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mensile - anno 2 numero 5 - maggio 2008

3 euro

Israele

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

Le sirene di Sderot

Russia Mondo Colombia Afghanistan Italia Mondo

C’è chi stava meglio prima Sulle vie della droga Ci resta solo la dignità Corsi, ricorsi e discorsi La casa nella galleria Haiti, Messico, Australia, Birmania

Gino Strada

I risultati elettorali e la guerra L’ottavo fascicolo dell’atlante: Sudan


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Non vi fermate, dovete costruire la vostra torre la torre di Babele costi quel che costi , anche guerra dopo guerra siete o non siete i padroni della terra? Edoardo Bennato

aprile 2008 mensile - anno 2, numero 4

Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Christian Elia Matteo Fagotto Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Stella Spinelli Naoki Tomasini Alessandro Ursic

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Blue & Joy Gabriele Del Grande Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Nicola Falcinella Giorgio Gabbi Valeria Gentile Paolo Lezziero Sergio Lotti Barbara Romagnoli Claudio Sabelli Fioretti Gino Strada

Progetto grafico Guido Scarabottolo Segreteria di redazione Silvina Grippaldi Relazioni esterne Marco Formigoni

Hanno collaborato per le foto Alexey Pivoravov/Prospekt Cristiano Bendinelli Alessandro Scotti Giuvanni Presutti Samuele Pellecchia/Prospekt

Redazione e amministrazione Via Meravigli 12 20123 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 Amministrazione peacereporter@peacereporter.net Annalisa Braga Stampa Graphicscalve Loc. Ponte Formello - 24020 Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 25 aprile 2008

Pubblicità esclusiva Sisifo Italia s.r.l. Via Don Luigi Soldà 8 36061 Bassano del Grappa Tel: (+39) 0424 505218 Fax: (+39) 0424 505136

Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Meravigli 12 - 20123 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07

Foto di copertina: Giovane ortodosso Israele 2008. Naoki Tomasini ©PeaceReporter

adesso? Adesso abbiamo un Parlamento e un Senato che non rappresentano la maggioranza degli italiani. Almeno su un aspetto che per noi non è affatto secondario, visto che riguarda la vita e la morte delle persone. Nel nuovo Parlamento, come nel nuovo Senato, non c’è nessun eletto che rappresenti il rifiuto della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali. Non è cosa da poco, è uno dei primi articoli della Costituzione della Repubblica. Non nel secolo scorso, ma pochi anni orsono in Italia ci fu quella che tutti hanno definito la più importante manifestazione contro la guerra mai vista nel mondo intero. Tre milioni di persone scesero in piazza per dire no a un conflitto. Per dire no a tutti i conflitti, a dire il vero. E tre milioni certamente non erano tutti coloro che rifiutavano la guerra. Tutto il Paese era tappezzato dai colori dell’arcobaleno delle bandiere della pace. Quei colori che, si disse allora, nessun partito politico avrebbe potuto sfruttare a fini elettorali. Ma si sa, in Italia le promesse della politica sono sempre quelle dei marinai. E a usare quei colori sono stati dei politici che, invece, non solo non sono stati capaci di dire no alla guerra, ma hanno anche votato il rifinanziamento delle missioni militari all’estero, compresa quella in Afghanistan, che gli analisti militari (non certo pacifisti) definiscono di guerra. Tutti concordano sullo scollamento del mondo politico dalla realtà. E su questo molto ha giocato proprio chi ha vinto le elezioni. Poco importa se sia il più lontano dalla realtà di tutti. Difficile che il secondo uomo più ricco di Italia possa capire la fatica di stare al mondo, difficile che chi ha passato una intera legislatura a fare i propri interessi e non quelli dei cittadini possa essere identificato come rappresentante del popolo. La distanza tra istituzioni e cittadini è tale, il disgusto verso il mondo politico è tale, che le elezioni sono state vinte dal pifferaio magico che ha suonato meglio. Resta sul tavolo una questione fondamentale: il mondo di chi non vuole saperne della guerra non ha alcuna sponda istituzionale. Senza più alibi, deve trovare il modo di darsi una scossa e di ricominciare a far valere le proprie ragioni e le proprie idee con metodi e strade tutte da inventare. Noi cerchiamo di rappresentare quel mondo ogni giorno sul quotidiano online e ogni mese con questo giornale. Senza far parte di alcuno schieramento politico, ma semmai essendo pungolo poco piacevole per la politica in generale. Non siamo mai stati tra quelli che, siccome al governo c’erano “amici”, ci andava bene tacere sul macello che stiamo facendo in Afghanistan, oppure sulla pericolosità e l’errore della missione militare in Libano. Per questo abbiamo la presunzione di essere una voce importante. Una voce che ha bisogno di tutto il sostegno possibile per continuare a dire che la guerra è sempre e comunque sbagliata. Facciamo uno sforzo enorme, ogni giorno, perché crediamo che l’abolizione della guerra sia una priorità assoluta. Aiutateci a continuare ad esistere. Diffondete il mensile, fate abbonare gli amici, la vostra scuola, la vostra biblioteca di zona. Sostenete il sito online. Continuate a dire con noi che è tempo che l’umanità spazzi via la guerra dalla storia.

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Afghanistan a pagina 20

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Migranti a pagina 24

Italia a pagina 22 3


Il reportage Israele

Le sirene di Sderot Dal nosro inviato Naoki Tomasini

Ci sono luoghi che occupano più spazio tra le pagine dei quotidiani che sulle carte geografiche. Sono animati da ideali e pregiudizi, oltre che da persone in carne e ossa, che sopravvivono, sospese tra la desolazione frontaliera e il clamore delle news. Sderot è così. Un posto di confine a ridosso della Striscia di Gaza, un paese senza vita, oggi noto alle cronache perché bersaglio dei razzi Qassam, sparati dai miliziani palestinesi. asso e muscoloso, lunghi capelli rossi legati dietro la nuca, Noham Bedein si considera un attivista. Si prodiga per fare conoscere al mondo le sofferenze della popolazione di Sderot, il piccolo villaggio nel sud di Israele, a una manciata di chilometri dalla Striscia di Gaza, dove si è trasferito da un anno e mezzo. Ha studiato comunicazione al college di Sderot e ha deciso di mettere in pratica i suoi studi per spiegare al mondo cosa si prova a vivere sotto la minaccia dei razzi. “In qualunque punto della città ti trovi - spiega - qualsiasi cosa tu stia facendo, quando suona la sirena del codice rosso sai di avere solo venti secondi per metterti al riparo prima di sentire un’esplosione. Ho fissa in mente l’immagine di quel padre in un parco con i suoi due figli che non sapeva quale proteggere per primo. E il ricordo dei momenti immediatamente successivi, quando tutti si attaccano al telefono per sapere se amici e parenti stanno bene”. Il potenziale letale dei razzi provenienti dalla Striscia non è elevato, non è paragonabile con l’efficacia delle munizioni che l’artiglieria di Tsahal, l’esercito israeliano, spara verso i sobborghi di Gaza. Ma Noam spiega che proprio per questo la tragedia degli abitanti di Sderot non viene compresa. “I media vogliono solo sangue - dice - qui abbiano un numero di vittime relativamente basso, circa dodici dal 2001, ma ogni persona che abita qui ha avuto delle perdite o dei traumi. Il problema è questo: come si fa a comunicare la sofferenza psicologica? Non esiste altro posto al mondo dove la popolazione civile viene presa di mira da razzi che vengono sparati da aree che sono a loro volta abitate al novantasette percento da civili”. Il lancio dei razzi Qassam verso il sud di Israele, e Sderot in particolare, viene usato dal governo come pretesto per colpire le zone di Gaza da cui sono partiti. Eppure, secondo Noam, anche questo si ritorce contro la sua gente: “Quando viene colpito un quartiere di Gaza muoiono tanti civili e i media se ne occupano. È più facile parlare delle vittime palestinesi che raccontare le storie umane della gente che vive qui. È questo lo scopo dei Qassam: colpire sì, ma anche traumatizzare”. Quando un razzo viene sparato, il suo rumore viene colto da una sonda attaccata ad un pallone aerostatico che volteggia sopra il confine con la Striscia di Gaza. Il sistema dirama l’allarme, la sirena suona il codice rosso, e venti secondi dopo c’è lo schianto. I primi razzi sono caduti su questa zona periferica di Israele nel 2001, da allora ne sono stati sparati oltre ottomila, quattromila dei quali solo negli ultimi tre anni. I razzi Qassam prendono il nome da un “pioniere” della resistenza palestinese, Ezzedeen Al Qassam, ucciso nel 1933 a Jenin. Sono una via di mezzo tra un missile e un fuoco artificiale: breve gittata, nessun contenuto esplosivo e una scarsissima precisione balistica. È quasi impossibile prevedere dove cadranno, vengono sparati puntando verso il territorio israeliano, ma sono caduti anche su abitazioni palestinesi. Noam spiega come, a dispetto della relativa pericolosità dei razzi, la dimensione della minaccia sia molto estesa: “Sderot ha poco meno di ventimila abitanti, ma i razzi colpiscono

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tutto il Negev occidentale, che di abitanti ne conta quarantacinquemila. I nuovi Qassam e i Kathyusha che sono stati sparati recentemente hanno dimostrato di poter raggiungere anche la città di Ashkelon, il che porta il numero delle persone minacciate a duecentocinquantamila. E Hamas non smette di perfezionare le sue armi. Presto sarà in grado di colpire anche Ashdod, a trenta chilometri dalla Striscia. A quel punto gli israeliani minacciati saranno mezzo milione. Israele celebra i suoi sessant’anni di vita e si trova nella situazione senza precedenti di essere vulnerabile al fuoco dei razzi, sia da sud, dalla Striscia di Gaza, che da nord, al confine con il Libano, dove anche Hezbollah si sta riarmando”. ino a un paio di anni fa gli abitanti di questa città lamentavano il disinteresse del governo e dei media verso di loro, ma oggi Sderot è diventata un simbolo del diritto, o della pretesa, di Israele a vivere una vita normale, anche a pochi chilometri da un territorio dove vivono un milione e mezzo di palestinesi in condizioni di indigenza. “Viviamo fianco a fianco con ventimila miliziani di Hamas, ma anche di Hezbollah e Al Qaeda. Ogni professionista del terrorismo vive nella Striscia di Gaza, dove entrano tonnellate di munizioni ed esplosivi”. Dall’impeto oratorio di Noam si capisce che per lui vivere a Sderot è una missione eroica, ma a giudicare dall’espressione delle persone che camminano sole per la strada, passo lento e sguardo vitreo, questa vocazione non sembra essere molto condivisa. Per le strade si incontrano in prevalenza russi ed etiopi, la comunità è stata fondata nel 1951 da immigrati ebrei provenienti da paesi del nordafrica come il Marocco. “Sderot è un doppio vantaggio per il governo” spiega Dimitri, giornalista del quotidiano conservatore israeliano Jerusalem Post. “Perché è un luogo dove mandare gli immigrati di seconda classe, come appunto gli etiopi e i più poveri tra quelli provenienti dalle ex repubbliche sovietiche, per presidiare il territorio. E perché gli attacchi dei palestinesi contro di loro sono un’ottima ragione per perseguire l’escalation militare e un pretesto per definire i bombardamenti sulla Striscia di Gaza ritorsioni contro Hamas”. Un baluardo della resistenza israeliana oppure un’esca per i miliziani palestinesi? Sderot è una questione di orizzonti. Di fronte a questo scenario, quello che viene da chiedersi è: perchè i cittadini di Sderot non se ne vanno a cercare una vita normale altrove? Le spiegazioni sono due: una vale per gli immigrati che sono venuti qui negli ultimi decenni, l’altra per la gente come Noam. Per i primi si tratta di un problema economico, sono qui per godere di agevolazioni fiscali e prezzi inferiori alle grandi città, ma da quando i razzi hanno iniziato a cadere il valore dei loro immobili è crollato del cinquanta percento. Sono bloccati prima di tutto perché non riescono a vendere o ad affittare le loro case: “Chi vuoi che se lo compri oggi un appartamento a Sderot?” Si inserisce nella conversazione un

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In alto e in basso: Alla centrale di polizia, il deposito di razzi Qassam. Israele, 2008 Naoki Tomasini ©PeaceReporter


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signore di origini russe, uno dei pochi che sembra comprendere l’inglese. “Nel condominio dove vivo - continua - ogni giorno al calar del sole ci chiudiamo nella tromba delle scale o nelle stanze blindate senza finestre. Credi che non ce ne andremmo se potessimo permettercelo?”. La maggior parte degli abitanti di Sderot è vittima di una situazione che non ha scelto. Per altri, invece, si tratta di difendere l’interesse nazionale: “Il nostro è il punto di vista sionista” spiega Noam, parlando di quanti sono venuti a vivere a Sderot per un progetto preciso. “Ci sono alcune decine di famiglie che vivono qui anche a costo di mettere a rischio le vite dei loro bambini. Perché hanno capito che, se oggi abbandoniamo questa cittadina, tra poco tempo i razzi inizieranno a cadere sulla successiva, e così via”. e persone che vivono a Sderot per sostenere il sionismo sono un’esigua minoranza. Vivono al confine del territorio israeliano con lo stesso spirito dei coloni che costruiscono avamposti nel cuore della Cisgiordania, in mezzo ai villaggi palestinesi, perché ritengono di avere un diritto su quella terra e i mezzi e il dovere di difendere la presenza ebraica in quelle aree. “Loro (gli arabi, ndr.) vogliono cacciarci via. Noi vogliamo restare, la storia è tutta qui” dichiara sprezzante un uomo che, passando in bicicletta, coglie alcuni frammenti del discorso. “Non ha alcuna importanza se abbiamo il diritto di abitare questa terra o no. Siamo qui e non abbiamo un altro posto dove andare. Prima di arrivare in Israele ero un clandestino in Gran Bretagna, poi sono venuto nell’unico paese dove posso essere accettato. Ho comprato casa a Sderot e non potrei vivere altrove. Vivo nella paura, ma Tel Aviv costa il triplo, se vivessi lì morirei a causa delle banche, non dei Qassam. Almeno da quelli hai venti secondi per fuggire, mentre con le banche non hai il tempo di metterti al riparo, ti pignorano la casa e in un attimo ti ritrovi per strada”. La riflessione sul significato di quel che accade a Sderot deve tornare allora indietro di due passi: ci sono ventimila persone che vivono una condizione di disagio permanente per contribuire, volenti o nolenti, al “progetto sionista”. Che cosa fa il governo per aiutarli? Secondo molti di loro quasi nulla. I rifugi anti-razzo che si trovano in ogni angolo della città, vicino ai parchi, alle fermate dei bus, nelle scuole e nei condomini, sono stati costruiti a spese della municipalità e di donatori privati. Anche le strutture che sostengono le vittime dei razzi sono pagate dalla comunità. “Il governo non ci dà soldi e nemmeno la politica ci considera”, si lamenta Noam, che punta il dito contro Nazioni Unite e Usa, colpevoli di “impedire a Israele di fare quel che è giusto: colpire i terroristi di Gaza”. Durante la sua ultima visita in Israele il presidente Usa, George W. Bush, qui non si è visto, ma negli ultimi mesi i politici di primo piano che hanno visitato questo luogo di frontiera sono stati numerosi, da John Mc Cain fino a Jimmy Carter. Visite che formalmente dovrebbero esprimere solidarietà con la popolazione, ma, nel disilluso mondo della real politik, servono ad accreditarsi verso il proprio elettorato all’estero come un amico di Israele. Il luogo di pellegrinaggio principale per le rappresentanze politiche in visita è la centrale di polizia, dove sono accatastati i resti di alcune centinaia di razzi caduti attorno all’abitato. Nel cortile interno c’è un istruttore tarchiato, stretto nella t-shirt dell’esercito, che istruisce le reclute sulle armi del nemico: “Quelli sono Qassam di tipo I -spiega - mentre questo che vedete ora è un Qassam IV, lungo quasi due metri e con una gittata maggiore. Lì potete vedere un razzo Quds, la versione artigianale dei Grad di fabbricazione sovietica, e quest’altro invece si chiama Arafat. Si riesce anche a capire chi li ha lanciati, perchè prima di sparare i miliziani ci scrivono sopra il nome del loro gruppo con gessetti colorati”. In tutti i casi si tratta di tubi di metallo arrugginito che, non essendo dotati di carica esplosiva, si sono accartocciati dopo l’impatto. I soldati non sembrano particolarmente suggestionati, ma si guardano bene dal mostrare sollievo: a Sderot i Qassam sono una cosa seria.

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entre i visitatori stranieri si intrattengono manggiando quei tubi torti e sfrangiati, gli abitanti del villaggio compiono un diverso pellegrinaggio. Ogni giorno decine di persone bussano alla porta del Trauma Center, la struttura dove si offre sostegno psicologico ai cittadini stressati, esauriti, traumatizzati e depressi. La sala d’aspetto è spoglia, all’interno passeggia una giovanissima guardia armata e sulle seggiole

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attendono, occhi a terra, un paio di donne sulla cinquantina. Sopra le loro teste un televisore manda le immagini delle sedute di terapia collettiva, dove altre donne come loro danzano con in vita le cinture a sonagli che si usano per la danza del ventre. Sul loro viso vissuto, la voglia di concedersi all’illusione dell’infanzia, almeno per un po’. La direttrice del centro è la dottoressa Adriana Katz, immigrata dall’Italia alla fine degli anni Ottanta, e oggi impegnata a lenire le sofferenze degli abitanti di Sderot. La donna non si fà illusioni e senza esitazione dice: “Questo è un paese di morti viventi. La gente di qui non è afflitta dalla nota sindrome Ptsd, Disordine da Stress Post Traumatico. I sintomi sono gli stessi: insonnia, ansia, apatia, dolori psicosomatici, ma è il post che non arriva mai. Qui la tensione non si esaurisce, uno può anche trarre sollievo dalla cura, ma non si può pensare a un recupero psicologico se dovrà continuare a vivere con le orecchie tese alle sirene”. Racconta che i pazienti del centro sono aumentati esponenzialmente dal 2005, alcuni hanno davvero bisogno di cure, altri solo di sentirsi meno abbandonati. “Tra le vittime più paradossali di questa situazione” rivela, “ci sono alcuni pazienti palestinesi: si tratta di persone che hanno collaborato con Israele e non possono più vivere a Gaza. Come premio per il tradimento della loro gente, hanno ricevuto la residenza a Sderot, così si trovano a vivere in una comunità che li esclude, minacciati dai razzi sparati dai miliziani palestinesi. Per loro il trauma è doppio: si rivolgono al nostro centro sia quando cadono razzi su Sderot, che quando l’esericito israeliano bombarda i quartieri di Gaza dove ancora vivono i loro familiari”. La dottoressa Katz si sente vicina anche alla popolazione palestinese di Gaza. Con cui, ricorda, un tempo c’erano rapporti di scambio commerciale e anche relazioni umane. Oggi non è più così. Oltre la recinzione al confine, gli abitanti di Sderot vedono migliaia di terroristi che si fanno scudo dei civili, mentre dall’altra parte, nei quartieri di Gaza city, si vive troppo male per provare empatia per la miseria degli israeliani costretti a Sderot. Anche Julia e Naj dicono di comprendere la sofferenza che spinge i palestinesi a lanciare i razzi. Sono due studentesse sulla ventina, una è di origini russe, l’altra marocchine, ma entrambe si sentono israeliane e basta. “Non è una cosa bella essere assuefatte agli allarmi, ma chi non si abitua impazzisce” spiegano, mentre salgono su un autobus. “Il pericolo c’è - dice Julia - ma qui il vero problema è la mancanza di lavoro e di opportunità per i giovani”. “Ci sentiamo abbandonati - l’interrompe Naji - perché i politici vengono qui solo per farsi vedere, ma poi non fanno l’unica cosa che potrebbe metterci al sicuro: una pace vera con i palestinesi”. Le due ragazze sono dirette ad Ashkelon, la città sulla costa che secondo i media internazionali sarebbe entrata nel raggio di azione dei razzi palestinesi. In questo caso la minaccia non si chiama Qassam, ma Kathyusha, i razzi usati anche da Hezbollah in Libano. Il primo è caduto sulla città nell’ottobre 2007, seguito nei mesi scorsi da alcuni altri che non hanno causato vittime ma solo feriti leggeri e persone sotto choc. Ad Ashkelon, però, il senso di oppressione e minaccia che affligge la gente di Sderot non è arrivato. Non ci sono rifugi anti-razzo a ogni angolo di strada, anzi non se ne vede traccia. Le mamme giocano nei parchi con i figli e le coppiette si bagnano nell’acqua ancora fredda del Mediterraneo. Uno scenario da località di vacanze quale effettimamente è, anche se, spiega un venditore di bibite accanto alla spiaggia, “il turismo risentirà certamente di questa minaccia di cui parlano i giornali”. sud della città, verso il confine con la Striscia, c’è una base militare. Un avamposto dell’esercito contro la minaccia dei razzi? Non esattamente. È il Centro per la Ricreazione e il Riposo dei Soldati, che dopo un anno di missioni di combattimento vengono a riposare ad Ashkelon, in quella che sarebbe la nuova frontiera del terrorismo palestinese. In costume da bagno e infradito, passeggiano sul letto di conchiglie della battigia, tra il rumore delle onde e quello delle loro risate. Loro non sembrano molto stressati.

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In alto: Il confine con Gaza: postazione militare e la sonda antirazzo In mezzo: Il parcogiochi di Sderot e l’interno del rifugio In basso: Ashkelon, parco giochi e spiaggia riservata ai militari Israele, 2008. Naoki Tomasini©PeaceReporter


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I cinque sensi di Israele

Udito A Sderot l’udito è colpito prima di tutto dal silenzio. Dall’assenza dei rumori del traffico e delle voci. Anche all’uscita delle scuole e nei bar l’atmosfera è ovattata e le chiacchiere sono soffuse, come per l’attesa permanente del fragore delle sirene che suonano l’allarme razzi, e per il timore di non sentirle. Avvicinandosi al confine con la Striscia di Gaza, si sentono saltuariamente le raffiche delle mitragliatrici pesanti, che segnalano la presenza militare sul versante isreaeliano.

Vista Sderot segna l’inizio del deserto del Negev, ma le strade che arrivano da nord, da Gerusalemme, sono costeggiate dal verde scuro delle conifere e da quello più giallastro dei campi di grano, una vegetazione assente nel nord di Israele. Dopo Sderot, verso sud, dominano invece i toni del deserto del Negev, caratterizzato dalla dominante gialla dei wadi, quelli che un tempo erano letti di fiumi ora aridi. Il colore della sabbia è striato dal rosso carminio

delle rocce ferrose e dal nero intenso dei cumuli di basalto. In tutto il territorio israeliano e palestinese i centri abitati sono bianchi come le pietre, che qui sono universalmente impiegate nell’edilizia. Il chiarore delle case nelle foto contrasta i cieli, facendoli apparire di un blu più intenso.

Gusto Il cibo israeliano deriva dalle tradizioni dei diversi paesi da cui gli ebrei israeliani provengono, ma ha acquisito molti elementi della cucina ottomana. Si trova così il falafel nella variante israeliana, leggermente diverso nella composizione della pasta di ceci e nella forma, così come è simile il tipo di carne usato per lo shawerma (che in Italia viene chiamato kebab), il kubbè (sfere di pasta fritta ripiene di carne macinata e cipolla) e le shish kebab (salsicce di carne d’agnello aromatizzata con timo e altre erbe). Più tipicamente israeliane sono invece le panetterie che sfornano burekas, le torte di pasta ricoperte di sesamo e ripiene di carne o formaggi, che si trovano in varianti diverse dai balcani fino in Israele.

Olfatto I profumi tipici di questa parte di mondo sono certamente quelli delle spezie nei suq arabi e nella città vecchia di Gerusalemme. Ma a Sderot non c’è nulla di simile, i soli profumi che accomunano questo villaggio al resto del paese sono quelli della salvia e della menta, usate per aromatizzare il tè. Almeno però non si sente la puzza dei gas di scarico che infestano Tel Aviv e le città palestinesi.

Tatto Accarezzare un razzo Qassam è un po’ come toccare un reperto archeologico, la superficie è porosa e corrugata per effetto della ruggine e dello schianto, le frange di metallo sono acuminate. La mano di cuoio del barista di origine ucraina che lavora alla stazione di Sderot: l’unica parola che siamo riusciti a comunicarci in un idioma condiviso è stata “caffè”. La sensazione dolorosa di camminare sulle conchiglie che ricoprono la battigia della spiaggia di Ashkelon, affilate, bagnate e fredde. 9


Il reportage Russia

C’è chi stava meglio prima dal nostro inviato Luca Galassi Dal centro di Mosca, la Volga nera imbocca la M9, incolonnandosi in una delle arterie più congestionate della capitale. Cinque chilometri in mezz’ora per raggiungere la periferia. All’arrivo a Istra, a ovest di Mosca, sono passati sessanta chilometri e un’ora e mezzo. Dopo le distese gelate dell’Oblast (regione amministrativa) moscovita, fino al villaggio di Nadeshdino, i chilometri sono ottanta, oltre due le ore per percorrerli. Ma il tempo sembra essersi fermato mezzo secolo fa. La Volga è stata messa a disposizione dell’Unione delle cooperative di consumatori, uno dei pilastri dello stato sociale di sovietica memoria. Efficiente e capillare sistema di produzione e distribuzione di beni e servizi, l’Unione non ha dimenticato la sua vocazione mutualistica e assistenziale. La filiale di Istra organizza infatti un servizio fondamentale per i residenti delle campagne dell’Oblast: si tratta di una ‘bottega ambulante’ che raggiunge i più sperduti agglomerati di case, dove sopravvivono gli exlavoratori dei kolkhoz, le cooperative agricole collettive sovietiche. La bottega ambulante, un camioncino con generi alimentari e altri beni di prima necessità, è l’unico mezzo di approvvigionamento per i residenti. Gli ottanta chilometri che separano questi luoghi da Mosca svelano un’altra Russia: una terra lontana mezzo secolo dalla frenetica e opulenta vita della capitale. Una terra dove, dopo il crollo del comunismo, i giovani sono fuggiti in città e gli uomini hanno abbandonato le mogli o sono morti, di cirrosi o di vecchiaia. Solo le donne sono rimaste, in prevalenza pensionate. Prima del 1991, il ritmo della loro vita era scandito dai tempi della produzione del kolkhoz. Condivisione di strumenti e macchinari agricoli, vendita allo Stato dei prodotti della terra, controllo assoluto sui movimenti di persone. Non c’era ricchezza, ma tutti avevano di che vivere. I piani di Stalin di collettivizzazione agricola imposero per sessant’anni ai contadini russi un sistema rigoroso (e ineludibile), nel quale la cessione da parte dell’individuo allo Stato di una quota della sua libertà personale era ricambiata con la stabilità e la sicurezza economica. Ma il kolkhoz era anche, inevitabilmente, una forma di controllo sociale che imponeva forti vincoli agli spostamenti individuali. Per muoversi, occorreva addirittura avere un passaporto interno. Oggi, la libertà di movimento in Russia è pressochè illimitata. Ma agli abitanti di Nadeshdino manca la possibilità materiale di farlo. Il villaggio ha cinque case e otto abitanti, tutti pensionati. La fermata di autobus più vicina è a tre chilometri. Il primo negozio di alimentari a dieci. Ma sono dieci chilometri in mezzo alla neve, a meno venti gradi, a sessant’anni di età.

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D’estate, la regione è invasa da ricchi moscoviti che qui hanno costruito le loro dacie e che qui arrivano clacsonando nei loro fiammanti Suv, adatti per tutti i terreni e per tutte le stagioni. Ma d’inverno, Nadeshdino è quasi un villaggio fantasma. Una volta alla settimana, il furgoncino dell’Unione delle cooperative fa visita agli anziani, che escono dalle loro case come da un letargo ancestrale per festeggiare l’arrivo delle derrate alimentari. La bottega ambulante è un’occasione per socializzare, per i residenti di Nadeshdino, altrimenti condannati dal rigido inverno a lunghi pomeriggi in solitudine di fronte alla stufa o alla televisione. La scelta dei prodotti del furgoncino delle cooperative non è molto variata: salsicce, uova, latte, pane, tè, biscotti, qualche vegetale, qualche frutto. Oltre a questo, poco altro: cerotti, carta igienica, qualche giornale. Generi venduti a prezzi più che accessibili. "C’è tutto quello che è necessario per la vita di un essere umano", esclama entusiasta Alexander Markov, stupito di trovarsi quasi davanti a casa un giornalista straniero. E’ l’unico uomo di una piccola comunità di anziane donne che, incuriosite dall’inattesa visita, si radunano con un interesse vivo e rumoroso attorno alla bottega. "Non è mai venuto nessuno a chiederci come stiamo, che vita facciamo, che cosa desideriamo - spiega senza autocommiserazione il signor Markov -, eppure anche qui, nel mezzo del nulla, non possiamo lamentarci. Il furgoncino ci porta ciò di cui abbiamo bisogno". A lamentarsi è invece Raissa Zaitseva, ma lo fa con il sorriso. Un sorriso che svela due incisivi d’oro: "Ci hanno portato i seggi alla fine della strada, per farci votare. Ho votato Medvedev, perchè gli altri, comunisti compresi, promettono e non mantegono mai. I comunisti non sono più quelli di una volta. Nell’Unione Sovietica avevamo pane, formaggio, verdura, e molte altre cose. Vivevamo meglio, potevamo fare da soli, eravamo autosufficienti. Ora devi comprarlo, quello che mangi. E puoi mangiare solo quello che compri, non altro, perchè qui non c’è altro. Il burro, per esempio, io non posso permettermelo. Sono sola, mio marito è morto, Contadina. Istra, Russia 2008. Luca Galassi ©PeaceReporter


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mio figlio se ne è andato. Ho una pensione di duemila e ottocento rubli (settantacinque euro) al mese. Sono abbastanza, per la mia vita, ma solo per le cose di prima necessità". l collasso economico seguito alla dissennata politica di svendite e privatizzazioni di Eltsin ha lasciato un’impronta indelebile nella popolazione russa. Vi è una riservatezza d’altri tempi, una malcelata vergogna a parlare degli anni Novanta, del presidente ‘pagliaccio e ubriacone’, e della fame e della povertà sofferta negli anni bui della crisi. Nei giorni immediatamente successivi alla creazione della Federazione Russa, le ventiseimila aziende agricole collettive hanno dovuto scegliere cosa diventare. Già allora, l’agricoltura era in ginocchio, in larga parte per motivi storici. La teoria marxista fondava sull’industria la propria rivoluzione, e all’agricoltura era destinato un mero ruolo di supporto. Per creare i kolkhoz furono uccisi o morirono di fame dieci milioni di kulaki, i contadini possidenti. Il declino non fu arrestato nemmeno durante la perestojka di Gorbaciov, proveniente da una famiglia di contadini e considerato un economista ‘agricolo’. Nel 1992, settemila kolkhoz decisero di rimanere nell’alveo dello Stato, novemila si registrarono come attività private, ma nella pratica furono sorretti artificialmente da incentivi statali. Gli altri furono accorpati, o divennero a tutti gli effetti entità private autonome, operando tagli e licenziamenti su larga scala. La privatizzazione della produzione e della distribuzione alimentare ha portato oggi sugli scaffali dei supermercati nuove marche e nuovi prodotti, sconosciuti fino agli anni Novanta. Oggi, i prodotti nazionali sono un’esigua minoranza rispetto a quelli stranieri. E pochi conoscono i loro nomi. Non certo gli abitanti di Nadiejdino, che come quelli di Dienechkino, altra tappa della bottega ambulante, sono abituati alle marche ‘storiche’ e sicuramente non hanno ancora visto, e forse non vedranno mai, la proliferazione di svafillanti centri commerciali, mega-store tematici e supermercati-kolossal che dagli anni Novanta hanno invaso il centro della capitale. A Dienechkino le case abitate sono undici, che diventano quaranta d’estate, quando arrivano i moscoviti. "I miei antenati hanno vissuto qui per duecento anni - racconta Tatyana Sergeyevna -. Venivano da Krasnoyarsk, in Siberia. Mia madre è morta da poco, da allora vivo sola. Lavoravo in un macello, insieme a venticinque persone. Fino al 1991 qui c’era un kolkhoz molto importante, che dava lavoro a numerose famiglie. Ora siamo tutti pensionati". Ha abbastanza soldi per vivere? "Mi aiutano i miei figli. Però non riesco più a tirare avanti, d’inverno. Il prossimo anno andrò ad abitare con loro. A malincuore, lascerò questo posto dove ho passato tutta la mia vita, e dove i miei antenati hanno vissuto dall’ottocento". Cosa ricorda dell’epoca di Eltsin? "La povertà. I salari erano bassi, i prodotti costavano molto più di oggi". E prima? "Prima c’era il kolkhoz, che era gestito da Krusciov. No, non quel Krusciov, era uno che si chiamava come lui e che è stato il primo padrone dopo il sistema collettivo. Dopo che se ne è andato, non c’è stato nessuno in grado di sostituirlo. Il kolkhoz è finito nelle mani di una società per azioni e tutto è stato venduto. Anche noi siamo stati venduti". Una babushka, anziana signora, si avvicina sorridendo. Ha un colbacco bianco e una pelliccia marrone. Gli occhi azzurri sono vivaci, incastonati nel carnato chiaro del volto appena arrossato dal freddo. "Sapete quanti anni ho? Ottantacinque. Vivo qui dal 1964. Da tutta una vita. Ho sotterrato mio marito, mio figlio e anche mio nipote. Ora sono sola. Mi chiamo Nina Saliy". Riesce a vivere con la pensione? "Sì, ma sono molto vecchia, e non posso muovermi con facilità. Per fortuna c’è il furgoncino che ci porta da mangiare. Però, sapete, prima veniva due volte a settimana, ora solo una. Per noi è un’occasione per stare insieme, un modo per far festa, almeno un giorno alla settimana".

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a bottega ambulante è il terminale ultimo di un sistema ramificato di servizi che l’Unione delle cooperative di consumatori offre non solo ai suoi associati, ma anche ai cittadini. Quest’anno celebra il suo centodecimo anniversario. Ha oltre dodici milioni di iscritti (azionisti), e rappresenta tremilaquattrocento società di consumatori, raggruppate in 227 unioni territoriali e regionali. I dipendenti sono quattrocentocinquantamila. Il ventotto per cento della popolazione russa, in gran parte residente nelle campagne, riceve i servizi offerti dall’Unione. Tra questi, la ven-

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dita al dettaglio in novanta mila negozi, 9.300 imprese alimentari, 285 grossisti. Il sistema cooperativo russo ha anche strutture per l’istruzione e la formazione di personale, tra cui tre università, settanta scuole tecniche e professionali. Inoltre, fornisce assistenza sanitaria grazie a una rete di organizzazioni, ambulatori, cliniche, ospedali. L’Unione delle cooperative di consumatori svolge anche funzione di agenzia di lavoro. Nel duemila ha creato quattordicimila nuovi posti di lavoro nel settore agricolo. Il tragitto da Dienechkino, a Chudsovo, il terzo villaggio della campagna di Istra oggetto della visita della bottega ambulante, è l’occasione per scambiare due chiacchiere con la dipendente dell’Unione addetta alle vendite. La Volga segue a distanza, un punto nero in mezzo alla distesa di neve. “Non dica a nessuno che sto usando il pallottoliere per far di conto”, dice timidamente Elena Iolkina, mentre mostra l’interno del furgoncino, dove ci si muove a fatica perché tutto è affastellato, compresso, pigiato a forza. “Uso il pallottoliere perché con il… come si chiama… calcolatore si possono commettere errori, mentre così è tutto molto più semplice”. Da quanti anni lavora per l’Unione delle cooperative? “Da vent’anni. Ma più che un lavoro è quasi un’attività di volontariato. Se non ci siamo noi, chi aiuta questa gente?”. Com’è il rapporto coi residenti? “A volte difficile, sono persone indurite da una vita di stenti, spesso si lamentano perché i prezzi crescono in continuazione, nonostante noi cerchiamo di mantenerli bassi. La gente si lamenta dell’inflazione, ma io che posso farci? Non sono mica io ad alzarli, i prezzi… Le rimostranze a volte nascono perché i pensionati non trovano alcuni prodotti. Ci sono gli abitudinari, che comprano sempre le stesse cose, e quelli che invece vengono con una lista. Mettono sempre cose diverse, nella lista, sperando di trovarle la settimana successiva. Ma i prodotti sono più o meno sempre gli stessi. Gli alcoolici, per esempio, non li vendiamo se non su prenotazione. Se incentiviamo il loro consumo, si sa come va a finire, specialmente da queste parti dove le distrazioni sono veramente poche. Però abbiamo tutto quello che serve per le loro necessità. Qualcuno viene per comprare solo un filone di pane nero, la cosa che costa in assoluto meno di tutto. Credo che lo facciano per non sentirsi soli. Per incontrare gli altri, per parlare con qualcuno, almeno una volta alla settimana”. l furgoncino si ferma di fronte ad alcune vecchie case. Le assi dipinte di azzurro sono sconnesse e scrostate. Gli alberi sono ghiacciati, e tutto è coperto di neve. Una donna trascina una slitta con la sporta di alimenti per la settimana. Si chiama Tatyana Ivankina. Cosa ha comprato? “Uova, pane, formaggio”. Anche lei lavorava nel kolkhoz? “No, io ero nell’amministrazione dell’impresa di costruzioni di Mosca”. Vive da sola? “Sì, e devo ammettere che mi annoio un po’”. Cosa fa quando è a casa? “Beh, cerco di… intrattenermi, guardo la televisione, cucio, a volte leggo. Ma non posso lamentarmi più di tanto. Rispetto a quando si moriva di fame, negli anni Novanta, la nostra situazione è sensibilmente migliorata. Grazie a Putin. Ci ha fatto dimenticare gli anni infami di Eltsin, che ha regalato le attività più redditizie della nostra terra ai ladri e ai corrotti. Ma la Russia adesso è un grande Paese. Quando gli altri cercavano di affondarlo, Putin l’ha sollevato. È Putin l’artefice del progresso”. Il furgoncino chiude i battenti, mentre l’autista della Volga accende il motore, impaziente di tornare a Istra, e da lì a Mosca. Prima di entrare in macchina, si avvicina un’altra babushka. “Non dia retta a quella donna – esclama agitando la mano con l’indice puntato–. Putin non ha fatto niente per noi. Qui non abbiamo l’acqua, non abbiamo l’elettricità. E sa cosa non abbiamo neanche? Il gas. Le sembra normale? Putin vende il gas a tutto il mondo ma non ai suoi connazionali che vivono a poche decine di chilometri da Mosca”. L’autista mette in moto, e la Volga ripercorre all’inverso le strade in mezzo alla campagna, indovinabili a fatica nel candore accecante del mezzogiorno. I nomi dei villaggi non sono segnati da nessun cartello. Me li ripete l’autista: Chudsovo, Dienechkino, Nadieshdino. In questa terra, d’inverno così desolata, solo l’ultimo nome appare consolante. Nadieshdino, da nadieshda, speranza…

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In alto e in basso: Il furgone che porta i generi alimentari nell’ex kolkoz. Istra, Russia 2008. Luca Galassi ©PeaceReporter


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L’intervista Mondo

Sulle vie della droga Di Barbara Romagnoli I libri di Isbn hanno spesso copertine bianche che quasi non si vorrebbe toccare, ma nel caso di "Narcotica", di Alessandro Scotti si arriva a fine lettura contenti di vedere il bianco sporco. È un libro che si presta a essere consumato, che si porta dietro ovunque: nell’autobus, nel bar e si legge come un romanzo, sapendo già che non c’è fine. Perché le tante storie che Scotti narra sono un lungo viaggio, compiuto dall’autore in sei anni tra Asia, Africa e America Latina alla ricerca delle vie del narcotraffico - il più globale e capillare dei mercati - che portano direttamente alla fonte, a chi con la droga ci vive o ci sopravvive. Ogni capitolo del libro è un ritratto, un intreccio di testo e immagini in bianco e nero dove si susseguono personaggi più o meno anonimi: coltivatori, intermediari, mercenari, donne eroinomani sotto il burqua, gruppi armati rivoluzionari, scienziati che studiano i tossicodipendenti e quasi ovunque uomini e donne consapevoli di quel che fanno, ma che difficilmente superano la soglia di povertà. Un lavoro che unisce reportage, inchiesta e in qualche modo denuncia di qualcosa che coinvolge tutto il mondo, ma anche un’opportunità per “contribuire a un abbozzo di dialogo fra realtà lontane, nella convinzione che lo scambio sia l’unico approccio plausibile per affrontare problemi la cui soluzione è tutt’altro che evidente.” Questo libro parla della geopolitica della droga e di territori in movimento, soprattutto in Asia Centrale. Che rapporto c’è tra la caduta dell’ex Unione Sovietica e la nuova geopolitica del narcotraffico? Il contesto storico ha avuto un peso significativo, è stato importante per ridefinire le rotte attraverso, ad esempio, Pakistan e Iran. Le repubbliche dell’Asia Centrale, finché c’era l’Urss, avevano un equilibrio che comunque è stato intaccato in maniera violenta. Il Tajikistan è lo stato con il confine più ampio con l’Afghanistan e ha sempre avuto un legame forte con quel confine sensibile, dove comunque c’era un equilibrio. Dopo la caduta dell’Urss, il paese ha vissuto una guerra civile durata sette anni. Con quali conseguenze? In questi casi si vedono economie che crollano repentinamente e tra le vie di uscita c’è anche quella della droga. Da un lato c’è il fatto che prima della guerra civile il Tajikistan viveva grazie all’uranio o, per esempio, l’Uzbekistan con il cotone perché l’ex Unione Sovietica si fondava sullo sfruttamento specifico di queste risorse. Dall’altro sappiamo che le guerre civili già di per sé sono un humus fecondo per i traffici illeciti e questi spesso diventano una reale occupazione per molte persone ridotte alla fame o senza concrete alternative. È quindi un contesto specifico a favorire il narcotraffico… 14

Ci sono cose che sembrano banalità ma che sono significative, come l’isolamento o la mancanza di infrastrutture. Se vuoi sopravvivere, devi poter commerciare con prodotti durevoli e poco deperibili come l’oppio e la coca lavorata, diversamente da quelli tradizionali come il caffè o i pomodori, per fare un esempio. Da dove è nato questo progetto, sono arrivate prima le foto o prima la scrittura? Il mio background è sicuramente la scrittura, ma la fotografia è una grande occasione. Ti impone di vedere da vicino le situazioni, non lascia spazio alla pigrizia come invece a volte accade con la narrazione scritta. E ti impone anche una relazione diretta con quello che vuoi raccontare. In un capitolo si accenna al senso di colpa, all’opportunità o meno di scattare una foto in determinate situazioni. È stato più forte il senso di colpa o la paura? La pratica della foto a volte te la mette in faccia la paura, ma possono esserci entrambi, dipende. Credo che sia andato perso negli ultimi dieci anni il ruolo di osservatore profondamente attivo. Con internet e i mezzi capillari di informazione si è spostata l’importanza sulla storia. Ma penso che l’atto di osservare abbia un impatto sulla realtà, non è indifferente. In molti casi si tratta dell’occhio del mondo che restituisce dignità a situazioni che potrebbero sentirsi neglette, non conosciute. Si prova disagio nel trovarsi in quei luoghi in duplice veste: giornalista freelance e osservatore Onu? Non ho vissuto i due ruoli in conflitto, anche perché sono stato lasciato totalmente libero di fare. Inoltre quando ti muovi come Onu, in qualsiasi paese tu sia non sei mai un ospite, perché il paese stesso è parte di questa comunità internazionale. È un fatto molto significativo. Quella che gioca un ruolo centrale è la relazione che instauri ed essa è sicuramente frutto anche del lavoro svolto dalle Ong. Il libro si chiude in Africa con un uomo che ti grida: "Che cosa fai qui? Questo non è posto per te, uomo bianco! Corri! Corri!". Quanto ha influito l’essere bianco, occidentale, durante il viaggio? La bianchitudine ha indubbiamente influito, i rapporti che si creano non prescindono da questo. È tutto più faticoso, ma anche positivo. Del resto, non credo nel mimetismo totale perché non è così: hai la tua casa, la tua cultura. Il valore aggiunto torna nelle relazioni che costruisci, se cerchi di comprendere l’altro come una realtà che non conosci ma che vuoi incontrare.

In alto e in basso: Foto tratte dal libro Narcotica. ©Alessandro scotti


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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

Australia, le generazioni rubate per esperimenti medici

Le buone nuove

Bambini rubati e Birmania, la farsa usati come cavie del referendum

Un golfo simbolo della pace

lcuni bambini aborigeni delle “generazioni rubate”, decine di migliaia di piccoli sottratti ai genitori e affidati a famiglie bianche o istituti tra il 1915 e il 1969, sarebbero stati usati come cavie in test medici per verificare la reazione a malattie come la lebbra. L’accusa viene da un membro della “Stolen Generations Alliance of Aborigines”, ed è stata fatta di fronte alla commissione del Senato australiano che sta valutando l’idea di un risarcimento alle vittime. “Oltre a essere portati via, furono usati... ci sono molte cose che l’Australia non conosce”, ha detto Kathleen Mills. Suo nonno, che era un inserviente medico, le raccontò degli esperimenti. “Mi disse che i trattamenti fecero ammalare gravemente la nostra gente, quasi la uccise. Era una pratica comune”, ha aggiunto la Mills. Alcuni piccoli aborigeni sarebbero stati fatti ammalare di lebbra, per testare dei medicinali. Ma anche per la vergogna, la comunità indigena non ne ha mai parlato. Secondo la Mills, negli archivi del ministero australiano della sanità ci sono i dati relativi a questi esperimenti, e andarli a scartabellare “aprirebbe un vaso di Pandora”. Il leader dei Verdi, il senatore Bob Brown, si è detto “scioccato e allarmato” dalle accuse “molto, molto gravi”, auspicando che venga aperta un’inchiesta per accertare che siano fondate. Lo scorso febbraio, il nuovo primo ministro australiano Kevin Rudd si era scusato ufficialmente con la comunità aborigena per “le leggi e le politiche di successivi parlamenti e governi, che hanno inflitto profondo dolore, sofferenze e perdite a questi nostri fratelli australiani”, un gesto che il suo predecessore John Howard si era sempre rifiutato di fare in undici anni da premier. Ma a parte il singolo risarcimento a un appartenente alle “generazioni rubate”, e uno collettivo da parte del governo della Tasmania, le autorità di Canberra non hanno mai pagato per i decenni di ingiustizie contro la comunità indigena. Allo studio del Parlamento ora però c’è una legge che risarcirebbe le “generazioni rubate” con 20.000 dollari australiani (circa 11.700 euro), più 3.000 euro per ogni anno trascorso in istituti educativi.

l 10 maggio i birmani sono chiamati a esprimersi sulla nuova Costituzione redatta dalla giunta militare del generale Than Shwe, propagandata dalla dittatura come il primo passo del processo di transizione verso la democrazia. Un processo che, nei programmi dei militari, dovrebbe culminare in ‘libere’ elezioni entro il 2010. Il testo costituzionale sottoposto a referendum lascia ai generali tutte le leve del potere, riserva ai militari un quarto dei seggi parlamentari e il potere di dichiarare lo stato d’emergenza. Ma soprattutto esclude da ogni incarico politico i cittadini che sono stati sposati con stranieri: un escamotage per tenere fuori da ogni futuro governo la leader dell’opposizione democratica birmana, il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, vedova dello studioso inglese Michael Aris. Per queste ragioni, la Lega nazionale per la democrazia (Nld) della signora Suu Kyi, gli studenti universitari del movimento democratico e i monaci buddisti giudicano questa Costituzione un’operazione di facciata che mette una pietra tombale sulle speranze di un reale cambiamento democratico. Ma le speranze che al referendum vinca il ‘no’ sono nulle. Paulo Sergio Pinheiro, l’inviato dell’Onu in Birmania, ha definito la consultazione “un rituale senza contenuto reale”. La giunta di Than Shwe ha respinto la richiesta delle Nazioni Unite di far monitorare il voto a osservatori internazionali. I militari birmani hanno arrestato chiunque facesse campagna per il ‘no’ e hanno minacciato di arrestare tutti coloro che non approveranno la Costituzione. Gli scrutatori hanno ricevuto l’ordine di convincere gli elettori a votare ‘sì’ e i responsabili dei seggi elettorali sono stati istruiti ad annullare le schede con voto ‘no’. Per non parlare della martellante propaganda su televisioni e giornali, tutti controllati dal regime, incentrata su slogan come: “Democrazia e libertà non possono essere raggiunte con le proteste e le agitazioni, ma solo sostenendo la Costituzione nel prossimo referendum”.

Alessandro Ursic

E.P.

Honduras, Nicaragua e El Salvador trasformeranno il golfo di Fonseca in una zona di pace e sviluppo sostenibile. La decisione è stata presa dai presidenti dei tre Paesi che si affacciano sul Golfo. L'iniziativa, voluta dal presidente salvadoregno Antonio Saca, ha avuto un grande successo e nei giorni scorsi sono iniziate le operazioni per dare definitivamente il via al progetto. Ma già dallo scorso mese di ottobre i tre Paesi stanno lavorando in questa direzione.

Liberato il reporter Bilal Hussein Dopo due anni di detenzione è stato liberato il premio Pulitzer Bilal Hussein. Era accusato di essersi messo d'accordo con la guerriglia irachena per fotografare gli attentati dinamitardi contro le forze di sicurezza. La liberazione è stata ordinata alle forze armate americane dal governo iracheno, dopo che una corte irachena aveva giudicato inammissibili le accuse contro di lui. "Voglio ringraziare tutti i colleghi della Ap" ha detto il reporter appena uscito dalla prigione. "Sono stato due anni in carcere pur essendo innocente".

Un treno tra india e Bangladesh È stato ripristinato oggi, dopo 43 anni, il collegamento ferroviario tra India e Bangladesh, interrotto nel 1965 al culmine delle tensioni tra India e Pakistan, di cui all'epoca il Bangladesh formava la parte orientale. Il primo viaggio del Maitree Express, che unisce Calcutta e Dacca, è stato inaugurato dal ministro degli Esteri indiano, Pranab Mukherjee, in coincidenza con la cerimonia per l'inizio del nuovo anno bengalese.

A Venezia l’Africa di pace Nell’aprile 2007 Emergency ha avviato il primo centro di cardiochirurgia gratuito in Africa. Il centro Salam si trova a Khartoum, capitale del Sudan, ed è nato per fornire assistenza altamente qualificata ai pazienti provenienti dal Sudan e dai 9 Paesi confinanti. Su questa esperienza, Emergency organizza il 14 e 15 maggio una conferenza cui parteciperanno le autorità sanitarie dei Paesi coinvolti nel progetto, alcuni dei quali sono in guerra tra loro. Tema dell’incontro, lo sviluppo della sanità in Africa. 16

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La giunta impone la nuova Costituzione ‘democratica’

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Sudan la pace resta un’utopia

na storia costellata di guerre. Dall’indipendenza, ottenuta il 1 gennaio 1956, il Sudan ne ha vissute quattro, una delle quali, quella in Darfur, ancora in corso. Nel 2005, grazie agli accordi di pace tra nord e sud del Paese, è cessata la guerra civile più lunga della storia moderna africana, costata la vita ad almeno due milioni di persone e che ha provocato almeno quattro milioni di profughi. Ma non è tempo di pace, in Sudan. La guerra del Darfur, che vede opporsi i gruppi ribelli locali alle milizie arabe Janjaweed, sostenute dal governo sudanese, insanguina l’ovest del Paese dal 2003, e ha provocato finora 200.000 morti e almeno due milioni di profughi. I colloqui di pace di Abuja, nel 2006, e di Sirte, all’inizio del 2008, non hanno portato risultati concreti, se non quello di frantumare il fronte dei ribelli, rendendo praticamente impossibile accordarsi con tutti i soggetti coinvolti anche solo per una tregua. Nato come un conflitto locale tra le comunità africane e quelle arabe per il controllo di terre e pascoli, la guerra in Darfur si è presto trasformata in un caso internazionale. Le nazioni occidentali accusano infatti la Cina, grande alleata di Khartoum, di fornire armi al governo sudanese, armi che sarebbero poi utilizzate per bombardare i villaggi e uccidere i civili durante le operazioni di terra. Più volte gli Usa hanno premuto affinché l’Onu definisse come genocidio le operazioni militari condotte dai Janjaweed con l’aiuto dell’esercito nel Darfur. Una posizione che le Nazioni Unite non hanno mai fatto propria, pur riconoscendo i gravi crimini contro l’umanità avvenuti durante il conflitto. Dalla fine del 2007 la missione di pace dell’Unione Africana in Darfur, che contava 7.000 uomini, è stata sostituita dai caschi blu dell’Onu. I nuovi peacekeepers, che dovrebbero contare su 26.000 uomini entro l’inizio del 2009, non hanno però contribuito a miglio-

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rare la situazione sul campo, visto che gli stati che si erano inizialmente impegnati a sostenere la missione non stanno fornendo i mezzi per il trasporto delle truppe. La guerra si trascina così da anni, tra offensive dell’esercito e una diplomazia che non sembra interessata ad affrontare seriamente la questione. Ad accrescere l’importanza del problema Darfur è stata la scoperta di ricchi giacimenti petroliferi nella parte “pacificata” della regione, una notizia che molti analisti ritengono sia alla base delle posizioni prese da stati come gli Usa e la Cina (la maggior beneficiaria delle concessioni di sfruttamento) sulla questione. Le ricerche nella zona al confine con il Ciad, teatro della guerra, potrebbero infatti portare alla scoperta di nuovi giacimenti. Oltre a essere teatro di una guerra, il Darfur è utilizzato dai gruppi ribelli che mirano a rovesciare Idriss Deby, il presidente ciadiano. Sudan e Ciad da anni si accusano a vicenda di appoggiare le rispettive ribellioni. Nonostante i cinque accordi di pace firmati tra N’Djamena e Khartoum, sul campo la situazione rimane sempre la stessa. Alla guerra in Darfur si aggiungono i problemi rimasti irrisolti alla fine della guerra civile: secondo gli accordi di pace il sud cristiano e animista, che rivendicava maggiori diritti dal governo centrale, avrà nel 2011 la possibilità di decidere, tramite referendum, se diventare indipendente o meno; nel frattempo, i proventi dello sfruttamento petrolifero sono divisi al 50 percento tra nord e sud, nonostante quest’ultimo denunci il mancato rispetto degli accordi da parte di Khartoum. Inoltre, il ritiro dell’esercito e dei miliziani protagonisti della guerra non è mai avvenuto, così come rimane incerto lo status della regione di Abyei, ricca di petrolio e ancora contesa tra le due amministrazioni. A 52 anni dall’indipendenza, la pace in Sudan resta un’utopia.


ARABIA SAUDITA

Sudan

FIUME NILO EGITTO

LIBIA

MAR ROSSO Port Sudan

MAR ROSSO

NORD Karima Atbara

CIAD

NILO NORD DARFUR

KARTHOUM

KASSALA Kassala

Karthoum GEZIRA

NORD KORDOFAN

Wad Medani El Fasher El Geneina

GEDAREF Gedaref

Sinnar

El Obeid

Kosti

DARFUR OVEST

NILO BIANCO

SINNAR Ed Damazin

Nyala

NILO AZZURRO

SUD KORDOFAN

SUD DARFUR

Kadugli

NILO SUPERIORE

REPUBBLICA CENTRAFRICANA

Aweil Raja BAHR EL GAZAL OVEST

Malakal

Bentiu

NORD BAHR EL GAZAL

UNITY WARAB Akobo

Wau Rumbek LAKES

area sotto il controllo diretto del governo sudanese (capitale Khartoum)

Lui EQUATORIA EST

EQUATORIA OVEST BAR EL JEBEL Juba EQUATORIA CENTRALE

area sotto il controllo del governo autonomo del sud Sudan (capitale Juba) area contesa tra i due governi, il cui status è ancora oggetto di trattative Darfur, sotto il controllo del governo sudanese ma teatro di guerra

ETIOPIA

JONGLEI

REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO

Torit

KENIA UGANDA

ERITREA


ARABIA SAUDITA FIUME NILO EGITTO

LIBIA

MAR ROSSO Port Sudan

MAR ROSSO

NORD Karima Atbara

CIAD

NILO NORD DARFUR

KARTHOUM

KASSALA Kassala

Karthoum GEZIRA

NORD KORDOFAN

Wad Medani El Fasher El Geneina

GEDAREF Gedaref

Sinnar

El Obeid

Kosti

DARFUR OVEST

NILO BIANCO

SINNAR Ed Damazin

Nyala

NILO AZZURRO

SUD KORDOFAN

SUD DARFUR

Kadugli

NILO SUPERIORE

REPUBBLICA CENTRAFRICANA

Aweil Raja BAHR EL GAZAL OVEST

Malakal

Bentiu

NORD BAHR EL GAZAL

UNITY WARAB Akobo

Wau

JONGLEI Rumbek LAKES

concessioni petrolifere (a Cina, Malesia, Qatar, Canada, Svezia, Austria e Francia)

Lui EQUATORIA EST

EQUATORIA OVEST BAR EL JEBEL Juba EQUATORIA CENTRALE

aree di ricerca pozzi oleodotto

ETIOPIA

REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO

Torit

KENIA UGANDA

ERITREA


LIBIA

Sudan NORD Karima Atbara

CIAD

NILO NORD DARFUR

21.547 15.120 13.529 11.960 18.119 32.212 10.258

KARTHOUM Karthoum

16.265 11.246

GEZIRA

NORD KORDOFAN

Wad Medani

GED

El Fasher El Geneina

Sinnar

El Obeid

Kosti

DARFUR OVEST

NILO BIANCO

16.819 18.855

SINNAR Ed Damazin

Nyala

NILO AZZURRO

SUD KORDOFAN

SUD DARFUR

Kadugli

NILO SUPERIORE

REPUBBLICA CENTRAFRICANA

Aweil Raja

aree con villaggi parzialmente o completamente distrutti

UNITY WARAB Akobo

Wau

I due principali gruppi ribelli operanti in Darfur sono il Justice and Equality Movement (Jem) e il Sudan Liberation Army (Sla), che si scontrano con le milizie Janjaweed e l’esercito sudanese. La cartina indica le principali zone di conflitto nella regione, localizzando i centri abitati teatro dei maggiori scontri. Nella regione del Ciad sono evidenziati i campi profughi allestiti per accogliere i profughi sudanesi.

ET

JONGLEI

BAHR EL GAZAL OVEST

Rumbek LAKES

campi profughi in Ciad e numero di rifugiati campi di rifugiati interni

Malakal

Bentiu

NORD BAHR EL GAZAL

Lui EQUATORIA EST

EQUATORIA OVEST BAR EL JEBEL Juba EQUATORIA CENTRALE

REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO

Torit

UGANDA


MAR ROSSO Port Sudan

MAR ROSSO

Haiti, in forse la missione “di pace” delle Nazioni Unite: troppo alta la tensione

Messico, il Presidente vuole privatizzare l’estrazione del greggio

Sull’orlo del ERITREA precipizio Kassala

Petrolio nel mirino Un mese delle multinazionali di guerre

KASSALA

l piccolo Stato del Caribe, il più povero del continente americano, con il settanta percento dei suoi nove milioni di abitanti sotto la soglia di povertà, ha vissuto settimane di tensione in apriGedaref le. Tutte le città sono state teatro di disperate manifestazioni contro il carovita, alcune con conseguenze drammatiche: a Les Cayes, nel sud, i caschi blu delle Nazioni Unite, presenti nel Paese dal primo giugno 2004, hanno aperto il fuoco contro la folla uccidendo quattro persone. In tutta risposta, la gente ha appiccato il fuoco a diversi mezzi Onu. Nella capitale Port au Prince, in migliaia hanno tentato un assalto al palazzo presidenziale inneggiando al ritorno dell’ex presidente Artistide (capo di Stato nel 1991, dal 1994 al 1996, e infine dal 2001 al 2004). Negozi e uffici sono stati saccheggiati e incendiati e la polizia ha potuto fare ben poco davanti a tanta rabbia. Sette persone sono morte, fra cui un poliziotto nigeriano dell’Onu, un centinaio i feriti, e ingenti i danni a vari veicoli e negozi. La morte del casco blu ha messo in discussione l’intera missione che, secondo il mandato, dovrebbe restare nel paese fino al prossimo ottobre. La paura è che l’Onu si trasformi in oggetto di attacchi, simbolo contro cui TIOPIA sfogare la rabbia. In pochi giorni i prezzi di farina, olio e riso sono saliti alle stelle e il piccolo paese caraibico è a rischio collasso. E per le strade, fra i manifestanti, sono ricomparse armi leggere: “Abbiamo fame. Fuori gli stranieri. Via i caschi blu. Dateci lavoro e dateci riso” gridavano gli haitiani, per la prima volta inferociti contro l’attuale presidente Renè Preval. Il presidente, sconvolto, ha cacciato il primo ministro, Jacques Edouard Alexis. Un segnale forte, per convincere la sua gente a ritrovare calma e pazienza, promettendo soluzioni concrete. Per molti osservatori, dietro a questa polveriera pronta a scoppiare in qualsiasi momento ci sarebbero gli interessi di settori mafiosi che beneficiano dell’instabilità per operare con maggiore libertà. E la disocKENIAall’ottanta percento, l’assenza di infracupazione strutture e di sostegni statali, insieme all’impennata del carovita, sono i loro maggiori alleati, e mantengono il paese sull’orlo del precipizio.

i chiama Pemex ed è l’impresa nazionalizzata del petrolio di stato del Messico. Almeno per ora. Ma il governo del presidente Felipe Calderon del Pan (Partido accion nacional) punta a smantellare il monopolio di stato sulla ricerca ed estrazione dell’oro nero per aprire le porte alla lunga fila di multinazionali straniere, soprattutto statunitensi, che premono da anni per accaparrarsi contratti miliardari. Lo snodo sta nella costituzione messicana, che prevede un meccanismo blindato per Pemex: solo i tre quarti dei voti di deputati e senatori possono modificare quell’articolo della magna carta messicana. E per questo il governo sta cercando sponde proprio nelle fila dell’opposizione. La riforma di Pemex è auspicata da due soggetti, Banca mondiale e amministrazione Usa, che lasciano intravedere quale potrebbe essere il finale dell’operazione. Negli anni scorsi cinque contratti di consulenza, secretati dal governo dell’allora Vicente Fox (ex presidente di Coca-Cola Messico) sono stati accesi con la anglo-olandese Royal Dutch Shell, la statunitense Chevron, la brasiliana Petrobras, la canadese Nexen e la norvegese Statoil. Il petrolio rappresenta la principale fonte di entrate dello Stato, il 40 percento del totale. Pemex in particolare, figura al terzo posto nella graduatoria dei fornitori esteri di greggio degli Stati Uniti con una produzione pari a 3,2 milioni di barili al giorno, di cui 1,7 milioni esportati per un valore annuo superiore ai cinquanta miliardi di dollari. I numeri, però, non finiscono qui. Perché la pressione fiscale di stato, sulla statale Pemex, colpisce il 57 percento dei ricavi. E così i conti si chiudono sempre e pesantemente in rosso. Per non parlare del capitale che viene a mancare per investire nella ricerca, perforazione e nuove tecniche di estrazione. Senza questi investimenti le riserve attuali di petrolio sono in grado di coprire soltanto nove anni di produzione. Quarantasei deputati messicani hanno reagito ai propositi del governo con uno sciopero della fame. Resta il quesito, quasi retorico: perché non puntare sull’investimento interno?

Alessandro Grandi

Angelo Miotto

I DAREF

S

Il numero dei morti nel mese di aprile*

PAESE

MORTI

Iraq Sri Lanka Afghanistan Pakistan Talebani India Nordest R.D.Congo Somalia Russia (Nord Caucaso) India Naxaliti Israele-Palestina Sudan (Darfur) India-Kashmir Turchia Pkk Thailandia del Sud Nepal Etiopia Pakistan Balucistan Filippine Npa Uganda Colombia Algeria Filippine Abusayyaf

2.232 762 439 101 84 78 77 72 66 59 53 45 33 33 23 21 19 9 9 8 5 1

TOTALE

4.229

Periodo: 13 marzo – 16 aprile 17


Qualcosa di personale Colombia

Ci resta solo la dignità Ruben Dario Sanchez* Testo raccolto dalla nostra inviata Stella Spinelli Era domenica. Arrivarono alle dieci e mezza della mattina. Stavo zappando nel mio campo, che dista quindici minuti a piedi da Remolino del Caguán. Mi tennero nel capanno degli attrezzi fino alle due del pomeriggio, poi mi portarono via. Con me, una donna che passava di lì per caso. Ci legarono, piedi e mani, ci caricarono su un mezzo e ci bendarono. o continuavo a ripetere: “Perché ci state prendendo? Non sappiamo niente, non abbiamo problemi con nessuno, siamo gente per bene”. Ma niente. I loro volti erano imperterriti, non ci ascoltavano. Erano soldati dell’Esercito del nostro governo, bardati in mimetica e armati fino ai denti. Dopo una mezz’ora di carro, ci portarono da qualche parte, non so dove. Avevo la benda nera sugli occhi, ma sentivo molta gente muoversi intorno a me e parlare. Mi afferrarono per il braccio, caricandomi su un elicottero. Erano le quattro e un quarto del pomeriggio. Lo so perché lo chiesi a chi mi stava trascinando. Mi ritrovai seduto accanto a quella campesina, compagna di sventura. Quando il velivolo atterrò, sempre bendati, ci caricarono su un furgone. Un’ora di strada sconquassata e ci ritrovammo fra quattro mura, scabre ed essenziali. Ci tolsero la benda. Ad aspettarci, un uomo alto e grosso, biondo come il grano, sguardo intenso e occhi di ghiaccio. Seduti su due sedie, sempre legati, fummo tempestati di domande, che non capivo. Era un nordamericano e parlava solo inglese. Accorse un interprete, un giovane bogotano con la faccia color cioccolato. Le domande del gringo iniziarono a rimbalzarmi in testa, senza fine: “Dov’è la guerriglia? Come si muove? Chi sono gli infiltrati?”. Tono insistente, voce piatta. “Sappiamo che tutti a Remolino siete conniventi con le Farc. Mi bastano poche parole e sarete liberi”. Eccoci qua, sempre la stessa solfa: o con noi o contro di noi. Eccola la filosofia dei gruppi armati di questo paese, “ma io non ho niente a che vedere con la fuerza insurgente”. Glielo ripetevo senza sosta. “Cosa volete da me. Sono un contadino”. Ero legato, quell’uomo di fronte a me, imponente. Lo guardavo dritto negli occhi. Passò alle domande sulla coca, sul traffico, sulle raffinerie illegali. “Sono solo un contadino”, ripetevo, cantilenante. Capii che era uno della Dea (Drug Enforcement Administration), spedito dagli Usa per indagare sui movimenti della guerriglia e sulle relazioni con il narcotraffico. Era un colonnello, per dirla tutta. E io il suo prigioniero. Anzi, sequestrato. Che rabbia, dover subire anche da gente straniera. E perché? D’accordo, la zona in cui vivo da venti anni è nel cuore del territorio ‘rosso’ del conflitto colombiano; per decenni abbiamo convissuto con le Farc, da loro siamo stati amministrati e grazie al loro nullaosta la nostra zona è diventata culla di coltivazione e di produzione di pasta di coca. a si parla di tanti anni fa. Ormai Remolino è cambiata. Da dieci anni i guerriglieri si sono ritirati più a sud, lungo il Caguán, e al loro posto sono arrivati Esercito e Marina. Siamo invasi da soldati anti-guerriglia: ci controllano, ci schedano, ci spiano. Subiamo il bloqueo di tutte le merci, perquisizioni, interrogatori. E cerchiamo di sopravvivere lavorando duro. Finita la bonanza della coca, si coltiva platano e yucca, si cerca di tirar su un po’ di bestiame e il padre Giacinto Franzoi, italiano, missionario della Consolata, da anni ci ha indirizzati e accompagnati nella coltivazione e produzione del cacao. Cosa vuole questo nordamericano da me? Più mi poneva domande, più la mia pazienza si consumava. Un altro sopruso, l’ennesimo, subito da un contadino disgraziato, e questa volta persino orchestrato da un gringo. Ma con che diritto?

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Vengono qua in nome del Plan Colombia, quel programma colombo-statunitense che intende combattere il narcotraffico, ma che in realtà copre velleità militari e di controllo del territorio della Casa Bianca, interessata a manovrare in una zona strategica, spina nel fianco di quell’America latina che sta alzando il capo dal giogo Usa, guardando sempre più a sinistra. Questa è la verità. E io, lì, legato e affamato, avrei voluto gridarglielo in faccia. a domenica trascorse. La notte non riuscii a dormire, buttato su un materasso per terra. Le corde mi stringevano i polsi, fermandomi la circolazione. Lo stomaco brontolava, forte. Per fortuna, un soldato pietoso ci dette almeno un po’ d’acqua. Brigida era distrutta, stanca. Ma non versò una lacrima. La mattina del lunedì ci lasciarono lì, seduti per terra. Niente successe per lunghe, interminabili ore. Alle tre del pomeriggio, il colonnello Richard qualcosa fece un cenno con la testa al nostro guardiano, che ci bendò di nuovo, ci caricò in auto e ci portò a Florencia. Erano le undici della notte. Ci misero a dormire in una stanza piccolissima. Alle due, mentre cercavo di prendere sonno, bussarono alla porta, con prepotenza. “Vengono per uccidermi”,pensai. “Voglio parlare con te”, mi disse il nuovo arrivato. Era un maggiore del Das, l’equivalente casereccio della Dea. “Sono un contadino”, ricominciai, la voce sempre più debole. Tanto che alla fine mi disse: “Inutile parlare con te, ti hanno fatto il lavaggio del cervello da troppo tempo, sei irrecuperabile”. Mi ributtò sul materasso e se ne andò. Alle sei si fece giorno. Ci permisero di lavarci alla meno peggio e ci portarono in giro per tutta Florencia, scortati da uomini armati, come due delinquenti. Volevano che la gente vedesse. Il sole era alto e il mio disagio un fiume in piena. A un certo punto, duro, chiesi: “Voglio sapere cosa sarà di noi: ci lascerete? Ci ucciderete?”. Senza rispondermi, mi portarono in un ristorante. Mangiai zuppa di pollo. Brigida, del pesce. Era il primo pranzo in tre giorni. Fu lì che ci chiesero di firmare la Hoja de vida, dove si dichiarava che l’esercito ci aveva trattato bene, senza soprusi, né violenze. Mi venne da sorridere: ancora violenza. “Io non la firmo adesso. Chi mi assicura che rivedrò la mia famiglia? Lo farò soltanto quando sarò nel mio pueblito”. Cederono. Ci caricarono sulla jeep del Das fino a Cartagena del Chairá. Al molo, quel piccolo familiare attracco da dove partono i mini traghetti che fanno la spola lungo il Caguán, tornarono alla carica: “Se non firmate questo foglio, niente libertà”. Non firmammo: “Solo a casa”. La gente ci osservava e furono costretti a lasciarci andare. Da allora sono tornato più volte in città per denunciare questa sporca vicenda, ma ogni volta mi rimbalzano da un ufficio all’altro. E tutto viene insabbiato. Ogni giorno, in questa regione amazzonica dimenticata da dio, ma non dalla guerra, avvengono soprusi simili, legittimati da bandiere di stato e uomini legalmente armati. E a noi non resta che la nostra dignità.

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* nome di invenzione, per questioni di sicurezza Contadino di Remolino del Caguán. Colombia, febbraio 2008. Cristiano Bendinelli


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La storia Afghanistan

Corsi, ricorsi, discorsi di Enrico Piovesana La guerriglia afgana sta combattendo da anni una jihad di liberazione contro le forze di occupazione straniere. I protagonisti di questa ‘guerra santa’ sono combattenti afgani e pachistani, legati a signori della guerra locali come Gubuddin Hekmatyar o a luogotenenti dello sceicco saudita Osama bin Laden. A coordinarli, offrendo protezione, denaro, armi e addestramento, ci sono i servizi segreti pachistani dell’Inter Intelligence Service (Isi). e forze occupanti, nonostante la loro evidente superiorità tecnologica, non riescono ad avere la meglio in questa guerra asimmetrica: scaricano tonnellate di bombe sui villaggi afgani facendo strage di civili nella speranza di far fuori, nel mucchio, anche qualche guerrigliero; arrestano e torturano gente a casaccio nella speranza di ottenere informazioni utili sul nemico. L’unico risultato di questa strategia è che l’ostilità e il risentimento verso gli stranieri invasori dilagano a macchia d’olio in una popolazione che quindi, in cerca di vendetta, sempre di più si schiera con i combattenti della jihad. I rappresentanti politici dei Paesi che occupano l’Afghanistan, o sostengono questa occupazione, definiscono i guerriglieri “bande di terroristi contrari alla democrazia afgana” e agli interessi del popolo afgano che “si è incamminato sulla via del progresso e della costruzione di un nuovo Afghanistan”. Ma da tutto il mondo, si alzano voci di condanna contro gli invasori e di solidarietà ai guerriglieri afgani. Il presidente della repubblica italiana, durante il tradizionale messaggio alla nazione di fine anno, dichiara in televisione: “Siamo preoccupati per quello che accade in Afghanistan. Ma come! Noi che siamo stati partigiani, che abbiamo lottato contro i nazisti e contro i fascisti per la libertà, dovremo rimanere indifferenti di fronte alla lotta che stanno sostenendo i partigiani afgani contro il dominatore straniero? La nostra solidarietà, quindi, ai partigiani afgani”. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite adotta a maggioranza una serie di risoluzioni in cui l’Onu “domanda il ritiro immediato, incondizionato e totale delle truppe straniere dall’Afghanistan al fine di garantire al popolo afgano il diritto inalienabile di decidere la sua forma di governo e di scegliere il suo sistema politico, sociale ed economico senza ingerenze straniere di alcun genere” e ricorda che “in virtù dei principi della Carta delle Nazioni Uniti, tutti gli Stati hanno l’obbligo di astenersi dall’impiego della forza contro la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di tutti gli Stati”. nalogamente, il Parlamento europeo condanna l’invasione e l’occupazione dell’Afghanistan, chiedendo “l’immediato e incondizionato ritiro delle truppe straniere al fine di consentire al popolo afgano di determinare la sua propria forma di governo”. I capi di Stato e di governo del Vecchio Continente, riuniti a Maastricht per una riunione del Consiglio europeo, emettono una dichiarazione ufficiale con-

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giunta che chiede “il rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Afghanistan e l’astensione da qualsiasi ingerenza negli affari interni di questo Paese”, esprimendosi in favore di una soluzione del conflitto “che preveda il ritiro delle truppe straniere dall’Afghanistan e consenta al popolo afgano di esercitare liberamente il proprio diritto all’autodeterminazione”. La guerra in Afghanistan irrompe anche nel vertice del G8, da dove esce il seguente comunicato: “Appoggiamo gli sforzi internazionali per addivenire al completo ritiro delle truppe straniere dall’Afghanistan e per restituire al popolo afgano che combatte una guerra di liberazione il suo diritto a determinare il proprio futuro”. Siete disorientati? Più che legittimo. Quello che state leggendo non è un esercizio giornalistico di fantapolitica, ma un articolo che poteva essere scritto ventisette anni fa, nel 1981. Quando tutto quello che avete letto, dalla prima all’ultima riga, stava veramente accadendo. I protagonisti della guerriglia afgana erano gli stessi di oggi; stessi nomi, stessa ideologia. L’invasore parlava russo invece che inglese, ma le differenze si fermano qui, perché si comportava allo stesso modo: sosteneva un governo fantoccio spacciandolo per democratico, bombardava villaggi facendo stragi di civili, terrorizzava la popolazione con rastrellamenti e torture e chiamava i combattenti afgani “terroristi” e “nemici del progresso”. Azioni criminali che a quell’epoca l’Occidente si poteva permettere di condannare duramente, perché non eravamo noi a compierle.

e parole di condanna contro la guerriglia afgana sono tratte dalle dichiarazioni ufficiali dei partiti comunisti dei Paesi del Patto di Varsavia, pubblicate dall’agenzia di stampa sovietica Novosti nel 1981. Il presidente della repubblica italiana che ha pronunciato quelle frasi, nel messaggio augurale alla nazione del 31 dicembre 1981, era Sandro Pertini. Le risoluzioni dell’Assemblea generale dell’Onu citate sono del 14 gennaio 1980, del 20 novembre 1980 e del 18 novembre 1981. Quella del Parlamento europeo è del 16 gennaio 1980. La dichiarazione del Consiglio europeo è del 24 marzo 1981. Il G8 è quello di Ottawa del 20-22 luglio 1981. Il materiale storico utilizzato per la redazione di questo articolo è contenuto negli atti di un convegno internazionale sull’Afghanistan tenutosi a Firenze, a Palazzo Vecchio, nel marzo del 1982. Si ringrazia il dottor Giancarlo Ghidoli per averceli forniti.

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Ritratto di Osama bin Laden. Autore anonimo


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Italia

La casa nella galleria Di Valeria Gentile L’aria pungente di fine marzo tocca le pareti e fa rabbrividire. In alcuni punti la brezza arriva da diverse direzioni e si fa corrente, gelida e indiscreta. Totò ce l’ha un tetto, ma è un tetto che trema. rema a orari prestabiliti, quando la piccola stazione ferroviaria delle Cure accoglie, o lascia, qualche vagone di passaggio in questa zona di periferia fiorentina. Non c’è una stazione vera e propria, sulla testa di Totò: non ci sono arrivi, né partenze, cartelloni o avvisi, macchinisti o ferrovieri, né passeggeri, né cani. Il piccolo marciapiede affianca il binario insieme a erbette spontanee e alberi sinistri e tutto, nebbioso d’inverno e afoso d’estate, viene inghiottito dal nulla. E come quei treni che fanno tremare, nel sottopassaggio, dove la luce del sole non arriva mai a scaldare la vita, tutto è di passaggio. Passanti sbadati con passeggini e passi veloci; ma anche, da qualche parte, passati inghiottiti, dimenticati. Niente è stabile qui, nell’incarnazione architettonica del flusso, dove il tempo sembra ricominciare daccapo ogni giorno e lo spazio si svuota di punti di riferimento. Eppure Totò se li è creati, lì, con una bussola diversa da tutte le altre, fatta di solidi valori e una rigida morale, rispetto, responsabilità. E un bisogno insaziabile di sentirsi utile nel mondo. Ha per lampadari le luci al neon del sottopassaggio, accese anche la notte; ha per vaso un grande contenitore blu dove ha dedicato, con dei fiori, un ricordo a Nicola, un artista di strada che era diventato suo amico; ha per coinquilini l’intero quartiere, e per quadri dei pezzi di carta attaccati alla parete con poesie di William Blake, Giuseppe Ungaretti, frasi di Madre Teresa di Calcutta, Gandhi, Giulio Cesare, e la canzone dei Beatles che dice “Dimmi che vuoi il tipo di cose che i soldi non possono comprare… a me non interessa il denaro perché il denaro non può comprare l’amore”. Ha per strumenti di lavoro una cazzuola e un’armonica, e per lavandino la fontana appena fuori.

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a sua casa ha otto ingressi. Tre alle estremità e due ai lati. Sono entrate, sì, ma sono anche uscite: quello è un luogo da cui si può sempre partire. Sono uscite, ma anche entrate: è un luogo a cui si può sempre ritornare. Questo è ciò che chiamiamo casa. Questo è ciò che Totò chiama “casa nostra”. Ha la cadenza inconfondibile dell’accento palermitano e la fierezza degli isolani. Ha gli occhi scuri, un corpo esile ma forte, gli occhi rossi dal freddo e dal fumo e una bocca senza più denti. Li ha persi sino all’ultimo, sebbene abbia poco più di cinquant’anni, tanta buona salute e forza d’animo da vendere. Ma avere una bocca senza denti, dice Totò, non ostacola minimamente il suonare l’armonica: e quando lui si mette a suonare, quel semplice oggetto diventa uno strumento divino. Ne possiede di cinque tipi diversi, con diverse misure, colori e suoni, tutte comunque costose. E i pochi spiccioli che i passanti del quartiere gli lasciano per suonare così magicamente, Totò li spende in palloncini per i bambini che lo adorano, in fiori freschi per le mamme che gli sorridono, in incensi profumati e detersivi per il sottopassaggio che gli ha dato un lavoro umanamente gratificante. E a volte, quando ragazzi indisciplinati scrivono brutte parole sui meravigliosi disegni che coprono tutte le pareti, Totò va a comprare la vernice e le cancella deluso e disgustato. Perché è questa la sua missione: mantenere e far mantenere l’ambiente pulito e ordinato, civilizzare la sua microsocietà.

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Il sottopassaggio di piazza delle Cure è sovrastato per una buona parte dal mercato del quartiere undici: frutta e verdura, abiti e stracci, incensi, chiacchiere e cianfrusaglie. E poco più in là, in una piccola aiuola poco verde, sorge un piccolo monumento in pietra, su cui fu inciso, nel dicembre del 1981, l’appello degli eletti dei gruppi politici nel consiglio di quartiere: “Lottare per la pace / Difendere la pace / Sia impegno sociale e civile / Per ogni cittadino del quartiere / Perché la pace è il bene / Supremo dell’umanità”. Negli ultimi dodici anni, da quando Totò si prende cura del sottopassaggio, della sua igiene e della sua viabilità, i cittadini che devono passarci tutti i giorni si sentono più tranquilli. Il piccolo uomo ha come adottato la comunità intera, passando le serate – quando il traffico è minore - a pulire e vigilare, e le giornate a suonare e animare. Su una parete ha appeso un cartello su cui ha scritto, con una calligrafia elementare ma leggibile: “Si prega ai signori viaggiatori di biciclette prudenza e attenzione. Grazie”. E quando qualcuna tra le tante persone che lo conoscono, si fermano a parlare con lui, non dimentica di coordinare il traffico di lavoratori e studenti in bici che, arrivando da diramazioni opposte del sottopassaggio, rischierebbero di scontrarsi o di ferire qualcuno; dal punto d’incontro delle diverse entrate, infatti, ha posizionato il suo banchetto e la sua sedia, in posizione strategica per il perfetto controllo della situazione. E la notte, quando tutto è più pericoloso, Totò protegge le ragazze sole dai malintenzionati. otò non è un barbone. In realtà basta andare a vedere con i propri occhi il suo atteggiamento per capire che è pieno di dignità, diritti e doveri, e una grande responsabilità sulle spalle, che non gli lascia tempo per sé, proprio come un lavoro a tempo pieno. Autoconferendosi il ruolo di manutentore del sottopassaggio – in tutti i sensi, dato che il suo mestiere, da quando aveva sette anni, è proprio il muratore – lui intende molto più che intonacare, vigilare, pulire e suonare. Per lui la vera ricchezza, nella vita, non è avere una villa o una macchina costosa: a lui basta avere il sottopassaggio a cui tornare e delle gambe per camminare. Gli basta un’armonica e una cazzuola per le sue opere: perché l’opera viene prima di ogni cosa. “Se credo in Dio?” mi ha detto. “Più Chiesa di così!” e ho capito. Totò non ha tempo per sentire la messa del parroco, che la dice giusto sopra la sua testa, all’estremo opposto: è troppo occupato a servire il suo prossimo, a onorare l’umanità, l’ambiente e tutto ciò che gli sta intorno. Si infastidisce a parlare di uomini in divisa, ma non fa di tutta l’erba un fascio, avendo avuto anche a che fare con poliziotti che gli regalarono ciò che per lui ha un valore inestimabile: lavagnette e gessetti per i bambini. E dopo aver dato dimostrazione della sua forza battendo le mani tra una flessione e l’altra, e dopo aver richiesto al mondo rispetto e non pietà, se vi capiterà di incontrarlo, tra politica, racconti della Palermo antica e una barzelletta, gli sentirete dire “Io vi voglio aiutare”.

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In alto e in basso: Nella casa di Totò. Firenze, 2008. Foto di Giovanni Presutti


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Migranti

La mia barca è piccola Di Gabriele Del Grande “L’ultima cosa che ricordo è la sensazione di un boato tremendo, come una bomba. Ricordo di aver mollato la ringhiera, mentre pioveva di tutto: sbarre di ferro, vetri, lamiere, pezzi di legno, e quella sensazione di volare nel buio per un tempo interminabile fino all’impatto con l’acqua gelida...”. ra il 28 marzo 1997. Nel canale d’Otranto, a venticinque miglia dalla costa pugliese, la nave della marina militare italiana Sibilla speronava e affondava la motovedetta albanese Kater I Rades. Morirono 108 persone. I corpi recuperati furono ottantuno. Il 19 marzo 2005 il Tribunale di Brindisi ha condannato in primo grado il pilota della Kater, Namik Xhaferi, a quattro anni di carcere e Laudadio Fabrizio, comandante della Sibilla, a tre anni. Ma dall’iter processuale sono via via scomparsi i nomi eccellenti, di quei politici e quei generali che dettero l’ordine di respingere i profughi albanesi. Fuggivano dalla guerra civile scoppiata in Albania in seguito a una gravissima crisi finanziaria. Sono passati undici anni e in mare si continua a morire.

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Le vittime censite nel mese di marzo da Fortress Europe sono ventisei, ma i dispersi in mare nello stesso periodo potrebbero essere decine e decine. Vittime di almeno sei naufragi fantasma in Turchia, Algeria, Spagna e Sahara occidentale, ma il mare ha restituito soltanto alcuni corpi. Ancora morti ammazzati invece sotto gli spari della polizia di frontiera egiziana lungo il confine con Israele, nella penisola del Sinai. Le tre vittime di marzo portano a dieci gli omicidi commessi dall’inizio dell’anno. Eritrei, ivoriani, sudanesi. La pressione è altissima, e da Tel Aviv Olmert dà carta bianca alla polvere da sparo, chiedendo al Cairo di “prevenire nuove infiltrazioni” di quello che definisce uno “tsunami”, ovviamente senza spendere una sola parola sul sangue versato. All’elenco delle vittime andrebbero aggiunti anche i nomi di Rachid Abdelsalam e Ahmad Mahmud El Sabah, morti nel centro di detenzione per immigrati di Rotterdam, in Olanda, per omissione di cure. I nomi degli almeno centoventotto somali morti annegati al largo dello Yemen, invece, non li conoscerà mai nessuno. Le vittime dell’esodo somalo sulle rotte del Golfo di Aden sono migliaia ogni anno. Troppe per fare notizia in un giornalismo ammalato di assuefazione cronica. amal ha trentanove anni ed è nato a Sidi Salem, una frazione di Annaba. Ha otto tatuaggi. Sono otto punti di inchiostro blu sul dorso della prima falange di indice, medio, anulare e mignolo delle due mani callose. Ogni coppia di punti ricorda un anno trascorso tra i parà dell’esercito algerino. Lo incontro di fronte al museo Sant’Eulalia, a Cagliari. A pochi passi dalla moschea, dove ogni venerdì un quadrato di uomini si piega sui tappeti tra le macchine parcheggiate e i passanti, in direzione della ecca. Kamal, un anno fa era a Tunisi. Ci viveva da cinque anni, lavo-

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rava come falegname. All’inizio del 2007 venne a sapere dai giornali che per la prima volta alcuni algerini erano sbarcati in Europa partendo da Annaba. Navigavano verso la Sardegna perchè quel tratto di mare era poco pattugliato. Decise di tornare in Algeria. Ma non per restare. A Sidi Salem conosceva tutti. Presto trovò il contatto giusto. Partire costava diecimila dinar, circa mille euro. Del viaggio Kamal ricorda il mal di mare, la fortissima nausea. Ricorda l’ansia delle ore trascorse a motore spento, nella notte, mentre all’orizzonte sfilavano le luci di una nave militare di pattugliamento. Poi, dopo un attimo di silenzio, accenna a quei corpi a galla tra le onde, in alto mare. Una decina. Ci passarono in mezzo. Algerini come lui. Annegati sulla stessa rotta che l’ha portato a Carbonia. Oggi Kamal lavora in una falegnameria. Gli danno trecento euro al mese. Di più non può chiedere, non ha i documenti. E comunque non è male. In Algeria non avrebbe guadagnato più di cento euro. Per adesso l’affitto non lo paga. Vive in una casa abbandonata. I soldi gli serviranno per sposarsi. Un matrimonio non costa meno di cinquemila euro. Il padre? Sapeva tutto. Quando gli ha detto che avrebbe bruciato le frontiere, non gli ha detto niente. Le parole sono diventate inutili contro la rabbia degli harragas. a stessa rabbia che trabocca insieme al dolore nelle canzoni in arabo dei rapper algerini che raccontano le ragioni degli harragas, di chi brucia le frontiere. “Vedono questo paese come un carcere – recita una canzone -, come una tomba. Si dice: non c’è fortuna, non c’è niente, solo odio”. Partono i poveri ma anche i diplomati e i funzionari. Perchè “la speranza è lontana al di là del mare”, ogni giorno qualcuno ci prova “soprattutto quando vede i suoi amici d’estate che tornano dall’Europa. Erano qui senza niente, adesso tornano e stanno bene. L’Europa gli ha offerto il lavoro, la casa e la macchina. E tu resti qui depresso e non puoi fare niente. Ti raccontano della loro vita lì ... e ti deprimi di più”. Il viaggio è pericoloso, i giornali raccontano dei detenuti in Libia e in Tunisia, le vittime dall’inizio del 2008 sono già tredici, ma bisogna avere coraggio, dice un altro brano: “La mia casa è lontana, la mia barca è piccola. Pregate dio e non scordatevi di me. Io da solo in mezzo al mare, perso e straniero, ho paura e ho freddo”. L’emigrazione è anche al centro della famosa “Ya Lebhar”, di Lofti Double Kanon, con un video molto duro sui viaggi in mare, e di “Partir Loin” di Reda Talieni.

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In alto: Immigrato in Sicilia. Italia 2007 Alexey Pivovarov/Prospekt In basso: Migranti a Lampedusa. Italia 2007, Samuele Pellecchia/Prospekt


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Rubriche

In edicola di Claudio Sabelli Fioretti

L’italiano bianco non conta In tivù di Sergio Lotti

Comici e politici Che la satira faccia più audience dei dibattiti politici, di questi tempi, non stupisce nessuno, ma quando durante la campagna elettorale che si è appena conclusa si scopre che il picco di telespettori di una trasmissione come Ballarò, per esempio, si raggiunge all’inizio, con la copertina di Maurizio Crozza, e subito dopo cala, viene il dubbio che in molte case italiane si sia caduti nell’equivoco che sia lui il politico e i veri comici siano in studio. Prendiamo una puntata a caso: Crozza se ne va, Giovanni Floris fischia l’inizio e il vicesegretario del Partito Democratico, Enrico Franceschini, prova a chiedere all’ex ministro Giulio Tremonti di spiegargli come lui della destra... Ma non finisce la domanda perché come al solito, alla parola destra, Tremonti s’incavola di brutto e con voce sempre più alterata continua a suggerire una camomilla a un serafico Franceschini, che invece preferirebbe un caffè, dice lui, per tirarsi un po’ su. Poi se la prende con il ministro Bersani, accusandolo di complicare la vita degli italiani con regolamenti intricati e troppe tasse. Altro che liberalizzazioni, grida Tremonti, dandogli del contaballe: lo sanno tutti che dietro il mercatista si annida spesso il comunista. Forse l’ex ministro di quella che tutti, in buona fede, credevamo la destra non si considera più un fautore del libero mercato? E’ per questo che nel suo ultimo libro parla di dazi? Qui il discorso si complica, lo spettacolo cala di tono e la palla passa all’ex ministro Maroni, che rianima la scena. Inizia con un pistolotto, ignorando seccato la domanda di Floris, che gli chiede cosa ne pensa di Bossi che parla di imbracciare i fucili. Come si permette, un conduttore, di interrompere le sue fini argomentazioni con queste fesserie? Poi però ci ripensa e dice che Bossi quelle cose le ripete da vent’anni, non si capisce perché si continui a trovarci qualcosa da ridire. Senza dubbio la migliore battuta della serata, anche se nessuno fa notare che in questa figura retorica, come la definisce lui (mentre Berlusconi, in un altro salotto televisivo, la chiama metafora), nella cornice medievale di Pontida, Bossi avrebbe dovuto caso mai parlare di spadoni, dal momento che i fucili apparvero qualche secolo dopo il Barbarossa. Ma si sa che nel celodurismo leghista la storia non ha una grande rilevanza. 26

Titolo: "Ucciso a 16 anni da pirata ubriaco. Era sulle strisce, esplode la rabbia". Occhiello: "I familiari delle vittime: "Strage infinita, la politica è sorda".Il giornale è la Repubblica. Titolo: "Ucciso da un’auto, un anno prima travolta la sorella". Occhiello: "Un ragazzo di 15 anni investito a pochi passi da casa. Arrestato il guidatore ubriaco". Il giornale è il Corriere della Sera. Titolo: "Ucciso a 16 anni da un ubriaco". Sottotitolo: "Travolto sulle strisce, nello stesso posto era già stata investita la sorella". Occhielli: "La madre: "Ho sentito quel colpo in strada, sono andata alla finestra. Immobile sull’asfalto c’era Gabriele". "L’uomo alla guida aveva bevuto: nel sangue un tasso quattro volte superiore ai limiti". Il giornale è La Stampa. Titolo: "Brescia, ubriaco travolge e uccide un sedicenne". Il giornale è l’Unità. Insomma leggendo anche solo i titoli, già sappiamo tutto. C’è un ragazzo di 15-16 anni che attraversa sulle strisce, a Brescia, a pochi passi da casa, e viene travolto da un’auto il cui conducente ha bevuto. E muore. L’anno prima, nello stesso posto, era stata travolta sua sorella. Ma senza conseguenze gravi. Qual è il problema? Il problema è che

non sappiamo di dov’è l’autista della macchina. Non sappiamo se è italiano o straniero, non sappiamo se è bianco o di colore. Voi direte: ma che interesse c’è a sapere queste cose? Dico io: sono d’accordo con voi, ma evidentemente ci deve essere questo interesse se i quotidiani nei titoli riportano sempre il colore della pelle del ladro, dell’assassino, dello stupratore. Ricordate? "Extracomunitario stupra studentessa", "Albanesi svaligiano villetta", "Rumeno accoltella vecchietta per rubarle la pensione". Evidentemente è importante sapere questi particolari. Non basta sapere che il pirata della strada era ubriaco, che andava molto veloce, che fa il camionista. Io voglio sapere, che diamine, se per caso era ucraino o marocchino. Vada il mio rimprovero ai giornalisti che hanno titolato la notizia e impaginato l’articolo. Queste cose gli italiani debbono saperle. PS. Comunque ve lo dico io. Il pirata della strada era bianco, italiano, lombardo. Ma certo. Non interessava a nessuno.

www.sabellifioretti.it


A teatro

Vauro

di Silvia Del Pozzo

Alla corte di Evita La prima volta che andò in scena, a Parigi nel 1970, successe un finimondo: un gruppo di fascisti diede l’assalto al teatro e distrusse tutto, dalla platea alle scene. La pièce “Eva Peron” firmata dall’argentino Copi, trasferitosi in Francia negli anni sessanta (diventato subito famoso per certe sue vignette con la “donna seduta”, una borghesuccia che dialoga con un pollo e un topo), non rendeva un gran servizio alla bionda eroina populista. Copi la presenta infatti come un’isterica e vanitosa, già malata di cancro (è morta nel ‘52) che si aggira per il palazzo presidenziale in cerca dei suoi vestiti più belli, insultando la madre e il marito. Quest’anno il testo è stato ripreso da Pappi Corsicato che ha affidato il ruolo del titolo a Iaia Forte (già protagonista dei suoi film “Libera” e “Buchi neri”). Corsicato ne fa una sorta di musical dal taglio tragicomico, grottesco, con lampi psichedelici. Immagini filmate che offrono, dei personaggi, lo stato allucinatorio delle loro anime, si intersecano con l’azione scenica. Un reality sugli ambigui e corrotti Peron che allarga lo sguardo su tutta una classe politica e sul potere. È una critica feroce, ricca però di spunti ironici, in cui la finzione prende il posto della vita e persino della morte, che diventa essa stessa esibizione e spettacolo. “Eva Peron” di Copi. Regia di Pappi Corsicato. Con Iaia Forte, Cristina Donadio, Vladimir Alekcsic. Fino al 9 maggio a Roma, Teatro India. Dal 22 al 24/5 a Torino, Cavallerizza Reale.

Musica di Claudio Agostoni

Anti-Flag

statunitense con il fragore e la potenza di un fulmine. Senza se e senza ma. Anti-Flag “The bright lights of America” Rca/Sony Bmg

Luogo di nascita: Pittsburgh, Pennsylvania. Data di nascita: 1988 (ma in questi vent’anni si sono alternate parecchie formazioni). Genere: punk rock incazzato e altamente politicizzato. Tanto per intendersi sono anti-Bush ben prima di numerosi altri colleghi. Con l’album di due anni fa, For Blood and Empire, scelsero come avversario il Rebuilding America’s Defences: Strategies, Forces And Resources for a New Century, più noto con l’acronimo Pnac: il tristemente celebre documento, firmato tra gli altri da Dick Cheney e Donald Rumsfeld, che discettava su come sottomettere l’umanità. Lottano da sempre per la liberazione dei detenuti politici e la riforma del sistema carcerario, oltre ad essere dei preziosi collaboratori del regista Michael Moore. Prodotto dal leggendario Tony Visconti (David Bowie, Morrisey etc..), il nuovo album è musicalmente feroce come i suoi precedenti, anche se a un ascolto attento si può scoprire la presenza di un pianoforte o di un violoncello. Chi è convinto che l’hardcore punk è monocorde avrà una delusione. Seconda solo all’illusione di chi credeva che con gli anni gli Anti-Flag erano destinati a diventare meno ‘estremisti’. Le liriche di The bright lights of America cadono invece sulla campagna elettorale 27


Al cinema

Si accusano Nato, Onu, Tribunale dell’Aja e Cia di non fare abbastanza per catturare i responsabili della guerra e dei massacri, si afferma che tutti sanno dove i colpevoli si nascondono ma nessuno li va a prendere. Poi, come quasi sempre nei film americani, la trama (che funziona, come pure gli interpreti) prende il sopravvento sulla denuncia. I giornalisti riescono a incontrare la “volpe” ma rinunciano alla taglia e lo lasciano andare, come a dire che sono le sue vittime e i suoi sostenitori a doverlo giudicare. In America è passato quasi nell’indifferenza: un milione di dollari d’incasso in tutto.

di Nicola Falcinella

The Hunting Party di Richard Shepard Una caccia alla “volpe”. Non è un poco convinto film di Vittorio De Sica con Peter Sellers, ma il tentativo di una star impegnata di Hollywood come Richard Gere (a sostegno dei diritti civili in Cina prima che fosse di moda e in prima fila per il Darfour e altre battaglie umanitarie) di spingere affinché si catturino Radovan Karadzic e Ratko Mladic. Il film è “I cacciatori - The Hunting Party” di Richard Shepard (già regista di “Matador”) e, dopo la presentazione fuori gara alla 64° Mostra di Venezia, arriva nelle sale italiane. Con il soprannome “volpe” è indicato il leader dei serbi di Bosnia durante la guerra 1992-95 che sullo schermo ha il volto dell’attore croato Ljubomir Kerekes. La pellicola è stata girata tra Sarajevo (riconoscibilissima nella parte iniziale e nel finale) e la Croazia e nel cast ci sono anche Terrence Howard e Diane Kruger. Prendendo spunto da un fatto vero accaduto nel 2000, l’anno in cui è ambientata la storia, “The Hunting Party” racconta di un giornalista americano (Jesse Eisenberg) che parte per l’ex Jugoslavia alla ricerca di Karadzic. Con lui ci sono un maturo reporter (Gere, che si conquista la parte del protagonista) e un coraggioso cameraman (Howard). I tre ven-

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In libreria di Giorgio Gabbi

I dannati di Malva di Licia Troisi

gono scambiati per agenti Cia e fatti prigionieri, ma riusciranno a riprendere l’avventura che in alcuni momenti assume venature da commedia.

Un noir di ecomafia nel filone fantasy, che esce in una collana dal titolo significativo: Verdenero. E nerissimo è in verità l’ambiente sotterraneo dove lavorano come schiavi i Drow, i dannati di pelle ovviamente nera che fanno funzionare la scintillante Malva, città di metallo e vetro costruita sopra il labirinto di caverne in cui sono reclusi. Verde è invece la foresta che circonda la città, e fa orrore agli inquilini delle case di vetro e


metallo che si considerano i veri e propri essere umani, e sono tutti di carnagione biancorosata. Loro nella foresta ci vanno soltanto per spedizioni di caccia ai Drow. La giustificazione ideologica di queste guerre è chiara: quei barbari, ottusamente felici di vivere in villaggi fra gli alberi, hanno bisogno che qualcuno li metta in condizione, volenti o nolenti, di svolgere un’attività produttiva. Il lavoro nobilita. Che poi si svolga in condizioni micidiali per la salute, venga retribuito con un vitto scarso e schifoso, sia incoraggiato a colpi di frusta, questi sono dettagli di organizzazione aziendale.

In compenso nel sottosuolo di Malva non c’è precariato: il lavoro coatto è a vita, finisce solo quando il corpo del lavoratore viene gettato nella fossa comune. Anche i civilissimi bianco-rosati però hanno i loro problemi: per esempio, quando devono attraversare un tratto di strada in terra battuta (una sofferenza, normalmente si spostano su passerelle mobili) o quando il vento porta il fetore della foresta fino alle loro case. Peggio ancora, quando di notte avvengono in strada misteriosi delitti. Il sospetto cade ovviamente sui dannati del sottosuolo: ma i cunicoli che portano alla città sono sorvegliati da guardie armate: come può succedere che qualche Drow riesca a farla franca? L’assassinio di un ragazzino bianco-rosato scatena il panico fra la gente di Malva: la polizia è sotto pressione, deve assolutamente trovare il colpevole. L’inchiesta diventa un viaggio nel girone dantesco in cui sopravvivono i dannati: ovviamente per saperne il risultato bisogna leggere il libro, scritto in modo molto scorrevole e costruito con gli ingredienti di un fantasy e tutta la suspence.

lettere a un chirurgo confuso scrivi a chirurgo@peacereporter.net Caro Gino, alla luce dei risultati elettorali, secondo te, come cambierà la posizione italiana rispetto alle guerre? I nostri militari sono impegnati in Afghanistan nella “missione di pace”, e sempre più spesso leggo che il presidente statunitense Bush chiede agli alleati maggiore impegno nel combattere i talebani. Credi che cambierà la posizione dell’Italia rispetto a quella missione?

All’indomani delle elezioni, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha espresso le sue felicitazioni al futuro premier: abbiamo lavorato molto bene con il vecchio governo Berlusconi, dicono, ma abbiamo lavorato bene anche con il governo Prodi. E sperano di continuare che si possa continuare, aggiungono, su una serie di fronti: “Penso ad esempio all’Afghanistan”, fa sapere Condoleezza Rice. Sì, hanno lavorato davvero bene, con il governo Prodi. E speriamo che continui, con quello Berlusconi. Non so che cos’abbiano in testa i nostri politici, o quelli statunitensi, quando parlano di “missione compiuta”, di “buon lavoro” in Afghanistan. So quello che ho in mente io nelle ultime settimane: bambini. Bambini ricoverati nell’ospedale di Emergency a Lashkargah, profondo sud afgano. Stavano dormendo, la notte tra il 21 e il 22 marzo, quando i bombardieri della Nato hanno colpito il loro villaggio, Yakhdan, nella provincia di Uruzgan. Nel nostro ospedale sono arrivati in undici, sette donne e i loro figli. Sfigurati e ustionati dalle bombe. E’ stata una strage a Yahkdan, hanno raccontato. Tanti, tanti morti. Una delle ragazze ha perso il figlio neonato. Nel letto in cui

In rete di Arturo Di Corinto

Una foglia di fico Per Corporate Social Responsibility (CSR) si intende l’integrazione di preoccupazioni di natura etica all’interno della visione strategica d’impresa. Adottando cioè un comportamento socialmente responsabile le imprese cercano di rispondere alle aspettative economiche, ambientali e sociali di tutti i portatori di interesse (gli stakeholder), siano essi il general public o i legislatori, comunità indigene nel cui territorio si trivella petrolio o consumatori sedotti all’acquisto di Suv inquinanti, agricoltori convinti a utilizzare sementi sterili o allevatori indotti ad acquistare mangimi animali. Per molti la responsabilità sociale delle imprese è solo una foglia di fico sui comportamenti irresponsabili delle aziende che, condividendo una parte

è stata ricoverata ha attaccato al seno il figlio di un’altra, anche lei rimasta ferita nel raid aereo. La Nato ha diffuso i bollettini dell’operazione: quaranta talebani uccisi in due giorni. Un “buon lavoro”. Nessuno, a parte questo giornale, ha raccontato la storia delle donne di Yakhdan e dei loro figli: anche le autorità afgane, andando a salutare i feriti nell’ospedale di Emergency, si sono lamentate dell’assordante silenzio su questo massacro – l’ennesimo, nel profondo sud afgano dove i giornalisti non mettono più piede. Poi è successo qualcosa. I bambini hanno cominciato a peggiorare. Strane eruzioni cutanee. Sanguinamenti rettali. E infine arresto cardiaco. Di quei bambini sono morti in tre, ai primi di aprile. E i nostri medici non sono riusciti a trovare una spiegazione. Che cosa stanno usando, per bombardare i villaggi afgani? Anzi - visto che l’Italia è un buon compagno di Stati Uniti, Nato e Isaf in quest’avventura afgana – che cosa stiamo usando per bombardare le case di paglia e fango dei nostri nemici? Non ho risposte. Forse ce le hanno loro, quelli che parlano di “buon lavoro”. Gino Strada

dei propri profitti con la società civile, tentano di “ripulirsi l’immagine” quando con una mano finanziano organizzazioni no profit che realizzano pozzi d’acqua in Africa e con l’altra – tramite una controllata – gestiscono la compravendita di armi e rifiuti negli stessi luoghi. Il mondo del non profit e della comunicazione sociale questo lo sa e, considerandolo un terreno impervio, cerca perlomeno di aumentare la trasparenza di tali operazioni. Ma c’è un modo immediato in rete per capire chi controlla cosa e verificare se il comportamento virtuoso di un’azienda in un campo corrisponda al comportamento irresponsabile in un altro. “Theyrule” è un’applicazione web che permette di sapere fino a che punto le multinazionali sono collegate fra di loro individuando tale legame nei manager che siedono contemporaneamente al tavolo d’amministrazione di un’azienda ecologista e di un’azienda petrolifera. E se venisse aggiornato e adottato dal non profit ci aiuterebbe a capire quanto pochi sono quelli che decidono le politiche globali, “quelli che comandano”, appunto. (http://theyrule.net) 29


Per saperne di più Sderot LIBRI AMIRA HASS, Domani andrà peggio. Lettere da palestina e Israele, 2001-2005. Fusi Orari Amira Hass è una famosa giornalista israeliana che scrive per il quotidiano più progressista del paese, Haaretz. Da anni racconta la storia del conflitto israelo-palestinese dai territori occupati, prima da Gaza e, oggi che non è più possibile stare nella Striscia, da Ramallah. Amira Hass tiene anche una rubrica settimanale sulla rivista Internazionale, in cui racconta con ironia e sguardo disincantato vicende comuni, gli amori, gli odii e le amicizie nella vita delle persone costretta a convivere con l’occupazione. Questo libro è una raccolta di quelle storie. ROBERTO BALDUCCI, La bomba Hamas. Storia del radicalismo islamico in Palestina. Datanews. Uno dei saggi più aggiornati per comprendere la storia del movimento islamico palestinese, le sue connessioni e i suoi obiettivi. La ricerca di Balducci si ferma nel gennaio 2006, con la vittoria a sorpresa delle elezioni palestinesi. Un valido strumento per contestualizzare il ritratto che i media mainstream propongono della milizia e comprendere più in profondità le ragioni del suo isolamento. MICHEL WARCHAWSKY, A precipizio. La crisi della società israeliana. Bollati Boringhieri. Warchawsky è uno dei fondatori dell’Alternative Information Center, un centro di informazione sul conflitto, gestito assieme da israeliani e palestinesi. In questa sua opera tenta di spiegare le dinamiche che stanno portando la società israeliana a rinunciare a diversi aspetti fondamentali delle democrazie e a mettere in secondo piano i diritti dei cittadini. L’autore descrive il passaggio senza transizione, nel 1948, dalle organizzazioni nazionali-coloniali verso a una struttura statale ancora in via di definizione, oggi fortemente legata alle politiche statunitensi e sensibile agli interessi dei coloni. Israele rischia di diventare uno stato integralista. EDWARD SAID, Fine del processo di pace. Palestina e Israele dopo Oslo. Feltrinelli Questo saggio di Saìd, uno dei più noto intellettuali palestinesi, scomparso nel 2003, è una raccolta degli scritti che l’autore ha dedicato al “dopo Oslo”, cioè al cosiddetto processo di pace tra Palestina e Israele, a partire dal 1995 fino alla seconda intifada. Said sostiene senza timore che i cosiddetti accordi di Oslo sono una strada cieca, il cui frutti avvelenati si possono cogliere ancora oggi viaggiando per i Territori Palestinesi e leggendo quanto accade nei colloqui del vertice di Annapolis. Saìd non era un autore partigiano, anzi, sapeva individuare e indicare le responsabilità del governo israeliano, ma anche quelle dell’Autorità Palestinese e delle nazioni occidentali. JOE SACCO, Palestina. Una nazione occupata. Mondadori Joe Sacco, maltese-americano, è un giornalistadisegnatore che lavora sul campo come un antropologo in zone di guerra. Il suo reportage a fumetti svela i dettagli e le sfumature della vita di tutti i giorni nei Territori Occupati Palestinesi. GIANLUCA SOLERA, Muri, lacrime e za’tar. Nuova Dimensione Muri, lacrime e za’tar è il viaggio di un pellegrino che ha evitato i tour organizzati per scoprire luoghi e persone della Terra Santa. È un diario che registra sia la sofferenza della popolazione palestinese, con il suo ripiegarsi sulle piccole cose della loro identità (come l’olio di oliva e lo za’tar, una spezia a base di timo) che le conseguenze sociali e umane dell’occupazione sugli israeliani. Tra muri e campi profughi, l’autore incontra politici, rifugiati e professori, religosi, miliziani e gente 30

comune, ma anche un colono e un rabbino che lo introducono al mondo degli insediamenti e nella società beduina. DOMINIQUE LAPIERRE, Gerusalemme! Gerusalemme! Nel corso del sessantesimo anno dalla nascita dello Stato di Israele, questo romanzo ne ricorda la tormentata genesi. Nel maggio del 1948, mentre gli ebrei festeggiavano la nascita di Israele, gli arabi già si preparavano alla lotta, che ancora oggi non può dirsi conclusa. Questo romanzo racconta con minuzioso dettaglio gli uomini, i drammi, i fatti di quella tragica stagione.

SITI INTERNET http://www.alternativeinfo.org Sito di informazione sul conflitto, gestito da israeliani e palestinesi. http://www.sderotmedia.com Sito di divulgazione delle storie umane relative al problema dei razzi Qassam a Sderot. http://www.palestine-info.co.uk Il sito di informazione ufficiale di Hamas. http://jewishactivistnetwork.com Organizzazione ebraica che ha sostenuto la popolazione di Sderot. http://www.haaretz.com Quotidiano della sinistra israeliana. http://www.jpost.com Uno dei quotidiani conservatori israeliani. http://www.ochaopt.org Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari nei Territori Occupati Palestinesi. Utile soprattuto per le ottime mappe tematiche e per le illuminati presentazioni in power point.

FILM SAVERIO COSTANZO, Private. Istituto luce Mohammed è un insegnante di letteratura inglese, lavora nei territori palestinesi dove vive con la moglie e i cinque figli. La loro una casa però si trova tra un villaggio palestinese e un insediamento di coloni, il che ne fà un luogo strategicamente utile per l’esercito israeliano. I soldati decidono di occuparla ma Mohammed si rifiuta categoricamente di cedere alle armi e di abbandonarla. HANY ABU ASSAD, Paradise Now. Medusa Home Entertainment Paradise now è la storia di un palestinese di Nablus che viene spinto a compiere un attentato suicida a Tel Aviv. Spinto anche dall’avere avuto un padre collaborazionista con gli israeliani, il giovane si avvicina al momento di non ritorno rinunciando all’amore per una donna e all’affetto della famiglia per immergersi nell’ideale del martirio per il suo popolo. Il film segue il giovane e un suo amico nelle ultime 48 ore prima dell’attentato: i riti della preparazione fisica e spirituale, la foto da martire che verrà poi affissa in città, il video per i fedeli e i famigliari e poi la strada che lo porta verso il territorio israeliano.

Russia LIBRI MIHAIL HELLER, ALEKSANDR NEKRIC, Storia dell’Urss. Dal 1917 a Eltsin Bompiani, 2001 Un’opera affascinante e documentata a cui in questa edizione, la terza, i due autori, formatisi nell’ex Urss ma attivi in Europa e America, hanno aggiunto un capitolo conclusivo. Quando uscì per la prima volta in francese nel 1982, infatti, nulla lasciava intendere che nel giro di soli dieci anni quell’immenso impero si sarebbe dissolto. Così suonavano allora le parole finali di questo libro: "I successi del sistema sono evidenti ma - aggiungevano gli autori - la storia non si è ancora fermata". Mai profezia fu più esatta: lungi dal fermarsi, la storia travolse ogni cosa con la furia di un fiume in piena. I due autori ricostruiscono la storia del-

l’impero sovietico in modo imparziale e accattivante. LAPIERRE DOMINIQUE, C’era una volta l’Urss Net, 2007 Nel 1956 Dominique e Aliette Lapierre approfittano di un momento in cui le relazioni diplomatiche tra Francia e Urss sono particolarmente buone e ottengono il permesso di viaggiare in terra sovietica in qualità di reporter per "Paris Match". Affiancati da due amici e da una coppia di giornalisti di un quotidiano della gioventù comunista, hanno l’opportunità di muoversi in totale libertà tra Mosca, Kiev, Yalta, fino ad arrivare in Georgia lungo la "strada del Sud". Intervistano i contadini dei kolkhoz e le commesse dei grandi magazzini moscoviti, visitano i luoghi storici o di culto (la città natale di Stalin, la chiesa di San Sergio a Zagorsk che ospita un’icona di Rubliov), vivono avventure del tutto impreviste (tra cui gli immancabili guasti all’auto e qualche problema con i militari), entrano nelle case di una popolazione eterogenea accomunata da uno straordinario senso dell’ospitalità e incontrano carovane di zingari e misteriose tribù "che neppure la rivoluzione ha osato toccare".

SITI INTERNET http://weblist.ru Un’esaustivo elenco di tutte le risorse on-line, dall’arte alla geografia, alla storia, all politica. http://goeasteurope.about.com Recensioni sui migliori itinerari di viaggio in Russia. http://www.gov.ru Il sito del governo russo... in russo.

FILM LIDIYA BOBROVA, Oy, vy, gusi..., Russia 1991. La vita desolata delle campagne russe negli anni ‘80 descritta attraverso la storia di tre fratelli, ciascuno con temperamenti differenti ma accomunati dalla stessa insofferenza per l’esistenza nell’azienda collettiva, in netto contrasto con il glamour delle Olimpiadi di Mosca del 1980, che i protagonisti però vedono solo in televisione. Prima della perestrojka, la regista non avrebbe potuto lavorare a un film così, realistico, triste e lirico al contempo. Al Toronto Film Festival, il film è stato presentato come una pellicola "contenente un’atmosfera potente di autenticità destinata a renderlo uno dei classici del cinema russo". Il titolo è tratto da una canzone nostalgica russa, che racconta di come le oche selvatiche abbiano la possibilità di migrare verso climi più miti. Possibilità negata ai lavoratori del kolkhoz. AKIRA KUROSAWA, Dersu Uzala, il piccolo uomo delle grandi pianure, 1975 Una storia sul rapporto tra uomo e natura, sull’amicizia, sull’umanità. Premio Oscar nel 1975 come miglior film straniero. Il capitano Arseniev conduce una spedizione geografica al confine della Cina, nella desolata regione del fiume Ussuri. Una sera, si presenta agli esploratori un cacciatore della tribù Gold. E’ Dersu Uzala, esperto della regione, la cui famiglia è stata sterminata dalla peste. Dersu insegnerà ai membri della spedizione i segreti della natura, salvando la vita ad Arseniev durante una tempesta. A sua volta, il capitano salverà Dersu dalle rapide di un torrente. Dopo un addio carico di emozione, i due si ritroveranno nel corso di una seconda spedizione. Ma Dersu sta divenendo cieco. Arseniev lo conduce in città, e lo ospita in una casa alla quale il Gold non è abituato. Quando Dersu sente la nostalgia della taiga, Arseniev gli regala un fucile. Appena rientrato nella taiga, Dersu viene derubato e ucciso col fucile che gli era stato regalato.


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