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mensile - anno 4 numero 3 - marzo 2010

3 euro

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

Egitto, acque agitate nel Delta

Golfo Arabico Haiti Francia Iran Afghanistan Italia Migranti

Il Risiko del Golfo Arabico La mia telecamera è spenta La dignità della donna Il meccanico delle rose Il terrore vien di notte Vita operaia Senza via d’uscita Morto per amore

Inserto speciale: Perle degli Emirati Portfolio: Kanun, vendetta di sangue



In pace i figli seppelliscono i padri In guerra sono i padri a seppellire i figli Creso

marzo 2010 mensile - anno 4, numero 3

Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Christian Elia Luca Galassi Alessandro Grandi Benedetta Guerriero Enrico Piovesana Nicola Sessa Stella Spinelli

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Blue & Joy Gabriele Del Grande Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Massimo Di Ricco Nicola Falcinella Licia Lanza Eliana Leshaj Paolo Lezziero Sergio Lotti

Progetto grafico Guido Scarabottolo Oliviero Fiori Segreteria di redazione Silvina Grippaldi

Amministrazione Annalisa Braga

Hanno collaborato per le foto Massimo Di Ricco Dario Egidi Riccardo Francone Erik Messori Claudio Onorati ©Ansa Alessandro Toscano/OnOff Picture Mattia Velati

Redazione e amministrazione Via Bagutta 12 20121 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net

Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Bagutta 12 - 20121 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07

Stampa Graphicscalve Loc. Ponte Formello - 24020 Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 5 marzo 2010

Foto di copertina: Ras el Bahr 2009. Foto di Massimo Di Ricco per PeaceReporter

Pubblicità Via Bagutta 12 20121 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net

L’editoriale di Maso Notarianni

Ma è vivere, questo? iviamo in un Paese dove la classe politica si dedica più a cercare fanciulle dai costumi facili che non ai troppi guai che i cittadini devono affrontare ogni giorno per sopravvivere. Viviamo in un Paese dove per andare a scuola i nostri figli debbono portarsi fogli, penne, matite, cancellini, gessetti e finanche il sapone e la carta igienica. E se hai la sfiga di avere bisogno di un insegnante di sostegno te lo devi pagare da solo. Viviamo in un Paese dove si predicano politiche per le famiglie ma in cui gli asili nido non ci sono. Viviamo in un Paese i cui eroi, come quel tale Massimo Scattarella del Grande Fratello, elogiano la mafia. Senza che nessuno batta ciglio. Viviamo in un Paese dove per bere acqua di fonte si deve pagare quasi quanto una minerale gasata. A volte di più. Viviamo in un Paese dove la corruzione è talmente radicata da fare sembrare la Russia una patria di probi. Viviamo in un Paese dove viene richiesto ai cittadini stranieri un esame per poter avere il permesso di calpestar la nostra terra. Un esame che prevede la conoscenza della Costituzione. Peccato che chi propone questa legge non sappia quanti siano gli articoli che la compongono. E nemmeno di cosa parlano, gli articoli della Costituzione. Viviamo in un Paese che spende più di 50 (cinquanta) milioni di euro al mese per fare una guerra di occupazione. Viviamo in un Paese che per portare aiuti spende 120 (centoventi) mila euro al giorno per mandare una portaerei prima a fare una passerella di marketing militare in Brasile, e solo dopo a prestare soccorso ad un’altra popolazione sepolta da un terremoto. Viviamo in un Paese in cui la gente è indifferente a tutto questo. Drogata dalla televisione che riesce a rendere idoli i mafiosi e i delinquenti, gli stupratori e gli assassini. Viviamo in un Paese in cui la gente non solo ammira il peggio, ma lo rende arbitro della sua vita. E non importa se si perde il lavoro. Non importa se si perde il diritto ad andare a scuola, a essere curati, a vivere dignitosamente. Rimane l’ampio consenso alla banda di delinquenti politici, morali, costituzionali che siedono nelle poltrone rosse delle camere. Il grande fratello di Orwell ci ascoltava. Il Grande Fratello della mafia, decide come dobbiamo vivere. E persino come dobbiamo pensare.

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Italia a pagina 24 e 26 Francia a pagina 16

Iran a pagina 20 Afghanistan a pagina 22

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Haiti a pagina 14

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Egitto a pagina 4

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Migranti a pagina 28

Golfo Arabico a pagina 10 3


Il reportage Egitto

Acque agitate nel Delta Di Massimo Di Ricco Le recenti previsioni per i futuri cambiamenti climatici indicano il Delta del Nilo come una delle zone più vulnerabili della terra. Alla sovrappopolazione, la povertà, la contaminazione e la massiva migrazione della sua popolazione, si aggiunge ora il pericolo concreto di un considerevole innalzamento del livello del mare prima della fine del secolo, con lo spettro di un futuro catastrofico fatto di inondazioni, città sommerse e rifugiati climatici. l tarikh al sahel al-dawli, ovvero la strada costiera che collega Rosetta con Ras el Bahr, le due città del Delta dove il Nilo si incontra con il Mediterraneo, marca ormai nettamente la divisione tra le acque del mare e quelle salmastre della laguna. In questa zona del Delta, le montagnette di sale ai bordi della strada, le sue dune sabbiose e le piantagioni di palme da dattero contrastano fortemente con il paesaggio dell’interno, dove un fitto reticolato di moderne canalizzazioni porta le acque del Nilo a quelle svariate coltivazioni di riso e cotone che necessitano di un massiccio dispendio di acque. Il Delta, con i suoi più di duecentocinquanta chilometri di costa, è un piccolo microcosmo dove vivono quasi cinquanta milioni di abitanti, più della metà della totale popolazione egiziana. Le rigogliose, ma ormai malsane, acque del Nilo scorrono a queste latitudini facendo del Delta una terra fertile in grado di produrre quasi il quaranta percento della produzione agricola necessaria per sfamare l’intera popolazione egiziana. La contaminazione delle acque del Nilo, la sovrappopolazione, la scarsa quantità di ettari coltivabili pro capite, il poco lavoro e mal pagato, la massiva migrazione della popolazione maschile verso l’Europa. Il Delta è una bomba ad orologeria. Pronta a esplodere. Il tic-tac di questa bomba così difficile da disinnescare è in questi ultimi mesi accelerato da quegli studi internazionali che vedono proprio i delta dei grandi fiumi come future vittime del cambiamento climatico e che, in particolare, indicano il Delta del Nilo come vittima inesorabile dell’innalzamento del livello del mare entro la fine del secolo. Secondo Guy Jobbins, specialista in adattamento ai cambiamenti climatici nel continente africano per l’International Development Research Centre, la questione della crescita del livello del mare è più complicata di quanto possa sembrare. “Bisogna considerare che una parte del Nord Africa sta affondando nel Mediterraneo per questioni geologiche e naturali e il fatto che dopo la costruzione della diga di Assuan i sedimenti del Nilo che scendevano naturalmente e contribuivano alla costruzione della costa ora non vengono spinti fuori dal fiume nel Mediterraneo. A tutto ciò si aggiunge poi l’effettivo problema del futuro aumento del livello del mare che avrà i suoi effetti più catastrofici principalmente nei paesi più vulnerabili e con scarse capacità d’adattamento, con un basso livello sul mare ed una popolazione massiccia. E il Delta del Nilo è decisamente una di queste zone”. Secondo l’ultimo rapporto dell’International Panel on Climate Change (Ipcc) del 2007 e le recenti raccomandazioni dell’United Nations Environment Programme (Unep), il Delta del Nilo sarebbe senza dubbio una delle zone più vulnerabili ai cambiamenti climatici. Secondo i pronostici, in questo secolo si potrebbe assistere a un incremento fino a quattro gradi delle temperature e a un innalzamento del livello del mare tra diciotto e cinquantanove centimetri. Secondo questi dati una semplice crescita di cinquanta centimetri provocherebbe nel Delta un impatto potenziale di quattro milioni di sfollati e som-

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mergerebbe una buona parte delle terre del Delta. L’inondazione delle grandi città sulla costa è l’altra faccia della medaglia. Alessandria da una parte, coi suoi quasi quattro milioni di abitanti, e Port Said dall’altra, sono a forte rischio di diventare le nuove città galleggianti del Mediterraneo. sama siede in un bar sulla corniche di Alessandria fumando il suo masel, il tabacco per la pipa ad acqua, mentre guarda disinteressato una partita di calcio. Ad Alessandria si riesce ancora a rivivere quell’aria che aveva fatto della città un centro cosmopolita, e la sua brezza marina ne fa un’alternativa eccellente all’ancora torrido caldo autunnale del Cairo. “I miei due figli sono in Italia, lavorano, si sono sposati, e vivono entrambi a Milano. Qui ad Alessandria e nel Delta non c’è lavoro. Meglio così, io sono contento per loro. E poi ci sono Milano, Roma, Venezia, Firenze, Italia, gamila giddan, molto bella”. Osama ignora la possibilità di un innalzamento del livello del mare e l’ipotesi che forse in un futuro non troppo lontano anche ad Alessandria ci si potrebbe muovere in gondola. Di fronte a tale idea l’ormai sessantenne Osama corruga la fronte per pochi secondi, si gira verso il suo silenzioso compagno di tavolo, per poi scoppiare in una fragorosa risata che si spezza nella fresca notte di Alessandria. Simpatico l’italiano, proprio simpatico. Venezia e la sua laguna sono altri dei possibili scenari di un futuro catastrofico. La regione mediterranea è considerata una zona ad alta vulnerabilità, non solo per l’innalzamento dei livelli del mare, ma per l’incremento delle temperature, la diminuzione delle precipitazioni e la futura scarsità d’acqua. “Alessandria è una città che si racchiude dentro un’area non troppo vasta e con le sue industrie ha un impatto economico e storico molto importante sia a livello nazionale che internazionale. È preventivabile la possibilità che in futuro si costruisca un muro di protezione della città che riduca l’energia delle onde, rallenti l’erosione della costa e in caso di tempesta eviti che la città si inondi, così come è stato fatto in Olanda”. Guy Jobbins non si considera un ottimista, ma un “consapevole pessimista”, ed è convinto che la situazione si complicherà, che la gente soffrirà nel futuro, ma che tutto dipenderà da come si riuscirà a reagire. Niente è perduto. Tutto è possibile. Tutto è ancora nelle nostre mani. Non tutti gli esperti sono però d’accordo sul fatto che il rigoglioso Delta, così come lo abbiamo conosciuto negli ultimi cinquemila anni, sia agli sgoccioli della sua vita. “Nel 2008 abbiamo utilizzato gli scenari offertici dal Ipcc e aggiunto l’incremento ipotetico delle temperature fino al 2100 e abbiamo visto che con le capacità di adattamento dell’area costiera attuali perderemo solamente il tre percento e non il dodici percento o il venti percento delle

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In alto: Il porto di Ras el Bahr. In basso: Pescatori di ritorno al porto di El-Matariya. Egitto 2009. Massimo Di Ricco per PeaceReporter


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terre come qualcuno dice”. Ibrahim Shenawy è il direttore del Coastal Research Institute, un centro che lavora in collaborazione con il governo egiziano per la gestione della zona costiera e agisce direttamente con le comunità locali per prepararle ai cambiamenti dell’ecosistema. “La crescita del livello del mare e i cambiamenti climatici sono una realtà, ma non vedo alcuno scenario catastrofico. Secondo i nostri studi, con un innalzamento massimo che prevediamo di 1.44 metri consideriamo che sia possibile un facile adattamento”. Se c’è discordia sul futuro del Delta, quello su cui studiosi e scienziati di ogni sorta sono forse più d’accordo è che con i ritmi di cambiamento attuali e l’imprevedibilità di Madre Natura non è facile in questo campo fare previsioni precise, ma è necessario essere pronti. Port Said si trova all’altra punta del Delta, in posizione simmetrica rispetto ad Alessandria. Questa città portuaria di cinquecentomila abitanti ha preso forma alla fine del 1800 durante la costruzione del Canale di Suez e sa trasmettere subito tutta la sua storia di porto di mare, intreccio di culture, e porta di passaggio tra Africa, Asia ed Europa. Port Said è letteralmente in mezzo al mare e anche un minimo innalzamento del livello delle acque potrebbe facilitarne l’inondazione e spazzare via quello che rimane di quei suoi edifici dall’inconfondibile stile architettonico coloniale che ricordano la New Orleans francese. lla periferia di Port Said, nella direzione opposta al canale, la città si adagia sulle rive del lago Manzala, che già sta vivendo in pieno questa grave crisi ambientale. Ziad ha la faccia scavata di chi a ormai più di cinquant’anni si sveglia tutti i giorni alle due di notte e dopo quasi undici ore di pesca sta ora tornando a terra accompagnato dalla lancia che raccoglie i pescatori della laguna. Si stende sul legno della barca e ricorda gli anni che ha passato lavorando a Beirut durante la guerra civile. Il ricordo dell’hashish libanese è per Ziad una buona scusa per alzarsi e raggiungere i compagni di pesca sulla sua barca lagunare e accendersi un bong artigianale fatto di un’ampolla di vetro, una canna di bambù lagunare e un piccolo braciere. Ma poi ritorna. “Trent’anni fa non c’era lavoro da queste parti e oggi niente è veramente cambiato. E poi è sempre più difficile trovare i pesci migliori perché la salinità dell’acqua sta crescendo a un ritmo frenetico e i pesci a distanza di una settimana già non li incontriamo dove erano prima”. Alle parole di Ziad fanno da sfondo i triangoli bianchi delle feluche, le barche a vela tipiche del Nilo, ma anche gli impianti della Petrobel, una compagnia dedita all’esplorazione dei terreni in cerca di gas e petrolio. La contaminazione e gli scarichi dalle fabbriche circostanti contribuiscono in particolar modo al deterioramento dell’ecosistema, a tal punto che negli ultimi decenni le acque del lago Manzala e degli altri laghi del Delta come il Burullus e il Maryut si sono letteralmente ritirate su se stesse e le attività legate alla pesca si sono ridotte drasticamente. L’importanza economica di questi laghi rimane comunque enorme se si considera che da qui esce ben il cinquantadue percento della totale produzione di pesce del paese. Oltretutto questi laghi sono una risorsa insostituibile di cibo economico per la gente del Delta, che con la produzione massiva di riso è considerato dal governo come un indiretto sussidio di proteine per gli strati più poveri della popolazione. Riso e pesca sono l’essenza di un Delta epicentro dell’economia egiziana, ma vittima della sua stessa sovrappopolazione e povertà. E l’alta percentuale di infiltrazione di sale marino ha effetti devastanti sull’ecosistema di questo lago. “La salinizzazione dell’acqua è relazionabile anche con l’innalzamento del livello del mare. La pressione di una maggior quantità di acqua marina verso la terra provoca infatti un’infiltrazione nelle falde acquifere e ciò ha un effetto devastante sull’agricoltura. Tutto ciò sta già succedendo nel Delta ed è forse uno dei primi sintomi più evidenti dell’effetto dei cambiamenti climatici in questa zona”, afferma Guy Jobbins. Sulle rive del Manzala i pescatori locali sono ben consapevoli dei cambiamenti quotidiani del loro ecosistema e dell’incremento della salinità, ma hanno ben poca idea di quello che è il processo globale di cambiamento climatico. Lontano dalle acque salate del mare e quelle salmastre della laguna, la situazione non è certo migliore, soprattutto perché l’infiltrazione del sale è ancora più dannosa per l’agricoltura. Ahmad Mahmoud, o Franco come pre-

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ferirebbe farsi chiamare, vive a El-Batanoun, in un paesino del Delta nella provincia di Menoufiya. Franco ha vissuto a Milano per quasi dieci anni lavorando come muratore, riuscendo anche a mettersi in proprio. Da un paio di anni è però tornato al suo villaggio di poche migliaia di abitanti, per star vicino ai suoi genitori e a sua moglie. “L’ottanta percento degli uomini di questo villaggio sono in Italia. Io in Italia sono riuscito a fare un po’ di soldi, e per me qui non ha senso lavorare fino a quando non trovo una buona occasione. La vita costa poco qui, ma è difficile avere un buon stipendio. Se vado a lavorare la terra prendo al massimo dieci ghinee al giorno, che è poco più di un euro. Io per esempio posso mangiar anche due volte al giorno la carne, mentre c’è gente che la mangia una volta al mese. La miseria, questa è la miseria. È normale che la gente se ne voglia andare. Non c’è terra per tutti, e la terra che c’è non è più produttiva come una volta. Mio figlio ha solo 5 anni e già mi chiede come si fa per andare in Italia. Quando arriverà il momento gli insegnerò come”, sorride Franco. Molti degli uomini del Delta hanno intrapreso in passato la via del mare, il markab, la nave, attraverso la Libia, il modo più facile e rischioso per raggiungere l’Italia. e la realtà attuale parla di giovani egiziani che rischiano la vita per attraversare il Mediterraneo, in un futuro non troppo lontano potrebbe esserci spazio per un nuovo tipo di migranti, i cosiddetti rifugiati climatici. Per il momento nessuna traccia, “e probabilmente non prima di cinquant’anni, forse cento”, dice Guy Jobbins. E questo fa parte dello scenario catastrofico. Scenario fatto di spese faraoniche per lo spostamento di un’ingente popolazione o, da un altro punto di vista, malcontento e sollevazioni di una popolazione in ginocchio. E questa è l’esplosione della bomba. La sensibilizzazione della popolazione verso questi temi è invece ciò che deve fronteggiare la piccola comunità di eco-attivisti del Cairo, una delle città a più alta contaminazione ambientale del mondo. “In Egitto non molta gente prende seriamente in considerazione gli effetti dei cambiamenti climatici, perché per esempio la gente è molto più interessata al problema dei rifiuti nelle strade e alla contaminazione”, dice Sarah Rifaat, una giovane eco-attivista egiziana. “Dobbiamo pensare localmente e non ai grandi pericoli globali. È l’unico modo per fronteggiare questi pericoli e spingere i nostri governi a fare qualcosa per salvaguardare il proprio ambiente”. Il summit di Copenaghen rappresenta un’opportunità importante per trovare una soluzione ai problemi ambientali che affronterà la terra nei prossimi decenni. La questione del finanziamento è di estrema importanza. L’Egitto contribuisce ai gas serra mondiali con un minimo 0.57 percento e secondo Ibrahim Shenawy questo è un dato che deve essere preso in considerazione: “Se i paesi sviluppati pensano che quelli in via di sviluppo si debbano assumere le responsabilità per adattarsi ai cambiamenti climatici si sbagliano. La maggior parte delle emissioni nocive proviene dai paesi occidentali e quindi sono loro che ci devono assistere finanziariamente per fronteggiare i cambiamenti climatici”. Il partito degli ottimisti in vista del summit di Copenaghen è decisamente ridotto, e gli scenari catastrofici fanno sempre capolino da dietro l’angolo. “Quando parliamo di una crescita del livello del mare tra i diciotto e i cinquantanove centimetri dobbiamo sapere che in questa previsione non è stata presa in considerazione la possibilità di uno scioglimento rapido della calotta di ghiaccio, che nel caso dell’Antartide Occidentale ha una dimensione pari a quella di Francia e Germania”, avverte Guy Jobbins. “Questa può improvvisamente sciogliersi o decomporsi e non sappiamo con quale rapidità. Con questo fattore bisogna pensare a un possibile aumento di cinque metri del livello del mare e ai relativi effetti catastrofici. Ma non possiamo saperlo perfettamente. L’unica soluzione a questi problemi sta nella forma in cui noi esseri umani interagiamo e modifichiamo il nostro ambiente. La storia che ci hanno sempre raccontato fin da piccoli sul fatto che uomo e natura erano due cose differenti e separate è una grande bugia. Siamo entrambi parte dello stesso sistema”. La questione cardine dei cambiamenti climatici rimane alla fine quella del rapporto tra l’uomo e la natura, la loro intera-

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In alto: Pescatori del Delta del Nilo. In basso: Pescatori nel lago di Manzala. Egitto 2009. Massimo Di Ricco per PeaceReporter


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RIPUDIO LA GUERRA E SOSTENGO EMERGENCY:: EMERGENCY LA MIA IDEA DI PACE. PACE. ^d hdiidhXg^iid$ ^d hdii dhXg^iid$V V

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I cinque sensi del Delta del Nilo

Udito Il silenzio fuori stagione della città balneare di Ras el Bahr dove il Nilo incontra il Mediterraneo. Lo stesso silenzio interrotto dal rumore del cemento a contatto col ferro prodotto delle barche che collocano nuove barriere difensive nell’estuario. Il rumore delle macchine che scendono dal ferry fra Port Said e Port Fuad e che divide simbolicamente l’Asia dall’Africa. Lo strombazzare dei tuk-tuk, i risciò che portano in giro la gente nei piccoli villaggi del Delta. Balteem, Rasheed, Dumiat, Bursaid, le urla di ognuna delle destinazioni del Delta alla stazione dei minibus di Alessandria. Il costante gorgogliare dell’acqua nella sheesha, la pipa ad acqua, dentro i caffè egiziani. Il rumore continuo dei generatori che pompano l’acqua fuori dal terreno per irrigare i campi del Delta. Sentirsi dire che il limo non svolge più la sua funzione naturale così come ci è stato sempre raccontato.

Vista I triangoli delle feluche che si intravedono in lontananza percorrendo la strada costiera internazionale. Le barche in secca di Balteem. I sadiq al-fellahin, letteralmente l’amico dei contadini, in arte i piccoli volatili bianchi dalle lunghe zampe che attorniano i contadini nei campi di riso dell’interno del Delta. L’ombra del mercato all’attracco delle barche di el-Matarya. Il verde onnipresente del

Delta, le sue tonalità di marrone e il nero della terra bruciata. Gli occhi dei lavoratori del cotone, l’unica cosa che si vede del loro corpo durante la raccolta autunnale. Le lucine notturne delle piattaforme di gas e petrolio al largo di Alessandria e Port Said. Le un tempo lussuose case ottomane di Rosetta. Le insegne multilingue di import-export per le strade di Port Said. Le somiglianze delle case di Port Said con quelle di New Orleans. Si spera che le somiglianze finiscano qui.

Gusto Il kushari, un misto di vari tipi di pasta con cipolla fritta, lenticchie e una salsa di pomodoro. Un must per gli egiziani. Da non confondere con il chai koshari che è il tè fatto mettendo le foglie direttamente nell’acqua bollente e senza filtro. La colazione intercontinentale di Port Said che riecheggia il suo passato cosmopolita. Il tamiya, le polpettine fritte di erbe e fave che si incontrano ovunque in Egitto. Il foul, puré di lenticchie, fagioli, melanzane e fave, con cui gli egiziani doc fanno colazione ogni mattina accompagnato da aish baladi, pane semplice. Una colazione da campioni.

Olfatto Il pesce alla griglia nei viottoli del centro di Rosetta mentre si scende verso il bahr, il mare,

così come è chiamato il Nilo. Il fumigare tossico delle piante di riso bruciate dai contadini del Delta per eliminare le eccedenze. Il misto di bruciato e spazzatura in cui spesso ci si imbatte nei villaggi del Delta egiziano. Lo sfrigolare del tamiya nella vasca d’olio ai lati della strada. L’umidità di Alessandria. L’asfalto fresco nella nuova International Road, la strada costiera. Gli odori misti di cibo dei Moulid, le feste per celebrare i compleanni di famosi “santi” sufisti che si svolgono soprattutto nel Delta, ma che quest’anno sono stati drasticamente ridotti per paura dell’influenza el-khanazir, l’influenza suina.

Tatto Le ruvide barriere di cemento armato usate per fermare il mare e diminuire la sua potenza erosiva. Le reti dei pescatori e le loro corde usurate. La liscia superficie dei rettangoli di ghiaccio che scivolano sulle lastre di ferro prima di entrare nelle stive delle barche pronte per andare al largo a pescare. La paglia intrecciata dei cappelli dei fellahin, i contadini del Delta. Il fango per le strette strade di Rosetta, la sabbia fine delle dune di Balteem, la terra bagnata delle coltivazioni di riso dell’interno del Delta. I ciuffi bagnati delle piante di riso che escono dalle risaie. La ruggine del ponte di ferro che attraversa la città di Damietta. I continui dossi che percuotono tutto il corpo nelle disastrate strade del Delta, le maggiori in quanto a incidenza di vittime stradali in tutto l’Egitto. 9


Il reportage Golfo Arabico

Il risiko del Golfo Arabico Di Christian Elia

Gli anni dell’invasione del Paese da parte delle truppe di Saddam Hussein sono lontani, ma girando per le strade di Kuwait City non si direbbe. Facce dure, occhiali a specchio, check-point e fucili semiautomatici in bella mostra. La città è blindata: in uno degli hotel lussuosi del centro c’è il vertice del Gulf Cooperation Council (Gcc), l’organismo che riunisce Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar. ui giornali locali non si parla d’altro, il Gulf News mette in guardia sul pericolo attentati. Creato nel 1981, il Gcc nasceva su impulso dell’Arabia Saudita, con l’obiettivo di dar vita a un mercato comune sul modello della Comunità Europea. In realtà fin dalla sua nascita il Consiglio portava il peso di un’assenza. Quella dell’Iran. Il Golfo divide, più che unirli, i paesi che si affacciano sulle sue acque. Anche nel nome: per i membri del Gcc è il Golfo Arabico, per l’Iran è il Golfo Persico. Con tanto di lotte senza quartiere con il National Geographic. Il clima del 1981, con la guerra Iran-Iraq appena iniziata, riflette quello di oggi. Il problema, oggi come allora, è l’espansionismo sciita. Per capire quello che accade, bisogna volgere lo sguardo indietro. Saddam, all’epoca, rappresentava il campione di una creatura mitologica e paurosa, una specie di centauro, formato permetà dal nazionalismo arabo laico e per metà dal potere sunnita. Da contrapporre all’imam Khomeini e al suo sciismo militante e rivoluzionario, che parlava della corruzione del regime dello shah di Persia, ma non mancava di riferimenti alle corrotte monarchie sunnite del Golfo. Quella guerra è finita, la Rivoluzione Islamica in Iran ha tenuto duro. Il centauro ha finito per mordersi la coda, quando l’Iraq nel 1991 ha invaso il Kuwait. L’intervento della coalizione internazionale ha salvato il Kuwait e, nel 2003, ha rovesciato il regime di Saddam. Ma l’Iran è rimasto là. La linea politica di Teheran, dopo la morte dell’ayatollah Khomeini nel 1989, sembrava mutata. La Rivoluzione non si poteva esportare, meglio consolidare il fronte interno e parlare male dell’Occidente in pubblico, ma continuare a fare affari lucrosi per tutti. Ma nel 2004 cambia tutto. Le elezioni le perdeva il ragionevole Khatami e le vinceva l’intransigente Mahmoud Ahmadinejad. La saldatura tra i falchi della Rivoluzione trovava un nuovo asse nel rapporto tra il messianismo integralista del nuovo presidente e gli ambienti più conservatori vicini alla Guida Suprema Khamenei. Un asse che nel Golfo fa paura come uno tsunami. L’Arabia Saudita è capofila di un malessere che attraversa la regione e si concretizza nelle minoranze sciite che nei paesi del Gcc sono, da sempre, in un angolo. Tutto cambia, perché tutto resti com’è. “In questa regione è in corso una battaglia senza quartiere. Io non ho idea di quanto voi, in Europa come negli Stati Uniti, vi rendiate conto di quello che accade. L’Iran di Ahmadinejad è un pericolo mille volte più grande di alQaeda, del Pakistan fuori controllo, dei talebani in Afghanistan. Loro sono una potenza, hanno tutte le risorse che producono denaro da investire in una politica di sostegno all’Islam sciita in giro per il mondo. E non lo fanno per mero spirito religioso”. Jibril non ha l’aria dell’intellettuale. E’ un esperto di relazioni internazionali, che tiene due corsi all’Università di Scienze Politiche di Kuwait City. Ma non ha gli occhialetti da secchione e neppure l’aria da studente erudito. Sembra più un agente segreto. Mentre parla non toglie mai gli occhiali scuri, non guarda mai in faccia il suo interlocutore.

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Fissa il passeggio di fronte al tavolino del bar nell’elegante Cafè Royal, in alShuhada Street , all’interno del Marriott Hotel di Kuwait City. Donne in nero, ma con tacchi mozzafiato che fanno capolino sotto l’abaya, il vestito tradizionale. “Quello che sta succedendo in Yemen è la stessa cosa che è accaduta in Vietnam negli anni Sessanta. Un terreno di scontro tra Usa e Urss allora, un terreno di scontro tra Riad e Teheran oggi”. Dal 2004, in Yemen, è in corso una rivolta sciita. I seguaci del predicatore al-Houti contro il governo centrale di Sana’a. Più di duecentomila profughi interni dalla provincia di Sa’ada, in fuga dai combattimenti. Il coinvolgimento dell’esercito saudita è ormai lampante: sono almeno cento i militari di Riad che sono morti negli scontri con gli sciiti yemeniti che sconfinano in Arabia Saudita. l denaro per la ribellione arriva da Teheran, come le armi. Tutto è cambiato dal 2003 – spiega Jibril, interrotto costantemente dal suo I-Phone ultimo modello che non smette di squillare – quando gli Usa hanno rovesciato Saddam senza mettere in conto le conseguenze di quello che facevano. L’Iraq è un grande Paese. Dove gli sciiti sono la maggioranza della popolazione. Il potere, per forza di cose, sarebbe andato nelle loro mani. A quel punto Riad e tutti gli stati del Golfo hanno trattenuto il respiro: un asse sciita che parte dagli Hezbollah in Libano (che la guerra del 2006 ha reso ancora più forti), passa dal regime siriano che, pur dominando uno stato sunnita, è di confessione alauita (vicina spiritualmente agli sciiti), e arriva fino all’Iraq e all’Iran, due potenze sciite. Un asse terribile, per le monarchie del Golfo. Sempre nel 2004 gli sciiti del Bahrein, che sono la maggioranza ma sono dominati da una monarchia sunnita, hanno cominciato a dare problemi. Come direbbe il vecchio Marx, un fantasma ha iniziato ad aggirarsi per il Golfo Arabico”, conclude con una risata gelida Jibril. Un fantasma che non si può accettare, visto e considerato che anche l’Arabia Saudita ha una minoranza sciita che soffre da sempre di vivere ai margini della società e dell’esclusione della ricchezza generata dai petroldollari. “Il progetto c’è e fa capo direttamente ad Ahmadinejad e Khamenei: finanziare gli sciiti nella regione, per consolidare il potere regionale dell’Iran, grazie alla liquidità prodotta dagli anni in cui il prezzo del barile di greggio è volato alto. Questa è una vera e propria guerra fredda; lo Yemen è il primo banco di prova. Ma non l’ultimo fronte, di questo potete star sicuri. La riunione di oggi, mi creda, è una specie di stato maggiore per fronteggiare questa minaccia. Il programma nucleare iraniano è inaccettabile per gli Usa, troppo legati a Israele, ma è ancora più inaccettabile per gli stati del Golfo. Non permetteranno che accada, a qualunque costo. Questo timore ha garantito anche un riavvicinamento tra Riad e Washington, dopo il

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Un bancomat a Doha. Qatar 2009. Christian Elia ©PeaceReporter


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gelo dell’11 settembre 2001. Tanti, troppi attentatori suicidi venivano dall’Arabia. All’improvviso i sauditi, dopo settant’anni, non venivano più ritenuti affidabili. Meglio dislocare le unità Usa in Bahrein e Qatar. Ma rispetto all’Iran gli interessi convergono e oggi, qui, si parla di questo”. Le ombrose previsioni di Jibril sembrano trovare un riscontro nel programma dei lavori del Gcc: non solo lo Yemen è al centro dei lavori, ma l’invito rivolto all’Iran nel 2007 di partecipare come osservatore alla riunione del Gcc non è stato confermato quest’anno. Invito che invece è arrivato al ministro degli Esteri yemenita, Abdel Qader al-Qurbi. Il Consiglio delibera una iniziativa, chiamata al Jazeera Shield (lo scudo della Penisola), che prevede una cooperazione militare a tutti i livelli tra gli stati membri del Gcc, comprese le attività di intelligence e logistica. Ingenti investimenti militari sono stati messi a budget, negli ultimi anni, dai governi delle monarchie del Golfo. Il progetto, secondo Jibril, gode della benedizione Usa. E ancora una volta il ricercatore del Kuwait sembra averci visto giusto. esi dopo il vertice in Kuwait, avvenuto a dicembre 2009, il segretario di Stato Usa Hillary Clinton si reca in visita ufficiale nei paesi del Golfo. Febbraio 2010: lo sceicco Khalid bin Ahmed al-Khalifa, ministro degli Esteri del Bahrein, dopo un incontro con l’ex first lady Usa, annuncia un programma di difesa missilistico del suo Paese che rientra in un progetto di difesa militare che riguarda tutto il Golfo. “Nessuna iniziativa è stata presa come gesto ostile nei confronti dei nostri vicini. Nessuno si deve sentire minacciato da una partnership che è solo tecnologica e strategica, per far fronte alle sfide della modernità”. Un esempio di come si possa parlare per non dire nulla. Un sistema integrato di missili Patriot di fabbricazione statunitense, le cui rampe di lancio saranno dislocate in Kuwait, Qatar, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti, non ha nulla a che vedere con il progresso tecnologico. Sono un vero e proprio cordone sanitario, che fa corollario alle unità anti-missile che le navi da guerra Usa portano a bordo e che incrociano nel Golfo Arabico, a un tiro di schioppo dalle coste dell’Iran. “Qui, ormai, sono tutti pazzi”. Hussein non dimostra i suoi sessanta anni. Alto e dritto, come un fuso di cannone. Milita nel Jam’iyat al-Wifaq alWatany al-Islamiyah, più noto come al-Wifaq, il partito sciita più importante in Bahrein. “Qui gli sciiti sono la maggioranza, il cinquantacinque percento secondo le stime ufficiali. Ma secondo me sono molti di più, perché in Bahrein le famiglie sunnite hanno sposato molto di più un sistema di vita simile al vostro e fanno meno figli. Nonostante tutto, le decisioni e le ricchezze restano nelle mani del clan al-Khalifa, la famiglia reale. Siamo in Parlamento, ma non contiamo nulla. Basta pensare a quello che è capitato un anno fa”. Febbraio 2009: da giorni gli sciiti manifestano per le strade di Manama. Chiedevano la scarcerazione immediata di trentacinque correligionari arrestati con l’accusa di aver svolto attività terroristiche. Cospirazione ai danni dell’unità dello Stato, spionaggio a favore di altri stati, attentato alla Costituzione. Queste le accuse. I dimostranti, per giorni, si scontrano con la polizia. Il partito al-Wifaq, quello di Hussein, propone la creazione di una commissione nazionale per il dialogo che faccia calmare le montanti tensioni settarie tra sciiti e sunniti in Bahrein. “Della commissione non si è fatto nulla e sono continuati gli arresti eccellenti”, racconta Hussein, mentre guarda il cielo di Manama. In alto elicotteri militari e caccia si producono in evoluzioni mozzafiato, in vista della festa nazionale. Bande militari sfilano per la via attorno alla Grand Mosque, esempio realizzato del potere degli alKhalifa. “Con che spirito si aspettano che festeggiamo? Non possiamo riconoscerci in uno Stato che serve solo da copertura per gli affari privati di una famiglia, in uno stato dove i tuoi stessi concittadini, fomentati dalla stampa di regime, ti guardano con sospetto. L’Iran? Io non posso non guardare con immensa soddisfazione a quello che il più grande Paese sciita del mondo ha fatto in questi anni, ma non appoggerei mai una sua politica imperialista. Se il mio partito ricevesse denaro per un’insurrezione io mi schiererei con il governo legittimo del Bahrein. Ma, prima o poi, dovranno trattare anche noi come cittadini a tutti gli effetti, investendo nei servizi pubblici per tutti, concedendo pari opportunità a tutti i cittadini del Bahrein e non sperperando denaro pubblico per l’esercito privato degli al-Khalifa”. Le ultime parole di

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Hussein, però, sono superate dal frastuono dei jet. Lo Yemen e la difesa coordinata – concordata con gli Usa – non sono stati i soli argomenti del vertice di Kuwait City. Altro piatto forte all’ordine del giorno è la situazione economica di Dubai. In quei giorni, l’insolvenza dichiarata dalla Dubai World, la società ritenuta il motore della finanza dell’emirato, è stata garantita da un prestito di Abu Dhabi, l’emirato capitale, per dieci miliardi di dollari. Al di là dei giochi di potere interni agli Emirati Arabi Uniti, dove la capitale sta invertendo i rapporti di forza con Dubai, le economie di tutto il mondo hanno tirato un sospiro di sollievo. Le borse hanno reagito positivamente alla notizia e tutti gli stati del Golfo hanno accolto con sorrisi evidenti sui volti degli sceicchi, in posa sulle prime pagine di tutti i giornali, con didascalie che occupano mezza pagina per inserire devotamente tutti i nomi e i titoli dei monarchi. Dubai, che il petrolio non ce l’ha, era diventata un modello: real estate di alta classe, progetti faraonici per il turismo di lusso, energie rinnovabili e così via. Il dichiararsi a un passo dal fallimento metteva in cattiva luce tutta la programmazione economica e finanziaria degli altri stati che, piano piano, finivano per sviluppare città sul modello di Dubai. La crisi, però, ha indebolito Dubai sul piano negoziale con gli altri membri del Gcc. In primavera, infatti, con la scusa della polemica per la designazione di Riad quale sede della banca centrale per la moneta unica nel Golfo, gli Emirati si erano sfilati dal progetto. Non a caso, perché il vero problema è che questo stato è molto più sensibile ai temi economici che a quelli religiosi e politici, fa affari d’oro con l’Iran. Adesso, vista la debolezza di Dubai, la posizione degli Emirati si è di fatto ammorbidita e Riad e gli altri non vedono l’ora di bloccare uno dei mercati più importanti per l’economia embargata di Teheran. Adesso che Dubai tira il fiato, gli sceicchi e i loro alleati occidentali, sempre più, possono concentrarsi sul nemico per eccellenza: l’Iran di Ahmadinejad. i creda, la crisi economica di Dubai è tutta politica”. James sembra uno stereotipo prima ancora che una persona. Irlandese da cartolina, con i capelli incendiati di suo e dal sole che tramonta sullo scenario del creek di Deira, il canale artificiale creato decenni fa che porta il mare nel cuore di Dubai, nella sua zona più antica e commerciale. “Vede là, quel palazzone? E’ la sede della Iran Melli Bank, la cassaforte dei pasdaran. Non c’è uno spillo che si muova in Iran, a livello economico, che non passi da quella banca. A Dubai gli iraniani sono di casa: senza Dubai l’Iran non saprebbe come far girare il denaro”. James parla svelto, aiutato dai drink consumati in fretta in uno dei bar per gli expat, gli stranieri ricchi, che lavorano a Dubai. Lui è qui da tre anni, mandato da uno dei dieci più importanti fondi d’investimento del mondo. “Solo che se scrivi qual è mi ammazzano”, sorride amaro. “Noi sapevamo che la burrasca arrivava, ma solo perché in Gran Bretagna e negli Usa hanno deciso di farla arrivare. D’accordo con i sauditi. Dubai deve capire la lezione: il suo posto è nel blocco anti iraniano. Tutte le sanzioni del mondo non servono a nulla se Dubai continua a garantire il giro del denaro dei mullah. Lo stesso vale per l’Oman, che aiuta l’Iran ad aggirare l’embargo con il contrabbando. Non a caso anche l’Oman si è chiamata fuori dalla moneta unica, ma il suo ruolo è minore. Tutti sapevano che l’economia di Dubai ruota sul debito: tirarlo fuori adesso è strumentale. Per dare un colpo alla famiglia al-Makthoum, costringendola a piegarsi alla famiglia al-Nayahn, quella di Abu Dhabi. Anche a loro piacciono gli affari, ma sono molto più religiosi. Molto più sunniti. Più Dubai dipenderà da Abu Dhabi per stare in piedi, più la visione religiosa della geopolitica di questa regione ne sarà influenzata. Attorno all’Iran è in atto una manovra di accerchiamento, mi creda”. Mentre James racconta, lungo il creek si muovono centinaia di barconi. Sono i dhow, le imbarcazioni tradizionali. Alla vela latina è stato sostituito il motore, ma sono quelli di sempre: legno, fondo piatto, poppa molto alta. Perfetti per i bassi fondali del Golfo, che solcano in poche ore, stracarichi di merci. “Con quelli, però, ci viaggiano le merci. I soldi si muovono con le banche. Tra un po’ l’Iran non avrà più l’aria per respirare e allora ci sarà poco da stare allegri”.

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In alto: La casa del falcone. Manama, Barhein 2009. In basso: Un barcone parte per l’Iran. Dubai, Emirati Arabi 2009. Christian Elia ©PeaceReporter


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Qualcosa di personale Haiti

La mia telecamera è spenta Testo raccolto da Alessandro Grandi

Wlfred Cyderiè, trentatreenne cameraman haitiano racconta a modo suo la distruzione di Haiti avvenuta il 12 gennaio scorso sotto i colpi sussultori di uno dei terremoti più forti degli ultimi anni. a mia mano non è più ferma come un paio di anni fa. Sarà l’età. Sarà che adesso riprendere il mio paese è diventata un’impresa ardua. Non che prima non lo fosse, certo, ma oggi è tutta un’altra cosa”. Quando è crollato tutto per prima cosa ho pensato a mettermi in contatto con i miei familiari. Volevo capire se ci fossero stati gravi problemi. La fortuna ci ha assistito e ha fatto in modo che la nostra casa non crollasse. Mia moglie e i miei due bambini se la sono cavata solo con un grande spavento. Peggio è andata a me. Ero a Delmas, uno dei quartieri più poveri della città all’interno di un piccolo studio che utilizzo insieme ad alcuni ragazzi dell’università per il montaggio dei video che giro. È crollato tutto in pochi secondi e mi sono ritrovato una trave di legno e diverse lamiere addosso. La cosa davvero impressionante è che mi sono ritrovato a piano terreno mentre stavo lavorando al primo piano. Tutto in un istante. Tutto senza avere la benché minima possibilità di fare qualcosa per salvarmi. Se ci ripenso adesso mi rendo conto di quanto sia breve il tempo che ci lega alla vita e come sia veloce e indolore andare incontro alla morte. Raggiungere la mia casa e verificare le condizioni della mia famiglia è stata una corsa a ostacoli. C’erano macerie e case collassate ovunque. C’era polvere. Una polvere strana, spessa, fissa nell’aria come se fosse nebbia fitta. E c’era odore di polvere. Forse più che di polvere di calce, di cemento sbriciolato. E tanta gente che gridava, pregava, scappava e cercava aiuto. Si sentivano urla provenire da sotto le macerie. I miei occhi vedevano tutto e forse anche di più ma la mia testa era avvolta dall’unico pensiero di arrivare verso casa e accertarmi delle condizioni della mia famiglia. Non pensavo ad altro. Avevo la testa rivolta solo a quello. Penso di aver corso come mai ho fatto in vita mia. A un certo punto ho creduto di volare. Tutto sembrava irreale intorno a me: gente che si sbracciava, sangue, e la pelle dei miei concittadini era ricoperta da uno strato spesso di polvere bianca, una scena apocalittica. Un misto fra inferno e paradiso con risvolti carnevaleschi. Ma non c’era nulla da festeggiare e nemmeno c’era da scherzare. Solo quando ho avuto tra le braccia i miei figli e mia moglie mi sono tranquillizzato. Lì ho notato che tutto intorno a me era crollato. Vedevo morte e distruzione. Anche molta gente che conoscevo. Guardando una crepa formatasi sul muro della nostra casa ho detto a mia moglie di prendere tutte le cose di valore che ce ne saremmo dovuti andare da quel posto. Ma stavo parlando quando sotto i nostri piedi abbiamo sentito la terra che si muoveva. Sembrava viva. Sembrava che da un istante all’altro arrivasse dalle viscere della terra un mostro, un essere sconosciuto. I miei figli urlavano.

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Tutti gridavano. Siamo immediatamente scappati lontano dalle mura della casa per paura che ci crollasse tutto addosso. Mezzo minuto dopo era tutto finito. Ma la sensazione e i sentimenti provati in quei momenti difficilmente si potranno cancellare dalla nostra mente. La natura, questa volta, è stata sia infame che provvidenziale. Infame perché non poteva scegliere paese più povero, disagiato, pericolante e sottosviluppato per scatenare la sua enorme potenza devastatrice. Provvidenziale perché adesso, finalmente, chi siede ai posti di comando, dovrà attivarsi per ricostruire il paese dalle fondamenta. E per fondamenta non intendo solo quelle degli edifici”. Dobbiamo ricostruire tutto. E quando dico tutto mi rendo conto che proprio c’è tutto da ricostruire. Credo sia indispensabile un piano regolatore nuovo, progettato insieme a personale esperto. Credo sia importante ricostruire tutti i palazzi del potere ma insieme a quelli bisogna pensare alle scuole, agli ospedali. Oggi bisogna ricostruire un paese ma la cosa fondamentale è ricostruire la società haitiana. Ridare fiducia e lavoro. Aria e acqua. Pace e tranquillità. Ci vorranno molti anni per rimpiazzare questa nazione del quinto mondo con un Paese dignitoso. E negli anni della ricostruzione il popolo haitiano dovrà avere un ruolo fondamentale, non marginale. Solo così potrà far valere la propria sovranità nazionale e non diventare l’ennesimo paese satellite degli Stati Uniti. Ho paura, però, che tutto questo non avverrà mai, soprattutto dopo la pagliacciata degli americani che sembrava dovessero risolvere le cose in cinque minuti e invece non sono stati in grado nemmeno di distribuire senza casini le bottiglie d’acqua. Non si rendono conto che non sono in guerra e che le armi e i modi violenti non servono. Fanno ridere gli americani. Danno ordini e nessuno li esegue. Ti pare che un francese che sta scavando sotto le macerie per salvare una vita smetta di farlo solo perchè arriva l’imput americano... cose da pazzi. Ma la cosa divertente, se ci può essere una cosa divertente in tutta questa tragedia, è che noi aspettavamo che scendesse da qualche aereo o da qualche elicottero Rambo o Terminator. Loro sì che avrebbero messo a posto le cose con velocità. Ma Haiti è realtà non un film hollywoodiano. Io da questo Paese mi sa che me ne vado. In alto: Morte e distruzione a Carrefour. In basso: Panni stesi. Port au Prince, Haiti 2010. Mattia Velati per PeaceReporter


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La storia Francia

La dignità della donna Di Benedetta Guerriero Burqa e niqab restano al centro del dibattito francese, che in quest’ultimo periodo si sta facendo sempre più acceso. La commissione, istituita dal parlamento, a gennaio si è espressa favorevolmente sul divieto di indossare il velo integrale nei luoghi pubblici. Pur interessando un numero piuttosto ristretto di persone, la decisione ha spaccato il Paese e innescato aspre polemiche, specie tra i giuristi. è chi difende la proposta di legge, sostenendo che sia un provvedimento volto a garantire la sicurezza dei cittadini francesi. Sia il burqa che il niqab coprono interamente il volto della persona, rendendone impossibile l’identificazione. Tra il fronte dei sostenitori della proposta di legge, avanzata dall’Ump (Unione per un movimento popolare), partito della destra d’Oltralpe, ci sono anche coloro che affermano che il provvedimento miri a tutelare la dignità femminile e sia contrario ai valori nazionali francesi che si ispirano alla laicità. Ci sono, tuttavia, anche molti giuristi, sociologi e professori che attaccano la proposta dell’Ump, avanzando profondi dubbi sulla sua legittimità. L’entrata in vigore di una simile norma andrebbe, infatti, a intaccare la libertà individuale. Uno dei cardini della Costituzione francese. Secondo i detrattori del provvedimento, vietare a una donna di indossare il burqa o il niqab costituirebbe una limitazione della sua libertà individuale. Fermo restando l’obbligo di farsi riconoscere e mostrarsi dalle autorità competenti. La delicatezza della questione ha fatto sì che la commissione si pronunciasse a favore di una risoluzione dal valore simbolico, non vincolante giuridicamente. L’Ump, invece, preme per l’entrata in vigore di una legge. Con ogni probabilità sarà il risultato delle elezioni regionali a determinare il futuro del provvedimento. Mohammed Hocine Benkheira, sociologo dell’islam e direttore del dipartimento di scienze religiose dell’École Pratique des Hautes Études della Sorbona di Parigi, è un esperto di diritto musulmano. Nei suoi studi si è occupato di svariate tematiche inerenti al mondo musulmano, quali la sessualità, il diritto islamico antico, le norme alimentari, e ha espresso alcune perplessità sulla proposta di legge contro l’uso del velo integrale. “Il cuore della questione è la dignità della donna. In Francia ci sono coloro che si appellano a una legge per dare concretezza a questa idea. Si tratta, tuttavia, di un concetto molto forte”. Chi potrebbe opporsi? Anche coloro che sono favorevoli all’uso del velo integrale, dicono di difendere la dignità della donna. Chi ha ragione allora? “In verità, la dignità della donna non è una nozione che può avere un senso univoco, ma dà adito a diverse interpretazioni. Di conseguenza è difficile per i protagonisti del dibattito servirsene. Se quanti osteggiano il burqa, sostengono che coprire il volto di una donna equivalga a minacciare la sua dignità, coloro che difendono il velo integrale affermano che sia una protezione per la donna. Ci troviamo davanti a un conflitto di interpretazioni. Di queste una

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è endogena, l’altra esogena. In questo tipo di conflitti, che ricordano un nodo gordiano, occorre entrare nel vivo: la dignità femminile può essere stabilita da una legge? Se il parlamento francese introducesse una legge per interdire il burqa dai luoghi pubblici, sarebbe un suo diritto e nessuno potrebbe impedirglielo. Così come allora non si poteva rimproverare gli svizzeri di essersi pronunciati contro la costruzione di nuovi minareti. Così la sovranità nazionale conferisce legittimità a una legislazione che impone il divieto del burqa, ma non a un valore universale come la dignità della donna”. necessario rimarcare che l’intellighentia francese, oggi mobilitata come un sol uomo (o quasi) contro il burqa, era scioccata solo poco tempo fa dalle tesi del politologo statunitense Samuel Huntington sulla cosiddetta guerra di civiltà. “Il caso del burqa - dice ancora Benkheira - è esattamente la stessa questione. L’inconveniente che presenta una legge (e ve ne sono sicuramente di inconvenienti, nella legge) sta nel fatto che le norme presuppongono che la definizione dell’Universale sia una prerogativa dello Stato francese (o svizzero come nell’esempio dei minareti). Una prerogativa che si va a opporre a tutti gli altri Stati (evidentemente quelli musulmani) che sono relegati nella categoria del Particolare.” Dall’altra parte, la proposta di legge invia un messaggio chiaro ai musulmani: siete legittimati ad agire come ritenete giusto nei vostri Paesi, perché lì siete sovrani. Detto in altre parole, nei loro Stati i musulmani hanno il diritto di proibire le costruzioni di chiese, il proselitismo e di difendere la loro religione con ogni mezzo. “Un altro inconveniente della proposta di legge - sostiene Benkheira - è che se una norma interdirà il velo integrale dagli spazi pubblici, sarà, tuttavia, incapace di agire sulla volontà delle donne che lo indossano. Purtroppo gli spiriti e le coscienze non si governano attraverso una legge. A una donna si può imporre di togliere il velo, ma non si può, allo stesso tempo, impedirle di pensare di essere vittima di un’ingiustizia. Coloro che invocano una legge repressiva, si dimenticano di questi inconvenienti, così come di altri”. “Bisogna riconoscere però - conclude Benkheira - che una legge siffatta andrebbe a inscriversi in una tradizione francese in cui è la laicità che prende essa stessa la forma di religione nello stesso tempo ufficiale, non riconosciuta, ma completa”.

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Sfilata di moda a Parigi. Archivio PeaceReporter


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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

Le buone nuove Senegal: adieu, soldats I soldati francesi abbandoneranno il Senegal. Dopo un lungo periodo di trattative tra i due governi, la decisione è stata presa e lo Stato africano si prepara a festeggiare i cinquant’anni di indipendenza lasciandosi alle spalle il passato coloniale. Sul territorio senegalese, nella base di Dakar, ci sono ancora circa milleduecento soldati francesi che dovranno attuare le procedure di rientro. Restano tuttavia da stabilire i tempi della partenza dei militari, ma per il Senegal si tratta di un traguardo storico di fondamentale importanza. Era il 1884-85 quando, durante la Conferenza di Berlino, l’Europa si divise a tavolino le aree d’influenza in Africa. Il Senegal venne assegnato alla Francia che vi introdusse la monocoltura dell’arachide e si impossessò delle sue risorse. Il dominio francese non fu messo in discussione fino al secondo dopoguerra, quando iniziò il processo di decolonizzazione che portò il Senegal all’indipendenza il quattro aprile del 1960. Leopold-Sedar Senghor fu il primo presidente della Repubblica del Senegal.

Messico: la corsa all’oro è a ostacoli Il governatore di Baja California Sud, Narciso Agúndez, si è impegnato a gestire il dietro front del progetto che puntava dritto dritto a violentare nell’animo la Riserva della Biosfera Sierra de la Laguna. Le pressioni, le manifestazioni, le raccolte di firme, le notti insonni dei cittadini riuniti in vari movimenti ambientalisti hanno fatto centro. Dopo un colloquio téte à téte con Agúndez, il rappresentante del comitato di cittadini, Ariel Ruiz, ha potuto finalmente dire che il governatore ha riconosciuto e condiviso la preoccupazione che agitava gli abitanti di questo paradiso. E ha ammesso che la miniera d’oro a cielo aperto, prevista nella località El Rosario, avrebbe avuto un impatto sociale e ambientale devastante. Il rischio di contaminazione delle falde acquifere è infatti altissimo, e se si considera che la regione è la più arida del Messico, i conti son presto fatti: sciagura senza ritorno. Così, Agúndez ha scelto da che parte stare e immediatamente si è mosso per convincere la Segreteria dell’ambiente e delle risorse naturali a bloccare ogni velleità di sfruttamento. 18

Botswana

Albania

I poveri finanziano Stallo sullo i ricchi scacchiere mmonta a centocinquanta milioni di dollari la cifra che il governo del Botswana sborserà per salvare il colosso diamantifero De Beers dai debiti contratti durante il 2009. Una passività pari a tre miliardi di dollari, che il gruppo leader nell’estrazione e commercializzazione dei diamanti si appresta a risanare dando via a un aumento di capitale di un miliardo di dollari. L’operazione coinvolgerà, in misura proporzionale alle loro quote azionarie nella società, i tre proprietari dell’azienda sudafricana: Anglo American plc (quarantacinque percento), Central Holdings (quaranta percento) e la Repubblica del Botswana (quindici percento). I primi due gruppi sono controllati quasi integralmente dalla famiglia Oppenheimer che, pertanto, detiene l’ottantacinque percento di De Beers. Per loro l’obbligo finanziario della ricapitalizzazione ammonta rispettivamente a quattrocentocinquanta e quattrocento milioni di dollari. Grazie alla partecipazione pubblica, cinquanta percento, nell’azienda Debswana che attualmente possiede il monopolio dell’estrazione nelle miniere nazionali – e che è controllata per l’altra metà proprio dalla De Beers – lo Stato è diventato negli anni uno dei più avanzati dell’intero continente, riuscendo a uscire dalla lista dei Paesi meno sviluppati stilata dalle Nazioni Unite. Solo nel novembre 2009 la ripartizione dei dividendi di De Beers fruttò al governo di Gaborone cinquecentosette milioni di dollari. E questo nonostante la crisi del mercato dei diamanti a causa della quale la De Beers ha chiuso il 2009 con settecentocinquanta milioni di dollari di perdite rispetto all’attivo di novanta milioni dell’anno precedente. I centocinquanta milioni di dollari chiesti all’azionista di minoranza sembrano però una cifra eccessiva per un paese nel quale la metà della popolazione vive con meno di due dollari al mese. Inoltre il Botswana sta attualmente attraversando un difficile periodo dovuto a un deficit di bilancio statale di circa due miliardi di dollari. Ciò potrebbe rendere oltremodo onerosa l’adesione alla manovra di salvataggio dell’azienda di Johannesburg e ripercuotersi in modo gravoso sulle casse pubbliche.

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Antonio Marafioti

o stallo politico albanese non rappresenta solo una questione interna: Unione Europea e Stati Uniti guardano con attenzione al gelo che è piombato sull’attività legislativa. Pur precisando che la soluzione dello sblocco debba venire dalle parti in causa con il presidente Bamir Topi come arbitro, Washington e Bruxelles sono scese direttamente in campo per mettere fine al braccio di ferro tra il Primo Ministro Sali Berisha e il leader dell’opposizione, il socialista Edi Rama. Dallo scorso settembre metà dei seggi nel Parlamento di Tirana è vuota. I sessantacinque membri del Partito Socialista boicottano a oltranza le sessioni dell’Assemblea poiché non riconoscono la vittoria del Partito Democratico di Berisha che il 28 giugno del 2009 l’ha spuntata con un margine davvero esiguo: la compagine di centrodestra controlla solo settantacinque dei centoquaranta seggi. Edi Rama ritiene che le elezioni siano state caratterizzate da brogli e scorrettezze e pretende per questo il riconteggio delle schede. Sali Berisha, pur essendo d’accordo che una commissione compia le dovute indagini, ha respinto l’ipotesi di un nuovo scrutinio così come, in realtà, ha fatto anche il tribunale. Da molto tempo l’ambasciatore degli Stati Uniti e il rappresentante dell’Ue premono sul presidente Bamir Topi perché porti al tavolo delle trattative i due protagonisti principali di questa guerra di posizione. Un primo incontro, tenutosi a metà febbraio, non ha portato a nulla di più che al solito giro di dichiarazioni politiche: Edi Rama non accetterà di mettere da parte la questione brogli ma, al pari di Berisha, si è dimostrato disponibile al dialogo. In gioco non ci sono soltanto poltrone e spartizioni di competenze, ma anche il percorso di avvicinamento di Tirana all’Unione Europea: la prolungata inattività del Parlamento si traduce nella impossibilità di licenziare nuove leggi e soprattutto di procedere alle riforme necessarie per raggiungere gli standard richiesti da Bruxelles.

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Nicola Sessa


Portfolio

Kanun, vendetta di sangue Testo di Eliana Leshaj. Fotografie di Erik Messori. ella remota antichità, faide e vendette trasversali sono state considerate il solo modo per difendersi e per farsi giustizia contro ogni forma d’offesa. Ma solo dopo la comparsa della legge del taglione l’occhio per occhio, dente per dente del diritto romano - hanno cominciato a prendere consistenza forme rudimentali di costruzioni giuridiche, a regolamentare la vendetta e con lo scopo di opporsi al dilagare incontrollato di pratiche barbare. Una di tali forme ha preso vita anche in Albania e ne troviamo le radici nel Kanun del principe Lek Dukagjini, vissuto nel XV secolo, che ha creato norme consuetudinarie basate sull’esercizio della vendetta, per regolare la vita sociale delle collettività del nord.

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Il complesso di queste norme si è tramandato di generazione in generazione, imponendosi nella coscienza sociale fino ai nostri giorni, non solo in veste storico-culturale ma anche, di fatto, come coscienza giuridica e legge tradizionale che in molti casi si sovrappone alla giurisdizione ufficiale del luogo. Così accade che nel 2009 molte famiglie delle montagne vivono rinchiuse da anni fra mura di case in rovina, povertà e oblio. E noi andiamo lì non già per portare alla luce il Kanun e solleticare la curiosità dell’Occidente verso le modalità in cui esso si esplica, ma per raccontare la vita di persone che vivono in condizioni medievali pur essendo nel XXI secolo.


Pagina precedente: Un uomo sottoposto al Codice Kanun per un omicidio commesso nel 1997. Foto centrale: il tatuaggio su un braccio che ha ucciso diverse volte. Da destra a sinistra in senso orario: 1) L’ultimo membro di una famiglia sterminata per vendetta sorveglia la sua casa guardando fuori dalla finestra. 2) Vita quotidiana a Bardhaj, dove il padre armato protegge la casa. 3) La moglie e il figlio di un capo famiglia rinchiuso per omicidio. 4) Un uomo mostra una foto con due dei suoi tre figli uccisi nella faida con una famiglia rivale. 5) L’ingresso di Bardhaj, il villaggio a pochi chilometri da Skhoder, dove quasi tutte le famiglie vivono sotto la ritorsione della vendetta. 6) Membro della famiglia Martinaj, rinchiusa da anni a causa di un omicidio. Pagina successiva. Sopra: Besmiri, 12 anni, l’unico maschio della sua famiglia sopravvissuto fino ad oggi, è analfabeta. I suoi genitori sono stati uccisi per vendetta, vive chiuso in casa, la sua condanna a morte è già stata pronunciata dalla famiglia rivale. Sotto: la mano di un anziano con l’anello di famiglia su una copia del Codice Kanun.




Perle degli Emirati di Christian Elia Sulle orme immaginarie del grande viaggiatore del passato Ibn Battuta, un giro a Dubai tra passato e modernità

l mio nome è Ibn Battuta. Avevo solo ventuno anni quando ho lasciato mio padre e la mia famiglia a bocca aperta e ho detto loro, con semplicità: “Io parto”. Ho lasciato la mia casa e la mia città, Tangeri, in Marocco, per conoscere il mondo. Era il 1325, secondo il vostro calendario. Non avrei rivisto i miei cari e la mia città, baciata dal Mediterraneo, prima del 1354. Tanti anni erano passati, tante cose avevo perduto. Ma perdendomi mi ero arricchito, girando per il mondo, dall’Andalusia alla Cina, percorrendo 75mila miglia e incontrando lingue e culture di genti differenti, che a volte parlavano a un Dio diverso dal mio. Sono tornato più ricco di quando sono partito e mai, proprio mai, mi sono sentito migliore di qualcuno che ho incontrato. Il mio viaggio, all’epoca, mi portò nella Penisola Arabica. Il pellegrinaggio alla Mecca, obbligo di ogni buon musulmano, divenne lo spunto per un giro lungo le coste di questa terra maestosa, tra l’Africa e l’Asia, lungo le coste dello Yemen e dell’Oman, fino ad arrivare in quel posto che tutti, oggi, chiamano Emirati Arabi Uniti. Proprio qui, dopo tanto tempo, ho deciso di tornare. Volevo vedere con i miei occhi l’omaggio che questo popolo mi ha tribu-

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tato, dedicandomi un luogo importante. Ibn Battuta Mall, si chiama. Il mall, nella vostra cultura, è un centro commerciale. Enorme. In fondo non avete inventato nulla di nuovo. I vecchi suq, i porti delle città che si affacciano sul Mediterraneo, gli antichi caravanserragli non erano altro che luoghi dove le merci di tutto il mondo, dopo lunghi viaggi, venivano scambiate. È cambiato tutto il resto, però. Il mio ricordo era quello di un Paese di pescatori di perle e marinai, di pirati e beduini, che legavano la loro sopravvivenza a un cammello, un falcone e un cavallo, da soli o in lunghe carovane. Oggi sono macchine enormi, che rombano minacciose, a solcare le strade. Anche quelle che portano al centro commerciale dedicato a me. Migliaia di persone percorrono corridoi sfavillanti, suddivisi secondo le suggestioni dei paesi che ho visitato durante il mio lungo viaggio. Cantastorie e intrattenitori rallegrano il passeggio di famiglie locali e di persone che arrivano da tutto il mondo, giunte fin qui per comprare quello che potrebbero acquistare a casa loro. Forse è questo che differenzia i miei tempi dai vostri: le merci venivano scambiate, ma non tutte erano a disposizione. Oggi le merci sono tutte uguali.


I bambini si divertono molto, grazie a un tappeto volante virtuale, che permette loro di vivere l’esperienza dei viaggi che ho compiuto nella mia vita. Deve essere molto divertente, ma spero che a loro resti la voglia di andare con le proprie gambe in mondi lontani. Per perdersi e per ritrovarsi più ricchi. Qui si parlano tutte le lingue del mondo e si gusta una cucina planetaria, ma se fosse esistito un tappeto virtuale magari non sarei mai partito da Tangeri, oppure i grandi viaggiatori che hanno attraversato la Penisola Arabica sarebbero rimasti a bere un tè a Londra o a Parigi. Avremmo però perso l’occasione di leggere le pagine scritte da Wilfred Thesiger, Paul Theroux, A.W. Kinglake e tanti altri. La differenza è che oggi berrebbero qui la stessa qualità di tè. La Penisola Arabica è la casa del Rub al-Khali, il più grande deserto sabbioso del mondo. Lo chiamano il ‘quarto vuoto’ ed è qui che è nata la mia religione e una cultura millenaria. Visto dall’interno del mall che porta il mio nome mi sembra che il vuoto è stato riempito, utilizzando ogni millimetro disponibile. Uscirò da qui, per cercare di capire come e quanto è cambiata questa terra. Anche perché non sono abituato a questa aria condizionata gelida. Rispetto alle condizioni di vita del passato, quando il termometro superava i 60 gradi, deve essere stato un bel miglioramento delle condizioni di vita. Sono curioso di vederla questa Dubai, della quale ricordo i vecchi dohw con le loro vele tese e il fondo piatto, capaci di solcare il mare solo con l’ausilio della Luna e di portare merci fino alla Persia e oltre ancora. Già, le merci. Continuo a parlarne. Mentre lascio il mall e vado a curiosare per le strade di Dubai penso che, alla fine, avete avuto una bella idea. Per secoli sono arrivati viaggiatori da tutto il mondo qui, ma molti di loro erano armati e volevano imporre il loro dominio su queste terre. Oggi non c’è più bisogno di usare le armi: è bastato convincere queste persone a desiderare di possedere gli stessi oggetti di coloro che un tempo sono venuti come conquistatori. Il risultato, per certi versi, è lo stesso. isto che il destino mi ha richiamato tra voi, io, Ibn Battuta, sono troppo curioso. Devo conoscere questo mondo. Per fare quattro passi a Dubai dovrò prendere un taxi, visto che qui ormai avete tutti le automobili. Ma qualcosa colpisce la mia attenzione. Un adesivo giallo, incollato sul retro di un camioncino che trasporta operai. Lo intuisco da tre elementi: hanno tutti una tuta, nel pullmino non c’è l’ombra di aria condizionata e tutti hanno lo sguardo malinconico perso nel vuoto, oltre un finestrino reso opaco da tanti sbuffi di malinconia. L’adesivo dice: “AM I DRIVING SAFELY? IF NOT PLESE CALL 0558686987”. Il numero cambia a seconda della compagnia, ma l’adesivo resta lo stesso. Ce ne sono milioni. Le vie non sono più quelle che ricordavo io. Ai miei tempi il deserto era attraversato da lunghe carovane di cammelli, che portavano l’incenso, la seta e le spezie dall’Estremo Oriente fino alle ricche corti europee. Oggi il deserto è attraversato da autostrade a sette corsie. Una di queste, la principale, si chiama Sheikh Zayed Road, dedicata all’uomo che per tutti è il padre degli Emirati Arabi Uniti. Il suo volto campeggia lungo la strada, ricordando il sito internet (che non so cos’è, ma sembra andare molto di moda) ourfatherzayed.com. Lui con gli occhiali da sole, lui in macchine sportive, lui e basta, con un’espressione truce che mi fa sobbalzare. Se non c’è Zayed, simbolo del passato, ci sono i suoi successori, Mohammed e lo sceicco al-Nayahn, emblemi del presente, che ricordano a tutti quanto sono unite le famiglie reali e gli emirati. Lo ricordano così spesso che viene da pensare che in primo luogo vogliano ricordarlo a loro stessi. Il futuro, invece, è rappresentato dai figli di Mohammed che, con tutto il rispetto, non mi sembrano molto svegli oppure sono solo poco fotogenici. La ricchezza che ha baciato queste terre, materializzatasi in forma di petrolio, ha partorito quasi come una conseguenza naturale un fiume di automobili. Macchine grandi come carri armati percorrono a tutta velocità queste strade, tanto la benzina costa meno dell’acqua. Ma perché gli adesivi per la delazione? Secondo uno studio del Dubai Medical College, l’individuo più sospetto in città è un maschio pakistano tra i venti e i trenta anni. È questo infatti l’identikit del guidatore più maldestro. Su tutti i casi di trauma cranico registrati dagli ospedali, il cinquanta percento è legato a incidenti auto-

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mobilistici. Il ventidue percento a pedoni investiti per strada. Da dire che a Dubai, salvo rare eccezioni, non è pensabile di attraversare la strada, perché tra cantieri e svincoli è più facile che un cammello passi dalla cruna di un ago. Solo negli ultimi quattro mesi sono stati 19.493 i traumi cranici in città. Ogni dieci minuti il traffico, di solito velocissimo sulle grandi arterie principali di Dubai, s’inchioda di colpo. C’è sempre un incidente che paralizza tutto, anche quelli meno gravi. La legge locale prevede che in qualsiasi caso debba arrivare la polizia per ricostruire l’accaduto, senza possibilità di conciliazione. Di mezzo, una volta su due, c’è un taxi. Il nemico pubblico numero uno: il tassista pakistano! La giornata media di un tassista consta di dodici ore di lavoro ininterrotto, in una città sempre trafficata, dove non esistono nomi per le strade che non siano le principali. L’ossessione edilizia, poi, rende impensabile l’utilizzo del Gps, in quanto tutto cambia in pochi giorni. Non ricevendo salario, i tassisti corrono come pazzi di qua e di là cercando di ottimizzare la propria giornata, visto che la paga è in proporzione ai risultati raggiunti. Il tutto prima di consegnare la macchina al collega con il quale la dividono. Che si farà altre dodici ore al volante. La compagnia fornisce loro le divise e le auto, oltre a un alloggio in un caseggiato immenso, alle porte della città. Milioni di taxi parcheggiati di fronte a piccole casupole tutte uguali. Quasi tutti, ormai, hanno un deodorante, regalatogli personalmente dallo sceicco, dopo le ripetute rimostranze di uomini d’affari e ricche signore che si lamentavano di come tante ore di lavoro nel traffico comportino una certa sudorazione di questi benedetti pakistani. Loro sono la principale causa di tanti incidenti, per non parlare degli operai che, a mezzanotte, nei cantieri ancora aperti, finiscono per sfilare lungo le strade di notte spingendo gli autisti dei Suv a investirli e a perdere un sacco di tempo. Solo nella zona industriale di Jebel Ali, per esempio, sono state cinquecento le vittime lo scorso anno. Immaginate quanti Suv danneggiati, una vera e propria strage. Appena mi procuro un telefono, anche se io vivevo senza, chiamo il numero, giusto per togliermi lo sfizio di dire che magari i cammelli andavano lenti, ma non investivano nessuno.


mila e i dodicimila euro. Affittare un ufficio a Dubai oggi costa il cinquantacinque percento in meno dell’anno scorso, continua il buon Richard. Chi ha ragione? Richard o la Nakheel? Nel dubbio, un altro giornale dice che gli stipendi di chi lavora nel settore edile negli Emirati Arabi Uniti (Eau) sono scesi di più del trenta per cento a causa della crisi economica globale. Ora capisco quegli sguardi tristi, nei camioncini che li riportano a casa, dopo sedici ore di lavoro a cinquanta gradi all’ombra. E che case poi, senza luce e acqua corrente, in dodici in un monolocale in mezzo al deserto. Se prima guadagnavano centoventi dollari al mese, più della metà dei quali finivano in tasca a chi gli aveva procacciato il lavoro, come faranno adesso a mantenere le famiglie che si sono vendute tutto per mandarli qui? Secondo uno studio dell’agenzia per il lavoro Kershaw Leonard, in alcuni campi, come quello finanziario, si è registrato un leggero incremento. Che strana la vita. Proprio loro che in questa benedetta crisi non hanno capito nulla si ritrovano a guadagnare più di prima. Magari anche grazie al cattivo lavoro dei giornalisti. Già, perché la Nakheel è legata alla famiglia reale di Dubai. Magari il mercato, ai vostri tempi, si sostiene anche vendendo fumo. Preferivo i vecchi venditori di tappeti. desso che ha trovato una casa dove riposare, voglio cercare di capire come si divertono le persone a Dubai. In passato, quando ho attraversato queste terre, le popolazioni di questa zona avevano un sacco di diversivi per ingannare le giornate tutte uguali, all’ombra delle palme nel deserto. Chissà quali di quei passatempi e giochi d’abilità sopravvivono, chissà quali sono diventati i nuovi intrattenimenti. Passeggiando per Dubai vengo colpito da manifesti che tappezzano la città. Ci sono fotografie di uomini in calzoncini corti che si rotolano nella sabbia, giocando con un pallone. Si chiama beach soccer, mi dicono, e qui a Dubai si tiene la Coppa del Mondo, appuntamento più importante per questa disciplina. Che fascino, bisogna curiosare. Il gioco del pallone, in tutte le sue declinazioni, è una vera passione per gli arabi. Da quando i marinai inglesi, tanti anni fa, hanno cominciato a giocare sulle banchine del porto di Aden, in attesa di ripartire o di caricare e scaricare i loro bastimenti, il pallone è rotolato lontano, fino a entrare nel cuore degli arabi. La Penisola Arabica non fa differenza e Dubai, con i suoi capitali investiti nell’immagine della città come una sorta di Disneyland per tutto quello che potete immaginare, si è accaparrata il diritto di ospitare i mondiali di beach soccer. Qualcosa, però, è andato storto. Gli sport tradizionali dei vecchi beduini erano caratterizzati dalla destrezza. Le corse dei cavalli, quelle dei cammelli, il lancio del fucile o la caccia con il falcone. Tutte tradizioni ancora vive, ma che impallidiscono di fronte alla popolarità del calcio. Solo che alla passione non è seguito lo sviluppo delle attività pedatorie. Gli spalti sono gremiti nello stadio attrezzato sulla spiaggia di Jumeirah. La partita del girone di qualificazione che vede contrapposte le rappresentative degli Emirati Arabi Uniti e delle Isole Salomone, per esempio, è una specie di tentativo di dissuasione implicito a lasciare perdere per sempre il gioco del beach soccer. Chissà, in passato, a cosa giocavano nelle Isole Salomone. Al calcio no di certo. Alla fine vince il Brasile, tanto per cambiare. Quelli ci nascono con il pallone tra i piedi. La scarsa competitività del Paese, però, non frena gli entusiasmi. Che sono autentici. Un caso su tutti: il derby tra al-Ahli (di proprietà dello sceicco Mohammed di Dubai) e al-Ain. Rispettivamente biancorossi e viola. Le ultime partite tra i due team, alle quali hanno assistito più di diecimila tifosi, sono finite in rissa. Migliaia di emiratini s’inseguivano gli uni con gli altri per picchiarsi, al punto che la polizia è intervenuta con fumogeni e cani per disperdere i facinorosi. Pericolosi, nonostante la lunga dishdasha bianca che non dev’essere proprio l’indumento ideale per gli scontri allo stadio. Ma il calcio, si sa, muove le montagne (come Maometto). Soprattutto grazie agli sponsor. Dopo più di venti anni, infatti, quest’anno le finali del Campionato Mondiale per club della Fifa si giocherà negli Emirati. I vecchi nostalgici del calcio di un tempo, mi dicono, rimpiangeranno le sveglie puntate all’alba per seguire le finali che si sono giocate a Tokyo per anni. All’epoca la Toyota garantiva lucrose sponsorizzazioni. Segno dei tempi che cambiano, oggi questi soldi li garantisce Dubai. Ma non di solo calcio si vive.

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erto che detto da me, Ibn Battuta, che ho passato gran parte della mia vita in giro per il mondo, dormendo di tenda in tenda, di casa in casa, fa un po’ impressione. Ma sono vecchio, ormai, e qui di spazi liberi ce ne sono sempre meno. Dovrò cercarmi una casa a Dubai. Guardandosi attorno non dovrebbe essere difficile: migliaia di torri costellano il cielo di Dubai, fin quasi a nasconderlo. Non le vecchie torri del vento che ricordavo io, quelle costruite per rendere le case fresche d’estate e calde d’inverno. Queste sono torri in vetro e cemento. Una, il Burj Dubai, è alta ottocento metri. È la torre più alta del mondo. Sembra un dito puntato, capace di fare il solletico a Dio. Dicono che nelle rare tempeste che si abbattono su Dubai faccia da parafulmine a tutta la regione. Per non parlare dell’ebbrezza dei sui trecento piani, collegati dagli ascensori più veloci del mondo. I lavori, però, non sono completati. Come tanti altri. Il mitico mondo, insieme di isolotti artificiali che formano un planisfero, è un cantiere fermo da mesi. Le altre due palme, che dovrebbero far compagnia alla prima, visibile dalla Luna, non sono neanche cominciate. La torre che gira su se stessa, poi, è viva solo nella mente del suo creatore. La crisi, dicono tutti qui, ma in verità non si capisce bene come vadano le cose. “Dubai: per la prima volta i prezzi delle case, dopo un anno, tornano a salire”, titola oggi un giornale. Sarà, ma nello stesso giornale ci sono le rassicurazioni del general manager della Nakheel, un colosso dell’edilizia, legato ai più faraonici progetti di Dubai, che tranquillizza gli investitori che le banche non hanno alcuna intenzione di chiedere il risanamento del debito dell’azienda che ammonta a settantadue miliardi di dirham, la moneta locale, pari a quattordici miliardi di euro. Un altro giornale racconta che il prezzo degli affitti degli appartamenti a Dubai ha quasi toccato il fondo, facendo registrare, nel terzo trimestre del 2009, un calo medio del trentanove percento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Un’ulteriore flessione è prevista nell’ultimo trimestre dell’anno. Lo dice un certo Richard Ellis, mente della società di consulenza immobiliare Cb. Dev’essere un pezzo grosso. Secondo lui, nel terzo trimestre del 2008, affittare un appartamento a Dubai costava in media tra i ventimila e i ventiduemila euro l’anno, adesso i proprietari chiedono tra i dieci-

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Lo sport, si sa, è una miniera d’oro che qui sfruttano alla grande. L’automobilismo ad Abu Dhabi, il torneo di golf più ricco del mondo, la maratona con premi milionari. Una sorta di aspirapolvere, che tenta di risucchiare il business della passione dei tifosi. Il prossimo evento, molto atteso, è la Coppa del Mondo di rugby a sette. Ovviamente ci sarà anche la rappresentativa degli Emirati Arabi Uniti, pur non proprio tradizionali frequentatori della specialità. Chissà che programmi hanno per la manifestazione le Isole Salomone. e c’è un aspetto del vostro tempo capace di affascinare anche un vecchio viaggiatore come il sottoscritto Ibn Battuta è quello della ricerca scientifica. Certo che ne avete fatta di strada dai miei tempi... tutto, all’epoca, dipendeva dagli uomini. Sempre di più, invece, siete capaci di delegare alle macchine i compiti più gravosi. La robotica, mi dicono, è la vostra scienza impegnata in questo campo. Come in ogni settore, c’è della concorrenza. E allora per quale motivo al mondo accontentarsi del fatto che esistano i robot: bisogna anche farne per tutti i gusti. Ed è con grande piacere e orgoglio, da vecchio arabo, che vi annuncio la nascita del primo robot arabo al cento per cento. Sì signori, avete capito bene. È nato Ibn Sinna. Il nome è quello di una vecchia conoscenza: il filosofo e scienziato del XI secolo noto come Avicenna. Beh, inutile negarlo, un pizzico d’invidia c’è. Ad Avicenna hanno dedicato l’arabo del futuro, a me un centro commerciale. Ma non voglio serbare rancore a Dubai, capace di produrre il primo androide che parla arabo nel mondo. A Dubai, si sa, hanno la mania dei primati. Tutto dev’essere ‘il più grande’ o ‘il primo’ nel suo genere. Così una società di Dubai ha acquistato il brevetto di alcuni ricercatori dell’Università di al-Ain, nell’emirato di Abu Dhabi. Il gruppo, coordinato dal greco Nicolaos Mavridis e formato da studenti emiratini e stranieri, ha inventato il softwere che fa funzionare Ibn Sinna, vestito come si suppone che all’epoca si vestisse il vero Avicenna. Il tutto grazie a un anno di lavoro e per un costo di duecentomila dollari. Il denaro non ha alcuna importanza rispetto a quali frontiere potrà aprire alla scienza questa invenzione. Subito dopo, però, leggo le dichiarazioni di Mavridis alla stampa: “Ibn Sinna è in grado di vedere e di dare informazioni o di cercarle su internet per i clienti. Il suo utilizzo, infatti, è previsto per i grandi magazzini degli Emirati e all’estero. Potrà essere un eccellente receptionist, un venditore o un assistente per i clienti”. Ah, non ci si crede, caro Avicenna, quasi quasi mi rimangio il pizzico d’invidia sai...tu alla fine sarai un impiegato, a me hanno dedicato un mall intero! Comunque la robotica, da queste parti, è una vera passione. Associata a quella per qualsiasi tipo di competizione che comporti una qualche forma di sponsorizzazione, non potevano mancare le World Robot Olympiad, previste per novembre 2011. Le prime olimpiadi del genere si sono tenute a Singapore nel 2004. Migliaia di studenti di informatica da ogni parte del mondo presentano le loro ricerche, divisi in trentuno rappresentative nazionali. Poteva Dubai farsi sfuggire l’occasione? Neanche a pensarci. Ma non tutti i robot vengono per nuocere. In fondo, in qualche caso, la migliorano davvero la vita di qualcuno. Fin dai miei tempi, dovete sapere, gli arabi vanno matti per le corse dei cammelli. Una vera e propria tradizione millenaria, legata all’indissolubile rapporto tra l’uomo e l’animale che per secoli lo ha accompagnato nel deserto. Gli allevamenti per i cammelli da corsa sono un orgoglio per gli emiratini, così come i circuiti dove un paio di volte la settimana si organizzano le corse seguite da migliaia di persone. Solo che, fino a non troppo tempo fa, per far correre più veloci i cammelli e rendere le gare più spettacolari, si utilizzavano come fantini dei bimbi. A volte anche di quattro anni. Piccoli da Bangladesh, dal Pakistan o dall’India, spesso venduti dalle loro stesse famiglie a trafficanti senza scrupoli. Per mantenerli leggeri e non farli crescere venivano sottonutriti fino a morirne. Gli alloggi erano piccole baracche di lamiera, ai confini degli impianti. Adesso tutto questo, grazie a una grande campagna internazionale, è vietato. I robot, piccoli e funzionali, vengono messi in sella e teleguidati. I cammelli corrono lo stesso. Da oggi i robot mi sono simpatici e magari, se cambio i miei vecchi sandali con un paio di scarpe da ginnastica fiammanti, mi faccio servire da Avicenna.

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a tradizione beduina vuole che quando l’ospite parte si organizzi per lui una grande festa. Il 2 dicembre è stato così, anche se non per me. Già, ho deciso di tornare nell’ombra, questo non è più il mio tempo. La festa, però, me la sono goduta. Ricorreva infatti il trentottesimo compleanno di questa nazione. Il 2 dicembre 1971, su stimolo di sheik Zayed, che tutti chiamano padre, si federavano i sette emirati chiamati Costa della Tregua all’epoca del protettorato britannico. Certo da allora ne hanno fatta di strada. Dalle capanne ai grattacieli, in uno spazio di tempo davvero breve. Sul modo di festeggiare, invece, avrei qualche riserva. Tanto per cominciare non mi è chiaro il piacere che prova una persona a riempirsi la macchina di gadget strampalati. Non si parla di qualche innocuo adesivo, ma vere e proprie rivestiture fatte di spray, stencil, bandiere e tutto quello che si possa immaginare. Anche con una spesa notevole, visto che il lavoro deve essere fatto da un carrozziere professionista. L’immagine più gettonata è quella dello sceicco Zayed, ma non manca la famiglia reale di Dubai e tutte le rispettive discendenze. I cammelli, quasi per un omaggio postumo portato dalle macchine che li hanno sostituiti, fanno bella mostra di sé in forma di peluche o di serigrafia. I colori della bandiera, quando non rappresentati dalla banda di tessuto, sono riprodotti in strisce lungo le fiancate ma addirittura anche in forme di stelline luccicanti. Gli emiratini e tutti coloro che vogliono unirsi ai festeggiamenti arrivano a pagare fino a settemila dollari per un lavoro fatto come si deve. Che svanirà all’alba del 7 dicembre. Le bandiere no, quelle restano. Se c’è una cosa che ho capito di Dubai è che il mestiere di fabbricante e commerciante di vessilli nazionali deve essere uno dei più redditizi. Milioni di bandiere hanno ricoperto tutto il Paese. Non è una metafora: dalla cima delle torri, sui pali della luce, sulle auto, nei centri commerciali, negli uffici pubblici. Infine da uno dei grattacieli è stata srotolata la bandiera, manco a dirlo, più grande del mondo. Anche i quotidiani, che mi danno l’impressione di essere sinceramente affezionati al presidente, al vice presidente, alle loro famiglie e a tutti i membri del governo, hanno dedicato edizioni speciali all’anniversario della fondazione. L’affetto è reciproco, tanto che le famiglie reali hanno a loro volta comprato delle pagine sui giornali (dei quali sono in larga parte proprietari) per...farsi gli auguri. La festa è stata condita da mille eventi: parate lungo le strade di giorno e fuochi d’artificio di sera. Questi ultimi, ad Abu Dhabi, erano addirittura coordinati con la musica di un’orchestra (non chiedetemi come, però, perché non l’ho capito). Più di trecentottanta chef di trentotto tra ristoranti e alberghi si sono dati appuntamento sulla spiaggia di Jumeirah per una festa senza limiti. Il Paese si è fermato e forse ne aveva bisogno. La Dubai World, autentica cassaforte finanziaria di Dubai, dove la famiglia reale al-Makthoum tiene i suoi investimenti, poche ore prima dell’anniversario dell’indipendenza aveva dichiarato di non essere in grado di far fronte ai debiti. Non proprio una bella notizia. Il mondo che avete costruito ha tremato: oggi per un problema a Dubai crolla la borsa di New York! È quella che chiamate globalizzazione. Il governo di Dubai ha chiuso il discorso dando degli incompetenti agli analisti. Tutti, poi, si sono concentrati sulla festività, distratti dai caroselli impazziti delle auto e dai giochi di luce. In fondo le cose cambiano, per restare sempre uguali. Oggi come ai miei tempi panem et circenses. Però una cosa mi ha fatto piacere: tra gli emiratini che scorrazzavano in strada c’erano tanti stranieri, contenti di festeggiare con loro. Oltre agli europei, ai nord americani e agli australiani, c’erano anche indiani, pakistani e persone da mille altri paesi. Non c’erano gli operai edili o le collaboratrici domestiche, perché loro sono rimasti chiusi nei loro alloggi fatiscenti. C’erano solo quelli che ce l’hanno fatta, che hanno un lavoro decente oppure le seconde e terze generazioni di quelli che sono arrivati qui fin dagli anni Sessanta. Ecco, questo è il regalo più bello che gli Emirati Arabi Uniti potrebbero farsi: diventare capaci di integrare tutti. Solo allora, quando tutti saranno trattati umanamente, ci sarà davvero da celebrare la nascita di una nazione.

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Notizie che di solito non fanno notizia

Le buone nuove Facebook di pace per Serbia e Croazia

Argentina /Malvinas

Siria

Vento di fuoco sul petrolio

La quiete dopo la tempesta

ra il marzo del 1982 quando Argentina e Gran Bretagna iniziarono una guerra che sarebbe durata poco, meno di quattro mesi, ma che inevitabilmente avrebbe segnato per gli anni a venire i rapporti fra i due Stati. Al centro della contesa un arcipelago poco abitato nella zona meridionale dell’oceano Atlantico: le isole Malvinas (per sua maestà Falkland Island). Oggi, a quasi trent’anni dalla fine della guerra, la contesa è ancora aperta nonostante le isole siano considerate territorio britannico d’oltremare. Nelle ultime settimane Londra ha espresso la volontà di iniziare alcuni progetti di esplorazione petrolifera proprio nell’area dell’arcipelago e la cosa non è piaciuta all’amministrazione argentina guidata dalla presidente Cristina Fernandez. Ma sembra che l’energica protesta consegnata all’ambasciatore britannico a Buenos Aires, Shan Morgan, non sia stata per nulla ascoltata. “Quella di Londra è una violazione della nostra sovranità. La Gran Bretagna non può autorizzare opere di esplorazione nell’area della piattaforma continentale argentina” dicono dalla Casa Rosada. Ovvia e immediata la reazione britannica. Da Londra, infatti, i rappresentanti del governo fanno sapere di “non aver alcun dubbio sulla nostra sovranità sulle isole Falkland e di tutta l’area marittima che le circonda”. Su una cosa non ci sono dubbi: la battaglia diplomatica è molto lontana dalla sua soluzione. La conferma arriva dalle ultime decisioni del governo argentino che ha ordinato che le navi in transito nelle sue acque territoriali siano sottoposte a scrupolosi controlli. Non solo. La presidenza argentina ha firmato un decreto con cui impone a tutte le imbarcazioni che navigano dalle coste argentine alle Isole Malvinas la richiesta di un’autorizzazione preventiva. Ma sembra essere una misura insufficiente. Dalla Gran Bretagna infatti fanno sapere che “i regolamenti che disciplinano le acque territoriali argentine sono di competenza di Buenos Aires. Questo non pregiudica la navigazione nelle acque territoriali delle Falkland che sono controllate dalle autorità delle isole stesse”.

er la prima volta, dopo cinque anni, gli Stati Uniti d’America nominano un ambasciatore in Siria. Il presidente Usa Obama ha indicato Robert Ford come rappresentante statunitense a Damasco. Adesso manca il via libera del Senato Usa, dove i repubblicani non sono contenti dell’iniziativa, ma non dovrebbero avere i numeri per bloccarla. Ford, nei venticinque anni di carriera spesi nella diplomazia a stelle e strisce, conosce bene il Medio Oriente, avendo rappresentato gli Usa prima ai consolati di Smirne in Turchia e del Cairo, poi come ambasciatore in Algeria e negli ultimi anni come vice capo della missione Usa in Iraq. L’ambasciata Usa in Siria era stata chiusa nel 2005, dopo che il 14 febbraio di quell’anno, in un attentato a Beirut, era stato assassinato l’ex premier libanese Rafiq Hariri. Gli Usa avevano ritenuto di inserire la Siria nella lista nera del Dipartimento di Stato Usa. I rapporti tra i due paesi avevano toccato il minimo con l’amministrazione di George W. Bush. Nel 2004 veniva approvato il Syria Accountability Act, un pacchetto di sanzioni contro Damasco. Il regime di Assad inizia un lento lavoro di recupero delle relazioni internazionali. Aiutato dal presidente francese Sarkozy, convinto che bisognasse a spezzare l’alleanza storica di Damasco con Teheran. Sarkozy, in occasione dell’inaugurazione dell’Unione per il Mediterraneo nel 2008, ha sdoganato Assad rilanciandone l’immagine internazionale. Prima di lui l’esponente democratica Nancy Pelosi aveva annunciato la svolta della politica Usa in Siria con una visita a Damasco (aprile 2007) che aveva fatto infuriare Bush. Una volta eletto Obama, il processo di avvicinamento della Siria all’Occidente, nell’ottica del progressivo isolamento iraniano, è andata avanti fino alla nomina di Ford. Bush, a fine mandato, aveva appoggiato il bombardamento mirato (settembre 2007) dell’aviazione israeliana di un sito in Siria nel quale si riteneva venisse sviluppata energia nucleare.

Alessandro Grandi

Christian Elia

E

P

Mentre le tensioni diplomatiche fra Serbia e Croazia non smettono di essere alle stelle, le popolazioni delle rispettive nazioni si mobilitano per seppellire, una volta per tutte l’odio. Oggi è chiaro che i nazionalismi balcanici sono merce prodotta e scambiata dalla sola classe politica e da qualche sparuto gruppo di facinorosi. A testimoniarlo è il social network Facebook all’interno del quale la “tavola fraterna” per tutto il popolo slavo, virtualmente imbandita da Brandon Djordjevic, ha raccolto più di 100mila persone fra serbi, croati e internauti degli altri Stati della ex-Jugoslavia. L’esperimento è nato il 5 giugno 2008, giorno in cui Djordjevic ha fondato il gruppo “Usiamo facebook per porre fine all’odio serbo-croato”. Nel giro di venti giorni l’iniziativa aveva già raccolto le adesioni di duemila persone, diventate 13 mila alla fine di quell’anno. Cambiano i tempi, cambiano gli slogan, cambiano gli obiettivi. Per il 2009 la meta, e il motto, del gruppo diventava - il 14 dicembre “Troviamo 50mila serbi e croati che non si odiano”. Detto, fatto. Il 18 dicembre, nel giro di soli quattro giorni dal rinnovamento del nome, il gruppo toccava già quota cinquantamila. Dopo aver lanciato la sfida a raddoppiare anche quest’ultima cifra, il forum ha raggiunto i 101mila contatti.

Spagna, in Andalusia si può morire bene Il parlamento andaluso approverà a breve la legge della Morte Degna, la prima in Spagna che impedirà l’obiezione di coscienza ai medici e che amplierà la definizione di malattia terminale e di agonia. Il testo parla specificamente di persone con infermità gravi irreversibili, come richiesto dall’associazione Diritto a Morire Degnamente (DMD). La legge permetterà che pazienti con infermità degenerative, in stato vegetativo, finanche i malati di Alzheimer avanzato, possano rifiutare gli accanimenti terapeutici, come l’alimentazione tramite sonda o qualunque supporto vitale. La legge sarà vincolante per tutti i centri medici, inclusi quelli religiosi, senza permettere alcun margine di dubbio. La legge dovrebbe colmare un vuoto per cui, in molti casi, la fase terminale del paziente dipende dal medico. Secondo esponenti del partito dell’Unione Istituzionale “l’approvazione della legge è una stupenda opportunità per dimostrare che la servitù alle gerarchie ecclesiastiche è parte del passato, promulgando una legge che sviluppa il diritto sociale e del cittadino, come contemplato dallo statuto andaluso” 19


Scrittori Iran

Il meccanico delle rose Di Benedetta Guerriero Hamid Ziarati, nato a Teheran nel 1966, ha lasciato il suo Paese nel 1981 per l’Italia. Due anni dopo la Rivoluzione dell’ayatollah Khomeini del 1979, che ha trasformato l’Iran da una monarchia in una repubblica islamica, cancellando i sogni e le aspettative di quanti speravano in un cambiamento. mutamenti portati dalla Rivoluzione islamica sono al centro dei libri di Ziarati, Salam, Mamam e Il meccanico delle rose, che tracciano uno spaccato della società che si è venuta a creare dopo l’avvento al potere di Khomeini. Attualmente lo scrittore iraniano, laureato in ingegneria, vive a Torino, dove lavora come insegnante.

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Per quale motivo ha scelto l’Italia? Non ho deciso io, ma mia madre. Era il 1981, ero malato e sono venuto in Italia, dove vivevano già i miei fratelli, per operarmi. Avevo quindici anni ed è stato molto difficile ottenere il visto, perché tutti i ragazzi che avevano compiuto quattordici anni erano considerati dei possibili soldati dalle menti rivoluzionarie. Sono riuscito a partire, ma a condizione che non portassi fuori dall’Iran nulla, nemmeno un dollaro. Se non ci fossero stati i miei fratelli, sarebbe stato impossibile. Si viveva meglio prima della Rivoluzione? Sì, da un punto di vista sociale. Non c’erano né libertà di espressione, né di critica, ma, se non ci si occupava di politica, si poteva vivere tranquilli. Dopo la Rivoluzione sono state imposte molte limitazioni che riguardavano anche la sfera individuale, come il divieto di indossare alcuni vestiti, portare la barba in un determinato modo e così via. Da un Paese dove non c’era libertà politica, siamo passati a uno in cui è stata soppressa anche quella civile. Il meccanico delle rose, l’ultima sua opera, è un libro corale, fatto dalle storie dei singoli personaggi che si intrecciano le une con le altre. Da dove nasce questo romanzo? Dal desiderio di raccontare, come già avevo iniziato a fare in Salam, Mamam, come una rivoluzione sia stata rubata al suo popolo. Volevo descrivere come si viveva e si vive sotto due diverse dittature. Il libro si compone di cinque storie d’amore. Si va dall’amore paterno a quello tra amici, amanti, fratelli. Inizio la narrazione dal concepimento di un individuo e la concludo con la morte. I vari personaggi sono raccontati attraverso gli occhi di coloro che li hanno conosciuti, incontrati. Ogni uomo cambia in relazione alle percezioni che gli altri hanno di lui. Ha una posizione molto critica nei confronti dell’Islam. Come mai? Critico una forma di religiosità, che spesso non ha nulla a che vedere con la fede. In Iran pratichiamo una fede in una lingua che non conosciamo: l’arabo. Siamo soggetti ad attuare i dettami dei vari predicatori. Questo ci ha costretto a trentuno anni di dittatura e a tre secoli di vita vissuta nella superstizione. Si pone un problema Islam, quando ci si dimentica che nel Corano è contemplato 20

il libero arbitrio. Nel Corano, così come nella Bibbia, si possono trovare affermazioni contradditorie. Tutto dipende dall’interpretazione. Dedica molta importanza alle figure femminili. Perché? Ho dedicato il mio ultimo libro a mia figlia e volevo raccontarle l’universo femminile da cui proviene suo padre. Nella maggior parte delle famiglie iraniane sono le donne a decidere. Loro possiedono una forza di volontà e una capacità di sofferenza che manca a noi uomini. Uno dei miei personaggi preferiti è Mathab, la figlia. Ho cercato di mettermi nei panni di un padre iraniano negli anni Ottanta, che ha un’unica figlia e se la vede portare via dalla violenza della Rivoluzione. Ho provato a raccontare il suo dolore, metafora della sofferenza del popolo iraniano. L’Onda Verde ha la forza di rovesciare la Repubblica islamica? Più che di repubblica parlerei di una monarchia, guidata da teocrati incapaci, che hanno dimostrato di essere fallimentari in tutti i periodi storici. In poco tempo tutte le libertà che la Rivoluzione ci aveva promesso, sono state infrante. Khomeini ha giustificato il suo comportamento come una menzogna a fin di bene, nonostante per la religione islamica il mentire sia uno dei peccati più gravi. Anche il Meccanico delle rose inizia con una menzogna a fin di bene. L’ho fatto appositamente. Tornando, invece, al movimento verde, penso che non poteva nascere che all’interno del governo. In Iran c’è una dittatura feroce: nell’ultimo anno sono state uccise più di trecento persone, quasi una al giorno. Siamo secondi solo alla Cina, ma primi relativamente al rapporto tra esecuzioni e popolazione. Servirebbe più appoggio dall’Occidente? L’intervento occidentale è sempre stato deleterio in Iran. Nel 1953 potevamo essere il primo Paese democratico del Medio Oriente e per colpa dell’Occidente non ci siamo riusciti. Nel 1979 ci hanno dato Khomeini, presentandolo come un liberatore. Visti i precedenti, penso sia meglio fare da soli. L’Iran è un Paese multietnico, con all’interno moltissime contraddizioni, ma anche molto nazionalista. La popolazione è stanca di vedere la cultura iraniana trasformata in un derivato di quella araba. Da questa insoddisfazione trae origine l’Onda Verde, ma bisogna anche tener conto delle profonde differenze che esistono tra la campagna e la città. Nei paesini si continua a vivere allo stesso modo. Nemmeno la Rivoluzione ha intaccato il modus vivendi di quelle persone. È nelle città che c’è fermento. La gente non sopporta più le imposizioni della Repubblica islamica. Lo scrittore Hamid Ziarati. Torino 2007. Dario Egidi per PeaceReporter


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La storia Afghanistan

Il terrore vien di notte Di Enrico Piovesana Non sono solo i bombardamenti e le stragi di civili a suscitare l’avversione della popolazione nei confronti delle truppe d’occupazione straniere, spingendo sempre più afgani ad appoggiare la resistenza armata talebana. questo risultato contribuisce sopratutto la pratica, meno nota ma sempre più diffusa, dei raid notturni delle forze speciali americane, che uccidono a sangue freddo e catturano civili innocenti per poi torturarli nei ‘buchi neri’, le prigioni clandestine nelle basi militari sul fronte, lontane dai riflettori dei media che hanno costretto il Pentagono a interrompere tali pratiche nella prigione centrale di Bagram, a Kabul.

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19 novembre 2009, ore 3:15 di mattina. Un’esplosione risuona in un sobborgo di Ghazni. Le forze speciali americane hanno fatto saltare il cancello della casa di famiglia di Mujidullah Qarar, portavoce del ministero dell’Agricoltura del governo Karzai. Lui non c’è: è a Kabul. Ma ci sono i suoi parenti, che si svegliano di soprassalto. Uno di loro, Hamidullah, venditore di carote al bazar cittadino, si alza e corre fuori a vedere cosa succede. Appena varcata la soglia, alcuni Rambo barbuti e tatuati gli sparano addosso. Cade a terra e strisciando rientra in casa, lasciando una scia di sangue dietro di sé. Azim, suo cugino, lo raggiunge per soccorrerlo, ma una raffica di mitra falcia anche lui. I due uomini feriti, a terra, muoiono urlando di dolore, mentre i loro figli rimangono immobilizzati dal terrore sotto le coperte. I soldati si dirigono in altre stanze, dove iniziano a ribaltare mobili e forzare cassapanche e alla fine trovano l’uomo che stanno cercando: Habib-ur-Rahman, un giovane esperto informatico che lavora per il governo convertendo in lingua pashto le applicazioni di Windows. Un infiltrato di Al-Qaeda secondo gli americani. Rahman e suo fratello, che dormiva nella stessa stanza, vengono legati, portati fuori e caricati su un elicottero. Rinchiusi in una cella, all’interno di una piccola base militare Usa, vengono interrogati e picchiati. Il fratello viene rilasciato dopo un paio di giorni. Rahman rimane lì. Mujidullah Qarar, informato dell’accaduto, attiva tutte le sue conoscenze per ottenere notizie di suo cugino Rahman e giustizia per l’uccisione degli altri due cugini. Chiama comandanti di polizia, amici parlamentari, il governatore provinciale e chiede aiuto perfino al suo capo, il ministro. Ma non riesce a sapere nulla. Viene però aperta un’inchiesta governativa sulla morte di Hamidullah e Azim, che conferma la dinamica dei fatti raccontata dai parenti. A quel punto il comando militare Usa rilascia un comunicato, in cui afferma che i due uomini uccisi dalle forze speciali “erano militanti nemici che avevano dimostrato intenti ostili”. “Tutti ci conoscono e sanno che la nostra famiglia lavora per il governo”, 22

ha dichiarato Qarar alla stampa. “Mio cugino Rahman non usciva mai dalla città perché sapeva che i talebani lo avrebbero preso e fatto fuori. Ma a parte questo, che bisogno c’era di uccidere due membri della mia famiglia? Sapevano benissimo dove lavorava e potevano semplicemente andarlo ad arrestare. Sono sempre andato in televisione a dire alla nostra gente di sostenere il governo e gli stranieri: mi sbagliavo! Perché mai dovremmo farlo? Mi licenzino pure, ma la verità è questa!”. e andrà bene, Rahman verrà torturato per qualche settimana e poi rilasciato senza spiegazioni, come accade alla maggior parte delle prede catturate delle forze speciali Usa e detenute nei ‘buchi neri’. Le loro storie sono state raccolte dalla Commissione indipendente afgana per i diritti umani (Aihrc). C’è quella dei contadini del villaggio di Motai, nella provincia di Khost: sei uccisi in un raid notturno e nove fatti prigionieri. Due di loro ritrovati morti pochi giorni dopo, abbandonati vicino alla locale base Usa chiusi in sacchi di plastica con ancora le manette di plastica ai polsi; quattro rilasciati e gli altri spariti. O la storia di Nuragha Sherkhan, poliziotto di Gardez catturato dalle forze speciali perché sospettato di essere filo-talebano, portato in una base dove lo hanno bendato, appeso al soffitto, picchiato, attaccato con i cani e costretto a bere acqua fino allo svenimento. E alla fine rilasciato con una lettera di scuse. Niente scuse invece per Haji Ehsanullah, prelevato di notte dalle forze speciali Usa nella sua casa di Zabul, interrogato per tre giorni in una base di Khost e poi rilasciato in stato confusionale, con un trauma cranico da percosse e morsi di cane sulle gambe. “I contadini dei villaggi sanno sempre qualcosa, ma non ci dicono mai nulla”, dice un soldato delle forze speciali Usa al giornalista afgano Anand Gopal. “Per questo ogni tanto devi buttare giù una porta, usare la forza e gettare la rete: se ti capita di prendere quello giusto ti fa la differenza! A volte per Rodrigo Arias, soldato semplice, è solo questione di sopravvivenza: “Io voglio tornare a casa tutto intero, e se questo significa che bisogna fare rastrellamenti, facciamoli!”.

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In alto: Anziani pashtun. In basso: Casa di contadini. Helmand, Afghanistan 2009. Enrico Piovesana ©PeaceReporter


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L’intervista Italia

Vita operaia Di Benedetta Guerriero Massimo Lettieri è un operaio specializzato. Ha lasciato Salerno per venire a lavorare al Nord. Vive a Corbetta, in provincia di Milano, e costruisce tubi per gli impianti di riscaldamento delle auto. Lavora alla Maflow di Trezzano sul Naviglio, azienda specializzata nella costruzione delle componenti per auto, che vanta tra i propri clienti grandi case automobilistiche. Mercedes, Bmw, Volkswagen e Fiat sono solo alcuni degli acquirenti dell’impresa, considerata uno dei leader mondiali nel settore di riferimento. a crisi, però, non ha risparmiato nemmeno il gigante della Maflow che ha già avviato le procedure per la vendita. I dipendenti da alcuni mesi vivono la drammatica esperienza della cassa integrazione. A Trezzano lavorano trecentotrenta dipendenti, ma di questi solo una cinquantina ha mantenuto un impiego. Per tutti gli altri è scattata la cassa integrazione. I lavoratori, però, non si sono arresi e hanno dimostrato di essere anche molto fantasiosi nelle forme di protesta messe in atto per scongiurare la chiusura dello stabilimento e conservare l’impiego. Col sostegno dei sindacati, del Comune e della gente hanno anche dato vita a una gara podistica intorno all’azienda per recuperare fondi per portare avanti la protesta e chiedere il ripristino degli ordinativi sospesi da Bmw. Tra i pochi effetti positivi della crisi economica c’è la riscoperta di una solidarietà tra gli operai che sono tornati a organizzarsi da soli e a inscenare forme di protesta sempre più spettacolari per richiamare l’attenzione dei media e conservare il posto di lavoro.

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Quando la vostra azienda è entrata in crisi? Tutto è iniziato lo scorso aprile, quando l’azienda è andata in liquidazione. Prima abbiamo sempre lavorato senza problemi. Sembrava che la crisi non ci riguardasse. L’undici maggio il Tribunale di Milano ha dichiarato la Maflow insolvente e da allora siamo in amministrazione straordinaria. È iniziato il calvario. A novembre, poi, anche la Bmw ha sospeso gli ordini e ora la situazione è peggiorata. Abbiamo fatto di tutto. Bloccato l’ingresso dei dirigenti, siamo saliti sul tetto. Dopo questo gesto, il ministero ha finalmente approvato la commissione di garanzia e ha prestato ascolto alle nostre rivendicazioni. Né la regione Lombardia, né il ministero, comunque, ci hanno dato una mano concreta. Tante promesse, ma niente fatti. Come è cambiata la tua vita da quando sei in cassa integrazione? Prima avevo una vita regolare. Mi alzavo, portavo mio figlio a scuola, riuscivo ad andare a correre, in piscina. Ero tranquillo. Oggi è tutto cambiato. Non ho più una vita e quel che mi dispiace è che a farne le spese sia principalmente mio figlio. Spesso abbandonato a se stesso. Notte e giorno, 24 ore su 24, abbiamo deciso tenere vivo un presidio davanti ai cancelli dello stabilimento e non è facile. Bisogna organizzare i turni e soprattutto donare tempo. Tutta l’organizzazione si regge sul volontariato, non c’è una gerarchia o obbligo. Chi può e vuole, presidia. Su trecentotrenta che rischiano il posto di lavoro, un centinaio ha aderito al presidio. Tanti. Perché il presidio? Per controllare che i dirigenti lavorino per noi. Non per gli interessi degli azionisti e delle banche. Come sempre accade. I politici non pensano più agli operai, ai lavoratori, ma a tutelare le multinazionali, le banche. 24

Avete trovato solidarietà alla vostra causa? Molta. Il Comune, per esempio, quotidianamente ci mette a disposizione quaranta pasti tra pranzo e cena. Un aiuto per noi fondamentale. Anche la gente comune ci sostiene. Molte persone ci portano da mangiare, ci chiedono quello di cui abbiamo bisogno e cercano di farsene carico. Ve lo aspettavate? No, la solidarietà della gente ci ha stupito. La comunità è con noi e questo significa che la nostra lotta è giusta. Anche grazie al supporto che ci viene dato dall’esterno, riusciamo ad andare avanti. E i sindacati? I sindacati ci sostengono dal punto di vista logistico. Ci aiutano a organizzare le manifestazioni, ma la vera lotta la facciamo noi. I sindacati affrontano il problema dal punto di vista burocratico e amministrativo, noi, invece, ci giochiamo tutto. In che senso? Nel senso che lottare è duro. Lo stipendio non arriva e non si può vivere di cassa integrazione. Sia io che mia moglie siamo impiegati alla Maflow e riceviamo settecento euro al mese come cassaintegrati. Come possiamo andare avanti così con un bimbo? Ci sono almeno trenta famiglie in queste condizioni. Questa lotta, inoltre, è un rischio. Non ci dà alcuna garanzia né relativamente al reddito, né circa il nostro futuro lavorativo. Un salto nel buio. E come fai economicamente? Ti aiuta la tua famiglia? Sono originario di Salerno e qui non ho nessuno. Per ora non pago più le bollette, il bollo dell’auto, le spese condominiali, il mutuo. Azzerate tutte le spese. Non so quanto io e la mia famiglia potremo continuare in questo modo. Molti miei colleghi hanno sfruttato la possibilità, offerta dalle banche, di sospendere il mutuo per un anno. Ho preferito non farlo, ma chissà come faremo. Quanti anni hai? Sono relativamente giovane, ho 37 anni e ammetto di essere spaventato per il mio futuro. Per questo insieme ai miei colleghi mi sono buttato nella battaglia della Maflow con tutte le mie forze. In questo momento il mercato del lavoro è bloccato e non è facile trovare un altro impiego. Anzi è praticamente impossibile. Tu e tua moglie siete entrambi impiegati alla Maflow. Le famiglie degli altri dipendenti condividono la lotta? Non sempre. Non tutti capiscono. C’è chi ci consiglia di smetterla. Non so chi abbia ragione, ma vado avanti a lottare. In alto e in basso: Manifestazione degli operai ALCOA ed Euroalluminia davanti a Palazzo Montecitorio. Roma, Italia 2010. Alessandro Toscano / OnOff Picture


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Italia

Italia senza via d’uscita Di Benedetta Guerriero Autonominatosi miserabile scrittore, Giuseppe Genna è poeta, romanziere, polemista, web star. È nato nel 1969 a Milano e le sue opere in patria come all’estero, sono riconosciute e soprattutto lette da un pubblico crescente. Molti intellettuali e sociologi italiani parlano di emergenza, di anomalia relativamente alla situazione politica che si è venuta a creare nel nostro Paese. Anche secondo lei viviamo un’emergenza? Assolutamente no. Vorrei chiedere a questi intellettuali e sociologi cosa è cambiato nel nostro Paese rispetto a quando si verificavano stragi come quella di Portella della Ginestra o di Piazza Fontana o a quando eravamo governati da uomini come Giulio Andreotti. Non credo abbia senso parlare di emergenza, si ripetono esattamente le stesse dinamiche che caratterizzavano la società codina e reazionaria di un tempo. Se Berlusconi scomparisse dalla scena politica, come mi auguro, non penso che cambierebbe qualcosa in Italia. Siamo giunti a un livello di sottocultura da cui non si esce. Un tempo la sottocultura era considerata come una categoria problematica, ora non più. Quindi non c’è via di uscita? No, assolutamente. Sono molto fermo in questa affermazione. Perché? Dovrei scrivere un saggio di sociologia per spiegare in maniera dettagliata questa mia affermazione e non penso abbia senso farlo. L’Italia ha raggiunto l’orizzonte. Ora è da capire se siamo una nazione in viaggio o ferma. Ogni orizzonte può essere raggiunto e superato, ma l’importante è capire e decidere in quale direzione andare. C’è una struttura burocratica effettiva che resiste, ma l’Italia in quanto Paese non esiste più. Per certi aspetti potrebbe anche essere un bene, ma è riduttivo focalizzare il discorso solo sull’Italia. In che senso? È talmente grave quello che sta succedendo a livello globale, che mi sembra limitante soffermarci su di noi. C’è un’urgenza planetaria, prodotta da un terato-capitalismo (terato in parole composte del linguaggio medico significa mostro) e lavorativo, di cui non ci si vuole accorgere. Se poi allarghiamo il discorso e prendiamo per vere le ultime previsioni climatiche, è possibile che fra vent’anni l’Italia in quanto tale non esisterà più. Alcune aree verranno sommerse, desertificate, in altre non ci sarà più nemmeno l’elettricità. Queste sono le vere problematiche. Nei suoi testi e nei suoi articoli spesso riporta l’attenzione sulla crescita spropositata dell’uso degli psicofarmaci nel nostro Paese. Che cosa sta accadendo? Siamo di fronte a un cambiamento antropologico o di altro tipo? Più che di cambiamento, parlerei di decadenza. Senza esagerare credo che nel Vecchio Continente siamo una nazione all’avanguardia da questo punto di vista. I processi di mercato, imposti dall’Unione europea attraverso delle politiche iper-liberiste che regolano il lavoro, hanno creato un soggetto nuovo 26

di comunità apparente che di fatto, però, non lo è. Il tessuto sociale è strappato, lacerato, non più saturabile. Tutte le categorie sono state messe fuori gioco. È come se ci fosse una faglia, prodotta da variabili nazionali e internazionali che ha originato un disagio psichico a livelli mai riscontrati prima. Il problema è che per curare questo disagio non ci sono cure umanistiche, si tornerà a cure materiche. Come accadeva un tempo. È un quadro un po’ desolante, ma almeno c’è qualcosa in cui siamo all’avanguardia. È d’accordo con quanti dicono che siamo una nazione provinciale? No, assolutamente. L’Italia sembra un Paese provinciale, ma non lo è in alcun modo. Come ho detto prima, la nostra società ha raggiunto un tale livello di degrado e decadenza che ci pone all’avanguardia rispetto alle altre nazioni. Inizia a seguire il nostro esempio la Francia. Esiste una classe intellettuale che continua ad affermare che siamo provinciali, ma usano un criterio di valutazione che è quello proprio delle pagine di cultura dei quotidiani. Scritte e curate da giornalisti con una formazione borghese. Gli intellettuali italiani spesso vivono in una condizione di marginalità, ma ce ne sono alcuni che possiedono le caratteristiche dell’artista rinascimentale. Mi viene in mente Carlo Boccadoro di Sentieri Selvaggi. Nasce come pianista, ma è un esperto di scultura, pittura, letteratura. Sa spaziare su molte tematiche, come dovrebbe poter fare un vero artista. Come lui Filippo Del Corno. Trovo molto interessante anche l’esperienza di Wu Ming, un gruppo di scrittori che ha unito i singoli saperi e li ha messi a disposizione dei vari membri per realizzare un lavoro d’équipe. Con Valerio Evangelisti collaboro su Carmilla, un magazine che raggruppa diverse arti. Mi fido di Evangelisti e colgo i suoi input, così come lui i miei. È uno scambio stimolante. Ma esiste una classe intellettuale in Italia? No. Esistono degli uomini che si dicono di cultura o vengono designati come tali, ma non si capisce in base a quale fondamento. C’è, invece, una micro-elite di intellettuali che non ha alcuna rappresentanza, si muove sulla rete, si autofinanzia e crea cultura. Centri propulsori di queste fucine culturali sono Milano, Torino e Bologna. Qual è la funzione dell’intellettuale? Penso che il compito dell’intellettuale sia quello di far comprendere il sì e il no delle cose e creare delle strutture di incantamento. Dall’incanto poi bisogna far precipitare il pensiero e far nascere delle riflessioni. Il cantante Pupo e Emanuele Filiberto a Sanremo, icone di un Paese senza via di uscita. Italia 2010. Foto di Claudio Onorati ©Ansa


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Migranti

Morto per amore Di Gabriele Del Grande Algeria-Sardegna. La rotta è sempre la stessa, ma non sempre si parte per fuggire dalla povertà. E non sempre il pericolo maggiore è rappresentato dal mare. Ikram Hamza era partito da Annaba per amore. E a bloccare il suo viaggio furono le forze militari algerine. Le stesse con cui collabora l’agenzia europea Frontex, che da tre anni pattuglia quel tratto di mare. kram passava giorno e notte attaccato allo schermo, a navigare su internet. Christelle l’aveva conosciuta così. Lei era francese, di Seyne sur Mer. Si sentivano ogni giorno. Su skype e su facebook. L’ambasciata francese gli aveva negato il visto. Sebbene in Francia avesse mezza famiglia, o forse proprio per quello. La madre a Marsiglia aveva una sorella e due fratelli, che avrebbero potuto ospitarlo e farsi carico del suo soggiorno. Fu dopo il rifiuto dell’ambasciata che decisero che sarebbe stata Christelle ad andare in Algeria. Ma ad agosto c’era il ramadan, e lei decise di posticipare la partenza. Sarebbe andata a settembre, insieme ai genitori, per celebrare il matrimonio ad Annaba. Durante il ramadan non si sarebbe sentita a suo agio, diceva, loro non erano musulmani e non avrebbero rispettato il digiuno e avrebbero disturbato. Ikram aveva insistito che no, non c’erano problemi, ma alla fine si era deciso così. Ikram però in cuor suo era stanco di aspettare. A trentadue anni gli sembrava che di tempo ne aveva già perso abbastanza. Ne ebbe la certezza quando a inizio agosto incontrò Abdelhaq, un amico di quartiere. Fu lui a dirgli che Jelil, lo spacciatore di Kouba, stava mettendo in piedi un equipaggio per la Sardegna. C’erano ancora dei posti liberi. Presto sarebbero andati venduti ad altri. Prendere o lasciare. Ikram non se lo fece ripetere due volte. Era il suo appuntamento con la fortuna. Stavolta non sarebbe stato da meno degli altri. L’ambasciata francese non gli dava il visto? E lui se lo prendeva da solo. Harraga, come si diceva in arabo quando uno bruciava la frontiera. A casa non disse niente a nessuno. Si confidò solo con il fratello più grande, Hicham, la notte prima della partenza. L’indomani mattina andò a pagare la sua quota: quattrocentocinquanta euro più cinquanta euro per l’intermediario. Erano i risparmi di dieci anni di lavoretti saltuari come assistente nello studio di un architetto del quartiere. L’appuntamento per la partenza era a Rizzi Ameur, la spiaggia del quartiere, trecento metri dietro il suo condominio. Lo accompagnarono tre cari amici e il fratello Hicham. Nello zainetto aveva una bottiglia di shampoo, due saponette, un pacchetto di lamette da barba e due pacchetti di sigarette. E in tasca trentacinque euro, cambiati sul mercato nero con i soldi che il gioielliere aveva pagato per impegnare l’anello della moglie del fratello. Fecero anche delle foto prima di partire, sulla spiaggia. Hicham ne aveva portato una copia con sé, me le mostrò. Si vedeva il cielo buio e i primi piani di quattro ragazzi abbagliati dalla luce del flash. Ikram era quello con la maglietta nera a maniche corte, i jeans corti, e le ciabatte infradito. Nell’angolo in basso c’erano stampate data e ora: 6/08/2009 21:50. Sulla spiaggia quella sera c’erano una trentina di persone, tra passeggeri, amici e curiosi. E due piccole imbarcazioni con un motore fuoribordo. La prima prese a bordo sette persone, tra cui Ikram, la seconda partì vuota. Andavano verso Cap de Garde, dalle parti di Vivier, dove avevano dato appuntamento agli altri passeggeri. Hicham li raggiunse con un taxi insieme agli

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amici. A Vivier c’erano un centinaio di persone e una gran confusione. La scenata di un ragazzo che voleva a tutti i costi impedire alla sorella di partire, senza riuscire a dissuaderla, complicava ulteriormente la situazione. Alla fine, una volta selezionati i cinquantasette passeggeri, le tre imbarcazioni presero il largo. Due ore dopo, verso mezzanotte, il migliore amico di Ikram, Mourad, ricevette una sua chiamata, l’ultima: “Ci stanno inseguendo, cazzo! Ci vengono incontro. Ti richiamo più tardi”. Ma non richiamò. Il suo telefono non suonava più. Mourad chiamò subito Hicham. Non sapevano cosa fare. Si recarono al porto, nel quartiere girava voce che li avessero presi. In effetti già all’una le motovedette della guardia costiera iniziarono a depositare i ragazzi sul molo. Ma in mezzo alle sirene delle ambulanze e alle divise della polizia, di Ikram non c’era traccia. Il via vai delle ambulanze dal porto verso l’ospedale di Annaba Ibn Rochd durò fino alle quattro del mattino. Si mormorava che ci fossero una ventina di feriti gravi, soprattutto ustionati. Ma cosa era successo in mare? Nessuno dava spiegazioni. Ikram venne trasportato per ultimo. Erano ormai le quattro del mattino. L’ambulanza partì con le sirene spente e scortata dalla polizia. Ikram Hamza, nato l’11 aprile 1977, sarebbe stato seppellito il giorno dopo nel cimitero di Sidi Ayssa, insieme al suo grande amore e ai suoi sogni. l certificato di morte rilasciato dall’ospedale, diceva che Ikram era deceduto “in seguito ad annegamento”. Ma il fratello di Ikram, Hicham, sapeva che la verità era un’altra. Mi mostrò le foto della barca. Un peschereccio di legno di sette metri. La prua era tranciata di netto. Era stata speronata dalla motovedetta militare, ma non era affondata. Suo fratello non era annegato, disse, l’avevano ammazzato. Hicham però quella notte non c’era. E non poteva sapere cosa era successo a bordo. Romdani Ahmed invece sì. Lui quella notte era seduto a prua vicino a Ikram. Quando videro i gommoni della guardia costiera cercarono di fuggire. Volevano prendere il largo. Ma poi arrivò la nave militare. Veniva da nord, li inseguì con i fari accesi. Non ci fu nessuna comunicazione da bordo. Andavano a grande velocità tentando di evitare la nave, finché la nave gli si schiantò addosso. L’impatto fu tale che finirono tutti in acqua. E quelli che stavano a prua, come Ahmed e Ikram, finirono sotto la carena dello scafo della nave militare. Ikram morì sul colpo. Quella sera, prima di imbarcarsi aveva preso da parte il fratello Hicham, che all’epoca lavorava come parcheggiatore. Gli aveva detto di prendersi cura di mamma e papà. E di Fifì, come Ikram amava chiamare la nipotina di un anno, Anfal. Avrebbe pensato lui a mandargli dei soldi. Furono le sue ultime parole.

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Oltre il mare. Hammamet, Tunisia Foto di Ricardo Francone per PeaceReporter


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Rubriche

A teatro di Silvia Del Pozzo

La borto In tivù di Sergio Lotti

Acque poco chiare

Mi ricordo Beirut Le schegge delle granate esplose che il fratellino raccoglie da terra a mani nude per la sua personalissima collezione, gli improvvisi blackout che interrompono i cartoni animati sempre sul più bello, la musica diffusa in salotto a tutto volume per provare a sovrastare il frastuono della guerra. Piccoli frammenti d’infanzia, come tessere delicate, a ricomporre, una volta e per sempre, il più personale mosaico di ricordi. Con un esercizio di stile dedicato a Georges Perec, Zeina Abirached mescola le gioie e i dolori di una Beirut che non trova pace, mostrandoci con ironia e disincanto come si possa crescere - come si possa diventare donna - in tempo di guerra. Mi ricordo Beirut di Zeina Abirached tradotto da Stefano Andrea Cresti Edizioni BeccoGiallo beccogiallo.it

“Non mi ricordo del giorno preciso in cui il muro che sbarrava via Youssef Semaani è stato abbattuto. Però mi ricordo della mia incredulità quando, dieci anni dopo la fine della guerra, passeggiando per le strade di Beirut mi sono accorta che la via di fronte alla mia, che per quindici anni era stata “dall’altra parte”, anche quella via si chiamava Youssef Semaani.” Zeina Abirached

Prima che la previdente Commissione di vigilanza chiedesse di sospendere i programmi di approfondimento Rai o di trasformarli in deliziose tribune politiche da cui i fatti, notoriamente faziosi, vengono opportunamente banditi per non turbare le elezioni, in Presa diretta Riccardo Jacona è riuscito a mettere in rilievo gli indubbi vantaggi dell’ingresso delle gestioni private nei settori di interesse pubblico, a partire dall’acqua. Ad Agrigento, per esempio, la gestione privatizzata invia bollette di importo doppio rispetto alla media italiana, ma in molte zone l’acqua arriva ogni quindici giorni e spesso ha un colore davvero poco rassicurante. Tant’è vero che molti sindaci della provincia si rifiutano di consegnare gli acquedotti ai privati, mentre i cittadini continuano a usare i contenitori sui tetti, fatti in genere di eternit, che come si sa contiene amianto. Risalendo la penisola, ad Arezzo, la prima città a privatizzare il servizio, l’acqua arriva regolarmente, ma costa il doppio di prima, mentre anche il debito è salito molto. Viene da ridere, o da piangere, a pensare che lo scopo, o il pretesto, del passaggio alle gestioni private era la riduzione del debito degli enti locali. Ma più ancora viene da piangere pensando a Milano, una delle città più inquinate d’Italia, dove però l’acqua, grazie a una efficiente gestione pubblica, costa poco, arriva dovunque con regolarità e per la qualità potrebbe far concorrenza alle migliori acque minerali. Eppure la nuova legge obbliga anche Milano a competere con i privati nelle gare previste e a farne entrare nella gestione qualcuno, che potrebbe non accontentarsi degli utili di una organizzazione efficiente, ma pretendere anche bollette più onerose e riduzione di servizi, com’è avvenuto altrove. E’ quantomeno singolare, fa notare Jacona, che nel nostro paese si affidino alle multinazionali francesi, fra le più forti in questo settore, servizi che anche in patria stanno perdendo. A Parigi, per esempio, la gestione dell’acqua è tornata pubblica perché quella privata era al solito poco efficiente, troppo costosa e non brillava per trasparenza. Senza contare che nella patria del liberismo, gli Stati Uniti, la gestione dell’acqua è pubblica per l’85 per cento, e la quota privata tende a ridursi ancora. Intanto l’Italia è diventato il terzo paese al mondo nel consumo di acqua minerale, i cui produttori pagano alle regioni, per lo sfruttamento delle sorgenti, cifre ridicole.

8 marzo, festa della donna: mimose e altre stupidaggini non bastano a ricordare una realtà femminile che troppo spesso, purtroppo, ha poco da celebrare, vissuta com’è ancora nell’ oppressione e nella sofferenza. Sofferenze e umiliazioni di cui gli uomini sono, in molti casi, i primi responsabili. “Infatti come uomo mi sento sulla sedia degli imputati” dice Saverio La Ruina, autore e interprete del monologo “La borto”, in scena al Teatro dell’Arte di Milano dal 9 marzo. Su quella sedia, in palcoscenico, La Ruina siede nei panni di una donna, Vittoria, andata sposa a 13 anni a un uomo vecchio, malato e storpio che la mette incinta sette volte in pochi anni. E’ all’ultima gravidanza che la donna trova, nella solitudine disperata di una Calabria arcaica, maschilista e ostile, la forza di ribellarsi e di scegliere appunto ‘la borto’. Storpiatura al femminile di un atto in cui si denuncia l’assenza dell’uomo. In un calabrese aspro ma melodioso, contrappuntato dal suono del sassofono di Gianfranco De Franco, Saverio/Vittoria narra il suo calvario lungo tutte le stagioni della vita, fino a quando, ormai nonna, porta a Milano la nipote ad abortire, perché nella regione natia non ci sono strutture adeguate alla legge 194. È la storia di una donna semplice, dominata dallo sguardo offensivo dell’uomo, che “prende le misure” al suo corpo e ne disprezza l’anima, narrata con un’intensità dolente e insieme ironica, un pianto sommesso illuminato da qualche sorriso. Una denuncia precisa del menefreghismo e della mancanza di senso di responsabilità degli uomini, in cui traspare qua e là anche l’ammissione della correità delle donne stesse a un sistema che le rende schiave. La Ruina, già premio Ubu nel 2007 per “Dissonorata”, sa toccare il cuore con la sua intensa adesione all’anima femminile e, dando voce alla sua sofferenza , sferza con disprezzo l’egoismo e la banalità degli uomini del sud più retrivo. “La borto” di e con Saverio La Ruina: Milano, Crt Teatro dell’Arte (tel. 02 881298), dal 9 al 21 marzo 2010.

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Al cinema

In libreria

di Nicola Falcinella

di Licia Lanza

Donne senza uomini di Shirin Neshat

La bambina che scriveva sulla sabbia di Greg Mortenson

È l’estate del 1953 in Iran, quando il primo ministro democraticamente eletto Mohammad Mossadegh fu deposto dal colpo di stato di americani e inglesi che rimisero al potere lo Shah. Una delle tante rivoluzioni fallite o tradite di una nazione vitale e frustrata come poche altre, ma altrettanto ricca di cultura come poche altre. A raccontare quella pagina di storia, prendendo spunto dal romanzo di Shahrnush Parsipur (che vive negli Usa dopo essere stata imprigionata dal regime di Teheran per via dei suoi libri) è la videoartista Shirin Neshat, alla prima regia cinematografica. Il risultato, “Donne senza uomini”, un’opera complessa, narrativa quanto sperimentale, affascinante e toccante, visionaria ed emozionante, con una componente estetica forte che non prende il sopravvento sul racconto. È la storia, racchiusa in pochi giorni, intrecciata di quattro donne di classe sociale diversa che si ritrovano insieme a vivere giorni cruciali nella vita del Paese. Quattro facce di una complessità che da presupposti diversi lotta nella stessa direzione e non si lascia vincere neppure dalla sconfitta. Fakhri è una donna di mezz’età sposata senza amore con un generale e ritrova una vecchia fiamma di ritorno dall’America, cerca rifugio in un frutteto fuori città. Zarin è una prostituta che va in crisi quando non distingue più i volti degli uomini

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ma trova sollievo nel contatto con la terra. La giovane Munis ha coscienza politica ma è reclusa dal fratello tradizionalista. Faezeh vive i disordini e le proteste nelle strade, ma sogna di sposare il fratello di Musis. Tutte si ritrovano in un giardino che sembra un paradiso liberato dai vincoli della società. Naturalmente non dura, il destino tragico è dietro l’angolo. Ma la Neshat ha speranza che prima o poi i suoi connazionali raggiungeranno libertà, democrazia e diritti umani.

“A pensarci bene, io sono solo un tizio che si è perso tra le montagne e non ha più trovato la via di casa”. È questo che Greg Mortenson dice di se stesso e dell’impresa che ha portato il Central Asia Institute a fondare centotrentuno scuole tra Pakistan e Afghanistan, in cui attualmente studiano più di cinquantottomila studenti, la maggior parte ragazze. Un vero miracolo per le terre più povere e isolate dell’Himalaya occidentale, dove venti dollari sono sufficienti per pagare le spese annuali di un alunno in prima elementare e con trecentoquaranta dollari si permette a una studentessa di frequentare quattro anni di scuole superiori. Dopo il successo mondiale di “Tre tazze di tè” (pubblicato in ventisei paesi, tre milioni di copie negli Stati Uniti, trentasettemila in Italia) Greg Mortenson riprende il racconto di un progetto iniziato per caso e testimonia gli sforzi compiuti per portarlo in una zona nuova e particolarmente impegnativa, ovvero l’estremità nord orientale dell’Afghanistan, il “tetto del mondo” del Pamir afghano. La nuova impresa nasce da una nuova promessa fatta nel 1999 ad alcuni cavalieri Kirghisi della valle del Whakan che avevano cercato “il dottor Greg” per chiedere una scuola per i


loro figli e oggi sta tentando di espandersi in tutto l’Afghanistan. Con il suo secondo libro Mortenson ci racconta quanto sia indispensabile e conveniente per tutti investire nell’educazione femminile: porta a un aumento del reddito non solo per le giovani donne ma anche per le nazioni nel loro complesso; vede la diminuzione significativa della mortalità femminile e il formarsi di famiglie più piccole, più sane, meglio educate; porta le donne ad avere una maggiore forza nell’opposizione alla violenza. Una donna istruita difficilmente sarà la madre di un kamikaze perché potrà spiegargli che il Corano vieta di uccidere i propri simili. Una donna istruita è il maggior potenziale fattore di cambiamento per i Paesi in via di sviluppo. Del resto, come dice un proverbio africano, “istruire un ragazzo significa istruire un individuo; istruire una ragazza, invece, significa istruire una comunità”. Rizzoli, 2009, pagg. 450, 19,50

Obama, Mr. President. Al padre, che abbandonò la famiglia quando lei aveva sei anni, ha dedicato una canzone, Daddy’s Little Girl. Basta un verso per capirne il mood: “Papi, credo di volerti bene dal momento che ti odio così tanto”. Le sue canzoni sono una specie di atto liberatorio e hanno, per l’interprete, una sorta di valenza terapeutica. “Il mio non è rap” spiega Corynne, che ora si fa chiamare Speech Debelle “è speech terapy (non casualmente titolo del suo album d’esordio). È terapia delle parole. Volendo lo si può definire neo-rap, hip hop acustico emotivo”. Una sorta di esaltazione al power of speech, al potere della parola. Le sue canzoni raccontano la miseria urbana del nord del mondo. Siamo a Londra, ma potremmo essere in una qualsiasi metropoli del mondo che sta (o dovrebbe) star bene: New York, Parigi, Milano. Un giorno un amico le disse: “O credi in quello che vedi o vedi in quello che credi”. La scelta di Speech, alias Corynne, è palese. E speriamo non cambi anche adesso che è diventata famosa avendo vinto il Mercury Prize 2009. È uno storico premio che ambisce a valorizzare l’opera di artisti provenienti da Regno Unito e Irlanda, senza dover per forza scegliere il fenomeno ‘poppettaro’ della stagione. Il premio si porta in dote un assegno di 23mila euro al cui cospetto Speech ha dichiarato: “Grazie, anche se non ho da far follie. Ho un po’ di bollette arretrate da pagare”.

In rete Musica

di Arturo Di Corinto

di Claudio Agostoni

Un bavaglio all’autocomunicazione

Speech Debelle “Speech Terapy” Big Dada / Family Affair All’anagrafe londinese risulta iscritta come Corynne Elliot. Nata nella zona di Crystal Palace, all’età di diciannove anni fu buttata fuori di casa e iniziò a dormire in sistemazioni di fortuna, diventando presto una delle tante homeless della capitale del Regno Unito. La sua è una famiglia simile a quelle di tanti altri ‘colored’ di seconda generazione. I ragazzi giamaicani e africani hanno due genitori, i neri nati in Inghilterra solo uno. E, come nel caso di Corynne, è la madre. Se va bene l’altra figura parentale di riferimento è la nonna, come insegna la biografia di

I tradizionali paradigmi della comunicazione sono saltati. L’industria dei media è in ristrutturazione. Siamo entrati nell’era della comunicazione personale di massa. La “MeCommunication”, l’autocomunicazione, ridefinisce il palinsesto comunicativo di ognuno intorno alle relazioni sociali dei singoli. Ovvio notare che tutto questo accade per effetto delle profonde trasformazioni portate dall’avvento di Internet e del Web 2.0. Ventiquattro ore di videoclip caricate ogni minuto su Youtube, migliaia di nuovi blog al giorno, quattrocento milioni di utenti attivi su Facebook, decine di miliardi di stringhe di parole su Twitter, ci dicono chiaramente che siamo entrati in una nuova era. Ma l’ingresso in questa nuova era dell’autocomunicazio-

ne, come la chiama il sociologo Manuel Castells, porta opportunità e problematiche, talvolta conflitti. Le opportunità si colgono a partire da relazioni sociali complesse basate sulla cooperazione abilitata dalla disponibilità di hardware e software gratuiti e dall’accesso per molti alla larga banda. Sempre che Facebook non sia percepito come una sorta di Auditel dell’amicizia dove la quantità delle relazioni si sostituisce alla qualità del dialogo e il desiderio narcisistico di autorappresentarsi non sostituisca interamente la voglia di conoscersi e contaminarsi. Le problematiche sono invece relative alla proprietà dei contenuti prodotti collaborativamente dai singoli e veicolati attraverso i social media e le reti peer to peer della Darknet. In questo processo di produzione e condivisione, gli utenti di Internet aggirano le leggi e i divieti del passato ma essi stessi rischiano l’espropriazione del proprio lavoro creativo. Una volta si chiamava outsourcing il processo di esternalizzazione e delocalizzazione delle funzioni produttive della fabbrica fordista, adesso si chiama crowdsourcing la tendenza ad appaltare alle crowd, le folle anonime sul web, la produzione di oggetti ludici, ideativi, immateriali, e le funzioni di branding e marketing delle imprese vecchio stile: senza remunerazione né riconoscimento. Quindi da una parte le piattaforme di produzione di contenuti digitali si semplificano e si moltiplicano, grazie all’uso di software libero e open source, diventando i luoghi d’espressione per eccellenza dei nativi digitali, dall’altra le stesse tecnologie di riproduzione informatica e i personal media, rimettono in discussione le leggi sul copyright e il concetto stesso di proprietà, mentre i social network pongono nuove sfide al mantenimento della privacy e alla regolazione dell’intimacy, del livello di intimità che vogliamo stabilire con gli altri con i quali comunichiamo. Servirebbe un moderato laissez faire o un quadro normativo flessibile per favorire un processo di autoregolazione che, con le sue contraddizioni, ci parla di tecnologia, creatività, comunicazione, invece il Governo italiano si distingue per una stolida volontà di regolamentazione della rete, rigida, interessata, e calata dall’alto. L’occasione stavolta è fornita dalla direttiva europea nota come Audiovisual Media Services che mira a evitare distorsioni nel mercato dei contenuti multimediali e che tradotta da un’apposita legge, il decreto Romani, potrebbe far sparire le pubblicazioni amatoriali. Il decreto, con la scusa di armonizzare la legge italiana con quella europea sulla radiotelevisione ha partorito un pasticcio che vorrebbe parificare le piattaforme video online alle emittenti televisive tradizionali e trasformare i siti di video amatoriali con qualche annuncio pubblicitario in un servizio a scopo di lucro da sottomettere a concessioni e regolazioni governative. L’Autorità Garante delle Comunicazione ha già dato un parere negativo. Anche perché la legge gli delega un controllo sui contenuti di stile cinese per sanzionare violazioni del diritto d’autore, della morale e della sicurezza. Uno degli effetti sarà inoltre quello di uccidere nell’italica culla la nascente industria molecolare dei contenuti digitali e della web-tv, a tutto vantaggio degli altri paesi e dei monopolisti nostrani della televisione. Vi viene in mente qualche nome? Mediaset ha appena lanciato la sua nuova piattaforma di video online. 33


Per saperne di più EGITTO LIBRI KHALED AL KHAMISSI, «Taxi. Le strade del Cairo si raccontano», il Sirente, 2008 Tutto quello che non avete mai osato chiedere ai tassisti della trafficata super-metropoli africana. In questo libro loro sono i protagonisti e loro sono quelli che filosofeggiano sulla società egiziana e i suoi problemi quotidiani. Un libro scritto quasi completamente in dialetto da un noto giornalista egiziano e in cui decine di racconti si intrecciano tra fiction e realtà. AMITAV GOSH, «In an Antique Land», Granta Books, 1992 Lo scrittore indiano durante il suo lavoro di campo per il dottorato ha speso parte della sua vita in alcuni villaggi del Delta del Nilo. In questo libro, in cui alterna la ricerca di notizie su un antico schiavo ebreo, racconta la vita quotidiana del Delta e dei suoi protagonisti. “Ma voi in India veramente bruciate i morti?”. Questa è la domanda più ricorrente in cui l’autore si trova continuamente a sbattere. CAMPANINI MASSIMO, «Storia dell’Egitto contemporaneo», Edizioni Lavoro, 2005 Una comprensiva storia dell’Egitto contemporaneo attraverso gli eventi e i fatti che hanno coinvolto i suoi protagonisti: Mohammed Ali l’illuminato, King Farouk, Nasser, Sadat, Mubarak ed i Fratelli Musulmani. Una storia che negli ultimi sessanta anni si può leggere specialmente attraverso le politiche degli ultimi tre “faraoni”.

FILM YOUSSEF CHAHINE, KHALED YOUSSEF, «Heya fawda (Il Caos)», 2007 Uno spaccato della vita nella capitale egiziana, attraverso le vicende che si svolgono in uno dei suoi quartieri più emblematici, quello di Shubra. Una delle ultime opere del celebre e ormai defunto regista egiziano Youssef Chahine, che ha informalmente passato la cinepresa a quello che è diventato il suo discepolo, Khaled Youssef. Povertà, amore, violenza e corruzione sono le parole chiave di questo film. I due registi mettono in luce le difficoltà quotidiane del popolo egiziano, in un vago accenno al deficit democratico del paese. MAI ISKANDER, «Garbage Dreams», 2009 Un documentario sulla vita di tre teenager che vivono nel quartiere cariota degli “Zabaleen”, letteralmente “la gente dei rifiuti”. Gli Zabaleen raccolgono i rifiuti in tutti gli angoli della città per poi portarlo nel loro quartiere a ridosso della cittadella e cominciare il processo di riciclaggio. In questo documentario gli Zabaleen devono affrontare le conseguenze più dirette della globalizzazione sulla loro vita. Il sito del film è http://www.garbagedreams.com/. FRANNY ARMSTRONG, «The Age of Stupid», 2009 Il possibile e catastrofico impatto dei cambiamenti climatici sulla terra è suggerito ottimamente dal recente film di Armstrong, dove in un remoto angolo della terra, un archivista ripercorre nel 2055 la pazzia umana nel non aver contrastato quella che nel 2008 era già una catastrofe annunciata. Fiction e documentario si intrecciano costantemente per mettere in luce l’attualità del pericolo su scala globale. 34

SITI INTERNET http://www.ecooptionsegypt.com/ La opzione verde in Egitto c’è! Se qualcosa si muove in quanto ad ambiente ed ecosostenibilità in Egitto, è qui che la si può trovare. Il movimento ambientalista egiziano è ancora in fase di formazione, ma sono già molti i giovani egiziani che cominciano a sviluppare una forte passione ambientalista. Ci mettono spirito, passione e molto del loro tempo libero, in una battaglia che molti darebbero per persa in partenza. Aiutando a costruire una coscienza verde nella società egiziana. http://www.arabawy.org/ Uno dei più riconosciuti fra gli ormai famosi blogger egiziani. Un sito dedicato alla politica egiziana e che dedica una speciale attenzione al grande fermento associativo e rivendicativo dei lavoratori nel paese dei faraoni. Nato dal lavoro del giornalista e blogger egiziano Hossam elHamalawy. Qui riecheggiano spesso le chiamate alle mobilitazioni dei giovani attivisti egiziani. http://misrdigital.blogspirit.com/ Di lui dicono che “se succede qualcosa, lui è il primo a saperlo”. E anche il primo a commentarlo o a postare un video sulla sua pagina di youtube (http://www.youtube.com/user/waelabbas). Questa è la pagina di Wael Abbas, attivista egiziano che ha ormai raggiunto una certa fama internazionale. Malauguratamente Wael Abbas è famoso soprattutto per i continui problemi che deve affrontare con le forze di sicurezza dello Stato, e per le sue denunce pubbliche di abusi dei diritti umani.

GOLFO ARABICO LIBRI GILLES KEPEL, «Fitna – Guerra nel cuore dell’Islam», Laterza, 2004 Fitna - in arabo “disordine” - è lo stato di sedizione, la guerra interna alla comunità dei fedeli del Corano in cui sta precipitando il mondo musulmano. Secondo Kepel, fra i massimi conoscitori dell’Islam politico, l’attacco agli Usa, cela un’altra guerra, quella contro il “nemico vicino”, le élite che governano la maggior parte dei paesi arabi. Una guerra che mira alla mobilitazione delle masse diseredate e all’instaurazione di uno Stato islamico. Il fallimento del processo di pace in Palestina, la strategia terroristica, le reazioni americane, la lotta per la successione al trono saudita, la guerra in Iraq: tasselli di un’analisi che sottolinea le carenze della politica occidentale, ma anche la crisi del mondo islamico. NASR VALI, «La rivincita sciita. Iran, Iraq, Libano. La nuova mezzaluna», Bocconi, 2007 Questo libro è un resoconto storico dei conflitti che lacerano il mondo musulmano al suo interno e di come il futuro dell’Iraq e del Medio Oriente dipenda dalla soluzione pacifica del conflitto che oppone gli sciiti, appoggiati dall’Iran, e i sunniti, sostenuti dall’Arabia Saudita. ANNA VANZAN, «Gli Sciiti», Il Mulino, 2008 Gli avvenimenti di questi ultimi anni in Iran, Iraq e Libano hanno imposto all’attenzione internazionale lo sciismo quale componente politico-religiosa cruciale nel già complesso rapporto tra Occidente e Islam. Gli sciiti appartengono infatti a una delle due grandi famiglie in cui si divide il mondo musulmano e sono circa il 10 percento contro il 90 percento della corrente maggioritaria sunnita. L’origine della divisione ha motivazioni più politiche

che dottrinali e risale alle lotte civili per la successione dopo la morte del Profeta Muhammad. La storia dello sciismo è ricca di vicende drammatiche e di frazionamenti interni ma anche di una fervida devozione popolare, che ha dato vita a rituali e manifestazioni di grande fascino e impatto emotivo. Un ritratto dell’Islam sciita tra storia, politica e cultura.

FILM STEPHEN GAGHAN, “Syriana”, 2005 L’approccio dell’industria di Hollywood con temi così delicati di geopolitica internazionale lascia a desiderare, ma questo film scritto e diretto da Gaghan ha il pregio di portare sugli schermi del pubblico Usa il tema degli interessi che muove l’industria petrolifera. Il gioco delle multinazionali del settore, con la sponda della politica e dei servizi segreti, non si pone scrupoli di nessun genere. George Clooney, agente Cia, finisce nel tritacarne che lui stesso dovrebbe rappresentare, in una spystory che attraversa Iran, Libano e Golfo Arabico. Il film, al di là di alcune ingenuità, ha il pregio di rendere evidente l’asse del male vero, quello degli interessi petroliferi, attorno al quale ruotano la maggior parte delle sventure dei popoli del Medio Oriente.

SITI INTERNET http://www.crisisgroup.org/home/index.cfm L’International Crisis Group, nato nel 1995, è un think tank indipendente che si occupa di prevenzione e soluzione dei conflitti. Il suo comitato scientifico vanta alcuni tra i massimi esperti mondiali di geopolitica, che si avvalgono del lavoro di ricercatori sul campo. http://www.irna.ir/En/ L’agenzia stampa del governo iraniano, per seguire le decisioni di Teheran in merito alle questioni chiave del momento internazionale. http://www.asharq-e.com/ Pubblicato a Londra, Asharq Alawsat è la voce del potere saudita nel mondo arabo. Un potere che è prima di tutto economico, ma anche e soprattutto religioso. L’Arabia Saudita è il simbolo stesso del predominio sunnita, ma messo in discussione dalla rinascita sciita. http://www.debka.com/ Un sito così vicino ai servizi segreti israeliani da risultarne, a volte, una specie di notiziario. Utile per capire le mosse di Tel Aviv nello scacchiere internazionale.


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