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mensile - anno 4 numero 4 - aprile 2010

3 euro

Afghanistan, voci sotto le bombe L’altro Nord-Est La città scomparsa Costa D’Avorio I dimenticati Colombia Resistenza di pace Balcani Il peso del tempo Malta La trappola Migranti Respinti verso la tortura

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

Italia

Inserto speciale: Intervista a Marwan Barghouti


EMERGENCY ringrazia l’editore per lo spazio concesso gratuitamente - Illustrazione di Guido Pigni

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guerra e della povertà. Oltre 3 milioni e mezzo di persone curate in Afganistan, Cambogia, Iraq, Repubblica Centrafricana, Sierra Leone, Sudan e in Italia. Con il tuo contributo, senza costi per te, parteciperai alla costruzione di un progetto di Pace reale.

EMERGENCY w w w. e m e r g e n c y. i t


La guerra è qualcosa di assurdo e inutile, che nulla può giustificare. Louis de Cazenave, veterano francese della Prima guerra mondiale

aprile 2010 mensile - anno 4, numero 4

Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Christian Elia Luca Galassi Alessandro Grandi Benedetta Guerriero Enrico Piovesana Nicola Sessa Stella Spinelli

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Marco Benedetelli Francesca Borri Blue & Joy Gabriele Del Grande Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Nicola Falcinella Alessandro Ingaria Licia Lanza Paolo Lezziero Sergio Lotti Gilberto Mastromatteo Elisa Pozza Tasca

Progetto grafico Guido Scarabottolo Oliviero Fiori Segreteria di redazione Silvina Grippaldi

Amministrazione Annalisa Braga

Hanno collaborato per le foto Ugo Borga Gerald Bruneau Simone Bruno Antonio Cisari Riccardo Francone Gilberto Mastromatteo Mattia Velati

Redazione e amministrazione Via Bagutta 12 20121 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Bagutta 12 - 20121 Milano Stampa Graphicscalve Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07 Loc. Ponte Formello - 24020 Vilminore di Scalve (Bg) Foto di copertina: Finito di stampare 5 aprile 2010 Afghanistan 2010. Foto di Mattia Velati per PeaceReporter Pubblicità Via Bagutta 12 20121 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net

L’editoriale di Maso Notarianni

Dove finiscono i nostri soldi È

un reportage importante, quello che pubblichiamo dall’Afghanistan. Perché nessun altro giornale in Italia, e probabilmente quasi nessun altro nel mondo, è andato a vedere cosa sta succedendo nell’Helmand, quella provincia del sud dell’Afghanistan dove i talebani sono di casa e dove il fuoco della guerra occidentale si è concentrato negli ultimi mesi. E’ una faccenda che non ci riguarda, essendo quell’operazione militare gestita dagli angloamericani? No, ci riguarda eccome. Perché il nostro ministro della Difesa ha candidamente ammesso che gli italiani ne fanno parte, seppur solo nella filiera di comando e da Kabul. E poi perché, sempre per bocca del nostro ministro della Difesa, abbiamo saputo in via ufficiale che questa missione non fa parte di Enduring freedom, ma di Isaf. Di quella missione cioé cui gli italiani contribuiscono con circa quattromila militari (tutte truppe scelte da combattimento, mica ingegneri) e con la cifra di cinquanta milioni di euro al mese. Anzi cinquantuno. Cinquantuno milioni di euro al mese. Posto che - come dice il reduce della grande guerra la guerra è sempre inutile assurda e ingiustificabile, crediamo che anche chi ancora ha qualche dubbio sulla utilità di quel barbaro strumento si possa indignare di fronte alla mostruosità di una cifra spesa per la guerra (una guerra peraltro a noi del tutto inutile) in un periodo in cui troppe famiglie non arrivano a fine mese. In un periodo in cui a scuola chiedono ai genitori di fornire i loro figli di carta igienica perché lo Stato non può più permettersela. La guerra, questa guerra, è stata votata da tutto il Parlamento. Poi qualcuno dice che le elezioni sono andate male per colpa di Beppe Grillo.

Migranti a pagina 28

Italia a pagina 10 e 26

Malta a pagina 22 Afghanistan a pagina 4

Distribuzione in libreria Joo Distribuzione - via F. Argelati 35, 20143 Milano - Tel 028375671

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Somalia a pagina 24

L’informativa completa è disponibile sul sito di Picomax: www.picomax.it Scritti, disegni e fotografie anche se non pubblicati non verranno resi.

Colombia a pagina 16

Costa d’Avorio a pagina 14 3


Il reportage Afghanistan

Voci sotto le bombe Di Enrico Piovesana A Lashkargah, capoluogo della provincia afgana meridionale di Helmand, il silenzio non esiste più. Il cielo risuona senza sosta del rombo dei cacciabombardieri e degli elicotteri da guerra che volano bassi, avanti e indietro, in continuazione. i seguono gli occhi attenti di alcuni pazienti dell’ospedale di Emergency, usciti in giardino con le stampelle, in carrozzina o direttamente sui loro letti, per prendere un po’ di aria e di sole. E per raccogliere qualche fiore, che poi tengono in mano annusandolo di tanto in tanto o che si infilano tra le bende delle ferite. Gli afgani amano i fiori. La sensibilità e la dolcezza di questi barbuti contadini pashtun, giovani e vecchi, mette in crisi tutti i nostri preconcetti su questo popolo. Ogni tanto, dalla direzione di Marjah, al di là del muro di cinta del giardino e del fiume Helmand che scorre dietro di esso, giunge l’eco di un boato, come il tuono di un temporale lontano, ma più forte, più cupo e più breve. Tra i pazienti, ogni volta, inizia il dibattito: chi dice che sono bombe sganciate dai jet. Chi, invece, che sono razzi sparati dagli elicotteri. E chi, infine, è convinto che si tratti semplicemente di mine fatte brillare dai Marines. Attorno a Marjah si combatte ancora, ma ufficialmente l’operazione Moshtarak, la più grande offensiva militare condotta dalla Nato in Afghanistan dall’inizio della guerra nel 2001, è conclusa: la roccaforte talebana di Marjah è stata riconquistata dai Marines e dalle truppe afgane dopo due settimane di combattimenti. La bandiera nero-rosso-verde è tornata a sventolare su questo distretto rurale, vissuto per oltre due anni all’ombra del vessillo bianco dei talebani. Un successo, secondo i comandi alleati, che verrà presto replicato sugli altri fronti, a partire da quello di Kandahar. La battaglia di Marjah come primo passo, preludio di una strategia più generale della Coalizione, decisa a riprendere il controllo dell’intero sud dell’Afghanistan nei prossimi mesi. Mesi decisivi che, come ha dichiarato il segretario di Stato Usa, saranno i più duri per le forze occidentali dall’inizio di questa guerra. Ma lo saranno soprattutto per la popolazione civile afgana, a giudicare dalle testimonianze che PeaceReporter ha raccolto dalla gente di Marjah, ricoverata o in visita al vicino ospedale di Emergency di Lashkargah. Voci che raccontano l’altra faccia di questa guerra, quella che non viene mai raccontata: la paura e la sofferenza, la distruzione e la morte che noi, i kharijàn, gli stranieri, portiamo con le nostre bombe e i nostri missili a questa gente. Gente che non si sente ‘liberata’ ma aggredita, che preferisce il rassicurante e familiare ordine sociale che i talebani sanno garantire nei territori da essi controllati, che ha il terrore dell’anarchia e dei soprusi dei poliziotti afgani che rubano, taglieggiano e rapiscono, che nemmeno parlano la loro lingua e che per questa gente rappresentano l’unica manifestazione del lontano governo di Kabul. Sad Maluk, 60 anni, turbante bianco, barba grigia e occhi celesti, è appena arrivato da Marjah per far visita al nipote, ricoverato con una brutta ferita da pallottola. Siede con familiari e amici su una panchina sotto il porticato d’ingresso dell’ospedale.

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“Non so chi gli ha sparato, ma poco importa. Questa nuova offensiva ha causato tante vittime innocenti, troppe. Dicono che hanno ucciso per errore solo pochi civili, ma la verità è che hanno ucciso pochi talebani. Io vivo vicino al bazar di Marjah, e vi posso assicurare che nei primi giorni le bombe sganciate dagli aerei e i missili lanciati dagli elicotteri hanno distrutto molte abitazioni. Da sotto le macerie abbiamo tirato fuori finora circa duecento cadaveri di civili, ma ci sono ancora un centinaio di dispersi sepolti sotto i resti delle case colpite. Ieri ne abbiamo trovati altri cinque. Queste cose non le dice nessuno, ma vi giuro che è così perché l’ho visto con i miei occhi. Lo abbiamo visto tutti”. Gli uomini intorno a lui scuotono silenziosamente il turbante in segno di assenso. Marjah non si spara più ma questo non significa che i talebani se ne siano andati o siano stati sconfitti: hanno solo smesso di combattere, per ora. I talebani sono ancora a Marjah perché i talebani sono anche gente del posto. Non sono forestieri venuti da fuori come si vuol far credere: ci sono anche tanti di noi che stanno con i talebani. E sapete perché? Perché in questi ultimi anni con loro non abbiamo mai avuto problemi: finché a Marjah comandavano loro, tutto andava bene, tutto era tranquillo. Non vogliamo altro, non vogliamo intrusioni da parte degli stranieri o del governo. Vogliamo solo essere lasciati in pace, così come siamo”. Mormorii di consenso percorrono il pubblico di curiosi che si è formato attorno a noi. Uno di loro, un giovane di Marjah di nome Zia Ulaq, viso spigoloso e turbante nero, interviene per spiegare le parole del baba, come vengono chiamati gli anziani in segno di affettuoso rispetto. “Ora a Marjah è tornata a comandare la polizia afgana, come prima che arrivassero i talebani. Noi, più che degli americani, abbiamo paura dei poliziotti afgani, di questi criminali che girano con i fuoristrada verdi e si comportano da padroni: rubano le nostre cose, ci estorcono denaro e chi si ribella viene arrestato e denunciato come talebano. E fanno anche di peggio, come rapire i nostri bambini per poi abusare di loro. Da quando, oltre due anni fa, Marjah è passata sotto il controllo dei talebani – racconta Zia Ulaq – tutto questo non succedeva più. I talebani ci rispettavano e rispettavano le nostre proprietà e le nostre usanze. Garantivano la sicurezza, amministravano la giustizia con i giudici delle corti islamiche e facevano rispettare le nostre leggi islamiche. Noi stavamo bene perché ci sentivamo sicuri: non subivamo più i furti e gli abusi di quei banditi in divisa. Se i nuovi governanti di Marjah faranno

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Una bambina ricoverata nell’ospedale di Emergency a Lashkargah. Afghanistan 2010. Mattia Velati per PeaceReporter


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altrettanto, se rispetteranno la nostra gente e la nostra religione lasciandoci vivere e lavorare in pace, a noi andrà benissimo. Ma ora che sono tornati gli uomini sui fuoristrada verdi, abbiamo paura”. Abdul Wali ha solo trentacinque anni, ma è già vedovo da tre anni e padre di quattro figli. Fino a pochi giorni fa, prima dell’operazione Moshtarak, ne aveva sei. Due di loro, Sadiq e Asrat, di otto e nove anni, sono morti, dilaniati da un razzo americano caduto per errore nel cortile della loro casa, a Marjah. Gli occhi di Abdul sono quelli di un padre disperato. Siede tra i letti su cui giacciono, mutilati e feriti, altri due suoi bambini, Najib e Naqib, di cinque e sette anni, sopravvissuti per miracolo all’esplosione. Lui li copre di baci e carezze. Le infermiere fanno altrettanto. Ma questo non serve a far tornare il sorriso sui loro piccoli visi feriti, né a far passare gli incubi che li fanno piangere di notte. “Quando sono scoppiati i combattimenti, con le pallottole che colpivano i muri di casa e i bambini che piangevano per i rumori che sentivano, ho deciso di portare via da Marjah i miei sei figli”, racconta Abdul, spiegando di avere anche una bambina di sei anni e un bambino di undici, che per fortuna sono ancora vivi e incolumi. “Dopo alcuni giorni, quando ci hanno detto che la situazione in città era di nuovo tranquilla, siamo tornati. In effetti era tutto calmo, o almeno così sembrava. Un paio di giorni dopo, i miei figli erano in cortile a giocare quando c’è stata l’esplosione”. Abdul chiude gli occhi e si interrompe, come se non ce la facesse a raccontare quello che ha visto e vissuto dopo quel momento. Poi guarda i suoi bambini e riprende a parlare. “Sono arrivati dei soldati americani. Hanno raccolto i frammenti del razzo, ammettendo che era roba loro. Hanno scattato delle foto ai miei due bambini morti, Sadiq e Asrat e poi hanno portato via Najibullah e Naqibullah, caricandoli su un elicottero. Mi hanno detto che li portavano all’ospedale militare di Camp Bastion. Non hanno aggiunto altro”. hiediamo ad Abdul se nei giorni successivi i militari Usa non siano tornati, magari per offrirgli un risarcimento come di solito avviene in questi casi. “Sì, i soldati americani si sono ripresentati due giorni fa, dicendo che l’incidente è stato causato da un razzo americano inesploso che i miei figli avevano raccolto per giocarci, e che poi sarebbe scoppiato. Io non lo so, non ho visto come sono andate le cose: mio figlio maggiore mi ha detto che loro non avevano raccolto alcun razzo. Io so solo che i miei figli sono morti per colpa degli americani”. Abdul non aggiunge altro e torna ad accarezzare i suoi bambini. Baram Gul è un ragazzone di ventisei anni, con gli occhi buoni e tristi, il ventre fasciato. E’ arrivato qui pochi giorni fa in fin di vita, con quattro pallottole in corpo. “Quando sono iniziati i combattimenti, i talebani ci hanno consigliato di prendere le nostre cose e andarcene via. Dopo tre giorni la situazione era tornata abbastanza calma e io ho preso il mio motorino e sono tornato a casa. Non sapevo che gli americani l’avevano trasformata in una loro postazione. L’ho capito solo quando, senza nessun preavviso, un soldato sul tetto mi ha sparato, una, due, tre, quattro volte. Sono caduto a terra ferito. Ho alzato la mano per chiedere aiuto, ma i soldati non si sono mossi. Allora mi sono trascinato fino alla casa più vicina, dove sono stato soccorso da mio zio. Perché tutto questo? Per due anni abbiamo vissuto una vita normale, tranquilla e sicura per noi, per i nostri figli e le nostre proprietà. Noi non chiediamo altro!”. Abdul Wafa, trentacinque anni, barba lunga e capelli rasati (come tanti da queste parti) è arrivato qui all’ospedale di Emergency con un razzo di un metro, inesploso, conficcato nella schiena. Gli infermieri non si capacitavano di come potesse essere ancora vivo. Per rimuovere l’ordigno sono dovuti intervenire gli artificieri. Debole, ma cosciente, si sforza di raccontare. “Lavoravo nel campo quando sono scoppiati i combattimenti. Gli elicotteri hanno iniziato a sparare missili e i talebani a sparare razzi. Ho iniziato a correre verso casa, ma un proiettile di Rpg mi ha colpito alla schiena. Questa operazione militare, come le altre che l’hanno preceduta, ha ucciso e ferito tante persone innocenti, ha danneggiato e distrutto le nostre case. Perché

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dobbiamo subire tutto questo? Che senso ha?”. Abdul è morto pochi giorni dopo, stroncato da una meningite fulminante: la punta del razzo gli aveva fratturato la colonna vertebrale infettando il midollo osseo. I kharijan, gli stranieri, erano venuti a liberarlo dai talebani. Lui, come tanti altri, voleva solo continuare a vivere. In pace. “Agli americani e al governo non interessa niente della nostra gente”, racconta Safatullah Zahidi, un giornalista locale. “A loro interessa solo una cosa: mettere le mani sulle piantagioni di papavero da oppio. E quelle di Marjah e del suo distretto, Nadalì, sono le più grandi e produttive di tutto l’Afghanistan. Grazie all’operazione Moshtarak sono tornate sotto controllo del governo e degli americani, giusto in tempo per il raccolto di marzo. E ora faranno lo stesso con le piantagioni della seconda principale zona di produzione di oppio, quella di Kandahar”. n’interpretazione dei fatti clamorosa, ignorata in Occidente ma largamente condivisa in Afghanistan. Anche da personaggi molto noti e autorevoli, come l’ex parlamentare democratica Malalai Joya, conosciuta in tutto il mondo per il coraggio che ha sempre dimostrato nel denunciare i crimini e la corruzione dei governanti afgani finanziati e protetti dall’Occidente. “Lo scopo di queste operazioni militari condotte dalle truppe straniere – spiega Malalai – non è quello di sconfiggere i talebani, che vengono regolarmente avvertiti prima in modo da poter fuggire altrove. I talebani e i terroristi servono agli americani per mantenere il mio paese nell’insicurezza, così da avere un pretesto per rimanere in Afghanistan assicurandosi il controllo di questa regione strategica, vicina all’Iran, alla Cina e ai paesi dell’Asia centrale ricchi di gas e petrolio, ma anche per continuare a fare affari con lo sporco business dell’oppio. Oppio che, trasformato in eroina, frutta enormi guadagni sia al governo afgano che alle forze americane, che portano la droga fuori dall’Afghanistan con i voli militari che decollano dalle basi aeree di Kandahar e di Bagram, e che poi finisce nelle strade dell’Europa e degli Stati Uniti. Quest’ultima offensiva in Helmand, che tra l’altro – sottolinea la Joya – ha causato molte più vittime civili di quelle pubblicamente dichiarate, è l’ennesima conferma di ciò: l’obiettivo non era colpire i talebani, che hanno avuto tutto il tempo di scappare, ma semplicemente riprendere il controllo della principale zona di produzione di oppio di tutto il paese”. Secondo l’ultimo rapporto del dipartimento antidroga delle Nazioni Unite (Unodc), la provincia di Helmand produce da sola quasi il 60 percento di tutto l’oppio afgano (4mila delle 6.900 tonnellate totali e 70mila ettari di piantagioni su un totale nazionale di 123mila), e il distretto di Helmand in cui maggiormente si concentra la produzione è proprio quello di Marjah-Nadalì. Un esponente del governo afgano, che ha chiesto di non rendere pubblico il suo nome, ha dichiarato a Irin News, l’agenzia giornalistica dell’Onu, che le autorità hanno informalmente concesso ai contadini del distretto di continuare a produrre oppio: “Il governo non può dirlo pubblicamente perché è un atto illegale, ma ha garantito che nessuna distruzione di piantagioni verrà effettuata a Marjah e Nadalì, almeno per quest’anno”.

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8 anni e mezzo la durata della guerra in Afghanistan dall’invasione del 7 ottobre 2001 120mila il numero dei soldati della Coalizione schierati nel paese (raggiungeranno i 150 mila in agosto) 100mila, almeno, i contractors privati del Pentagono operativi in Afghanistan 1.700 i soldati occidentali caduti in Afghanistan fino a oggi 7mila i soldati e i poliziotti afgani morti dal 2001 25mila gli insorti uccisi finora 13mila i civili uccisi dal 2001 (8 mila vittime della Coalizione, 5 mila vittime degli insorti) In alto e in basso: In ospedale Afghanistan 2010. Mattia Velati per PeaceReporter


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I cinque sensi dell’Afghanistan

Udito Il pianto dei bambini feriti, ricoverati nel ‘D ward’ dell’ospedale di Emergency a Lashkargah. Nelle due settimane dell’operazione Moshtarak ne sono arrivati a decine, feriti da proiettili, schegge di bomba e mine antiuomo. Il cinguettio delle rondini, coperto dal rombo dei jet e dal rumore degli elicotteri militari che, decollati dalle basi militari di Kandahar, sorvolano bassi la città sulla rotta per Marjah e Nadalì. I richiami tra i ‘falcon’, codice del personale di Emergency in Afghanistan, nelle comunicazioni via radio all’interno dell’ospedale per avvertire dell’arrivo di nuovi feriti o per chiedere l’intervento di un medico in pronto soccorso o in terapia intensiva.

Vista L’immagine incredibile di un uomo appena arrivato da Marjah, vivo, con un razzo inesploso lungo un metro conficcato nella schiena. Al suo arrivo in ospedale, gli infermieri

non si capacitavano di come potesse essere ancora vivo. Infatti, morirà pochi giorni dopo per una meningite fulminante causata dalla ferita. Una bambina di appena un anno che piange disperata dopo essersi risvegliata dall’operazione nella quale i medici le hanno aperto il minuscolo pancino per estrarre la scheggia di una bomba. Era in braccio a uno dei suoi fratelli maggiori che stavano maneggiando un razzo inesploso.

Gusto La ‘soup’ di ceci in brodo e il riso con carne stufata: piatti fissi serviti alla mensa del personale ospedaliero, dove a pranzo si ritrovano medici e infermieri, tecnici e addetti alle pulizie, autisti e guardie. I biscotti e i succhi di frutta dolcissimi, di produzione iraniana o pachistana, che i parenti in visita portano in dono ai loro familiari ricoverati. In particolare ai più piccoli, che li preferiscono di gran lunga al quotidiano uovo sodo che gli infermieri danno loro da mangiare come parte essenziale della loro dieta ricostituente, ma che i bambini, pur di non mangiare, regalano agli altri pazienti.

Olfatto Il profumo dei fiori bianchi e rosa degli alberi da frutto che costeggiano il viale d’ingresso all’ospedale. La primavera arriva presto in Helmand: alla fine di febbraio il giardino dell’ospedale si riempie di fiori colorati e ronzanti di api. L’odore di detersivo e disinfettante nei reparti e nei corridoi dell’ospedale, sempre tirati a lucido. La pulizia e l’igiene sono la caratteristica distintiva delle strutture di Emergency: un altro pianeta rispetto agli sporchi e mefitici ospedali locali.

Tatto La pelle liscia dei bambini violentata dai segni della guerra: le ustioni, i tagli e le ferite provocate dalle schegge di bombe, razzi e mine. Il tepore del sole di marzo che riscalda l’aria di Lashkargah dopo un breve e mite inverno, e che nel giro di poche settimane lascerà il posto alla canicola afosa tipica delle lunghe estati calde dell’Helmand. 9


Il reportage Italia

L’altro Nordest Di Luca Galassi “Non si può pretendere di imparare la loro cultura quando sono loro che chiedono ospitalità e lavoro nel nostro territorio. Sono loro che devono sforzarsi di imparare la nostra. Devono omologarsi”. Ha le idee chiare, Roberto Miatello sindaco del comune padovano di San Giorgio in Bosco, nel definire la distanza tra ‘noi’ e ‘loro’. oi siamo i padani, i veneti della Lega Nord. Loro gli stranieri. Ma non si parli di razzismo, in queste terre dove la piccola impresa ha smesso da anni di essere il traino dell’economia italiana. “Razzismo non ce n’è. Basta che gli immigrati, siano essi africani, asiatici o rumeni, vengano qui con un lavoro già in tasca”. Perché in tempi di crisi, l’equazione è semplice: “Privilegiamo i residenti, che già loro faticano a trovarlo, il lavoro. Le mie parole d’ordine sono ordine e disciplina - ribadisce il sindaco leghista -. Chi viene nel nostro territorio deve dimostrare di avere un reddito”. Il primo cittadino di San Giorgio in Bosco è salito agli onori delle cronache nazionali perché i residenti del suo comune li ha privilegiati anche nello sport, vietando a una squadra di amatori, la Gs Alleanza Romena, composta esclusivamente da cittadini romeni, di giocare nel campo da calcio comunale, già ‘affollato’ da otto formazioni locali: “Non vedo l’utilità di una squadra che non ha niente a che spartire con il territorio”, si difende Miatello. Eppure, la decisione di escludere i rumeni ha fatto scoppiare un caso diplomatico che ha portato il presidente dell’omonima associazione culturale Alleanza Romena, Adrian Teodorescu, a denunciarlo prima in prefettura, poi all’ufficio nazionale anti-discriminazione della presidenza del Consiglio dei ministri. “Il comune - sostiene Teodorescu - dopo le nostre richieste ci ha negato l’uso del campo, dicendo che il terreno era impraticabile. Ma quel campo lo avevamo utilizzato fino all’anno prima. L’associazione sportiva Ac San Giorgio e le sue otto squadre possono usarlo, e noi no”. Miatello ribatte: “Un attacco montato ad arte, io sono amico dei romeni”. Perché ha smesso di concedere il campo, allora? “Perché ci si allenano già otto squadre, e una nona avrebbe gravato sul manto erboso, che ormai non è più erboso, ma sabbioso. Problemi tecnici, quindi, di manutenzione, e non razzismo. Quelli dell’Alleanza Romena, poi, hanno presentato la domanda in ritardo. C’è anche una storia pregressa con questa associazione. Due campionati prima ha giocato a titolo gratuito sul campo, perché lo sponsor della squadra era l’ex sindaco di San Giorgio in Bosco, Leopoldo Marcolongo. Ma non è una ripicca nei suoi confronti perché di sinistra. È solo una questione tecnica”. Non è facile entrare nelle microdinamiche politiche di questa provincia del Nord Est dove, nonostante la recessione, una classe sociale che da generazioni porta iscritte nel proprio codice genetico l’etica del lavoro, l’ossessione per l’identità, per il territorio e per le radici, ha sempre mantenuto una tradizione di risparmio, rigore e parsimonia, memore di un dopoguerra di fame e povertà. Una storia di imprese a conduzione familiare, in una comunità cementata dagli ideali e dai valori cattolici. Fino al 2000 il problema principale qui erano gli albanesi. Allora le donne erano considerate potenziali prostitute, gli uomini potenziali ladri di ville. Gli albanesi hanno scalato la gerarchia degli immigrati, mimetizzandosi socialmente per farsi passare per italiani, per adattarsi allo stile di vita locale e finalmente integrarsi. La presenza albanese è stata sostituita da quella rumena. Negli ultimi anni la Lega è diventata uno dei movimenti, e poi dei

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partiti, in grado di rispondere alle esigenze della popolazione locale, sfruttando la retorica identitaria e caricando di pericolosità il nuovo, l’altro, lo straniero. Di fronte all’assenza delle istituzioni a livello nazionale, sono i poteri concessi ai sindaci dal decreto Maroni a fare la differenza. Vengono utilizzati come strumento di consenso nei piccoli comuni, che diventano gli interfaccia istituzionali più vicini al cittadino e alle sue lamentele. Rispondendo a queste esigenze, matura nella provincia padovana una mania per la precauzione e per l’ordine. Uno dei casi più eclatanti è quello di Campo San Piero, dove un assessore va porta a porta a bussare alle abitazioni degli immigrati per denunciare i clandestini. Famosa anche l’ordinanza cosiddetta anti-sbandati del sindaco di Cittadella, Massimo Bitonci, che imponeva agli stranieri che domandavano la residenza di dimostrare di avere casa e lavoro e consentiva al sindaco di controllare la fedina penale dei richiedenti. Sono in molti a ritenere che non si tratti di forme di razzismo, ma di paura per il mutamento sociale, per cui la soluzione più immediata è rappresentata dal controllo. Tutto ciò che sfugge al controllo fa paura. Allora i sindaci cominciano a mettere telecamere, a potenziare gli organici di polizia municipale, a ‘bonificare’ i salotti buoni dei comuni e della stessa città di Padova dalle presenze straniere. Così capita che il centro storico, con la sua meravigliosa piazza delle Erbe, sia diventato talmente sicuro, pulito e controllato che la gente non sente più nemmeno il bisogno di frequentarlo. O meglio, la gente lo vede come un luogo sicuro solo quando è vuoto. Anche per la vita notturna è stato gradualmente organizzato un controllo dello spazio e del tempo, attraverso licenze di apertura dei locali pianificate. A Padova gli studenti universitari escono il mercoledì. Quelli liceali il sabato. Le altre sere tutti i locali del centro chiudono a mezzanotte. A meno che la polizia non riceva segnalazioni da qualche cittadino, che fa scattare ordinanze di chiusura anticipata alle nove, o addirittura alle sette e mezza. a torniamo alla squadra dell’Alleanza Rumena. Dopo il rifiuto del sindaco Miatello hanno deciso di presentarsi con il lutto al braccio, giocando e vincendo (due a zero) contro il ‘Magico 90’, nella struttura sportiva offerta loro a Padova dalla Libertas, affiliata al Coni. “È un problema per questa squadra - spiega il responsabile della Libertas, Walter Durello - composta da giocatori di buon livello e ben inserita nel campionato, non avere un luogo dove allenarsi. Che il comune non le dia un campo per una competizione sportiva è una ripicca nei loro confronti. Non è possibile che non ci sia lo spazio per due partite al mese”. Qualche giorno dopo la partita, il vulcanico presidente delll’Alleanza romena ha lanciato una provocazione: sfidiamo la formazione della Lega Nord e mettiamo in palio il campo del San Giorgio in Bosco. In caso di sconfitta i romeni faranno decadere ogni denuncia e ogni richiesta di giocare a pallone in quel

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Dopo la messa Padova, Italia 2010. Luca Galassi ©PeaceReporter


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comune, dove ha comunque la sede legale la stessa associazione. “Se un problema non si può risolvere per via istituzionale, allora proviamo a risolverlo per via sportiva - spiega il presidente di Alleanza romena -. Vorremmo affidare l’esito della questione del campo a una partita amichevole, in cui intendiamo confrontarci con la Lega Nord. Se perdiamo ci rassegneremo e ritireremo qualsiasi opposizione per il campo da calcio, ma se vinciamo il sindaco di San Giorgio in Bosco dovrà darci gratuitamente l’uso del campo anche per i prossimi campionati. E la Lega si impegnerà a a avere un atteggiamento di apertura e accoglienza verso la comunità romena”. Il guanto è stato lanciato. Maurizio Conte, segretario provinciale del Carroccio, dice: “Sicuramente c’è una provocazione, una sfida un po’ goliardica: sarà sempre il sindaco a decidere la destinazione finale del campo. Io sto con Miatello”. Che da parte sua ribadisce: “Ho detto no e resta no. Ho i motivi tecnici di inagibilità del campo, anche se ci giocano altre otto squadre, e altre cose a cui pensare”. ra le altre cose a cui pensare, un gruppo di Rom che da alcuni anni sono la spina nel fianco di Miatello. Il giorno dell’intervista, il sindaco era di ritorno da un sopralluogo nella zona industriale, sulla provinciale 47, tra Padova e San Giorgio. Era stato chiamato da una famiglia infastidita dalla presenza di alcuni panni stesi su una rete da tre famiglie Rom. La rete separava la proprietà privata di un imprenditore da una strada comunale. Il sindaco ha fatto togliere i panni ma non ha potuto sgomberare gli ‘zingari’, come li chiama Miatello, senza timore che il suo linguaggio possa venire etichettato come politicamente scorretto. Lui e la task force di vigili che periodicamente si reca in visita al capannone, dove hanno piantato le tende gli ‘zingari’, tornano ogni volta a mani vuote. Perché, sindaco? “Perché purtroppo la proprietà è privata. Li ospita un imprenditore locale che si chiama Gianni Tonin. Fa il mobiliere, e la sua azienda ha disegnato il tavolo del Grande Fratello. Fanno anche pubblicità sulle reti Mediaset. È un imprenditore di successo, e non mi spiego come mai abbia scelto di mettere gli zingari nel capannone”. Il fatto è insolito, e suscita curiosità: un mobiliere veneto di successo che ospita dei Rom. Chiediamo indicazioni su come raggiungere la fabbrica, e per pura coincidenza sono due ragazzi romeni a indirizzarci verso la zona industriale. “Tonin? Certo che lo conosciamo. È uno che ha sempre fatto del bene per noi romeni, e anche per i Rom”. Arriviamo in uno dei più grandi capannoni della zona industriale e veniamo accolti nell’ufficio di Gianni Tonin. Sul muro alla sua destra una foto in bianco e nero di una casa diroccata. Tonin non smette un attimo di fumare. Alle domande dapprima esita, diffidente. Poi non smette neanche un attimo di parlare. “È inutile spostare il problema da destra a sinistra e da sinistra a destra. Il problema va risolto. La maggioranza dei cittadini qui è contro i Rom e contro gli extracomunitari. Perciò bisogna andare controcorrente. Credo che costi meno fare scuola a un rumeno, dargli una casa e mandarlo a lavorare che metterlo in galera perché è costretto a rubare per vivere. Lo sanno tutti”. Fuori, capannoni high-tech e suv aziendali. Ma è nell’accampamento con il falò ai piedi dei capannoni che c’è il cuore del suo regno. Tonin si siede nel camper a bere un caffè e ad ascoltare le storie dei suoi zingari accendendosi l’ennesima sigaretta. Accade in un Veneto dove in quasi tutti i comuni vige il divieto di stazionamento e ci sono sbarre nei parcheggi. Con un ghigno, ricorda quando ha pagato tutte le multe e ospitato nel piazzale le tre famiglie: “Alcuni di questi sono andati in carcere. Ho dato loro la residenza nel mio capannone perché stessero agli arresti domiciliari, in modo che tenessero i bambini, sennò gli levavano anche i bambini. Il Rom che commette il furto, le forze di polizia che fanno le indagini, i verbali, il giudice, il carcere: tutto questo, a spanne, costa più che istruirli e dar loro casa e lavoro. Quando sono arrivati gli zingari (anche Tonin li chiama così, ma affettuosamente) ho dato la residenza e ho cominciato a mandare a scuola i loro bambini. Dopo un po’ di tempo il sindaco mi telefona per una riunione straordinaria del consiglio comunale. Scuola bloccata. Perché? Perché gli zingari puzzano, e sono vestiti male. Li abbiamo dovuti vestire ‘alla moda’ e profumarli. Da allora non ne ha più parlato nessuno. È solo cattiveria, questa”. Ma quanti ce ne sono di imprenditori come lei nel padovano? “Non lo so. So che noi non dobbiamo andare dove vanno tutti, ma sempre in senso

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inverso. Vedrà che andiamo dalla parte giusta. Quando ho sentito, nei giorni di Natale del 1999, che sei romeni dormivano al freddo nel Brenta me li son presi e me li sono portati a casa. Li ho vestiti, lavati, sistemati e gli ho dato ospitalità nel capannone. Sono arrivati i carabinieri, hanno fatto denuncia e ho dovuto pagare quattro milioni di lire. Ho rischiato il carcere per aiutare una rumena che dicevano facesse la prostituta, e mi hanno denunciato per favoreggiamento della prostituzione. Ormai i carabinieri mi conoscono bene. Però tengo a precisare che ho aiutato anche parecchi maschi, eh, non solo donne. Spesso do un centinaio di euro, alla fine del mese, sennò non riescono a pagarsi il mutuo della casa. Agli zingari, o forse è meglio chiamarli nomadi, do una cinquantina di euro alla settimana a famiglia. Altrimenti come fanno. Altrimenti mi vanno a rubare, e allora tornano i carabinieri. Almeno se li mantengo io, per quello che posso, problemi non ce n’è”. L’imprenditore ha fatto la quinta elementare, poi ha iniziato a lavorare come contadino. Per cinque anni è stato autista di camion, dalla mattina alle sette alle due di notte, in tutta Europa: Cecoslovacchia, Polonia, Romania, Germania. Per dodici anni. “Mi sono rovesciato in Cecoslovacchia, sono andato fuori strada e ho distrutto tutto. Son rimasto con sette vertebre rotte, ustioni in tutto il corpo e trentacinque punti in testa. Sono rimasto ingessato per due anni. Poi un’azienda qui vicino mi ha chiesto di andare a vendere scarpiere, mobili, col camioncino comprato a cambiali. Da lì ho preso un capannoncino piccolo, un operaio, che ancora lavora qui da trentacinque anni, e pian piano mi sono ingrandito. Ora abbiamo anche un’area design. Abbiamo disegnato il tavolo del Grande Fratello. Il segreto? Non ho mai avuto nessun progetto. Se avessi avuto progetti, e se li avessi ora, non potrei dar soldi a destra e a manca. Li terrei per il futuro”. osa spinge Tonin a questo atteggiamento umanitario? “Perché ero povero anch’io. Noi siamo stati zingari, nomadi anche noi. La mia era una delle famiglie più povere di San Giorgio in Bosco. Ci davano un chilo di carne al sabato. Io fino a diciotto anni andavo a rubare per mangiare. Rubavamo la legna, le uova nelle case vicine. Me la ricordo la fame, e la violenza di coloro che avevano e non ti davano. I soldi spesso fanno dimenticare la provenienza. E molti non ricordano la condizione di povertà dalla quale provenivano. Noi abbiamo bisogno di queste persone, e la gente non se ne rende conto. Abbiamo assunto capireparto rumeni che fanno il loro lavoro meglio degli italiani. Si impegnano di più. La mia ditta ha poco più di cento dipendenti. Ho sempre avuto una ventina di immigrati, rumeni in prevalenza, ma anche neri, marocchini, albanesi. Io ho fatto politica insieme a Miatello, siamo amici. Ho frequentato il Comune per dieci anni a San Giorgio in Bosco, insieme a Miatello. Era di sinistra, comunista, poi è diventato socialista. La sua famiglia è democristiana, ma ha imparato tutto dal sindaco di Cittadella, uno sceriffo alla Gentilini. Se lo sento parlare mi vien da ridere. Una volta sono andato a una riunione della Lega, anzi, di tutto il centrodestra. Ho chiesto: cosa avete fatto voi per l’integrazione? Nessuno mi ha saputo rispondere. Me ne sono andato e ho cominciato a fare da solo. Oggi la parola ‘integrazione’ è sulla bocca di tutti, ma nessuno fa niente. Dovrebbero vergognarsi. Credo che il sindaco abbia sbagliato a non concedere il campo. Ma adesso è di moda fare i fanatici della Lega. È una moda. Passerà. Questi sindaci fanno un po’ di esibizionismo per farsi sentire. Lui voleva fare il sindaco da sempre. Ora ci è arrivato. Ordine e disciplina? La malattia non è fuori, la malattia è nel cuore dei leghisti, nella mente dei leghisti. E’ lì dentro che c’è il disordine. Hanno la guerra dentro. Io ho avuto centinaia di rumeni, e alcuni Rom, e non ho mai avuto problemi. A dire il vero qualche problemino l’ho avuto, ma con i carabinieri, la polizia. Mi hanno detto ‘stia attento, con tutti questi Rom, prima o poi succedono dei problemi. Prima o poi le danno fuoco al capannone, alla casa’. Io sono malvisto dai cittadini, perché ho fatto un capannone in vetro enorme, ma soprattutto perché ho offerto ospitalità ai Rom, che nessuno vuole. Ma io non guardo in faccia nessuno. Da un lato mi invidiano, dall’altro mi odiano, ma non è che mi interessi più di tanto. Io vado per la mia strada”.

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In alto: La Alleanza romena con il lutto al braccio per protestare contro la discriminazione. Foto di Marco Bergamaschi. In basso: Gianni Tonin Padova, Italia 2010. Luca Galassi ©PeaceReporter


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La storia Costa d’Avorio

Dimenticati Di Benedetta Guerriero

“I malati mentali in gran parte dell’Africa sono gli ultimi, i dimenticati da Dio e dagli uomini, spazzatura di cui nessuno si prende cura”. Così si esprime Gregoire Ahongbonon, fondatore dell’associazione San Camillo de Lellis di Bouakè in Costa d’Avorio. iccolo di statura, lo sguardo profondo, le mani grandi, Gregoire è schivo, non ama stare al centro dell’attenzione. E’ un uomo semplice, umile, che porta in sé i segni delle sofferenze di cui ha scelto di farsi carico. Nato in Benin nel 1953 da una famiglia di contadini, nel 1971 si è trasferito in Costa d’Avorio, dove ha iniziato a lavorare come gommista e poi come autista. All’epoca i disabili mentali non erano ancora entrati a far parte della sua vita e, come gran parte degli africani, anche Gregoire ammette di averne avuto paura. Ancora non poteva immaginare che nel giro di pochi anni la sua vita si sarebbe trasformata in maniera radicale, costringendolo ad archiviare il suo passato, per prendersi cura dei malati mentali e liberarli dalle pesanti catene con cui vengono legati agli alberi, ai pali o dove capita. L’impegno dell’ex gommista del Benin è stato riconosciuto anche fuori dall’Africa e nel 1998 Gregoire ha ricevuto il “Primo premio internazionale Franco Basaglia”.

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Come è avvenuto il tuo incontro con i disabili? E’ stato un percorso lungo. Quando mi sono trasferito in Costa d’Avorio ho avuto fortuna e nel giro di poco tempo sono diventato molto ricco. Mi sono fatto assorbire dagli affari e non pensavo ad altro. Col passare del tempo la situazione è cambiata e la fortuna mi ha voltato le spalle drasticamente. Che cosa è successo? Improvvisamente ho perso tutto e ho persino pensato di togliermi la vita. Non trovavo più un senso alla mia vita. Mi sono riavvicinato alla religione ed è stata la mia salvezza. Ho conosciuto un prete e l’ho seguito in un pellegrinaggio a Gerusalemme. Lì ho ritrovato la mia dimensione. Tornato a casa, insieme a mia moglie, ho fondato un gruppo di preghiera. Un giorno si è unita a noi una donna che ci ha chiesto di pregare per un bambino musulmano del suo quartiere, molto malato. Abbiamo contattato la madre del ragazzino e siamo andati a trovarla. Era molto felice. Vista la reazione della donna, abbiamo deciso di andare a fare visita ai malati in ospedale. Abbiamo scoperto una realtà infernale, difficile trovare le parole per raccontarla. Che cosa avete visto? Chi non ha i soldi in Africa non può curarsi e viene lasciato al suo destino. Negli ospedali ci sono i malati di serie A e quelli di serie B. Questi ultimi vengono abbandonati in una stanza senza cure. Abbiamo iniziato a lavarli e a pagare loro i medicinali. Molti sono guariti, altri sono morti, ma in maniera dignitosa. Dopo l’esperienza negli ospedali, ci siamo rivolti ad altri dimenticati: i carcerati. Le loro condizioni, se possibile, erano ancora peggiori. I detenuti 14

vivevano in una stanza enorme, priva di bagni e acqua potabile. Gli escrementi venivano raccolti con le mani e poi buttati. Con il direttore della prigione abbiamo insistito sul concetto di dignità dell’uomo e dopo un po’ di tempo nell’istituto di pena sono arrivati i bagni e anche un’infermeria. Quando l’incontro con i malati di mente? Nei primi anni Novanta. Ero per strada e ho visto un malato nudo che rovistava nell’immondizia. Mi sono fermato, perché avevo paura e l’ho osservato. Per la prima volta con occhi diversi. Ho capito che non c’era nulla da temere, l’ho seguito e ho scoperto il suo calvario. Nel frattempo il lavoro in ospedale iniziava a dare i suoi frutti e ci è stato affidato un vecchio locale. L’abbiamo sistemato e qui abbiamo iniziato a ricoverare i malati. Ci siamo trovati ad affrontare situazioni che vanno oltre la ragione. Non potrò mai dimenticare la storia di un ragazzo di 22 anni, incontrato nel 1994. Sfidando il volere dei genitori, la sorella del giovane si è rivolta a me per chiedere aiuto e mi ha portato a casa. Il padre si è arrabbiato molto, ma alla fine mi è stato concesso di vedere il malato. È una scena che non scorderò mai. Un ragazzo, sdraiato a terra, ricoperto di ferite, incatenato come se fosse in croce. Ho cercato di rompere le sue catene, ma non ci sono riuscito, erano entrate nella carne. Ho trascorso una notte infernale. Il giorno dopo con un fabbro ho sciolto le catene del giovane. Aveva molta voglia di vivere, ma le sue ferite erano troppo profonde ed è morto molto presto. Almeno, però, se n’è andato come un uomo, non come un animale. Qual è l’origine di questi trattamenti? In molti Paesi africani la disabilità mentale viene vissuta come una colpa. Il malato è un indemoniato, un pericolo per la comunità e deve essere isolato. Le famiglie, pur essendo molto religiose, sono profondamente ignoranti e sono vittime di credenze antiche. Inviano i propri malati in centri dove i disabili devono purificarsi, soffrire e per questi motivi sono sottoposti a vessazioni. Il corpo viene umiliato, offeso, picchiato, privato per lunghi periodi di acqua e cibo. Quali gli scenari futuri? L’importante è parlarne, così come si era fatto con i malati di Aids. Prima tutti li temevano, poi si è scoperto che si potevano curare e che non erano pericolosi. Ai disabili mentali va data fiducia. Non servono solo le medicine per guarirli. Amore e fiducia sono indispensabili. In tutti i nostri ospedali, presenti oltre che in Costa d’Avorio anche in Benin, sono gli ex malati ad assistere i nuovi e a portare avanti le attività di tessitura, allevamento, panetteria. Gregoire Ahongbonon. Foto di Antonio Cisari per PeaceReporter


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Qualcosa di personale Colombia

Resistenza di pace Di Emanuel Rozental Testo raccolto da Stella Spinelli

Sono indigeno di adozione ed esiliato nel pianeta per costrizione. Vago da anni verso chiunque sia pronto ad accogliermi. Ogni tanto riesco a tornare a casa, in quella martoriata Colombia, da mezzo secolo in guerra, contesa fra guerriglia, paramilitari, governanti corrotti e multinazionali affamate. n mezzo, i contadini delle sterminate terre fertili, i popoli nativi calpestati da ignoranza e razzismo, gli afrodiscendenti in cerca di dignità e riscatto. Io appartengo a tutti loro. Sono uno di loro. Nato in un quartiere popolare di Cali, sono riuscito a diventare chirurgo e a farmi rubare anima e cuore dai movimenti sociali tesi alla giustizia e alla conquista del rispetto in ogni sua forma. A cominciare dalla madre terra. È grazie all’incontro con gli indigeni Nasa, abitanti fin dalla notte dei tempi delle aree fertili del Nord del Cauca, a pochi chilometri dalla mia città natale, che ho capito il significato dell’armonia fra uomo e natura e del rifiuto totale di ogni forma di violenza. È stato per il bisogno vitale di proteggere la loro cultura ancestrale che questa gente ha intrecciato un rapporto costruttivo con la contemporaneità, senza nessuna forma di esclusione e in totale apertura. Il mio speciale rapporto con questo meraviglioso popolo è frutto di questa loro immane saggezza. E della loro grandezza. Sono fra i primi, i Nasa, ad aver risvegliato la coscienza del riscatto, della lotta pacifica, ma inesorabile, delle lunghe marce per pretendere rispetto, per denunciare soprusi, per gridare al mondo le ingiustizie del potere costituito. Sono fra i popoli più organizzati del paese e hanno contatti strettissimi con i nativi dell’intero continente. La loro sete di vita li ha portati a incontrare tante associazioni estere, che hanno sposato la loro causa, garantendo attenzione e rompendo la cappa d’indifferenza che da troppo tempo oscura la Colombia. Per questo sono scomodi i Nasa. Per questo sono scomodo io, loro figlio adottivo. Per questo vogliono vedermi morto. Ed eccomi qua, girovago nel resto del mondo, a rimboccarmi le maniche per restare vivo e diffondere la nostra causa. Parlare di me, della mia storia, del mio paese, dei soprusi, le violenze, le commistioni, la corruzione, ma anche della forza e delle speranze dei movimenti sociali contro un mondo tanto marcio e perverso, è la mia ragione di vita. E le forze occulte manovrate dal presidente della Repubblica, Alvaro Uribe, signore del paramilitarismo, mai si arrenderanno pur di averla vinta. Lo fanno con tutti quelli che difendono i diritti umani. Per perseguitarmi hanno usato le più disparate e fantasiose accuse. L’ultima risale al marzo 2009. Ero da poco tornato a casa dopo anni di esilio in Canada, quando la nota rivista Cambio pubblica un’inchiesta su Hollman Morris, il famoso giornalista perseguitato dalla polizia segreta agli ordini di Uribe. Fra gli articoli, un paragrafo che dettava la mia condanna a morte: io, Emanuel Rozental, ero presentato come un guerrigliero dell’Esercito di liberazione nazionale impegnato a tessere la lotta intestina

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contro le Farc per strappare loro il controllo del territorio Nasa. A incastrarmi cosa se non il famigerato computer di Raul Reyes, ministro degli Esteri delle Farc ucciso in Ecuador durante un blitz militare nel marzo 2008? Un hard disk dal quale, da allora, spuntano magicamente alleanze e strategie a uso e consumo della cricca di Uribe, senza controprove, né verifiche. omo dell’Eln dunque, scriveva Cambio, e nemico delle Farc, per di più. Una minaccia di morte a doppia detonazione nascosta in una colossale bufala. Da una parte, etichettandomi come guerrigliero dell’Eln, davano il via libera ai paramilitari per farmi fuori; dall’altra, spacciandomi per anti Farc, mi eleggevano a nemico giurato del gruppo guerrigliero più longevo al mondo. E se in un paese normale, quando un cittadino è accusato, si avvia un procedimento giudiziario, si portano delle prove e si arriva a un processo, in Colombia non funziona esattamente così. E il fatto che non ci fosse uno straccio di prova concreta a inchiodarmi non mi scagionava, anzi, mi condannava a morte certa. Quelle parole, stampate su un giornale della famiglia di Emanuel Santos, all’epoca ministro della Difesa, ora candidato alla presidenza della Repubblica quale erede di Uribe e della sua politica mafiosa, erano inequivocabili. Zaino in spalla, me ne andai. Ancora. Proprio come fui costretto a fare quando mi dipinsero agente della Cia, o quando mi presentarono come terrorista internazionale. Sempre la stessa maledetta sorte: fuggire. E questa volta con più fretta di sempre: mi avevano appena eletto alla direzione nazionale del Polo democratico alternativo, il principale partito d’opposizione. Ero stato scelto dai movimenti sociali per coordinare l’agenda di tutti i popoli nativi. E per la cricca era troppo: non potevano lasciarmelo fare. Azzittire il movimento indigeno è per loro strategico. Le nostre denunce contro i soprusi di militari e paramilitari, il nostro no alla guerra e a chi la combatte, il nostro puntare il dito sugli affari multimilionari che stanno dietro a ogni singola persona dei quattro milioni di sfollati interni, sono incubi per l’uribismo. L’essere disarmati ci rende micidiali. A noi la comunità internazionale presta ascolto e ogni volta che la notizia di una loro porcheria varca il confine è un grave smacco. Il nostro compromesso con la resistenza in pace, per la pace, è il loro peggior nemico. Per questo le loro minacce ci lacerano, sì, ma non fanno che darci la misura della bontà del nostro cammino.

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Emanuel Rozental. Colombia 2009. Simone Bruno per PeaceReporter


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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

Usa-Cina

Ecuador

Le buone nuove

Obama incolpa la Cina per la crisi

Nessuno tocchi il petrolio

alvo ripensamenti dell’ultim’ora, il 15 aprile il dipartimento del Tesoro Usa denuncerà la Cina per “manipolazione valutaria”. Cosa che, secondo le leggi statunitensi, comporterebbe l’automatica imposizione di sanzioni economiche nei confronti di Pechino, e che comunque farebbe peggiorare ulteriormente le già tese relazioni sino-americane. Washington accusa la Cina di mantenere artificialmente sottovalutata rispetto al dollaro la sua valuta, lo yuan, attuando di fatto una concorrenza commerciale sleale nei confronti degli Stati Uniti. Secondo i più influenti economisti americani, l’attuale cambio fissato da Pechino rende infatti iper-concorrenziali le merci cinesi esportate negli Stati Uniti, penalizzando invece gravemente la competitività del ‘made in Usa’ sul mercato cinese e quindi la ripresa dell’economia e dell’occupazione negli Stati Uniti. Accuse gravi, che stanno suscitando reazioni molto dure da parte cinese. “Lo yuan non è sottovalutato: ci opponiamo a questa pratica di puntare il dito contro altri paesi, forzandoli a rivalutare la propria valuta”, ha dichiarato il premier cinese Wen Jibao. “Il nostro paese non ha intenzione di subire ulteriori atti di prepotenza proprio dalla nazione che ha portato il mondo sull’orlo del disastro economico”, si legge in un editoriale del China Daily, organo del Partito comunista cinese. Tra l’intellighenzia cinese è sempre più diffusa la convinzione che l’amministrazione Obama, a scopo di consenso interno, stia cercando di fare della Cina il capro espiatorio per la mancata ripresa economica. “In questo momento la popolarità di Obama è in calo - afferma l’ex ambasciatore cinese a Washington, Zhou Wenzhong - e portare l’attenzione sui problemi del deficit commerciale è una mossa politicamente molto utile per lui”. “Gli Stati Uniti non dovrebbero accusare altri paesi per i loro problemi”, ha detto il vicegovernatore della banca centrale cinese, Su Ning. Il documento del Tesoro Usa rischia di scatenare una pericolosa guerra commerciale tra Washington e Pechino.

asuní, un’iniziativa per cambiare la storia. Un piano per evitare l’estrazione di 860 milioni di barili di petrolio in un’area protetta dell’Amazzonia, in cambio di una compensazione internazionale. Per non sfruttare questa risorsa, l’Ecuador ha chiesto una somma pari alla metà dei ricavi che otterrebbe estraendo il greggio, qualcosa come 3.500 milioni di dollari. La comunità internazionale è messa di fronte a un ultimatum. “L’Ecuador è un Paese in via di sviluppo, abbiamo bisogno di questi soldi per pagare l’istruzione, la sanità, le infrastrutture. O arrivano da una compensazione internazionale, o siamo costretti a estrarre il greggio dalla riserva protetta di Yasuní” le parole di Rafael Correa. Una mossa che eviterebbe la produzione di 410 milioni di tonnellate di diossido di carbonio. In cambio di questi soldi i Paesi finanziatori riceverebbero, a garanzia, un trust che permetterebbe loro di recuperare l’investimento, se cambiasse la situazione. Paesi come Spagna e Francia hanno mostrato interesse alla proposta ecuadoriana, ma solo la Germania ha messo sul piatto una cifra, impegnandosi con cinquanta milioni di dollari annuali per un periodo di tredici anni. L’Opec, l’organizzazione dei paesi produttori di petrolio, ha deciso di appoggiare il piano proposto da Quito. L’Ecuador, con 486 mila barili giornalieri, è il produttore più piccolo dell’Opec, che riunisce dodici paesi e copre il 40 percento del fabbisogno mondiale di petrolio. Yasuní è un parco naturale e una riserva della Biosfera, dal 1989 patrimonio dell’umanità per l’Unesco. Ha una superficie di 982mila ettari e il suo ecosistema è tra i più diversificati del pianeta. Ad esempio vi sono 93 specie di anura (rane e rospi), pari al totale delle specie presenti in tutto il nordamerica e il doppio di quelle che popolano l’Europa. Il governo di Quito ha comunque in corso trattative con varie compagnie statali di differenti paesi per sfruttare altri giacimenti presenti nel Paese.

Enrico Piovesana

Alessandro Ingaria

India: 35mila soldati ritirati dal Kashmir Negli ultimi 15 mesi, “circa 35mila soldati sono stati ritirati e le loro basi chiuse”. E’ quanto ha annunciato il primo ministro del Jammu e del Kasmir, Omar Abdullah, riferendosi alla diminuzione delle truppe sul territorio. Le dichiarazioni sono state presentate in un intervento al Parlamento locale, in cui Abdullah ha messo in evidenza di aver “diminuito anche il numero delle forze paramilitari dipendenti dal governo centrale”. ll premier ha poi riferito che “diversi bunker nella città di Singar sono stati rimossi e che non sarà permesso costruirne di nuovi”. La manovra effettuata dal governo risulta così andare incontro alla richiesta delle forze di opposizione e dei separatisti, i quali l’avevano posta come condizione necessaria per il dialogo. Il ritiro dei soldati era stato inoltre più volte sollecitato dagli Usa, i quali auspicavano che i militari impiegati alle frontiere indo-pakistane potessero essere dirottati verso le zone attualmente interessate in misura maggiore dalla crescente guerriglia contro i talebani.

Tanzania e Zambia non venderanno avorio Il meeting della Convention on International Trade in Endangered Species (Cites), di Doha in Qatar, ha certamente deluso gli ambientalisti dopo la bocciatura delle proposte di bando al commercio di specie marine in via di estinzione. Tuttavia, una delle questioni più controverse si è risolta positivamente per i movimenti ecologisti e per buona parte dei governi africani. Gli sconfitti sono la Tanzania e lo Zambia, che avevano proposto di riaprire in via eccezionale il commercio di avorio da zanne d’elefante, immettendo sul mercato tonnellate di zanne stoccate in depositi non meglio precisati. L’opposizione degli stati della African Elephant Coalition (Aec), Kenya in testa, è stata molto dura e si è fondata sul timore che una vendita del genere incrementasse il bracconaggio e il contrabbando. Gli Stati Uniti e alcune nazioni europee, come la Gran Bretagna, si erano schierate a favore delle proposte dello Zambia, ma è nettamente prevalsa la coalizione dei 23 governi africani contrari. 18

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Inserto Speciale

Intervista a Marwan Barghouti Testo di Francesca Borri. Fotografie di Luca Galassi

“E comunque - deve esserci un equivoco: guardi che non sono io, qui, il prigioniero. Io non vivo dietro un Muro. Io ho fiducia, nella vita: non paura - io sono libero�


Con i suoi messaggi, lei è rimasto anche dal carcere un protagonista della politica palestinese. Della sua vita però, dei suoi giorni qui non parla mai. Perché non è solo questione di Marwan Barghouti. Si discute dei prigionieri, ogni volta, e non si discute che di numeri: una media annuale di 11mila detenuti, e un totale di 750mila dall’inizio dell’occupazione e inclusi 40 deputati, in questo momento, e no, non posso accettare che si spiani via così: Marwan Barghouti e 11mila altri, indefiniti. Non sono cifre, queste, sono persone. Sono famiglie, storie ansie, speranze. Alcuni sono dentro da trent’anni: più della sua intera vita. E però non finiscono sui giornali, sulle bandiere i manifesti, si consumano, così, di silenzio e Mi è stato tolto tutto: solitudine. E poi perché non è ma non è possibile solo questione di specifiche violazioni di ogni nostro più togliermi il diritto minimo diritto. Esistono scaffali, e la dignità di smentirvi: ormai di studi, e rapporti denunce: biblioteche di non voglio distruggere indignazione: sapete tutti perfettamente come si viene Israele. Non voglio trattati, qui, torturati, quali distruggere nessuno. sono le nostre condizioni e Voglio solo vivere libero. quale che sia il carcere, e l’accusa e il nostro nome. Ma così il significato, l’obiettivo di queste migliaia di arresti svanisce diluito nei dettagli. Perché non è solo questione di Dichiarazioni Universali, no - del rispetto di singole norme e convenzioni: è il sistema giudiziario qui, in sé, a essere arma invece che strumento di giustizia. Il ragazzino che tira pietre rischia dieci anni, venti se il bersaglio è mobile - venti anni, per una pietra contro un carroarmato. Ma traslate nei media, le retate di arresti, le statistiche si trasfigurano: si convertono nell’immagine di una terra affollata di minacce alla sicurezza. Questo, semplicemente, è un sistema che definisce un uomo criminale per quello che è, e non quello che fa. Rischiamo il carcere anche se siamo in tre a un angolo di strada, a parlare di Palestina: perché per la legge israeliana, siamo un nucleo di resistenza. Tre amici che chiacchierano. Ma quello che arriva, in Occidente, sono tre terroristi. I suoi sostenitori tra l’altro puntualizzano che lei non è stato arrestato, ma rapito. Perché sono stato arrestato a Ramallah, in una delle rare aree di giurisdizione palestinese esclusiva. Ed ero un deputato: tutelato da immunità parlamentare. Ma l’illegalità di fondo è la mia stessa reclusione qui come un detenuto comune. Mi hanno processato secondo il diritto penale ordinario: come fossi un ladro, uno scassinatore. Vince il più forte, in guerra, non chi ha ragione: ma questa è la conclusione, quando il nemico si traveste da giudice. Sono un prigioniero di guerra: e invece Israele mi qualifica come un “combattente illegale”: categoria che non esiste nel diritto di Ginevra, comunque lo si interpreti - è un’invenzione americana del dopo Undici Settembre. Non sono un civile e non sono un combattente: non si capisce cosa sono: di fatto, uno senza più classificazione senza più certezza - senza più tutela. Raccontate di esportare democrazia e stato di diritto: non è che un dilagare di anarchia e stato di eccezione. Sono le parole, qui, la più potente delle armi. Quello rapito, nei media, è Gilad Shalit: un soldato catturato nel corso di una normale operazione militare. E invece ripetete automatici “il soldato rapito” - come fossimo banditi, briganti da Mille e una notte. Quanto orientalismo, ancora: quanto inconscio neocoloniale. Non siamo avventurieri. Siamo legittimi combattenti. Secondo gli Alan Dershowitz, Al Qaeda ha raccolto l’esempio di un terrorismo palestinese che non è stato divelto, ma al contrario - incentivato attraverso il riconoscimento di Arafat e dell’OLP come interlocutori di pace. Cosa è cambiato, qui, con l’Undici Settembre? L’Undici Settembre ha travolto la questione palestinese. Ma perché ha travolto il diritto internazionale. Ricorda, no?, all’università, anche lei - “il diritto internazionale è il punto di evanescenza del diritto: e il diritto di guerra è il punto di evanescenza del diritto internazionale”. L’Undici Settembre ha scardinato anche il poco che avevamo: ogni regola è ora ostaggio di questa nozione indefinita di terrorismo - questa minaccia davanti a cui tutto è lecito, fino all’annientamento. Perché non siamo più tutti uguali e sovrani, questa è la novità: qualcuno è un barbaro, invece,

neppure più un criminale - non merita l’Aja, un tribunale: solo Guantanamo: come allo zoo, solo una gabbia. Hamas erano anni che governava, e bene, a livello municipale: e nessuno aveva mai protestato. E invece, blindati nell’Undici Settembre, gli israeliani hanno potuto convincervi che era un’organizzazione terroristica - con cui dunque non negoziare. Ma non esiste alcun rapporto tra le due cose. Resistiamo a un’occupazione, qui: è nostro diritto e dovere. Negli ultimi vent’anni, nessuno ha compiuto attentati fuori della Palestina. Ha mai visto Hamas attaccare occidentali, così, solo perché occidentali? L’unico obiettivo, qui, è la fine dell’occupazione. Ma vi ostinate invece a non specifcare cosa intendete per terrorismo: e come distinguere tra terrorismo e resistenza, tra un crimine e un diritto. Perché questa vaghezza vi consente di delegittimare moralmente, e anche giuridicamente la nostra resistenza, e ogni altra rivendicazione che mina i vostri interessi - è il pilastro di questa stabilità egemonica a guida americana. Le detto un comunicato stampa. Un comunicato che? Un comunicato stampa. Dovessi un giorno essere ucciso, e Israele rassicurare il mondo con l’ultimo suo successo contro il terrorismo - apra le virgolette. Perché ho sofferto per anni in carcere, sono stato torturato e come tutti voi, ho un’unica vita a disposizione: e invece non ho potuto crescere i miei figli, dividere il mio tempo con la donna che amo, e solo topi e scarafaggi sono stati compagni e testimoni di mesi interminabili in scatole di un metro e mezzo per due, mesi in cui non avevo una finestra, solo un ventilatore e la luce sempre accesa, e a volte neppure quello, a volte solo l’aria attraverso lo spioncino della porta le infinite volte in cui il mio universo è stato largo quanto un cortile, e solo per meno di un’ora al pomeriggio, ammanettato mani e piedi, in isolamento senza una radio, una televisione un libro, e per toilette un foro nel pavimento. Eppure non ho mai odiato nessuno. E ancora adesso, dopo che hanno tentato di assassinarmi con un missile, e dimenticato qui con cinque ergastoli, e altri quarant’anni, dovessi per caso resuscitare, ancora adesso, uomo derubato dell’unica vita che aveva ancora adesso, dopo Piombo Fuso, ancora sono certo che avremo un giorno coesistenza tra due stati uguali, e indipendenti e sovrani. Ho sostenuto instancabile il processo di pace, quando davvero pensavo che Israele intendesse ritirarsi dal mio paese - nessuno può dire che Israele in me non



abbia trovato qualcuno con cui parlare. Io ho parlato, con Israele. Sempre. E ho creduto alle sue parole. Il mio unico problema è l’occupazione. Mi è stato tolto tutto: ma non è possibile togliermi il diritto e la dignità di smentirvi: non voglio distruggere Israele. Non voglio distruggere nessuno. Voglio solo vivere libero. Viene considerato l’erede di Arafat, il cui primo principio era l’unità del fronte palestinese. Critico nei confronti di Hamas, lei però è molto critico anche nei confronti di Fatah. La sua voce è spesso di dissenso e autonomia. Onestamente non mi sento un indipendente, uno che si è riservato il suo angolo di autonomia: ma semplicemente perché Fatah, da sempre, è largamente con me. Voglio dire: non sono mai stato solo al contrario. Certo, Arafat aveva ragione: l’unità interna è l’imprescindibile premessa di ogni possibile strategia. E questo, oggi, significa che abbiamo bisogno che Hamas entri nel sistema, e a pieno titolo: con piena legittimità cioè, e quindi piena responsabilità. Abbiamo bisogno che Hamas entri nell’OLP. Perché solo così possiamo avere, e come in ogni democrazia, una normale dialettica e

alternanza tra idee diverse: con un’opposizione interna al sistema: e che condivide e difende i suoi principi e valori di fondo perché ha contribuito a deciderli. I tempi sono cambiati, l’OLP non coincide più con Fatah. Ed è una cosa positiva: il movimento di liberazione, granitico, il fronte di resistenza è cresciuto in società, dinamica e plurale, una società pronta a governare il proprio stato. Ho sempre insistito perché Hamas partecipasse alle elezioni: e sono stato il primo a congratularmi per la sua vittoria: e quando sono cominciati i problemi, quando avete deciso di boicottare la democrazia con un embargo, ho sostenuto immediatamente la necessità di un esecutivo di unità nazionale. Ma non solo per il contesto internazionale ostile. La verità è che alcuni in Fatah non si sono arresi all’idea di perdere all’improvviso prestigio e potere: e hanno ostacolato in ogni modo Hamas, e ringraziato e benedetto la pressione occidentale, e le proteste, fino alle sanzioni. Oltre a questioni personali, poi, molti avevano, diciamo, altre agende: israeliane e americane. Ma si è verificata una cosa simile anche in Hamas. Perché mai condividere il potere?, si sono chiesti alcuni: in fondo abbiamo la maggioranza. E anche qui, hanno finito per imporsi agende esterne. La


movimento di cemento, al contrario: è al suo interno molto vario: e soprattutto, è un movimento singolare, nell’Islam contemporaneo, perché condizionato dal contesto dell’occupazione e di un paese tradizionalmente secolare e pluralista, con una forte componente cristiana. Tra l’altro, un dettaglio che l’Occidente non ha minimamente notato o voluto notare: nel Documento dei Prigionieri, si specifica che il nostro futuro stato avrà i confini del 1967: e questa è una evoluzione storica, per Hamas: perché è il riconoscimento di fatto di Israele e del suo diritto a esistere. La questione, sinceramente, non è più se noi riconosciamo Israele, ma se Israele riconosce noi. E Fatah, invece? Lei è stato il primo a contestare corruzione e autoritarismo. Mi descrivono, ogni volta, come uno di carisma. Ma non sono un fenomeno paranormale: la mia popolarità è questione politica, non sentimentale. Per cominciare, sono nato qui, vissuto qui: e semplicemente non ho mai, dico mai chiuso la porta del mio ufficio. Il mio ufficio, senza retorica, è sempre stato in ogni strada, ogni casa palestinese. E ogni corteo, ogni manifestazione: ero lì, come tutti gli altri: sotto gli stessi lacrimogeni, e gli stessi proiettili e le stesse umiliazioni. E una seconda ragione, più sostanziale, del consenso che mi sostiene è che non ho mai, ancora, mai accettato nomine così, a una qualsiasi carica, nomine senza elezioni. Inclusi i miei anni qui. Perché è importante precisarlo, a voi professori di democrazia: non mi sono autoproclamato portavoce dei prigionieri, non ho il ruolo che ho per via del carisma, o strane altre alchimie, no: solo la rigorosa aritmetica dei voti. Sono sempre stato eletto. Anche in carcere.

nostra resistenza è oggi dirottata da interessi stranieri. Ed è il maggiore dei pericoli: una leadership che non abita le conseguenze delle sue decisioni. Ma da laico, che opinione ha di Hamas? Non è questione di religione, sono musulmano, musulmano praticante. È questione di costituzione. Vincere le elezioni non autorizza a cambiare il sistema. E il sistema è laico: soprattutto, è democratico. Non ho passato la mia unica vita in carcere per liberare una Palestina qualsiasi. E questa è la ragione di alcuni degli articoli del Documento dei Prigionieri, come il monitoraggio dei diritti umani, la questione femminile, il ruolo della religione nello stato, cose così, insomma - che la religione rimanga privata scelta e indiscutibile di ognuno. Abbiamo incluso questi temi più generali proprio per chiarire che l’obiettivo è un accordo di tipo tecnico, nel senso: come formare un governo: ma questo non significa che il resto sia arbitraria competenza della maggioranza. In qualsiasi sistema politico esistono dei princìpi di fondo, dei valori e assetti costituzionali che non sono modificabili unilateralmente. Detto questo, però, lei sa bene che Hamas non è un

Tocca ammettere che è l’ultima cosa che avrei immaginato, arrivando qui. All’università mi hanno insegnato che l’Islam è incompatibile con la democrazia. E invece ho visto Hamas organizzare primarie. La democrazia non è solo elezioni e procedure. Non è un mezzo, è un fine: perché ogni uomo non possiede la verità se non che in modo frammentario; ed è dunque più probabile approssimarsi alle decisioni ottimali con decisioni collettive - con la discussione e il confronto. Mariam Saleh è stata molto chiara ed efficace, nella sua spiegazione: e con tutta l’eleganza di una rilettura del Corano attraverso John Locke. Se nelle vostre università si studiasse la cultura araba come nelle nostre si studia la cultura occidentale, molte cose sarebbero più semplici, di questi tempi. Ma la mia popolarità ha anche una terza ragione: sono sempre stato un uomo trasparente. Mai il minimo sospetto, mai il minimo fango. Mai stato lusingato e addomesticato da jacuzzi in soggiorno, auto veloci (e storie così), di quelle che ora incrocia ovunque a Ramallah. Sono stato a lungo il solo, in piena ubriacatura da Oslo, quando l’Autorità Palestinese era al vertice di prestigio e credibilità, a denunciare l’uso improprio del denaro pubblico: a dire che dovevamo trascinare in tribunale tutta questa gente, non solo revocarle l’incarico, questa leadership che - no, non è esatto chiamarla leadership: questa élite, che si è paracadutata qui a innescare una gramigna di clientelismo e corruzione. Ad agosto, all’ultimo congresso di Fatah, i dirigenti uscenti non hanno presentato mezza relazione sul lavoro svolto e il denaro speso. Ed era il primo congresso dopo vent’anni. No, non sono solo carisma. Sono trentacinque anni di umiltà politica e coerenza morale. Un ramo di ulivo in una mano, consigliava Arafat, un’arma nell’altra. Nel senso: insieme, resistenza e negoziati. Lei è stato tra i più ferventi



sostenitori di Oslo. Ma quando ha intuito il suo fallimento, o forse la sua vera natura, ha fondato le brigate Al Aqsa. Alcuni, qui, credono nella resistenza senza il minimo dialogo. Ma è un pensiero breve. La globalizzazione ci ha già reso tutti vicini, non solo confinanti. Altri, invece, credono solo nei negoziati. Qualsiasi compromesso, a qualsiasi costo - e abbiamo sperimentato il disastro che si ottiene. Discutere per dieci anni di Gerusalemme capitale mentre si confiscano case e accumulano insediamenti e sradicano abitanti - discutere di Gerusalemme Est mentre Gerusalemme Est scompare, ma che senso ha? È quello che Israele desidera: un’illusione ottica per la comunità internazionale: e intanto espandere e consolidare i suoi facts on the ground, per indurci disperati, uno a uno, inosservati a trasferirci altrove. E fino a quando allora l’occupazione sarà a regime, e in tutti i suoi aspetti, non solo quelli visibili e militari, fino a quando tutto questo non finirà, si avrà resistenza. Ma una resistenza che deve farsi sismografo dei negoziati: e intensificarsi e poi allentarsi, e ancora serrarsi, plasmarsi al loro andamento. Se Israele negozia continuando intanto l’occupazione, noi negozieremo continuando intanto la resistenza. Mi spiace: non è possibile avere pace e occupazione allo stesso tempo, si rassegnino: la coesistenza, qui, non sarà tra schiavi e padroni. La loro mancanza di sicurezza è la nostra mancanza di libertà: le due cose coincidono: questo non è un gioco a somma zero: qui si vince o si perde insieme. Possono chiedermi, è legittimo, sicurezza per Israele. Ma non possono chiedermi sicurezza per l’occupazione.

riconoscerlo: abbiamo sbagliato. Anche perché abbiamo completamente dimenticato la forza dei media israeliani, i veri F-16. E ogni volta finisce che siamo noi gli aggressori, e loro gli aggrediti. Non violano il nostro diritto alla vita: esercitano il loro diritto alla difesa.

Si parla molto di una terza Intifada. Perché esistono ancora, e immutate, tutte le condizioni miccia della seconda Intifada: l’allargamento degli insediamenti, l’ebraicizzazione di Gerusalemme, e soprattutto nessuno con cui parlare, di là da quel Muro. So che ogni volta che diciamo resistenza, qui e voi sentite terrorismo. Ma la mia resistenza è mille cose. Quello che accade ogni venerdì a Bil’in, per cominciare, e a Nil’in adesso e sempre più ovunque: e il boicottaggio dei prodotti dei coloni e le sanzioni internazionali, infinite idee e possibilità, l’attuazione del parere della Corte di Giustizia sull’illegalità del Muro e l’obbligo di abbatterlo, e il Rapporto Goldstone, e l’esercizio della giurisdizione universale come a Londra con Tzipi Livni: tutto è resistenza. E in questo momento, per esempio tornare a votare: senza rinvii: e poi costituire un governo di unità nazionale. Perché Intifada è anche, in concreto, costruire questo famoso stato libero e sovrano: e cioè consolidare la democrazia: mediante la tutela del pluralismo e delle libertà civili e la riforma delle istituzioni, a partire da sistema giudiziario e forze di polizia. La resistenza armata è un diritto. Ma appunto: “armata”; un aggettivo integra il sostantivo - che ha un significato molto più ampio e vario. Penso a una Intifada pacifica, con il sostegno arabo e internazionale. Ma non ho timore di dirlo: se sarà necessario, se saremo costretti, ci difenderemo con le armi. Non aspetteremo i caschi blu, come a Srebrenica.

ogni volta, come uno di carisma. Ma non sono un fenomeno paranormale: la mia popolarità è questione politica, non sentimentale.

Eppure lei è stato il leader della Seconda Intifada. Quella che ha sostituito le fionde con l’esplosivo. Premesso che ripeto da sempre che la resistenza deve rimanere nei confini del 1967, ma anche del diritto internazionale e quindi non toccare i civili, gli attacchi suicidi, è evidente, sono stati un errore. E tuttavia, vorrei l’Occidente cercasse a volte di comprendere il contesto di certe scelte. Credevate fosse in corso un processo di pace, da queste parti, e quella storia di Camp David, la proposta che Arafat avrebbe ignorato inspiegabilmente, perché in realtà aveva pianificato l’Intifada da tempo, la volta che ci avrebbero offerto Gerusalemme capitale. Lei che vive qui, spieghi, per cortesia, scriva cosa è Abu Dis. Scriva, diamine, che è la discarica di Gerusalemme. Oslo si era rivelata una trappola, l’economia era in crisi, e mentre nei nostri figli comparivano, inequivoci, i segni della malnutrizione, a cento metri i figli dei coloni nuotavano in piscine di acqua sottratta ai nostri pozzi e campi. Un solo ricordo: i primi giorni, un corteo. A Khan Yunis. Ora: Israele è un paese tecnologicamente all’avanguardia e il suo esercito è tra i più addestrati al mondo. Ma di tutti i suoi possibili mezzi, quel giorno, per disperdere una folla pacifica, idranti, lacrimogeni, i manganelli, i proiettili di gomma sa cosa ha scelto? Gli F-16. Israele ha scelto gli F-16. Lei è stata sotto gli F-16, può capire, può contestualizzare. Missili. Missili contro megafoni. E allora è inutile mentire: perché era come dire “al diavolo, che capiscano finalmente cosa significa”. Avessimo avuto gli F-16, avremmo usato gli F-16. Ma non avevamo che i nostri corpi. Tutto qui. Era importante sentire che era possibile un minimo bilanciamento, un equilibrio nel dolore, per compensare lo smisurato squilibrio di potere. No, non ho difficoltà a

Viene spesso paragonato a Nelson Mandela: entrato in carcere da icona della lotta armata, si è poi convertito alla non violenza. Pensa sia possibile anche un altro paragone con il Sudafrica, oggi quello con l’apartheid? Certo. E in senso tecnico, giuridico e non solo retorico, così, a iperbole. Non è propaganda. Il Rapporto Tilley è rigoroso e inequivoco. Ma come altro definirlo, un paese in cui non esiste la cittadinanza, ma solo la nazionalità, un paese in cui mi è vietato guidare in una certa strada o entrare in una certa città, e comprare una casa e solo perché non sono ebreo e, a parità di reato, un paese in cui per me la pena è maggiore? Un paese in cui la legge non è uguale per tutti, ma, come fossimo tartarughe, segue le persone e la loro carta di identità? Tra l’altro, l’opzione bistatuale è diventata impraticabile, ormai. Con questi insediamenti, e soprattutto la loro dispersione sul territorio, e le relative infrastrutture, una Palestina indipendente non può avere che il destino di Gaza. Per cui la nostra opzione, al momento - ma è più esatto dire la sola opzione al momento -, è lo stato unico. Sarà la geografia, qui, dopo tante parole, a decidere lo status finale. Mi descrivono, Ma lo stato unico significa la fine di Israele come stato ebraico. Ogni popolo è libero di disegnarsi lo stato che crede. Allo stesso tempo però, siamo tutti esseri umani e tutti parte di una unica comunità internazionale, con dei valori universalmente riconosciuti che ogni stato, nel definirsi e formulare le sue scelte, strutturare le sue istituzioni e politiche, è tenuto a rispettare - e d’altra parte: Israele sa benissimo di cosa parlo: è la lezione di Norimberga. E tra questi valori universalmente riconosciuti, oggi, è indubbio, e tradotti in princìpi e norme universalmente vincolanti, rientra il divieto di discriminazione. Già adesso uno stato ebraico concepito così, in termini brutalmente quantitativi, è costretto alla violazione sistematica dei più basilari diritti di milioni, dico milioni di persone: e tutto questo non può che amplificarsi con il ritorno dei rifugiati. E però, voglio sottolinearlo: “concepito così”. Perché l’ebraismo è estrema varietà e ricchezza, in realtà: e Israele non è “lo stato ebraico”, nel senso del solo possibile, ma più esattamente, è uno stato ebraico ortodosso, articolo indeterminativo. Con lo stato ebraico immaginato da Martin Buber, per limitarmi al più noto, o Hannah Arendt, non saremmo mai arrivati qui. Il pericolo non è la fine di Israele come stato ebraico, ma la fine di Israele come democrazia. E non è questione di rifugiati o stati unici: è questione anche solo della minoranza araba all’interno di Israele, e di tendenze demografiche inequivoche. Lei dunque sostiene il diritto al ritorno. No, non io: il diritto internazionale. La Risoluzione 194 delle Nazioni Unite. E poi mi scusi, non sarò molto diplomatico, ma qui il problema non è nostro, dei rifugiati: il problema è di Israele, Israele e il suo 1948. Nessuno, qui, ha deciso di andarsene di sua volontà: ed è di Israele, dunque, la responsabilità di una soluzione. Anche se poi, fermo questo, senta, siamo realistici. Ed è la terza generazione, ormai. Ma quanti vorranno davvero tornare, un giorno, e soprattutto tornare in uno stato chiamato Israele? La larga maggioranza, secondo me, preferirà il risarcimento, e se otterrà piena cittadinanza, l’opportunità di ricominciare la propria vita altrove, in Palestina o nei paesi di asilo. Questo non significa, sia chiaro, che il legame tra i rifugiati e la propria terra sia sbiadito nel tempo affatto, ma pensi al rapporto tra la diaspora e Israele: la maggioranza degli ebrei non intende trasferirsi qui, anche se gli incentivi sono di ogni tipo. La cosa decisiva, per noi, è il riconoscimento del diritto al ritorno e cioè il riconoscimento della responsabilità per il 1948. E invece Israele teme le conseguenze legali, certo, gli obblighi derivanti da questa ammissione, il ritorno e il risarcimento. Ma soprattutto teme di scoprirsi diverso da come si è raccontato e fondato. Perché non solo questa


non era affatto una terra senza un popolo: ma gli Herzl lo hanno sempre carcere anche per lei. Ricorda Brecht? E quando arrivarono a prenderli non saputo abbiamo finalmente gli archivi aperti, oggi, e gli Ilan Pappé, abbiamo dissi niente, scriveva, non protestai, perché non ero uno zingaro, e poi perché i giusti. Non è semplice adesso, è comprensibile, da popolo eletto di pionieri non ero un omosessuale, e poi perché non ero un comunista. Fino a quando ribaltarsi in colonizzatori come tanti altri. Eppure - eppure mi lasci non arrivarono a prendermi: e non era rimasto nessuno a difendermi. aggiungere una cosa difficile. Perché l’idea di uno stato di Israele è anteriore all’Olocausto. Esistono studi solidi, ormai, sulla connessione tra Ma se un giorno dovesse aversi questo scambio con Gilad Shalit non nazionalismo e sionismo, oltre che antisemitismo e sionismo - e soprattutto, sarebbe una vittoria di Hamas? Dopo anni di Fatah, e negoziati e comtra modernità e Olocausto, oltre che antisemitismo e Olocausto. A fronte di promessi, la prova che invece, con Israele funziona solo la forza. Solo chi intende negare o minimizzare l’Olocausto, io rivendico esattamente il Hezbollah. contrario: il diritto di restituirgli la sua universalità. La Shoah non è stata una Sono semplificazioni di giornalisti che non conoscono la storia, oltre che un eccezionalità, purtroppo, una anomalia legata alla storia ebraica: è stata un maldestro tentativo di dividerci. Questa, è vero, è la prima volta che Hamas prodotto della modernità occidentale. E il riconoscimento dell’universalità tratta con Israele uno scambio di prigionieri: ma si sono avuti altri accordi dell’Olocausto, allora, è la premessa del simili, per esempio con il Fronte Popolare e nessuno riconoscimento più autentico di Israele: come stato, ha parlato, all’epoca, di fallimento di Fatah. E Con questi insediamenti, ma anche metafora della vita di ognuno di noi: dei comunque, se proprio vuole schematizzarla in traumi, delle ferite che ci segnano per sempre. E di e soprattutto la loro termini di vincitori e vinti, più che una sconfitta di come eppure, nonostante tutto, tentiamo di Fatah, sarebbe una sconfitta sua, non mia. Dovrei recuperare la fiducia negli altri. Perché nessuno sia dispersione sul territorio, essere liberato non perché Israele chiede Gilad più vittime delle vittime. ma perché lei chiede il rispetto del diritto e le relative infrastrutture, Shalit, internazionale. Citava prima il sostegno internazionale. Ma qui una Palestina indipendente gli americani agiscono da sempre come un Un’ultima cosa. Scusi la schiettezza - ma molti dicono non può avere che dishonest broker, gli europei si limitano ad aiuti che lei è un eroe solo perché è in carcere. Che così è umanitari e solidarietà e quanto al diritto, altri il destino di Gaza. facile: fuori dalla confusione, dal pragmatismo che la hanno tribunali, i palestinesi solo pareri consulrealtà, lì fuori, pretende e impone. tivi e commissioni di inchiesta. Non fossi stato nessuno, non mi avrebbero arrestato. E prima ancora non Ma l’imperativo è usare al meglio ogni minimo strumento, ogni minima sarei valso il costo di un missile. E comunque deve esserci un equivoco: opportunità: perché a fronte di un nucleare, non abbiamo che pietre, pietre e guardi che non sono io, qui, il prigioniero. Io non vivo dietro un Muro. Non ho ragione. Certo, fino a oggi il ruolo della cosiddetta comunità internazionale è mai definito la mia identità in negativo. Un israeliano, dopo sessant’anni, stato quello che è stato e ci mancava solo Blair, ora. E anche il Rapporto ancora non è che un non-arabo. E la mia Palestina invece, è smisurata Goldstone: tenteremo il possibile, ovvio: ma siamo ormai svezzati alle ricchezza: ricchezza di persone, di relazioni: non di contrapposizioni. Io ho illusioni. La verità è che la pressione decisiva, qui, sarà la vostra, non la fiducia, nella vita, non paura. Io sono libero. E lei, lei che il suo Muro, nostra. Il giorno in cui capirete che questa non è solo una battaglia per la invisibile, attraversa le sue città, e i suoi quartieri, casa a casa, e separa gli terra: è una battaglia per la giustizia. Per il nostro diritto inclusi dagli esclusi lei che vive in un Occidente che dopo secoli, ancora ha all’autodeterminazione e per un mondo in cui non sia più normale violare bisogno del cemento dei barbari, lei che la sua vita non è curiosità, e impuniti le più basilari regole di convivenza. Sono sessant’anni: e non è quello meraviglia per il mondo, per l’Altro, ma solo imposizione e dominio, lei è che Israele fa, a sorprendermi. È quello che gli consentite di fare. Io sono in sicura di essere libera?


Mondo

Kenya

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Notizie che di solito non fanno notizia

La “Rivoluzione verde”

Le mani sull’Artico

Le buone nuove

viluppare scienza africana realizzata dagli africani in Africa”. Il laboratorio per la Scienza della Vita dell’Africa Centrale e Orientale di Nairobi (Biosciences eastern and central Africa – BecA) ha come obiettivo trovare soluzioni proprie per l’agricoltura e l’allevamento. Un centro “a porte aperte” dove i ricercatori di tutta l’Africa possono accedere a tecnologie all’avanguardia. Il direttore del BecA è la dottoressa Segenet Kelemu, una etiope che, dopo aver insegnato negli Stati Uniti, ha fatto ritorno in Africa. Il suo pensiero è “Portare qui gli scienziati a fare ricerca sul terreno e metterli sotto lo stesso tetto”. L’Africa è sempre stata carente di un laboratorio dove studiosi africani e internazionali possano lavorare insieme. Ora i ricercatori del BecA si recano nelle campagne e parlano direttamente con gli agricoltori e gli allevatori, ascoltando i loro problemi e le loro necessità. Nella visione di Kelemu “l’unico requisito per uno scienziato che lavori con noi è che esegua ricerca sui problemi che affliggono la salute e il benessere degli africani”. A oggi i principali programmi del BecA sono focalizzati sullo studio di coltivazioni più resistenti alla siccità, sulla lotta ai parassiti delle piante e sulla risoluzione delle malattie del bestiame. Secondo Kelemu una delle cause del ritardo dell’agricoltura sub sahariana è la presenza di piccoli appezzamenti che non adottano nuove tecnologie e mantengono una forma di coltivazione tradizionale, non in grado di produrre sufficiente cibo per alimentare una popolazione in continua crescita. Tutti devono lavorare insieme, gli scienziati, gli agricoltori, gli investitori, le amministrazioni al fine di ottenere “milioni di piccole rivoluzioni verdi” che potranno risolvere i problemi del continente. Il BecA è nato da un’idea di Carlos Seré, un uruguaiano stabilitosi in Kenya, direttore dell’Istituto Internazionale di Ricerca e ha beneficiato dei finanziamenti di una fondazione svizzera e del governo canadese.

L

a Società geografica russa sta preparando per il 22 e 23 aprile a Mosca la conferenza “Artico, territorio di dialogo”. È il primo grande progetto internazionale lanciato sotto l’egida della Società geografica della Russia. Si baserà sulla prospezione geologica, compresa quella sulla piattaforma continentale dell’Artico, la protezione dell’ambiente e lo sviluppo dei trasporti nella regione. Alla conferenza parteciperanno rappresentanti di centri di ricerca scientifica e di istituti di analisi politica, come la Fondation Prince Albert II de Monaco e l’Istituto Aspen, esperti dei Paesi del Consiglio Artico (Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Russia, Svezia, Usa), del Comitato internazionale delle scienze (Iasc), delegati delle associazioni dei popoli autoctoni dell’Artico, ambientalisti, ministri, politici e rappresentanti delle imprese che operano nell’Artico o vorrebbero farlo. Nonostante abbia invitato a dialogare Paesi i cui interessi gravitano su un territorio ricco di petrolio e gas naturale, Mosca continuerà a rivendicare ampie aree dell’Artico, anche a costo di proteggerle o ‘annetterle’ militarmente. Il presidente Medvedev ha recentemente incaricato il governo della creazione di sistemi spaziali per il monitoraggio idro-meteorologico. La Russia utilizza ora i dati da satelliti meteorologici stranieri, considerati da Mosca poco adatti. “Purtroppo abbiamo visto tentativi per limitare la Russia nell’accesso all’esplorazione e allo sviluppo delle risorse minerarie dell’Artico”, ha detto Medvedev. “E’ assolutamente inammissibile dal punto di vista giuridico e sleale data la posizione geografica della nostra nazione e la nostra storia”. Mosca ribadisce che non intende perdere posizioni, anzi vuole guadagnarne nei confronti dei Paesi che hanno cercato di far valere la loro competenza su alcune parti della regione. Il progetto sosterrà le reti di telecomunicazione russe e verificherà la situazione ambientale nella regione e le caratteristiche geologiche. Nel 2008, il costo della sua realizzazione è stato stimato intorno al miliardo di dollari. Il primo satellite potrebbe essere lanciato nel 2014.

Corte Penale Internazionale: 111 Paesi aderenti

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Alessandro Ingaria

Il Bangladesh ha ratificato lo Statuto di Roma, il trattato fondativo della Corte Penale Internazionale (Cpi). Un comunicato della Cpi ha indicato che lo Statuto entrerà in vigore in Bangladesh a partire dal primo giugno. Il presidente della Corte, il sudcoreano Sang-Hyun Song, ha sottolineato che il Bangladesh diventa così il primo stato dell’Asia meridionale ad aderire al trattato. Con la firma del governo di Dhaka, diventano 111 gli stati che hanno riconosciuto la giurisidizione della Corte. La Cpi, entrata in funzione nel 2002 all’Aja, è il primo tribunale internazionale permanente incaricato di giudicare gli autori di crimini contro l’umanità, crimini di guerra e genocidio. Tra i paesi non aderenti, gli Usa, la Russia, la Cina.

Senegal: schiavitù e tratta reati contro l’umanità Continuano gli sforzi del Senegal per chiudere i conti con il passato coloniale. Il presidente Abdoulaye Wade e le autorità senegalesi, in occasione dell’anniversario dei 50 anni di indipendenza, stanno mettendo a punto tutta una serie di iniziative per archiviare definitivamente il colonialismo e voltare pagina. L’ultima proposta riguarda un progetto di legge che è stato adottato all’unanimità dai parlamentari del Paese, riuniti in seduta plenaria. La schiavitù e la tratta delle persone di colore sono finalmente considerati come crimini contro l’umanità. E’ la prima volta, afferma la stampa locale, che un Paese africano, ex colonia francese, prende una simile disposizione legislativa.

India: la convivenza è legale Il massimo tribunale indiano ha stabilito che anche le coppie non sposate possono vivere insieme. Sulla religione si sono fondate le motivazioni della sentenza. Quasi certamente gli integralisti non saranno d’accordo e grideranno alla blasfemia, ma i giudici hanno ricordato che anche gli dèi indù, come Krishna e Radha, convivevano e non erano sposati: “Quando due persone adulte vogliono vivere insieme, dov’è l’offesa? Vivere insieme non è un’offesa. Vivere insieme è un diritto alla vita”

Luca Galassi 19


Scrittori

Il peso del tempo Di Benedetta Guerriero

Le carovane di profughi, i volti e gli occhi segnati di coloro che erano riusciti a scappare, le navi cariche di disperati che sbarcavano sulle nostre coste, sono alcune delle immagini e dei ricordi più comuni che ci riportano ai primissimi anni Novanta, quando esplodeva il conflitto balcanico. a ferita dei Balcani è profonda e continua a spurgare. L’odio e la violenza non si dimenticano in fretta, segnano in maniera indelebile. Così come mostra L’amore e gli stracci del tempo, l’ultimo libro di Anilda Ibrahimi, scrittrice di origine albanese, nata a Valona. Dal 1994 la Ibrahimi ha lasciato l’Albania per trasferirsi dapprima in Svizzera e poi, nel 1997, in Italia, dove si è imposta nel panorama letterario del nostro Paese, grazie ai suoi libri e al suo stile evocativo.

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Da dove nasce l’idea di scrivere un romanzo come L’amore e gli stracci del tempo? Volevo raccontare l’ultima guerra dei Balcani. È un conflitto recente, violentissimo, che, però, è stato rimosso molto in fretta dalla memoria collettiva. Dal 1997 al 2003 ho lavorato al Consiglio italiano per i rifugiati e ho assistito in prima persona a quell’esodo senza sosta di disperati. Ho ascoltato tante storie e visto molta sofferenza. Il fine della letteratura non è narrare di esperienze personali, ma in questo caso la fusione tra personale e intento letterario si è creata automaticamente. Ho letto molti romanzi sulla guerra dei Balcani, magari scritti da stranieri, e spesso li ho trovati estremamente retorici. Io sono nata in quella terra e volevo raccontare il conflitto senza ipocrisia. La guerra non si sceglie, si subisce e basta. Se non è descrivere la propria vita, qual è il fine della letteratura? Evadere dalla realtà, ricercare altri mezzi di comunicazione, strade diverse. Svolgo anche una ricerca maniacale sulla lingua. Se non sento la musicalità in ogni frase che scrivo, mi fermo. Il peso del conflitto sembra ricadere soprattutto sui personaggi femminili, in particolare su Ajkuna e Ines. È un’impressione sbagliata? No, è proprio così. Gli uomini sono chiamati a combattere, ma è sulle donne che ricadono gli oneri maggiori. A loro il compito di crescere e proteggere i figli tra le bombe, tramandare la storia della famiglia e garantirne la sopravvivenza. Per questo motivo ho scelto di dedicare alle figure femminili tanto spazio, ma ci sono anche dei personaggi maschili altrettanto belli. Miloš, il padre saggio, e suo figlio Zlatan che non viene mai meno alle promesse e che si trova a vivere la paternità in maniera così travagliata. Capisce l’importanza di essere stato scelto come padre e non si sottrae alla sua responsabilità. Zlatan riesce a rifarsi una vita, la vera vittima della guerra sembra solo Ajkuna... Ajkuna è il paradigma dello sradicamento totale. È lei la vittima del passaggio 20

nella nuova era. Tutti gli altri personaggi, nonostante la guerra, conservano le proprie caratteristiche. Ajkuna, invece, perde tutto: il padre e l’amore della sua vita, che aspetta per più di dieci anni. Muore per rinascere in un’altra forma. Che aria si respira ora nei Balcani? Ci sono dei segnali positivi. Quasi tutti i Paesi della ex-Jugoslavia hanno chiesto di entrare nell’Unione europea, quindi in una dimensione collettiva e globale, che esclude per definizione concetti come l’etnia, la religione. In qualche modo si è accantonato il mito della nazione, all’origine di tanti drammi e conflitti. Molto diversa è la situazione in quei luoghi dove la guerra si è fatta sentire con maggiore intensità. Come nel Kosovo. In che senso è diversa? Le ferite della guerra sono ancora aperte e si vive della pioggia degli aiuti internazionali. Il Kosovo resta un’area debole, vittima dell’assistenzialismo. L’odio è ancora intenso, vivo. La maggior parte dei serbi è fuggita o vive nelle enclave. A Pristina ne saranno rimasti non più di 300. La storia non insegna nulla. Ora gli albanesi stanno facendo ai serbi quello che è stato fatto loro. I kosovari sono stati vittime di un odio che si è protratto per secoli, ma questo non giustifica la loro reazione. Non esistono popoli buoni e popoli cattivi. Nel mio ultimo libro ho cercato di raccontare i serbi con lo stesso amore con cui ho descritto la mia gente. Con tutto questo odio, come si può cancellare il passato? Il tempo è l’unico mezzo che abbiamo a disposizione. E sempre il tempo è il personaggio principale del mio romanzo. C’è una frase di Ezra Pound, forse il mio poeta preferito, che dice: “Il tempo ha visto e non torna indietro”. Non ha pietà, ci cambia, uccide le promesse. Molti mi hanno chiesto perché non c’è lieto fine, perché la storia d’amore tra Zlatan e Ajkuna si interrompe. La risposta è semplice: sono stati divisi dalla guerra e soprattutto dal tempo che non li ha risparmiati e li ha trasformati. Quando si rivedono sono irrimediabilmente cambiati e lontani. Oltre al tempo serve altro nei Balcani per dimenticare il passato? E’ necessario rieducare le masse, i popoli seguono i loro leader. Spesso ci si dimentica del peso e del ruolo dell’individuo nella storia. Miloševic, col suo nazionalismo cieco e il suo odio, ha distrutto la Jugoslavia e fatto leva sui sentimenti più bassi della gente. Basta guardare l’Italia in questo momento per capire quanto un leader populista possa influenzare negativamente le persone. Mi auguro che i politici kosovari abbiano la forza di trainare il Kosovo verso la pace. Anilda Ibrahimi. Gerald Bruneau per PeaceReporter


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La storia Malta

Eravamo in detenzione, ora siamo in trappola Di Marco Benedettelli e Gilberto Mastromatteo Viaggio nel detention centre di Ta’ Kandja a Malta, tra gli ultimi detenuti dell’arcipelago e nei “centri aperti” dove è sorta una nuova emergenza. Quattromila rifugiati costretti a vivere da anni sotto una tenda o in un hangar, senza lavoro, senza poter raggiungere il continente europeo, senza poter tornare indietro. archiamo i cancelli di Ta’ Kandja alle dieci in punto. Il centro di detenzione si sviluppa lungo una fila di palazzine basse, a un solo piano, tirate su a tufi, com’è d’uso qui a Malta. Al suo interno vivono recluse quarantotto persone, tredici uomini e giovani donne il resto. I ragazzi ci aspettano già nell’androne del loro blocco. Somali ed eritrei soprattutto, ma anche ivoriani, nigeriani e liberiani. Sono tra gli ultimi arrivati nell’arcipelago-Stato, lo scorso 6 ottobre. Sbarcarono in centosei, ottantasei uomini e venti donne, a bordo di un barcone che, oltre al naufragio in mare, è riuscito a sfuggire anche all’accordo italo-libico sui respingimenti. Sono “fortunati”, ma non lo sanno. È probabile che saranno gli ultimi inquilini di quelle celle, prima di tornare in libertà. Per loro, tuttavia, la parola “libertà” significherà dormire sotto una tenda o all’interno di un hangar di lamiera, a tempo indeterminato e senza lavoro. Assieme ad altri quattromila che, prima di loro, hanno raggiunto l’isola-prigione al centro del Mediterraneo. Il poliziotto che ci accompagna, Mike, decanta l’integrazione e la pulizia all’interno del campo. In effetti le stanze sono tirate a lucido, c’è la televisione, ma l’impressione è che ci sia qualcosa di artefatto. Generi alimentari, latte e pane sono ovunque, accanto ai letti a castello, come a voler mostrare abbondanza. Persino i poster appesi alle pareti, assieme alle immagini di devozione cattolica e ai festoni per il nuovo anno, seguono una linearità che ha molto di militare e molto poco di africano. Ta’ Kandja è il detention centre gioiello di Malta, quello che più spesso viene fatto visitare ai giornalisti, da quando, a metà del 2008, sono stati autorizzati dal governo della Valletta. Nei restanti due campi, quello di Lyster Barracks e quello di Safi Barracks, gestiti dall’esercito, la situazione è sensibilmente diversa. Tanto che, in entrambi, sono scoppiate rivolte, all’inizio dello scorso anno. A Malta ogni immigrato senza permesso di soggiorno compie un illecito amministrativo, pertanto viene trattenuto in detenzione. Il limite massimo è di diciotto mesi, dopodiché si viene rilasciati, con o senza documenti. Ma c’è chi vi resta anche più del consentito. Fino allo scorso anno quella maltese era considerata un’anomalia in Europa. Oggi è la regola, dopo la cosiddetta “direttiva della vergogna”, varata dalla Commissione europea all’inizio del 2009. In ogni caso il problema sembra ormai alle spalle. Dopo la drastica riduzione degli sbarchi, gli internati nei tre campi sono oggi circa trecento. Erano oltre duemila lo scorso anno. Il cordone voluto e finanziato dall’Italia, gestito dalle motovedette del colonnello Gheddafi, ha portato i frutti sperati da Palazzo Chigi. Proprio a marzo, peraltro, il leader libico è giunto in visita a La Valletta, con l’intenzione di stipulare anche con il governo maltese un accordo simile a quello stretto con Berlusconi. Uno dei detenuti è stato in Libia, a Garabulli, in una delle prigioni di Gheddafi.

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È un eritreo, sui trent’anni. Racconta di torture patite ogni notte, anche con l’ausilio di cavi elettrici. Conferma che molte donne hanno subito violenza sessuale da parte dei militari libici. Quando gli chiediamo se sa qualcosa dei respingimenti, dell’accordo tra Italia, Libia e Malta, scuote il capo. Non sa che, nell’arcipelago, gli sbarchi si sono fermati. I primi due mesi del 2010 segnano zero arrivi, a fronte dei circa 1.500 del 2009 e dei 2275 del 2008, l’anno di massimo allarme. Ma l’emergenza non è finita. Si è solo trasformata. Oggi a scoppiare sono i cosiddetti open centre. Circa quattromila i migranti che ci vivono. “Il numero è raddoppiato negli ultimi due anni – conferma Alexander Tortell, direttore dell’Awas, l’agenzia afferente al ministero della Famiglia, che si occupa del welfare dei richiedenti asilo–. Queste strutture dovrebbero fornire un’assistenza temporanea. In realtà la carenza di lavoro e il regolamento di Dublino II rischiano di trasformarle in dimore stabili per i migranti”. no dei centri aperti si trova a Marsa, in una vecchia scuola, poco distante dalla Capitale. Ma la situazione peggiore è ad Hal Far, nell’estremo sud-est dell’isola. Qui, lontano dagli occhi dei turisti e degli stessi maltesi, nell’area un tempo occupata da un aeroporto oggi dismesso, sono sorti i campi peggiori. All’Hangar vivono in ottocento, distribuiti fra una fila di otto container e un grande capannone di lamiera, buio e fatiscente. Una ex rimessa di aeroplani, usata dalla Raf durante la Seconda guerra mondiale e riadattata nel 2008 a gigantesco dormitorio. Fuori bivacchi ovunque, all’interno un odore nauseabondo. Un alveare di letti a castello, immersi nella polvere e nella sporcizia. Qui si dorme, si cucina, con pericolosi fornelli da campo, e si espletano i bisogni corporali, utilizzando otto bagni chimici in tutto. La situazione precipita nel Tent Village, una vera e propria tendopoli, aperta nel 2006 e che oggi ospita circa ottocento persone, ventidue per tenda. Frequenti dissenteria e scabbia. E la promiscuità tra uomini e donne rende abituali i casi di violenza e stupro. Ognuno percepisce dallo Stato centotrenta euro mensili di sussidio, con cui tirare avanti. Ma dai campi è meglio non allontanarsi troppo. Ogni lunedì, mercoledì e venerdì si è costretti a mettersi in fila indiana per apporre una firma che attesti la propria presenza. Chi salta una firma, si vede decurtato il vitalizio di dieci euro. Per chi scappa la tassa è di cinquanta euro. “È una prassi che lede la dignità umana – afferma padre Joseph Cassar, del Jesuit Refugee Service di Malta – stiamo registrando sempre più casi di problemi psicologici. La situazione va monitorata, per evitare che degeneri in futuro”.

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In alto: Il Tent Village. In basso: I servizi igienici. Malta 2009. Gilberto Mastromatteo per PeaceReporter


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L’intervista Somalia

Il coraggio di reagire Di Benedetta Guerriero Come in tutte le guerre, a fare le spese della violenza sono sempre i civili. Questo è quello che avviene anche in Somalia, nazione dove, a fasi alterne, il conflitto si protrae da quasi vent’anni. ogadiscio, la capitale, è teatro di continui combattimenti che hanno ridotto la città a un campo di battaglia. I servizi più elementari sono scomparsi e moltissime persone sono fuggite. I campi profughi allestiti alle porte di Mogadiscio accolgono migliaia di disperati. Alcuni civili, però, non si sono dati per vinti e hanno deciso di rimanere nella città deserta. È il caso di Zara Mohammed Ahmed, presidentessa di Cogwo, un’organizzazione composta da trenta Ong locali somale, nata per difendere i diritti umani delle donne, calpestati senza ritegno dai diversi schieramenti che, di volta in volta, si sono scontrati nel corso di questa guerra che stravolge il Paese ormai da quasi vent’anni. La sede principale di Cogwo è a Mogadiscio, ma la Ong opera in diverse regioni della Somalia, quali Banadir, Middle Shabelle, lower Jubba, Hiran, Galgadud, Bay and Bakool. La presidentessa di Cogwo è una donna di spirito, coraggiosa, che ha messo la propria esperienza e competenza a disposizione del proprio popolo.

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Quando è nata Cogwo? Nel 1996 per tutelare i diritti delle donne, vere vittime di questa guerra infinita che piano piano sta distruggendo il nostro Paese. Al di là del conflitto, però, i problemi della Somalia sono tanti e noi ci occupiamo di educazione, agricoltura, sviluppo, salute, supporto psicologico. Quali sono i principali problemi delle donne somale? Sono talmente tanti e diversi che a volte è quasi scoraggiante parlarne. Si va dalle violenze sessuali, a quelle domestiche fino a quelli delle ragazzine costrette a sposarsi alla prima mestruazione. Questi matrimoni sono un vero disastro e hanno delle conseguenze fisiche indelebili. Ci sono casi di parto a dodici, tredici anni. Troppo presto, sono bambine. Come possono, così piccole e inesperte, prendersi cura di un’altra creatura? E’ un meccanismo perverso che va rotto. Molti, poi, non lo sanno, ma avere dei figli così giovani crea tantissimi scompensi. Non ultimo l’incontinenza. Da anni continuo a chiedermi che senso ha tutto questo. Come si vive a Mogadiscio? In questo momento siamo in piena emergenza. Relativamente alla condizione femminile, poi, viviamo un momento terribile. Gli stupri aumentano e le donne partoriscono per strada, dove capita, e spesso abbandonano il bambino al proprio destino. Manca tutto: acqua, cibo, farmaci, dottori. Molti medici sono scappati e quelli che rimangono non possono fare i miracoli. Da un punto di vista sanitario si rischia il collasso. La gente ormai vive per le strade e si trova a subire la violenza della guerra, specie a Mogadiscio. Nascono tantissimi bambini con problemi e molti, purtroppo, muoiono poco dopo. Come Cogwo 24

abbiamo ideato un progetto per trasferire all’estero i bimbi con delle disabilità, perché più fragili, ma non è semplice. Penso che il numero degli orfani somali sia ormai fuori controllo, aumentano quotidianamente. Quale futuro possono avere questi orfani? Schematizzando, penso possano scegliere fra tre possibilità. Emigrare verso l’Europa e morire nell’Oceano Indiano, vittime dei trafficanti di esseri umani, oppure fuggire in un altro Stato africano, dove andranno ad aumentare le fila dei carcerati. Altra chance, che ormai va per la maggiore, arruolarsi negli Shabaab. Molti ragazzini di età compresa fra i tredici e i diciotto anni, in cambio di un piccolo salario, entrano a far parte dei Giovani Mujahidin e qui vengono sfruttati come soldati o kamikaze. Un esercito di bambini. E per le donne somale ci sono speranze di miglioramento? Loro sono il futuro di questo Paese dilaniato. Stanno iniziando a prendere coscienza dei loro diritti e a lottare per farli rispettare, nonostante le violenze a cui sono sottoposte. Su di loro grava anche il peso della famiglia, visto che gli uomini o fanno i soldati o per la maggior parte, una volta perso il lavoro, si danno all’alcolismo. Spetta alle figure femminili prendersi cura dei bambini, ma questo compito è molto difficile. Quando al mattino la mamma esce per cercare cibo per sfamare i più piccoli, può incontrare chiunque sulla sua strada e il rischio che subisca violenza è molto alto, così come quello che non faccia ritorno. Lei non ha mai pensato di fuggire? No, ma ho lasciato tutti i miei figli all’estero. Ho studiato e mi sono laureata in legge in Italia, ma poi ho deciso di fare ritorno in Somalia. Mio marito è un pilota della Somalia AirLines e quando ci siamo resi conto di quello che stava accadendo nel nostro Paese, abbiamo deciso di rimanere per aiutare il nostro popolo. Non avete paura? No, se moriremo significa che era destino e che sarebbe capitato anche in altro posto più sicuro. La vita continua anche nella guerra e noi lottiamo per questo. Mogadiscio è una città molto grande, divisa in sedici distretti: sei sono controllati dagli Shabaab, dieci dal governo di transizione. In questi c’è ancora la possibilità di studiare, di avere degli ospedali, di condurre un’esistenza quasi normale. Come Cogwo abbiamo creato un centro di documentazione per testimoniare tutte le violenze sessuali, domestiche e di altro genere subite dalle donne. Prima o poi in Somalia tornerà la pace e arriverà un governo serio a cui affidare questa documentazione. A quel punto, forse, ci sarà un po’ di giustizia. In alto e in basso: Un popolo senza pace. Somalia, 2007. Ugo Borga per PeaceReporter


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Italia

La città scomparsa Di Elisa Pozza Tasca Le storie che Penelope vive sono centinaia, migliaia, perché le persone ancora da ritrovare nel nostro Paese dal 1974 a oggi sono più di 25mila. Tante da formare una città di piccole o medie dimensioni che Penelope definisce “La città scomparsa”. ppure il nostro è un Paese che non è sconvolto da una guerra o piagato da una dittatura, ma gli scomparsi non mancano. L’aspetto più grave, tuttavia, è che quasi nessuno ne parla, se non per il breve periodo in cui l’episodio suscita curiosità o attenzione e, se non ci fossero gli appelli di un programma televisivo che per vent’anni ha sostituito lo Stato, molte famiglie sarebbero lasciate sole, nel silenzio del loro dolore. Quindi c’è gente che scompare anche nel nostro Paese pur con tutte le garanzie di sicurezza, ordine e tranquillità offerte da questa società moderna in tempo di pace. Certo non spariscono intere comunità, come è avvenuto nei Balcani. In Italia a sparire sono singole persone, anche da un minuto all’altro. Qualcuno sembra dissolversi tra la folla e svanire come per un incantesimo malefico. Spariscono anziani privi di memoria, bambini, adolescenti in fuga. Spariscono anche minori ed è il caso peggiore, perché sottratti dolosamente da qualcuno alla loro vita, ai loro affetti. Minori indifesi, rapiti per scopi illeciti, per vendetta o per desiderio di maternità. In alcuni casi, tuttavia, sono sparizioni senza causa, veri e propri misteri. Di loro spesso non resta che una scia di silenzio, interrotta di tanto in tanto da una segnalazione, che fa ripartire la speranza che spesso porta a una pista cieca. Come Penelope ci siamo abituati ad affrontare le storie di scomparse che portano nella loro complessità a un fenomeno nuovo, perché mai preso in considerazione prima, usando di volta in volta delle metafore che possano aiutare le famiglie ma anche la società stessa a comprendere la gravità del problema. Penelope per noi rappresenta la paziente e sofferta attesa che qualcosa di nuovo giunga a dar luce al buio e al silenzio che ci circonda. Quando noi parliamo di scomparsi intendiamo parlare di “vite sospese”. Una vita sospesa non è vita e non è morte, è un limbo nel quale nessuno di noi vorrebbe annoverare un proprio caro e il dramma delle famiglie è la mancanza di certezze nel bene come nel male. Qualsiasi notizia può essere migliore del nulla. Seguendo lo stesso percorso, abbiamo voluto ricordare il dramma e l’incognita di corpi non identificati, che non hanno sepoltura, ma giacciono in apposite celle frigorifere di Istituti di Medicina Legale e Obitori del nostro Paese. Ci siamo incamminati verso quella meta sconosciuta che noi abbiamo voluto definire “La città scomparsa”. Un sillogismo per far comprendere che 25mila persone svanite nel nulla possono rappresentare nell’immaginario collettivo una piccola o media città del nostro territorio, dei cui abitanti non sappiamo se siano ancora vivi e dove si trovino. Se sono morti e dove

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sono sepolti. Il Popolo degli scomparsi, delle famiglie dimenticate, delle vite sospese fa appello alla dignità delle persone, al bisogno di essere ricordati per non svanire nel nulla, per non essere dimenticati tra i vivi. hi dimentica cancella …noi non dimentichiamo. Questa è la cultura di un soggetto collettivo come Penelope, che è cultura di vita, perché noi vogliamo ricordare l’esistenza di una persona che è scomparsa fino a quando non verrà ritrovata. Fino ad allora non ci sarà accettazione, non potrà esserci sepoltura, non ci sarà pace. Soltanto unendo il dramma di migliaia di famiglie è stato possibile comprendere quanto vasto sia il fenomeno degli scomparsi e quanti aspetti rimangano ancora da risolvere per arrivare a capire le molte verità finora sconosciute. Penelope ha lavorato in questi anni tessendo di giorno e di notte, per risvegliare nei cittadini l’attenzione verso questo dramma, per ricordare alle istituzioni le loro responsabilità, per chiedere collaborazione ai mezzi di informazione. Abbiamo lottato perché le notizie di una scomparsa sono tali finché fanno cronaca, riempiono i programmi televisivi, si parla di minori, ci sono misteri intorno alla scomparsa di una persona. Ma quando il tempo inesorabilmente fa calare il silenzio, quando il sipario si abbassa e si rincorrono le notizie di una nuova scomparsa, di un nuovo caso, di un nuovo mistero che susciti interesse, stupore, audience, quello è l’attimo più difficile per la famiglia, per i parenti. Quello è il momento di Penelope e delle famiglie, perché è il momento della solidarietà e della sussidiarietà, del sostegno di chi ha già passato lo stesso calvario. Quasi a formare una catena umana, le persone si prendono per mano per andare avanti, per vivere nella speranza di un ritorno, di un ritrovamento, di una pietosa identificazione. Ecco che allora il dolore, la pena, il travaglio hanno generato nuova forza, linfa per sopravvivere. Così si sono moltiplicate le iniziative, gli eventi, i concerti, le fiaccolate, i convegni per esprimere tutto il dolore che gli altri fanno fatica a comprendere, a volte a condividere. Tutto questo abbiamo cercato di tenerlo nella memoria attraverso la rete, perché costituisce la memoria della ricerca, della sofferenza e dell’attività delle famiglie e di una associazione che hanno dovuto impegnarsi nell’attesa che lo Stato assuma il proprio ruolo di responsabilità nella scomparsa dei suoi cittadini.

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In alto e in basso: Abbandoni. Italia. Foto di Riccardo Francone per PeaceReporter


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Migranti

Respinti. Verso la tortura Di Gabriele Del Grande Dieci febbraio 2010. Gaeta. Il ministro dell’Interno Roberto Maroni stringe la mano all’ambasciatore libico in Italia Hafed Gaddur. L’Italia ha mantenuto l’impegno sottoscritto dal governo Prodi nel 2007. E oggi consegna alla Libia altre tre motovedette per i pattugliamenti anti emigrazione al largo di Tripoli, dopo le tre consegnate nel maggio 2009. a ricetta dei respingimenti, voluta dal governo Prodi e messa in atto dal governo Berlusconi, ha dato i frutti sperati. Gli sbarchi in Sicilia si sono azzerati negli ultimi mesi. Nel 2009 sono arrivate via mare poco più di novemila persone a fronte di oltre trentaseimila giunte l’anno precedente. Dall’inizio dei respingimenti, nel mese di maggio, il numero degli arrivi è calato addirittura del novanta percento “Abbiamo fermato l’invasione” recitano tronfi d’orgoglio i manifesti elettorali della Lega. Nessuno però ha ancora detto agli italiani che fine hanno fatto i respinti. A dieci mesi di distanza dai primi refoulement, abbiamo ricostruito il loro destino, grazie a una rodata rete di informatori in Libia. Molti dei respinti sono stati rimpatriati nei loro paesi. Ma non i rifugiati politici, somali e eritrei, che sono ancora in carcere. I primi si trovano in due campi, a Tripoli e a Gatrun, mille chilometri più a sud, in pieno deserto. Gli eritrei invece sono divisi tra Misratah, Zlitan, Garaboulli e, le donne, Zawiyah. E mentre in Italia si brinda al giro di vite sugli sbarchi, i rifugiati in Libia rischiano l’espulsione. Rischiano sì, perché a differenza dei contadini del Burkina Faso o dei ragazzi delle periferie di Casablanca, per un eritreo o per un somalo il rimpatrio significa arresti e persecuzioni. E in alcuni casi, la vita. La Somalia è in guerra civile dal 1991. E il regime eritreo dal 2001 stringe in una morsa sempre più serrata l’opposizione e l’esercito. La repressione è tale che recentemente i servizi segreti eritrei sono arrivati addirittura in Libia alla ricerca degli oppositori. È successo nel gennaio 2010. L’idea iniziale era di organizzare un’espulsione di massa, come fece l’Egitto nel 2008 quando rimpatriò in un mese ottocento eritrei, in gran parte disertori. Così, tra gennaio e febbraio, centinaia di eritrei detenuti in Libia sono stati schedati. Alle iniziali proteste di chi rifiutava di fornire le proprie generalità all’ambasciata, la polizia libica ha risposto con la violenza. Nel campo di Surman gli scontri sono stati particolarmente cruenti. Ma alla fine la diaspora eritrea è riuscita a esercitare una certa pressione sulle organizzazioni internazionali e sulla stampa. E il progetto di rimpatrio si è ridimensionato, assumendo però un carattere ancora più preoccupante. Secondo Radio Erena (http://www.erena.org), una radio indipendente dell’opposizione eritrea basata a Parigi, tra le centinaia di eritrei detenuti in Libia, il regime ne avrebbe selezionati dodici e li avrebbe espulsi. I fatti risalirebbero al 2 febbraio 2010. Il criterio con cui i dodici sarebbero stati scelti è il ruolo politico che avevano in patria prima della fuga.

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Tutti infatti erano assunti presso diversi uffici ministeriali e due di loro erano membri dell’aviazione militare eritrea. Radio Erena ha diffuso una lista dei nomi: nove dei dodici espulsi, sarebbero ancora detenuti in modo arbitrario nel carcere eritreo di Embatkala. Si tratta di: Zigta Tewelde, Asmelash Kidane, Zeraburuk Tsehaye, Zewde Teferi, Yohannes Tekle, Ghebrekidan Tesema, Tilinte Estifanos Halefom, Nebyat Tesfay e Tilinte Tesfagabre Mengstu. Inoltre, Habte Semere e Yonas Ghebremichael, che prima di fuggire dall’Eritrea lavoravano nell’ufficio del presidente Afewerki, sarebbero in queste ore detenuti nella prigione di Ghedem, vicino Massawa. n Eritrea li attendono anni di carcere duro e torture. Ma per gli eritrei rimasti in Libia la situazione non è migliore. Nel centro di detenzione di Garabulli sono in centosettanta, rinchiusi insieme a ventiquattro somali, in celle grandi quanto un monolocale, trenta metri quadrati, dove vengono stipate fino a quaranta o cinquanta persone buttate a dormire per terra. Qui gli eritrei sono arrivati il 16 settembre, dal carcere di Bengasi, dove nel mese di agosto una rivolta dei detenuti era stata sedata nel sangue dalla polizia libica, con l’uccisione di almeno sei prigionieri somali. Anche qui il 28 dicembre 2009 sono arrivati i formulari dell’ambasciata eritrea per l’identificazione e il rimpatrio. Ma nessuno li ha voluti firmare per paura di essere perseguitato in patria. Sono quasi tutti disertori dell’esercito e in Eritrea rischiano la corte marziale e i campi di lavoro forzato. A fargli cambiare idea sono state le torture della polizia libica. L’11 gennaio li hanno fatti uscire uno a uno, nel corridoio del carcere, riempiendoli di manganellate. Un uomo è stato ammanettato e appeso al muro per i polsi, perché fosse da esempio agli altri. Alla fine hanno riempito i formulari in centoventi, altri cinquanta hanno continuato a rifiutare nonostante i pestaggi. Oggi hanno tutti la stessa paura. Chi ha firmato teme di essere rimpatriato. Chi non lo ha fatto ha paura di essere trasferito in un’altra prigione e di passare anni nelle galere libiche. Gli anni migliori della vita. Magari con una famiglia qui in Italia che li aspetta e che da mesi non ha più loro notizie. Ma non si preoccupino gli italiani. Maroni l’ha detto e ripetuto: “La Libia fa parte dell’Onu e in Libia è presente l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni unite”.

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In alto: In viaggio nel deserto. In basso: Silvio Berlusconi e Mu’ammar Gheddafi Foto archivio PeaceReporter


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Rubriche

A teatro di Silvia Del Pozzo

L’orrore delle guerre In tivù di Sergio Lotti

Un Fondo pieno di buchi

Chernobyl, di cosa sono fatte le nuvole? La notte del 26 aprile 1986, a circa 130 chilometri da Kiev, nell’ex Unione Sovietica, il reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl esplode nel corso di una prova di sicurezza programmata, liberando nell’aria tonnellate di materiali radioattivi. 31 persone muoiono immediatamente per l’esposizione diretta alle radiazioni, centinaia sono i ricoveri urgenti, più di 130.000 gli evacuati e incalcolabili, per intensità ed estensione, i danni provocati all’ambiente e al futuro del pianeta.

Chernoby, di cosa sono fatte le nuvole di Paolo Parisi Edizioni BeccoGiallo beccogiallo.it

All’inizio si parlava di un incidente comune. Si diceva di stare tranquilli, che non era successo nulla di particolarmente grave. Poi, dopo diversi giorni, cominciò a circolare tra la gente la parola catastrofe. Svetlana, studentessa ucraina in Italia

Dalle nebbie di una campagna elettorale che per la prima volta ha tolto i fatti dalla televisione di Stato, mentre i conduttori cercavano di organizzare i loro talk show in scuole o teatri in giro per l’Italia come esuli e l’Augusto Minzolini, in pieno delirio di onnicompiacenza, si paragonava a Giovanni Amendola (ma è sicuro di sapere chi è?) agli inizi del ventennio fascista, come se fosse il leader di un’opposizione liberale perseguitato da un governo reazionario, all’improvviso è ricomparsa come per miracolo Milena Gabanelli a spiegare su Report come vengono spesi i 50 miliardi del Fas, il Fondo per le aree sottoutilizzate. Dal momento che questi soldi appaiono in svariati bilanci e progetti, infatti, cambiando spesso destinazione, non si capisce mai dove vanno a finire. Pochi sanno per esempio che 12 miliardi sono stati assegnati a Como, anche se gli stessi abitanti non sono in grado di dire che cosa ci sia di sottoutilizzato in quell’area, considerata una delle più ricche d’Europa. Ma non è il caso di sottilizzare, tanto più che oltre l’80 percento di questi fondi è destinato alle aree del sud. Vediamo allora che cosa succede in Sicilia. A Catania, per esempio, 140 milioni del Fas sono serviti a tappare il buco di bilancio aperto dal comune quando era sindaco il dottor Scapagnini, medico di Berlusconi. Ed è proprio all’ex assessore al bilancio di Catania, Gaetano Tafuri, che il ministro delle Infrastrutture, Altero Matteoli, ha affidato il risanamento della Circumetnea. Una garanzia. Difatti ha subito provveduto ad assumere una sessantina di persone senza alcun decreto di autorizzazione o bando di concorso che definisse i criteri di assunzione. In compenso la ferrovia non è stata completata, le carrozze sono impresentabili ed è persino difficile trovare qualcuno che paga il biglietto. Naturalmente il Fas non poteva ignorare il glorioso ponte sullo Stretto, al quale ha già riservato un miliardo e 300 milioni. Ma quando la redazione di Report chiede al ministro Matteoli dov’è il progetto, quanto costa e quando iniziano i lavori, il ministro risponde che sono domande provocatorie. Dice solo che sarà sicuramente pronto entro sette anni e che si ricorrerà a capitali privati, senza oneri per lo Stato, poi chiude bruscamente la conversazione. Del progetto però non appare neppure l’ombra.

In due vecchi quaderni, vergati con una scrittura “minuta, straordinariamente regolare e calma” la scrittrice Marguerite Duras ha registrato, giorno dopo giorno dal maggio 1944 al ‘45, le sue ansie, paure, speranze e delusioni di moglie, che attende per molti mesi il ritorno del marito Robert dal campo di concentramento di Dachau, dove era stato deportato dai nazisti perché militante della Resistenza (in un gruppo guidato da François Mitterand). Per quarant’anni quei quaderni vennero dimenticati in qualche angolo di una vecchia casa di campagna. Casualmente ritrovati poco prima della morte della scrittrice (30 romanzi, tra i quali “La diga sul pacifico” e “L’amante” e varie sceneggiature cinematografiche, un titolo per tutte “Hiroshima mon amour” per il regista Alain Resnais) sono stati ridotti per il teatro in “Il dolore”, una pièce per voce sola, oggi portata in scena da un’intensissima Mariangela Melato, diretta da Massimo Luconi. La scrittrice traccia un quadro sofferto della sua esistenza in quella lunga e angosciata attesa, fatta di sofferenza, piccoli attimi di gioia, ricordi, pensieri e gesti quotidiani “perché si è comunque costretti a vivere”. La Duras si aggira in una Parigi in festa per la fine del conflitto, portandosi dietro il suo dramma privato che confida solo al suo diario, occasione anche per una riflessione sulla storia, la condizione femminile, gli umani sentimenti e l’orrore della guerra. Anche il curdo Mehmet Tarhan odia la guerra e si oppone a ogni forma di militarismo, protagonista di “Mehmet ama la pace”, spettacolo tra parole, musica e danza che ripropone la vera storia di Tahran, anarchico gay, emblema in Turchia dei diritti civili degli omosessuali e degli obiettori di coscienza, condannato a quattro anni di carcere duro per insubordinazione, torturato e finalmente liberato su pressione della Corte Europea. Messo in scena da una compagnia turca, a Bologna l’8 e il 9 aprile, è un accorato appello contro tutte le guerre, per una vera pace tra i popoli, anche più significativo perché viene da un paese che sta vivendo molti episodi di violenza e un crescente nazionalismo. “Mehmet ama la pace”: Bologna, Teatri di Vita (tel. 051 6199900) 8 e 9 aprile. “Il dolore”: Genova, Teatro Duse (tel. 010 5342400) dal 13 al 30 aprile. Dal 4 al 9/5 a Napoli, teatro Bellini; dall’11 al 23/5 a Roma, Teatro Valle.

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Al cinema di Nicola Falcinella

Amore straniero Dobbiamo imparare dai francesi. Almeno al cinema. Se il cinema italiano da poco ha scoperto di poter raccontare anche gli stranieri che vivono in Italia e lo fa quasi sempre a partire da fatti di cronaca e, quando li presenta come “buoni”, li ritrae “troppo buoni”. I registi transalpini possono permettersi di essere politicamente poco corretti o, meglio, mostrare gli stranieri come sono, con le loro azioni e i loro sentimenti, positivi o negativi, giusti o sbagliati, esattamente come i nostri. Forse perché in Francia operano diversi registi d’origine straniera (per esempio Abdellatif Kechiche di “Cous Cous” e “La schivata” o Ismail Ferroukhi di “Viaggio a la Mecca”), mentre nello Stivale c’è il solo Ferzan Ozpetek, che ormai da tempo racconta storie del tutto italiane. È di famiglia magrebina Riad Sattouf, che con l’opera prima “Les beaux gosses” ha stupito prima Cannes (nella sezione Quinzaine des realizateurs), poi ha vinto il César come migliore esordiente e ora arriva nelle sale italiane. Un film molto divertente su due amici di quattordici anni (uno d’origine magrebina) che vogliono avere una ragazza a tutti i costi. La crescita e il primo amore dalla parte di due un po’ sfigati, un po’ sgraziati, un po’ emarginati e neanche troppo simpatici. Un film poco corretto politicamente, ma realista, sincero e diretto. Il classico che un regista italiano

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non saprebbe mai fare. La madre di Hervé (interpretata dalla regista e attrice Noémie Lvovsky) è sola, depressa e molto intrusiva, ma c’è un’insegnante (Emmanuelle Devos) che prova a capire i ragazzi. Il cast è perfetto, con le facce giuste: Vincent Lacoste e Anthony Sonigo nei ruoli principali, Alice Trémolière come la più carina della classe e sogno d’amore. Lo sguardo di Sattouf non è sociologico, racconta una storia, un passaggio della vita di ciascuno con leggerezza e senza idealizzazioni. E partendo da una coppia d’amici che non si fanno condizionare da origini diverse. Del resto anche in Italia basta guardarsi intorno per vedere sempre più bambini e ragazzi stranieri e italiani scherzare e giocare insieme.

In libreria di Licia Lanza

A sud di casa. L’Africa delle donne di Laura Fantozzi Partire per l’Angola. Scoprire le favelas, incontrare le malattie, condividere la carenza di acqua potabile ed elettricità. Imbattersi nella forza straordinaria di un popolo, incontrare l’amore. Tutto questo è il diario di Laura, giornalista e cooperante italiana, arrivata in Africa con le Nazioni Unite e successivamente entrata a far parte di un progetto dell’ONG Medici con l’Africa – Cuamm, che giorno dopo giorno ha annotato pensieri,

riflessioni, incontri. Il racconto è una testimonianza reale della vita di un paese attraversato da un’epidemia di colera, dove è fondamentale formare il personale sanitario e sono urgenti idee innovative e pratiche per sensibilizzare la popolazione. È la descrizione del precario sistema sanitario che cerca di non far morire di parto le sue donne e che prova in ogni modo a curare le tante malattie della sua popolazione. È l’immagine delle favelas con i suoi meninos de rua. È il reportage della ricostruzione di infrastrutture – strade, ferrovie, scuole, ospedali – portata avanti dalle


società cinesi, che sta pian piano trasformando il mercato del lavoro angolano. Laura Fantozzi ci regala una fotografia africana, capace di farci intravedere un frammento di vita angolana. Terre di mezzo Editore, 2010, pagg. 176,

conseguenze dell’odio sta nella consapevolezza, nel conoscere e condividere. E questo libro si pone come uno strumento indispensabile per aprire gli occhi su notizie e meccanismi che troppo spesso rimangono taciuti.

7,00

In libreria di Angelo Miotto

L’odio per l’Occidente di Jean Ziegler

La penna del sociologo, politico e rappresentante Onu per i diritti umani è un rasoio che graffia in profondità, alle radici dell’odio. Quello per l’Occidente “è un sentimento provato oggi dalla grande maggioranza dei popoli del Sud [...]. Non è assolutamente patologico e ispira un discorso strutturato e razionale. E paralizza le Nazioni unite. Bloccando la negoziazione internazionale”. “La memoria dell’Occidente è una memoria dominatrice, impermeabile al dubbio, mentre quella dei popoli del Sud è una memoria ferita”. Il libro, edito da Tropea, è un testo irrinunciabile per capire la nostra contemporaneità. A partire da una memoria dolosamente dimenticata, di vecchi e nuovi colonialismi che oggi hanno il nome del mercato liberista e delle multinazionali, ma anche del mancato riconoscimento degli orrori commessi fra i popoli e nelle terre del Sud del mondo. Il libro è diviso in cinque parti. Le prime tre di carattere generale, costellate da puntuali esempi storici, delineano le radici dell’odio e l’inazione dell’Occidente. I casi studiati nel finale, quarta e quinta parte, sono quelli di Nigeria e della Bolivia di Morales, un esempio di speranza secondo il sociologo svizzero. L’epilogo è programmatico; il titolo è “È venuto il nostro momento”. Al di là della strada indicata dall’autore, che lasciamo alla curiosità del lettore, l’arma migliore per contribuire a sciogliere radici e

Tropea, 2010, pagg. 263,

17,50

Musica di Claudio Agostoni

Opa Cupa “Centro di Permanenza Temporanea” 8 Records Deliri di ottoni, spartiti che occhieggiano ai libretti di musica di vecchie bande di paese, ritmi dispari, profumi di macchia mediterranea, reminiscenze felliniane, cimbali tzigani, standard del jazz... Cose turche, direbbe qualcuno. Anche, ma non solo. Perché il progetto degli Opa Cupa (che oltre a essere il nome della band, è il titolo di un brano che sta alla musica balcanica come ‘Summertime’ sta a quella del blues) è molto di più. È un lavoro partorito nelle stanze dell’Albania Hotel, dimora di artisti e passanti. Un luogo di speranza per moltissima gente che arriva in Puglia e non ha i permessi di soggiorno, non ha i soldi per mangiare, non ha uno studio per registrare né uno strumento per suonare. Intorno alla tromba di Cesare Dell’Anna, il capobanda, si sono raccolti un gruppo di fondamentalisti dell’ottone, più una ciurma di variegati musicisti. Ne son venuti fuori diciotto brani, tra canzoni originali e straordinarie cover. Balcan Jazz? Nu Jazz? La nuova musica del Mediterraneo? La disputa sulle etichette non ci ha mai intrigato. Ci basta la certezza che trattasi di ottima musica. Ci sta molto più a cuore la speranza che questo Cd venda un sacco di copie, perchè i proventi delle sue vendite sono destinati a raccogliere fondi in sostegno del Poliambulatorio di Emergency a Palermo, che presta gratuitamente assistenza sanitaria alla popolazione immigrata residente, con o senza permesso di soggiorno e alla popolazione non immigrata, che si trova comunque in stato di bisogno.

In rete di Arturo Di Corinto

2010 Sarà un paese per internet? Nei dieci anni trascorsi dalla bolla della new economy alla candidatura di Internet a Nobel per la Pace, tanta acqua è passata sotto i ponti. Ma dopo quaranta anni dalla sua nascita, Internet fatica ancora a essere riconosciuto come un fenomeno sociale che influenza la vita anche di chi non lo usa, come immensa agorà pubblica ed ecosistema globale degli scambi

delle società avanzate. In Italia leggi e commissioni che hanno provato a dargli regole e confini hanno ottenuto solo di ritardare questo esplosivo fenomeno. La legge Urbani contro la pirateria audiovisiva, i decreti ammazzablog, le denunce contro Indymedia, sono stati i tentativi maldestri e non riusciti della politica di mettere la museruola alla rete per via parlamentare mostrando il terror sacro dell’establishment verso un “oggetto” che metteva in discussione i vecchi assetti di potere. Ancora peggio hanno fatto gli interventi telecomandati alla magistratura per irregimentare una cosa fluida come l’acqua: la condivisione di file sui social media e sulle reti peer to peer. Il sequestro preventivo della Baia Pirata, un motore di ricerca per file torrent, attraverso cui era possibile anche individuare dove prelevare materiale coperto da copyright; il caso Peppermint, l’azienda che viola la privacy degli utenti per stanare i colpevoli del file-sharing musicale; il caso Google-Vividown, con la condanna dei manager di Google per non aver prontamente rimosso un video offensivo della privacy di un giovane disabile; la querela di Mediaset contro Google, dove la potente holding berlusconiana rivendica il pagamento delle royalties dei suoi materiali caricati a spezzoni su Youtube; il caso Angelucci-Wikipedia, per cui il senatore ha ottenuto la rimozione dei contenuti che lo riguardavano dall’enciclopedia libera perché dannosi della sua reputazione, dimostrano che i giochi non sono fatti e che siamo ancora lontani dal convivere pacificamente con la rivoluzione digitale portata da Internet. A essere messe in discussione sono le vecchie certezze (io vendo, tu compri; io parlo, tu stai zitto) e il ruolo di un esercito di intermediari di professione: politici, avvocati, manager, imprenditori, giornalisti, insieme a tutti i modelli tradizionali su cui era improntata la tradizionale catena del valore, la value chain, nel cinema, nella musica, nel software, nell’editoria, business scombussolati dall’emergere di questa figura ibrida di utente/consumatore, il prosumer, produttore e consumatore in proprio di informazioni e conoscenze volenteroso di esprimersi nei circuiti della produzione sociale digitale. Se c’è qualcosa che rende Internet unico è che si offre come piattaforma di una disintermediazione spinta fra produttori e pubblico, politica e cittadini, creatori e fruitori di opere creative. Anche se questo non vuol dire che non servano nuovi intermediari, è chiaro che mentre una nuova classe creativa si affaccia al mondo, i vecchi intermediari non staranno a guardare e daranno battaglia. Perciò a partire da quella folle corsa delle new economy, dall’imperativo diventa-oscenamente-riccosubito, all’economia del dono dei network sociali, è facile capire che sono loro, siamo noi, il software sociale della rete, quello che la fa funzionare, a essere il nemico da combattere. Ma qualcosa di nuovo è nell’aria se perfino il presidente della Camera Gianfranco Fini dice: Internet è Libertà. E la libertà non si può soffocare. E’ in gioco il destino delle generazioni future. 33


Per saperne di più AFGHANISTAN LIBRI MALALAI JOYA, «Finché avrò voce», Piemme, Milano 2010. L'Afghanistan di oggi raccontato da una giovane e coraggiosa donna afgana che ha messo a rischio la sua vita per denunciare pubblicamente i crimini di guerra, le violazioni dei diritti umani e i traffici di droga nei quali sono coinvolti gran parte dei membri del governo Karzai e dei suoi ex colleghi parlamentari - che per questo l'hanno insultata, minacciata e espulsa. La Joya non risparmia dure critiche ai governi occidentali che continuano a sostenere questo regime criminale e ad occupare il suo paese. MAURIZIO MORTARA, «Afghanistan. Dall’altra parte delle stelle», Editrice Impressioni Grafiche, Alessandria 2009. L’autore, che ha lavorato negli ospedali di Emergency in Afghanistan, racconta la realtà contemporanea di quel paese e del suo popolo attraverso un resoconto pacato di un’esperienza umanitaria coraggiosa e commovente. HUSSAIN NAZARI, «Mi brucia il cuore! Viaggio di un hazara in Afghanistan, e ritorno», Edizioni Seb27, Torino 2009. L’autore racconta la sua storia di immigrato afgano fuggito in Italia per scappare dalla guerra, il drammatico viaggio della speranza verso Occidente, ma soprattutto quello di ritorno nel suo paese, per ritrovare dopo sette anni la madre e condurla al sicuro. ELISA GIUNCHI, «Afghanistan. Storia e società nel cuore dell’Asia», Carocci, Roma 2007. Il cammino che ha portato una confederazione tribale collocata in un’area povera di risorse naturali e priva di sbocchi al mare a trasformarsi in uno Stato situato al centro dei calcoli geopolitici ed energetici mondiali. Dall’analisi storica emergono alcuni elementi ricorrenti - la debolezza dello Stato centrale, la polverizzazione del potere secondo logiche particolaristiche, le interferenze di piccole e grandi potenze - che oggi ostacolano la trasformazione della società afgana. JASON ELLIOT, «Una luce inattesa». Viaggio in Afghanistan, Neri Pozza, Milano 2007. Un bestseller negli Usa, frutto di due lunghi soggiorni del noto autore britannico di racconti di viaggio nella tormentata e meravigliosa terra afgana, prima del 2001. L’aspetto caratterisco del volume è senza dubbio la descrizione degli usi e dei costumi delle diverse etnie, dei paesaggi mozzafiato e del Sufismo, la dottrina spirituale più elevata dell’Islam. EMANUELE GIORDANA, «Afghanistan. Il crocevia della guerra alle porte dell’Asia», Editori Riuniti, Roma 2007. Crocevia dell’Asia centrale, porta tra il Medio Oriente e il subcontinente indiano, l’Afghanistan si trova da sempre al centro di conflitti che arrivano ai giorni nostri. In questo testo l’autore ripercorre gli ultimi quarant’anni della storia del paese.

FILM ALEX GIBNEY, «Taxi To The Dark Side», Stati Uniti 2007. Premio Oscar come miglior documentario nel 2008. Una storia vera sui soprusi e le torture nelle prigioni 34

militari americane in Afghanistan. Il 1° dicembre 2002 un giovane tassista afgano carica tre passeggeri a bordo della sua auto. Comincia così il viaggio all’inferno di Dilawar, che finirà torturato a morte nelle segrete della base Usa di Bagram. “Il vero traguardo dei terroristi è quello di portare le società democratiche a rinunciare ai loro principi di libertà e giustizia. In questo caso hanno raggiunto in modo perfetto la loro missione”, ha dichiarato il regista Alex Gibney a proposito della storia di Dilawar. Che, purtroppo, è solo una delle tante. SIDDIQ BARMAK, «Opium War», Afghanistan/Corea del Sud 2008. Premio Marc’Aurelio d’oro della critica al Festival di Roma 2008. Nell’inferno afgano, i due piloti americani superstiti di un elicottero abbattuto cercano una via di fuga. Intorno a loro spazi immensi, ombre talebane, pastori e contadini. Ma la realtà vista dalla terra è molto diversa da quel che sembra quando si sta in cielo. E così anche i due “alieni” scoprono che in quel pianeta sconosciuto c’è vita, ci sono esseri umani, bambini e vecchi che della guerra non sanno nulla e ancor meno vorrebbero sapere.

SITI INTERNET http://www.e-ariana.com Questo sito afgano, prodotto dall’emittente Ariana Television di Kabul, offre una raccolta sempre aggiornata di articoli di informazione e approfondimento apparsi sulla stampa locale e mondiale sui temi della guerra, della politica e della società afgana. http://www.longwarjournal.org La sezione sull’Afghanistan di questo sito statunitense che monitora tutti i fronti della ‘guerra globale al terrorismo’ offre aggiornatissime notizie dal fronte e commenti di carattere militare, politico e strategico. http://www.foreignpolicy.com/afpak Sito di informazione gestito dalla famosa rivista statunitense Foreign Policy, dedicato alla guerra in ‘Afpak’, con interessanti articoli di approfondimento.

PADOVA

operaie e popolari, in zone da sempre governate dalla sinistra: eppure, anche qui si verificano esclusioni, discriminazioni e vere e proprie persecuzioni contro questi gruppi, piccoli e inoffensivi. Il libro si conclude con una riflessione amara sulla politica e sulla sinistra, sulla loro incapacità di rispondere alle drammatiche sfide umanitarie del nostro tempo.

FILM SILVIO SOLDINI, «Un’anima divisa in due». Svizzera, Francia, Italia; 1993 Pietro Di Leo, trentasette anni, vive e lavora a Milano. È impiegato nella sicurezza interna di un grande magazzino del centro. È separato dalla moglie, con un figlio di cinque anni che può vedere solo il fine settimana, e la sua vita va avanti per inerzia. È solo, insoddisfatto, perso. L’incontro con Pabe, una ragazza nomade Rom colta in flagranza di reato, si trasforma dall’iniziale solita diffidenza in un desiderio di entrare in contatto con quella “diversità”, per scoprire quanto inconciliabili siano due mondi così distanti tra loro, non solo in apparenza. Insieme con Pabe, Pietro concepisce la fuga. Viaggiano verso sud, lungo la costa italiana fuori stagione. Pabe deve lentamente adattarsi, cambiare aspetto, mentre inizia una storia d’amore che li porterà entrambi a inventarsi un nuovo possibile modo di vita.

SITI INTERNET http://www.osservazione.org/ OsservAzione è un centro di ricerca e azione contro le discriminazioni di rom e sinti, che opera in Italia in collegamento con alcune importanti Ong europee. Il sito si propone come strumento di ricerca e di approfondimento e pubblica studi, inchieste, report di organismi internazionali per i diritti umani, articoli di taglio giuridico, sociologico e storico.

LIBRI

LORENZO MONASTA, «I pregiudizi contro gli zingari spiegati al mio cane», BFS editore, Pisa 2008. Un libro, spiega l’autore nell’introduzione, «destinato non ai cani, ma ai loro padroni». Nato pensando al fatto che nella questione «zingara» alcuni concetti siano molto semplici e che non vi sia nulla di complicato, se non le barriere mentali che noi stessi costruiamo. Informazioni storiche e decostruzioni dei principali pregiudizi, in un linguaggio semplice e accessibile.

http://comitatoromsinti.blogspot.com/ La «Federazione Rom e Sinti Insieme» raccoglie e coordina tutte le organizzazioni di rom e sinti presenti in Italia e attive sia su scala locale che nazionale. Lo spazio web pubblica comunicati, informazioni e notizie della Federazione: si tratta di uno strumento prezioso per capire come si muovono e cosa fanno le organizzazioni promosse autonomamente dai rom.

LEONARDO PIASERE, «I Rom d’Europa. Una storia moderna», Laterza, Bari-Roma 2004. Docente di antropologia culturale, Piasere è uno dei massimi esperti italiani delle problematiche rom. Il libro riassume gli esiti del pluridecennale lavoro di ricerca svolto dall’autore, spiegando in modo semplice e scientificamente rigoroso l’evoluzione storica del popolo rom, le caratteristiche della lingua e della cultura rom, le politiche nazionali dei diversi paesi d’Europa e l’antiziganismo.

http://www.michelucci.it/ La Fondazione dedicata al grande architetto Giovanni Michelucci si propone di contribuire agli studi nel campo dell’urbanistica e dell’architettura moderna e contemporanea, con particolare riferimento ai problemi delle strutture sociali, ospedali, carceri e scuole. Nell’ambito delle ricerche sui temi dell’habitat sociale e del rapporto fra spazio e società, lavora da anni alla questione dei «campi nomadi», sia con progetti di ricerca specifici che con proposte operative di superamento della ghettizzazione dei rom.

MARCO REVELLI, «Fuori Luogo. Cronaca da un campo Rom», Bollati Boringhieri, Torino 1999. Il racconto di un’esperienza vissuta, a contatto con un gruppo di rom provenienti dalla Romania, che l’autore – noto sociologo e studioso di fama internazionale – cerca di aiutare, nell’inverno 1998-1999, nei rapporti con le autorità locali e nazionali. Siamo nella cintura torinese, nei luoghi simbolo delle lotte

http://www.alexian.it/intro_italiano.htm Rom abruzzese, musicista e musicologo, Alexian Santino Spinelli si considera «ambasciatore dell’arte e della Cultura Romaní nel mondo». Il sito descrive le proposte musicali e artistiche dell’autore.


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Regione Toscana Diritti Valori Innovazione Sostenibilità ONLUS

mostra-convegno internazionale

terrafutura buone pratiche di vita, di governo e d’impresa verso un futuro equo e sostenibile

firenze - fortezza da basso

abitare

28-30 maggio 2010

VII edizione ingresso libero

produrre

• appuntamenti culturali • aree espositive • laboratori • animazioni e spettacoli

coltivare agire

governare

Terra Futura 2010 è promossa e organizzata da Fondazione Culturale Responsabilità Etica Onlus per il sistema Banca Etica, Regione Toscana e Adescoop-Agenzia dell’Economia Sociale. È realizzata in partnership con Acli, Arci, Caritas Italiana, Cisl, Fiera delle Utopie Concrete, Legambiente. In collaborazione e con il patrocinio di Provincia di Firenze, Comune di Firenze, Firenze Fiera SpA e numerose altre realtà nazionali e internazionali. Relazioni istituzionali e Programmazione culturale Fondazione Culturale Responsabilità Etica Onlus via Tommaseo, 7 - 35131 Padova tel. +39 049 7399726 fax +39 049 7394050 email fondazione@bancaetica.org

Organizzazione evento Adescoop-Agenzia dell’Economia Sociale s.c. via Boscovich, 12 - 35136 Padova tel. +39 049 8726599 fax +39 049 8726568 email info@terrafutura.it

www.terrafutura.it


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