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mensile - anno 2 numero 6 - giugno 2008

3 euro

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

Il cuore nero dell’Algeria

Etiopia Libano Argentina Israele Italia Mondo

Il grido strozzato La politica entra in classe Aspettando Evelyn Con un palestinese nel mirino Sentirsi italiani di Daniele Cologna, Elena Granata, Cristiana Novak Afghanistan, Messico, Serbia, Libia Gino Strada

Curare una persona ogni tre minuti: quanto costa o quanto vale? Il settimo fascicolo dell’atlante: Pakistan


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I don’t need to fight to prove I’m right. The Who

giugno 2008 mensile - anno 2, numero 6

ara lettrice e caro lettore, nel nostro Paese tanti, forse tutti, si lamentano dell'informazione. Giornali, Televisioni, Radio devono fare i conti prima con i proprietari e solo dopo con i lettori, che si meriterebbero un’informazione libera capace di raccontare la realtà con l'approccio etico che richiedono i difficili tempi in cui viviamo. Tutto questo accade a discapito del buon senso, dei diritti e dei doveri di chi è informato e informa, e persino della Dichiarazione Universale, che all'articolo 19 stabilisce il diritto all’informazione dei cittadini: è l'informazione che dovrebbe fornire gli elementi necessari per farsi una opinione, e per poter scegliere liberamente il proprio stile di vita, i propri rappresentanti, le proprie idee. Un’informazione “con le mani legate”, insomma, produce una finta democrazia. Fino ad ora PeaceReporter ha potuto permettersi di fare informazione libera, perché non dipende dai soldi dello Stato, da quelli di un partito, o di grandi banche e aziende. Non abbiamo proprietari, non abbiamo interessi da difendere se non i nostri e i vostri, ma questo, per ovvie ragioni, rende assai precaria la nostra sopravvivenza. Per rimanere così, liberi da condizionamenti, abbiamo bisogno del sostegno di voi lettori, i nostri veri “padroni”: gli unici a cui rendere conto di quello che scriviamo, di quello che raccontiamo. Non siamo una S.p.a. e non possiamo vendere azioni, ma abbiamo deciso di farlo in modo virtuale, mettendo in vendita l’azionariato simbolico di PeaceReporter che, grazie al vostro sostegno, ci permetterà di continuare a diffondere quella cultura di pace indispensabile per costruire l'unico futuro possibile: quello libero dalle guerre e dalla cultura della guerra. Abbiamo fissato il prezzo base di ogni “buona azione” di PeaceReporter a trenta euro. La sua validità simbolica è di dodici mesi e, come le azioni reali, anche le nostre possono essere comprate a “pacchetti”. Diventando “azionisti virtuali” riceverete un certificato, come questo nella pagina a fianco, che attesta il vostro impegno concreto a sostegno della libera informazione. Inoltre la vostra “buona azione virtuale” diventerà un concretissimo abbonamento alla rivista mensile di PeaceReporter. Finalmente una buona azione di cui andar fieri, da stampare e appendere in bella vista per aiutarci a diffondere la cultura della pace.

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Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Christian Elia Matteo Fagotto Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Stella Spinelli Naoki Tomasini Alessandro Ursic

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Blue & Joy Francesca Borri Erminia Calabrese Daniele Cologna Gabriele Del Grande Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Nicola Falcinella Elena Granata Giorgio Gabbi Paolo Lezziero Sergio Lotti Cristiana Novak Achille Piotrowicz Claudio Sabelli Fioretti Gino Strada

Progetto grafico Guido Scarabottolo Segreteria di redazione Silvina Grippaldi Relazioni esterne Marco Formigoni Redazione e amministrazione Via Meravigli 12 20123 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net

Hanno collaborato per le foto Francesca Borri Lucio Cavicchioni Laura De Santi Luana Monte/Prospekt Giorgio Palmera/FSF Samuele Pellecchia/Prospekt Achille Piotrowicz

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Amministrazione Annalisa Braga

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Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Meravigli 12 - 20123 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07

Foto di copertina: Donna algerina, Algeria 2008. Laura De Santi©PeaceReporter

Attenzione! I termini “azione”, “azionista”, “campagna di azionariato popolare” e simili vanno intesi in senso puramente simbolico, figurato, metaforico. L’acquisto di una “azione” di PeaceReporter non ha valore legale e non costituisce titolo di proprietà.

Algeria a pagina 4

Migranti a pagina 24 Libano a pagina 20

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Etiopia a pagina 10

L’informativa completa è disponibile sul sito di Picomax: www.picomax.it Scritti, disegni e fotografie anche se non pubblicati non verranno resi.

Argentina a pagina 18

Italia a pagina 22

Israele a pagina 14 3


Il reportage Tamanrasset

Il cuore nero dell’Algeria Di Laura De Santi Rifugio per centinaia di famiglie in fuga dal Nord dell’Algeria insanguinata dalle violenze degli anni Novanta, Tamanrasset è oggi la città dei migranti. Più di trenta nazionalità convivono nella capitale del Sahara. Tra chi aspetta la sua occasione per compiere un altro passo verso il mare e chi, deportato dalla polizia algerina, deve rifare tutto da capo, o quasi, nel lungo cammino verso l’Europa. n questa stagione di venti di sabbia il cielo di Tamanrasset, o Tamenghest in tamashek, una delle varianti del berbero parlata dai tuareg, è bianco latte. Il grande caldo qui, a mille e quattrocento metri di altitudine, non è ancora arrivato. Il sole pesa sull’asfalto appena fatto e sulle nuove file di case in cemento inadatte alla violenza del Sahara, ma le folate di vento polveroso daranno, ancora per pochi giorni, sollievo alla città. Capoluogo dell’ Hoggar, terra di Tin Hinan, la mitica regina dei tuareg che forse era un re, come rivelano le ultime ricerche britanniche, Tamanrasset, a duemila chilometri a sud di Algeri è da sempre il punto d’incontro delle grandi carovane in arrivo da Agades e Arlit nel Niger o da Gao e Bamako nel Mali. Terra di nomadi, terra di passaggio, lungo la pista dei carri che nel settimo secolo univa l’Atlantico a Tripoli. Oggi, quelle stesse rotte, quelle stesse piste di sabbia incandescente, sono percorse ogni anno da migliaia di migranti che dai paesi del Sahel e dell’Africa nera arrivano in Maghreb con la speranza di raggiungere la costa. Da quando nel Duemila, dopo un decennio di apertura, il leader libico Muammar Gheddafi ha stretto accordi con Italia e Ue e proclamato il pugno di ferro contro l’immigrazione irregolare, l’Algeria, via Tamanrasset, è diventata una delle rotte principali per chi punta al Mediterraneo e al sogno europeo. Migranti di almeno trenta nazionalità non soltanto africane, ma anche asiatiche, convivono, o meglio sopravvivono, a Tam. Comunità anglofone e francofone, cattolici e musulmani, in arrivo da Niger e Mali, Nigeria, poi Camerun, Angola, Liberia, Costa d’Avorio, Mauritania, Burkina Faso fino a Bangladesh, India e Pakistan, transitano dall’estremo sud algerino. Un passaggio lungo anche due o tre anni, necessari per raccogliere quei pochi euro fondamentali per compiere un nuovo passo verso Nord. Che sia verso Djanet, in direzione della Libia, o In Salah – Ghardaia, per proseguire poi ad Algeri, Annaba, Orano. Che sia nei camion, nei pick up Toyota o negli autobus di linea. Nella ‘capitale del sud’ basta svoltare un angolo per sentirsi in un attimo nel cuore dell’Africa. Basta uscire dalla strada principale, punteggiata da negozietti di artigianato tuareg per i rari turisti che scelgono il Sahara algerino. Difficile per ‘un suad’, un nero, come li chiamano gli algerini, arabi o berberi che siano, nascondersi tra i cinquantamila tuareg di Tam e le poche migliaia di abitanti fuggiti dalle violenze del terrorismo di matrice islamica che negli anni Novanta ha insanguinato soprattutto il Nord del paese maghrebino. Centinaia di famiglie, della Cabilia, Setif e Jijel, a nord-est, hanno scelto la pace del Sahara e oggi detengono la maggior parte dei ristoranti della città. Come fare a sfuggire alle retate della polizia algerina? Come evitare di farsi arrestare e rinchiudere nel centro di detenzione di Tam prima di essere abbandonati in pieno deserto lungo il confine con il Mali, a TinZaouatine, o il Niger, a In Ghezzam?

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“Basta trasformarsi in un’ombra’’, ci dice Amadou. Ghatta El Oued. Amadou sorride, seduto con i suoi compagni di avventura su uno dei muretti roventi lungo il Oued (torrente) che divide in due la città. Un fiume fantasma. L’acqua è un ricordo ormai lontano di mesi e nell’enorme spianata vagano le inarrestabili capre dalle macchie rosse sul dorso per il troppo grattarsi sui muri di terra delle case. Sembra quasi di vedere le vacche sacre dell’India. Se ne trovano ovunque, arrampicate sui cespugli e sui terrazzi, per le strade. Alla continua ricerca di qualcosa di commestibile, le ‘capre rosse’ mangiano qualsiasi cosa gli capiti sotto tiro: perfino i sacchetti di plastica che svolazzano per tutta la capitale del sud. Una vera calamità per l’Algeria, ‘risolta’ dal ministro dell’ambiente, Cherif Rahmani, con un cambio di colore: da neri a colorati, ovviamente sempre di plastica. Anche i camion-cisterna che trasportano fino a qui benzina e gas parcheggiano insieme ai dromedari, nel letto del fiume. nel quartiere di Ghatta El Oued, aldilà del torrente in arabo, che vivono la maggior parte dei migranti. Quasi mai infrangono questo confine immaginario. “Non bisogna creare problemi e restare nella nostra zona’’, ci dice in inglese Amadou, “insomma vivere come ombre’’. Ma “in realtà conta soltanto la fortuna’’, continua, mentre gli altri, tutti in arrivo dalla Nigeria, preferiscono restare in silenzio. Alcuni si allontanano come intimoriti da questi bianchi, strani turisti del Ghatta. “Ci sono periodi in cui la polizia ci lascia in pace e altri in cui tutti i giorni arresta qualcuno. Poi arriva il momento delle ‘grandi pulizie’ e ci prendono a centinaia. Io sono già andato e tornato da In Ghezam alla frontiera con il Niger, seicentocinquanta chilometri a sud di Algeri, tre volte’’. Amadou ha ventitré anni e ha voglia di parlare. Dalla doppia tasca dei suoi pantaloni tira fuori il suo prezioso pacchetto di carte. Ci mostra orgoglioso la sua carta d’identità, il suo diploma. È un ingegnere informatico. “Lavoravo per una società cinese’’. Allora perché partire? Perché rischiare così tanto? “A casa eravamo in otto e sono l’unico uomo di famiglia. Sono partito per poter mangiare bene, per potermi vestire. Quando decidevo di comprare una camicia, per tutto l’anno nessun altro avrebbe potuto permettersene una’’. È dalle sei di questa mattina che Amadoù è seduto sul suo muretto lungo il Oued. Qui arrivano i ‘cacciatori di teste’. Da qui passa chi ha bisogno di manodopera a basso costo. Nell’ultimo anno decine di case sono spuntate nei nuovi quartieri di cemento alla periferia della città. È qui che vengono impiegati la maggior parte degli immigrati. Si possono guadagnare dai trecento ai cinquecento dinari al

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Al mercato di Tamanrasset. Algeria 2008. Laura De Santi per PeaceReporter


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giorno (dai tre ai cinque euro) se si è particolarmente veloci e specializzati. Un algerino ne prende almeno mille. Anche gli edifici pubblici vengono costruiti con i ‘suadine’ . Mai però impiegati direttamente dallo Stato, che appalta i lavori a imprenditori locali. Vicino ai cantieri, alcune donne, le poche che sono riuscite a restare fuori dal giro della prostituzione, si sono organizzate e preparano piatti tipici del paese di origine di chi lavora in quella zona. i, perchè a Tam, ogni nazionalità ha rigorosamente il suo spazio, uno Charman (capo tribù), una cassa comune, la sua roccia su cui dormire. Ci si mescola di rado. La divisione più netta è tra anglofoni e francofoni. Eletto periodicamente, lo Charman guida la comunità. Prende le decisioni importanti. Decide come amministrare i soldi del gruppo: usati per riportare un malato a casa, nel suo paese, o concedere un prestito a chi vuole continuare il cammino verso Nord. “Pochi giorni fa un camerunese è impazzito’’, ci spiegano alcuni ragazzi al lavoro in un cantiere. “Si era fumato roba non buona. Non poteva più stare qui. Abbiamo raccolto ventimila dinari ed è partito accompagnato da un amico’’. Faraone, Charman del Cameron, decide di aprirci le porte del gruppo. In questi giorni è impegnato nel riportare la pace tra la sua comunità e quella della Nigeria. “Abbiamo già abbastanza problemi. Le guerre tra noi attirano soltanto la polizia’’, ci racconta Willy, uomo fedele di Faraone. Uno schiaffo, si dice in giro, ha fatto emergere la tradizionale rivalità tra due paesi. Tra i nigeriani che controllano il mercato della droga e “vogliono affermarsi come gruppo dominante e i Camerunesi, che non si vogliono lasciar fregare’’. Risultato: sei camerunesi rapiti e rappresaglie nel ghetto dei nigeriani, diversi feriti e alcuni fermi della polizia. La wilaya, la prefettura di Tamanrasset, che si estende su un territorio superiore a quello della Francia, detiene il triste record del più alto numero di arresti tra gli immigrati di tutta l’Algeria. Nel primo trimestre del 2008, secondo i dati della gendarmeria, centocinquanta persone sono state fermate soltanto lungo la strada tra Tam e Ghardaia (cinquecento chilometri a sud di Algeri). In quattrocento sono stati presi nella stessa zona nel 2007. È invece impossibile avere un numero esatto degli arresti in città, “già quasi un migliaio dall’inizio del 2008’’, dicono gli stessi migranti. Inoltre dalla capitale dei Tuareg transitano quasi tutti i sans papiers arrestati nelle altre regioni. “L’ultima grande deportazione verso TinZaouatine risale a circa un mese fa’’, spiega Willy. “Hanno caricato su cinque camion circa seicento persone’’. “Accumulano nel centro di detenzione di Tam il maggior numero di persone. Poi organizzano i convogli diretti alle frontiere. I camion li affittano ed è più conveniente prenderne tanti tutti insieme, non partono mai meno di cinque veicoli’’. Willy ha lasciato Yaoundé cinque anni fa ed è già stato arrestato almeno dieci volte. “Veramente, non mi ricordo nemmeno più quante. L’ultima volta mi hanno preso a un posto di blocco a In Salah, mille chilometri a nord. Mi hanno riportato subito al centro di detenzione di Tam’’. Ogni giorno due mele ciascuno e una scatola di latte in polvere ogni cinque detenuti. Poi via, verso ‘la città dove Dio non esiste’, come chiamano i migranti l’oasi di TinZaouatine, lontana più di quattrocento chilometri da Tam e trecento da Kidal. “Mi hanno preso per colpa dei documenti fatti male. Ero su un autobus di linea diretto verso Ghardaia. ’’

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artito da Yaoundé nel settembre del 2004, con mille euro nascosti un po’ nei calzini, nella cintura e nell’apposita doppia tasca dei pantaloni, Willy è arrivato in Algeria più di due anni fa. Senza più un soldo, adesso deve rifare tutto da capo. Deve raccogliere il denaro per il viaggio e per i documenti falsi: millecinquecento dinari (quindici euro) per una carta da rifugiato, fino a cinquanta euro per un passaporto con una foto visibile e un timbro ben fatto. Il tutto rigorosamente

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maliano. “Non usiamo mai documenti algerini. Tutti cercano dei documenti del Mali’’. Unico paese dell’area a cui l’Algeria non chiede il visto d’ingresso. Mentre parla, Willy ci accompagna a ‘casa sua’. Le strade diventano terra, poi pietra. Nessuna costruzione, non un’anima viva. Soltanto alcuni avvoltoi volano in cerchio sulle nostre teste. In lontananza qualche ‘ombra’ tra le montagne. “Ecco, quello è lo Sheraton! Un po’ più in là c’è l’Hilton!’’. La maggior parte degli ‘aventuriers’ vive qui, tra le rocce alla periferia della città. “Qui, dove non esistono né la pioggia né il sole’’. Con un cappellino da baseball calcato sulla fronte, Willy cerca di nascondere la ferita che ha sull’occhio. “Volevo fare il calciatore. In Camerun giocavo. Adesso mi sono specializzato nelle mattonelle’’. Sorride Willy ma non vuole parlare dell’incidente. “No, non è stata la polizia. Anche se a ogni arresto ci accolgono con le bastonate’’. “Ho avuto un viaggio difficile ma non sono mai stato aggredito. Sono stato solo un po’ stupido’’. Il suo viaggio attraverso Nigeria e Niger è durato più di due anni. “Chi conosce la strada può arrivare direttamente fino ad Arlit, nel nord Niger. Io invece prima di partire non sapevo nulla, ho fatto tappa per tappa. Dei percorsi a piedi…’’. Yaoundé-Ngaoundurè, Camerun, in tre giorni per millecinquecento dinari. Poi su fino a Garoua (ciquecento dinari), vicino alla frontiera con la Nigeria. E ancora Garoua, Manduguri, Bauchi, Kano, Maradi, nel Niger, poi Agades e Arlit. Ultima tappa, a bordo di una Toyota, da Arlit a Tam per circa cinquemila dinari e tre giorni di viaggio. “Ne basterebbe uno solo ma a volte bisogna allungare il percorso per evitare le pattuglie delle guardie di frontiera algerine’’. L’ultima tratta la controllano i Mbouzou, le esperte guide tuareg. Contrabbandieri che scendono verso sud carichi di ogni tipo di merce, dalle sigarette ai biscotti algerini scaduti destinati ai paesi vicini, e ritornano carichi di esseri umani. Dopo una giornata passata insieme, Willy ci confida il suo sogno: Venezia. “La città sull’acqua’’, dice. n realtà Willy non sa nemmeno dove si trova e come fare ad arrivarci. Sa soltanto che è in Italia, aldilà del mare. “Quel paese con una lingua così strana’’, ci spiega. “Dove ci sono il Milan AS’’, come lo chiamano tutti in Africa, “quelle cose di mafia e la pasta’’. “Sono stanco, ma mi fermerà soltanto la morte, o Venezia. Questo è il mio cammino. È una vita’’. Willy non vuole cambiare rotta, come fanno in molti dopo alcuni tentativi falliti. “Il deserto mi spaventa, andare a Djanet e poi in Libia è troppo pericoloso. Continuerò verso il nord, verso la costa, poi vedremo. Penso soltanto alla prossima tappa.’’. Non conosce nemmeno Annaba, la città sulla coste orientale dell’Algeria, da dove partono le imbarcazioni dirette in Italia. Pensava di andare a Maghnia per poi entrare in Marocco. Adesso forse, lo abbiamo un po’ confuso. “Ci penserò, grazie del consiglio.’’. Non senza prima guardarsi intorno, scende dall’auto. Ritorna sull’Oued, con Faraone e gli altri della sua tribù, in attesa di un lavoro. In attesa di quei pochi euro necessari almeno a lasciare Tamanrasset prima dell’arrivo del grande caldo. Ma non proprio tutti vogliono andarsene da qui. C’e chi dopo anni di attesa ha deciso di restare e investire i suoi guadagni in un ristorantino, My Namay, la carne in Nigeriano. Se ne contano ormai più di dieci in città. Specialità My Namay: carne di agnello arrostita nei forni tradizionali. Se ne può ordinare una porzione dai cento dinari in su rigorosamente accompagnata da peperoncino. Tra chi, convinto dal florido mercato delle centinaia di militari presenti a Tam, non ci pensa proprio a partire, ci sono molte donne. Un intero quartiere, il ‘Chateaux’, è riservato alle prostitute africane. “Loro sì che guadagnano bene: trecento dinari a passaggio’’, ci dice Amadou, prima di salutarci. “Perché dovrebbero partire?’’.

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In alto e in basso: Migranti a Tamanrasset. Algeria 2008. Laura De Santis per PeaceReporter


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A TE RISOLVERE QUESTA OPERAZIONE NON COSTA NULLA, MA IL RISULTATO VALE PIÙ DI QUELLO CHE PUOI IMMAGINARE.

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I cinque sensi dell’Algeria

Udito Unico al mondo, il suono struggente dell’Imzad è il cuore della musica Targui. Un cuore però che rischia l’arresto. Se nel 2003 esistevano ancora nove donne capaci di far vibrare il difficilissimo strumento, una sorta di violino a una sola corda, oggi ne restano soltanto tre in tutto il Sahara algerino. Ricavato dalla metà di una zucca, l’Imzad viene poi ricoperto con pelle di cammello e decorato con motivi e scritte in Tifinagh (l’alfabeto berbero ancora utilizzato dai Tuareg).

Vista Arancione, rosso, viola, giallo e poi l’immancabile blu. Le donne si avvolgono dalla testa ai piedi nel loro tissernes. Una semplice stoffa, le più pregiate sono in puro cotone, lunga almeno cinque

metri. Per le grandi occasioni si indossa il tradizionale tissernes blu. Il nuovo tessuto, colorato con l'indaco, la stessa tintura vegetale utilizzata anche per i teli usati come turbante dagli uomini, la quale tinge la pelle... Ecco spiegati gli ‘uomini blu’.

Gusto Il primo bicchiere è forte come l'amore, il secondo è amaro come la vita e il terzo è come la morte, dicono i Touareg. Il tè scandisce qualsiasi momento della vita sahariana. Oltre ad essere servito zuccherato e bollente nei numerosissimi cafè di Tamanrasset, il tè viene preparato nei mercati, nelle piazze e nelle botteghe di ogni artigiano. Non si viaggia mai senza il kit per il tè: un mini fornelletto, bicchierini in vetro, una piccola teiera in ferro, zucchero in pezzi e ovviamente, la preziosa polvere in arrivo dalla Cina. Niente menta, usata invece nel classico tè maghrebino.

Impossibile farla crescere nell’estremo sud.

Olfatto L’odore forte del montone arrosto. Che sia cucinata nelle classiche ‘brochette’, onnipresenti in tutta l’Algeria, o nei forni tradizionali dei ristoranti My Namay importati dalla Nigeria, la carne occupa uno spazio importante nella cucina del posto. Sicuramente più di frutta e verdura, merce rara da queste parti.

Tatto La sabbia sembra lontana da Tam, immerso in una vallata di montagne di roccia rossastra, e invece é sempre li. Nel naso, in bocca, tra i capelli. La sabbia entra nella pelle e la prosciuga. Scricchiola tra i denti. 9


Il reportage Etiopia

Il grido strozzato di Achille Piotrowicz Sto aspettando 5 ragazzi, immobile, sul marciapiedi. E' mezzogiorno e fa più caldo del solito. Si avverte un'aria diversa in questi giorni, si sente un odore forte di umido. E' la stagione delle piogge, che sta per abbattersi su Addis Abeba, la capitale dell'Etiopia, una città che fa di tutto per mostrare il suo sviluppo, una città in crescita che ha tutte le caratteristiche per poterlo essere. Nel giro di pochi anni è riuscita a rinnovare completamente la propria immagine, attirando gente da ogni parte: dall'estero, ma soprattutto dai territori più poveri del paese. eppa di cantieri e di palazzi a vetri, ha quasi sette milioni di abitanti, pullula di fuoristrada, di imprenditori di tutto il mondo e di uomini d'affari. Il gruppo, che mi ha dato appuntamento vicino all'Autobus station, zona nord, a 2401 metri d'altitudine, è in ritardo. Ne fa parte Tadios, ventitré anni, mandato via di casa ancora bambino. Colpa dalla famiglia, che, esasperata dalla povertà, preferì liberarsi di un figlio di troppo. Ha un'esperienza di sedici anni di vita trascorsi in strada. È magro, quasi tutti lo sono, ma lui in particolar modo, eppure è un buon leader per i suoi amici. Vorrebbe un lavoro e basta, lo dice sorridendo, ma i suoi occhi puntano verso il vuoto. Indossa un grembiule da lavoro giallo, un jeans stinto che cade su ciabatte chiuse di plastica beige. C'è Abayneh, che ha una storia diversa. Faceva il barbiere in Shashemene, una piccola città a 290 chilometri dalla capitale. Incastratosi tra la marijuana e il chat, sostanze abusate da molti nel Corno d'Africa, fu costretto a seguire il consiglio di un suo amico, che, sei anni fa, lo incoraggiò a raggiungere Addis e vendere l'attrezzatura da lavoro e con i due soldi guadagnati ritornare a pagarsi i debiti. Lui è partito, si è liberato degli arnesi, ma è rimasto in città, ora da vicecapo del gruppo dorme in mezzo a un incrocio nel quartiere chiamato Mercato. Poi ci sono Keder, Tlaune, Kebebe, rispettivamente di sedici, diciassette, sedici anni, alcuni trascorsi sui marciapiedi della città: si portano dietro altri racconti di miseria e abbandono. Qui ci sono diciassettemila street kids. Tutti approfittano di aiuole, asfalto, angoli di negozi, tombini, tubi da cantiere enormi, in cemento, un riparo qualsiasi. Tutti legati alla povertà estrema, ai sogni che una big town africana regala, insieme alle illusioni, ai lavori insufficienti. Qualcuno ha perso ogni cosa, è stato sbattuto fuori casa, davanti ai propri vestiti bruciati dagli stessi genitori. È probabile che ci sia anche chi li ha venduti, quei pochi indumenti, magari per pagarsi un boccone di injara rancido, comprato a pochi centesimi di birr davanti a una chiesa da un senza tetto qualsiasi; potrebbe aver speso un birr per affittare un angolo in qualche baracca, giusto le prime notti, per via della paura di dover affrontare l'aspra legge urbana: non scritta, non reperibile da nessuna parte; la si può solo imparare dalla strada, sfidandola, scontrandocisi.

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All'improvviso un Isuzu cassonato si ferma a pochi metri da me. È carico di cibarie e miele. L'autista scende e sparisce per il pranzo. Sei bambini alti un metro si catapultano a scaricare dei sacchi di plastica nera destinati al market di fronte. Lo fanno per rimediare qualche spicciolo. Durante l'eccitazione generale si rovescia un poco di liquido sulla paratia laterale del mezzo. Finito in fretta il lavoro, qualcuno dei piccoli si accorge del dolce compenso, pochi secondi e in rapida successione le manine strisciano ripetutamente, velocemente sulla lamiera, sull'asfalto, poi verso la bocca, lentamente. Il driver ritorna, rompe quell’attimo d'intimità cercando di dare qualche calcio qua e là, poi sbatte la portiera e riparte. I ragazzini si ricompongono, si aggiustano quei vestiti troppo larghi, da adulti, tornano a sedersi in centro strada, sullo spartitraffico, e si scrollano di dosso i residui infantili, inadatti ad affrontare la loro realtà. Dal lato opposto, di fronte a loro, resta la macchia d'unto sulla carreggiata. L'umidità di oggi preannuncia il cambio di stagione e quasi non si resiste senza ombra. Già da diversi giorni, verso sera scendono le prime gocce di pioggia, nulla in confronto agli acquazzoni futuri. Nessuno sembra preoccuparsene, a partire da chi ha un tetto, anche se in lamiera. li street kids conducono una vita, senza aspettative, ogni giorno osservano il tramonto e l'arrivo della notte; ogni notte sperano nell'inizio del giorno, con l'arrivo dell'alba, dopo la quale si trasferiranno in punti dove spazzini e negozianti non ramazzano addosso. Sono homeless, ma, a differenza di quelli che si riuniscono davanti alle chiese ortodosse, si sforzano di vivere in pace e senza fastidi. E' raro che chiedano elemosina, quello che serve cercano di guadagnarselo. Qualcuno fra loro se la cava trovando lavoretti saltuari, di solito lava macchine o pulisce scarpe oppure rimedia un posto nei tanti cantieri edili. C'è anche chi si arrangia tra i bidoni degli hotel. A volte in gruppo riescono a comprare un carretto di ferro e lamiera, poi tutte le sere percorrono le vie dei ristoranti raccogliendo l'immondizia, in cambio di qualche busta piena di avanzi di cibo. Addis Abeba per molti è l'unico posto conosciuto. Addirittura una sola parte di quartiere è l'unica realtà conosciuta. Mondi differenti, società alter-

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Street boy. Etiopia 2008, Achille Piotrowicz per PeaceReporter


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Economia

Politica

La principale risorsa economica etiope è il caffè, che costituisce il 30% delle esportazioni. E' però in crescita il settore minerario, con l’estrazione di oro e rame. Alcune esplorazioni fanno sperare nella scoperta di giacimenti petroliferi nella regione dell'Ogaden. L’Etiopia, a causa della guerra prolungata con l’Eritrea, si trova a dover dipendere quasi interamente dal porto di Gibuti per le esportazioni e le importazioni, con un conseguente sovrapprezzo delle merci per i diritti portuali. La crescita economica nel 2007 è stata del 9,8 percento. La riduzione del debito e l’accresciuta riserva di valuta estera hanno dato un po’ di respiro ai conti del paese, che soffrono di una bilancia commerciale in rosso.

Sul clima politico etiope pesano ancora le conseguenze delle elezioni del 2005, a séguito delle quali l'opposizione gridò alla frode scatenando le reazioni del governo, che soppresse con durezza le manifestazioni di dissenso. I morti furono centinaia, così come gli arrestati dell'opposizione, quasi tutti rilasciati poi negli anni successivi. Ma il problema maggiore rimane il conflitto latente con l'Eritrea, la cui fine non è stata mai formalizzata con un accordo di pace. I due Paesi, che si contendono alcuni territori di confine, hanno ammassato migliaia di truppe nei pressi della zona-cuscinetto, monitorata dai caschi blu, e si accusano a vicenda di voler ricominciare le ostilità.

native, costruite su più strati sociali. Quella degli street kids è fatta di scontri e lotte: si battono, umiliano, si fanno umiliare, magari per accaparrarsi il posto migliore dove dormire. Si affrontano sul turno per lavarsi nelle pozze generate dalle perdite dell'acquedotto comunale. La porzione migliore di cibo, qualsiasi cosa può essere pretesto per manifestare il proprio predominio. n alternativa resta lo scarto del chat, i ramoscelli, quello che normalmente viene gettato via perché più tossico, ma è gratis, basta solo buttare ogni tanto l'occhio tra i rifiuti e se ne trova a sufficienza. Anche la benzina, raccolta dai tubi dei distributori, durante le spedizioni notturne, inalata o addirittura bevuta allungata con acqua, fa parte dei rimedi per combattere la fame, quando il pasto non si riesce a metterlo insieme. Pure in questo caso è tutto for free: contenitore di plastica, pompa del carburante senza lucchetto, una mano che mantiene dritta l'imboccatura della bottiglietta e qualcuno che agita la pistola per far scendere qualche goccia. Resta solo da scovare dell'acqua, ma è sufficiente una pozzanghera, uno scolo qualsiasi. Perdere l'appetito, tramite questi espedienti, è quindi vantaggioso: non ti tocca andare a lavorare, a meno che tu non sia l'unica fonte di sussistenza per qualcuno. A un certo punto si aggiungono i temporali estivi. Sono troppo violenti. Proprio non puoi ripararti sotto dei teli di cellofan, eppure i bambini, i ragazzi lo fanno, con naturalezza e semplicità. Le strade si allagano, alcuni tratti della città si isolano, altri diventano impraticabili, vento, cielo grigio, freddo, i soliti vestiti indosso, fradici marci. Una copertura di plastica. Davanti a una porzione di bozena shirò (crema di ceci con pezzetti di carne e sugo di pomodoro), mangiata su di un cartone appoggiato per terra, all'interno di un cantiere non ultimato, mi vengono spiegati i rimedi contro gli acquazzoni... proprio in questo periodo chi ha i soldi si prepara a evitare che la casa si allaghi; è notte, la luce del lampione, fioca, illumina appena il volto di uno dei sette giovani mentre è concentrato nella sua spiegazione accompagnata dalla mimica che aiuta a comprendere meglio la realtà. La tecnica pare alquanto inadeguata, un riparo assurdo mi è stato appena descritto nell'aria nera delle undici di sera e so per certo che la sola alternativa sta nel riformatorio. Bisogna farsi arrestare per qualche piccolo reato e solo così recuperi le forze. Un letto vero, asciutto, cibo brutto, ma lo mangi tre volte in un giorno, piccole attività ricreative. Questa è l’unica soluzione che loro si possono permettere come alternativa di vita. Goitum e Jonas li incontro strada facendo. Sono due tipi particolari, cioè insieme formano una coppia di lavoro divertente, uno alto e l'altro piccolo. Camminano velocissimi, si muovono con frenesia su e giù nei quartieri, sempre portandosi buste nere. Sono ferraioli. Cioè riciclano, dalla discarica o dal fango delle fogne, ogni pezzo o fil di ferro che si possa andare a vendere nelle fonderie. Dieci ore con i piedi a mollo, ramazzando con le mani nell’immondezzaio. Dormono con gli stessi vestiti che indossano, per chissà quanto tempo. Hanno una casa, una baracca, nel loro villaggio alle porte di Addis Abeba, preferiscono però dormire sul marciapiedi. A ogni modo il loro scopo è quello di realizzare in danaro l'equivalente di un dollaro. Nelle officine il materiale è valutato due birr al chilo, ma subito dopo averlo fuso acquista valore, tant’è che il prezzo per i cantieri sale di due volte e mezzo, più spesso tre. Il problema dei due compari sta nel fatto che una volta rimediati un po’ di soldi, si abbandonano tra i viottoli di Mercato finché economicamente se lo

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possono permettere. Il governo da queste parti non è contento che si parli di adolescenti senza un asilo, e neanche la gente comune. L'argomento è tabù. volte ci sono state delle vere e proprie spedizioni, organizzate su misura per liberare un poco l'ambiente, rinfrescare la difficile convivenza tra il mondo in “sviluppo” e l'altra società etiope, quella alternativa, quella che racchiude tutto ciò che non si dovrebbe vedere. Il metodo impiegato, con scarsi risultati, pare essere noleggiare dei pullman, su cui caricarci un po’ di giovani “vagabondi” da rispedire fuori città, nella migliore delle ipotesi da dove sono venuti. Ma è inutile nascondere l'evidenza: centoventimila famiglie vivono senza un tetto, qui, sotto gli occhi di tutti, sotto la supervisione delle associazioni venute da tutto il mondo. Di giorno i disgraziati imperversano negli incroci, chiedendo la carità, qualcuno forse esagerando nei modi, a volte spingendo i propri figli piccoli, chi li ha, nella speranza d'impietosire i passanti, oppure approfittando dei propri problemi fisici, quando ne soffrono. Tutte le notti, invece, si accostano ai muri degli edifici di culto, costeggiando ogni lato del perimetro occupabile. Sempre più numerosi progetti di sviluppo sociale. Ma la storiella che anche piccole e poco mirate attività sono sempre meglio della non azione, non giustifica la massiccia presenza di associazioni internazionali per la cooperazione. Qualcuno si è tradito confessando piani che non rientrano nelle esigenze primarie per la crescita sociale. L'Italia vanta un discreto numero di Ong, il ministero ha pubblicato un depliant elencandone nomi e aree d'intervento: numeri, numeri e ancora numeri. Sempre cifre alte, giusto per restare in linea col contesto urbano. Sembra ci si preoccupi più di apparire ovunque che andare in fondo. Il coordinatore di progetto riveste un ruolo di rilievo, almeno crede, e questo non lo esenta dal farlo sempre presente; ad ogni modo, per la maggior parte di questi, si tratta di argomenti a loro sconosciuti. La cosa fondamentale è far credere di avere le mani e il controllo in ogni dettaglio. La sconfitta colpisce non solo gli organi stranieri. Ad esempio intorno al carcere minorile, unico centro di detenzione infantile di tutta l'Etiopia, sono sorti gli edifici di una scuola statale. Le due strutture sono adiacenti. Inevitabili gli scontri tra i giovani detenuti e gli studenti. La soluzione arriva dal ministero delle infrastrutture, che ha progettato una diramazione della ring road esattamente nel mezzo del complesso! La piccola Ong italiana, Ciai, che si occupa della “salute” dell'istituto minorile, ha presentato un piano diversivo, ma sanno che li aspetterà una lunga trattativa. Devono competere contro un'opera stradale supportata da un' imponente portata economica. Anche qui bisognerebbe decidere se dare priorità a un’azione sociale o preferire il lato economico di un' attività per lo sviluppo. Seduto stretto tra un gruppetto, durante una delle tante sere passate in mezzo alle vie, cerco di sforzarmi di comprendere, ma non capisco l'amarico, non capisco cosa voglia dire dormire sopra l'asfalto. Non capisco che caldo fa di giorno e non poterlo gustare perchè la notte ti penetra il corpo e le buste non ti riparano a sufficienza. Lo posso solo immaginare. Importante è portare fuori da questo schifo quel grido, che si portano strozzato dentro da diversi anni.

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In alto e in basso: Ragazzi per le strade di Addis Abeba. Etiopia 2008. Achille Piotrowicz per PeaceReporter


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L’intervista Israele

Un palestinese nel mirino Di Francesca Borri

Yehuda Shaul ha venticinque anni che ingannano. Densi di libri e di vita ma anche minimali, anni bianchi su sfondo nero come le pagine raccolte da ‘Breaking the Silence’, l’associazione di veterani dell’Intifada che ha fondato, dice, per portare la sua esperienza di militare da Hebron a Tel Aviv - perché “we were there, which is here”. ''Una delle nostre icone è il massacro del 1929. A Hebron furono uccisi sessantasette ebrei. Altri quattrocento, per la verità, furono protetti dai vicini arabi. Un giorno vedo questa vecchia venire giù dalle colline. Alcuni piccoli coloni cominciano a tirarle pietre. Allora fermo un bambino, gli dico: ma cosa fai? E lui mi risponde: sai questa donna, nel 1929 ... E allora capisci che qualcosa, qui, è in cortocircuito”. Torni a casa dicendo: questa è una battaglia per l’integrità psichica. Davvero non immaginavi niente? Sei a un checkpoint, e l’ordine è fermare i palestinesi e rispedirli indietro. Ma si può aggirare il checkpoint da una strada secondaria. E quindi perché è proibito passare? Qualsiasi terrorista conosce l’altra strada. I checkpoint sono pensati per tenere lontano da Israele non i terroristi, ma l’occupazione. E’ il nostro rito di passaggio. Diventi israeliano attraverso il servizio militare. Eppure nessuno ne parla. E’ il rimosso di Israele. Ma quale era il tuo rapporto con i palestinesi? I palestinesi? Vivi a Gerusalemme. È palestinese uno su tre. Sì, cioè... Ma non è che vedi degli arabi, vedi un problema politico, non delle persone. La prima volta che ho incontrato dei palestinesi è stato a Hebron. “Incontrato”... Appostato in una scuola con un lanciagranate. L’ordine è rispondere al fuoco, ma è impossibile capire il fuoco da dove arriva. E per cui a cosa spari? Qualunque cosa, qualunque luce. La prima volta pensai: ma sono matti? Avevo davanti un alveare di case e persone... Una granata non è un proiettile, colpisce e esplode, uccide chiunque nel raggio di otto metri, e tra l’altro è un’arma molto imprecisa, spari e poi vedi, un po’ più a sinistra, no forse un po’ più a destra. Spari, e chi trovi trovi. Ma che puoi fare? Obbedisci. Dopo una settimana è il momento più eccitante della giornata. Non hai niente da fare, sei stanco, ed è il tuo lavoro, vuoi solo sparare - sei alla playstation sulla collina di una città. “Non sapevamo mai cosa colpivamo. Ed era il solo modo per obbedire, non era una violazione ma una esecuzione degli ordini”. Ma non vi addestrano alle Convenzioni di Ginevra? Sono stato addestrato all’occupazione, non alla gentilezza. Una volta è venuto un giurista... Impeccabile, ragazzo. Ma prima voglio vederti a un checkpoint insieme a me. Discutevamo, ogni giorno. Dalle quattro alle cinque, i nostri valori. La nostra moralità. Ma poi esci di pattuglia... E all’improvviso, vedi questo oggetto metallico per strada. Allora prendi un arabo, e gli dici di togliere quella cosa di mezzo. Il primo arabo che trovi. Un’ora prima filosofavi di etica. Se sbaglio salto in aria, è la mia vita, non è un esame di diritto, solo la mia vita qui, o la fottuta vita di un fottuto Mohammed. “Non tutte le critiche sono ostili”. L’obiettivo, dici, è tracciare la linea rossa. Un’occupazione ‘illuminata’? 14

No. Non è questione di migliorare, no, questa non è la storia di un battaglione, ma di una generazione. Guardiamo Jenin, mi dicono: oh, ma sai che ho una foto uguale a Nablus? E’ tutto solo un susseguirsi di ordini assurdi e illegittimi, sparare a chiunque sia per strada dalle due alle quattro del mattino, sparare per uccidere, direttamente, e poi vai a ‘verificare l’uccisione’, per dirla tecnicamente - una sventagliata di proiettili - e chi era? Il fornaio con il pane. Non importa quanto cerchi di essere morale e umanitario, se gli ordini sono arrestarli e farli confessare con ogni mezzo, e nessuno tra noi però parla arabo, ma come vuoi che sia un’occupazione illuminata? I palestinesi dici, sono solo una questione di sicurezza. “La vera minaccia esistenziale è smarrire i nostri valori”. Sono un israeliano, i palestinesi non mi riguardano. Ti accusano di ignorare il terrorismo, ma il vero problema qui, è: difendiamo cosa? Quale società? Non mi giudico in base alle azioni altrui. Il potere intossica. Uno arriva al checkpoint, ha un permesso per una visita medica, e tu guardi serio le lastre in controluce e non sai neppure qual è la forma di un osso, ma tutti aspettano che apri - sei qualcuno, sei un uomo, e sei quello che comanda. Contiamo i morti ogni giorno, ma la perdita vera è la perdita della nostra umanità. Se un popolo che ha attraversato l’Olocausto scrive sui muri A morte gli Arabi, allora qualcosa è cambiato nell’idea di essere ebrei. Evitate le immagini più violente, solo “la più insidiosa realtà quotidiana”. La banalità delle immagini... Del male. E’ una degenerazione o la genetica del tentativo sionista di uno stato esclusivamente ebraico? Noi raccontiamo l’occupazione, poi ognuno decide da solo. Vi diciamo questo è il prezzo, in termini di diritti umani, di moralità, di stato di diritto, di democrazia. Poi ognuno è libero. Se sei un fondamentalista e ti va bene così, se sei Hamas con la kippah, bene - l’importante è che sei consapevole di cosa significa. Per te, non solo per i palestinesi. Ognuno ha le sue opinioni, ma quella che manca dal tavolo è la verità. Alla fine racconti, riveli denunci - ma sei qui, libero. Non è una auto-assoluzione? “Rompere il silenzio è una assunzione di responsabilità”. Ma la responsabilità non è in primo luogo nei confronti dei palestinesi? Certo che sono un criminale di guerra. E allora? E’ più importante che si parli di tutto questo piuttosto che uno su mille finisca all’ergastolo, è più importante il dibattito, la consapevolezza collettiva. Perché alla fine non è questione di arabi ed ebrei. Sei responsabile non perché sei un soldato, e neppure perché sei un israeliano, ma perché sei un essere umano. E’ una storia molto più grande di quella che entra in un tribunale. Chi sono i palestinesi per te? Questo è un silenzio che non so rompere. In alto: tra le macerie. In basso: militare israeliano controlla dei palestinesi arrestati Hebron, Cisgiordania 2008. Francesca Borri per PeaceReporter


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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

Chiapas, Marcos di nuovo nel mirino

Le buone nuove

Cresce l’offensiva L’Italia si prepara contro gli Zapatisti alla guerra

Cluster bomb: si dicute di messa al bando

ono passati più di 14 anni ma in Chiapas, regione del sud este messicano, nulla è cambiato. Ne è passata d'acqua sotto i ponti da quel lontano 1 gennaio 1994, quando gli indios zapatisti del Chiapas si ribellarono allo strapotere della burocrazia, alla corruzione e alla violenza, per dare vita a quello che sarebbe diventato un modello per il futuro di tutte le popolazioni indigene del pianeta: la lotta zapatista. Ancora oggi a tanti anni di distanza, la situazione non è migliorata. Gruppi paramilitari appoggiati dall'esercito regolare messicano non perdono occasione per attaccare, delegittimare e offendere le comunità indigene della zona. E negli ultimi mesi hanno intensificato la loro presenza nell'area e la loro azione contro le comunità. L'allarmante incremento dell'offensiva contro il movimento zapatista evidenzia il progressivo aumento delle attività, che da qualche tempo sembravano sopite, contro i gruppi indigeni (anche non legati alla lotta zapatista) e la riattivazione nella zona dei pericolosi e senza scrupoli gruppi paramilitari legati all'estrema destra messicana. Le loro gravissime aggressioni hanno anche interessato gruppi di osservatori internazionali arrivati in Chiapas per verificare la situazione. Ma sembra che tutto questo non faccia notizia e poco interessi anche all'amministrazione messicana che sembra aver preso sottogamba la situazione dei diritti umani degli indigeni messicani. E anche dall'Europa, dove si è tenuto il primo incontro europeo per sodalizzare con gli zapatisti, si è levato alto il coro di no contro la violenza e la repressione. Nonostante le difficoltà, gli zapatisti in questi anni sono stati capaci di creare un sistema d'istruzione in grado di competere sui programmi con quello nazionale, combattere ferocemente contro i polleros, i pericolosi trafficanti di uomini, che trovano terreno fertile fra le difficoltà degli appartenenti alle comunità indigene, e contro i contrabbandieri di legname che tanti danni hanno già causato alla natura chiapaneca che ospita il 10 percento della biodiversità mondiale. Forse più di quello che sono stati in grado di fare i governi degli ultimi 14 anni.

l 12 giugno a Parigi, alla conferenza internazionale sull’Afghanistan, il governo italiano propone alla Nato la revisione dei caveat: le limitazioni che riguardano l’area geografica di operazione e le regole d’ingaggio dei nostri soldati schierati nel Paese. Nel 2006 la Nato stabilì che tutte le forze speciali e le forze aeree dei contingenti nazionali dovevano essere liberamente impiegabili su tutto il territorio afgano, compreso il fronte sud, anche in operazioni offensive preventive. Il governo Prodi impose subito caveat che impedivano alle nostre truppe e ai nostri mezzi aerei di operare fuori dalle province del settore occidentale (Herat, Farah, Ghor, Baghis) e di prendere parte a operazioni di guerra che non fossero di autodifesa. Fu stabilito che le deroghe a queste limitazioni erano possibili solo previa autorizzazione del governo italiano, rilasciata non prima di settantadue ore dalla richiesta dei comandi Nato. Ma in realtà, fin dall’autunno 2006 il governo di centro-sinistra autorizzò segretamente una maggiore flessibilità nel rispetto dei caveat, consentendo la partecipazione dei nostri soldati e delle nostre forze speciali a diverse operazioni di combattimento, offensive e non solo difensive. Nei primi mesi del 2008, anche il limite del nonimpiego delle truppe d’élite italiane sul fronte meridionale era stato superato con il trucco di un’esercitazione congiunta. Insomma, il governo Berlusconi non fa altro che rendere ufficiali e stabili le ‘concessioni’ ufficiose e occasionali già fatte dal precedente esecutivo. Ciò significa quindi che, da agosto in poi, i duecento incursori italiani della Task Force 45 e i nostri elicotteri da guerra della Task Force Fenice potranno venire liberamente e stabilmente impiegati nella guerra contro i talebani nel sud dell’Afghanistan. E che le mille truppe italiane da combattimento dei due Battle Group (attivi dalla fine dell’estate) potranno effettuare anche operazioni offensive preventive nell’ovest. Con buona pace dell’articolo undici della Costituzione.

Alessandro Grandi

Enrico Piovesana

Oltre 100 paesi hanno negoziato fino al trenta maggio della messa al bando delle bombe a grappolo, le cluster bomb, che secondo molti osservatori internazionali vengono usate più per sosttuire le mine antiuomo, bandite da moltissimi paesi, che non per colpire le strade e gli aeroporti (compito per il quale le cluster son ostate inventate. Al momento della chiusura del mensile non si conoscono ancora le decisioni della conferenza di Dublino, e pare certo che moltissimi dei paesi aderenti alla conferenza non firmeranno alcuna messa al bando di questi ordigni. Ma già discuterne ci sembra una parziale buona notizia.

Irlanda: la pace è responsabilità di tutti Il Primo Ministro irlandese Ian Paisley ha detto, rivolgendosi ai sui concittadini, che “ognuno di noi ha la seria responsabilità di creare e sostenere la pace attraverso il rispetto reciproco degli altri”. “Rispetto reciproco” ha continuato il premier irlandese “significa che tu sei libero di cercare di portarmi dalla tua parte e io sono libero di portare te dalla mia, ma solo con le parole, non con le armi”.

Brasile, addio alle armi. Quelle private Il 10 luglio dello scorso anno, il Brasile lanciò un piano molto ambizioso: convincere i brasiliani a consegnare le armi in cambio di un incentivo economico. Il Programma nazionale di consegna volontaria delle armi aveva l'intento di ridurre l'enorme numero di pistole e fucili in circolazione nel paese e quindi abbassare gli spaventosi indici di violenza e incidenti che piagano il gigante sudamericano. E oggi, contro ogni aspettativa, si sta rivelando un vero successo. Se il governo stimava di racimolare circa 36mila armi in un anno, la cifra, ora che sono passati solo dieci mesi, ha già toccato le 81.581 consegne. Così, l'iniziativa è stata prolungata e anzi la Camera dei deputati ha anche approvato una Misura provvisoria che concede un'amnistia generale a tutti coloro che possiedono un'arma illegalmente. 16

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L’ Afghanistan del nuovo governo italiano

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Pakistan nazionalismi in guerra

l Pakistan è un po’ come la Svizzera: è uno Stato multinazionale con quattro ‘cantoni’, che sono le quattro province della Repubblica Islamica del Pakistan: Il Punjab a est, il Sindh a sud, il Balucistan a ovest e la Provincia della Frontiera Nord-Occidentale (Nwfp) a nord. Contrariamente alla Svizzera, dove tutte le minoranze hanno pari dignità, in Pakistan ha sempre comandato la maggioranza panjabi a spese di tutti gli altri. Il loro strumento di dominio è l’esercito, colonna vertebrale di questo Paese. A contendere loro il potere sono sempre stati i sindhi, espressione del potere politico civile contrapposto a quello militare, che è comunque sempre rimasto preponderante: i governi civili pachistani sono sempre stati manovrati o rovesciati dai militari. Le altre due minoranze, baluci e pashtun, sono sempre stati considerati pachistani di serie B. Ma con delle grosse differenze.

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Il Pashtunistan Mentre i baluci (di cui parleremo dopo) sono stati di fatto sottomessi e colonizzati con la forza dai panjabi, essi hanno garantito ai pashtun una sostanziale indipendenza in virtù della loro comprovata ‘insottomettibilità’. A queste tribù di montanari guerrieri, che avevano resistito alle armate coloniali britanniche, Islamabad ha concesso di autogovernarsi secondo i loro codici tribali. Così sono state istituite nel 1947 le Aree Tribali (F.a.t.a.) a ridosso del confine afgano che divide artificialmente i pashtun pachistani da quelli afgani. Tutto è filato liscio fino all’invasione sovietica dell’Afghanistan, quando questa regione è divenuta la retrovia e la base della resistenza armata afgana. Da allora, per opera dell’Isi e della Cia, le Aree Tribali pachistane si sono trasformate nel centro di raccolta e addestramento della jihad regionale (mujaheddin e talebani) e internazionale (Al Qaeda): anti-russa fino al 1989, filo-pachistana fino al 2001, anti-americana e anti-pachistana poi. Il regime militare islamico pachistano, pesantemente coinvolto negli attacchi dell’11 settembre, fu infatti costretto dagli Usa a scegliere se collaborare alla ‘guerra al terrorismo’ o diventarne il principale obiettivo (Washington minacciò di “riportare il Pakistan all’età della pietra a suon di bombe” se non avesse collaborato). In cambio di massicci finanziamenti e del sostegno politico statunitense, Musharraf e suoi generali decisero di cooperare con gli Stati Uniti, consentendo l’invasione dell’Afghanistan e il rovesciamento del regime talebano che il Pakistan aveva sostenuto fino al giorno prima. Garantendo però rifugio e protezione ai talebani, e ai capi di Al-Qaeda (Osama compreso) in fuga dall’Afghanistan, proprio in quelle Aree Tribali vicino al confine, che così si sono nuovamente trasformate nella retrovia della resistenza afgana, stavolta contro le truppe Usa e Nato. Quando gli Stati Uniti se ne sono accor-

ti, hanno ordinato al Pakistan di muovere guerra ai covi del terroristi nelle F.a.t.a. Nel 2004 i generali hanno quindi avviato una timida campagna militare contro le roccaforti jihadiste che, lungi dall’indebolire i talebani locali, ha consentito loro di stringere alleanza con le tribù pashtun locali e ha generato un’ondata di integralismo antigovernativo in tutto il Paese. Gli influenti mullah pachistani si sono sentiti traditi dal regime militare di Musharraf, accusato di essersi messo al servizio degli ‘infedeli’ e di macchiarsi di crimini contro i suoi stessi cittadini e fratelli musulmani. A fare le spese di questa strisciante guerra civile sono stati i civili delle Aree Tribali, vittime dei combattimenti e dei bombardamenti governativi (e ogni tanto anche di qualche raid missilistico statunitense), e i civili delle città, uccisi in una sanguinosa ondata di attentati. Oltre a centinaia di soldati, quasi tutti dei corpi paramilitari pashtun. Ad oggi, il bilancio di questo conflitto interno è di almeno 8.100 morti (2.800 civili, 3.700 guerriglieri, 1.600 soldati). Dopo le elezioni dello scorso febbraio che hanno segnato la fine del regime militare di Musharraf, il nuovo governo civile dominato da politici sindhi del Partito popolare dei Bhutto sta cercando di trattare con i gruppi armati talebani. Gli Stati Uniti si oppongono e minacciano un intervento diretto. Il Balucistan Il governo guidato dal premier Yousaf Raza Villani sta cercando di porre fine anche all’altro conflitto interno pachistano: quello contro gli indipendentisti baluci. Una guerra che, a fasi intermittenti, prosegue da sessant’anni, ovvero dalla fondazione dello Stato pachistano. L’esigua minoranza balucia abita la più vasta parte del Paese, ma soprattutto la più ricca di giacimenti di gas. Nel 1947 il Balucistan è stato forzosamente annesso al nascente Pakistan come riserva energetica. E da allora è stato trattato dal governo centrale panjabi come una colonia interna da sfruttare, senza investire un soldo nello sviluppo della regione, lasciata nel più completo sottosviluppo. Le rivolte dei baluci sono state represse con la forza e il territorio è stato sottoposto a una massiccia militarizzazione. Sono così nati dei movimenti armati indipendentisti che hanno dichiarato guerra al governo con attacchi contro l’esercito e azioni di sabotaggio contro gli impianti gasiferi. Il governo ha risposto con una costante repressione poliziesca e con periodiche campagne militari (1948, 1958-’59, 1963-’69, 1973-’77, 2004-in corso) che sono costate la vita, complessivamente, ad almeno 50mila persone. La fase del conflitto attualmente in corso, caratterizzata dalla comparsa dell’Esercito di Liberazione del Balucistan legato alle due principali tribù baluce (i Bugtì e i Marrì) e dagli attacchi contro i cantieri del grande porto commerciale cinese di Gwadar, ha provocato finora circa 1.300 morti.


Pakistan



Pakistan

I due principali gruppi ribelli operanti in Darfur sono il Justice and Equality Movement (Jem) e il Sudan Liberation Army (Sla), che si scontrano con le milizie Janjaweed e l'esercito sudanese. La cartina indica le principali zone di conflitto nella regione, localizzando i centri abitati teatro dei maggiori scontri. Nella regione del Ciad sono evidenziati i campi profughi allestiti per accogliere i profughi sudanesi.


Gheddafi e la xenofobia italiana

Le elezioni mostrano una Serbia stanca

Libia-Italia, rapporti forzati

Più che l’Europa Un mese potè la stanchezza di guerre

La nascita del governo di Silvio Berlusconi in Italia è stata segnata dalle polemiche con la Libia. Saif el Islam, figlio del colonnello Gheddafi e probabile successore del padre alla guida del Paese, aveva dichiarato che ''le relazioni fra Tripoli e Roma sarebbero peggiorate decisamente nel caso Roberto Calderoli avesse fatto parte del nuovo governo''. La tensione tra Tripoli e l'esponente della Lega Nord Roberto Calderoli risalgono al 2006, quando il leghista era ministro per le Riforme. Durante una trasmissione televisiva, Calderoli mostrò una maglietta con le vignette su Maometto ritenute blasfeme dagli islamici, che aveva causato decine di manifestazioni in tutto il mondo. In Libia, a Bengasi, un gruppo di persone manifesta davanti al consolato italiano e la polizia apre il fuoco sui manifestanti. Il bilancio è drammatico: vengono uccise undici persone. Pochi giorni dopo le dichiarazioni del figlio del colonnello, il premier Berlusconi nomina Calderoli ministro. La reazione di Gheddafi non si fa attendere. ''Adesso la Libia non sarà più responsabile della protezione delle coste italiane dagli immigrati illegali”, dichiara il colonnello. Giocando su due tavoli 'caldi' per Roma: migranti e petrolio. I migranti, appunto, furono oggetto di un accordo segreto tra la Libia e l'allora governo Berlusconi nel 2003, con la creazione a spese dell'Italia di veri e propri lager per i disperati che tentavano di raggiungere l'Italia. Il governo Prodi, nel 2007, ha confermato questa politica, ribadendo gli accordi con Tripoli. Altro tema caldo dei rapporti italo – libici è quello dei contratti che il gigante petrolifero italiano Eni ha stipulato con il governo di Tripoli. Gheddafi ha minacciato di rivedere il prolungamento per 25 anni dei contratti petroliferi attuali e degli investimenti congiunti per 28 miliardi di euro in 10 anni. Dopo pochi giorni la crisi è rientrata, dietro promesse di altri investimenti italiani in Libia, ma ha reso palese il rapporto di forza con il quale il colonnello Gheddafi tratta con l'Italia, usando la vita dei migranti come merce di scambio per i suoi interessi economici e sfruttando la xenofobia populista della classe politica italiana.

11 maggio si sono tenute in Serbia le elezioni politiche anticipate. Il clima politico era molto teso, dopo che l'indipendenza unilaterale del Kosovo, provincia serba a maggioranza albanese, aveva creato una profonda frattura nella coalizione al governo. Il premier Boris Tadic, contrario alla secessione, ma su posizioni comunque europeiste, aveva rotto con l'alleato di governo e presidente della Serbia Vojislav Kostunica, fautore di una rottura con Bruxelles e dell'allineamento di Belgrado con Mosca. Caduto il governo e fissata la data del voto, per molti osservatori internazionali le elezioni in Serbia diventavano un vero e proprio plebiscito 'europeista'. Tutto ruota attorno all'Accordo di Stabilizzazione e Associazione (Asa), il primo passo diplomatico dell'Unione europea verso l'ingresso di un nuovo membro. L'avallo della gran parte dei paesi Ue all'indipendenza del Kosovo doveva segnare la rottura delle trattative per l'Asa (come volevano Kostunica e l'ultradestra serba guidata da Nikolic) o bisognava, pur ribadendo lo sdegno di Belgrado, privilegiare lo sbocco europeista della Serbia (come ha sempre sostenuto Tadic)? Il risultato delle urne sembra dare ragione al premier uscente, consegnando al suo schieramento una vittoria dalle dimensioni insperate sugli ultranazionalisti e gli euroscettici. L'unico dubbio sulla governabilità resta il circa otto percento dei consensi del Partito Socialista che fu di Milosevic, riemerso come ago della bilancia. La vittoria di Tadic, però, mette in luce la stanchezza della popolazione serba, in particolare dei giovani, stanchi di una retorica nazionalista che viene percepita ormai come una barriera che tiene la Serbia lontana dall'Europa, confinandone i cittadini in un isolamento fatto di crisi economica e blocco dei visti per l'espatrio. Ora l'Ue dovrà mantenere le sue promesse, agevolando la stipula dell'Asa con Belgrado e rafforzando Tadic, vincendo le resistenze in questo senso di Belgio e Olanda che chiedono prima dell'Asa la consegna dei criminali di guerra ancora latitanti.

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Il numero dei morti nel mese di maggio*

PAESE

MORTI

Iraq Sri Lanka Afghanistan Sudan Somalia Turchia Pkk India Nord-est Pakistan talebani Burudi Nord Caucaso India Naxaliti India-Kashmir Israele e Palestina Thailandia del sud Etiopia Rep. Dem. Congo Pakistan Balucistan Mali Filippine Npa Niger Algeria Nepal Bangladesh comunisti Colombia Filippine Abu Sayyaf

1.465 1.024 481 261 193 186 108 91 82 73 46 45 43 35 34 33 27 27 26 20 14 6 5 3 2

TOTALE

4.330

Periodo: 17 aprile – 21 maggio

Christian Elia 17


Qualcosa di personale Argentina

Aspettando Evelyn Di Inocencia Luca Pegoraro Testo raccolto da Stella Spinelli Dopo trent'anni di ricerche, le analisi del Dna hanno confermato che Evelyn è figlia di mia figlia, Susana Pegoraro, e del suo compagno Ruben Bauer, sequestrati dai fascisti nel 1977 e spariti nel nulla, desaparecidos. È stato emozionante quanto doloroso, perché quella che oggi è una bella donna, determinata e fiera, fu strappata appena nata dalle braccia di sua madre, e da allora ha vissuto nella menzogna, tirata su fra bugie e silenzi da un'altra famiglia, allora ben vista dal regime. ia nipote non mi conosce e per ora non ha nemmeno intenzione di farlo. È chiusa, ha paura, ama coloro che ha sempre pensato fossero i suoi genitori e li protegge. Non ha voluto neppure donare il sangue spontaneamente per arrivare alla verità: il campione che ha permesso di risalire alla sua identità è stato ottenuto da alcuni effetti personali sequestrati in casa sua su ordine del giudice. Quanta sofferenza. E quanto è assurdo tutto ciò. Susanna aveva 21 anni ed era incinta di cinque mesi quando la presero. Da qualche tempo viveva a Buenos Aires, dove seguiva un corso di studi giuridici all'Università. In quell'ambiente si era avvicinata alla Juventud universitaria peronista, e fu questo, soltanto questo, a valerle la condanna a morte. Fu sequestrata davanti alla stazione Costitucion il 18 giugno 1977. Con lei, per puro caso, c'era anche Giovanni, mio marito, che quel giorno era passato a farle un saluto. Presero anche lui. Li persi entrambi in un attimo. Ruben, invece, l'amore di Susana, cadde nel medesimo giorno ma a La Plata. Tutto quello che so di loro, da quel maledetto giugno, è che vennero rinchiusi all'Esma, la caserma degli orrori della Marina, una delle decine di campi di concentramento clandestini e illegali che esistevano qui in Argentina durante la dittatura militare che fino all'83 ha insanguinato il paese. Dalle testimonianze durante il processo apertosi in questi ultimi anni contro i loro aguzzini è emerso che pare probabile siano entrambi scomparsi nei “voli della morte”: quei mostri hanno gettato mia figlia e mio marito nell'oceano da un aereo in volo, dopo averli addormentati con un'iniezione di Penthotal. La mia nipotina nacque nella maternità clandestina della caserma e fu affidata a un ex marinaio, Policarpio Vazquez, e a sua moglie, Ana Maria Ferra, che la segnarono all'anagrafe come loro figlia e la chiamarono Evelyn. È solo grazie al lavoro instancabile delle Abuelas de Plaza de Mayo, che già hanno ritrovato 89 figli di desaparecidos, che ho potuto ritrovarla in mezzo a tanto silenzio e omertà. La direttrice della Banca nazionale dei dati genetici, Belén Rodríguez Cardozo, ha confermato al giudice che lo studio immunogenetico realizzato nell'ospedale Durand ha riscontrato una compatibilità del 99,9 percento fra i Dna di Evelyn e quello della coppia Susanna-Ruben. Non ci sono dubbi. E davanti a questa notizia mi è parso di morire per la felicità. Poi la doccia fredda: quella ragazza ormai trentenne non ha nessuna intenzione di stringere rapporti con me, con noi, con la sua vera famiglia e tanto meno di accettare il cognome Pegoraro-Bauer che la legge le impone. E a me non resta che cercare di capirla, di considerare lo shock, lo spavento, lo stress. È una notizia troppo grande e io le darò tutto il tempo di cui ha bisogno. Sono abituata ad aspettare e a soffrire. Non mi tirerò certo indietro proprio ora. Per me è già una grande consolazione vedere che sta bene, sapere che ha potuto studiare e che sta

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per crearsi una famiglia tutta sua. Sono fiduciosa: il tempo la porterà da me. Piano piano il cuore di mia nipote si aprirà all'amore della sua famiglia naturale, deve solo razionalizzare la verità, digerirla. Evelyn sa che la famiglia Vazquez ha ammesso l'adozione. Nel 1999, Policarpio ammise che la figlia non era sua. Raccontò che nel 1978 lavorava nell'edificio Libertad, dove una persona che conosceva con il soprannome di El Turco gli disse che “c'era una creatura senza documenti pronta per essere adottata”. Con sua moglie decisero di accettarla, “altrimenti l'avrebbero uccisa”, precisando di non sapere se i genitori naturali “fossero vivi, morti o scomparsi”. Per quella famiglia “l'arrivo di Evelyn fu un dono divino, una benedizione”, lo ripetono continuamente, ma per noi fu la maledizione più grande. Lo ammetto, inizialmente è stato difficile accettare che, nonostante la confessione dei due, mia nipote si rifiutasse di farsi prelevare il sangue che sarebbe servito a ricostruire il suo passato, ma poi ho capito: qualcuno la intimidiva, ripetendole che se fosse emerso che era figlia di desaparecidos i suoi genitori adottivi avrebbero passato guai seri per colpa sua. E lei li adora e certo non vuol essere causa del loro male. Per lei è tutto sconvolgente, ma la verità è importante, al di là di tutto, al di là del fatto che i coniugi Vazquez rischiano grosso. Il pubblico ministero nel 2006 ha chiesto nove anni e mezzo di carcere per Vazquez, nove per sua moglie e sei per l'ostetrica Justina Caceres che firmò il certificato di nascita falso. Secondo il pm, l'atto più grave è stato nascondere la verità ad Evelyn, crescerla nella menzogna, un vero e proprio “atto di lesa umanità”. Ma, sia chiaro, io non cerco vendetta, voglio solo l'amore della figlia di mia figlia. Voglio poter vivere con mia nipote, conoscerla, aiutarla, sostenerla e farle conoscere Susana e Ruben, quei due giovani ragazzi pieni di vita uccisi a vent'anni. Lei ha più volte dichiarato alla stampa e anche durante il nostro unico incontro che non ce l'ha con me, né con la madre di Ruben, anche lei al mio fianco in questa battaglia, e che capisce la nostra posizione e la nostra sete di verità. In quei pochi attimi, ci disse che era orribile quanto era successo, ma che lei era cresciuta con una famiglia che continua ad amare. Con voce controllata ci ripeté che tutta questa situazione le creava panico e paura. Povero angelo, io voglio comprenderla e aspetterò. Aspetterò, per Susanna e Ruben. Aspetterò per mio marito Giovanni, che sparì con loro nelle infernali gole della dittatura. Aspetterò perché è quel che so fare meglio: per metà della mia vita non ho fatto che aspettare giustizia e consolazione. E dunque aspetterò ancora, perché vedendo Evelyn mi sono persa negli sguardi di Susanna e nei gesti di Ruben, e il mio cuore ha ricominciato a battere dopo trent'anni. In alto e in basso: foto tratte dal libro spazi (des)parecidos. Giorgio Palmera/FSF


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La storia Libano

La politica entra in classe di Erminia Calabrese La divisione in Libano tra maggioranza pro occidentale e opposizione pro siriana–iraniana è sempre più acuta. È giusto che anche le scuole entrino in questa divisione? iro, Libano Sud. Liceo statale per ragazze. Oggi la lezione di italiano non ci sarà, mi dice la direttrice della scuola dove ho insegnato per un anno la lingua italiana. La guardo stupita. Proprio lei che è cosi severa ha annullato la lezione? Ci sarà stato un altro attentato nel paese? Vado lo stesso in classe e nel corridoio incontro alcune delle mie studentesse. Sono sorridenti e contentissime. Sarà per la lezione saltata o per quello che è successo? Mi dicono di andare con loro nella grande sala delle riunioni perchè c’è un esponente di Hezbollah, Ali Hassan, che farà una conferenza e mi chiedono: “Tu ami Hezbollah? Dai vieni”. Le seguo. Non ci avevo fatto caso: l’aula delle riunioni era diventata assolutamente gialla, il colore che distingue il partito di Dio il cui segretario è Hassan Nasrallah. Poster e bandiere ovunque e inni del partito che echeggiano tra le mura dell’aula. Il deputato arriva e dopo la Bismallah al rahman al rahim (Nel nome di Dio clemente e misericordioso) inizia a parlare. Parla a gran voce, quasi gridando, quasi ricalcando il tono del sayyed Nasrallah, come per volerlo imitare quando fa un discorso. Parla della risoluzione Onu 1559, risoluzione che prevede nei suoi punti principali l’immediato ritiro di tutte le forze straniere nel Libano (le truppe siriane completarono il ritiro il 26 Aprile 2005, gli israeliani ancora restano nella zona di Chebaa, occupata dal 1967), il disarmo di tutte le milizie del paese e il controllo dell’esercito sull’intero territorio libanese. Parla del tribunale internazionale che dovrebbe giudicare i presunti colpevoli dell’assassinio dell’ex premier Hariri, parla del nemico Israele, del massacro di Qana del 18 Aprile del 1996. In quella sala pienissima c’è chi ascolta attentamente, c’è chi ride, chi gioca e chi parla. In fondo la maggior parte di quelle ragazze ha tra i 15 e i 16 anni. Quando Ali Hassan parla della 1559, ricordo Zeinab che, una volta a lezione, mentre spiegavo le preposizioni semplici, mi aveva chiesto che cosa prevedesse la 1559. A me? E perché lo aveva chiesto proprio a me? Proprio quando il giorno prima mi aveva detto che l’indomani sarebbe andata a Beirut per una manifestazione contro quella 1559 e andava in giro, da più di una settimana, come le altre ragazze del liceo, con una spilletta sul grembiule su cui si leggeva in arabo: “No alla 1559”.

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icordo anche uno di quei sabati, quando la scuola verso mezzogiorno si svuotava e le alunne correvano verso dei pulmini che le aspettavano all’ingresso del liceo in direzione di Beirut, dove il sayyed aveva indetto una grande manifestazione di protesta. Correvano lì tenendo tra le mani le bandiere gialle o verdi a seconda che il partito a cui aderivano fosse Hezbollah o Amal, il partito di Berri. Ma in quella scuola ricordo

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che il colore delle bandiere era per lo più il giallo. Era stata proprio Zeinab, qualche giorno dopo, mentre mangiavamo un menaish al timo durante la pausa nel giardino della scuola, a raccontarmi che a lei tutte quelle manifestazioni piacevano perché solo lì poteva vedersi con il suo ragazzo. Ci andava per passeggiare, mi disse. Ascoltando le altre studentesse, mi accorsi che in realtà di Zeinab ce n’erano davvero tante in quel liceo. ochi giorni fa ho letto sul quotidiano libanese al Akhbar un articolo dal titolo: “Alcuni alunni di una scuola di Beirut puniti per non aver partecipato alla manifestazione del 14 febbraio” in occasione del terzo anniversario dell’assassinio dell’ex premier Rafiq Hariri. Quegli alunni sono bambini tra i 6 e i 9 anni. Si legge che una maestra, in una delle scuole elementari private francesi più “in” della Beirut bene, avrebbe soprannominato un alunno Bashar, alludendo al presidente siriano, Bashar Assad. Lo avrebbe poi trascinato nella sala riunioni dove, alla presenza anche di altri alunni, avrebbe chiesto: “Perché non avete partecipato alla manifestazione a piazza dei Martiri?”. Dopo vari rimproveri sul loro “mancato senso del dovere”, quel “Bashar”, un bambino di soli 7 anni, avrebbe risposto: “ Io non sono venuto perché ho giocato alla playstation e mi chiamo Bachir, non Bachar”. I genitori, chiamati poi dalla stessa direttrice, sono andati a scuola e si sono meravigliati dell’accaduto in quanto “ tra le materie della scuola non ce n’è una che si chiama Programma politico”, ha detto uno di loro. Una volta un amico mi disse che Hassan Nasrallah somiglia a Mussolini, perché costringe la gente a scendere in Piazza mentre “noi”, aveva continuato, “noi del 14 Marzo (maggioranza al governo) siamo liberi di scegliere se andare oppure no”. Pochi giorni fa leggendo quella notizia, pensando a Bachir o Bachar (dipende quale gruppo sostieni, il 14 Marzo o l’8 Marzo) e pensando a Zeinab, mi sono chiesta quanto i due possano essere davvero liberi e quanto avessero voglia di andare a scuola semplicemente per studiare la storia, la geografia e la matematica. Non è più bello che un bambino di 7 anni preferisca giocare alla playstation invece di andare in piazza, sotto la pioggia, a commemorare un ex premier? E non sarebbe più bello e romantico se Zeinab potesse incontrare il suo ragazzo sul lungomare di Beirut?

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In alto: Manifesti contrapposti su un muro di Chatila. Libano 2007. In basso: Filo spinato attorno a piazza dei Martiri. Beirut, Libano 2007. Naoki Tomasini©PeaceReporter


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Italia

Sentirsi italiani Di Daniele Cologna, Elena Granata, Cristiana Novak Stralci delle conclusioni di una ricerca sociologica sulle 'seconde generazioni' dei migranti in Italia. Si scrive poco di loro, si legge molto sulle paure e le fobie contro il diverso, lo straniero. E poco ci si chiede su quanto si voglia sentire italiano un migrante che vive ormai da anni nel Bel Paese. Il caso studiato riguarda la città di Torino, ma molte delle considerazioni svolte possono ricoprire una valenza nazionale Ti piacerebbe avere la cittadinanza italiana? Non lo so, è una cosa che mi chiedo sempre pensando al calcio. Mi chiedo: “Se mai diventassi un calciatore giocherei nella nazionale italiana o in quella albanese”? Ci penso molto. Non avrei problemi finanziari, quindi non dovrei giocare per forza nella nazionale italiana. Avrei libera scelta. Non saprei proprio. Se dovessi seguire la famiglia, dovrei giocare in quella albanese, dovrebbe essere così e penso che sarebbe così. Sarebbe anche una cosa da fare per mio padre. Se la cittadinanza non mi servisse a niente, non mi cambierebbe la vita essere italiano o albanese. [Ragazzo albanese, nato a Tirana, 15 anni, in Italia dal 1993] Immaginare il proprio futuro in Italia segnala anche un certo orientamento a considerare il contesto italiano come quello di riferimento, quello verso il quale ci si sente più legati… al punto da “sentirsi italiani”? I dati raccolti nelle scuole invitano alla cautela: solo il 24 percento dei giovani interpellati infatti dichiara di “sentirsi italiano”. Si sente tale il 58 percento di chi è nato in Italia, ma solo il 9,5 percento di chi è nato in Ecuador. Quella dei giovani ecuadoriani è un’immigrazione relativamente recente, certo, ma cosa pensare allora dei nati in Cina, decisamente un’immigrazione “antica”, per i quali solo il 15 percento afferma di provare un sentimento di italianità? Insomma, la caratterizzazione dei giovani di seconda generazione come “nuovi italiani”, diffusa sia a livello di senso comune che di discorso pubblico e politico, appare forse un po’ affrettata e semplicistica. Anche per chi in Italia ci è nato, la percezione della propria singolarità, della propria non completa convergenza con il senso di identità nazionale dominante è piuttosto marcato. Ciononostante, poco meno del 58% dei giovani appartenenti al nostro campione di scuole torinesi dichiara di “desiderare la cittadinanza italiana”. Tale percentuale scende però al 34 percento scarso per i nati in Cina e risulta invece più alta della media per i nati nei paesi dell’Europa dell’Est, che influenzano pesantemente il dato. Si ha dunque l’impressione che questa voglia di naturalizzazione abbia un carattere eminentemente protettivo e strumentale. Indica più la disillusione nei confronti dei propri paesi d’origine che una forte adesione identitaria al contesto italiano. Sotto il profilo dell’appartenenza generazionale, sono i ragazzi nati all’estero a esprimersi con maggior forza a favore della naturalizzazione, forse perché chi è nato in Italia percepisce meno l’urgenza di una stabilizzazione giuridica della legittimità della propria permanenza sul territorio. Mi sento più straniero quando sono in Marocco che qui in Italia. Di là ci sono altri modi, altre usanze. Di là devo essere sempre con qualcuno che mi dà una mano. Se devo prendere una cosa devo contrattare, ma io non sono bravo in questo e devo sempre portarmi mio zio. Se loro dicono un prezzo bisogna chiederne la metà. Poi alla fine sono cresciuto più qua che là. Pensi che in futuro vorrai tornare a vivere in Marocco? Non lo so, vediamo. Magari quando andrò in pensione andrò in Marocco, ma per adesso continuo a restare qua. Perché ormai qua ci si abitua ad un guadagno, ad un’altra vita, qui ti compri sempre i vestiti di marca, di là non te li puoi 22

permettere se non hai un lavoro sicuro. Ma un lavoro sicuro non c’è mai, e poi pagano pochissimo. [Ragazzo marocchino, nato a Settat, 21 anni, in Italia dal 1994, tornato in Marocco dal 1995 al 1997] Domande relative al “sentirsi italiani” e al desiderio di ottenere la cittadinanza italiana suscitano in ogni caso risposte emotive caratterizzate da una certa ambivalenza. Si tratta di domande difficili, che sembrano costringere a “schierarsi” e a ridurre a categorie rigide un senso di appartenenza più plastico e molteplice. Nel tiro alla fune tra ragione e sentimento, affinità elettive ed appartenenze ascritte, necessità ed opportunità paiono tirare in direzioni opposte: una tensione interiore che appare però costitutiva dell’essere “di seconda generazione”, uno stato dell’essere in cui ci si riconosce. Ti senti più rumeno o italiano? È una domanda difficile. Mi sento rumeno perché è il mio paese, però i miei legami con la Romania si traducono ormai solo nella vacanza e quei pochi contatti con i parenti che sono rimasti lì. Gli amici ormai sono più conoscenti che amici, perché in sei anni la gente cambia. Ci sono tanti che anche loro non sono più lì, come me. (…) Sai, sono partito che avevo 16 anni, per cui i legami c’erano, ma non erano fortissimi. [Ragazzo rumeno, nato ad Alba Iulia, 22 anni, in Italia dal 2001] Ti senti italiana? Sì, se devo essere sincera, sì. Piano piano mi sto dimenticando anche la lingua cinese. Un po’ mi vergogno a dirlo… Sono andata in Cina l’ultima volta nel 2002, in vacanza, per un mese. A parte il fatto che sono rimasta solo nel nostro paesino d’origine e alla fine giravo tutti i giorni lì. Non è che mi sia piaciuto un granché. Secondo me andare a visitare le città sarebbe bello. Però sempre solo in visita, perché non ci andrei mai a vivere. Come giro turistico va tutto bene, viverci è un altro discorso. [Ragazza cinese, nata in Italia, 17 anni] Ma fino a che punto e in che modo i giovani figli di immigrati si sentono “a casa propria” in Italia? Questa è una domanda a cui si può dare risposta solo la società italiana contemporanea nel suo complesso, a partire dalle sue singole articolazioni territoriali, perché nello sviluppo di un’appartenenza condivisa e di una domiciliazione simbolica della propria identità nel proprio contesto di vita entrano in gioco fattori e responsabilità che non gravano solamente sulle spalle dei ragazzi di origine straniera. È soprattutto su questo fronte che si articolano le sfide della convivenza futura, per le istituzioni come per la società civile. In alto: Bambine in via Quaranta. Milano, Italia 2007. Lucio Cavicchioni per PeaceReporter In basso: Giovani cinesi in discoteca. Milano, Italia 2007. Luana Monte/Prospekt


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Migranti

Il gommone tagliato Di Gabriele Del Grande Li hanno fatti sparire per cancellare le prove. Li hanno deportati in una terra di nessuno, senza acqua né viveri, lungo la frontiera algerina, perché non potessero parlare. Fortress Europe però è riuscita a scovarli lo stesso. Sono i quarantadue superstiti del naufragio di Hoceima dello scorso ventotto aprile. Sono i quarantadue testimoni della strage compiuta dagli uomini della Marina Reale Marocchina. n queste ore si trovano in un accampamento di fortuna in una zona boscosa lungo la frontiera tra Algeria e Marocco. Un militante di una associazione marocchina - di cui non possiamo citare il nome per ragioni di sicurezza - ci ha permesso di parlare al telefono con due uomini e una donna sopravvissuti al naufragio. Un naufragio di cui non si doveva sapere niente. Perché ad uccidere non è stato il mare ma gli agenti marocchini. Le versioni dei tre testimoni coincidono. Sono le due di notte del 28 aprile quando un gommone di tipo Zodiac di nove metri, con un’ottantina di passeggeri nigeriani, ghanesi, camerunesi e maliani, salpa dalle coste di Hoceima alla volta della Spagna. Cinque ore più tardi viene intercettato in alto mare da una motovedetta della marina marocchina. È già giorno. “Si sono avvicinati – grida Fred al telefono -, hanno tagliato le camere d’aria del gommone con dei coltelli e se ne sono andati”. Nel giro di pochi minuti il gommone si sgonfia e si rovescia in mare. A bordo scoppia il panico. Molti non sanno nuotare e annegano. Una donna finisce tra la schiuma del mare con il bambino di pochi mesi stretto al petto. Poco lontano scompaiono tra le onde un’altra donna e tre bambini piccoli. Nel giro di un’ora arrivano i soccorsi. Tre motovedette marocchine prendono a bordo i superstiti e recuperano una decina di cadaveri. Portano tutti quanti a Hoceima, 150 km a est di Melilla. Vengono rinchiusi nel commissariato. All’appello mancano 36 persone, tra uomini, donne e bambini, tutti morti annegati. “Siamo stati trattenuti per 48 ore in isolamento, senza acqua né cibo, né bagni – ci dice una delle quattro donne nigeriane sopravvissute -. Poi ci hanno caricato su un autobus e abbandonati alla frontiera algerina, in una terra di nessuno, era lontano da Oujda”. Dopo una lunga marcia raggiungono un accampamento dove vivono circa duecento deportati, in mezzo ai boschi. “Abbiamo costruito dei ripari per la notte con dei teli di plastica – ci spiega uno di loro -, viviamo di elemosina, molti sono malati”. Le condizioni sono pessime e tornare a Rabat, con il clima che si respira dopo le ultime retate in città, è inimmaginabile. Intanto, altre sette persone del gruppo dei 42 superstiti, hanno perso la vita. Non ce l’hanno fatta a resistere al naufragio, alla fame, alla sete e alla lunga marcia a piedi per raggiungere il rifugio.

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osì il mese di aprile consegna alla morte 101 persone tra uomini, donne e bambini, caduti tentando di venire in Europa. Cinque uomini sono morti nascosti nella stiva di un cargo approdato alle Canarie, in quattro hanno perso la vita lungo la frontiera tra Turchia e Iraq, annegati dopo essere stati buttati in un fiume dalla polizia turca durante un’espulsione, e rifugiato eritreo è caduto sotto il fuoco egiziano lungo la frontiera del Sinai con Israele. In mare, oltre ai 43 di Hoceima, ci sono

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state almeno 24 vittime tra Algeria e Spagna e 24 tra la Tunisia e l’Italia, al largo delle coste siciliane, che nelle ultime settimane hanno visto un forte incremento degli sbarchi, complice il bel tempo e i ritardi del pattugliamento congiunto di Frontex. Nell’ultima settimana di aprile sono giunti a Lampedusa oltre 1.000 migranti, soprattutto nord africani e in parte somali. Il 24 aprile un naufragio al largo di Chebba, il punto della costa tunisina più vicino a Lampedusa, ha fatto 23 morti. Il giorno dopo un’altra tragedia 80 miglia a sud dell’isola. É notte inoltrata quando navi della Marina militare e della Guardia costiera italiana raggiungono in acque maltesi, una nave con a bordo 241 passeggeri. Iniziano a trasbordarli, ma durante le operazioni due uomini cadono in acqua. I sottufficiali Federico Nicoletti ed Oronzo Oliva non esitano e si tuffano in acqua a proprio rischio e pericolo, nonostante il mare forza cinque, per trarli in salvo. Riescono a recuperarli, ma purtroppo uno dei due morirà poco dopo. Un gesto di coraggio, che fa onore ai due ufficiali, che presto saranno premiati dalla Guardia costiera e dall’Acnur. Un gesto che ribadisce la priorità della vita in mare. E che fa onore alla Guardia costiera italiana negli anni in cui i migranti in mare si respingono o si ammazzano, come poche settimane fa in Marocco o più a oriente, in Turchia. chiedere spiegazioni al governo turco è niente meno che l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. È il 23 aprile 2008 quando quattro uomini, compreso un rifugiato iraniano, muoiono annegati dopo essere stati gettati in un fiume in piena dalla polizia di frontiera turca durante un’espulsione al confine con l’Iraq, vicino al posto di blocco di Habur (Silopi) nella provincia di Sirnak. Secondo testimonianze raccolte dall’Acnur, le autorità turche hanno prima tentato di deportare 60 persone di varie nazionalità in Iraq attraverso il posto di blocco di Habur. Ma le autorità irachene hanno concesso l’ingresso soltanto ai 42 cittadini iracheni, rifiutando di farsi carico degli altri: 17 iraniani e un siriano. A quel punto la polizia turca ha preso i 18, tra cui cinque rifugiati iraniani riconosciuti dall’Unhcr, e li ha portati nel punto dove il corso di un fiume divide i due Paesi. Quindi li ha costretti a gettarsi in acqua. In quattro, compreso uno dei rifugiati iraniani, sono morti annegati trascinati dalla forte corrente. Prima dell’espulsione, l’Acnur aveva informato il governo turco della presenza di rifugiati tra i migranti arrestati al confine greco. Non è servito a niente. L’Ue, come al solito, non ha commentato.

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In alto: Cimitero delle barche dei migranti. In basso: Migranti imbarcati verso il Cpt di Porto Empedocle. Lampedusa, Italia 2007. Samuele Pellecchia/Prospekt


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Rubriche

In edicola di Claudio Sabelli Fioretti

Abbiamo bisogno di trasparenza In tivù di Sergio Lotti

L’altra parte di verità Fa un certo effetto vedere la monumentale donna Assunta Almirante che, nel salotto di Annozero, annuisce con aria solenne ascoltando le argomentazioni del filosofo Umberto Galimberti sulla peggio gioventù, prendendo spunto dai cinque naziskin che hanno ucciso a Verona un coetaneo, forse soltanto perché aveva i capelli più lunghi dei loro. La politica, dice il professor Galimberti, non c’entra, dal momento che questi ragazzi non leggono libri e quindi non sanno neppure di cosa parlano, si inventano una matrice ideologica per mascherare il vuoto in cui vivono, alla disperata ricerca di un’identità. Se i genitori non si occupano di loro e a scuola trovano insegnanti frustrati che non li fanno sognare, sono facile preda di chi propone loro sogni fasulli, come mostrano le immagini della ressa per entrare nella casa del Grande Fratello, le frasi sconclusionate cariche di violenza come i simboli che portano addosso, la caccia al diverso. Quando uccidono, quindi, sono da considerare assassini comuni. Non c’è da stupirsi del consenso di donna Assunta, perché si tratta di una mezza verità, la più facile da accettare, o per meglio dire la scappatoia più comoda. L’altra parte di verità la dicono i ragazzi del liceo frequentato anche dalla vittima e da uno degli accusati: è vero che non si tratta di uno scontro politico, sostengono, ma questi episodi di violenza a Verona, in crescendo da dieci anni, sono maturati in un contesto reazionario e culturalmente rozzo, largamente tollerati da buona parte della cittadinanza, che tende a voltare la testa dall’altra parte, e dalle autorità, che si occupano soprattutto di immigrati. Il sindaco, uno che ha tolto la foto di Giorgio Napolitano da dietro la scrivania perché, dice testualmente, non si sente rappresentato da un Presidente della repubblica di parte, ha addirittura partecipato a un corteo di naziskin e Forza Nuova, le cui sole immagini fanno rabbrividire. Alla fine, quando a questi ragazzi si chiede cosa vorrebbero, soprattutto, per poter sognare un futuro migliore, rispondono che vogliono giustizia, che si torni cioè a chiamare i delitti col loro nome, anche sui media, e a punirli secondo le leggi, anche se compiuti da italiani. Anzi, lo dicono molto meglio: dateci la possibilità di credere ancora nella giustizia. 26

Nei settanta sms (ha scritto la Repubblica) ce ne erano alcuni in cui Marcelletti, il chirurgo dei bambini, diceva alla tredicenne : “Vorrei vedere”, “Fotografati”, “Pensami”. E gli altri sms erano anche meno innocenti (ha scritto la Repubblica). Non solo. Marcelletti, senza mezzi termini (ha scritto sempre la Repubblica), avrebbe spinto la ragazzina a scattarsi delle foto e a inviargliele. Va bene, va tutto bene. Senza entrare nel merito e senza voler dare giudizi sulla veridicità di tutto questo, il mio pensiero va a una domanda. Mastella che cosa dice? Non protesta? Berlusconi che cosa dice? Non stigmatizza? Bonaiuti che cosa dice? Non si adonta? Mi sono perso il commento scandalizzato di D'Alema sull'uso indiscriminato delle intercettazioni e sulla loro pubblicazione sui giornali. Perché Bondi non urla contro “la giustizia a orologeria?”. Marcelletti è un cittadino di serie B? Le sue telefonate possono essere sparse sulle colonne dei giornali mentre quelle di Ricucci, di Saccà, di Fazio, di Fiorani, di Consorte debbono essere protette dalla pubblica curiosità? Sembra di assistere a uno spettacolo sulla doppia morale. Ci siamo noi e ci siete voi. Noi

vogliamo essere protetti perché è una vergogna che i dati sulla nostra vita, le famose notizie “sensibili”, vengano date in pasto alla gente. E se difendiamo noi, indirettamente difendiamo anche voi, i vostri diritti, la vostra vita. Ma quando direttamente qualcuno offende voi, vi sputtana, rivela particolari sui vostri comportamenti, non pensiamo che difendendo voi indirettamente difendiamo anche noi. E noi tacciamo. Non ce ne frega niente di voi. Non possiamo affaticarci su tutto. C'è un limite alla nostra attività difensiva. Abbiamo già il nostro daffare a difendere noi. Voi arrangiatevi da soli. Avete presente quando un extracomunitario commette un crimine? Nome, cognome, foto. Ma se il crimine lo compie uno di Bergamo, silenzio rispettoso. Aspettiamo la condanna definitiva perché tutti sono innocenti prima che la Cassazione decida il contrario. E allora riscriviamo questa benedetta regola. Tutti sono innocenti sopra un certo livello sociale, sopra un certo reddito, sopra una certa presunzione di potere. Sotto, è via libera alla libertà di stampa. Ci vuole trasparenza, vivaddio. www.sabellifioretti.it


A teatro

Vauro

di Silvia Del Pozzo

Dal Libano all’Apocalisse Con l’inizio dei festival estivi, l’offerta di spettacoli si fa ricca ma, diciamo così, più lieve, meno impegnata. Tra molta danza, concerti, i soliti classici e sulla carta - interessanti novità che poi troveremo, rodate, in cartellone il prossimo autunno, spigolando tra i programmi qualche tema forte lo si torva. Al Festival delle Colline Torinesi (5-28/6), per esempio, tra un “Rinta ‘u cuori” che i Suttascupa dedicano a Sacco e Vanzetti e un’Emma Dante che propone l’emozionante “Vita mia” (7 e 18 giugno) , nello stesso spazio della Cavallerizza reale di Torino, va in scena - in francese, sottotitoli in italiano - “How Nancy whished that everything was an april fool’s joke” del libanese Rabin Mroué (11/6). Quattro attori, seduti su un divano, raccontano di quegli eroi, illustri e anonimi che, dal 1975 a oggi, sono le vittime di una mai risolta guerra civile: da Bashir Gemayel a Kamal Jumblatt a tutti i combattenti della resistenza libanese, islamica, araba. I loro volti tappezzano i muri di quel Libano dilaniato e in scena riemergono da grandi schermi per rivivere nelle parole degli attori. E per mai dimenticare che il mondo è teatro di guerre, disastri ecologici, trasformazioni sociali spesso aspre, alla Rotonda della Besana di Milano va in scena dal 21 al 29 giugno “La giostra dell’apocalisse”. Sono quattro (proprio come i Cavalieri dell’Apocalisse) rappresentazioni in cui il pubblico, al centro dell’arena, verrà avvolto dalla giostra del teatro, della musica, dell’arte (sono presenti anche opere di molti artisti contemporanei, dall’Abramovic alla Beecroft, da Pistoletto allo Studio Azzurro) . Salgono e scendono da questa “giostra” una serie di denunce durissime, quali il “cannibalismo caritatevole”, l’informazione drogata, la tossicodipendenza, l’emarginazione nelle metropoli… Rotonda della Besana. Tel.02 39257055. Festival delle Colline Torinesi tel.011 1974291

Musica di Claudio Agostoni

Erykah Badu La Motown è la storica etichetta black di Detroit per cui Marvin Gaye, nel 1971, incise What's Going on, il primo concept album concepito da un musicista afro-americano. Erykah Badu, leggendaria regina del nu-soul, sempre per la Motown, ora dà alla luce il primo di una serie di concept album con cui prende di petto questioni fondamentali per l’America di oggi, come la povertà e l’11 settembre. D’altronde, titolo e sottotitolo di questo nuovo lavoro sono una dichiarazione d’intenti inequivocabile. Non è ancora dato sapere se, in totale, i capitoli di questo ambizioso progetto saranno tre o quattro. Quello che è certo è che, come in questo Part One (4th World War) l’erede di Aretha Franklin, per usare parole sue, si impegna “a parlare per la mia razza e il mio pianeta”. Per farlo attinge a stili musicali che vanno dagli anni 40 ai 60, senza dimenticare la lezione del r&b, del soul e dell’hip hop. La voce è suadente e ammaliante come sempre, le cose che ci racconta però sono, quantomeno, inquietanti. Spesso senza speranza. Sicuramente preziose. P.S. Una considerazione nostalgica: uno sguardo alla bellissima, e inquietante, copertina del cd (dove a un attento esame i maestosi ricci di

Erykah nascondono catene, croci, manette, siringhe, televisori, feti, armi, cellulari, auto…) non può non far pensare a quanto questa sarebbe meglio valorizzata dal vecchio formato long playing dei tempi del vinile. Per chi, come il sottoscritto, si fosse invaghito di questa immagine, il consiglio è di fare un salto su www.emek.net, il sito dello studio che ha curato il progetto grafico. New Amerykah - Part One (4th World War) Universal / Motown

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Al cinema

In libreria

di Nicola Falcinella

di Giorgio Gabbi

L’anno in cui i miei genitori andarono in vacanza

Berlino-Mosca Un viaggio a piedi

Presentato in concorso al Festival di Berlino 2007, arriva in Italia il 6 giugno “L’anno in cui i miei genitori andarono in vacanza” di Cao Hamburger. Una simpatica pellicola brasiliana che esce, curiosa coincidenza, lo stesso giorno di un altro film del Paese sudamericano, “Tropa de elite – Gli squadroni della morte” di Josè Padilha, Orso d’Oro 2008, sempre al festival tedesco. La storia tenera di Mauro, un dodicenne che nell’estate 1970, mentre la squadra di Pelè, Tostao, Jairzinho e Rivelino si prepara a vincere i mondiali di calcio contro l’Italia, viene portato dai genitori “in vacanza” dal nonno, nel quartiere di Bom Retiro a Sao Paulo. In Brasile vige la feroce dittatura militare del generale Medici, il terzo dei cinque che si susseguirono tra il 1964 e l’85. I genitori di Mauro sono militanti di sinistra, costretti a vivere in clandestinità. Decidono di affidarlo al nonno Mòtel, che vive nella zona ebraica. Così il padre accompagna il ragazzino fin sulla porta di casa e lo lascia senza troppe spiegazioni. Mauro suona e bussa invano: il nonno è morto. E non c’è modo di contattare i genitori. Il bambino, che sogna di diventare un grande portiere, si affezionerà al vicino del nonno, il vecchio

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solitario Shlomo che lavora nella sinagoga. Entrambi si addentreranno in un mondo completamente nuovo mentre tutto il Paese segue con trepidazione ed entusiasmo le imprese di Pelè e compagni in Messico. Per Mauro c’è il recupero dell’origine ebraica e il coronamento della passione calcistica, nonché i primi palpiti del cuore. Hamburger, al suo secondo film, sceglie una chiave di commedia e di romanzo di formazione, ma il clima asfittico della dittatura si sente, così come il desiderio di libertà dei giovani che anche nel tifo non dimenticano la politica. Nella bella colonna sonora ci sono “Tropicália” di Caetano Veloso, “Eu Sou Terrível” di Roberto Carlos e il tradizionale “Chiribim Chiribom” eseguito dalle The Barry Sisters.

Ottanta giorni di marcia con lo zaino in spalla e il panama in testa, dal cuore della ricca Germania fino alla megalopoli russa, diventata ricca da non molto grazie ai prezzi astronomici raggiunti dal metano e dal petrolio. Però, di tutta questa ricchezza, durante la sua camminata di tremila chilometri coperti in novanta giorni, l’autore non sente neanche l’odore. E poi, perché tanta fatica? Per morire di noia scarpinando da mane a sera attraverso un bassopiano monotono, sconfinato, fatto di boschi, paludi, steppe, campi coltivati, fabbriche abbandonate, villaggi solitari e cadenti, mercatini cenciosi, qualche città che ben di rado fa titolo nella stampa occidentale? E per giunta, lungo tutto il percorso che attraversa Polonia, Bielorussia e Russia, i posti dove un viandante trova da mangiare e da dormire sono a distanze spaventose l’uno dall’altro: e sono quasi tutti di livello pessimo, con il personale più spesso che no diffidente, scostante, spesso addirittura ostile. Un turista normale quel percorso lo fa in jet. Ma l’autore è un turista molto particolare: dirige la sezione reportage del prestigioso quotidiano tedesco Die Welt, è scrittore di successo. E da questo suo sconsigliabile trekking ha saputo trarre un resoconto avvincente, a tratti angosciante,


ma sempre denso di emozioni. Perché lo ha vissuto come un’odissea fra i mostri che continuano a far sentire la loro presenza nell’Europa profonda, in quell’Est dove le follie del Novecento tormentano ancora la memoria dei più anziani che le hanno vissute, e condizionano il modo di pensare e di comportarsi delle generazioni venute “dopo”. Dopo l’ultima guerra fra tedeschi e russi, dopo l’esperienza del comunismo, dopo la tragedia nucleare di Chernobyl. “La guerra, la guerra, la maledetta guerra”, scrive Büscher. “Era passata per Vjazma, era ancora lì, e non era la guerra dei tedeschi, quella era finita da molto, mio nonno era morto da molto, era la guerra dei russi contro sé stessi, e la rabbia era una profonda rabbia… Quel regime di guerra si era lasciato alle spalle un’immensa massa di rottami. Rottami di case. Rottami di Stato. Rottami di mangiare e bere …rottami di buone maniere…“ Un pellegrinaggio, allora, più che un trekking: e non per cercare la tomba del nonno, scomparso nel turbine della guerra nazista senza lasciare traccia. Un pellegrinaggio tutto interiore: e quando qualcuno gli propone di comprare come souvenir un elmetto tedesco con dentro il teschio “originale”, forati l’uno e l’altro dallo stesso proiettile ( “vede? I due fori coincidono”), l’autore risponde: grazie no, un tedesco morto lo porto già dentro di me.” Berlino-Mosca. Un viaggio a piedi Edizioni Voland, 2008, pagg.218, € 14

In rete di Arturo Di Corinto

Informazione sotto tiro La virulenza degli attacchi subiti dal giornalista Marco Travaglio per aver ricordato vecchie accuse di collusione mafiosa al presidente del Senato, Renato Schifani, la dice lunga sulla libertà d’informazione in Italia. Certo, in un paese dove sono i comici come Beppe Grillo a dover denunciare i dati del disastro Parmalat, dove Sabina Guzzanti con le armi della satira ci deve spiegare la truffaldina

lettere a un chirurgo confuso scrivi a chirurgo@peacereporter.net Caro Gino, Molti miei conoscenti mi parlano di te e di Emergency. Spesso bene, ogni tanto qualcuno esprime dubbi, soprattutto sull’ospedale di cardiochirurgia che avete costruito in Africa. Una operazione costosa, per alcuni troppo costosa. Perché - mi dicono - con i soldi spesi per curare uno dei vostri pazienti se ne potrebbero curare decine affetti da patologie meno difficili da affrontare... Ettore, Monza Caro Ettore, Il 15 maggio è stato il quattordicesimo anniversario della nascita di Emergency. Un percorso spesso difficile ma sempre entusiasmante, che ci ha cambiati, che ci ha fatto crescere. Abbiamo capito il senso di parole strane: pace, diritti umani, democrazia; e abbiamo anche capito il senso di una parola spesso incomprensibile: umanità. Abbiamo tenuto, per quattordici anni, un comportamento “umano” nei confronti delle persone che abbiamo incontrato, feriti e ammalati. Li abbiamo curati, e bene. Ogni tre minuti, il tempo di una sigaretta, una persona si è rivolta nel mondo alle strutture di Emergency perché bisognosa di aiuto. Ventiquattro ore al giorno, per quattordici anni: questa è Emergency. Maggio è anche il mese che ha visto la nascita del Centro Salam di Cardiochirurgia, e il 3 maggio 2008 l’ultimo nato di Emergency ha compiuto un anno. Migliaia di pazienti visitati, oltre ottocento operati. Un progetto estremamente difficile, provocatorio anche, che ha generato dubbi e critiche: “Ma perché spendere tremila dollari per curare un paziente, quando con quella cifra se ne potrebbero curare cento?” Ci è sembrato che la logica del “quanto costa” avesse senso solo dopo aver assunto – in modo del tutto arbitrario – che il danaro debba essere il punto di partenza di ogni progetto. E se invece adottassimo principi e strategie diverse? Se sostituissimo ad esempio il “quanto costa” con il “quanto vale”, come ci apparirebbe allora il progetto del Centro Salam? Non sapremmo esprimerlo in dollari né in euro, ma la vita delle centinaia di pazienti operati vale. E quanto vale l’avere mostrato a molti africani che li consideriamo “eguali in dignità e diritti”, che hanno lo stesso diritto ad riforma della TV operata da Gasparri e i pochi spazi informativi sottratti ai carristi di PD e PDL, come Report e Annozero, devono essere difesi coi dentitendiamo a non preoccuparci di quello che accade altrove. Ma che la situazione della libertà di stampa e d’informazione in altri paesi sia drammatica ce lo ricordano tre siti. Amnesty International ha da poco lanciato sul web le petizioni per chiedere al governo cinese il rilascio di persone che sono state incarcerate per aver esercitato la libertà di parola denunciando gli sfratti forzati, le limitazioni delle nascite, o per avere tenuto in casa opuscoli religiosi. Come pure la vicenda del giornalista Shi Tao, denunciato da Yahoo in quanto latore di una email a colleghi esteri considerata diffamatoria dal governo

essere curati di chi e’ nato in un paese ricco? Sempre a maggio, dal 13 al 15 di quest’anno, Emergency ha organizzato un Workshop Internazionale sul tema “Costruire medicina in Africa: principi e strategie”. Ci siamo trovati all’isola di San Servolo, Venezia: da sempre qui circolano idee “pazze”. San Servolo era un manicomio, ospita un museo sulla propria storia. Con noi a discutere c’erano Ministri della Sanità e delegazioni di una decina di Paesi africani. L’argomento non ha interessato molto i media, non sorprendentemente visto che in Italia il Ministro della Sanità Pubblica (così si chiamava una volta...), poi declassato a Ministro della Salute, è oggi semplicemente scomparso. I nostri amici africani, invece, si sono mostrati molto interessati nel discutere di medicina e di sistemi sanitari. Con molta sorpresa, e a differenza di quello che avviene ormai da tempo nei nostri congressi medici, non si è parlato di prodotti ma di medicina, di ospedali e non di aziende, di progetti futuri fondati e disegnati in base a principi non negoziabili: l’eguaglianza, la qualità, la responsabilità sociale. Abbiamo verificato profonde sintonie nel modo di percepire la medicina, e condiviso anche la necessità di orientare energie e risorse per curare al meglio i cittadini. Un seme per il lavoro che svilupperemo insieme nel prossimo anno, prima di ritrovarci di nuovo a San Servolo, martire del IV secolo e patrono di Trieste. Maggio è stato un mese intenso e fruttuoso. A proposito di santi di maggio, non dimentichiamo San Siro, che ha visto il 18 maggio... Gino Strada

(http://www.amnesty.it). Mentre Internazionale prosegue la sua campagna per l’arresto dei responsabili della giornalista dei diritti umani Anna Politkovskaja (http://www.internazionale.it/politkovskaja), sul sito di Reporter senza Frontiere si può leggere un rapporto sintetico ma dettagliato sui rischi che corrono i giornalisti in Europa, fra cui il giornalista antimafia italiano Lirio Abbate (che per primo aveva parlato dei rapporti pericolosi di Schifani). E si può fare anche di più, come sostenere la campagna per la sicurezza dei giornalisti che documentano guerre e atrocità acquistando il libro fotografico di Bettina Rheims a favore della libertà di stampa nel mondo (http://www.rsf.org). 29


Per saperne di più

miliziani integralisti di al-Qaeda in Maghreb, al confine con Mali e Niger.

FILM

Algeria LIBRI DAYAK MANO, Tuareg, 2006. Emi I tuareg hanno lottato in Niger e in Mali per ottenere l'indipendenza. Abitano le lande desolate dell'Algeria sahariana, dove i confini non sono che una percezione. Hanno subito repressioni, brutalità, tentativi di assimilazione forzata. Sempre nel silenzio. Per gli «uomini blu» la vita è dura. La mancanza di strutture, di servizi e l'isolamento ne ha frenato lo sviluppo. Mano Dayak, uno dei massimi dirigenti della causa tuareg, ripercorre, in questo volume, la lunga storia del suo popolo. RENE' BAZIN, Charles de Foucauld, 2005. Edizioni Paoline Charles de Foucauld, “ le père” dei Tuareg del Sahara algerino, viene affrontato storicamente nel 1921 da René Bazin, accademico francese del 1903. Il volume racconta l’esperienza spirituale di questo frate trappista, beatificato il 13 novembre 2005. Dopo un percorso di fede tormentato, decide di diventare prete e elegge a sua meta il Sahara, stabilendosi a Tamanrasset, per vivere con i Tuareg, di cui condivide la vita imparandone la lingua, traducendo i loro poemi e dando alle stampe un imponente dizionario illustrato. Prima di fondare un ordine religioso, viene ucciso con una fucilata, il 1 dicembre del 1916, dopo essere stato strappato dal suo eremo. GABRIELE DEL GRANDE, Mamadou va a morire. La strage dei clandestini, 2007. Infinito edizioni Un reportage racconta le vittime dell’immigrazione clandestina, l’invasione che non c’è e i nuovi gendarmi di un cimitero chiamato Mediterraneo. Dal 1988 almeno 10mila giovani sono morti tentando di espugnare la 'fortezza Europa'. Vittime dei naufragi, ma anche del caldo del Sahara, degli incidenti di tir carichi di uomini, delle nevi sui valichi, dei campi minati e degli spari della polizia. GUADALUPI GIANNI, NOVARESIO PAOLO, FOTO DI GIOVANNI BALDIZZONE - TIZIANA BALDIZZONE, Sahara. Un immenso oceano di sabbia, White Star 2003 Un affascinante viaggio nel deserto del Sahara, dalla Mauritania al Mar Rosso, guidati da splendide immagini che evidenziano i contrasti di questa terra: montagne dall'aspetto ostile che cedono il passo a dune di morbida sabbia, pietraie alternate a bianche formazioni di gesso, la recondita bellezza di pitture rupestri e graffiti. Spazi immensi in cui la natura ha creato forme e colori che danno vita a paesaggi di incredibile suggestione; uomini e donne che hanno nel deserto la loro casa, come i Tuareg, i Mauri e i Peul Bororo.

SITI INTERNET http://fortresseurope.blogspot.com/ Fortress Europe, blog gestito da Gabriele Del Grande, è una rassegna stampa che dal 1988 ad oggi fa memoria delle vittime di tutte le frontiere. Il monitoraggio quotidiano di Fortress Europe permette, tra le altre cose, di avere stime aggiornate dei migranti che muoiono nel tentativo di raggiungere un po' di serenità. http://www.algeria-watch.org/ Sito d'informazione che permette di monitorare le operazioni militari che l'esercito algerino conduce nel sud del Paese, sulle tracce dei rifugi dei 30

ANDREA SEGRE, A Sud di Lampedusa, 2007 Girato nel deserto del Sahara nel maggio 2006 e realizzato in collaborazione con Stefano Liberti e Ferruccio Pastore, A Sud di Lampedusa ci trasporta al di là del Mediterraneo, raccontandoci la faccia nascosta di un’emigrazione di cui noi vediamo solo la tappa finale: lo sbarco nell’isola di Lampedusa. Ma chi sono questi migranti? Da dove vengono? Perché emigrano? A queste e a tante altre domande. Il documentario tenta di dare una risposta, ma soprattutto di mostrarci e di farci percepire il vissuto di tanti cittadini africani in fuga dai loro paesi per scelta, per disperazione o anche per desiderio di conoscenza. MAHMOUD ZEMMOURI, Da Hollywood a Tamanrasset, 1989 Le periferie algerine degli anni Ottanta, con l’onnipresenza di antenne paraboliche, dove prosperano personaggi che sembrano usciti dai telefilm americani. Quando Algeri diventa Dallas il risultato è un cocktail esilarante, che racconta il mito 'televisivo', motore dell'emigrazione e di un'idea del mondo ricco non sempre reale. VITTORIO DE SETA, Lettere dal Sahara, 2004 Un giovane studente senegalese dopo la morte del padre emigra in Italia. L'odissea da 'clandestino', il dramma umano ed economico, lo sradicamento e una società che non ti accoglie ma ti ritiene un criminale per il semplice fatto che tenti di avere una vita migliore. La lunga traversata dall'Africa Nera al Belpaese, sempre meno meritevole di questo appellativo.

camerieri di ogni sorta, ma anche testimoni acuti e smaliziati di intrighi, lotte di potere e abiezioni. Ne esce un ritratto a metà tra analisi storica, reportage e opera narrativa. NEGA MEZLEKIA, Dal ventre della iena. Ricordi della mia giovinezza in Etiopia. 2002 Mondadori Pescando dalle leggende e dall'immaginario africano, dalla storia recente dell'Etiopia e dalla sua esperienza personale, Nega Mezlekia ha scritto un libro sospeso tra magia del racconto e la forza della vita vissuta, in cui ricorda con vivida immaginazione la sua infanzia nell'arida cittadina di Giggiga e la sua adolescenza negli anni più duri della storia della nazione, fra la caduta di Hailè Selassiè, gli anni del Terrore e l'instaurazione di un rigido regime militare. Franco Prattico, Nel corno d'Africa. Eritrea ed Etiopia tra cronaca e storia – Editori Riuniti “Nel Corno d'Africa” è la storia del rapporto tra un giornalista occidentale e una delle zone più complesse e tormentate del pianeta. Dai primi viaggi, a metà degli anni Sessanta, Prattico ha seguito come inviato le vicende della guerriglia eritrea, riscoprendo a distanza di pochi decenni i luoghi dell'avventura coloniale italiana e vivendo dall'interno la crisi tra Eritrea ed Etiopia. I suoi reportage sono un esempio di come, a contatto con realtà così difficili, il lavoro di cronista si trasformi in esperienza etica e politica.

FILM

Etiopia LIBRI GREEN MELISSA, Mamma Africa. Una storia vera. 2007 Mondadori La storia di Haregwoin Teferra, eroina per caso di Addis Abeba, che ha trasformato il profondo dolore per la morte del marito e di una figlia nel coraggio di accogliere e allevare decine di orfani dell'Aids. Haregwoin era sull'orlo di una profonda depressione quando il prete del suo villaggio le portò due bambini, figli di due fra i milioni di morti che il virus dell'HIV provoca in Africa. Oltre ogni limite economico e di buon senso, Haregwoin ha continuato ad allargare la sua famiglia, fino a creare un vero e proprio asilo per orfani e un rifugio per le madri ammalate. Tra racconto e denuncia, l'autrice punta l'attenzione su un olocausto dimenticato, con oltre venti milioni di vittime nel solo continente africano. KAPUSCINSKI RYSZARD, Il Negus. Splendori e miserie di un autocrate. 2003 Feltrinelli Ras Tafari (1892-1975), ultimo imperatore d'Etiopia dal 1930 con il nome di Hailè Selassiè I, viene deposto da un colpo di stato il 12 settembre 1974. Kapuscinski si reca ad Addis Abeba per capire cosa sia stata davvero la monarchia del Negus, il Re dei Re, e perché sia caduta. Riesce a incontrare i rappresentanti dell'entourage imperiale e ne raccoglie i racconti, acuti, commossi, involontariamente umoristici. Intervista gli uomini che stavano a Palazzo o avevano avuto il diritto di accedervi, con la funzione di servitori, cortigiani, funzionari, spie,

DANIEL TAYE WORKOU, Menged - BiraBiro Films Production (2006) Adattamento di un racconto tradizionale etiope, il film è una parabola dell’Etiopia di oggi: un paese in transizione tra modernità e tradizione. Sulla lunga strada che li separa dal villaggio al mercato, un padre e un figlio con il loro asino seguono tutti i buoni consigli della gente che incontrano, anche quelli senza senso, per poi realizzare che sarebbe stato molto meglio fare di testa loro. TESHOME KEBEDE THEODROS, Red Mistake Teddy Studio (2006) Etiopia anni 60. La guerra civile e la lotta politica raccontate attraverso le vicende di Tamuru, un giovane dell’opposizione imprigionato e torturato dai soldati del Dergue, il regime militare temporaneo che prese il potere dopo la caduta della monarchia. Tamuru si rifugia in un villaggio lontano dalla città insieme al figlio. La sua vita è distrutta dal senso di colpa per la morte della moglie. Nel villaggio si dedica all’insegnamento e trova conforto nell’amicizia con una giovane dottoressa. Ma anche in questo luogo isolato non riuscirà a sfuggire al controllo del regime.

SITI INTERNET http://www.ethiopians.com/ Portale etiope che fornisce un ottimo panorama generale sul Paese, coprendo politica, storia e cultura http://www.ena.gov.et/ Sito dell'agenzia di stampa statale etiope, contiene numerosi contributi filmati sulla vita politica etiope http://www.onlf.org/ Sito del movimento politico militare dell'Ogaden National Liberation Front, che mira all'indipendenza della regione orientale etiope, abitata in maggioranza da somali


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