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mensile - anno 3 numero 5 - maggio 2009

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Grecia anno zero

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

Cambogia Bolivia Giappone India Migranti Italia

Un passato molto presente La guardia dal poncho rosso Sopravvissuto a due atomiche Tutto il mondo è (bel)paese Pescatori di uomini Terremoto e guerra

Gino Strada, portiamo al G8 un nuovo modello di crescita: l’eccellenza Il ventesimo fascicolo dell’atlante: il mondo in nucleare


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L’indifferenza è la più atroce delle armi. Nel mondo ci sono ancora 26 conflitti in corso e PeaceReporter se ne occupa da anni attraverso il suo sito internet e la sua rivista mensile. Storie, reportage, audio e video che parlano di guerra. Ma anche di pace, perché le buone notizie sono il modo migliore per cominciare una giornata. Ascolta il mondo. Leggi PeaceReporter.

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È più facile che una gomena passi per la cruna di un ago piuttosto che un ricco entri nel regno dei cieli Gesù di Nazareth

maggio 2009 mensile - anno 3, numero 5

Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Christian Elia Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Nicola Sessa Stella Spinelli Naoki Tomasini

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Blue & Joy Paolo Busoni Gianpaolo Concari Gabriele Del Grande Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Nicola Falcinella Luca Ferrari Giorgio Gabbi Paolo Lezziero Sergio Lotti Vito Francesco Polcaro Andrea Rosa Claudio Sabelli Fioretti Gino Strada Alessandro Ursic Vauro

Progetto grafico Guido Scarabottolo Oliviero Fiori Segreteria di redazione Silvina Grippaldi

Amministrazione Annalisa Braga Redazione e amministrazione Via Bagutta 12 20121 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net Stampa Graphicscalve Loc. Ponte Formello - 24020 Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 9 marzo 2009 Pubblicità SISIFO ITALIA SRL Vicolo don Soldà 8 36061 Bassano del Grappa (VI) Tel. 0424 505218 www.sisifoitalia.it info@sisifoitalia.it

Hanno collaborato per le foto Alfredo D’Amato/Prospekt Luca Ferrari/Prospekt Francesca H. Mancini/Prospekt Samuele Pellecchia/Prospekt Alessandro Ursic

Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Meravigli 12 - 20123 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07 Foto di copertina: Grecia: aspettando tempi migliori Christian Elia ©PeaceReporter

L’editoriale di Maso Notarianni

Case, non bombardieri ue giorni dopo il terremoto in Abruzzo, l’otto aprile, le Commissioni Difesa di Senato e Camera hanno espresso parere favorevole (con solo l'astensione dei commissari del Pd) sul piano governativo per l'acquisto di 131 caccia-bombardieri F-35 e per l'ampliamento della base aerea di Cameri (Novara) dove i velivoli verranno assemblati. Un piano di riarmo che in diciotto anni ci costerà oltre 17 miliardi di dollari, pari a 13 miliardi di euro. Una spesa enorme “a cui si farà fronte - si legge nel documento della Commissione camerale - attraverso risorse già individuate nell'ambito delle disponibilità dello stato di previsione del Ministero della Difesa nonché attingendo ad altre fonti di finanziamento”. Siamo abituati a pensare male, ci hanno abituati a farlo a dire il vero, ma non ci stupiremmo se si venisse a scoprire, prima o poi, che tra le altre fonti di finanziamento ci sia anche l’otto per mille, che i cittadini versano perché sia speso per “interventi straordinari per fame nel mondo, calamità naturali, assistenza ai rifugiati, conservazione di beni culturali” e invece è già stato più volte utilizzato per rifinanziare la nostra missione di guerra in Afghanistan. Intanto, in Italia, tra una velina e una polemica con Veronica, si gratta il fondo del barile per riuscire a trovare i quattrini per la ricostruzione in Abruzzo. Che non ci sono proprio perché i fondi dell’otto per mille sono stati usati per andare a fare la guerra. E allora vai di G8, che magari non serve a nulla, visto che gli abitanti dell’Abruzzo non andranno certo a vivere negli alberghi ricostruiti a spese dello Stato per ospitare i grandi del mondo. E vai di G8 che magari con quella scusa (la fretta, la sicurezza, gli affari di Stato) si riescono anche ad evitare i controlli del pool antimafia che dovrebbe vigilare sulla ricostruzione. Prendiamo un po’ di soldi magari anche al cinque per mille, oppure taglamo ancora un po’ il bilancio della Cooperazione internazionale (gia ridotto di oltre il 60 percento). Nessunno, ovviamente, ha alzato un ciglio di fronte all’assurdità di una spesa di tredici miliardi di euro per dei cacciabombardieri. Perché questa scelta è stata fatta da D’Alema, portata avanti da Prodi, e conclusa da Berlusconi. Del resto, che senso avrebbe spender soldi per aiutare i più deboli nel mondo quando si è già deciso di dotarsi di bombardieri per andarli a spianare?

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Migranti a pagina 24

Grecia a pagina 4

Giappone a pagina 18

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Italia a pagina 22

Scritti, disegni e fotografie anche se non pubblicati non verranno resi.

India a pagina 20

Cambogia a pagina 10 3


Il reportage Grecia

Grecia anno zero Di Christian Elia I luoghi della memoria spesso si ammalano di retorica. Una lapide, una statua, una targa. Simboli che, prima o poi, finiscono coperti di polvere. utto questo, ancora, non è accaduto a Exarchia, il quartiere di Atene che é ormai noto in tutto il mondo. Un fatto di cronaca che più nera non si può. E' il 6 dicembre. Un ragazzo di quindici anni, Alexis Grigoropoulos, festeggia con i suoi amici il giorno di San Nicola. Per i greci l’onomastico è quasi più importante del compleanno, si esce e si fa festa. Alexis è in uno dei mille locali fumosi ed elettrizzati dalle chiacchiere di centinaia di persone che costellano Exarchia. Un inseguimento, un trambusto che squassa la baldoria. I ragazzi escono di corsa dai locali, per vedere che accade. Alexis è uno di loro. Alexis viene ucciso da un poliziotto. A Exarchia scoppia l’inferno, ma le fiamme dilagano in fretta in tutto il Paese. Un episodio terribile, ma è difficile pensare che il mese di guerriglia urbana che ha seguito la morte di Alexis possa essere legato solo all’omicidio di un ragazzo. Oggi, a Exarchia, Alexis è ricordato all’angolo tra due piccole strade, dove è stato ucciso, da una piccola teca con dei ceri, una targa triste e sobria voluta da sua madre, un cartello che ha ribattezzato con il nome del ragazzo la via. Ricorda piazza Carlo Giuliani, nata spontaneamente a Genova al posto di piazza Alimonda. Un altro ragazzo, la stessa rabbia. Infine uno striscione, nero con le lettere bianche. Recita: “Non dimentichiamo, non perdoniamo”. Che fine ha fatto, oggi, quella rabbia? Leggendo i giornali sembra che sia ancora là, tutta intera. Non passa giorno che ad Atene non si abbia notizia di una bomba artigianale esplosa o di un assalto contro le case di uomini politici, banche, istituzioni finanziarie, sedi di partiti politici, imprese commerciali ed enti pubblici. A volte gli attacchi vengono rivendicati da un gruppo che si firma Squadre della Violenza Metropolitana, che si rifà al bagaglio storico – ideologico dell'anarchismo insurrezionalista. Altre volte, con modalità tattiche e di comunicazione molto differenti, gli attacchi vengono rivendicati da un gruppo che si firma Lotta Rivoluzionaria o la Setta dei Rivoluzionari, più vicini al modello del terrorismo anni Settanta. Solo che siamo nel 2009, in Grecia, Unione europea. Il quartiere di Exarchia è annunciato da un ingente dispiegamento di forze dell'ordine. Tute blu, tute verdi ed equipaggiamenti che ricordano più militari in missione in un teatro di conflitto che la polizia di un Paese civile. ''Loro qui non entrano, però. Stanno sui confini del quartiere. Senza metterci piede'', sorride sornione Ilias, mentre entra in un bar per quella che vuole chiamare 'chiacchierata' e non intervista. Tono informale, ma lezione introduttiva sulla storia dell'anarchia. Ilias è uno di loro, uno di quelli che spaccano tutto. Ragazzone grande e grosso, non ha un'aria minacciosa e non tenta neppure di averla. Uno di quelli che, quando lo ritiene necessario, scende in piazza a scontrarsi con la polizia. Com'è accaduto il 6 dicembre scorso. ''Mi è arrivato un sms. Diceva: succederà il finimondo. In mezz'ora eravamo tutti in piazza, ma in breve la tensione è uscita da Exarchia e ha contagiato tutta la città. Poi è uscita anche da Atene e si è diffusa in tutta la Grecia. Tanti sono rima-

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sti stupiti di tutto quello che è accaduto dopo la morte di Alexis e continuano a stupirsi per quello che accade. Ma non c'è nulla di cui stupirsi. L'omicidio è stato il detonatore di una rabbia che, quel giorno, ha visto lottare fianco a fianco ragazzi e adulti. Alcuni sono arrivati con il padre per protestare. Di solito noi anarchici ci mobilitiamo con un piano predefinito, ma a dicembre nessuno si preoccupava di cosa sarebbe accaduto il giorno dopo. E' stato come – racconta Ilias, sorseggiando piano una birra, mentre guarda nel vuoto mettendo a fuoco i ricordi – vedere la protesta, in fretta, trasformarsi da vendetta in ribellione''. Alla lunga, però, la distruzione di un esercizio commerciale finisce per ottenere l'esito opposto, allontanando da certe istanze un cittadino medio. ''Allora li uccideremo tutti!'', risponde Ilias, esplodendo in una risata fragorosa. ''Scherzi a parte del negozio non rispondo, ma quando distruggi un bancomat distruggi il simbolo di qualcosa che è parte integrante di un sistema che va cambiato. Con lo scontro. Non c'è altra via e non c'è un progetto. Altrimenti si finisce solo per sostituire una leadership con un'altra. Prima si cambia il sistema, poi la gente liberata deciderà cosa fare della propria vita. Questo ci differenzia dai gruppi d'ispirazione marxista: il progetto rivoluzionario. Io non metto bombe, ma rispetto tutte le forme di lotta...non esiste un metodo giusto o sbagliato per cambiare le cose. Bisogna cambiarle, lottando contro il sistema e contro la polizia, che di questo sistema è il cane da guardia''. i fosse in giro ancora un Pasolini, magari, farebbe notare che anche i poliziotti vengono dal disagio sociale e dalla povertà. ''Nessuno gli nega di unirsi a noi. E' lo stesso discorso del negoziante...finché non si ribella, sta con il sistema''. Non è finita con dicembre, allora? ''No. C'è un onda che si muove, non solo in Grecia. Un sistema che si troverà ad affrontare la rabbia degli studenti, ma anche quella degli operai e di tanti altri. L'ondata di scioperi che attraversa la Grecia è solo l'inizio. Ma ancora non c'è il giusto collegamento tra i movimenti. Questo sistema predatorio, però, mostra la corda: in pochi anni ci saranno cento, mille Exarchia e i fatti di dicembre vi sembreranno una passeggiata'', conclude Ilias, con un sorriso che non riesce a essere sinistro. Le previsioni di Ilias, magari, finiscono per essere un po' condizionate dalla sua giovane età. L'ondata di scioperi in Grecia, però, è un dato di fatto. Medici, insegnanti, agricoltori, autotrasportatori: non c'è una categoria che negli ultimi mesi non sia scesa in piazza. Tra i più attivi i lavoratori portuali. Il Pireo, secondo la gente del posto, va considerato una città a parte, distante e diversa da Atene, anche se solo poche stazioni di metropolitana separano la capitale dal suo porto. Il polo commerciale più importante

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In alto: Al lavoro per restaurare il Partenone . In basso: La bara di Alexis Atene, Grecia 2009. Christian Elia ©PeaceReporter


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d'Europa. Come spesso accade negli ultimi mesi i lavoratori sono riuniti in assemblea. Tra omoni con mani grandi come pale meccaniche, nubi di fumo e risate emerge il corpo minuto di Anastasia, leader del sindacato. Bassa e magrolina, ma con uno sguardo di ferro che le permette di farsi ascoltare in religioso silenzio dai portuali che la circondano, rispettosi come giganti buoni. ''Il discorso è semplice quanto drammatico: vogliono vendere una parte del Pireo a una compagnia cinese. Non lo permetteremo'', risponde Anastasia, con un tono così perentorio da far credere che l'intervista sia finita così. ''Ci sono enormi interessi economici in ballo e il governo greco sta spingendo per una soluzione che gli permette, allo stesso tempo, di ottenere un enorme beneficio politico nei confronti del governo cinese e un enorme interesse economico per la cessione di un settore strategico. La Cina ha bisogno di un porto europeo e ha puntato sul Pireo, perché il governo greco è il più debole dell'Ue. Il problema è che vogliono fare tutto questo sulla nostra pelle. Il governo sfrutta la crisi economica per far accettare all'opinione pubblica una compressione paurosa dei diritti dei lavoratori. Ricordate: al Pireo si sta conducendo una battaglia che va oltre la vicenda della cessione degli asset di questo porto. Qui si decide una politica che passa sopra la testa dei lavoratori. Una politica che mette in un angolo i dipendenti, privandoli della loro forza di contrattazione e delle tutele del lavoro. Ma daremo battaglia'', dice Anastasia, con una voce ferma, nel silenzio di centinaia di facce che la guardano pensierose. E' una battaglia isolata o sentite di avere attorno anche altre categorie? Gli studenti, ad esempio. ''Il clima, in Grecia, è pesante. E credo che presto lo diventerà anche fuori dalla Grecia. Per ora ciascuno va per i fatti suoi, ma si sta lavorando al coordinamento, anche con gli studenti. Questa volta, rispetto al passato, c'è meno voglia di farsi guidare da un partito o da un sindacato e questo mi spaventa. La rabbia è tanta e rischia di finire fuori controllo. Mi creda: tanti, anche tra di noi, subiscono il fascino di una lotta estrema. Troppi compromessi e troppe delusioni hanno portato la gente a perdere fiducia in partiti e sindacati. Questo non promette nulla di buono''. Yannis Milios, docente di Economia Politica e direttore della rivista Thesis è come uno scoglio al quale attaccarsi nel fluire constante di ragazzi nei corridoi dell'Università di Atene. Un movimento perenne, scandito dai colori delle associazioni di appartenenza. Un'attività politica senza sosta, con lo sfondo delle scritte sui muri che non lasciano intonso neanche un centimetro delle pareti. egli ultimi anni, in Grecia, si è assistito a un deterioramento generale della situazione dei giovani. C'è una massa enorme di giovani che viene chiamata 'generazione 700 euro', rispetto al loro salario, ma le assicuro che alcuni di loro lavorano per molto meno'', spiega il docente. ''I governi, di centro destra e di centro sinistra, hanno stipulato un patto scellerato con i vertici della finanza e dei sindacati, che rende l'accesso al mercato del lavoro per i giovani sempre più difficile dal 1983. Una vera e propria discriminazione dei giovani, generata da una situazione di costrizione che gli nega le chance che hanno avuto i loro genitori di farsi una vita, di costruirsi un futuro. E la situazione va sempre peggio''. Non molto differente, però, dalla situazione dei giovani in Europa e nel mondo. Perché qui la protesta assume toni così esplosivi? ''Lei dimentica il fattore della brutalità delle istituzioni. Una prima forma di abuso, rispetto a tutti gli altri paesi europei, è il servizio militare al quale i ragazzi greci sono ancora obbligati. Ma più di tutto è la violenza della polizia a segnare i rapporti tra i giovani e le istituzioni. Nel biennio 2006 – 2007 ci sono state tante proteste per la proposta di riformare l'articolo 16 della Costituzione che sancisce l'intangibilità dell'istruzione e il divieto di privatizzarla. C'è stata un'insurrezione e il progetto è stato bloccato, ma i ragazzi hanno pagato un prezzo alto. Arresti arbitrari, violenze, abusi. Questo radicalizza sempre più la protesta e spinge i ragazzi a sentirsi soffocati da una società che li reprime economicamente e culturalmente. E la situazione peggiora sempre più, anche perché adesso anche i dipendenti 'adulti' si trovano sotto attacco, rendendo il futuro sempre più fosco''. Una situazione esplosiva, una bomba innescata. Ma è davvero così? Apostolis, giornalista che lavora per il network indipendente Interpress Service, si aggiusta gli occhialetti da intellettuale che cascano sul naso,

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come se volesse riflettere con attenzione su quello che deve rispondere. Come si fa con le cose importanti. ''Siamo già alle leggi speciali: adesso hanno vietato i cappucci in manifestazione! Volevano mettere mano alla 'legge dell'asilo', come viene chiamata da noi la norma che risale alla rivolta contro il regime dei Colonnelli che tutela gli atenei dall'ingresso della polizia, ma non hanno osato tanto'', commenta ironico Apostolis. ''Il governo, con il contributo determinante dei media generalisti, vuole creare un clima di criminalizzazione dei movimenti, tacendo delle loro istanze per sottolineare l'aspetto violento delle dimostrazioni. Paura, destabilizzazione, insicurezza. Queste sono le parole d'ordine per generare un clima di terrore nella gente e convincerla che la stretta sui diritti civili è necessaria. Sfruttando anche la crisi economica, che rende le persone ancora più vulnerabili''. Hanno ragione gli anarchici allora, non c'è altra via che il confronto con le forze dell'ordine. ''No, non è così. Siamo un Paese balcanico, amiamo le esagerazioni. Non tutti i media sono uguali e in Grecia, dall'estrema sinistra all'estrema destra, tutti hanno il loro mezzo d'informazione'', sostiene il giornalista greco. ''In questo momento esiste uno spazio sociale del disagio, caratterizzato da una grande fluidità. Persone differenti per età e cultura si ritrovano a contrapporsi a un sistema che non tollerano più. E' difficile dire cosa accadrà all'interno di questo spazio sociale. Lo diranno i prossimi mesi, quando i mancati proventi del turismo e il crollo degli incassi dei porti commerciali renderanno la situazione ancora più dura. Può accadere di tutto, dalla deriva violenta dello spazio sociale a una crescita dello stesso, verso forme di una nuova politicizzazione autogestita che già cominciano a vedersi in giro. Inoltre non è così semplice per il governo criminalizzare tutti: la Grecia ha una solida tradizione di contrapposizione al potere. Per certi versi'', aggiunge sornione Apostolis, toccandosi ancora una volta gli occhiali, ''qui siamo tutti un po' anarchici. Certo, questa politica del governo non è affatto lungimirante. Prendete il caso del Pireo: non conviene criminalizzare le istanze sociali, perché si può ottenere l'effetto contrario, radicalizzando la protesta. Da qui a subire il fascino di gruppi come Lotta Rivoluzionaria ce ne passa. Gli anni del gruppo armato chiamato 17 Novembre sono lontani. Loro prima di colpire un innocente avevano il sostegno della gente, avevano una struttura ben radicata e guidata da un gruppo dirigente solido. Questi gruppi sono sconnessi dalla realtà, sono elementi borderline della sinistra radicale. Alla fine fanno più comodo al governo stesso, per criminalizzare il movimento''. Al punto da essere un'emanazione stessa del governo? Bisogna chiederlo alla persona giusta, l'avvocato Yianna Kurtovik. Nel suo ufficio spartano di Exarchia Yianna ha gli occhi stanchi: un'altra giornata a difendere in tribunale studenti arrestati a dicembre o migranti senza diritti le ha disegnato un'aria scura attorno al volto magro. Lei, nel 2002, ha assunto la difesa dei vertici della 17 Novembre, che prese il nome dal giorno della violenta repressione della rivolta degli studenti del Politecnico di Atene, il 17 novembre 1973, durante la dittatura dei colonnelli (1967-1974) e ha avuto come obiettivi principali gli interessi Usa in Grecia e alcuni imprenditori. Si avevano ben poche notizie su questo gruppo fino al 2002 quando venne arrestato uno di loro. Nel 2003 sono stati tutti condannati. ''Esiste una nuova generazione della lotta armata. La repressione violenta e i metodi utilizzati ai tempi della lotta contro la 17 Novembre ha creato un nuovo fronte contro lo Stato e la lotta armata, che pareva sconfitta, è diventato il metodo di una nuova generazione'', spiega l'avvocato. ''Questo sistema dà un senso a queste azioni di lotta armata, che però diventano il pretesto per nuove misure repressive. Il governo e la magistratura hanno continuato a tutelare le forze dell'ordine e i loro abusi. In Grecia, dalla fine della dittatura a oggi, ci sono sessantasette casi di omicidio da parte della polizia. Inaccettabile. Le azioni della 17 Novembre dopo la dittatura, dove la destra dominava in Grecia, in uno Stato nello Stato, nelle istituzioni e nelle forze dell'ordine, erano apprezzate dalla gente. Adesso non succede, ma chi sceglie la lotta armata viene comunque rispettato, se non colpisce innocenti. Sono modalità di lotta diverse dalle mie, ma che piaccia o no, sono una forma di resistenza del popolo. E non è finita qui''. In alto: Manifestazione di protesta per le vie di Atene. In basso: Cittadini salutano i manifestanti. Grecia 2009. Christian Elia ©PeaceReporter


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I cinque sensi della Grecia

Udito Non si riesce a fare un passo, ad Atene e altrove in Grecia, senza la colonna sonora della Babele delle lingue di tutto il mondo. La crisi economica mette a rischio anche il settore turistico, da anni punto di forza del Paese. Ma le voci dei turisti, per il momento, continuano a raccontarsi a vicenda le meraviglie della Grecia.

Vista Fino a notte fonda non c'è problema: sigarette, ricariche telefoniche, giornali e riviste e dolciumi di ogni genere si possono reperire in Grecia. La rete dei periptero, come vengono chiamate le edicole agli angoli delle strade, sono sempre in funzione, come un punto di riferimento per il passante. Gabbiotti di colore rosso o verde, illuminate da lampade gialle, disseminano le città e rendono l'idea di una vita notturna che non si ferma quasi mai. Le scritte sui muri ci sono ovunque, ma ad

Atene fanno parte del corredo urbano. E' come se la storia contemporanea di questa città avesse preso le mura come una sorta di libro aperto, tra le cui pagine scorre la storia della città, scandita da sigle di partiti e movimenti, murales d'ispirazione politica e frasi, più o meno, minacciose.

Gusto Ovunque, ma proprio ovunque, c'è da mangiare. Carne, pesce e formaggio. La Grecia sembra un'accademia del gusto a cielo aperto. Sapori forti come la sua gente. La nouvelle cousine, qui, non è gradita.

Olfatto Per il fumatore medio dell'Unione europea la Grecia è uno spasso. Ovunque si può fumare e l'odore, per coloro che vivono in paesi dove ormai è vietato fumare ovunque, la puzza è molto forte. I cartelli bianchi e rossi ci sono, uguali a quelli di

tutta Europa, ma i Greci sono un po' anarchici e il divieto non lo rispetta quasi nessuno.

Tatto Di tutte le proteste possibili, il boicottaggio del tabacco è una delle più originali. Quasi tutti i greci, seduti ai tavolini dei bar, dei ristoranti e dei locali notturni, sono impegnati ad arrotolare sigarette di tabacco. Negli anni della dittatura, a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, lo Stato imponeva un forte monopolio sulle sigarette per finanziarsi. I greci lo boicottavano, fumando tabacco arrotolato. L'abitudine è rimasta e dita agili a comporre sigarette nelle condizioni più disparate si muovono veloci. Gli alberi di arance ad Atene sono una costante. Piccoli e ricchi di frutti, sono anche un simbolo: quello delle proteste. Spesso i dimostranti, soprattutto i più giovani, ne fanno della armerie d'emergenza per fare rifornimento di 'proiettili' da scagliare addosso alla polizia. 9


Il reportage Cambogia

Un passato molto presente Di Alessandro Ursic Quando Chim Math indica la sua foto in bianco e nero, nella prigione di Phnom Penh diventata museo del genocidio cambogiano, una giovane turista australiana inizialmente non capisce. ppena le viene spiegato che la donna di fronte a lei è la stessa del ritratto, però a trentuno anni di distanza, la ragazza sgrana gli occhi come se vedesse, letteralmente, un morto che cammina. E come non rimanere sorpresi: al contrario delle altre migliaia di facce – uomini, donne, bambini – nelle fotografie senza sorriso di Tuol Sleng, Chim Math è viva. Fu detenuta lì per due settimane, nel novembre 1977, e poi trasferita in un’altra prigione. Neanche lei sa spiegarsi perché fu risparmiata, dopo tutti gli interrogatori e le violenze. Dall’ex liceo trasformato nel carcere S-21, se si sopravviveva alle torture, di norma si usciva solo per andare a morire con una bastonata dietro la nuca, nelle fosse comuni alla periferia della capitale. Negli anni sono venute alla luce altre felici eccezioni, come quella di Chim. Ma almeno quindicimila persone passarono da quelle ex classi diventate stanze degli orrori dopo il 17 aprile 1975, data della conquista della capitale cambogiana da parte dei Khmer rossi; quando Pol Pot e i suoi guerriglieri maoisti fuggirono di fronte all’invasione vietnamita, il 7 gennaio 1979, dei detenuti di Tuol Sleng solo sette erano vivi. Il regime causò la morte di almeno 1,7 milioni di cambogiani. Esecuzioni di “nemici”, in una paranoia che degenerò in sempre più spietate purghe interne; carestie causate da una gestione delle risorse agricole scellerata; un popolo tenuto in stato di schiavitù nei campi di lavoro, in condizioni di vita disumane. Tutto contribuì a cancellare un quarto della popolazione cambogiana, nell’utopia della creazione di una società contadina egalitaria senza religione, senza moneta, senza cultura, senza amore. “Angkar”, il partito, era infallibile e aveva la parola finale anche sui matrimoni, celebrati in grigie cerimonie di massa. Il 1975 era “l'anno zero”.

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n’oscurità avvolgerà il popolo cambogiano. Ci saranno case ma senza persone al loro interno, strade ma senza viaggiatori; la terra sarà governata da barbari senza religione; il sangue scorrerà così profondo da toccare le pance degli elefanti. Solo i sordi e i muti sopravviveranno”. Col senno di poi, come non vedere in quel periodo l’avveramento di questa antica profezia khmer? Trenta anni dopo, il Paese ne porta ancora le conseguenze. Mentre altri Paesi della regione si sono sviluppati (Thailandia, Malaysia) o stanno decollando ora (Vietnam), la Cambogia è rimasta indietro. Le infrastrutture sono minime: a Phnom Penh l’illuminazione pubblica è praticamente assente, e in campagna le strade sono talmente piene di crateri da rendere impossibile un viaggio notturno. Ancora oggi, sei milioni di mine sono disseminate nel sottosuolo, poco meno di una per ogni due cambogiani. Phnom Penh, una volta soprannominata la “perla del sud-est asiatico”, oggi è una città caotica e polverosa: dietro la facciata del decadente quartiere coloniale vicino al fiume Tonle Sap e i negozi di Monivong Boulevard, nasconde bambini di strada che sniffano colla, fogne a cielo aperto dove gli abitanti delle baraccopoli coltivano verdure, e chilometriche vie dove ogni dieci metri un cartello offre ambigui “massaggi” a cinquemila riel, un euro. L’indigenza dei cambogiani, e la tolleranza per pratiche sessuali considerate aberranti

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all’estero, hanno fatto diventare il Paese la mecca del peccato a prezzi irrisori. Sarà autosuggestione, ma tra i farang (stranieri occidentali) stabilitisi qui, molti non hanno l’apparenza di chi in è in Cambogia per lavoro. Forse anche per questo, lungo il fiume dove le chiatte percorrono pigramente il loro tragitto, bambine dall’innocenza probabilmente perduta sono insolitamente amichevoli con i passanti stranieri che si godono la rilassante brezza. Nessuno ha ancora pagato, per la pagina più buia della storia cambogiana. Ma l’ora della giustizia, almeno simbolica, potrebbe arrivare presto. Kaing Guek Eav, il “compagno Duch” responsabile del carcere di Tuol Sleng, è sotto processo per crimini di guerra e contro l’umanità, tortura e omicidio premeditato di fronte al tribunale misto istituito dal governo cambogiano e dall’Onu. Altri quattro leader dei Khmer rossi – il “fratello numero due” Nuon Chea, il presidente Khieu Samphan, il ministro degli esteri Ieng Sary e la moglie Ieng Thirith – sono in carcere e finiranno alla sbarra probabilmente il prossimo anno. er molti è troppo tardi. Pol Pot, il “fratello numero uno”, è morto nel 1998. Ta Mok, il “macellaio” del regime, si è spento in carcere nel 2004. Duch è oggi un esile uomo di sessantasei anni che dopo la conversione al cristianesimo sembra essere cambiato, si è già dichiarato colpevole e ha chiesto perdono. Gli altri ex leader sono vecchi e malati, tanto che nessuno si sorprenderebbe se qualcuno di loro non arrivasse alla sentenza. Oltre che tardiva, la giustizia sarà difficilmente completa. Il governo del premier Hun Sen – un ex Khmer rosso che disertò per schierarsi con i vietnamiti – ha al suo interno diversi personaggi con un passato nella guerriglia, e si oppone all’allargamento del processo ad altri esponenti del regime. Il tribunale, inoltre, ha competenza solo sui fatti avvenuti durante quei “tre anni, otto mesi, venti giorni”– una frase che ancora oggi i cambogiani hanno impressa in mente quando pensano ai Khmer rossi. Ciò significa che in aula non si parlerà né del prima né del dopo. Una circostanza gradita agli Stati Uniti – il loro appoggio al colpo di stato del 1970 e i bombardamenti a tappeto della Cambogia durante la guerra in Vietnam (cinquecentomila morti) contribuirono a portare sostegno popolare alla guerriglia – e alla Cina, eterna finanziatrice di Pol Pot. Ma gli scheletri nell’armadio non li hanno solo Washington e Pechino. Dopo la loro caduta, i Khmer rossi sopravvissero per quasi venti anni nei loro feudi al confine con Thailandia, grazie all’appoggio americano e cinese, inserendosi nelle pieghe della Guerra fredda: negli anni Ottanta il governo di Phnom Penh era un’appendice vietnamita, e gli Usa tentarono in ogni modo di rendergli la vita difficile. La Thailandia, fedele alleata di Washington nella regione, fino a dieci anni fa protesse i leader oggi a processo. Ma mezzo Occidente ha la sua fetta di responsabilità. Anche l’Italia, che per quattro volte all’Assemblea dell’Onu votò per mantenere il seggio cambo-

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Chim Math oggi, davanti alla sua foto ancora esposta a Tuol Sleng. Phnom Penh, Cambogia 2009. Alessandro Ursic per PeaceReporter


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giano nelle mani del “legittimo governo” di Phnom Penh, deposto dall'invasione vietnamita. E quindi, contribuendo a bloccare qualsiasi finanziamento internazionale per la ricostruzione di un Paese dal tessuto sociale dilaniato. Medici, professori, avvocati, intellettuali, qualsiasi abilità professionale venga in mente: furono i primi a essere sterminati. Di cinquecentocinquanta dottori presenti in Cambogia prima del 1975, ne sopravvissero quarantotto; di undicimila studenti universitari, quattrocentocinquanta; di centoseimila studenti delle scuole superiori, cinquemilatrecento. Il vero “anno zero” fu il 1979, e i giochi delle grandi potenze a spese del Paese fecero il resto. Tale disgregazione ha effetti pratici sulla vita di ogni giorno, anche trent'anni dopo. “Ancora oggi è difficile trovare un buon traduttore francese”, spiega Youk Chhang, direttore del Centro di documentazione sulla Cambogia (Dc-Cam), un adolescente durante il genocidio e ora un indefesso ricercatore della verità su quegli anni. “Abbiamo due geografi, pochi intellettuali, medici o artisti. Siamo senza memoria storica, anche per cose apparentemente buffe. Capita che ti venga in mente una torta che ti piaceva da bambino, ma di cui hai dimenticato il nome. E non trovi nessuno che ti possa aiutare a ricordare”. Nel frattempo, specie nelle ex roccaforti della guerriglia, oggi molti Khmer rossi si sono reintegrati nella società. Sono sindaci, politici, soldati che hanno lasciato da parte ogni ideologia comunista, ma non si sono mai staccati dal potere. Il fatto che nessuno sia mai stato condannato ha contribuito ad alimentare una cultura dell’impunità, dal governo in giù. Henri Locard, uno storico francese che insegna all’università di Phnom Penh e parla con la voce rotta quando ti elenca le disgrazie di questo Paese, non usa mezzi termini. “La Cambogia oggi è un regime post comunista, incompetente e corrotto, non una democrazia. Le leggi non si applicano. I leader sono uomini senza istruzione, che pensano di avere enorme successo nella vita solo perché hanno fatto i soldi”, spiega Locard. Un italiano che lavora come consulente nella lotta al narcotraffico rincara la dose: “La corruzione olia gli ingranaggi di questo Paese, è come una struttura a piramide. E in cima c’è sempre Hun Sen”. Il primo ministro, parte della squadra di fiducia scelta da Hanoi nel 1979, governa il Paese come un padre padrone in sostanza da oltre vent’anni, ed è riuscito progressivamente a eliminare i rivali. Manifesti e incessanti discorsi televisivi rendono presto familiare il suo volto, sorridente ma al tempo stesso poco spietato: l'occhio di vetro sinistro, ricordo di una battaglia nella presa di Phnom Penh, non aiuta a renderlo più rassicurante. Gli uffici del suo partito Cpp (Partito del popolo cambogiano), sono in ogni angolo. Il nome del premier ricorre dappertutto, dalla biblioteca dell’università ai tornei di calcio amatoriali. Dei massacri di trent’anni fa i cambogiani sono disposti a parlare, raccontandoti quanti familiari hanno perso. Ma di politica attuale non si discute: ci sono troppi esempi di persone che hanno osato criticare il potere, e sono poi sparite nel nulla o uccise per strada. a questo che pensa Vaisna, un tassista di Phnom Penh a cui i Khmer rossi hanno portato via un fratello, quando ti dice “Non mi basta vedere cinque vecchietti a processo, per fare giustizia dovrebbero finire alla sbarra tante altre persone. Ma non posso dirti chi. Voglio che i miei figli vivano”. Sebbene abbia le sue idee su chi vorrebbe in carcere, Vaisna fa però fatica a credere che una delle peggiori tragedie del Novecento sia stata interamente opera di un gruppo di comunisti radicali con alle spalle studi a Parigi. “Pol Pot era un pazzo, ma io mi chiedo ancora chi c’era dietro di lui. Perché americani, cinesi e thailandesi l'hanno sostenuto? E perché nessuno venne a salvarci, come succede oggi quando un popolo viene sterminato?”. Vaisna non è l’unico a farsi queste domande. Il bisogno di trovare una spiegazione è ancora forte, e il desiderio di attribuire ad altri la responsabilità lo è forse di più. “Incolpiamo chiunque ci venga in mente: gli stranieri, Buddha, il cattivo karma”, spiega Youk, del Dc-Cam. “E’ troppo doloroso, vergognoso, pensare che dei cambogiani abbiano ucciso sistematicamente altri cambogiani. Ma anche se i Khmer rossi hanno goduto del sostegno straniero, non credo che nessuno abbia ordinato loro di sterminare quasi due milioni di persone. La verità è che noi cambogiani siamo un misto di induismo, più aggressivo, e buddismo, più docile. E dopo che il regime di Pol Pot ha cancellato la religione, riducendo le pagode a carceri, ora siamo ancora in cerca di una

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nostra identità. Il processo a Duch, con tutti i suoi difetti, aiuta non solo a raggiungere la riconciliazione nazionale, ma anche a rispondere alla domanda: chi siamo? Stiamo iniziando a capirlo: i Khmer rossi sono parte di noi”. Ma anche se c’è meno paura di parlare oggi rispetto ad alcuni anni fa, sulla strada del dibattito pubblico ci sono diversi ostacoli. L’ottantacinque percento dei cambogiani vive nelle campagne, in villaggi dove in pochi hanno una radio in casa, figurarsi una tv o un quotidiano. Che senso ha parlare di fatti avvenuti tre decenni fa, sostengono alcuni, quando buona parte del Paese fatica a sfamare la famiglia? Anche il diverso atteggiamento di giovani e sopravvissuti al regime non aiuta la presa di coscienza. Due cambogiani su tre hanno meno di trent'anni, e non sentono il bisogno di scavare nel periodo più nero dei loro genitori, men che meno di parlarne tra loro. La scuola sorvola sull’argomento, che non è inserito nel programma ufficiale; alcuni anni fa una direttiva ministeriale invitò gli insegnanti a evitare discussioni sul tema, delicate anche per le implicazioni politiche attuali. Non a caso, una volta Hun invitò i cambogiani a “scavare un buco e seppellirci il passato”. Quel poco che i giovani sanno, lo apprendono principalmente in famiglia. Ma è una storia lontana, che può sembrare irreale. “Solo visitando Tuol Sleng, nella prima volta che vengo a Phnom Penh, mi sono convinta che queste cose sono davvero successe. Quando me ne parlava mio padre, lo ascoltavo ma credevo sempre che si fosse inventato tutto”, racconta una sedicenne all’uscita del museo degli orrori, durante una gita scolastica. Un nuovo testo didattico è in preparazione, e dovrebbe essere adottato nei prossimi anni. “E’ un buon libro, anche se si limita a spiegare i ‘come’ di quella tragedia. Non i ‘perché’’, commenta lo storico Locard con un sorriso amaro. hi è passato attraverso quegli anni ha ricordi nitidi, e spesso voglia di vendetta. “Se avessi davanti Duch, vorrei ucciderlo”, dice Men Samorn, sessant’anni, il più anziano abitante di una baraccopoli alla periferia di Phonm Penh: un quartiere di palafitte che taglia in due i campi coltivati con gli scarichi della capitale. I Khmer rossi gli portarono via il padre, due fratelli minori e la prima moglie, spiega l'uomo mentre la sua seconda sposa annuisce dondolando sull'amaca. Lui fu legato a mani e piedi, pestato per giorni, finché un membro del partito lo riconobbe e riuscì a liberarlo. Men indica due palme che ha piantato lui stesso una ventina di anni fa, e che ora svettano sulle case di legno. “Vedi, il tempo passa. Ma come si può dimenticare, o perdonare?”, dice come se lo chiedesse a se stesso. E mentre racconta la vita sotto i Khmer rossi – il lavoro nei campi dalla mattina alla sera, le poche cucchiaiate di riso al giorno, il rischio di essere uccisi anche solo per aver mangiato di nascosto qualche filo d’erba – riesce a sorridere. La capacità dei cambogiani di parlare di un passato così doloroso non finisce mai di stupirti. All’inizio magari sono reticenti; dopotutto, da decenni questo è un Paese dove è meglio tenere la bocca chiusa. Diversi studi psichiatrici hanno evidenziato come i sopravvissuti abbiano imparato, per la necessità di superare il trauma in qualche modo, a scacciare quegli anni dai pensieri. Ma se iniziano a parlarne, alla fine la voglia di giustizia, il bisogno di chiudere il cerchio, sembrano prevalere. Il processo almeno ad alcuni dei responsabili di quei crimini, per quanto tardivo e imperfetto, offre appunto questa opportunità unica. Tornare con la mente e le parole a quegli anni, avere l’impressione di guardare gli aguzzini negli occhi e vederli condannati, potrà forse aiutare i cambogiani a fare pace col proprio passato. E anche Chim Math, che ha trovato in un Dio cristiano il suo rifugio dai ricordi di Tuol Sleng, sembra aver preso coraggio. Fino a due anni fa non aveva mai raccontato ai tre figli la sua storia; la prima volta che rimise piede nell’ex carcere S-21, sempre nel 2007, svenne. Ora cammina a testa alta mentre vi accompagna il giornalista straniero, indicandogli la sua foto da ragazza e l’angolo della cella dove la tenevano ferma, costringendola a bere acqua e sapone per farle dire di esser una spia della Cia. Con lei porta il nipotino di cinque anni, ancora ignaro di cosa sia accaduto tra quelle mura. Soprattutto, è disposta a testimoniare al processo contro Duch. Chim si torce ancora nervosamente le mani, quando racconta le sue sofferenze. Ma non ha più paura.

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In alto: Fotografie dei detenuti di Tuol Sleng. A parte rarissime eccezioni, tutti uccisi dal regime. In basso: Bambini in una baraccopoli alla periferia della capitale. Phnom Penh, Cambogia 2009. Alessandro Ursic per PeaceReporter


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L’intervista Bolivia

La guardia dal poncho rosso Di Alessandro Grandi Nel profondo altopiano boliviano, a circa due ore di auto dalla città di La Paz in direzione Lago Titicaca, e a oltre quattromila metri d'altitudine immersi nella natura più incontaminata, si arriva a Achacachi, sperduto paesino ricco di storia antica e moderna. l nome ai più potrebbe essere sconosciuto ma questo villaggio è famoso in Italia anche per la sua stretta collaborazione, avvenuta grazie al sapiente lavoro dell'associazione A Sud, con la città di Roma. Qui vive la comunità ribelle aymara conosciuta come Ponchos Rojos, per via del colore del poncho che indossano. Difendono il territorio dagli assalti delle multinazionali straniere cercando una sorta d'autonomia che ritengono conseguita da tempi ancestrali. Loro difendono l'acqua boliviana dalle aziende straniere (e dai governanti boliviani che hanno preceduto Morales). Hanno difeso il gas boliviano diventando uno dei simboli della famosa "Guerra del Gas". E lo fanno in nome del loro popolo, delle sue origini, di tutti i boliviani che dall'avvento del presidente ayamara hanno ricominciato a sperare in un futuro migliore. Ne abbiamo parlato con Eugenio Rojas, sindaco di Achacachi e da tempo portavoce nel mondo dell'esperienza dei Ponchos Rojos.

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“Tutti vengono da noi a chiedere dei Ponchos Rojos, della nostra esperienza. Noi siamo un popolo fiero. Gli indios aymara non hanno mai subito dominazioni. Nemmeno dalle popolazioni che hanno abitato nella zona per secoli. Siamo e saremo sempre un popolo in lotta. Sia per la difesa dei diritti delle popolazioni indigene sia per la difesa del territorio. Troppo spesso questa zona, come altre della Bolivia, è stata sottoposta a tentativi di colonizzazione da parte delle grandi multinazionali. Noi la difendiamo contro l'imperialismo che potrebbe distruggerla e potrebbe danneggiare la crescita dei nostri figli. Ecco, voglio che tutti sappiano che i Ponchos Rojos non staranno a guardare e si muoveranno in difesa dei loro diritti e dei diritti di tutti i boliviani. Soprattutto del diritto di vivere liberi sul proprio territorio. Nel nostro villaggio la nuova Costituzione voluta da Evo (il presidente Morales) ha ottenuto il novantacinque percento dei voti a favore. Perché il nome Ponchos Rojos? La risposta è molto semplice. Il Poncho è un abbigliamento tipico delle popolazioni indigene dell'area andina. Il rosso l'abbiamo scelto perchè è il colore del sangue, della passione, della lotta. In molti angoli del Sudamerica il rosso è il colore della terra. Il colore della pelle di molte popolazioni indigene. Il sangue che è stato versato ha questo colore e noi lo vogliamo ricordare. Siamo stati e saremo in prima linea nella difesa della nuova Costituzione boliviana votata da poco. Siamo sempre dalla parte del nostro presidente Evo Morales. Non permetteremo mai e poi mai che il Paese si divida solo per i biechi interessi dell'oligarchia. È vero che siete armati e disposti a tutto pur di difendere Morales e il suo operato? Certo. Se dovesse accadere qualcosa di grave, come un'aggressione o 14

l'intervento dell'esercito, in meno di ventiquattro ore siamo in grado di organizzarci e portare in strada un vero e proprio esercito composto da un paio di migliaia di persone. Tutte armate e disposte a combattere per i loro diritti e per la libertà della Bolivia. Se succede qualcosa ci mettiamo in marcia e andiamo in città a far valere le nostre ragioni. E non si tratta di soli giovani. Nelle file dei Ponchos Rojos ci sono anche adulti e donne, moltissime donne giovani. La nostra comunità ha fatto e farà sempre dell'uguaglianza sociale un punto di forza. I Ponchos Rojos, però, potrebbero arrivare anche da fuori Achacachi. A El Alto, ad esempio, abbiamo un buon seguito sia da parte delle donne che da parte della popolazione maschile. A El Alto è molto sentito qualsiasi tema relativo alla sopravvivenza, ai diritti, alla politica del presidente Morales. Allora è vero che siete una forza quasi militare, o forse sarebbe meglio dire paramilitare, al servizio del Presidente? Noi non siamo al servizio di nessuno. E non siamo assolutamente una forza paramilitare. Noi siamo indigeni che difendono i loro diritti. Ma ricordiamo bene una cosa: da quando esistiamo non abbiamo mai fatto nulla per noi stessi. Sempre, tutto quello che abbiamo fatto, è stato in nome della causa boliviana. Se poi qualcuno ci tradisce e non mantiene la parola data allora il discorso cambia. Ma per prima cosa siamo dalla parte di chi ha sofferto e di chi ha visto i propri diritti negati per decenni. Tutti sanno che siete armati. Avete avuto problemi per questo? Qualche tempo è stato chiesto alle famiglie di Achacachi di riconsegnare le armi. In parte l'abbiamo fatto: abbiamo restituito fucili di inizio secolo, pericolosi e mal funzionanti. Il resto delle armi, pistole e fucili piuttosto nuove e funzionanti, le abbiamo tenute. Noi siamo i Pochos Rojos. Abbiamo il dovere di difendere ciò che ci appartiene. Se dobbiamo morire lo faremo combattendo. E per combattere oltre al cervello servono le armi. Lo ripeto: noi non facciamo nulla per noi stessi. Lottiamo per i diritti dei boliviani. Cosa si sente di dire oggi in merito alla vostra esperienza di lotta? La nostra esperienza è e sarà sempre a disposizione di tutti quelli che vorranno lottare a fianco delle popolazioni indigene della terra e non si fermerà perchè è nella cultura combattente degli aymara. Ma chi viene da fuori non deve guardarci con timore. Noi siamo disponibili a confrontarci con tutti e apriamo le porte di Achacachi a tutti. Da qualche tempo, infatti, stiamo lavorando per sviluppare il settore turistico. Così come da tempo sviluppiamo il settore agricolo insieme con altre realtà. Come avvenuto con "A Sud" che ci ha aiutato in un progetto agricolo. Achacachi esiste da molto tempo e per molto tempo esisterà ancora. Eugenio Rojas, sindaco di Achacachi e membro dei Ponchos Rojos. Achacachi, Bolivia 2009, Alessandro Grandi ©PeaceReporter


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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

Le buone nuove Sudan, la mano tesa di Obama Una parziale ripresa dell'assistenza umanitaria internazionale in Darfur concessa da Khartoum, e in cambio un plauso al governo sudanese per l'apertura ai ribelli darfurini e una bacchettata a questi ultimi, velatamente accusati di non essere abbastanza interessati alle trattative di pace. Dopo il mandato di cattura internazionale emesso dalla Corte Penale Internazionale (Cpi) contro il presidente Hassan Omar al Bashir, il Sudan non poteva sperare di meglio dalla recente visita del senatore americano John Kerry.

Zimbabwe, una nuova alba Sono passati appena tre mesi dalla formazione del governo di unità nazionale in Zimbabwe, ma i risultati del nuovo corso politico sono già visibili. Nonostante un'epidemia di colera che continua a falcidiare la popolazione e una decisa impennata della criminalità, i segnali positivi per il Paese non mancano. L'inflazione galoppante si è arrestata, i banchi dei supermercati sono tornati pieni e, soprattutto, criticare il governo non è più un tabù.

Brasile, terra restituita ai nativi Il Supremo Tribunale Federale, dopo due giorni di consiglio, ha decretato una storica vittoria per la causa indigena in Brasile: il territorio "Raposa Serra do Sol", nello stato di Roraima, dovrà essere restituito alle 194 comunità native, confermando la validità del decreto emesso nel 2005 dal presidente Luiz Inacio Lula da Silva. Allora infatti, Lula intimò inutilmente ai coloni presenti in quell'area di sgomberare le terre illegalmente occupate

Sei continenti per la pace 90 paesi, 100 città, sei continenti. Il 2 ottobre, data di nascita di Gandhi e giorno internazionale della non violenza, genti di culture e religioni differenti si uniranno in un lungo cammino per dire no alla violenza e alla guerra: 160mila chilometri passando per climi ed ecosistemi differenti. Tre mesi di viaggio, da Wellington, in Nuova Zelanda, a Punta de Vacas, ai piedi del Monte Aconcagua, in Argentina. 16

Durban II, un fallimento a metà

Turchia, minoranze ancora nel mirino

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Militari e islamisti contro i curdi

a conferenza delle Nazioni Unite sul razzismo e la xenofobia, tenutasi a Ginevra dal 20 al 21 aprile, si è conclusa con l'approvazione, per acclamazione, della dichiarazione finale da parte di più di cento paesi. L'accordo, noto come Durban II, in quanto continuazione del primo vertice sul tema tenutosi proprio a Durban, in Sudafrica, nel 2001, non ha mancato di suscitare polemiche. Israele, Stati Uniti, Germania e Canada non hanno partecipato ai lavori e, dopo l'intervento del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, quasi tutti i paesi dell'Unione europea hanno abbandonato l'aula dei lavori. Il segretario generale delle Nazioni Unite Ban KiMoon, pur stigmatizzando Ahmadinejad e il suo discorso ritenuto provocatorio, ha salutato come un successo l'approvazione del documento finale che riprende le conclusioni della prima conferenza internazionale sul razzismo del 2001 e che condannò esplicitamente Israele per l'occupazione dei territori palestinesi. Il fatto che Israele fosse l'unico Paese ad essere citato ha indotto molti Stati, fra cui l'Italia, a boicottare la conferenza di Ginevra. Il documento è stato approvato in anticipo rispetto alle previsioni. Israele ha boicottato il vertice anche per protestare contro l'iniziativa di equiparare l'Olocausto ad altri crimini contro l'umanità, quali lo schiavismo. “Durban II non è per niente un fallimento", ha commentato il ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner. “Anzi è l'inizio di un successo. Sarà possibile raggiungere un accordo su un testo finale con riferimenti importanti alla memoria dell'Olocausto, del diritto delle donne e delle persone colpite dall'Aids. Rispetto a Durban I sono stati fatti passi in avanti”, ha sottolineato. Secondo Danilo Zolo, professore di filosofia del diritto all’università di Firenze, il fallimento di Durban II è facilmente spiegabile: “Israele non ha mai accettato nessun documento emergente da istituzioni internazionali, sostenuta dagli Stati Uniti, in primo luogo all'interno del Consiglio di Sicurezza, dove gli Usa hanno sempre usato il loro diritto di veto per proteggere l'alleato”.

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Christian Elia

iù di duecentocinquanta persone sono state fermate, e ottanta arrestate, durante un operazione contro il Partito della Società Democratica (Dtp) iniziata il 14 aprile scorso in tutto il Paese. Durante l'operazione, coordinata dalla Procura della Repubblica di Diyarbakır, sono state perquisite le sedi del partito curdo e arrestati membri del Dtp in 19 province. Non sono ancora noti i capi di imputazione, ma, secondo gli avvocati, gli arrestati sono accusati di essere membri e dirigenti del Partito Curdo dei Lavoratori (Pkk). Tra i fermati, i tre avvocati di Abdullah Ocalan, leader del Pkk in carcere dal 1999. Durante la conferenza stampa organizzata nelle ore successive all'inizio dell'operazione, Ahmet Türk, presidente del Dtp ha affermato: "Questa operazione è la chiara dimostrazione che il Governo è molto infastidito dall'esito delle elezioni. Questo attacco fa parte di un progetto teso ad allontanare il nostro partito dalla pratica democratica. Ma sia chiaro a tutti che nessuno riuscirà a impedirci di lottare per una democrazia vera e per una pace giusta. Continueremo la nostra lotta con coraggio e determinazione senza mai abdicare alla nostra scelta democratica. Le operazioni e gli arresti devono avere fine, i nostri amici devono essere rilasciati". Nelle elezioni amministrative dello scorso 29 marzo il Dtp si era affermato come primo partito nel Sud Est a maggioranza curda. Tuttavia i festeggiamenti seguiti alla vittoria del Dtp furono bruscamente interrotti il 4 aprile quando due manifestanti vennero uccisi dalla polizia ad Urfa, durante gli scontri seguiti alla manifestazione organizzata per celebrare il sessantesimo compleanno del leader del Pkk Abdullah Ocalan. A rendere ancora più teso il clima nella zona curda del paese anche il processo di messa al bando del Dtp iniziato prima delle elezioni e tuttora in corso. Secondo i magistrati la struttura organizzativa del partito curdo non sarebbe conforme alla legge turca sui partiti politici, questo sembra però solo un pretesto per chiudere un partito le cui posizioni filo-curde irritano militari e islamisti al governo, tra i quali, dall'anno scorso, vige una tregua seguita all'accordo sull'intervento militare in Nord Iraq. Alberto Tetta


Verso un mondo senza armi atomiche? A cura di Vito Francesco Polcaro

avvento del nuovo presidente Usa Barack Obama potrebbe essere l'inizio di una svolta sulla questione degli armamenti nucleari nel mondo? Obama ha dichiarato di sognare un mondo senza armi atomiche e alimentato da energia nucleare. É un approccio forse un po' visionario che, se non porterà davvero allo smantellamento delle armi atomiche nel mondo, potrebbe almeno mettere fine all'escalation, ripresa durante il mandato del presidente Usa George W. Bush nonostante, nel 2003, Washington e Mosca avessero firmato il cosiddetto Sort, Trattato per la Riduzione delle Armi Strategiche Offensive. Il cambiamento nel tono delle trattative ha visto subito la reazione di Mosca, che si è detta disponibile a ridurre il numero delle sue testate, perolomeno entro le quantità previste dal Sort: tra le 1700 e le 2200. Bisogna considerare che la funzione delle armi atomiche è fondamentalmente quella di dissuadere da un attacco dall'esterno, mentre in condizioni normali quella atomica non è un'arma particolarmente utile, dato che appena usata scatena la guerra mondiale. L'esistenza di arsenali nucleari, insomma, non è nell'interesse reale di nessuno che voglia la pace. Durante la Guerra Fredda, il principio della distruzione reciproca assicurata è stato ciò che ha impedito di iniziare una guerra guerreggiata. Oggi la differenza rispetto al passato è che, durante le amministrazioni Bush, è stata teorizzata esplicitamente la possibilità di primo impiego dell'arma nucleare come strumento per risolvere conflitti locali. Questo tipo di logica ha impedito qualunque possibile disarmo. Oggi invece, guadagnano maggior peso le preoccupazioni economiche, dato che il mantenimento degli arsenali atomici è estremamente impegnativo e costoso. Ecco allora che, se gli Stati Uniti si fanno interpreti di una politica meno aggressiva, anche la Russia ha tutto l'interesse ad andare nella stessa direzione. Nella situazione precedente, invece, la corsa agli armamenti si stava riaccendendo, tant'è vero che il sistema di contro-reazione russo a un ipotetico attacco atomico Usa, era stato fatto passare dalla condizione di "Lancio ad allarme confermato" a quella di "Lancio al primo allarme", cosa che ci ha fatto rischiare più volte una guerra. Ad oggi, Usa e Russia hanno almeno 2500 testate pronte all'uso per parte. Nei prossimi mesi potremmo dunque assistere a una ripresa delle trattative diplomatiche sul tema delle armi strategiche, e probabilmente a un'ulteriore riduzione del numero delle testate, almeno quelle schierate. A quel punto si potrà anche sperare in un effetto domino. La ragione per cui alcuni paesi negli ultimi anni hanno voluto dotarsi di armi nucleari, è che il pos-

L’

sesso di quell'arma era l'unica garanzia di non essere attaccati. I trattati contro la proliferazione prevedono infatti che, da un lato i paesi nucleari si impegnino a ridurre gli arsenali, ma dall'altro, che i paesi non possiedono armi atomiche si impegnino a non dotarsene. L'applicazione dei trattati però è stata avviata con alcune riduzioni degli arsenali, che però si sono poi sostanzialmente fermate, compromettendo anche l'efficacia degli stessi trattati. Oggi accanto ai paesi ufficialmente nucleari (Usa, Russia, Gran Bretagna, Cina, India e Pakistan) ce ne sono diversi altri che non aderiscono al Trattato di non Proliferazione. Tra questi ci sono i casi della Corea del Nord, che ha dichiarato di possedere una bomba atomica ma non è certo che sia in grado di lanciarla, e di Israele, che non ha ammesso di averne ma tutti sanno che ne possiede tra 100 e 200, ben più di India e Pakistan (che ne hanno rispettivamente 50 e 70), ma anche di Cina (130) e Gran Bretagna (185). Sudafrica, Argentina e Brasile hanno smantellato i loro progetti, mentre resta il problema dell'Iran che, sentendo la necessità di difendersi, cerca di dotarsene. Teheran sostiene di puntare al nucleare per scopi civili per produrre energia. La questione del nucleare civile, tuttavia, è aleatoria. Al giorno d'oggi sappiamo che, con gli attuali consumi di uranio, le riserve mondiali basteranno per meno di 50 anni. Considerando che per costruire una centrale servono dai 15 ai 20 anni, è evidente che iniziare oggi a costruire centrali sarebbe una sciocchezza. Diverso semmai, sarebbe proseguire le ricerche per le centrali di quarta generazione, che avrebbero un'efficienza enormemente superiore alle attuali. Oggi, ed è il caso dell'Iran, costruire centrali nucleari ha senso se si intende sfruttarle per produrre materiale fissile weapon-grade, per costruire le bombe. Completamente diverso è invece il caso dell'Italia, che ha annunciato il ritorno al nucleare per i meri interessi economici legati alla costruzione delle centrali stesse. Anche negli Usa durante il governo Bush si è tentato un rilancio della costruzione di centrali, ma in quel caso i motivi erano ideologici e militari. Altri casi di Paesi che hanno imboccato da poco la scelta nucleare non ce ne sono, a parte la Finlandia, che peraltro ci lavora da un decennio. Se il possesso di armi nucleari fosse limitato ai paesi del Trattato, il processo di disarmo e distensione potrebbe essere rapido, ma la presenza di diversi paesi che non ne fanno parte rallenterà certamente questo processo. L'unico modo per spingere questi paesi ad aderire al Trattato è renderli ragionevolmente sicuri che non verranno aggrediti, nemmeno con armi convenzionali.


Im

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400

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10.000

2 1

5 4

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2

Paesi N.P.T.

Paesi produttori di energia nucleare

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Numero di centrali nucleari

Recenti rinunce agli armamenti nucleari

Numero di testate atomiche stimate


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400

2

Test nucleari USA

Test nucleari britannici

Test nucleari russi

Test nucleari cinesi

Test nucleari francesi

Test nucleari indiani

Test nucleari pakistani


Im

Lakenheat Volkel Norvenich Kleine-Brogel Buchel Ramstein

Aviano Ghedi Torre

Akinci Balikesir Incirlik

Araxos

Numero di testate atomiche stoccate per paese

264 116 100 44 20

Spagna (?)

Belgio e Olanda

Turchia

Totale in Unione Europea nel 2005: 816

Germania

Italia

Altro capitolo è quello delle armi strategiche stoccate in Europa. Bisogna distinguere tra Francia e Gran Bretagna, che hanno armi loro, e i paesi come Italia, Grecia, Germania e forse Spagna, dove sono stoccate le armi Usa. Di queste parla il noto rapporto Christensen, del Natural Resource Defence Council Usa, che ha analizzato la situazione al 2005: 44 testate in Belgio, 264 in Germania (che ne ospita anche 44 inglesi), 72 ad Aviano, in Italia, dove però ce ne sono altre 44, nella base di Ghedi Torre. Queste ultime sono sotto controllo congiunto italiano e americano, uno stratagemma per sottrarre bombe dal numero totale previsto dai trattati, in definitiva aggirandoli. Ce ne sonopoi altre 44 in Olanda, 24 in Turchia più altre cento, che forse sono state spostate in Spagna. In totale nel 2005 le bombe atomiche in Europa erano 816. Numeri che comunque oscillano nel tempo, anche se nel lungo periodo si può dire che siano diminuite, nel 1988 ad esempio erano 1868. Un lento calo che si spiega con la cessata necessità di rispondere con un attacco immediato a un'ipotetica aggressione da parte delle forze del Patto di Varsavia. Anche in questo caso le considerazioni economiche non sono indifferenti, visto che i paesi ospitanti si prendono carico della sorveglianza di quelle bombe, un opera che costa svariate decine di milioni di euro all'anno.


Repubblica Cecena ancora scontri armati

Sudafrica, previsioni elettorali confermate

Cecenia, la guer- Zuma stravince, ra non è finita come era scritto allo scorso 16 aprile, l’interevento militare russo in Cecenia è ufficialmente finito. Dopo dieci anni di guerra, costata la vita ad almeno quarantamila ceceni (per due terzi civili) e diecimila militari russi, il presidente Dmitry Medvedev ha decretato la fine dell’operazione anti-terrorismo avviata nel 1999 dall’allora premier Vladimir Putin, ordinando il ritiro di venticinquemila soldati e la rimozione delle sanzioni economiche. Questo non significa affatto, come molti hanno detto, la fine del conflitto, ma solo la sua definitiva ‘cecenizzazione’. D’ora in avanti, infatti, la lotta contro le centinaia di guerriglieri separatisti islamici ceceni sarà esclusiva competenza delle forze di sicurezza cecene comandante da Ramzan Kadyrov, il quale comunque potrà sempre contare, in caso di necessità, sull’intervento di ventimila militari russi che rimarranno in pianta stabile nella repubblica caucasica. Se i politici russi al Cremlino si dicono convinti del fatto che la ribellione cecena sia ormai sconfitta, i generali russi della base cecena di Khankala non sottovalutano gli almeno cinquecento mujaheddin ancora attivi sulle montagne della Cecenia meridionale. Secondo i dati del comando militare russo, tra gennaio e marzo i ribelli hanno condotto sedici offensive e undici attentati, uccidendo ventotto militari russi e ceceni nel solo distretto di Vedenò. Con l’arrivo della bella stagione si teme un’escalation di attacchi e addirittura, secondo l’intelligence militare russa, un’offensiva in grande stile contro la capitale Grozny. Secondo Alexei Malashenko, analista militare del Centro Carnegie di Mosca, la decisione del Cremlino di dichiarare la fine delle operazioni anti-terrorismo in Cecenia “non significa affatto l’archiviazione della questione cecena, né tanto meno una vittoria per Mosca: a causa della crisi economica – spiega Malashenko – la Russia ha bisogno di risparmiare il denaro speso finora nella campagna militare cecena, lasciando che sia Kadyrov a ristabilire l’ordine in Cecenia”.

e previsioni della vigilia sono state rispettate, e Zuma si è imposto con facilità sugli avversari, festeggiando con l'inno dell'epoca della lotta contro l'apartheid - "portatemi la mia mitragliatrice" - e assicurando che l'African National Congress "è come un elefante: non lo si puo' rovesciare". Controverso personaggio a causa dei suoi guai con la giustizia, Zuma non ha tuttavia ottenuto la maggioranza dei due terzi in Parlamento, necessaria per cambiare la Costituzione. Ma rappresenta comunque uno spauracchio, per molti bianchi e anche per qualche nero. I detrattori di Zuma hanno detto che 'il governo sta passando da gente in doppiopetto a un uomo che a volte si veste con pelli di animali, ha più di una moglie, canta di mitragliatrici e di ripristinare i tradizionali riti della popolazione Zulu'. Nonostante abbia saputo conquistare il cuore delle fasce povere urbane e delle zone rurali, Zuma potrebbe essere più conservatore di molti bianchi in Sudafrica. Lo dice uno dei più aggressivi analisti politici sudafricani, Stephen Friedman, che sostiene come, aldilà degli attesi programi di politica economica per affrontare la recessione, Zuma abbia mostrato apprezzamento per un eventuale referendum sulla pena di morte, appoggiando apertamente il motto del vice-ministro Susan Shabangu 'sparare per uccidere'. Una mano un po' troppo pesante – sostiene Friedman – contro la micro-criminalità sudafricana. "Se aggiungiamo - dice Friedman - i suoi commenti sulle donne al processo per stupro in cui è stato assolto, i suoi commenti sui gay e il ricorso alla tradizione Zulu, allora Zuma è più conservatore di molti abitanti nei sobborghi residenziali bianchi". Qualcuno se ne è accorto nell'Anc, che ha registrato il primo smacco della sua storia perdendo il controllo di Città del Capo, conquistata da Helen Zille dell’Alleanza democratica (Da). L’Anc dovrà da questo momento in poi preoccuparsi maggiormente dell’opposizione. Il Da, che ha ottenuto il 16,66 percento e il Congresso del popolo (Cope), formatosi da una scissione dall'Anc, fermatosi al 7,42 percento, potrebbero in futuro fondersi, e già dal 2014 minacciare il dominio (quasi) incontrastato dell'Anc.

Enrico Piovesana

Luca Galassi

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Il numero dei morti dal 25 marzo al 25 aprile*

Un mese di guerre PAESE

MORTI

Sri Lanka Afghanistan Pakistan Talebani Iraq Sudan India Naxaliti India Nordest Nord Caucaso Somalia Filippine Milf India Kashmir Colombia Nigeria R.D. Congo Filippine Npa Pakistan Balucistan Thailandia del Sud Turchia Algeria Israele Palestina

2725 677 402 394 201 162 95 68 63 59 51 50 45 40 35 28 28 26 21 5

TOTALE

5 .1 7 5

* I dati che qui riportiamo sono dati ufficiali, raccolti da agenzie di stampa internazionali o locali. Per cui sono da intendersi sempre per difetto: in molti paesi del mondo non si contano i vivi, figuriamoci i morti. 17


Qualcosa di personale Giappone

Sopravvissuto a due atomiche Di Andrea Rosa

Ha novantatre anni e naturalmente è giapponese. Si chiama Tsutomu Yamaguchi l’uomo che è sopravvissuto agli unici due bombardamenti atomici della storia. A tutti e due: quello di Hiroshima del 6 agosto e quello di Nagasaki, città poco più a sud sull’isola di Kyushyu, del 9 agosto 1945. È il primo e forse l’unico uomo a essere ufficialmente riconosciuto come tale. l signor Yamagughi, allora ingegnere della Mitsubishi Heavy Industries Nagasaki Shipyard & Machinery Works, si trovava a Hiroshima in viaggio di lavoro quando il 6 agosto del 1945 il B-29 americano sganciò la prima bomba atomica della storia diretta contro una popolazione. Era a circa tre chilometri dall’epicentro della esplosione e fu colpito da ustioni di vario grado che gli devastarono il corpo. Quella notte, e la successiva rimase a Nagasaki per ricevere le prime cure. Ma la mattina dell’8 agosto decise di fare ritorno a Nagasaki, la sua città natale. Arrivò a casa giusto in tempo per essere colpito dalla seconda bomba nucleare sganciata dalla aviazione statunitense sul Giappone, proprio a Nagasaki. Non abitava vicino al luogo dell’esplosione, ma qualche giorno dopo il bombardamento della sua città, Yamaguchi decise di andare nelle vicinanze del luogo dove la bomba aveva toccato il suolo giapponese per cercare alcuni suoi familiari rimanendo così ancora più esposto alle radiazioni residue. La sua storia è stata verificata anche attraverso riscontri con un altro sopravvissuto. “Per quanto ne sappiamo, lui è il primo ad essere riconosciuto come vittima sopravvissuta a entrambe le bombe. È un caso molto sfortunato, ma potrebbero essercene molti altri come il suo”, ha commentato un funzionario di Nagasaki, Toshiro Miyamoto. Il riconoscimento del governo prevede per le vittime ancora in vita, i cosiddetti hibakusha (letteralmente “folgorati dalla bomba”), il diritto a una pensione, a trattamenti medici speciali gratuiti e alle spese per i funerali. Per Yamaguchi, già in precedenza certificato come hibakusha di Nagasaki, la pensione non si duplicherà.

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Ma per il signor Yamaguchi quello che conta è che ora la sua doppia esposizione alle radiazioni sia stata riconosciuta ufficialmente, un fatto storico. Per questo “potrò raccontare alle giovani generazioni le orribili storie dei bombardamenti atomici anche dopo la mia morte”, ha commentato secondo quanto riportato dal quotidiano Mainichi Shimbun. Yamaguchi è uno dei circa duecentosessantamila sopravvissuti agli attacchi atomici. utti negli anni hanno sviluppato varie malattie causate dalle radiazioni, tra cui il cancro. Tokyo cominciò nel 1957 a riconoscere il loro come uno status particolare e bisognoso di attenzioni specifiche. Ancora oggi sono migliaia gli hibakusha che chiedono di essere ufficialmente riconosciuti, ma che hanno visto rigettate le loro domande di assistenza. Proprio pochi giorni fa la corte distrettuale di Hiroshima ha criticato la decisione delle autorità municipali di negare lo status di hibakusha a sette anziani tra i sessantacinque e i settantasei anni che nei giorni seguenti il bombardamento prestarono servizio come soccorritori (i cosiddetti rescue hibakusha). Lo scorso anno il governo ha allentato la cinghia, eliminando alcuni requisiti troppo stringenti. La popolazione giapponese è l’unica a essere stata colpita da bombe nucleari. Più di centoquarantamila furono i morti a Hiroshima, e settantamila a Nagasaki, ma a distanza di più di sessanta anni, quello dei sopravvissuti è ancora un problema tutt’altro che risolto. E le atomiche continuano a far morire.

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Esplosione nucleare. Elaborazione grafica di Oliviero Fiori


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La storia India

Tutto il mondo è (bel)paese Di Luca Ferrari Mumbai. Il sole è ormai calato da un paio d'ore. Ci incamminiamo per il viale che costeggia la discarica di rifiuti più vasta di tutta l'Asia, brulicante di esseri umani e illuminato da lampioni di luce gialla con ai lati piccole baracche di lamiera ancora incandescente. ndiamo via! Sta arrivando la polizia!" dice Nafees. "Come la polizia?! Perché?". "E stata chiamata dai tipi che abbiamo incontrato prima". "Chi? Quel gruppo di drogati che ci hanno importunato e minacciato?". "Sì sì, proprio quelli". "E che devo scappare io dalla polizia perché quattro tossici l'hanno chiamata? Ma come funziona?". "Ascoltami, qui c'è la discarica e quei signorotti che te chiami drogati hanno il potere sulle forze dell'ordine, inoltre siamo sotto elezioni".A sessant'anni dall'indipendenza e a sei mesi dai tragici attentati di Mumbai l'India, la più grande democrazia del mondo, va al voto: un miliardo e duecento milioni di abitanti con più di centoventi lingue, senza contare le varie etnie, caste e religioni, 1.055 partiti, 714 milioni di iscritti alle liste elettorali, trentacinque stati, ottocentomila sezioni elettorali, sei milioni di poliziotti pronti a intervenire per sedare eventuali disordini e una grande sfiducia nella classe politica. Tre grandi coalizioni e un gruppo di partiti indipendenti si contendono il governo del paese. Il maggiore partito indiano, il Partito del Congresso, fondato da Nerhu e Gandhi, insieme ad altri partiti minori formano l’Upa (United Progressive Alliance). Il Congresso è un partito di centro, ma anche di sinistra, è per gli operai e i contadini, ma anche per i padroni, è per i poveri, ma anche per i ricchi. Il Congresso è un partito laico, ma anche attento alla religione, è per gli indù, ma anche per i musulmani. Il candidato premier del Congresso è Manmohan Singh (l'attuale primo ministro), una persona buona, mansueta e pacata, ma la vera leader (senza baffetti) è l'italiana Sonia Gandhi con i suoi due promettenti rampolli Rahul e Priyanka, entrambi pronipoti di Nerhu. L'Nda (National Democratic Alliance), la destra indiana, è capitanata da Advani, l'anziano e populista leader del Bjp (Bhartiya Janta Party), il Partito del Popolo Indiano. Il Bjp è alleato con l'Ss (lo Shiv Shena, L'esercito del re), un partito ultranazionalista che ha le sue radici e il suo maggiore bacino elettorale nel Maharshtra, lo stato di Mumbai. Le Ss sono responsabili dei pogrom anti musulmani del 1992-93. Tra le file del Bjp un altro pronipote del povero Nerhu, Varun Gandhi, se potesse passeggerebbe con dei maiali sui terreni destinati alla costruzione di nuove moschee: recentemente a causa di alcune dure affermazioni anti islamiche ("Ai musulmani taglierei la testa") Varun si è fatto qualche giorno di carcere. Il Cpi (Partito comunista indiano) e il Cpi-M (Partito Comunista indiano – Marxista), forti in Kerala e Bengala Occidentale dove sono al potere, formano il Terzo Fronte insieme alla governatrice dell'Uttar Pradesh e leader del

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Bsp (Bhawajan Samaswadi Party) Mayawaty, "la regina dei dalit", e ad altri partiti tra leninisti, maoisti, marxisti, rivoluzionari, repubblicani, falci, martelli, spighe di grano, chiavi inglesi, ingranaggi, pugni chiusi, litigi e scissioni. La campagna elettorale, ovviamente, non si concentra molto sui problemi reali del paese ed è spesso costellata da continui attacchi personali ed insulti. Oltre al già citato 'aforisma' di Varun Gandhi, il Bjp accusa il primo ministro di essere un leader debole, Sonia Gandhi, specchio riflesso, dice che non è vero: "E' Advani a essere un debole". Un altro candidato del Bjp odia Sonia Gandhi perche italiana e prova fastidio nel sentirla parlare. Ma spesso sono il reddito dei parlamentari e i settanta candidati indagati per omicidio, stupro, estorsione e corruzione - senza contare le sentenze passate in giudicato - gli argomenti che tengono banco tra una popolazione sempre più qualunquista, la cui partecipazione al voto stranamente è inversamente proporzionale al reddito. uel che non manca di certo nella politica indiana è il mondo dello spettacolo. Sono molte le star televisive e gli attori di Bollywood candidati nelle varie liste (anche senza aver fatto un calendario: l'India è un paese pudico). Tra corruzione e divisioni religiose, entiche, politiche, di casta e di reddito (il settanta percento della forza lavoro è impiegata nei campi, mentre solo lo 0,5 percento produce la metà del Pil), l'India è comunque un paese unito. "Da cosa?", chiedo a Nitin, un manager rientrato da poco a Mumbai dopo anni di lavoro nella City londinese: "Ci unisce il senso della famiglia, e poi il cibo, la Tv e il cricket". Scappati dalla polizia, chiedo maggiori spiegazioni a Nafees: "La discarica è un grosso business, molte aziende private, specialmente ospedaliere, per risparmiare, si affidano a quei signorotti pagando i politici per sbarazzarsi dei loro rifiuti spesso tossici". "E la gente si ammala?". "Sì, si ammala". "Ma queste aziende sono del nord?". "Che c'entra il nord?". "No niente, andiamo a mangiare". Arrivati a casa di Nafees, la tavola è imbandita e le donne sono in cucina a preparare da mangiare, si accende la televisione e durante la cena si guarda il telegiornale, poi, a pancia piena, ci sediamo sul divano a guardare la partita di cricket.

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In alto: Nello slum di Deonar, nei sobborghi di Mumbai, che si affaccia di fronte alla piu grande discarica di tutta l'asia. In basso: All'interno del Leopold café, teatro deglli attentati terroristici di mumbai del 26/11. India 2009. Luca Ferrari/Prospekt


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Italia

Terremoto e guerra Tremo nt i e la trap p ola d el cin qu e p er mille p er la rico st ruz ion e Di Gianpaolo Concari è una necessaria, incontrovertibile, sfasatura tra l'impellente necessità di trovare risorse per far fronte alle emergenze e il momento in cui il 5 per mille diventerà disponibile: non meno di due anni, se non tre, come sta avvenendo per i fondi relativi ai redditi 2006. Nel frattempo con quali soldi faremo fronte alle necessità di ripristino dei servizi pubblici a dir poco essenziali quali la sanità e la giustizia? Se si amplia la platea dei destinatari, non si fa che sottrarre risorse anche a quelle organizzazioni che attualmente sono impegnate nell'attività di assistenza ai terremotati. Non solo: ma si sottraggono denari a chi è impegnato nelle attività di assistenza a soggetti svantaggiati oppure alla ricerca scientifica. Aggiungiamo anche che per i fondi destinabili al 5 per mille c'è un tetto e quindi non si può andare oltre la somma stanziata dalla legge finanziaria. In altri termini: lo Stato cerca la sussidiarietà nei servizi sociali e poi dice arrangiatevi. In realtà di fondi per il terremoto ce ne sono già

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ora disponibili, con la stessa tempistica del 5 per mille, ma questi possono essere anticipati e quindi smobilizzati. Si tratta dell'8 per mille che, se destinato allo Stato, secondo l'art. 2, comma 1, del d.P.R. 10/03/1998 n. 76, deve essere impiegato per interventi straordinari per fame nel mondo, calamità naturali, assistenza ai rifugiati, conservazione di beni culturali. Avete letto bene. Ci sono già le calamità naturali. Basterebbe perciò "blindare" i fondi dell'8 per mille. E uso il verbo "blindare" perché in questi anni l'8 per mille destinato allo Stato è stato depauperato perché utilizzato per chiudere improvvise falle di bilancio o, peggio ancora, per rifinanziare missioni di (dubbia) pace all'estero. Vale la pena di ricordare che le nostre truppe sono impegnate in Afghanistan da ormai otto anni e che, con la rimozione degli ultimi caveat, possono essere liberamente impegnate in azioni di guerra, e già lo sono state. Il contribuente è avvisato...

Perch é n on ta ssare l'ind ust ria milita re ? Di Paolo Busoni l tremendo terremoto in Abruzzo avviene in un momento di crisi finanziaria e recessione economica pesantissimo, ma nonostante quello che da più parti si va dicendo -in particolare dai vertici politici- è teoricamente possibile che il governo possa procedere nei soccorsi e nella più che doverosa ricostruzione senza dover affondare le mani nelle tasche dei cittadini. Non sono necessarie tasse una-tantum o colpire l'associazionismo deviando il gettito del cinque per mille. Lo Stato può tagliare spese inutili che per ora tutti -maggioranza e opposizione- hanno fatto finta di non vedere. Da luglio in poi abbiamo assistito a continui annunci di tagli, alla scuola, alla sanità all'università, perfino alle spese per i militari, ma paradossalmente, l'industria della guerra non è stata toccata se non marginalmente. L'industria armiera italiana, che è largamente controllata dalla finanziaria semi-pubblica Finmeccanica, vive e vive molto bene, nonostante la crisi, grazie al meccanismo assurdo che regola gli scambi commerciali. Il mercato delle armi è il più protetto in ogni senso. Sono coperti gli attori, i termini delle transazioni e le trattative avvengono lontano da ogni pubblicità e soprattutto sono assolutamente impenetrabili i meccanismi per la determinazione del "prezzo". È impossibile sapere con certezza quanto costa un aereo, un carroarmato o una nave e il nostro bilancio della difesa non è -logicamente- più chiaro di quello Usa. Già, ma come si comprano le armi? Un esempio. Un acquirente che debba valutare due offerte di fornitura, una dalla Cina e una dall'Italia può agire in due modi diversi: se ha soldi in contanti, compra dalla Cina che offre un prodotto di qualità inferiore, ma a prezzo decisamente più allettante; se non dispone della cifra necessaria, compra il prodotto italiano pretendendo in cambio un pacchetto di "aiuti" sotto forma di crediti o investimenti italiani nel suo paese per

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un importo spesso superiore al valore del contratto stesso. Queste compensazioni, o offset, non sono fornite dall'azienda che venderà le armi, ma sono a carico del governo che per "far vendere" è a sua volta costretto a "comprare". Il meccanismo delle compensazioni è terreno fertile per la corruzione. Le più diffuse forme di countertrade (compensazioni) sono quattro. Il barter, il baratto, è la formula di interscambio più antica, ma ancora ampiamente praticata: armi contro petrolio, armi contro derrate ecc. Il buy back prevede che colui che vende impianti o tecnologia venga in parte ripagato con i prodotti provenienti dallo stesso contratto. Per esempio, nel caso dell'esportazione di licenze per la produzione di armi, l'esportatore si impegna ad acquistare componenti prodotte nel paese acquirente. L'offset è la forma più utilizzata: il venditore è tenuto a coinvolgere enti o società dell'acquirente nella vendita del prodotto nel proprio mercato o in mercati terzi. In alternativa il venditore deve procurare vantaggi al compratore, per esempio spingendo i propri alleati o amici ad acquistare prodotti presso il paese acquirente delle proprie armi. Lo switch trading è la forma di scambio finanziariamente più complessa, è possibile riassumerla in un complesso di accordi che prevedono la presenza di intermediari specializzati che si occupano di "gestire" il credito che l'esportatore riceve in cambio dei prodotti venduti. Gli intermediari "acquistano" il credito (con uno sconto) in cambio di valuta e a loro volta lo vendono (con un guadagno) ad altri intermediari che lo mettono a disposizione per importare servizi e prodotti della dall'acquirente. In alto: Il palazzo della prefettura de L’Aquila. Samuele Pellecchia/Prospekt In basso: Onna dopo il terremoto. Francesca H. Mancini/Prospekt


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Migranti

Pescatori di uomini Di Gabriele del Grande

“Ci troviamo nel passaggio. È la nostra zona di pesca, e la loro zona di transito”. Quasi ogni giorno i pescatori del Canale di Sicilia incrociano le barche dei migranti al largo di Lampedusa. E sempre più spesso sostituiscono Guardia Costiera e Marina militare in difficili salvataggi. ultimo è avvenuto lo scorso 28 novembre 2008. Col mare in burrasca e onde alte otto metri, cinque equipaggi siciliani hanno coraggiosamente soccorso seicentocinquanta persone. Per incontrare i protagonisti di quel salvataggio, sono andato a Mazara del Vallo, primo distretto della pesca in Italia. E ho scoperto che non è la prima volta che succede: negli ultimi anni i pescatori mazaresi hanno salvato la vita a centinaia di uomini e donne. Le loro sono storie incredibili, di uomini ripescati in alto mare, a mollo da ore, aggrappati alla chiglia di un gommone affondato. Sono storie drammatiche, di barche capovolte durante le operazioni di salvataggio e di persone annegate a due metri dalla loro salvezza. Storie eroiche, di marinai saltati in mare, nella notte, per salvare una donna caduta in acqua. Ma anche storie crudeli, indicibili, di cadaveri ritrovati nelle reti, mangiati dai pesci. Sono le storie di una profonda umanità. Di anonimi eroi che non si sono girati dall’altra parte. Perché “quando vedi un bambino di tre mesi a mare, non pensi più ai soldi, né al tempo perso. Pensi soltanto a salvargli la vita”. E fu una bambina di pochi mesi, la prima a salire a bordo del Ghibli, il pomeriggio dello scorso 28 novembre a Lampedusa. “Era avvolta da una coperta. Ho aperto il fagotto e le ho fatto un po’ di smorfie. Lei rideva”. Era in mare da tre giorni quella bambina, insieme alla madre, e altre trecentocinquanta persone, stipate su un barcone di dieci metri, in legno, rimasto bloccato nel mare in tempesta, dieci miglia a sud est dell’isola. Il capitano Pietro Russo non dimenticherà facilmente il volto di quella bambina. Fu il comandante della Capitaneria di porto a chiedergli di intervenire. La Guardia costiera non aveva i mezzi per uscire col mare grosso e in zona non c’erano navi della marina militare. A bordo c’erano donne e bambini, così il capitano del Ghibli non poté tirarsi indietro. Come non si era tirato indietro, la notte precedente, il comandante del Twenty Two, Salvatore Cancemi, detto Schillaci, che non aveva esitato a uscire col mare forza sette pur di portare in salvo i trecento passeggeri dell’altro barcone in zona. L’ultimo avvistamento era avvenuto quindici miglia a ovest dell’isola, vicino allo scoglio di Lampione. Con la luce dei fari, cinque pescherecci della flotta mazarese passarono al setaccio la zona, nonostante le condizioni proibitive del mare. “C’erano onde alte otto metri e raffiche di vento grecale a settanta chilometri orari” racconta Cancemi. “Il mare era troppo grosso per un abbordaggio – dice - ma anche per il rimorchio, il cavo si poteva spezzare. C’era troppa risacca. Così decidemmo di scortarli. Stavamo di lato per fare muro contro il vento”. Era un barcone di dodici metri, di legno, pieno zeppo, le onde sbattevano sul ponte della barca. Cercarono riparo dalla risacca sotto gli scogli di Lampedusa, a Cozzo Ponente, procedendo

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con lo scandaglio, in piena notte. E poi li abbordarono per trasbordare i passeggeri. Quello fu il momento più difficile, dice il pescatore: se si fossero spostati di fianco, la barca si sarebbe immediatamente sbilanciata e rovesciata in mare. Non sarebbe stata la prima volta. Successe il 17 luglio 2007 a Nicola Asaro, comandante del Monastir, classe 1953. Stavano pescando gamberi rossi al largo della costa libica, quando si avvicinò loro una lancia in vetroresina con ventisei persone a bordo. “Erano senza carburante. Volevano della benzina, ma noi andiamo a gasolio e non potevamo aiutarli”. Asaro abbassò la scaletta per farli salire. Il mare era piatto. Fu un attimo. Qualcuno si alzò in piedi, da dietro iniziarono a spingere e in un momento la barca si capovolse. “Lanciammo immediatamente in mare i salvagente e alcune cime. Non sapevano nuotare. Si tiravano sotto uno con l’altro”. Alla fine riuscirono a trarne in salvo quattordici e a recuperare un cadavere. “Gli altri undici li ho visti affondare con i miei occhi”. a stessa cosa è successa pochi mesi fa, a giugno, al comandante dell’Ariete, Gaspare Marrone. Stavano trainando le gabbie dei tonni. La barca, con 30 persone a bordo, si capovolse a due metri dal peschereccio. In cinque finirono aggrappati alla gabbia, altri ventidue li recuperò l’equipaggio. Tre persone invece, tra cui una donna, scomparvero tra le onde. Un anno prima, nel settembre del 2007, Marrone aveva salvato la vita a dieci uomini incontrati in alto mare, appesi alla chiglia di un gommone affondato: un tubo largo venti centimetri e lungo quattro metri. Stavano in mare da più di due ore, nudi. Gli altri trenta compagni di viaggio erano annegati. “Da lontano sembravano delle boe, quando capii che erano degli uomini non ci volevo credere. Lanciammo i salvagente. Il direttore macchine si tuffò per aiutarli, non avevano più forza.” E senza forza era anche il giovane mauritano trovato da solo, in acqua, a settanta miglia da Lampedusa, dal peschereccio Ofelia il 23 agosto 2007. “Era l’alba – racconta il capitano Antonio Cittadino -. Lo vidi per caso, dal finestrino. All’inizio mi sembrava un bidone. Poi vidi muoversi qualcosa. Stava alzando la mano. Era un uomo”. Da quarantotto ore stava seduto in bilico sopra tre tavole di legno dello scafo di un gommone affondato. Unico superstite di quarantasette passeggeri. “Lo abbiamo tirato a bordo di peso. Si è accasciato a terra. Non parlava. Aveva le carni bianche dal sale. Quando si è ripreso, il giorno dopo, mi chiamava l’amico di Dio”.

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In alto: Panni stesi in attesa di andare in Sicilia. In basso: Un gruppo di immigrati durante lo sbarco al molo della guardia Costiera. Lampedusa, Italia, 2008. Alfredo D'Amato/Prospekt e Samuele Pellecchia/Prospekt,


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Rubriche

Pensieri e Parole di Claudio Sabelli Fioretti

Regime In tivù di Sergio Lotti

È la repubblica, ragazzi La chicca delle ultime settimane è scaturita inopinatamente da un’intervista all’arcivescovo dell’Aquila, un autentico capolavoro inserito quasi in sordina durante una puntata di Annozero. Sua eminenza esprimeva disapprovazione su come Michele Santoro aveva trattato il tema del terremoto e sulla mancanza di rispetto mostrata da Vauro nell’ormai famosa vignetta sulle cubature. Confessava però di non aver visto la tramissione e quanto alla mancanza di rispetto pareva risentito soprattutto per le critiche al presidente del Consiglio. Sul momento non si è capito: possibile che Berlusconi, per un pastore di anime di quel livello, sia più importante della pietà per le vittime del sisma? Ma poi ci siamo ricordati che si stava parlando dell’Unto del signore, bestie che siamo, e che la cosa non è poi così strana. Molto più strano è il concetto che non soltanto l’Unto, ma anche altri rappresentanti delle istituzioni hanno della professione giornalistica e del servizio pubblico: la passerella del governo sulle macerie aquilane è informazione, le critiche alla scarsa prevenzione, ai mancati controlli e alle colpevoli inefficienze sono indecenza, sciacallaggio, comportamenti da censurare. A Ballarò, un paio di sere prima il ministro dell’interno Roberto Maroni si è addirittura inviperito perché Maurizio Crozza aveva ironizzato sul fatto che lui e il giornalista Maurizio Belpietro, seduto lì accanto, in fatto di bellezza non rappresentano il meglio dell’Italia. Ci sarà un’inchiesta della direzione Rai anche su questo, con sospensione di Crozza? Tanto più che anche nella precedente puntata di Ballarò si è passata la misura. Di fronte a due gongolanti rappresentanti del governo, Raffaele Fitto e Roberto Castelli, che si stupivano per la sintonia dimostrata di fronte al terremoto da esponenti politici e amministratori locali e nazionali di varie tendenze politiche, il guastafeste democratico ha detto press’a poco: è la repubblica, ragazzi, lo scoprite ora? E fin qui passi, ma poi ha subito aggiunto che se vogliamo salvarla, la repubblica, dobbiamo cogliere l’occasione per fare tutti qualche iniezione di civismo. E gli altri due sono subito insorti contro i soliti comunisti che rovinano sempre la festa attaccando il governo. Ma qui un’inchiesta sarebbe più problematica, perché non si è capito bene se si tratta di coda di paglia o se è proprio quella stravagante idea delle iniezioni di civismo che li ha fatti inorridire. 26

Io non ho grande memoria ma da quel che ricordo quando al governo c’erano le sinistre (Le sinistre? Ma che dico? Il centro-sinistra) nei posti chiave della Rai, la più grossa industria culturale italiana, c’era una spartizione quasi equa. La spartizione dei posti è sempre stata chiamata lottizzazione. A me il Tg1, a te Rete 2, a quelli là Rai Fiction. Lottizzazione: con una vaga sensazione, anzi nemmeno tanto vaga, negativa. Come dire: meglio fedeli che bravi. E tutti pensavamo, o meglio speravamo: prima o poi verrà il giorno in cui si sceglierà per merito e non per affiliazione. La lottizzazione era cosa spregevole ma per lo meno si spartiva il potere. Poi venne anche la zebratura. Una direzione a destra, una vicedirezione a sinistra, un caporedattore al centro. Sempre in spregio ai valori. Ma uno straccio di democrazia era salvo. Poi è arrivato questo governo Berlusconi. Il governo pigliatutto. Non contento delle sue tre reti, vuole fare anche il pieno o quasi della Rai. Deve accontentare Lega ed ex fascisti. E anche la finta e temporanea opposizione di Casini. Vuole il Tg1, il Tg2, vuole i Gr, tutti, vuole Rete 1 e Rete 2. Vuole Rai Fiction. Vuole tutto quello che c’è. E nel frattempo sbraita perché l’opposizione non vuole collaborare per le sue riforme. Tg3 e Rete 3, per adesso, le lascia alla sinistra, cioè al centro sinistra. Ma sta facendo un pensierino anche a quelli. Ma che nessuno osi parlare di regime. Il dittatore si offende. Mettiamo anche che la Merkel non si sia inquietata perché Berlusconi stava al telefono. E mettiamo pure che la regina non abbia notato l’urlo “Mister Obamaaa” dopo la foto. E che il Cavaliere non abbia dato della zoccola, nemmeno per scherzo, alla sua piccola ministra. Mettiamo che tutto ciò sia vero. E vi dirò di più: se anche non fosse vero non ritengo così grave il fatto di avere un primo ministro scherzoso e che voglia farsi notare quando siede accanto ai più grandi di lui. Certo, sa un po’ di

A teatro di Silvia Del Pozzo

Afrika! Afrika! Quanti scrittori ci hanno raccontato la “loro Africa”, affascinandoci - come lo sono stati lorocon i misteri e la magia della natura, delle tradizioni , delle culture di questo enorme e variegato continente. Troppo spesso, oggi, all’onore della cronaca solo per le guerre, le carestie, i genocidi, la corruzione politica, le orrende epidemie che da anni la feriscono. Ma c’è un’altra Africa, vivace e ottimista - nonostante tutto - che dalle sofferenze e dalla durezza del quotidiano trova la forza per vivere i sogni della sua gente, con una volontà e un’allegria sorprendenti. È questa la realtà che

quel Mussolini che voleva essere trattato alla pari dai potenti. Ma lasciamo stare i confronti. Quello che è inquietante è il tempo che Silvio Berlusconi dedica a chi lo critica, siano i giornalisti siano quelli dell’opposizione che lui chiama comunisti, non importa se nel mazzo ci mette anche Casini, Rutelli e Di Pietro. In questi lunghi anni, ormai quasi un ventennio, molti hanno commesso l’errore, io per primo, di pensare che Berlusconi sbagliasse, commettesse gaffes, facesse errori. Ormai solo quelli a cui non va di pensare possono continuare a credere che tutto ciò non faccia parte di un disegno preciso. E finora vincente. E allora chiediamoci, prima di sbraitare, dove mira, qual è il suo disegno attuale. Io mi sono convinto di una cosa. Il Cavaliere, ormai titolare del partito più grosso che c’è, è ossessionato dal 51 per cento. Vuole comandare senza dover rendere conto a nessuno. Vuole cambiare la Costituzione. Vuole passare alla storia. È convinto di essere l’unico in grado di far diventare grande l’Italia. Chiunque si opponga a questo suo impegno è un nemico. E allora si inventa di tutto per sopprimere ogni sussulto di critica, perfino il più banale e ridicolo. I giornalisti raccontano le sue prodezze mettendone in luce gli aspetti più imbarazzanti? No, così non si fa. Berlusconi reagisce e indossa i panni della vittima. E dice: «Non voglio arrivare a dire di azioni dirette e dure nei confronti di certi giornali e certi protagonisti della stampa. Però sono tentato perché non si fa così». Ecco, il papà severo non ne può più dei figli discoli. E minaccia di punirli. Durezza pedagogica. Che in politica si chiama desiderio di autoritarismo, di sospensione di democrazia, voglia di regime. Sindrome del 51 per cento. Ormai il Cavaliere è convinto che ci manca poco. Che la maggioranza assoluta è lì ad un passo. Quasi la tocca con la mano. Ancora qualche sforzo. Anche a costo di fare cose strane. Tanto la sinistra non se ne accorge. Le chiama gaffes. presenta uno spettacolo strabiliante “Afrika! Afrika!”, che arriva a Milano e Roma dopo aver incantato e divertito oltre due milioni di spettatori in tutto mondo. André Heller, un viennese colpito dal mal d’Africa sin dagli anni Settanta, ha riunito in uno spettacolo grandioso di arte circense (che declinata all’africana è un mix unico di acrobazie e danze, canto e musica, fantastici costumi e spiri-


tualità) cento artisti selezionati dal Marocco al Mali, dall’Egitto al Sudafrica, dal Congo al Sudan. Ma la sola identità a cui si sentono tutti di appartenere è quella di essere “africani”. Con questo spirito e ritmo indiavolato cantano, danzano, evocano riti ancestrali e divinità dei loro territori, rendono omaggio alla straordinaria diversità culturale della

loro terra. E ci lasciano senza fiato per la perfezione e l’originalità delle loro performance, i colori, le coreografie ardite e dense di emotività di questo grandioso show. Uno spettacolo che, ha scritto la stampa britannica, restituisce al verbo inglese to play il suo significato semantico. Da non perdere. Esotico, musicale, coloratissimo, un’esplosione di gioia e un inno alle tradizioni antiche e moderne dello spettacolo in India è “Bollywood, the show” al Palladium di Roma fino al 17/5 e subito dopo al teatro Arcimboldi di Milano: dal 19 al 25/5. “Afrika! Afrika!”, visto il successo della prevendita, è stato posticipato al prossimo autunno, le date saranno presto disponibili.

Vauro

Musica di Claudio Agostoni

Zina - Cesare Dell’Anna Afreeque 118 Records “Zina è un viaggio che ci guida dagli spazi infiniti del deserto fino alle pianure del Salento, dalle atmosfere metropolitane, alle magie musicali che abbracciano le terre che si affacciano sul Mediterraneo creando nuove commistioni e sonorità…” così si legge sul myspace della band afrosalentina (www.myspace.com/zinacesaredellanna). Una dichiarazione d’intenti che Afreeque, nelle sue 15 tracce, mantiene. Sia musicalmente, che per quanto riguarda i testi. Per raggiungere questo obbiettivo il progetto aperto di Cesare Dell’Anna (eclettico trombettista in passato inventore dell’intrigante combo balcanico-salentino degli Opa Cupa) si avvale di ricche ‘comparsate’ che rimpolpano i suoni di questo lavoro: i canti griǑt del senegalese Amadou Faye, il rap dei palestinesi DAM, le melodie vocali del tunisino Marzuk Mejri, la neopizzica del leader ‘tarantolato’ dei Mascarimiri Claudio “Cavallo” Giagnotti, l’hip hop del beatmaker romano Dj Gruff e gli afrori sardi del trombettista Riccardo Pittau… I testi parlano di temi sociali particolarmente legati alla terra africana e a quella che li accoglie. In un periodo storico in cui le parole accoglienza e tolleranza sembra si stiano dimenticando, Zina segue il suo percorso di integrazione, coinvolgendo diverse culture musicali. Da questa alchimia di suoni nasce un lavoro senza

passaporti e permessi di soggiorno, dedicato a tutti i popoli senza terra, a chiunque è vittima di guerra, in particolare in Africa. Parte del ricavato della vendita del cd è destinato a sostenere il centro pediatrico di Emergency di Mayo, nella periferia di Khartoum in Sudan. 27


Al cinema di Nicola Falcinella

Terra Madre Cibo per tutti, sano e prodotto rispettando la natura. Colture che rispettino le culture. È il filo conduttore del nuovo film di Ermanno Olmi, il documentario “Terra madre”, che arriva nelle sale dopo essere stato a febbraio l’unico film italiano selezionato al Festival di Berlino. La provenienza del cibo come carta d’identità di chi lo consuma, il recupero delle specie vegetali e animali originali e autoctone dei luoghi, il rispetto per chi produce e per il territorio coltivato, la difesa di un equilibrio naturale messo a dura prova dalla società del virtuale e che invece è fondamentale per il futuro dell’umanità. Ragioni che hanno spinto Olmi a cimentarsi con un progetto grande, che parte dal biennale raduno torinese di agricoltori, allevatori, pescatori e raccoglitori di tutto il mondo. Un film sul “rapporto dell’uomo con il Creato”, come chiosa Carlo Pettini, fondatore di Slow Food che ha ideato il progetto e coinvolto il regista bergamasco de “L’albero degli zoccoli” (un film che guardava avanti e non indietro come molti hanno pensato a lungo). Un’opera senza tesi precotte, insieme politica e poetica (anche grazie al filmato di Franco Piavoli sulle sponde dell’Adige) che spiega, illumina, incanta, preoccupa. C’è anche la storia dell’anziano contadino veneto che voleva cibarsi solo dei prodotti dei suoi terreni e rifiutava quelli che la sorella acquistava per lui. È morto di fame a inizio

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2004 come conseguenza della siccità dell’estate precedente. Del resto in quasi tutti i film di Olmi c’è un personaggio un po’ pazzo. Ci sono anche molti segni di speranza, con il lavoro umile e tenace di tante “comunità del cibo” ai quattro angoli del globo. Ci sono il raccolto del riso (ripreso da Maurizio Zaccaro) nella fattoria indiana di Vandana Shiva (la testimonianza più lucida), la storia del quindicenne statunitense Sam Levin che in pochi mesi è riuscito ha creare un orto a scuola e rifornire la mensa con le autoproduzioni e la Banca mondiale dei semi al freddo delle norvegesi isole Svalbard. Un film che a chi già si occupa di questi temi forse non dirà molto di nuovo, ma repetita juvan ed è una buona introduzione per chi ne è digiuno. Per cominciare a ridefinire l’agenda di chi decide.

In libreria di Giorgio Gabbi

Gaza. Restiamo umani di Vittorio Arrigoni Alla fine del dicembre scorso l’esercito israeliano aveva steso un cordone insuperabile attorno alla striscia di Gaza per impedire alla stampa internazionale di rendersi conto di cosa stesse succedendo alla popolazione palestinese investita dall’Operazione Piombo Fuso. Dall’alto della collinetta dove erano stati confinati, tutto quello che i giornalisti potevano vedere erano i bagliori di esplosioni in lontananza: poco più che fuochi di artificio. I comunicati ufficiali parlavano di perdite inflitte ai guerriglieri di Hamas: e se qualche civile era stato accidentalmente colpito, lo si doveva, dicevano, alla vigliaccheria dei nemici di Israele, che si facevano scudo di donne, vecchi e bambini. Con il passare dei giorni, i filmati delle televisioni arabe fatti uscire dalla striscia assediata hanno cominciato a raccontare una realtà ben più spaventosa. Una realtà che è stata vissuta in prima persona, a rischio della propria vita, dall’autore di questo libro, Vittorio Arrigoni, l’unico cronista italiano a raccontare giorno per giorno dall’interno della Striscia (per Il manifesto) la pretesa “battaglia” e il vero “massacro” di Gaza. Volontario dell’International Solidarity Movement, pacifista senza se e ma, Arrigoni ha


vissuto le settimane di Gaza non da osservatore, ma da barelliere impegnato sulle autoambulanze che correvano dove cadevano le bombe d’aereo, i missili, i proietti dei cannoni navali e terrestri. Ha visto da vicino cecchini e carristi israeliani sparare sulle autoambulanze e uccidere civili inermi: altro che “danni collaterali”. Ha visto la distruzione sistematica di scuole, ospedali, moschee, interi quartieri. La sua è una testimonianza preziosa. Ed è anche più angosciante delle pur crude immagini viste in televisione. Perché quelle vittime innocenti, che sono entrate nelle nostre case come ombre anonime su un teleschermo, lui le ha viste sanguinare, le ha sentire urlare, di molte conosceva il nome, la famiglia, aveva parlato con loro il giorno prima. Arrigoni firmava le sue corrispondenze dall’inferno di Gaza con l’esortazione “restiamo umani”. Sì, d’accordo: ma di fronte alla violenza disumana di Piombo Fuso, la reazione istintiva è tutt’altra. Il manifesto – manifesto libri, 2009, 128 pagine, 7.00 euro.

In rete di Arturo Di Corinto

Giro di vite sulla rete Negli ultimi mesi stiamo assistendo in Italia ad una preoccupante enfasi normativa intorno ai territori del digitale. Con la scusa di “proteggere i più deboli”, i “più giovani”, o i “legittimi interessi” dei detentori di copyright, si fa passare il messaggio che Internet è un luogo pericoloso e da evitare. L’onorevole Gabriella Carlucci vuole abolire l’anonimato su Internet. Un suo collega, Luca Barbareschi, vuole trasformare gli Internet provider in sceriffi della rete per fargli controllare i contenuti che attraverso le reti transitano. Altre pro-

lettere a un chirurgo confuso scrivi a chirurgo@peacereporter.net Otto paesi africani, insieme ad Emergency, porteranno al G8 un nuovo modello di sanità. A San Servolo, Venezia, il 16 e 17 aprile si è discusso anche di pace, tra ministri di Paesi che sono ancora oggi - in guerra tra loro. Ma che presto proporrando agli otto grandi del mondo una nuova via per crescere. Insieme. Abbiamo chiesto loro di venire a parlare di medicina, di un progetto comune per l'Africa. La precondizione, naturalmente, è che chi chiede goda di una certa credibilità. E noi ce la siamo costruita. In alcuni di questi paesi lavoriamo da anni, come la Sierra Leone e il Sudan. Altri conoscono il nostro lavoro. In altri ancora abbiamo lavorato anni fa, come il Ruanda: il delegato ruandese ha iniziato il suo intervento ricordando che Emergency e stata una delle prime organizzazioni ad intervenire dopo il genocidio. Hanno accettato subito l'invito, e agli incontri non c'è stato nessun tipo di animosità o polemica. Sono stati qui per ragionare insieme su qualcosa che riguarda il loro continente. La medicina ha la capacità di agire come una livella. Davanti alla malattia, siamo tutti esseri umani. Siamo tutti pazienti. Le avversioni politiche perdono senso. Da quindici anni Emergency ricovera nelle stesse corsie i pazienti piu disparati, anche quelli che prima si sparavano addosso a vicenda. I rappresentanti di questi Paesi sono stati chiamati ad indicare le loro priorità nazionali in materia sanitaria, ma nell'ottica di creare qualcosa che possa servire anche ai loro vicini. Anche il modello sanitario proposto è nuovo, perché, inutile negarlo, c'è insoddisfazione, fra le autorità sanitarie di questi Paesi, rispetto al lavoro di molte organizzazioni. Perché evidente-

mente è un approccio che non produce grandi risultati. Può rispondere alle emergenze, ma non costruisce automaticamente un buon sistema sanitario. Sarebbe bello pensare che un feeding centre, o un dispensario, di cui pure c'è gran bisogno, produca da sé, negli anni, un centro pediatrico di eccellenza. Non è mai successo. Proviamo l'approccio opposto, dall'alto verso il basso. E' più facile che un centro pediatrico di eccellenza possa produrre una rete di feeding centres, che non il contrario. L'ospedale Salam ha mostrato che l'eccellenza produce eccellenza. Genera risorse, garantisce l'alta formazione del personale locale, attrae cervelli, e anche donatori. I paesi coinvolti presenteranno questo progetto alla comunità internazionale. Prima a Ginevra, alla conferenza dell'Organizzazione Mondiale della Sanità. E poi al G8. Questo progetto è nato su un'isola, a San Servolo. E su un'altra isola, alla Maddalena, potrebbe trovare i soldi per partire. Gino Strada

poste di legge vorrebbero attribuire responsabilità editoriale ai blog amatoriali impedendo di fatto la libera espressione del pensiero. Infine, il senatore Gianpiero D’Alia con un emendamento al pacchetto sicurezza vorrebbe far chiudere ogni sito, ogni forum, ogni blog, persino Youtube e Facebook, qualora si trovasse ad ospitare frasi diffamatorie o calunniose o oscene. Il sottotesto di queste proposte è che chi usa Internet è un irresponsabile che va “protetto”da se stesso. Un approccio che stride fortemente con una delle caratteristiche più spiccate della società dell’informazione: il sapere comunicativo diffuso che giovani e meno giovani mettono in scena attraverso la produzione di siti web, blog, giornali elettronici, filmati e musica amatoriali. Se c’è un lato oscuro della società dell’informazione e che investe una quantità crescente di persone è piuttosto dato da un divario culturale che rende i più giovani vulnerabili a una grammatica culturale che li vuole fruitori passivi di informazioni e consumatori di merci immateriali. Molti giovani vivono, è vero, a stretto contatto con le tecnologie di comunicazione personale, come i computer e i telefonini, che da semplici strumenti

sono diventati vere e proprie protesi elettroniche, ma senza padroneggiarli e piuttosto subendoli, immersi come sono in una cultura mediatica che ha una pervasività senza precedenti. Grandi consumatori di cultura visuale, videogame, cartoons, film, pubblicità, showroom, internet e tv, sono spesso semplici utilizzatori di una tecnologia che si fa veicolo di un immaginario preconfezionato e prodotto altrove, che induce scelte e sollecita stili di vita, che modella i loro bisogni senza appagarli, anzi frustrandoli per potersi perpetuare attraverso il ciclo del desiderio. La battaglia allora è altroce, tra tecnologie passive, monodirezionali e gerarchiche, e tecnologie interattive, multimediali, orizzontali, grazie alla quali ciascuno può essere contemporaneamente fruitore e produttore di contenuti. Si tratta perciò di individuare gli strumenti giusti per rovesciare la grammatica culturale che decide l’ordine del discorso e quindi definisce i principi di inclusione ed esclusione sociale stabilendo chi ha diritto di parola e chi no. Chiudere i siti che ospitano contenuti scomodi, sorvegliare i comportamenti degli utenti o impedire ai blogger di esprimersi in totale libertà non è la soluzione. 29


Per saperne di più

di resistenza, fuggono in Uzbekistan, via Italia. Il documentario racconta la loro storia attraverso la testimonianza di tre di loro ancora vivi.

GRECIA

SITI INTERNET

LIBRI MATESIS PAVLOS, «Madre di cane», traduzione italiana di A. Gabrieli, Crocetti editore, 1998 Madre di cane è una storia ambientata durante l’occupazione italiana della Grecia ai tempi della Seconda Guerra mondiale. Uno tra i maggiori pregi del romanzo è l’ironia con cui una ragazzina di 13 anni riesce a raccontare tragici eventi storici. CLOGG RICHARD, Storia della Grecia moderna dalla caduta dell'Impero bizantino a oggi, a cura di A. Di Gregorio, Bompiani, 1996 Un manuale importante per saperne di più su un Paese così vicino, ma del quale a volte in Italia si conoscono solo gli aspetti più superficiali. ALEXANDROS PANAGULIS, Altri seguiranno, Flaccovio editore, 1975 Chiuso in una cella del carcere Boyati per avere attentato alla vita del dittatore Papadopoulos, durante il regime dei colonnelli, Alexandros Panagulis, eroe della Resistenza greca, trovò la forza per sostenere le torture giornaliere provandosi a scrivere poesie.Alcune, clandestinamente, riuscirono ad arrivare in Italia, e nel 1969 vinsero il Viareggio.

FILM COSTANTIN COSTA GRAVAS, «Z, l’orgia del potere»', 1969 Grecia, 1963. un magistrato sta indagando sulla morte di un deputato pacifista e scopre una cospirazione ordita dalla polizia. Figlio di un poliziotto, il giudice conduce una rigorosa inchiesta che lo porta a indiziare per l'omicidio alti ufficiali della polizia. Lo scandalo porta alla caduta del governo in carica, ma dopo alcuni anni, nel 1967, il colpo di stato dei colonnelli instaura nel paese una feroce dittatura di destra che sopprime le libertà democratiche. Il film venne premiato con l'Oscar quale miglior film straniero e dal premio della critica del festival di Cannes. THEO ANGELOPOULOS, «I cacciatori»', 1977 I cacciatori è l'ultimo film della trilogia che il grande regista greco dedicata alla storia del suo Paese dagli anni Trenta ai Settanta, composta da ''I giorni del '36'', del 1972 e ''La recita'', del 1975. Questi tre film segnarono l'inizio di una riflessione critica sulla storia contemporanea della Grecia nel periodo che condusse alla dittatura dei colonnelli. Il primo film venne presto considerato un'allegoria della repressione politica e fu pesantemente censurato dal regime e il secondo è una panoramica di quattro ore sulle lotte politiche avvenute in Grecia tra il 1939 e il 1952. STAVROS PSILLAKIS, «There was no other way», 2009 Dopo la Seconda Guerra mondiale la Grecia è squassata da una dura guerra civile tra le milizie comuniste che puntano all'adesione del Paese al blocco sovietico e le milizie conservatrici, sostenute dalla Gran Bretagna, che vogliono portare la Grecia nell'area Nato. Le forze di sinistra perdono il confronto, ma un gruppo di sei uomini e sei donne restano in montagna, nella zona del villaggio di Hania, a Creta, continuando la loro lotta solitaria, come i giapponesi nelle isole del Pacifico. Chiamano il loro gruppo Democratic Army e, prendendo atto della sconfitta dopo anni 30

http://www.osservatoriobalcani.org/ Uno dei siti più affidabili sui Balcani. Molto curato, non si limita solo alle notizie più importanti della regione, ma anche all'approfondimento culturale e delle dinamiche sociali. http://www.rinascitabalcanica.com/ La Rinascita Balcanica nasce da una tela di contatti e di corrispondenti presenti nella regione dei Balcani per dare vita ad un network di informazione indipendente. Le informazioni vengono raccolte da fonti locali ed elaborate dalle sedi della tela presenti in Bosnia Erzegovina, in Albania, in Montenegro e in Serbia. http://balkans.courriers.info/ Sito di approfondimento sui Balcani legato al grande quotidiano francese Le Monde e al suo Le Monde – Diplomatique. http://www.ana-mpa.gr/anaweb/ L'equivalente dell'Ansa in Grecia http://www.ekathimerini.com/ Il più importante quotidiano greco, di area conservatrice. Fondato del 1919, ha un circolazione quotidiana di 32mila copie che con l'edizione domenicale raggiunge le 150mila copie.

CAMBOGIA LIBRI RUGGIERI CORRADO, «Bambini d’oriente», Feltrinelli, Milano 1998 Birmania, Cambogia e Laos descritti con i volti e le storie di uomini e donne feriti dal passato e di bambini che non hanno mai conosciuto l'infanzia. LEPRE AURELIO «CHE C'ENTRA MARX CON POL POT? IL COMUNISMO TRA ORIENTE E OCCIDENTE» Laterza, Bari 2001 L’analisi di un sogno libertario che si è trasformato nell'incubo delle stragi in Cambogia. Un testo che sottolinea come l'effettiva realizzazione del comunismo nel XX secolo abbia mantenuto valide le idee sul suo massimo teorico. SHORT PHILIP, «Pol Pot: Anatomy of a Nightmare», Holt Paperbacks, 2006 L'opera di un pazzo o il risultato di precise dinamiche storiche? L'autore traccia un convincente ritratto del “fratello numero uno” dei Khmer rossi, individuando però anche cause più ampie nella strada che portò alla creazione del regime responsabile di 1,7 milioni di morti. FAWTHROP TOM, JARVIS HELEN, «Getting Away with Genocide? Elusive Justice and the Khmer Rouge Tribunal», Pluto Press, 2004 Un eccellente e comprensivo resoconto dei lunghi intrecci tra poteri stranieri e Khmer rossi, nonché dei compromessi con i quali è stato messo in piedi il tribunale misto che avrà il compito di giudicare gli ex leader del regime, a partire dal “compagno Duch”. DUNLOP NIC, «The Lost Executioner: a Story of the Khmer Rouge», Walker and Company, 2006 La tragedia cambogiana rivisitata dal fotogiornalista che nel 1999, dopo una ricerca quasi ossessiva, scoprì il “compagno Duch” nel nord della Cambogia, dove lavorava come operatore umani-

tario dopo essersi convertito al cristianesimo. In seguito a quell'incontro, Duch si consegnò spontaneamente alle autorità. CHANDLER DAVID, “Voices from S-21: Terror and History in Pol Pot's Secret Prison”, University of California Press, 2000 La ricostruzione degli orrori di Tuol Sleng, il carcere-simbolo del genocidio cambogiano, dove oltre 15mila persone furono torturate e uccise nei tre anni, otto mesi e venti giorni del regime. LOCARD HENRI, «Pol Pot's Little Red Book: The Sayings of Angkar», Silkworm Books, 2005 Una raccolta dei proverbi usati dai Khmer Rossi nella loro follia autodistruttiva. Frasi come “Brucia l'erba vecchia, per permettere a quella nuova di crescere” assumono un atroce significato, se applicate al genocidio di cui si rese responsabile il regime.

FILM ROLAND JOFF, «Urla del silenzio», Gran Bretagna 1984 Vincitore di tre premi Oscar, il film racconta il genocidio cambogiano attraverso la storia di Dith Pran, il fixer cambogiano del giornalista del New York Times Sydney Schanberg. RITHY PANH, S-21, «La machine de mort Khmère rouge, Francia, 2003 Sopravvissuti al carcere di Tuol Sleng ripercorrono gli orrori del centro di detenzione, confrontando i loro ricordi con quelli delle ex guardie. Un commovente esempio di quanto in Cambogia sia difficile parlare di quella tragedia, ancora oggi

SITI INTERNET http://www.dccam.org Il sito del Documentation Center of Cambodia, l'organizzazione che cerca costantemente di fare luce sui crimini dei Khmer rossi, formando una memoria storica nazionale su quella tragedia. http://www.eccc.gov.kh/english/ Il sito delle “Camere straordinarie in seno alle corti cambogiane”, il tribunale misto che dovrà giudicare cinque ex leader dei Khmer rossi. Trasmette in diretta le udienze dei processi. http://www.time.com/time/daily/polpot/1.html Una galleria fotografica per tornare con le immagini al tempo dei Khmer Rossi. http://jim.com/canon.htm#ch5 Ampia documentazione sulle dispute intellettuali intorno al regime dei Khmer Rossi; buona parte dell'intellighenzia occidentale, all'epoca, era affascinata dalla retorica rivoluzionaria di Pol Pot.


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