 2009. Alessandro Ursic ©PeaceReporter


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La storia Ucraina

Gli occhi di Pavel Nica Di Nicola Sessa “Sei arrivato giusto in tempo. I medici dicono che ho solo due mesi di vita”, disse Pavel Nica, scrittore e giornalista incaricato di seguire la tragedia di Chernobyl, quando andai a trovarlo a casa sua, a Chisinau, il 17 gennaio scorso. e ne stava seduto su un divano rivestito con un drappo rosso che diventava un tutt’uno con il tappeto, pure questo rosso, appeso alla parete. La sua faccia e i suoi occhi erano stati scavati dalla malattia. Ma il volto ben rasato, i capelli neri tirati ordinatamente indietro e un sorriso aperto gli conferivano un’apparente aria di normalità. Pavel Nica era un giornalista e scrittore moldavo. Quando nel novembre del 1987 il direttore del settimanale Literatura si Arte, per cui lavorava all’epoca, gli ordinò di andare a Chernobyl per un reportage, non poté tirarsi indietro: l’alternativa era il licenziamento. Pavel doveva raccontare alla gente lo scenario di quella città un anno e sei mesi dopo l’esplosione del reattore nucleare numero Quattro. “Siamo partiti in cinque e siamo stati lì solo una settimana, alla fine di novembre. Un mio collega è già morto e altri due sono ammalati, come me”. Pavel parlava a fatica; ogni due o tre parole doveva riprendere fiato. L’aria passando attraverso la trachea produceva un suono che si trasformava in un lamento involontario. “Quando arrivai in città rimasi scioccato dal vuoto, dall’assenza di vita, niente persone, niente macchine. Neanche un uccello!”. Lo spettacolo a cui assistette era surreale. Lui si ricordava ancora delle immagini della città di Pripyat, costruita a pochi chilometri da Chernobyl per i lavoratori delle centrali. Il reattore numero Quattro era stato rivestito con una cupola di acciaio, un sarcofago: “Come se quel cappotto d’acciaio fosse stato sufficiente a fermare il male che covava all’interno. Non potei fare a meno di appoggiare le mani contro quella copertura. Sentii qualcosa di strano che non sono in grado di descrivere”. Là sotto c’erano ancora duecento tonnellate di uranio, solo il 2,3 percento fuoriuscì dal nocciolo il 26 aprile del 1986. “Le centrali termoelettriche sono delle bombe atomiche che producono elettricità! Nessun esperto può realmente dire quali siano le conseguenze di quell’esplosione”. Un bosco intero rimase contaminato, ettari ed ettari, e si pensò che la soluzione migliore fosse l’abbattimento di tutti gli alberi e lo scavo di enormi trincee per sotterrare tutto. Lo stesso fu fatto con le suppellettili recuperate dalle case e gli animali morti. Gli occhi immobili, spalancati di Pavel, squarciarono il silenzio come un grido e dopo qualche secondo aggiunse: “Anche mia nipote che ha otto anni è in grado di capire che le falde acquifere saranno per sempre compromesse”. Subito dopo l’esplosione il governo mandò a Chernobyl quarantadue unità militari: migliaia di ragazzi tra i diciotto e i venti anni

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che raccolsero i detriti a mani nude, senza nessuna protezione. Solo qualche mese dopo si resero conto di quello che stava succedendo, quando alcuni di loro morirono per strada, altri resistettero qualche giorno in più nei letti d’ospedale. “Una mattina vidi un cane piccolo, piccolo. Avevo l’impressione che se lo avessi toccato sarebbe esploso, tanto era gonfio. Ho visto molte mutazioni animali: lupi che erano diventati grossi come cinghiali, pesci che sembravano dei palloncini, conigli che si muovevano come invasati... Sono cose che mi hanno emozionato molto”. Pavel era affaticato, la moglie gli accarezzava amorevolmente i capelli. Una lunga pausa e un succo di mela gli restituirono un po' di forze. Raccontò del suo ritorno a Chisinau: “All’inizio non prestai attenzione al fatto che la mia salivazione si era azzerata, che la mia gola fosse sempre secca”. Pensava che fosse qualcosa di passeggero. Dopo qualche tempo il suo corpo entrò in crisi. “Mi sentivo la testa scoppiare... Uscivo di casa e correvo verso il bosco per urlare. La temperatura del cranio saliva all’inverosimile, i denti diventavano di fuoco e la lingua... la lingua sembrava immersa nell’acqua bollente”. All’ospedale gli riscontrarono dei mutamenti neurologici e successivamente gli fu diagnosticato un cancro alla tiroide. Da quel momento cominciò l’inferno. I dolori si propagarono per tutto il corpo: le ossa, le articolazioni, i muscoli. “Ascolta bene”, disse alzandosi faticosamente in piedi. Le sue ginocchia emisero un crepitio, come quando si spezza un ramo secco. “Sentito? Prima o poi andrò in frantumi”. E ritornando seduto: “Stare in piedi è diventata una fatica enorme. Devo essere molto concentrato per mantenere l’equilibrio. Mi scuserai se non ti accompagno alla porta...” Pavel Nica è morto il 1° marzo, qualche settimana prima di quanto gli avevano pronosticato i medici. Dopo gli anni della repressione del regime comunista, che aveva impedito la “scomoda” pubblicazione del reportage da Chernobyl, il carcere e i controlli del Kgb, Pavel ha trovato nel 2003 un editore disposto a stampare il suo libro sulla “Tragedia del XX Secolo” che nel 2007 è stato tradotto anche in italiano. “Presto lo tradurranno anche in francese. Spero di fare in tempo ad andare in Francia”, disse guardando la moglie. Ritratto di Pavel Nica. Kisinau, Moldova 2009. Nicola Sessa©PeaceReporter


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Migranti

La Milano del Cairo Di Gabriele del Grande

Esiste un quartiere di Milano non ancora collegato dalla metro. Si chiama Tutun. E si trova in Egitto, nelle campagne irrorate dal Nilo, 150 km a sud del Cairo. Conta circa ottantamila abitanti, qui vivono le famiglie di migliaia dei quasi cinquantamila emigrati egiziani residenti nel capoluogo lombardo. unire Milano a questa sua estrema periferia pensano speciali agenzie di viaggio libiche, che si affidano ai vecchi pescherecci rottamati, intercettati ogni settimana al largo di Lampedusa. È iniziato tutto negli anni Novanta. Prima con gli sbarchi in Puglia. Poi la Sicilia. Più di ventimila egiziani hanno attraversato il Mediterraneo tra il 2005 e il 2007. E piano piano, di sanatoria in sanatoria, chi si è messo in regola ha fatto arrivare i fratelli e i cugini. E ha ricreato a Milano una rete di solidarietà familiare che permette tutt'oggi a migliaia di parenti senza documenti di avere un alloggio e un lavoro. Sono gessisti, carpentieri, manovali, panettieri. Molti sono diventati pendolari. Hanno i documenti in regola e, quando non c'è lavoro, scendono qualche mese in Egitto. Arrivano in automobile, comprano terreni e costruiscono case. In una campagna impoverita dalle ultime riforme agrarie, dove un contadino fatica a racimolare sette euro al giorno, la loro presenza ha disegnato un nuovo immaginario. Emigrare oggi, sembra rappresentare la sola via di riscatto. È la stessa architettura della città a ricordarlo. Basta sollevare lo sguardo dalle strade sterrate per vedere le decine di palazzi in costruzione ovunque. Il colore rosso dei mattoni domina l'orizzonte. Sui tetti, accanto alle parabole, spuntano le armature di ferro dei solai. Ogni anno si mura un altro piano. Ogni piano è per la famiglia di uno dei fratelli. Anche gli interni sono curatissimi. Dall'arredamento ai tappeti. Dalle piastrelle del bagno al televisore. I vicini di casa invece hanno ancora capre e galline sul terrazzo. E i loro figli giocano scalzi sopra i mucchi di immondizia ai bordi delle strade. Oppure accompagnano le madri al mercato, a vendere polli e canna da zucchero. E a mangiare la polvere alzata dalle automobili degli emigrati che si fanno largo a colpi di clacson tra la folla, i trattori e i carretti di arance tirati dagli asini. Sono l'icona del successo. Altro che televisione... Qua la tv è piena di soap opera egiziane ambientate al Cairo. E le parabole sono puntate sulle altre emittenti arabe. Il sogno non viene dal piccolo schermo. Il sogno è reale, cammina per strada. Emigrare è diventato uno status. E a partire non sono i più disperati. Ma casomai i più ambiziosi.

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rimpatri da Lampedusa, aumentati negli ultimi due anni, non hanno scoraggiato nessuno. Anzi hanno soltanto abbassato l'età di chi parte. Solo nel 2008 dall'Egitto a Lampedusa sono arrivati più di mille minorenni, che per legge non possono essere espulsi. Per questo Abdallah e Ahmed lasciarono la scuola, a 17 anni, lo scorso dicembre. I genitori erano d'accordo. I fratelli in Italia avevano mandato i soldi. Ma li arrestarono prima di partire, in Libia, per poi rimandarli in Egitto. Abdallah ci ha riprovato una seconda volta. E ci è riuscito. Arrivato a Lampedusa però l'hanno rimpatriato lo stesso. Adesso dice che non pensa più a partire, ma soltanto per-

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ché non ha i 3.000 euro per il biglietto. Altrimenti non ci penserebbe due volte. Un suo compagno di scuola, Mustafa, la pensa invece in modo opposto. Dice di aver paura. Paura di morire in mare. Non riesce a togliersi dalla mente l'immagine delle cinque salme rimpatriate dalla Libia sei mesi fa. Sono decine i ragazzi di questa città morti o dispersi in mare. L'ultima grave tragedia si consumò la notte del primo novembre 2007 sulle spiagge della riserva naturale di Vendicari, in provincia di Siracusa. Morirono 17 persone. Said, che oggi vive a Porta Genova, a Milano, perse cinque familiari. Due cugini, un cognato, il fratello e un nipote. Il più giovane aveva 22 anni. Il più grande 37. Erano di Shid Muu, una frazione di Tutun. Lavoravano come muratori, ma per i figli volevano qualcosa di più. I figli già. Said Saad ne aveva quattro. Ibrahim Ahmed due. E Aid Mohamed tre. Cresceranno orfani. E i freschi intonaci del palazzo murato da Said non sostituiranno i loro padri. rano partiti da Alessandria, in Egitto. Per gli egiziani le rotte si sono già spostate dalla Libia. Da almeno due anni. Nel marzo 2007 infatti la frontiera terrestre tra Libia ed Egitto non è più aperta. Per andare a Tripoli serve un contratto di lavoro. Da allora molti egiziani salpano direttamente dalle coste tra il lago di Burullus e Dumyat. E quando l'Italia ha chiesto a Hosni Mubarak di stringere la cinghia, la polizia egiziana si è limitata a pescare nel mucchio. Negli ultimi mesi, almeno 85 pescatori del piccolo porto di Burg Mghizil, sono stati arrestati in modo arbitrario. A voler emigrare non è l'Egitto in blocco. Sono soprattutto gli abitanti di alcuni paesi rurali. Tatun, ma anche Sharqiyah, Manufiyah, Mansura, Daqahliyah. Secondo Saber la riforma agraria del 1997 ha avuto effetti nefasti. Liberalizzando le concessioni dei terreni agricoli e cancellando i sussidi, il mercato ha punito i piccoli coltivatori. I prezzi al metro quadrato sono aumentati di 30 volte in dieci anni. E un terzo dei terreni è diventato edificabile perché più redditizio. Una politica dissennata in un paese che ancora impiega il 37% della manodopera nell'agricoltura. Aggravata dal disinteresse del governo per le zone rurali e dalla dilagante corruzione. Interi paesi sono senza strade asfaltate, senza illuminazione e senza fognature. Gli stessi emigrati di Tatun non risparmiano critiche al governo egiziano. Parlano di dittatura, di corruzione, si sentono abbandonati a se stessi. Ogni protesta è duramente repressa. Come lo sciopero di Mahalla el Kubra nell'aprile 2008, finito con un morto ammazzato e decine di arresti. Se questa è l'alternativa, i giovani preferiscono partire. Perché via mare? Semplice, ogni altra via legale è impraticabile.

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In alto:Tifosi egiziani a Milano. Italia 2007. Alexey Pivovarov/Prospekt In basso: Barche a Lampedusa. Italia 2007. Samuele Pellecchia/Prospekt


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Rubriche

Pensieri e Parole di Claudio Sabelli Fioretti

Due amici, Rognoni e Panerai In tivù di Sergio Lotti

Un tragico sipario C’è voluta la dolorosa fine di una fragile vita vegetativa prolungata artificialmente fino all’esasperazione per far emergere l’abisso fra la tragedia che si svolgeva in quella camera della clinica friulana La Quiete e lo spettacolo osceno allestito fuori dalla finestra da folle eccitate da un’informazione distorta, che gridavano assassini, scrivevano Beppino boia sui muri e agitavano pagnotte e bottiglie d’acqua davanti alle ambulanze. Per mesi cattivi predicatori e telegiornali da repubblica delle banane avevano continuato ad accreditare l’immagine di Eluana come quella di una ragazza molto malata, ma vitale al punto da poter partorire, secondo il presidente del Consiglio, nonostante un senatore del suo stesso partito gli consigliasse di lasciar perdere, perché l’aveva vista ed era rimasto sconvolto, aveva capito come stavano realmente le cose. Si continuavano a spacciare spasmi per sorrisi e movimenti epilettici per segni di percezione, si insinuava l’idea che le si volesse togliere pane e acqua approfittando del fatto che Beppino Englaro si rifiutava giustamente di diffondere le foto recenti della figlia, trasformata in un corpo di 38 anni inerte e deforme, violentato da tubi e sonde. E quando si alza il tragico sipario sulla becera inadeguatezza della classe politica, con parlamentari che urlano insulti e ministri tentati di menare le mani, qualcuno in televisione comincia finalmente a fare discorsi seri, anche se molte orecchie restano sorde. Ha un bel dire l’ex presidente della Corte costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, invitato da Gad Lerner all’Infedele, che il padre di Eluana ha agito rispettando alla lettera la legge, e che dopo una sentenza della Corte d’appello di Milano, supportata dagli interventi della Cassazione, della Consulta e persino dalla Corte di Strasburgo per i diritti dell’uomo, il Governo non può intervenire in alcun modo: il forzitaliota Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera, non trova di meglio da dire che tutti questi equilibri di poteri e queste garanzie costituzionali sono eccessivi e superati, che erano stati concepiti per evitare un ritorno della dittatura, ma ora questi pericoli non ci sono più. Accanto a lui, la senatrice del Partito democratico Paola Binetti non batte ciglio e continua imperturbabile a parlare di bioetica. 26

Due miei amici sono stati al centro di alcune notizie sui giornali. Due giornalisti con i quali ho cominciato questo mestiere a Panorama più di 40 anni fa: Carlo Rognoni e Paolo Panerai. Carlo Rognoni fu caporedattore di Panorama, poi direttore di Panorama, poi direttore di Epoca, poi direttore del Secolo XIX, poi parlamentare. Adesso era consigliere di amministrazione della Rai. Paolo Panerai fu caposervizio economia a Panorama, poi direttore di Capital. Poi divenne editore e adesso è a capo del gruppo Class. Carlo Rognoni è stato “silurato” da Walter Veltroni proprio come ultimo atto della sua segreteria, un attimo prima delle dimissioni. Un colpo di coda forse proprio mirato a mantenere uno straccio di potere in previsione di questa traversata del deserto che ha davanti. Carlo è la persona a sinistra che capisce più di tutti di comunicazione. Ovvio: fuori! Paolo Panerai, di fronte alla crisi che sta travagliando anche l’editoria a causa della perdita di pagine pubblicitarie, ha proposto ai suoi quasi 500 dipendenti una cosa rivoluzionaria in Italia ma abbastanza conosciuta in Europa: l’autoriduzione degli stipendi. In sostanza ha detto: dovrei procedere a tagli occupazionali. Ma non lo faccio se voi accettate di guadagnare il 10 per cento in

A teatro di Silvia Del Pozzo

Palcoscenico di donne 8 marzo, giornata della donna. Invece di festeggiarla in un tripudio di mimose e una cenetta tra amiche perché non andare a teatro ad ascoltare le voci di donne meno fortunate, con poche possibilità di esprimersi e trovare ascolto nelle loro società? Il Teatro delle Briciole di Parma ospita un interessante progetto di denuncia della condizione femminile in Africa: Malkia (che in swahili vuol dire Regine, regine purtroppo degli slums kenioti!) animato da venti ragazze di Nairobi che hanno trovato nel teatro il motore per un cambiamento umano e sociale che va oltre il palcoscenico. Guidate da Letizia Quintavalla, dopo tre anni di training teatrale (e di consapevolezza di sé), dal 7 al 9 marzo portano in scena la loro versione del “Cerchio di gesso” da Bertolt Brecht , favola allegorica che ruota intorno alla “terribile tentazione” della bontà come principio rivoluzionario. La serva Grusha salva e custodisce il bambino abbandonato dalla madre e per lui affronta ogni ostacolo. E

meno. Guadagnare tutti guadagnare meno. Quasi da comunista e dio mi perdoni visto che so quanto poco comunista sia Paolo. Si sarebbe potuto obbiettare in maniera intelligente. Chiedendo il controllo dei bilanci. Pretendendo un automatico e corrispondente scatto in avanti in caso di congiuntura favorevole. Ricordando che magari in tempi di vacche grasse… Insomma lo spazio c’era. Invece si è assistito alle solite rimostranze paleosindacali. Tipo lo stipendio non si tocca. Il sindacato dei giornalisti è sulle barricate, naturalmente. Direte: è il compito dei sindacati. Certo. Ma che cosa stanno facendo gli altri editori? Nel silenzio generale dei sindacati e nel disinteresse generale dei giornalisti contrattualizzati, stanno facendo fuori i precari e dimezzando (meno 50 per cento) i compensi dei collaboratori. Direte: poco male. Ma se lo dite è solo perché ignorate la realtà del mercato del lavoro giornalistico composto in gran parte da free lance, collaboratori, giovani precari che di fatto sostituiscono i giornalisti necessari per realizzare i giornali. Molti di loro sono veri e propri dipendenti ai quali lo stipendio, in questi mesi, è stato diminuito del 50 per cento. A me è sfuggita l’indignazione del sindacato, in questo caso. E non ho neanche ben colto la solidarietà dei giornalisti col contratto.

quando la madre naturale rivendica il figlio, nel giudizio morale di Brecht il bimbo resta a chi ha saputo dedicargli amore. Ma è possibile praticare la bontà quando intorno tutto parla d’ingiustizia? Le malkia di Nairobi vogliono sperarlo. Intanto a Udine (dal 5 all’8/3) la quinta edizione del festival


Calendidonna è dedicata alle donne dell’Iran del XXI secolo: “Rosa di Persia”, un percorso nell’universo femminile di quel paese, tra teatro, cinema, fotografia, poesia e riflessioni politiche, che prende spunto da un libro di Vanna Vannucchi (Feltrinelli) “Rosa è il colore della Persia. Il sogno perduto di una democrazia islamica”. Infine a Roma, (teatro Piccolo Jovinelli) dal 16 al 26 aprile andrà in scena “Donna bomba” di Ivana Saiko , diretto e interpretato da Chiara Tomarelli. Una giovane donna kamikaze ripensa e rivede la sua vita negli ultimi 12 minuti e 36 secondi che precedono la sua esplosione. Racconto visionario intercalato dalle domande che l’autrice-attrice si pone davanti alla drammatica condizione di tante giovani per le quali “la guerra è la vita e la vita una costante fonte di paura”. In una totale assenza di prospettive che le porta a scivolare verso l’autodistruzione.

Vauro

Parma, Teatro delle Briciole tel. 0521 992044. Udine, Calendidonna /Css Teatro Satabile, tel. 0432 504765. Roma, Teatro Piccolo Jovinelli, tel. 06 492715222/44340262

Musica di Claudio Agostoni

Amadou & Mariam “Welcome to Mali” Because L’ipocrisia nella politica. “Ce n’est pas bon”, noi non la vogliamo. Demagogia e dittatura nella politica. “Ce n’est pas bon”, noi non la vogliamo… Le voci melodiose di Amadou Bagayoko e Mariam Doumbia declamano con chiarezza le loro idee sulla politica in uno dei brani del loro nuovo lavoro.

Sono una coppia ormai rodata da tempo, sul palco e nella vita. Conosciutisi in un istituto per ciechi di Bamako, si sono innamorati e sono diventati una

coppia di cantanti raffinatissima, oggi conosciuta in Europa e negli States anche grazie a ‘sponsor’ di prima qualità (Manu Chao ieri, il cantante dei Blur Demon Albarn oggi). Questo nuovo lavoro è musicalmente molto ricco e i 16 brani proposti miscelano melodie tradizionali del paese d’origine, il Mali, con chitarra rock-blues e con strumenti provenienti da Cuba, India, Siria, Colombia ed Egitto. Senza ovviamente dimenticare strumenti della tradizione africana come n’goni, balafon, e djerkel… Un lavoro che riesce a sposare il pop più attuale con la ricca e variopinta tradizione musicale maliana. Parte del merito va al ricco stuolo di collaboratori che li accompagnano in questo lavoro: tra i tanti, oltre al già citato Demon Albarn, l’anglo-nigeriano Keziah Jones, il musicista reggae originario della Costa d’Avorio Tiken Jah Fakoli, il grande virtuoso della kora Toumani Diabate, il rapper somalo K’naan… Il resto del merito va direttamente ad Amadou & Mariam, che solo ora, dopo trent’anni di carriera, riescono a capitalizzare il loro lavoro. L’originalità di “Welcome to Mali” sta in un lavoro che procede sulla strada delle precedenti incisioni della coppia maliana, ma allo stesso modo la allunga. È un disco che permette di scoprire il loro passato, ma anche il mondo verso cui sono diretti. Il manifesto di un’Africa antichissima e allo stesso tempo più moderna di tanta musica pop ‘usa e getta’ e il tentativo riuscito di portare il suono africano in tutto il mondo come un linguaggio universale. 27


Al cinema di Nicola Falcinella

Verso l'Eden “Ho voluto un migrante bello perché non volevo far pensare che siano piccoli e brutti”. Parola del regista greco francesizzato Costa-Gavras, che ha scelto Riccardo Scamarcio per interpretare un migrante senza patria nel suo “Verso l’Eden” (anche se il titolo originale “Eden is West” è più pertinente per il viaggio verso Ovest all’inseguimento di un sogno). Si chiama Elias il protagonista di una pellicola, presentata come chiusura del 59° Festival di Berlino, che vorrebbe mostrare le migrazioni con un occhio più poetico e lontano da un taglio cronachistico o emergenziale. Elias – Riccardo è un Ulisse al contrario, che vaga a lungo per allontanarsi da casa e viene tentato e sedotto in mille modi. Il bello senza patria, che limita le parole all’indispensabile (anche per non dare indizi sulla sua provenienza e distrarre lo spettatore), si ritrova su una spiaggia di nudisti, finisce in un villaggio turistico ed è preda di vacanziere fameliche in cerca di libertà. Però un mago invita il giovane a raggiungere Parigi, il luogo dove tutto è possibile. Questa la versione di Costa-Gavras. Peccato che lo sfruttamento sessuale degli stranieri riguardi soprattutto le donne, mentre purtroppo qualche uomo si va a cercare il sesso con la violenza e la prevaricazione. Forse un film sugli immigrati che non riescono a trovare un partner e che non riescono a conciliare la cultura d’origine con quella

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dell’Occidente (con le sue opportunità e provocazioni) sarebbe stato più interessante e utile. Al regista dei memorabili “Z – L’orgia del potere”, “Missing” e “Music Box”, o anche del puntuto “Il cacciatore di teste” del 2005 sul mondo del lavoro, va dato atto di aver tentato un’operazione originale su un tema cruciale del mondo di oggi e di domani. Il risultato non è del tutto raggiunto e l’elemento più positivo di “Verso l’Eden” è la bella prova di Scamarcio, che dimostra ai diffidenti di essere un bravo attore.


In libreria

In rete

di Paolo Lezziero

di Arturo Di Corinto

Fabio Abati - Igor Greganti, Polo Nord. La nuova terra dei “padrini” del Sud. Selene edizioni Cambia la geografia e cambiano i nomi storici dei paesi della cultura mafiosa, che erano, fra numerosi altri, Paceco, Cutro, Corleone. La nuova terra dei “ Padrini del Sud” è ormai diventata la chiusa e stakanovista, per rendimento e produzione, Padania del Nord. E i nuovi nomi sono Busto Arsizio, Desenzano del Garda, Reggio Emilia, Gallarate, la zona del Bergamasco, Lodi. “I boss di Cosa Nostra, camorra e ‘ndrangheta, da anni hanno attaccato anche la famosa Padania inventata da Bossi”, scrivono gli autori di questo volume (che non è un romanzo. È la narrazione di fatti e vicende reali fuori dallo stereotipo burocratico del “parlato” giudiziario). Sono Fabio Abati, un giornalista che attualmente lavora a Odeon Tv, un mastino che vuole “scoprire”, anche quando tutto è dato per scontato e sfumato tra le pieghe di stereotipi e codici interpretativi vecchi.” Aiutato dal collega Igor Greganti, giornalista dell’Ansa, implacabile nel seguire i due principi cardine: la verità e il rifiuto delle false verità”. “Questo paese, che in molti vogliono diviso, è nella realtà unificato dal denaro e dalle organizzazioni criminali… anche perché il moralismo delle imprese e dei professionisti del Nord spesso si piega e si adatta nel far girare i molti soldi che arrivano dall’edilizia e dalle tante altre attività di questi uomini del Sud”. “Il tumore mafioso nel Centro Nord è un solo unico universo. Ben piantato dall’alta alla bassa Lombardia. È una strage di mafia a nord di Brescia, a far aprire gli occhi alla gente che ci abita e ai poliziotti e carabinieri che ci lavorano. Mancanza di controllo dei mafiosi, errore di valutazione? L’imprenditore bresciano ucciso si era messo in affari con gente che conosceva poco e che non parlava la sua lingua. Aveva percentuali nel far girare certi soldi e nel non pagare l’Iva. Poi è successo qualcosa per cui era scattata una spedizione punitiva. E oltre a lui avevano ammazzato la moglie polacca e il suo ragazzo di diciassette anni. È un humus, un sottobosco criminale che crea le mafie del Nord, con professionisti, faccendieri e uomini d’affari che fanno soldi, ma che poi si legano troppo alla mafia del Sud che non li lascerà mai. E questo succede anche a Bergamo, a Desenzano sul Garda, Mantova e Cremona,a Piacenza e a Reggio Emilia. Un immenso territorio ormai più o meno controllato dalla n’drine e dalle mafie, che

Guerra alla generazione digitale

trova però appoggi e personale in zona. Con certe signore senza scrupoli che chiedono magari diecimila euro al mese e un purosangue da usare e macchine potenti per sfilare davanti ad amiche ambiziose più di loro per umiliarle. Luogo di incontro e di raduni sono spesso i night, dove ci sono a disposizione ragazze dell’Est per rilassare piccoli e grandi mafiosi, e dove si discute di affari. Se si deve ammazzare qualcuno in Calabria basta affidare la pistola a un poveraccio che lavora in un cantiere del Nord. Deve tenersela nascosta, sotto compenso, per almeno un anno. Quando avviene l’omicidio e la pistola viene persa perché la vittima riesce a investire con l’auto l’assassino, la polizia ricostruisce tutto il percorso dalla matricola dell’arma, e alla fine si trova di fronte a un nessuno che non sa niente. “Perché al Nord, dove la gente è distratta, pensa ad altro, c’è spazio per tutti”. Dice in un ufficio di Desenzano Gaetano Piromalli, salutando l’ingresso in famiglia di un pezzo da novanta alla presenza dei camorristi del Garda. Sì, del Garda. Splendida località che ormai usa linguaggi e atteggiamenti di mafia in una terra una volta lontanissima da questa sociologia. Perché la provincia di Brescia, è una delle migliori per fare giochetti finanziari. Territorio ricco, un sacco di soldi in giro,centinaia di aziende, migliaia di partite Iva”. E la base dei contatti sono le hall degli alberghi di prima categoria, dove eleganti ragionieri di mezza età portano a buon fine i loro appuntamenti. Le cose non sono diverse a Lodi, dove tutto sembra lavoro, affari, e invece, compreso tutto il resto della Lombardia, fino al 2006 erano attivi almeno quattro clan di Cosa Nostra, provenienti da Gela, e altri due da Catania, e altre due dalla Piana di Gioia Tauro. È la mafia del Polo Nord, concludono i due autori. Ancora sconosciuta. Si insinua, si rende presentabile, fa i suoi lavori, guadagna e fa guadagnare molto… qualche volta colpisce, poi scompare. Ma non è una favola da bar. È una realtà dura che ormai ha messo radici.

Google video, Youtube, Current tv; Vlog, videosharing, social broadcasting, e la comunicazione visuale non ha più confini. Tutti possono diventare filmaker e raggiungere coi loro film una platea mondiale. Flickr, Picasa, le foto non hanno più un solo autore, si copiano, si manipolano, si scambiano, si vendono e si comprano in formato digitale. Myspace, P2P networks, net labels: la musica diventa liquida, si prestano accordi, si copiano soundtrack, si remixano brani. Tutti musicisti. Facebook, siti e blog personali: rivolgendosi a un pubblico di sconosciuti ognuno presenta il collage personale della propria vita aggiungendo e togliendo pezzi delle vite degli altri con due colpi di clik. Siamo nell’era dei media personali. Siamo nell’era della creatività di massa. Giovani e meno giovani prendono, copiano, tagliano, rimescolano incessantemente il loro patrimonio di immagini e idee, per divertirsi, sperimentare e raccontare storie, diventando però, in un battibaleno, sospetti criminali per le major del disco e l’industria di Hollywood, che temono la violazione dei loro diritti di proprietà sui materiali usati per le produzioni amatoriali. Un paradosso. Mentre l’elettronica di consumo e le telecomunicazioni offrono strumenti sempre più potenti per tagliare e cucire testi, musica e immagini e poi immetterli in rete, nei computer vengono inseriti chip che controllano come, quando e cosa si produce, e perfino dove viene spedito: è la tecnologia del Trusted Computing. Sempre loro, tolto il cappello di produttori di hardware e fornitori di connettività, indossata la veste di editori, impongono misure sempre pù restrittive sui contenuti di cui detengono i diritti usando le famigerate Tpm, le misure tecniche di protezione che mettono il lucchetto ai contenuti digitali in modo che non si possano utilizzare a fini creativi: sono i Drm, i Digital Rights Management. Se non bastasse, bandi pubblici e concorsi istituzionali intitolati all'innovazione e alla creatività ospitano solo opere originali che “non” siano frutto di manipolazioni, oggetto di mash-up, elaborazioni di idee altrui. Insomma pretendono che a gareggiare siano giovani artisti e creativi le cui opere siano state partorite in laboratori asettici, senza alcun contatto col patrimonio culturale preesistente (e con la rete). È una “guerra” contro la generazione digitale, la prova che le lobby di produttori e distributori di musica e di audiovisivi stanno perdendo terreno e che non gli basta più di invocare la scarsa qualità della musica e dei video che si trovano su youtube.com o facebook.com per giustificare il monopolio dei diritti su suoni e immagini che appartengono al patrimonio di tutti. 29


Per saperne di più GAZA LIBRI EDWARD SAID, «Fine del processo di pace. Palestina e Israele dopo Oslo», Feltrinelli, 2002 Questo saggio di Said, uno dei più noti intellettuali palestinesi, scomparso nel 2003, è una raccolta degli scritti che l'autore ha dedicato al 'dopo Oslo', il processo di pace conclusosi con gli accordi tra israeliani e palestinesi del 1993. Per Said è in quel periodo che sono stati gettati i semi dei frutti avvelenati che hanno portato all'impasse attuale. ILAN PAPPE', «Storia della Palestina moderna», Einaudi, 2005 Pappé, storico israeliano, è tra i fondatori del movimento dei Nuovi Storici che hanno come fine scientifico ed etico quello di sottoporre a un accurato riesame basato su documenti la tradizione orale che ha prevalso nel tracciare le linee della ricostruzione storica relativa alla nascita dello Stato d'Israele e del Sionismo. Le sue posizioni gli sono costate spesso l'ostracismo dei suoi compatrioti. JOE SACCO, «Palestina. Una nazione occupata», Mondadori, 2006 Joe Sacco, maltese-americano, è un giornalistadisegnatore che lavora sul campo come un antropologo in zone di guerra. Il suo reportage a fumetti svela i dettagli e le sfumature della vita di tutti i giorni nei Territori Occupati Palestinesi. ROBERTO BALDUCCI, «La bomba Hamas. Storia del radicalismo islamico in Palestina», Datanews, 2006 Uno dei saggi più aggiornati per comprendere la storia del movimento islamico palestinese, le sue connessioni e i suoi obiettivi. La ricerca di Balducci si ferma nel gennaio 2006, con la vittoria a sorpresa delle elezioni palestinesi. Un valido strumento per contestualizzare il ritratto che i media mainstream propongono della milizia e comprendere più in profondità le ragioni del suo isolamento. MICHEL WARSCHAWSKI, «Programmare il disastro», Shahrazad Edizioni, 2009 Warschawski è un intellettuale israeliano da sempre impegnato nella ricerca di una pace giusta in Palestina e Israele. E' membro dell'Alternative Information Center, ong israelo-palestinese. Il suo testo scritto dopo le elezioni legislative palestinesi del gennaio 2006 (con una prefazione per l’edizione italiana) è un instant book che spiega l’intreccio delle dinamiche che hanno portato Hamas a vincere le elezioni. Ma a fianco a questo Warschawski esamina il dibattito in atto in Israele e le diverse forme di aggregazione politica tra la gioventù israeliana e della sinistra anticolonialistica israeliana che si batte contro la guerra e l’occupazione anche in rapporto con il movimento sociale internazionale.

FILM JAMES LONGLEY, «Gaza Strip», 2002 Un documentarista statunitense, durante l'inverno del 2001, segue con la sua videocamera l'insieme di eventi e persone che seguono le elezioni del primo ministro israeliano Ariel Sharon nella Striscia di Gaza. L'inasprirsi della Seconda Intifada, la distruzione delle case, le vittime dei bombardamenti, viste attraverso gli occhi del tredicenne Mohammed Hejazi; fino all'incursione di Khan Younis, che segnerà l'inizio della rioccupazione delle aree autonome palestinesi. ERAN RIKLIS, «Il giardino dei limoni», 2009 Storia di Salma, vedova palestinese che vive da sola in un villaggio della Cisgiordania, prendendosi cura 30

di un giardino di limoni lasciatole del padre. Il ministro della Difesa israeliano si trasferisce in una villetta che costeggia il terreno: arrivano esercito e servizi segreti, recinzioni di metallo e cecchini. Ma non basta: il limoneto guarda “minaccioso” la villa del ministro, dice l’intelligence, bisogna raderlo al suolo. Una piccola storia, che racconta il grande dramma degli espropri per la 'sicurezza' d'Israele. SAVERIO COSTANZO, «Private», 2004 Mohammed è un insegnante d'inglese, la cui casa viene sequestrata dai militari israeliani che la usano come base operativa. Il dramma di un uomo e della sua famiglia, che vuole star fuori dalla guerra. Ma la guerra entra nella sua vita. HANY ABU ASSAD, «Paradise Now», 2005 Due amici palestinesi di Nablus. Il lento precipitare dalla amara quotidianità di una vita senza slanci, senza prospettiva, all'attentato suicida in Israele. A tratti grottesca, la storia di un dramma individuale e collettivo.

per i transnistriani si tratta di una repubblica indipendente che ha il diritto di esistere. Non c'è una sola verità e gli autori non prendono una posizione, ma riportano un ritratto senza pregiudizi della “piccola Unione Sovietica”. PAVEL NICA, «La Tragedia del XX° Secolo», Ulisse Edizioni, 2007 Il libro racconta della testimonianza diretta dell'autore moldavo che fu inviato a Chernobyl un anno e mezzo dopo l'esplosione del reattore nucleare numero quattro. Dal suo racconto viene fuori un paesaggio e un ritratto di disperazione. E la rabbia di un testimone costretto ad assistere a una tragedia sottovalutata all'inizio e quasi dimenticata dopo.

SITI INTERNET http://palsolidarity.org/ Sito dell'International Solidarity Movement, Ism. Fondato nel 2001, l'Ism è un gruppo di cittadini palestinesi e internazionali che sostiene la vita civile nei Territori Occupati per mezzo dell'azione diretta non violenta. http://www.presadiretta.rai.it/category/0,106720 7,1067208-1083989,00.html Sito dove si può trovare online il documentario sulla Striscia di Gaza, realizzato da Manolo Luppichini e Jacopo Mariani, andato in onda domenica 8 marzo su Rai3. http://www.hrw.org/en/news/2009/02/21/israelend-ban-human-rights-monitors Il report di Human Rights Watch in cui si chiede a Israele di consentire l'accesso alla Striscia di Gaza da parte di operatori umanitari intenzionati a documentare gli eventuali crimini di guerra commessi durante l'offensiva Piombo Fuso. http://www.amnesty.org/en/news-andupdates/foreign-supplied-weapons-used-againstcivilians-israel-and-hamas-20090220 Il rapporto di Amnesty International sulle violazioni delle leggi internazionali a danno dei civili da parte sia di Israele che di Hamas. Nel documento si chiede il blocco della vendita di armi verso entrambe le parti. www.alternativeinfo.org Sito di informazione sul conflitto, gestito da israeliani e palestinesi. http://www.palestine-info.co.uk/ Il sito di informazione ufficiale di Hamas. http://www.ochaopt.org Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari nei Territori Occupati Palestinesi. Utile soprattuto per le ottime mappe tematiche e per le illuminanti presentazioni in power point.

TRANSNISTRIA LIBRI KRAMAR e MARCEL NIMFUEHR, «This is radio PMR News from Transnistria», Bildschöne Bücher, Berlin, 2007 Gli autori austriaci di questo libro sono due giornalisti che hanno lavorato per cinque anni in Transnistria. Hanno acquisito una profonda conoscenza di questa striscia di terra, realizzando reportages, articoli, interviste. Per i moldavi la Transnistria appartiene alla Repubblica di Moldova,

FILM NATIONAL CENTER FOR JEWISH FILM, «Transnistria - the Hell», 1996 Tra il 1941 e il 1944, 300 mila ebrei furono uccisi per mano di ufficiali rumeni in Transnistria Diversamente dal campo di Auschwitz, nei campi di sterminio rumeni si aspettava che gli ebrei morissero di fame, assiderati o ammalati. Sopravvissero solo i bambini: questi orfani della Transnistria raccontano, nel filmdocumentario, gli anni di prigionia, attraverso la memoria, le lettere, i disegni e la fotografia. I sopravvissuti spiegano i motivi sul perché chiamano la Transnistria “Il cimitero dimenticato”.

SITI INTERNET http://66.196.80.202/babelfish/translate_url_conte nt?.intl=us&lp=ru_en&trurl=http://www.olvia.idk net.com Agenzia di stampa della Transnistria (in lingua russa tradotta con babelfish). Si trova nel palazzo del ministero dell'Informazione e ha un ruolo ufficiale nella divulgazione delle informazioni governative. http://www.pridnestrovie.net/ È il sito ufficiale della Transnistria, in lingua inglese. Pridnestrovie o PMR è il nome della Transnistria che preferiscono usare sulla riva orientale del fiume. Ci sono informazioni di tutti i tipi, dal turismo alla situazione dei diritti umani. È molto completo, ma come tutti i siti “ufficiali” va esplorato con un certo distacco.

ERRATA CORRIGE Nello scorso i link delle note all’articolo di pagina 24 sono stati erroneamente accorciati: ecco gli indirizzi internet giusti: 1)http://www.strategicstudiesinstitute.army.mil /pubs/display.cfm?pubID=890 2)http://www.democracynow.org/2008/10/7/u s_army_denies_unit_will_be 3)http://www.armytimes.com/news/2008/09/ army_homeland_090708w/ 4)http://en.wikipedia.org/wiki/Posse_Comitat us_Act 5)http://en.wikipedia.org/wiki/Insurrection_Act 6)http://www.army.mil/aps/04/addendumBJ.html 7)http://www.fas.org/irp/doddir/army/fm319-15.pdf


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