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mensile - anno 3 numero 6 - giugno 2009

3 euro

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

Cina: tempesta sulla fabbrica del mondo Italia

Israele Paco Taibo II Mali

Mafia: la tolleranza zero viene dall’Africa Chi denuncia la ‘Ndrangheta muore Omertà di Stato La storia degli altri Il mio viaggio dalla terra alla luna Ciabatte riciclate

Portfolio: Viaggio dall’Afghanistan per una promessa disattesa


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L’indifferenza è la più atroce delle armi. Nel mondo ci sono ancora 26 conflitti in corso e PeaceReporter se ne occupa da anni attraverso il suo sito internet e la sua rivista mensile. Storie, reportage, audio e video che parlano di guerra. Ma anche di pace, perché le buone notizie sono il modo migliore per cominciare una giornata. Ascolta il mondo. Leggi PeaceReporter.

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Se tutti noi non metteremo fine alle guerre, le guerre metteranno fine a noi tutti. Ognuno lo dice, milioni di persone lo credono. Nessuno fa nulla. H.G. Wells

giugno 2009 mensile - anno 3, numero 6

Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Christian Elia Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Nicola Sessa Stella Spinelli Naoki Tomasini

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Blue & Joy Ivan Franceschini Gabriele Del Grande Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Nicola Falcinella Giorgio Gabbi Paolo Lezziero Sergio Lotti Mauro Pigozzo Paco Ignacio Taibo II Gianluca Ursini Gildo Violante Vauro

Progetto grafico Guido Scarabottolo Oliviero Fiori Segreteria di redazione Silvina Grippaldi

Amministrazione Annalisa Braga Redazione e amministrazione Via Meravigli 12 20123 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net Stampa Graphicscalve Loc. Ponte Formello - 24020 Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 5 giugno 2009

Pubblicità SISIFO ITALIA SRL Vicolo don Soldà 8 36061 Bassano del Grappa (VI) Tel. 0424 505218 www.sisifoitalia.it info@sisifoitalia.it

Hanno collaborato per le foto Daniele Dainelli/Contrasto Marco Donatiello/DP Studio Simone Manzo Walesa Porcellato Boris Svartzman/Prospekt Riccardo Venturi/Contrasto

Amministrazione Annalisa Braga

Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Meravigli 12 - 20123 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07

Foto di copertina:

L’editoriale di Maso Notarianni

I morti che nesusno conta uesto mese i morti per le guerre nel mondo sono tanti, tantissimi, quasi quattordicimila. Come del resto sono tanti, troppi, i conflitti che continuano a insanguinare il mondo. PeaceReporter lo dice da quasi cinque anni, da due anni lo dice anche con questa rivista. Come diceva Wells, però, tutti dicono che si devono fermare le guerre, ma nessuno fa nulla. Perché? Noi ce lo chiediamo ogni giorno. Ogni volta che dobbiamo raccontare l’ennesimo conflitto, l’ennesima strage di civili di cui nessun altro parla. E una risposta ce la siamo data: non basta fare, come pure noi facciamo, il bollettino quotidiano o settimanale o mensile delle vittime. Noi che facciamo informazione, e in questo noi ci metto anche i lettori di PeaceReporter a cui spetta il compito fondamentale di diffondere ciò che leggono, abbiamo il dovere di dare un nome, una storia, un colore, un odore, persino un sapore alle cifre che i bollettini diffondono. Abbiamo il dovere di rendere maledettamente concreti i numeri delle guerre. Questo cerchiamo di fare ogni giorno e ogni mese, nelle storie che raccontiamo dal mondo e dall’Italia. Perché siamo convinti che solo così i lettori possano rendersi davvero conto di cosa significhino quei numeri, che altrimenti rimarrebbero cifre aride e prive di reale significato. Ma non smetteremo mai di ripetere che abbiamo bisogno di tutto il vostro aiuto per farlo. Perché noi e voi insieme abbiamo il dovere di trasformare in sapere e conoscenza, e quindi in coscienza, una notizia, o meglio una nozione (oggi a Kabul sono morte 40 persone in un attentato, ad esempio). E questo noi e voi lo possiamo fare in un solo modo: promettendoci reciprocamente che noi continueremo a dedicare tutto il nostro impegno, direi tutta la nostra vita, a fare sempre meglio questo giornale e il sito internet; e voi (meglio se da abbonati) di aiutarci a diffondere la rivista e il sito, proponendolo agli amici, ai colleghi, ai compagni di scuola e di università, a quanta più gente possibile. Solo così, un giorno, troveremo la forza (intesa come massa per accelerazione) di imporre ai potenti di abolire questo orrore.

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Addetto al riciclaggio in una zona appena demolita. Cina, 2007. Boris Svartzman / Prospekt

Israele a pagina 14 Mali a pagina 20

Cina a pagina 4

Distribuzione in libreria Joo Distribuzione - via F. Argelati 35, 20143 Milano - Tel 028375671

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Migranti a pagina 24

L’informativa completa è disponibile sul sito di Picomax: www.picomax.it Scritti, disegni e fotografie anche se non pubblicati non verranno resi.

Cuba a pagina 18

Italia a pagina 10 e 22 3


Il reportage Cina

Fabbrica del mondo in tempesta Di Ivan Franceschini

Cercare lavoro in un’epoca di crisi: i lavoratori migranti nella tempesta finanziaria tate subendo l’influenza della tempesta finanziaria? Il padrone è scappato e non vi ha pagato i salari arretrati? Siete stati costretti a smettere di lavorare, siete stati licenziati oppure vi è stato ridotto il salario? Avendo le necessarie conoscenze e proteggendo i nostri diritti possiamo superare insieme la crisi”. Queste frasi spiccano sulla prima facciata di un volantino che in questi giorni viene distribuito in migliaia di copie tra i lavoratori migranti nel distretto di Longgang, a Shenzhen, un tempo villaggio di pescatori, poi scelto da Deng Xiao Ping vista la sua vicinanza con Hong Kong - per creare una delle zone economiche speciali. Sui risvolti interni trovano spazio altre domande, seguite da spiegazioni concise ma ugualmente preziose: cosa fare se il salario viene trattenuto o non pagato? Se la fabbrica sospende le attività o indice un lungo periodo di ferie? Se il datore di lavoro decide di tagliare la manodopera? Se si viene costretti a dare le dimissioni? Se la fabbrica viene trasferita? Se il padrone scappa con tutti i soldi? Le risposte sono racchiuse in una lunga serie di articoli di legge, presentati ai lavoratori in un linguaggio semplice e chiaro. Sull’ultima facciata un riquadro evidenzia il numero di telefono degli autori: il Centro per la Salute e la Sicurezza sul Lavoro, un’organizzazione non governativa locale fondata da Huang Qingnan, un ex-lavoratore migrante di trentasei anni che nel 1999 ha avuto il volto sfigurato dall’acido nel sonno a causa della gelosia di un collega. Mentre l’attenzione del mondo si concentra sull’ondata di fallimenti che sta colpendo a catena i colossi finanziari globali, tra coloro che soffrono maggiormente le conseguenze di decisioni prese altrove vi sono milioni di lavoratori impiegati nell’industria manifatturiera del delta del Fiume delle Perle, una zona che da anni si è guadagnata l’etichetta di fabbrica del mondo. “Dopo la tempesta finanziaria, proteggere i diritti dei lavoratori è diventato molto più difficile; anche fare il nostro lavoro ora è molto più difficile, ci ha detto davanti ad una tazza di tè Yu Huimin, collaboratrice di Huang Qingnan. In seguito alla crisi non solo molte fabbriche hanno chiuso i battenti oppure sono state trasferite in regioni interne in cui i costi di produzione sono più ridotti, ma il peggio è che gli standard lavorativi sono crollati anche per quei lavoratori che sono riusciti a mantenere la posizione originaria. “Prima potevo tranquillamente trovare lavori con una paga di 1.260 yuan (circa 130 euro) più vitto e alloggio, ora al massimo mi offrono ottocento yuan di salario base, senza vitto o alloggio”, racconta Li, una giovane lavoratrice migrante originaria della provincia settentrionale dello Henan. Lo scorso giugno la fabbrica di componenti elettronici in cui aveva lavorato per oltre sei anni è improvvisamente fallita, lasciando a casa centinaia di dipendenti. In pochi giorni Li è riuscita a trovare un nuovo impiego nello stesso settore, ma dopo sei mesi anche il nuovo impianto ha chiuso i battenti ed è stato trasferito altrove. Questa ragazza non dimostra più di vent’anni, ma in realtà ha una decade in più e due figli piccoli sulle spalle. E’ ancora piena di vitalità, ma avere trent’anni nella fabbrica del mondo significa essere già vecchi. “I padroni vogliono solamente ragazze con meno di venticinque anni e spesso anche se si ha di un diploma di scuola superiore si viene rifiutati:

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come posso competere con loro?”. Nella zona del Delta il problema non è tanto la mancanza di lavoro, quanto il fatto che i salari sono così bassi da non bastare neppure a coprire le spese. “Se dal 2006 al 2008 il salario medio dei lavoratori nella zona di Shenzhen è aumentato di oltre il trenta percento, passando da 2.451 a 3.233 yuan al mese, oggi è comune registrare contrazioni del dieci o addirittura venti percento rispetto ai livelli dell’anno scorso”, sostiene Liu Kaiming, direttore dell’Istituto per l’Osservazione della Contemporaneità, un’organizzazione della società civile basata a Shenzhen. Ridurre i salari dei lavoratori tuttavia difficilmente è una misura efficace per risolvere i problemi di un’impresa. Come ha commentato Yu Huimin, “i salari contano per una minima parte dei costi di produzione dell’impresa. E’ assolutamente insensato colpire gli interessi dei lavoratori per proteggere quelli dell’impresa, in primo luogo perché ciò non ha una grande utilità, in secondo luogo perché i lavoratori hanno già una vita difficile e un aumento della pressione su di loro non è altro che un nuovo fattore di instabilità”. na cosa che colpisce è il fatto che i lavoratori cinesi raramente parlino di “crisi”, preferendo piuttosto utilizzare un’espressione drammatica come “tempesta” (fengbao). E di una vera e propria tempesta si è trattato, come risulta evidente anche solo se ci si attiene alle cifre ufficiali. Lo scorso 2 febbraio il governo centrale in una conferenza stampa appositamente indetta ha fatto sapere quali sono le sue stime del fenomeno: in base ai dati governativi sarebbero stati oltre venti milioni i lavoratori migranti tornati a casa in anticipo prima della Festa di Primavera a causa di problemi occupazionali, un numero pari al 15,3 percento del totale della popolazione migrante, che attualmente conta circa centotrenta milioni di persone. Una persona che ha ben chiaro qual è stato l’impatto della crisi sui lavoratori è Zhang Quanshou, il quale nella zona è conosciuto come il “comandante dei migranti”, un termine marziale che fa venire in mente i “caporali” del sud Italia. Sul suo biglietto da visita è scritto in rosso “Rappresentante dell’Assemblea Nazionale Popolare”, una carica che ha assunto a partire dal 2008. Arrivato a Shenzhen dallo Henan come lavoratore migrante senza un soldo in tasca negli anni Novanta, una decina di anni fa ha trovato il modo di arricchirsi sulla pelle dei compaesani. Nel 2000 infatti ha stabilito un’azienda che si fa carico di presentare i lavoratori alle imprese: i datori di lavoro ogni mese gli versano il salario dei lavoratori e da questo egli trae il suo guadagno, intorno ai trenta yuan al giorno per lavoratore. Zhang Quanshou riceve i suoi ospiti in un lussuoso ufficio sorvegliato da uomini massicci in tuta mimetica in un quartiere operaio del comune di Pinghu, nella periferia settentrionale di Shenzhen. Su una parete sono appese decine di targhe con premi, onorificenze e titoli conferitigli da vari dipartimenti governativi, sulle altre foto di lui in compagnia delle principali

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Operai in pausa pranzo. Pechino, Cina 2004. Riccardo Venturi/Contrasto


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cariche dello Stato, dal presidente del parlamento al ministro degli esteri. Prima della crisi, ogni anno circa dodicimila lavoratori passavano per la sua azienda e le prospettive erano talmente ottimistiche che si era posto l’obiettivo di raddoppiarne il numero nel 2009. Nel luglio del 2008 però sono apparsi i primi problemi: le aziende della zona hanno iniziato a non volere più i suoi lavoratori e in alcuni casi a “restituire” quelli già assunti. D’altra parte, anche i lavoratori hanno smesso di riversarsi in massa nel suo ufficio: dopo la Festa di Primavera i nuovi arrivi sono stati appena cinquemila, la metà dello scorso anno. Molti hanno preferito rimanere a casa in attesa di ulteriori notizie. tando a quanto afferma Zhang, gli imprenditori della zona preferiscono assumere giovani donne tra i sedici e i ventitre anni, più disciplinate e laboriose dei corrispondenti maschili. Tra gli effetti più evidenti della crisi sulla sua attività egli annovera il fatto che, ultimamente, a causa dell’incertezza sugli ordini futuri, i contratti di lavoro stipulati non superano mai i tre mesi di durata, contrariamente a quanto avveniva in precedenza, quando era normale firmare accordi annuali. Invece, egli sostiene di non aver avvertito alcuna influenza della crisi sui salari, i quali, a suo dire, sarebbero rimasti immutati rispetto agli anni precedenti. Riguardo al futuro ha commentato: “In aprile o maggio sicuramente ci sarà nuovo lavoro, altrimenti il mondo intero non funzionerà più”. Paradossalmente, la crisi finanziaria ha colpito i lavoratori cinesi proprio nel momento in cui le speranze di innalzare i loro standard lavorativi erano all’apice. Solamente nel 2008 infatti in Cina sono entrate in vigore ben tre nuove leggi che toccano questioni fondamentali per la classe operaia cinese, come l’occupazione, la risoluzione delle dispute sul lavoro e i contratti lavorativi. La crisi finanziaria ha posto fine, almeno per ora, a tutte le prospettive di miglioramento in questo senso. Hua Haifeng, attivista dell’Associazione dei Lavoratori Migranti, un’organizzazione non governativa locale che si occupa di garantire consulenza legale gratuita ai lavoratori migranti nel distretto di Bao’an a Shenzhen, racconta che i primi mesi del 2008 hanno visto un aumento esponenziale nel numero dei lavoratori che, forti della nuova legislazione, decidevano di intraprendere la via giudiziaria nei confronti dei propri datori di lavoro, ma sin dalla fine della scorsa estate c’è stata una brusca inversione di tendenza. Da dati interni dell’Associazione dei Lavoratori Migranti, è possibile constatare come le richieste di consulenza abbiano avuto un picco nell’aprile del 2008 con novanta casi, mentre nell’ottobre dello stesso anno il numero sia sceso ad appena quattordici. Comunque, sono molti i lavoratori che per risolvere i propri problemi decidono di rivolgersi agli avvocati gratuiti messi a disposizione dallo Stato oppure a improvvisati “rappresentanti civili” (gongmin daili) che, pur essendo sprovvisti della licenza di avvocato, promettono miracoli per pochi soldi. Oltre ai casi individuali, ci sono moltissime vertenze collettive sul lavoro. All’inizio del 2009, una di queste ha coinvolto la DeCoro, un’impresa italiana che occupa una posizione di primo piano nel mercato mondiale dei divani in pelle. Dodici anni or sono la dirigenza della DeCoro, cedendo alle lusinghe della delocalizzazione produttiva in Cina, ha deciso di aprire un grosso impianto industriale destinato esclusivamente all’esportazione nell’area di Pingshan, nel distretto di Longgang a Shenzhen. Pur adottando una politica salariale relativamente favorevole ai lavoratori, negli anni scorsi si sono registrati diversi episodi che hanno lasciato un diffuso malcontento tra i dipendenti, il più noto dei quali è avvenuto nel dicembre del 2005, quando i media di tutto il mondo hanno riportato la notizia di una vera e propria sollevazione popolare nata dal pestaggio di alcuni ex-lavoratori da parte dei supervisori stranieri. Stando alla testimonianza di Xu Shilong, un avvocato che negli ultimi mesi è stato contattato da diversi lavoratori della DeCoro, un altro grave incidente si sarebbe verificato nel marzo del 2008, quando 1784 dipendenti hanno deciso di ricorrere alla legge per richiedere il pagamento degli straordinari non corrisposti. In seguito, ulteriori dispute sarebbero sorte a causa del persistente rifiuto dei dirigenti di rispettare gli obblighi imposti dalla nuova legislazione in merito alla stipula di contratti a tempo indeterminato per i dipendenti con dieci anni di anzianità.

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Dalla metà di gennaio del 2009 i media cinesi hanno ricominciato a prestare attenzione a quanto avveniva nell’impianto DeCoro di Shenzhen. A causa di una drastica diminuzione del volume degli ordini, dall’ottobre del 2008 l’azienda infatti ha cominciato ad avere seri problemi finanziari, cosa che nei mesi di novembre e dicembre ha portato al mancato pagamento dei salari ai 2.239 dipendenti. Dopo alcuni infruttuosi tentativi di mediazione da parte del governo locale e dopo uno sciopero generale del personale il 9 gennaio, il 15 gennaio Luca Ricci, direttore dell’azienda, è sparito nel nulla insieme al resto del personale straniero, lasciando che fossero le autorità cinesi a sbrigarsela con i lavoratori infuriati. “Non l’avrei mai immaginato, nessuno pensava che il padrone fosse una persona di quel tipo. Molti lavoratori ancora oggi sono convinti che lui tornerà, io stessa ho sognato che lui tornerà presto”, ci ha detto Chun, una donna di trent’anni che ha lavorato nell’amministrazione della DeCoro per otto anni. Ora lei e il marito, anch’egli ex-dipendente della stessa azienda, sono a casa senza un lavoro, preoccupati su come tirare avanti con una figlia piccola di due anni. “Un caso come questo è ben rappresentativo di quanto sta avvenendo in questi giorni”, ha commentato l’avvocato Xu Shilong. a preoccupazione degli ufficiali per il pericolo che il paese precipiti nell’instabilità sociale è palpabile. Il 17 febbraio la dirigenza della Federazione Nazionale dei Sindacati Cinesi, l’unico sindacato ufficiale nella Repubblica Popolare, un colosso dai piedi d’argilla con più di duecento milioni di membri, ha lanciato un avvertimento per bocca di Sun Chunlan, la vice-presidente: “Nella situazione attuale è necessario stare in guardia nei confronti di forze ostili interne ed esterne al Paese pronte ad approfittare della situazione di difficoltà di alcune imprese per infiltrarsi nella schiera dei lavoratori migranti e causare danni”. Pechino è decisamente preoccupata che l’insoddisfazione dei lavoratori conduca a estese proteste antigovernative. Per prevenire questa eventualità, il governo cinese sta cercando di garantire ai lavoratori migranti un maggiore accesso al welfare. Negli ultimi mesi i media cinesi hanno continuato a riportare notizie di sussidi di disoccupazione per i lavoratori migranti varati in tutta fretta dai governi locali, di nuovi regolamenti che prevederebbero l’instaurazione di un sistema pensionistico unificato su scala nazionale, di colossali progetti di rioccupazione avviati dalle province, il tutto sullo sfondo dell’imminente approvazione della prima Legge sulla previdenza sociale della Repubblica Popolare Cinese. L’obiettivo finale è quello di riformare rapidamente il sistema previdenziale in modo che la popolazione migrante non sia più esclusa dai benefici della spartizione della ricchezza dello Stato. Nella Cina di oggi, infatti, essere privi della residenza locale (in cinese hukou) è fonte di profonde discriminazioni. Le persone prive dello hukou cittadino non sono titolate a ricevere alcuna assistenza statale sul posto: non godono di assistenza sanitaria gratuita, per mandare a scuola i propri figli devono pagare rette molto salate, in caso di difficoltà economiche o occupazionali non percepiscono sussidi di alcun tipo e via dicendo. È ancora presto per esprimere una valutazione sull’impatto della crisi economica sui lavoratori cinesi. Il panorama della fabbrica del mondo in quest’epoca di crisi appare estremamente complesso, contraddittorio e a tratti paradossale. A prima vista, non sembrano esserci segni di tensione sociale: i lavoratori cercano lavoro giorno dopo giorno, reinventandosi strade e strategie di sopravvivenza sempre nuove, il tutto con infinita pazienza. Nel caso in cui la loro ricerca fallisca, non hanno altra scelta che tornare nelle campagne per attendere insieme ai famigliari la fine di questa “tempesta”. Se qualcuno si aspetta di vedere orde di disoccupati sui bordi delle strade, non le troverà. Alcuni sostengono che sarà necessario aspettare almeno la fine di maggio, quando le aziende riceveranno i nuovi ordini dai loro clienti, per vedere i veri effetti della crisi. Per ora in città e nelle campagne tutto tace.

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In alto: Improvvisato mercato di lavoratori migranti lungo una strada di Zhengzhou. In basso: Schiavi nelle fornaci di mattoni della provincia dello Henan. Cina 2008. Daniele Dainelli/Contrasto


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I cinque sensi della Cina

Udito La musica dello erhu, uno strumento tradizionale a due corde, nei parchi. I cinesi amano particolarmente incontrarsi in quelle piccole oasi naturali al centro di quegli oceani di cemento che sono le metropoli cinesi. Questo avviene specialmente di primo mattino o in serata, quando molti colgono l’occasione di un momento di pausa nella loro routine quotidiana per assaporare insieme alcuni momenti di vita collettiva in una società sempre più individualistica. Se si passeggia per i viali nelle prime ore del giorno, mentre i giovani sono a scuola e gli adulti sono al lavoro, capita spesso di ascoltare musiche e canti tradizionali suonati da capannelli di anziani nostalgici. La musica a tutto volume proveniente dai cellulari dei giovani cinesi. Dimenticato il rispetto per l’altro che costituiva la base della reciproca convivenza in una società affollata come quella cinese, molti giovani cinesi non esitano ad ascoltare a tutto volume in luoghi pubblici la musica scaricata sui loro cellulari. Spesso si tratta di canzoni pop di infima qualità, la più celebre delle quali è forse quella che recita “Ti amo come un topo ama il riso…”.

Vista L’azzurro del cielo di Pechino nei pochi giorni in cui una cappa di smog non opprime la città. Il cielo che si può vedere allora è di un

blu profondo e richiama alla mente la grandezza di questo paese, l’immensità degli spazi e la lunghezza della sua storia. In giorni come quelli non si può fare a meno di pensare a come doveva essere vivere nella vecchia Pechino, quella città antica fatta di vicoli e di case ad un solo piano. E’ quello stesso cielo sotto cui più di quattrocento anni fa Matteo Ricci studiava e scriveva le sue opere in cinese, guadagnandosi il rispetto di un intero popolo.

té. I termos per l’acqua calda sono una componente fondamentale che si trova in qualsiasi abitazione cinese.

Le mura cremisi della città proibita, un simbolo di potere non intaccato dagli anni. Per quanto si possa essere consapevoli degli errori del maoismo, è difficile non provare un brivido lungo la schiena quando si passa di fronte al ritratto di Mao Zedong che sovrasta Tienanmen. In quel momento vengono in mente tutte le speranze contenute in quel grido lanciato il primo ottobre del 1949: “Il popolo cinese si è alzato!”

Olfatto

Gusto Il té. Non quello rosso a cui siamo abituati in occidente, ma quella bevanda che si ottiene versando delle foglie esiccate nell’acqua bollente. E’ un elemento che non manca mai sulla tavola dei cinesi, a qualunque ora del giorno e della notte. Anche se ultimamente molti si limitano a servire acqua calda, le regole dell’ospitalità imporrebbero che al visitatore, che si tratti di un parente, un amico, oppure semplicemente un cliente, venisse offerto almeno un bicchiere di

Gli spaghetti fritti o saltati cucinati su banchetti ai bordi della strada. E’ in posti come questi che, seduti su sgabelli o panche pericolanti, si può assaporare la cucina cinese popolare al massimo delle sue possibilità.

L’odore del fritto all’ora di pranzo, mentre le massaie in cucina preparano il pranzo. Se in Italia si privilegia l’olio d’oliva, in Cina si utilizza diffusamente l’olio di soia, un ingrediente dal caratteristico aroma pungente.

Tatto Il contatto umano derivante dall’affollamento degli autobus e della metropolitana nell’ora di punta. In quei momenti in cui ci si trova schiacciati tra una porta scorrevole che sta per chiudersi e una marea umana che non può o non vuole indietreggiare, la rabbia e la frustrazione sono molto forti. Non c’è altra scelta se non rassegnarsi a quella spiacevole sensazione di soffocamento che deriva dal contatto fisico indesiderato con altre persone sconosciute, mentre si cerca di trovare un angolo dove infilare la borsa, facendo attenzione che il portafoglio non scivoli dalla tasca. 9


Il reportage Italia

Lotta alle mafie: l’Africa insegna Di Gianluca Ursini “In tanti anni di indagini sul territorio della Piana di Gioja, poche volte abbiamo visto condotte collaborative ed efficaci come con i due giovani africani vittima di intimidazione in Rosarno. e loro deposizioni, e quelle degli altri immigrati, hanno condotto all'arresto del colpevole”; il capitano Ivan Boracchia della compagnia dei Carabinieri di Gioja Tauro fu molto chiaro con la stampa nel dicembre 2008: gli extracomunitari, i lavoratori irregolari che mandano avanti il comparto agricolo del Sud raccogliendo pomodori nel Tavoliere delle Puglie e nel casertano, olive e arance in Calabria e ortaggi in Sicilia, sono stati finora “un caso unico di 'collaborazione non omertosa' con la giustizia nella storia della Calabria”, precisa al telefono Tiziana Barillà di Libera, associazione contro le mafie; “l'unico precedente viene dalle denunce dei volontari dell'Ulivo nell'ottobre 2005 quando dopo l'omicidio del vicepresidente regionale Domenica Fortugno si arrivò in pochi giorni al fermo di un killer”. “I migranti africani e arabi, non regolarizzati – spiega lo studioso dei fenomeni mafiosi Antonello Mangano - sono una presenza fondamentale per l'economia del Sud, senza i quali fallirebbe questo comparto, affonderebbero le economie di parecchie regioni e non vedremmo più arrivare i fondi europei di sostegno all'agricoltura”. Proprio nei giorni in cui si andava in stampa, la Lega Nord otteneva il voto di fiducia sul Decreto sicurezza che prometteva perpetua insicurezza e illegalizzazione per i migranti extracomunitari: “Le campagne su sicurezza e criminalizzazione dei migranti rendono difficile comunicare il disagio degli irregolari a gran parte dei lavoratori locali. Ma se per assurdo adottassimo anche coi residenti un sistema che lega il soggiorno a un contratto di lavoro in regola, quanti calabresi che campano dell'economia sommersa sfuggirebbero alla clandestinità?”. La provocazione di Mangano nasce dalla constatazione delle condizioni di sfruttamento in cui vivono gli immigrati nelle campagne meridionali, che rende profittevole la raccolta delle patate a Cassibile in marzo, delle olive ad Alcamo in giugno, dei pomodori a Foggia in settembre... E dire che a Rosarno le condizioni non sono così brutte; i proprietari terrieri garantiscono tra venti e venticinque euro a giornata, col minimo sindacale per la Provincia a trentadue; ma tenendoli a giornata in nero si risparmiano i contributi, che porterebbero il conto a quaranta euro. “Le leggi razziste volute dalla Lega non mirano a espellere gli immigrati, vogliono mantenerli in una condizione servile, sotto ricatto. La fascia di immigrazione irregolare che lavora nei campi non accetterebbe mai condizioni tanto dure in presenza di un'alternativa; inizierebbe ad organizzarsi e a rivendicare diritti: sanno di essere indispensabili e di sostenere un intero settore economico. Senza loro tante lande del Meridione sarebbero condannate allo spopolamento. Dunque che rimangano a lavorare, ma da schiavi” è la conclusione di Mangano sullo sfruttamento del lavoro, fondato sulla artificiosa condizione di clandestinità dei migranti. “Abbiamo raccolto le lezioni da trarre dal caso Rosarno in un volume intitolato Gli Africani salveranno la Calabria. E forse, l'Italia intera, ricorda Barillà di Libera, che con Don Ciotti qui nella piana di Gioja, terra dei clan Piromalli Pesce Bellocco, aveva portato trentacinquemila giovani in marcia contro le

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mafie il 21 marzo 2007. “Ma non solo – incalza Barillà – oltre all'omicidio Fortugno, il 'caso Rosarno' in decenni di lotta alle 'ndrine, essendo concluso dall'arresto del delinquente grazie alla collaborazione delle vittime, viola il patto d'omertà quasi egemone in certi paesini. Gli africani hanno bloccato un abitato intero la mattina del 13 dicembre 2008, rovesciando cassonetti e protestando di fronte alla caserma di Polizia, per dire che non accettavano che gli si sparasse addosso. In altri Paesi chi viene colpito non ha la forza di reagire e subisce in silenzio. Possono essere anche loro, o forse, provocatoriamente, solo gli immigrati, a salvare noi calabresi dalle mafie”. Finora un'altra rivolta di immigrati si era registrata nel gennaio 2003 quando la Asl aveva chiuso un dormitorio occupato abusivamente; avevano portato i loro materassi davanti il municipio per ottenere un nuovo tetto asciutto dove dormire. E negli anni a seguire avevano subito almeno altre due aggressioni e ripetuti tentativi di rapina a tarda sera, quando sono gli unici a girare a piedi per le strade del paese. o visto quei ragazzi, dopo l'agguato portato (a colpi di pistola, ndr) l'11 dicembre, mettersi in coda per l'identificazione degli aggressori con il confronto delle fotografie”, ricorda Peppe Pugliese, ragazzone calabrese la cui stazza si staglia di una spanna sopra quella di altri volontari come lui, che distribuiscono coperte e vestiti alla fabbrica 'Cartiera' occupata dai migranti; idealista con una sua vita agiata a Rosarno, Pugliese ha deciso di aiutare fin dal 2002 le migliaia di ragazzi che venivano nella Piana da ottobre ad aprile, tempo di arance e olive. Nel 2008 fonda l'Osservatorio Migranti, per organizzare l'aiuto: coperte per l'inverno donate dai cittadini dei comuni vicini, i container per dormire al riparo dalla pioggia, arrivati in febbraio, e da gennaio bagni chimici e docce che i Comuni di San Ferdinando Rosarno e Rizziconi hanno predisposto negli insediamenti abusivi, utilizzando un fondo di 50mila euro disposto dalla Regione Calabria. Il 12 dicembre due teppistelli avevano sparano nel mucchio, fuori da una ex fabbrica abbandonata contro i lavoratori africani, a fine giornata: colpiscono a casaccio due ragazzi di vent’anni, un ivoriano e un ghanese. Le vittime e loro amici riconosceranno un volto tra quelli presentati loro dai carabinieri: un rosarnese con vari precedenti penali contro il patrimonio. Il giorno dopo i migranti si rifiutano di andare nei 'giardini' (qui si dice così dei campi, perché gli agrumeti un tempo erano ornamentali) a raccogliere frutti sugli alberi, ma gridano ''Mai più'' e chiedono giustizia. “Nella nazione che ha esportato nel mondo Mafia Camorra e 'Ndrangheta – ha scritto di recente Roberto Saviano – sono gli immigrati a Castelvolturno (strage di sei ghanesi nel settembre 2008) e a Rosarno a ribellarsi allo strapotere mafioso sul territorio e a scendere in piazza per dire: Noi non ci stiamo”.

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Raccolta degli ortaggi nella piana di Gioja. Calabria 2008. Luca Galassi ©PeaceReporter


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a Piana di Gioja è stata terra di lotte popolari nel dopoguerra, per appropriarsi della terra. E ha visto anche lotte di antimafia, come testimonia il sacrificio di Peppe Valarioti, candidato capolista del Pci alle elezioni amministrative del 1979, ucciso la sera seguente il voto, mentre festeggiava oltre il trenta percento di consensi per la lista comunista. A chi voleva diventare sindaco come Giuseppe Lavorato ( primo cittadino fino al 2002) bruciarono la macchina a una settimana dalla elezioni, “Ma non abbiamo mai piegato la schiena davanti la mafia”, spiega Lavorato “perché fu proprio da quelle elezioni che i comunisti denunciarono l'arrivo del voto mafioso, piegato agli interessi delle cosche. Erano gli anni della costruzione del porto, arrivava un fiume di soldi, e la 'ndrangheta capì il valore del controllo dei fondi pubblici e del controllo della politica”. Le ditte mafiose che parteciparono allo sbancamento per costruire il porto di Gioja acquisirono quella dimestichezza con trasporto inerti e il movimento terra che ha fatto loro egemonizzare anche la Brianza e il territorio milanese trenta anni dopo. Con il porto arrivò il raddoppio della ferrovia e l'autostrada Salerno-Reggio: miliardi ghiotti per le 'ndrine. “In quegli anni ci fu il passaggio dalle 'ndrine di Guardianìa, che facevano soldi col contrabbando di sigarette, al salto in grande stile dell'economia mafiosa. Noi comunisti capimmo che lo Stato doveva combattere per il controllo del territorio e poteva farlo solo dando lavoro ai braccianti, per il lavoro e contro la mafia”. Gli immigrati da anni oramai vivevano ammassati per almeno quattro mesi l'anno in edifici abbandonati: un vecchio capannone poco fuori il centro di Rosarno, la 'Rognetta' sulla via Nazionale, dove un tempo si lavoravano le arance. Solo quest'anno a ridosso dello stradone era stato allacciata una conduttura all'acquedotto comunale; i vetri del capannone erano rotti da tempo. Per anni immigrati burkinabè, maliani, ivoriani, ghanesi hanno accozzato alla bell'e meglio baracche con cartoni e vecchie reti da materasso, lamiere. Mentre Pugliese ci fa strada nei corridoi dove i ragazzi africani accendono fuochi improvvisati dentro bidoni arruginiti, ci viene incontro Khaled, un ragazzo algerino. Avrà venticinque anni. Chiama Peppe in disparte, lo fa entrare nella sua baracca fredda e umida. “Adesso il peggio è passato, qui in gennaio le temperature possono anche scendere sotto lo zero”, puntualizza Pugliese, commosso mentre mostra il dono che Khaled e altri algerini gli hanno voluto fare per essere riuscito a portare i container dove stare caldi: due pacchi di arance, parte del raccolto di giornata. La stagione è finita e i ragazzi possono portare via qualche frutto dai rami; tanto gran parte delle arance non verrà raccolte: quest'anno il prezzo al chilo è crollato a sette centesimi e conveniva soltanto raccogliere mandarini e clementine. Alla Cartiera, verso il comune di San Ferdinando, erano più di quattrocento nei giorni dell'emergenza a trovare un tetto dove dormire sotto un capannone moderno; la Modul System srl era stata fondata negli anni '90 da un imprenditore emiliano venuto a Sud a sfruttare i fondi europei per lo sviluppo: venne tirato su un capannone ma la cartiera non entrò mai in funzione. Ora lo scheletro vuoto nato da un raggiro ospita un altro figlio illegittimo dell'economia meridionale: stipendi in nero e vite mai dichiarate, o respinte alla frontiera. Sul lato della strada c'è l'accampamento dei sudanesi: sono una cinquantina e stanno in disparte; quasi tutti hanno richiesto asilo politico e ne avrebbero diritto, sono una comunità a parte con rituali diversi. I ragazzi del Kollettivo onda rossa di Cinquefrondi, distribuiscono maglie in lana e vestiti smessi dai calabresi. Gli africani si mettono in coda, berretti e calze pesanti vanno a ruba, servono nelle fredde notti del capannone, quando si accendono fuochi per cucinare e scaldarsi al buio delle volte industriali. Qui sono venuti gli avvocati volontari dell'Osservatorio in gennaio a recensire le condizioni giuridiche dei migranti e dare assistenza. “Ne abbiamo trovati quasi quattrocento – spiega Anna Foti, avvocato in Reggio – in minima parte con permessi non rinnovati, a maggioranza con decreti di respingimento alla frontiera e parecchi dinieghi di asilo. Per molti di loro l'atto amministrativo che segna la loro permanenza in Italia, era stato emesso in maniera illegittima. Ma per quasi tutti erano scaduti i termini per presentare ricorso, che varia dai quindici ai sessanta giorni. Ad alcuni a Lampedusa avevano consegnato un foglio di via e quasi contestualmente un decreto di espulsione. Procedure invalide. Ma siamo arrivati troppo tardi. Per casi singoli proviamo a recuperare: è il caso di una ghanese incinta,

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per la quale proporremo la inespellibilità”. I decreti di espulsione erano in gran parte emessi tra luglio e agosto 2008. Una grande ondata passata da Lampedusa; alcuni poi per il Cpt di Crotone, molti direttamente qui in Calabria in cerca di denaro contante. Per parecchi l'unica scelta futura sarà la clandestinità: dopo il decreto di esplusione per dieci anni non possono chiedere il permesso di soggiorno. Oltre a Pugliese e i volontari, c'è chi da anni riconosce chi viene a lavorare e prova compassione per le condizioni ignobili in cui noi italiani li facciamo lavorare: Norina Ventre. Volontaria dell'Unitalsi, immancabile ai pellegrinaggi a Lourdes, questa zelante cattolica ottantunenne, si trova fianco a fianco coi ragazzi del ''Kollettivo'' nel dare una mano. “Sono poveri ragazzi, venuti qui a spaccarsi la schiena nella raccolta; senza pane, senza coperte, senza un tetto e un fuoco che riscaldi: come possiamo dirci cristiani se non apriamo le porte a chi ha bisogno?” Norina da dieci anni, ogni domenica, da ottobre a marzo, apre la sua casa di campagna in contrada Rognetta, vicino la vecchia fabbrica occupata e sotto un pergolato mette un tavolaccio con sessanta, ottanta a volte cento coperti: il pranzo della domenica di Mamma Africa, una consuetudine per i migranti della Piana oramai. Pasta al forno, parmigiane e prelibatezze calabre. “In febbraio sono arrivata anche a 180 coperti! - ride – ma in quel caso solo un sugo semplice, erano troppi anche per me. E con del nostro peperoncino calabrese, così si rinfrancano”. Non ha intenzione di smettere. “Sono una cristiana. E Nostro Signore Gesù Cristo ha dato un messaggio dalla Collina degli Ulivi: date da mangiare agli affamati. Come mi potrei presentare di fronte a Nostra Signora di Lourdes, se non aiutassi questi poveri ragazzi?”. Norina non ha smesso nemmeno quando quasi tutti sono partiti, a stagione terminata. “A maggio ne sono rimasti solo una ventina, trentina, ma la domenica io preparo lo stesso: come faccio a non dargli da mangiare, soprattutto ora che non trovano più lavoro? I miei ragazzi hanno tanta fame...” Norina Ventre non è l'unica persona con spirito cristiano a Rosarno: anche il parroco della chiesa di San Giovanni Battista, don Pino, lo scorso Natale ha messo nel presepe un Gesù nero, per ricordare ''i fratelli migranti''. Anche la famiglia di don Pino ha un fondo con degli aranci fuori paese: lo comprò il suo nonno, con i soldi fatti in America da migrante. E a quel santo si rivolgono anche i nuovi arrivati: “Adesso siamo tutti presi dall'organizzare il battesimo di uno dei loro bambini – ricorda al telefono Mamma Africa - una tale eccitazione: non ho ancora completato il corredino. Lo chiameremo Giovanni, come il nostro patrono”. a non tutte le belle storie hanno un lieto fine. Bisognerà verificare in questo mese una vergogna emersa raccogliendo queste testimonianze: al ghanese e all'ivoriano che con la loro denuncia hanno assicurato alla giustizia uno 'ndranghetista, non è ancora stato assicurato un permesso di soggiorno regolare. “In base all'articolo 18 della legge vigente Bossi Fini, spetterebbe loro un permesso, per 'collaborazione'” spiega Valentina Loiero di 'Terra', giornalista specializzata sul tema migranti. L'art.18 era stato pensato per le prostitute che denunciavano gli sfruttatori, ma calza a perfezione al caso. A rilasciare il documento è il prefetto su istruttoria di Pubblico ministero e giudice delle indagini, che hanno seguito il caso al quale ha collaborato l'immigrato. “Al momento non abbiamo novità sul permesso per i due” ci riferiscono dallo studio legale che segue la pratica. E' presto per gridare allo scandalo: i tempi medi di concessione di un permesso superano i sei mesi, quindi nessuna fretta ai signori Prefetti Domenico Bagnato di Gioja Tauro e Francesco Musolino di Reggio Calabria. Ma al signor Ministro dell'interno Roberto Maroni si vorrebbe chiedere: se davvero questo esecutivo vuole colpire solo i migranti che delinquono, perché non premiare gli immigrati che hanno aiutato la giustizia, come anzi mai successo prima in regioni ad alta omertà mafiosa? Aiutiamoli a restare con noi: con la loro presenza in Calabria, Ministro, c'è da giurare che migliorerebbero il tenore civile delle nostre terre piagate dalle Mafie.

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In alto e in basso: Un angolo di Africa nel Tavoliere delle Puglie. Italia 2008. Luca Galassi© PeaceReporter


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L’intervista Israele

La storia degli altri Di Christian Elia

Ilan Pappé è uno storico israeliano che insegna all'Università di Exeter, in Inghilterra. Insegnava ad Haifa, ma non gli è stato rinnovato il contratto. I suoi libri, in particolare La pulizia etnica in Palestina del 2007 edito in Italia da Fazi, hanno suscitato tante polemiche. Viene ritenuto il principale esponente dei cosiddetti nuovi storici, impegnati nel riesame della storia israeliana e del conflitto palestinese. Lei ha dichiarato di essersi imbattuto nella questione palestinese solo quando si è recato a Oxford per il dottorato. Quale storia studiano i ragazzi in Israele? Tanti israeliani sono stati istruiti a pensare che i palestinesi hanno abbandonato volontariamente le loro terre nel 1948 e che all'epoca il governo israeliano ha fatto di tutto per convincerli a restare. Nella storiografia ufficiale passa una tragica farsa: Israele è nato su una terra che non era di nessuno prima. Ma allora come si spiega la vulgata che invitava i palestinesi a restare? In questa versione Israele non ha alcuna responsabilità storica e politica. I giovani israeliani vengono istruiti a pensare che oggi come nel 1948 combattono un nemico barbaro. Non gli vengono dati gli strumenti per capire per quale motivo un palestinese si fa esplodere, perché l'Olp combatteva Israele o perché Hamas lancia i razzi Qassam. Senza un'analisi dei fatti, tutto quello che accade viene percepito dai giovani israeliani come una gratuita aggressione, si sentono odiati solo per il fatto di essere ebrei. Il risultato delle ultime elezioni ha premiato Avigdor Lieberman, in odore di xenofobia verso gli arabi israeliani. Ritiene che si corra il rischio di una nuova pulizia etnica? Dopo il 1948 i palestinesi sono stati dispersi: Cisgiordania, Gaza, dentro Israele e i campi profughi. Il problema demografico resta una priorità strategica assoluta per Israele. Per Gaza e Cisgiordania la soluzione è sotto gli occhi di tutti: creare delle grandi prigioni dove rinchiudere i palestinesi con la forza. Rimane da decidere cosa fare dei palestinesi in Israele. Su questo tema Lieberman ha costruito la sua popolarità e la maggior parte degli israeliani è stata convinta a guardare ai cittadini arabi con sospetto. L'unica soluzione possibile è una pulizia etnica. Avverrà in maniera graduale ed è una politica che è già iniziata. Il governo chiede agli arabi israeliani attestazioni di fedeltà, gli impone limitazioni economiche e commerciali, mette in discussione la loro cittadinanza. Si creano le circostanze che ti spingono ad andare via. Questa è la strategia dell'attuale governo verso gli arabi israeliani. Bisogna vigilare con la massima attenzione. In passato ha dichiarato che il memoriale dell'Olocausto è costruito sulle macerie di un villaggio palestinese. Ritiene che l'orrore della Shoah venga strumentalizzato? La memoria dell'Olocausto, per il governo d'Israele, è importante per giustificare la sua politica nei confronti dei palestinesi. Nel nome della memoria dell'Olocausto si dice al mondo di tacere. E' come uno scudo tattico contro qualsiasi critica. I palestinesi vengono dipinti come i nuovi nazisti, un pericolo per la sopravvivenza d'Israele. Rispetto alla percezione e alla 14

strumentalizzazione della Shoah va fatto poi un discorso a parte per gli Stati Uniti e l'Europa. In particolare nel Vecchio Continente, è come se l'Olocausto avesse generato un'apertura di credito illimitata. Ogni personaggio politico deve ribadire di non essere antisemita, per lavare la coscienza sporca, rispetto a quello che è successo agli ebrei. Ecco, verso Ue e Usa la manipolazione consiste nel far passare il messaggio che quello che è accaduto allora e quello che accade oggi siano fenomeni collegati. Tanti intellettuali israeliani, negli ultimi anni, hanno mutato punto di vista sul conflitto. Non è più di moda criticare la politica dello Stato d'Israele? Personaggi come Grossman e Oz finiscono per rappresentare un pericolo maggiore per i palestinesi degli stessi Natanhyau e Lieberman. Rappresentano un sionismo rassicurante. Sono gli esponenti di un sionismo tattico, che punta a raccontare una realtà particolare, fatta di convivenza e condivisione, un sionismo che fa cominciare tutti i problemi con l'occupazione del 1967. Questa visione rimuove il problema principale, il sionismo ideologico, che ha generato il sistema vigente di apartheid. Il problema d'Israele è l'ideologia stessa che è alla base della sua nascita. Un'ideologia etnica, che vuole un Paese solo di ebrei.

Non crede che la sua posizione sul boicottaggio accademico sia rischiosa? Ci sono tanti intellettuali israeliani nell'ambiente universitario che rappresentano voci critiche. Perché non ha boicottato anche quest'edizione dedicata all'Egitto, che molti ritengono complice d'Israele rispetto all'ultimo conflitto a Gaza? Il mondo accademico israeliano è parte del sistema di occupazione. Il boicottaggio vuole essere uno stimolo per questi intellettuali, non una chiusura verso di loro. L'idea è quella di fare in modo che il boicottaggio spinga queste persone a ribellarsi, non è un modo per isolarli. Non penso che il boicottaggio accademico sia la soluzione a tutti i mali, ma credo che possa essere una spinta anche per i personaggi critici, invitandoli a prendere posizioni più nette contro l'occupazione. Per quel che riguarda l'Egitto, nessuno lo ritiene una democrazia. Tanti, invece, sono convinti che Israele lo sia. I presupposti, come vede, sono completamente differenti dall'edizione dello scorso anno. Il boicottaggio della Fiera era un segnale, per promuovere una riflessione sull'occupazione e la democrazia. In alto: In preghiera al Muro del Pianto di Gerusalemme. Israele 2009. Naoki Tomasini© PeaceReporter. In basso: Porta di Gerusalemme in una foto storica. Archivio PeaceReporter


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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

Le buone nuove Congo, la strada della pace Un nuovo collegamento stradale tra Brazzaville e Kinkala è il simbolo della rinascita per la regione di Pool. E' già stata soprannominata "la strada della pace": lunga 62 km, collega la capitale della Repubblica del Congo, Brazzaville, a Kinkala, nella regione meridionale di Pool, teatro dal 1998 al 2003 di una guerra civile a bassa intensità che ha provocato migliaia di vittime. Grazie al collegamento con Brazzaville, potranno finalmente essere ricostruite tutte quelle infrastrutture di base (ospedali, case, scuole) distrutte durante la guerra, e che avevano spinto il governo a dichiarare la regione "zona disastrata".

Emirati: più impegno per i diritti dei lavoratori Gli Emirati Arabi Uniti, dopo il Bahrein, hanno dichiarato di volersi impegnare con più forza per garantire i diritti dei lavoratori stranieri, che nel paese raggiungono l'80 percento della popolazione. La conferma è arrivata dal ministero del Lavoro all'indomani della pubblicazione del rapporto di Human Rights Watch sulle ripetute violazioni nei confronti degli operai edili. Secondo la nuova normativa i lavoratori che non vengono pagati per più di due mesi potranno cambiare occupazione senza dover aspettare l'autorizzazione del datore di lavoro e senza l'obbligo della lettera di raccomandazione. La modifica alla legge prevede anche che le società garantiscano ai lavoratori adeguate sistemazioni abitative e i mezzi di trasporto per recarsi sul luogo di lavoro.

Il Togo abolirà la pena di morte Il ministro della Giustizia del Togo, Kokou Biossey Konè, ha annunciato che il suo Paese abolirà la pena di morte. Konè ha assicurato che la decisione è il frutto dell'impegno della comunità di Sant'Egido, del governo togolese e della opinione pubblica, che hanno facilitato il dialogo politico e hanno portato all'attuale fase transitoria di unità nazionale.

Sri Lanka

Cuba

Più che una vittoria, Il Watergate un massacro di Cuba a guerra civile in Sri Lanka è finita in un bagno di sangue. La vittoria definitiva dell’esercito governativo singalese sui ribelli delle Tigri tamil, ottenuta lo scorso 18 maggio, è costata oltre quindicimila morti solo negli ultimi quattro mesi e mezzo di battaglie: oltre undicimila civili tamil, quasi tremila guerriglieri e milletrecento soldati. Gli ultimi giorni sono stati una carneficina che ha pochi precedenti nella storia recente: tra l’1 e il 17 maggio i bombardamenti governativi sulla No Fire Zone hanno causato la morte di settemiladuecento civili. Un crimine di guerra avvenuto nel sostanziale disinteresse della comunità internazionale e che il noto esperto di diritto internazionale statunitense, Fracis Boyle, ha paragonato al massacro di Srebrenica del 1995. Il regime nazionalista singalese di Mahinda Rajapakse prima ha indotto i civili tamil a rifugiarsi in massa nella No Fire Zone, poi ha tagliato loro i rifornimenti di cibo, acqua e medicine e infine li ha bombardati senza tregua. Le Tigri tamil, dal canto loro, sono state accusate di aver impedito la fuga ai civili, usandoli di fatto come scudi umani. Come se non bastasse, i civili tamil sopravvissuti a questo inferno sono stati rinchiusi in campi di concentramento militari dove sono state denunciate torture, stupri, sparizioni ed esecuzioni sommarie. La Croce Rossa Internazionale, che non ha ancora avuto libero accesso a queste strutture, ha denunciato l’arresto di tre medici governativi che avevano dato notizia delle stragi causate dai bombardamenti governativi sulla No Fire Zone. Le Nazioni Unite, che durante le ultime fasi del conflitto avevano debolmente protestato contro il governo di Colombo, sembrano aver già archiviato la faccenda. Si accusa la Cina di aver bloccato in sede Onu ogni iniziativa contro il governo Rajapakse in cambio della concessione di uno strategico porto commerciale sulla costa meridionale dello Sri Lanka. Probabilmente è vero, ma questo non giustifica la cinica indifferenza delle diplomazie occidentali.

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Enrico Piovesana 16

arebbe stato un video registrato durante un incontro privato, la causa della destituzione di Felipe Perez Roque e Carlos Lage, due delle massime cariche dello Stato cubano. Le immagini, da qualche settimana al vaglio delle alte cariche politiche cubane, sono state girate all'interno della casa di Conrado Hernandez, delegato della Spri, la società che cura gli interessi dei Paesi Baschi a Cuba. Nel video, probabilmente girato di nascosto, si sentirebbero Roque e Lage farsi beffa della malattia che ha costretto Fidel Castro ad abbandonare la scena politica cubana. Non solo: i due, pochi giorni dopo la nomina di Raul a presidente della Repubblica, avrebbero deriso le sue qualità e messo in dubbio la sua capacità di gestione della politica cubana. Da qui la decisione di Raul Castro di destituire i due politici, da sempre considerati l'ala progressista della politica cubana. Hernandez secondo alcuni farebbe parte dei servizi segreti spagnoli e avrebbe registrato le conversazioni proprio per far capire al governo spagnolo che a Cuba la “linea Castro” sta perdendo terreno a favore di una linea più progressista e moderna che sarebbe potuta essere rappresentata da Lage e Roque. Ma i giochi non sono andati come Hernandez, forse, si immaginava. Il 14 febbraio scorso l'uomo è stato arrestato insieme alla moglie mentre tentava di salire su un aereo che lo avrebbe condotto a Bilbao. Qualche giorno dopo l'arresto, le forze di sicurezza cubane hanno iniziato la perquisizione nel suo ufficio dell'Havana e hanno rinvenuto le registrazioni. Da quel momento le attività politiche per Lage e Roque, fino a quel momento rispettivamente vice presidente del Consiglio di Stato e ministro degli Esteri, sono improvvisamente terminate. Il Lider Maximo, in un articolo pubblicato qualche giorno dopo la loro destituzione, li aveva definiti “indegni”. Dal giorno della loro improvvisa destituzione sia Felipe Perez Roque sia Carlos Lage non si sono più occupati della vita politica cubana.

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Alessandro Grandi


Portfolio

La promessa disattesa Testo di Christian Elia. Fotografie di Simone Manzo ono almeno duemila. Ma sono stati anche di più. Vivono in baracche di legno, coperte da teloni di plastica, in mezzo al fango reso melmoso e maleodorante dalle piogge. Patrasso, Grecia, uno dei porti più importanti del Mediterraneo per il transito di passeggeri e merci. Loro, gli afgani, non sono né l'uno né l'altro. Loro non possono passare. Hanno affrontato un lungo viaggio, durato mesi, per arrivare dall'Afghanistan in Europa, via Pakistan, Iran e Turchia. In fuga dalla guerra, dai bombardamenti della Nato e dai taliban. Sono in maggioranza di etnia hazara e quindi in fuga anche dal nuovo governo afgano, quello amico della Nato, che discrimina e perseguita gli hazara come tutti i governi che lo hanno preceduto. Sono arrivati in Grecia, nell'Unione Europea, per chiedere asilo politico. Molti di loro, dopo l'attacco della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti nel 2001, hanno sperato in una vita migliore. Invece non è andata così: hanno continuato a essere perseguitati e il loro Paese è ancora devastato dalla guerra. Allora sono fuggiti, verso quell'Europa che assieme agli Usa ha promesso di portargli la democrazia e la libertà. Ma a casa loro, perché qui in Europa sono solo clandestini. Sono rimasti bloccati a Patrasso, tentando ogni giorno di saltare su uno dei camion in partenza per l'Italia. Qualcuno ce la fa, qualcuno muore. Gli altri restano là, nel porto, ad aspettare il loro passaggio verso la libertà. Dimenticati dall'Europa dove, secondo la Convenzione di Dublino, l'asilo politico e lo status di rifugiato vanno chiesti nel primo Paese Ue di arrivo. Solo che in Grecia il tasso di domande di asilo accettate dal governo di Atene non supera l'uno percento. Tutte le opinioni pubbliche

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europee, però, non devono sapere. Perché sarebbe difficile spiegare ai cittadini come la guerra in Afghanistan è giusta, se poi non si ammette che quello è un inferno dal quale migliaia di persone ogni giorno tenta la fuga. Emergerebbe tutta l'incoerenza di un'operazione militare brutale, aggressiva e che non ha dato alcun risultato, visto che i taliban sono più forti di prima. Allora niente status di rifugiato, allora niente asilo politico. eglio tenerli in una zona d'ombra: parcheggiati come fantasmi imbarazzanti in un campo che è un non-luogo soffocante, in cui l'unico segno di vita è una baracca dove un medico passa una volta a settimana per dare qualche medicina. A poche centinaia di metri eleganti palazzine residenziali, di fronte al lungomare di Patrasso. Inquilini furibondi, perché lo Stato non fa nulla per scacciare questa gente e il valore delle loro case si abbassa sempre di più. Furibondi al punto che, non troppo tempo fa, a qualche testa calda è venuto in mente di fare da sola. Non è finita in tragedia per puro caso. Il 4 maggio scorso, all'improvviso, una flebile speranza si è accesa da Strasburgo per questi duemila disperati. La Corte Europea per i Diritti dell'Uomo ha ritenuto ammissibili i ricorsi presentati da 35 profughi. Le controparti chiamate in causa per la violazione dei diritti fondamentali di queste persone sono il governo italiano e quello greco. Hanno subito detenzioni illegali, senza che potessero chiedere asilo politico. I loro diritti sono stati violati. Questa volta, magari, sono arrivati per davvero in Europa.

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In copertina Palazzo in costruzione accanto alla baraccopoli degli afgani a Patrasso, occupato dai migranti. In queste pagine Foto grande: Due afgani cucinano il loro pranzo. In senso antiorario: Un auto con qualche aiuto umanitario di associazioni viene scaricata dagli afgani del campo che si divideranno le provviste. Alcune delle baracche del campo. La difficile igiene quotidiana. Panni stesi ad asciugare di alcuni afgani sul lungomare di Patrasso. Ogni mattina tutti gli afgani che vivono nel campo si recano al porto nel tentativo di salire in corsa in uno dei camion che partono tutti i giorni per l'Italia. Gli afgani non hanno nulla da fare tutto il giorno, perchÊ a causa della crisi economica che ha colpito anche la Grecia faticano a trovare lavori saltuari. Ultima pagina Alcuni afgani hanno occupato case in costruzione dove vivono in pessime condizioni igienico – sanitarie.



Colombia

Somalia

Il numero dei morti dal 30 aprile al 27 maggio*

Uribe verso il terzo mandato

Torna la violenza nel corno d’Africa

Un mese di guerre

n Colombia non è ancora tempo di campagna elettorale, ma le presidenziali del 2010 sono fra gli argomenti di grido delle ultime settimane. La ragione? Il tormentone Uribe: terzo mandato sì, terzo mandato no. E mentre il presidente della Sicurezza democratica, del pugno di ferro contro la guerriglia e del guanto di velluto con i paramilitari, resta sul vago, c’è già chi, in nome dell’uribismo, si è già immolato. È Manuel Santos, ministro della Difesa fino all’altro ieri e adesso dimissionario e pronto a fare da paracadute all’amico di sempre. Perché la questione è una: per far sì che Uribe possa governare per la terza volta consecutiva è necessaria una riforma costituzionale, che ha un iter alquanto complesso. Il testo sulla rielezione è appena stato approvato dal Senato, ma deve passare dalla Camera bassa e quindi essere spulciato dalla Corte costituzionale. È solo a questo punto che la decisione potrebbe passare al popolo attraverso un referendum, che, se tutto va secondo i piani di Casa Nariño, il Quirinale colombiano, dovrebbe cadere a settembre. Nel frattempo Alvaro Uribe non si sbilancia, ma nemmeno nega che si ricandiderà e certamente si para le spalle con Santos. Intanto il conflitto interno continua a mietere vittime e la guerriglia a lanciare segnali distensivi. Le Farc si sono dette disposte a rilasciare Pablo Emilio Moncayo, un poliziotto ora trentenne sequestrato undici anni fa, a patto che a riceverlo sia Piedad Cordoba, la senatrice dell’opposizione rappresentante della Ong Colombiani e colombiane per la pace. Persona che Uribe si è sbrigato a definire “non gradita”, negandole la possibilità di partecipare alle trattative. Un atteggiamento che ha fatto allungare di molto i tempi, con il solito infinito e sterile braccio di ferro guerriglia-Uribe. E contro il governo torna a rincarare la tose anche l’Esercito di liberazione nazionale (Eln) impegnato da anni in un accordo di pace che sembra sempre più improbabile. In questi giorni, infatti, Nicolas ‘Gambino' Rodriguez, leader dell’Eln, ha invocato uno stop alla “guerra fratricida” tra le due guerriglie, in una lettera al capo delle Farc, Alfonso Cano, nel quale ha incitato alla lotta comune contro il medesimo nemico: l’uribismo e dintorni.

a oltre un mese la Somalia è nuovamente precipitata nel baratro della violenza. Intensi combattimenti tra le Corti islamiche e le truppe del governo di transizione somalo hanno provocato in un mese centinaia di vittime e migliaia di sfollati. La crisi è andata aggravandosi da gennaio, quando l'accordo di pace sponsorizzato dalle Nazioni Unite, ha rivelato tutta la sua fragilità. Le truppe etiopiche - circa tremila uomini, intervenuti a sostegno di Mogadiscio sin dal 2006 - hanno lasciato il Paese il 15 gennaio, lasciando campo libero alle milizie islamiste degli al Shabaab ('i giovani'). Intervenute per arginare la conquista di porzioni di territorio sempre maggiori da parte degli integralisti (le Corti si sono fatte vanto di aver messo in fuga i signori della guerra somalia e riportato l'ordine nel Paese imponendo la sharia), le unità etiopiche hanno lasciato un vuoto che è stato subito colmato dagli islamisti, secondo alcuni non solo appoggiati, ma anche armati dall'Eritrea. Per la seconda volta nella sua storia, l'Unione Africana ha chiesto sanzioni per un Paese membro, facendo appello al Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite affinché adotti provvedimenti contro "tutti gli attori esterni del conflitto, specialmente l'Eritrea". Il ministro dell'Informazione eritreo, Ali Abdo, ha negato che il suo Paese fornisca sostegno alle Corti. Nonostante l'embargo al commercio di armi con la Somalia decretato dalla Nazioni Unite, da sempre il Paese è oggetto di un traffico incontrollabile di armi leggere. Le recenti violenze hanno provocato migliaia di sfollati, molti dei quali si erano re-insediati dopo l'accordo di pace di gennaio; sono tornati ad affollare il campo profughi gestito dalle Nazioni Unite a sud-est della capitale, dove quasi mezzo milione di persone sono costrette a sopravvivere tra gli stenti anche a causa dei saccheggi dei miliziani islamici, che il 17 maggio hanno depredato la sede dell'Unicef di Jowhar, a cinquanta chilometri dalla capitale. Cinquantamila bambini già cronicamente malnutriti rischiano la vita per mancanza cibo. A seguito della recente offensiva, le Corti islamiche hanno preso il controllo di gran parte del sud della Somalia e di un terzo della capitale.

PAESE

Stella Spinelli

Enrico Piovesana

I

D

Sri Lanka (fino al 18 maggio) Pakistan talebani Afghanistan Nigeria Iraq R.D.Congo Somalia Sudan India nordest India naxaliti Filippine islamici Colombia Turchia Nord Caucaso Filippine comunisti Kashmir Pakistan baluci Algeria Thailandia del sud Israele-Palestina

TOTALE

MORTI

8.371 1.778 959 941 367 300 285 253 103 89 55 53 52 50 32 23 19 18 16 7

1 3 .7 4 1

* I dati che qui riportiamo sono dati ufficiali, raccolti da agenzie di stampa internazionali o locali. Per cui sono da intendersi sempre per difetto: in molti paesi del mondo non si contano i vivi, figuriamoci i morti. 17


Qualcosa di personale Cuba

Viaggio dalla terra alla luna Di Paco Ignacio Taibo II Testo raccolto da Angelo Miotto

Paco Ignacio Taibo II è uno scrittore nato in una famiglia di scrittori e giornalisti, letterati. Il padre, Paco Ignacio Taibo I fu costretto a lasciare la Spagna per le sue idee, nel periodo buio del franchismo. PeaceReporter pubblica il ricordo del grande scrittore, allora bambino. Un bambino che affronta porti e mari, e lo sradicamento violento della sua famiglia, per arrivare fino a Città del Messico. vevo nove anni e viaggiare dalla Spagna fino al Messico, eravamo nel 1958, era come vedere la fine del mondo, dire addio a tutti i tuoi amici, salutare per sempre la tua scuola, la città dove eri cresciuto. Era per sempre. Era come un viaggio dalla terra alla luna. Ventotto giorni. Addio. Non torneremo mai. Era sconcertante questa rottura assoluta con il passato della mia infanzia; per di più, la famiglia immigrò in maniera massiccia. C'erano zii, nonni, genitori. Tutta la famiglia emigrò. In Messico, in nave. Il punto di partenza fu la distruzione del vecchio focolare. Ai miei occhi di bambino succedevano cose strane: mio padre e mia madre per un pomeriggio intero intenti a rompere piatti vecchi giocando a tirarseli l'un l'altro. Ridevano. Io mi spaventai molto: mi sembrava un atto vandalico. E poi le limitazioni: puoi portarti solo alcuni libri e questo per me era doloroso. E puoi portarti solo un certo numero di giochi e io cercavo di ingannare per portarne di più. Il viaggio fu assolutamente iniziatico. Da Gijon fino alla Galizia, Vigo, poi siamo scesi fino a Lisbona, abbiamo percorso la costa fino al sud e siamo andati a Cadice. Di lì fino alle isole Madera, e poi fino a New York, scendendo da l'Avana fino a Vera Cruz. Erano continui impatti con Paesi e altre lingue, c'erano uomini dalla pelle nera e le cose si chiamavano in maniera diversa. Siamo arrivati a L'Avana nel novembre del 1958. Dormivamo nella nave e le notti della città erano immerse nella guerra civil. Si sentivano le esplo-

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sioni della dinamite e le sparatorie. Una sera mio padre, che era giornalista, venne chiamato dal capitano. Gli disse: “Taibo, vieni qui”. E anche io andai con loro. Nella cabina del capitano c'era una radio e in diretta ascoltammo un combattimento dei ribelli che stavano trasmettendo su onda corta. Ricordo che il capitano diceva: “Che curioso, sta parlando con un accento che non è cubano”. Era la battaglia di Santa Clara e la voce era quella del Che. Quando più avanti negli anni ho messo le date a quel momento tutto coincideva con il secondo o terzo giorno della battaglia. A Cuba scoprii tutto un universo di frutta esotica e poi l'Oceano atlantico. Mi ricordo che tutti soffrivano di nausea sul transatlantico che trasportava prodotti spagnoli per il natale. C'era sidro, champagne, torroni, prosciutti, vino di Madera. Ma tutti erano colpiti dalla nausea. E così quando arrivavo alla sala da pranzo del naviglio c'erano razioni per quattrocento persone e il cameriere mi diceva: “Può mangiare tutto quello che vuole”. C'era il cinema, e il film che proiettavano - avevo nove anni - era Bengali. L'ho visto quattro volte. E poi l'arrivo a Vera Cruz: arrivava la gente in piccole barche per salutare il transatlantico. Un centinaio di barchette che venivano a salutarci perché i legami con gli spagnoli emigrati era molto forte. Ricordo che si sentiva una grande commozione. Così iniziò: un Paese nuovo. Una vita nuova.

Ritratto di Paco Ignacio Taibo ii. Archivio PeaceReporter


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La storia Bamako

Ciabatte riciclate d’Africa Di Mauro Pigozzo La storia di Caleb. L’imprenditore di Bamako che sogna di far camminare la sua gente su ciabatte riciclate. el Mali vivono poco più di dieci milioni di persone. A Bamako, quasi due. È la capitale, il punto di passaggio imprescindibile. Auto, rifiuti. La povertà. Quella vera, delle metropoli: gente che non ha soldi e neppure amici per mangiare. I dati statistici spiegano che si vive con meno di due dollari a testa al giorno. Una cifra che nelle campagne, dove si mangia il prodotto della terra, ha un senso. Ma che diventa un incubo in città, dove ogni cosa che tocchi costa denaro. Il Niger, che abbraccia la capitale e l’abbandona denso del suo inquinamento, scorre indifferente. Nulla lo turba. Né la storia dei colpi di stato, né quella degli investimenti di Gheddafi nell’ottica di creare la grande confederazione degli stati del centro Africa. Ai turisti è concesso di vedere il mercato dell’artigianato, dove sapienti mani cesellano il legno, proiettando in forme stilizzate la loro arte e la loro gioia di vivere. A Bamako, Caleb Diarra, dirigente della Somip Sarl, è a capo di un'azienda specializzata nella produzione di ciabatte. La sua è una traiettoria di vita e professionale borderline, a metà tra il self made man occidentale e il predestinato in salsa africana. Il destino gli ha fatto ereditare, un paio d’anni fa, una società avviata. “È la terza in Mali per produzione di ciabatte, un mercato dove ci superano solo un paio di gruppi libanesi”, spiega. Era direttore della produzione. Il suo titolare, francese, è morto in un sinistro stradale. La madre del defunto gli ha dato la missione di proseguire l’attività e lui ha disegnato un progetto che coinvolge un migliaio di persone tra dipendenti e indotto. Il suo sogno è quello di far camminare il Mali su ciabatte riciclate. Nei suoi magazzini giungono ogni giorno sacchi di ciabatte usate. Quelle abbandonate per strada, nei rifiuti: rotte, da buttare. Lui le paga circa mezzo euro il chilo, poco più o poco meno, a seconda se il polietilene è bianco o nero. Poi pulisce, sminuzza, fonde, aggiunge liquido. Ed infine stampa quelle nuove. Il lavoro non manca. “Ho a busta paga quarantadue persone, alle quali si aggiungono cento, centocinquanta quando si tratta di accelerare sulla produzione”, spiega. “Li pago bene, controllato dal sindacato nazionale dei lavoratori, il «Intm»: dai sessanta euro al mese per i part time ai quasi mille per i dirigenti”.

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embrano contenti: li abbiamo visti di venerdì sera, al cambio di turno della mezzanotte. C’è stato chi è arrivato quaranta minuti in anticipo. Eccoli, in gruppi, ad attendere di poter lavorare. Dentro, in fabbrica, si vedono odori acri e si annusano colori intensi: qui e là, qualche cartello che segnala le norme di sicurezza. In Europa c’è chi griderebbe allo scandalo, a vedere la sporcizia dei luoghi di lavoro e la scarsa protezione per i polmoni di chi spruzza lo spray. Il business delle ciabatte nella capitale del Mali è una sfida dai ritmi folli.

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“Ogni mese, bisogna cambiare due o tre modelli”, dice Caleb, indicando la parete che sfoggia nel suo ufficio. “La gente cerca sempre la novità”. Anche qui, il mercato è ambito. Ma, nel gioco al ribasso, i cinesi perdono: “La qualità delle loro suole, infatti, è scarsa: durante le piogge, la gente scivola”. E Caleb lo sa. La sua sfida è quella di inventarsi nuovi modelli. Non ha paura ad imitare Dolce e Gabbana. O di sponsorizzare la sua fede: è evangelico. “Una volta, ho visto un paio di ciabatte ai piedi di una donna”, racconta il titolare. “Gliele ho comperate a settemila franchi CFA (dieci euro, ndr) quello che le aveva pagate. Poi le ho copiate. E ora le vendo ad un decimo di quel prezzo”. È questa la sua legge di marketing da strada, dove si vince anche firmando l’ultimo modello coi nomi delle attrici di soap opera di successo. a la novità del momento è la ciabatta con il volto di Barack Obama; un successo senza precedenti. “Migliaia di paia vendute”, si vanta. “Tanto che adesso è in produzione anche la serie femminile”. Il presidente degli Stati Uniti, a queste latitudini, è un eroe nazionale. Ironia della politica, l’unico a contrastarlo in termini di popolarità su adesivi, manifesti, magliette e gadget è Ernesto Che Guevara. E così Barack permette all’azienda delle ciabatte riciclate di sconfiggere i libanesi; d’altro canto, la politica spesso si fa coi piedi. E in questo periodo la Somip sta ricevendo molte commissioni da partiti politici che regalano le ciabatte col proprio logo inciso durante la campagna elettorale. “Speriamo di chiudere buoni affari”, ci strizza l’occhio lui, invitandoci ad entrare nel suo villino, costruito in una zona residenziale di Bamako. Ha una televisione enorme che copre tutta la parete, la parabola e un sorriso matto sul volto. “Quindici giorni. Quindici giorni ci ho messo per guadagnare i soldi per questa casa. Era un modello di ciabatte vincenti. Tutti le volevano”. Dopo cena, salutiamo Caleb. Lui si ferma un attimo nel piazzale davanti alla propria azienda: ci mostra la zona riservata alle capre, le sue capre. E ci indica il magazzino di sacchetti di acqua organizzato dal suo direttore della produzione: li vende a cinquanta franchi maliani (meno di un centesimo di euro), ghiacciati quando il sole batte forte sulle strade. Piccoli rigoli di economia reale in una nazione dove solo una persona su cinque ha ricevuto un minimo di istruzione. E dove si muore di Aids e Tbc. Dati che rendono il Mali il quarto paese più povero al mondo. Ma a sentire Caleb sembra che questi numeri non esistano. Lui pensa già alle prossime ciabatte e alla commercializzazione di quelle dedicate a Michelle Obama. Yes we can.

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Bamako, operai del turno notturno alla Somip Mali 2009, Walesa Porcellato per PeaceReporter


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Italia

Omertà di Stato Di Gildo Violante In Italia, in Calabria, denunciare 'ndrangheta e corruzione dei pubblici funzionari equivale a una condanna a morte; almeno all'isolamento e alla morte civile. osì dimostrerebbe il caso del testimone di giustizia Pino Masciari, calabrese di Vibo che nel 1994 ha denunciato il pizzo doppio che doveva pagare sugli appalti della sua ditta edile (settima di Calabria, con cinquantotto dipendenti). Il tre percento alle 'ndrine dell'area dei lavori (nella prima denuncia, la famiglia Vallelunga di Serra San Bruno (Vv) e un più alto sei percento di tangente ai funzionari perché non bloccassero con ricorsi continui l'iter dei finanziamenti. Dal 1997 Guseppe Masciari è entrato in un programma di protezione, con moglie che ha dovuto abbandonare il suo studio da dentista e due figli. Spostati in una località che dovrebbe essere segreta, ma, a sentire l'imprenditore, destinati a una esistenza di “sequestrati dallo Stato”, che non garantisce adeguata sicurezza a chi stravolge la propria vita per denunciare il sistema che impedisce lo sviluppo delle regioni ad alta densità mafiosa. Dopo taglieggiamenti ripetuti dai mafiosi dei clan 'Viperari' delle Serre, l'episodio decisivo del ferimento di uno dei suoi otto fratelli, porta Pino dai magistrati di Catanzaro Vibo, Crotone, a ripercorrere la trafila criminale che porta a spolpare un imprenditore in Calabria; iniziano sei processi, contro quarantadue accusati, ricostruiti nel sito www.pinomasciari.org. Al momento le uniche condanne sono arrivate per Masciari (e famiglia), che da quando è entrato nel ''programma di protezione'', si è reso conto delle falle del sistema. Un sistema che con una legge del 1991 prevedeva solo l'eventualità che lo Stato assista i mafiosi che si ''danno pentiti''. Nel '97 quindi per lo Stato esistono collaboratori di giustizia (gergo burocratico per pentito) e non 'testimoni di giustizia', come ora prevede la legge 45 del 2001 che calibra la protezione sulle esigenze di chi viveva nella legalità prima di denunciare. “Stanno per fare di me un nuovo Domenico Noviello”, confidava Pino al momento di andare in stampa, alludendo al caso dell'imprenditore immobiliare di CastelVolturno che nel 2001 decise di denunciare le estorsioni del clan dei Casalesi, facendone arrestare cinque, e che stava per essere ascoltato dalla Commissione parlamentare Antimafia, quando venne ucciso con venti colpi di pistola nella cittadina casertana il 15 maggio 2008. Noviello chiese invano una scorta, come testimone di giustizia. Non la ottenne mai. La denuncia di Masciari ripete (per ora) questo precedente tragico: a tutt'oggi l'ex imprenditore che denunciò le 'ndrine non dispone di una scorta fissa sotto casa; degli agenti lo seguono solo in caso di spostamenti, come quando va a seguire le udienze dei processi in Calabria. Per il resto, il suo programma di protezione presenta falle continue: i figli vengono iscritti, nelle cittadine dove risiedono in soggiorno forzato (già cambiato tre volte) a scuola con nome e cognome reali. A Pino non è stata fornita una nuova identità, come invece è stato fatto per importanti pentiti di mafia; la sua corrispondenza non viene sorvegliata, sicché capita che delle multe comminate alla sua nuova auto vengano recapitate al vecchio indirizzo calabrese, permettendo a chi volesse spiare la sua corrispondenza di intuire dove si trova la sua nuova residenza, leggendo il nome del comune dove sono state comminate le multe; in molte udienze dei processi le vetture di scorta avevano

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targhe della provincia di provenienza. L'insieme di questi elementi può sembrare non essenziale, ma solo a chi non conosce la realtà calabrese: la rete di omertà costruita intorno alle 'ndrine si basa sul silenzio. Silenzio che finora ha prodotto solo quattro pentiti di 'ndrangheta (oltre duecento sono quelli di mafia) o che in soli due casi i testimoni di omicidio abbiano denunciato i killer (in un caso i volontari Pds a Locri nell'ottobre 2005, per le primarie dell'Ulivo, quando venne ucciso il vicepresidente calabrese Francesco Fortugno, e i migranti africani che videro l'agguato a due braccianti ivoriani nel dicembre 2008 a Rosarno, nella Piana di Gioja Tauro). Se qualcuno denuncia, i clan lo devono stroncare; e lasciare in giro indizi utili a chi cerca informazioni da passare ai killer è come firmare una condanna al patibolo mafioso. Masciari dal novembre 2004 si è rivolto alla giustizia per ottenere una scorta fissa: una commissione al ministero degli Interni gli notificò nell'ottobre '04 che la sua “adesione al programma di protezione era decaduta”. Il suo ricorso al Tar è stato accolto il 23 gennaio scorso. Per legge il tribunale amministrativo dovrebbe rispondere in sei mesi. Qui, ai giudici, ce ne sono voluti cinquanta per stabilire che per processi di mafia il diritto alla incolumità è un “interesse dal quale non si decade”. I burocrati invece, sono stati pervicaci nel riconoscere a Pino e famiglia solo un riconoscimento economico. Destra o sinistra, pari sono: sia il sottosegretario Minniti dell'esecutivo Prodi, sia il suo omologo Mantovano con il secondo (2004) e il terzo governo Berlusconi (2009) gli hanno proposto un risarcimento per la perdita delle aziende da 1,3 e 3,5 milioni di euro. Perché Pino è anche stato considerato fallito; nel '96, dopo aver chiuso i battenti per mafia, è stata avviata una proceduta sulle sue imprese edili. A fronte di commesse pubbliche per venticinque miliardi di lire vennero fatte fallire per centotrentaquattro milioni di debiti. a la vita dei familiari per Pino è più importante delle aziende. Il 12 maggio ha provato l'estrema ratio dello sciopero della fame per farsi sentire dal Presidente della repubblica e dal ministro degli Interni; il 13 Napolitano ha sperato venisse applicata la sentenza Tar che gli riconosce diritto alla protezione; il 14 il sottosegretario Mantovano gli ha ancora negato la scorta. Ora i suoi amici dell'associazione 'Libera' vogliono costruire una scorta di solidarietà attorno alla famiglia Masciari, “perché si trasferisca a Torino”, sede di 'Libera, a vivere al riparo della protezione accordata dai semplici cittadini che si sono proposti come 'accompagnatori di giustizia'. Una scorta laica, l'ennesima invenzione della società civile per supplire alle mancanze dello Stato; per evitare l'ennesimo martire del quale questa nazione farebbe a meno.

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In alto: Pino Masciari con suo figlio. In basso: Consegna della cittadinanza onoraria torinese a Pino, con il sindaco Chiamparino e il presidente del Consiglio Comunale. Foto di Marco Donatiello/DP Studio


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Migranti

La via della diaspora eritrea: Egitto -Israele Di Gabriele del Grande ROMA, 5 maggio 2009 – Asmara, Cairo, Tripoli, Asmara. Padre Austin sfoglia tra le mani una ventina di buste bianche. Controlla le intestazioni scritte a penna. Sono tutte senza francobolli. Sono le lettere dei prigionieri eritrei di Burg el Arab. iamo in Egitto. La parrocchia di Saint Yousuf, nella benestante isola sul Nilo di Zamalek, in pieno centro al Cairo, è un punto di riferimento per i circa 200 eritrei che vivono nella zona. Il giorno prima una delegazione della parrocchia ha visitato il carcere di Burg el Arab, nel nord, vicino Alessandria. Hanno potuto parlare con quindici detenuti, che gli hanno consegnato alcune lettere per i familiari. Dietro le sbarre ci sono centosettanta eritrei. E non soltanto a Burg el Arab. Le carceri di mezzo Egitto si sono riempite negli ultimi due anni di profughi eritrei e sudanesi, arrestati nella penisola del Sinai: Qanater, al Cairo, le stazioni di polizia di el-Arish e Rafah, vicino alla striscia di Gaza, e al sud le carceri di Hurghada, Shallal, e Aswan. È la nuova rotta della diaspora eritrea e sudanese. La meta finale è Israele. In Egitto si entra dal Sudan, via terra, oppure in aereo, atterrando al Cairo con un visto turistico. Da lì si viene portati a Isma’iliyah, nel nord, nascosti dentro camion, per poi essere smistati verso el-Arish e Rafah – città che grazie alla vicinanza con la striscia di Gaza vivono di contrabbando da anni - dove apposite guide si occupano del trasporto, verso la frontiera israeliana nel deserto del Sinai. Spesso le guide li abbandonano a se stessi lungo la barriera di filo spinato al confine. Il pericolo maggiore è rappresentato dalla polizia di frontiera, che in questi casi ha l’ordine di sparare a vista. Nel 2008 Amnesty International ha denunciato l’uccisione di venticinque profughi. Molte delle vittime erano cittadini eritrei. Come i due giovani feriti a morte il 17 settembre del 2007: Isequ Meles, di ventiquattro anni e Yemane Eyasu, di trenta. Entrambi avevano la carta blu dell’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Acnur), che gli aveva riconosciuto l’asilo politico.

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un anno e mezzo di distanza dall’omicidio, incontro due dei loro amici. Si chiamano M. e I. e mi chiedono di parlare sotto anonimato. Ceniamo insieme in un ristorante libanese di Mohandesin, al Cairo. I. è stato arrestato nel maggio del 2008. Si trovava a Isma’iliyah, era diretto in Israele. Lo presero nel più stupido dei modi. Mentre stava passeggiando, da solo, per strada. Li tenevano in celle di otto metri per cinque, in sessanta persone. Per terra. Pigiati uno sull’altro. Per tutti e sessanta c’era a disposizione un solo bagno. Stavano rinchiusi tutto il giorno, senza poter vedere nemmeno la luce del sole. C’erano eritrei, sudanesi, ma anche ivoriani, nigeriani e camerunesi, perché la rotta ormai è praticata anche dai costieri. La maggior parte dei detenuti erano stati arrestati mentre attraversavano il Sinai. C’erano anche alcuni eritrei che venivano direttamente dalla Libia. Alla morte in mare e alle retate della polizia di Gheddafi avevano preferito lo Stato ebraico. Da mangiare gli davano pane, formaggio e tahina, una salsa di sesamo. I. ricorda l’odore pungente di

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quei giorni. Molti soffrivano di dissenteria. Altri avevano brutte dermatiti e scabbia. E poi ricorda le umiliazioni, gli insulti e le violenze gratuite della polizia, come quella volta quando furono picchiati dopo l’inutile sciopero della fame di due giorni. I. venne rilasciato dopo ventiquattro giorni di carcere. Lo salvò la sua carta blu dell’Acnur. Gli altri invece furono tutti rimpatriati. all’11 al 20 giugno 2008 furono rimpatriati almeno 810 cittadini eritrei. Mentre dal Cairo Amnesty International lanciava grida d’allarme sulla loro sorte, a Asmara la televisione di stato Eri Tv mostrava le immagini dei rimpatriati salutandone calorosamente il ritorno. Il portavoce del governo annunciò che tutti sarebbero ritornati presto dalle loro famiglie, e che addirittura avrebbero ricevuto una compensazione di cinquecento nafa, circa cinquanta dollari. Ma non è andata così. Lo sanno bene i familiari dei rimpatriati che vivono qui al Cairo. Sono in contatto permanente con i parenti in patria. Soltanto le donne con bambini sono state rilasciate. Gli altri sono finiti dritti nei campi di addestramento militare, oppure in prigione, come nel caso di C. C. era compagno di cella di I. nel carcere di Isma’iliyah. E faceva parte del gruppo di ottocento eritrei rimpatriati nel giugno del 2008 dall’Egitto. È tornato a farsi sentire nel gennaio del 2009, sei mesi dopo. Aveva con sé il numero di cellulare di M., al Cairo, e l’ha contattato da Khartoum, in Sudan, dove adesso vive dopo essere evaso con altri tre prigionieri politici dal carcere di Weea, vicino Gelaelo. Il carcere di Weea ha una triste fame in Eritrea. Si trova in una depressione, una delle zone più calde del paese. Tra le varie torture, i prigionieri sono spesso esposti al sole durante le ore più calde del giorno, con temperature che raggiungono i cinquanta gradi centigradi. M. conosce bene il carcere di Weea. C’era anche lui tra le centinaia di studenti universitari arrestati nell’agosto del 2001 dopo le manifestazioni di protesta contro la svolta autoritaria del presidente Issaias, culminate con l’arresto di undici delle quindici personalità principali del governo e dei partiti, nel settembre 2001, la cacciata dell’ambasciatore italiano e la messa al bando della stampa indipendente. Due degli studenti morirono sotto il sole. Non tutti i rimpatriati però sono stati portati a Weea. I disertori sono stati riportati nelle unità dell’esercito, e stanno probabilmente scontando una pena nelle carceri militari. Chi invece non ha mai iniziato il servizio di leva, è stato portato a Klima, vicino Aseb, in un campo di addestramento militare. Altri invece mancano all’appello, come decine di prigionieri politici scomparsi negli ultimi dieci anni in Eritrea.

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In alto e in basso: Nei campi profughi di Khartoum. Sudan 2009, archivio Emergency


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Rubriche

A teatro di Silvia Del Pozzo

Festival, ma con impegno In tivù di Sergio Lotti

Resta ancora una domanda Altro che complotto, i nemici del Cavaliere non hanno nulla da insegnare a Veronica Lario. Anzi, se il cosiddetto schieramento a lui avverso volesse fare un’opposizione davvero efficace, è proprio da lei che dovrebbe andare a lezione. Con un paio di brevi dichiarazioni riprese dalle agenzie, infatti, senza comparire neppure un attimo in Tv, ma anzi richiudendosi subito dopo in un dignitoso riserbo, ha costretto il mediatico consorte a irrompere nel salotto di Bruno Vespa per dare la sua versione dei fatti, senza ovviamente essere disturbato da inutili domande che avrebbero potuto fargli perdere il filo del monologo e ingenerare confusione nella mente dei telespettatori. Tanto più che si tratta di vicende squisitamente private: non si vorrà mica ficcare il naso nel casting per le candidature alle elezioni europee? Forse però qualche elementare domanda avrebbe aiutato il premier ad apparire più convincente, dal momento che i fatti apparivano fin dall’inizio diversi. Qualche sera dopo, infatti, ad Annozero qualche domanda se la sono posta ed è risultato strano che il premier avesse deciso solo all’ultimo momento di concedersi un brindisi serale a Casoria per il diciottesimo compleanno di Noemi Letizia, perché la bonifica, cioè il controllo del locale, era già iniziata al mattino, forse per preveggenza dei servizi di sicurezza. Ed è risultato anche che il padre di Noemi, messo comunale, non solo non è mai stato l’autista di Craxi, ma è sconosciuto persino negli ambienti del Pdl. Per quale motivo allora il premier avrebbe dovuto precipitarsi a Casoria per discutere con lui autorevoli candidature? Nel frattempo Noemi aveva già dichiarato che papi Silvio, come lo chiama, l’ha praticamente allevata. Che c’è di strano allora se corre a trovarlo quando le dice che ha qualche minuto libero, per fare una cantatina insieme e tirargli su il morale, o se per i compleanni le regala “collanine e diamantini”? Del resto sarà proprio lui, dice, a pensare anche al suo avvenire, che lei vede nello spettacolo o, male che vada, alla camera dei deputati, deciderà papi. A forza di far domande, insomma, qualche risposta arriva. Ma nessuno ha ancora chiesto a Sandro Bondi se gli va bene che, nella divisione dei beni fra i coniugi Berlusconi, lui sia affidato a Veronica con sporadiche visite concordate di Silvio, come Fiorello ha ipotizzato nel suo show. 26

Giugno apre la stagione dei festival, animata da molta danza, musica di tutti i tipi e spettacoli classici, dai tragici greci a Shakespeare. L’impegno sociale, la politica, le contraddizioni e i disagi della quotidianità, sono temi poco presenti nei cartelloni estivi. Ma non del tutto assenti. In particolare a Torino il “Festival delle colline torinesi”, e a Mantova la rassegna “Teatro Arlecchino d’oro”, ospitano a questo proposito alcuni spettacoli interessanti. La XIV edizione del festival torinese ( 5-28/6) si propone proprio di leggere, da varie ottiche, il malessere del tempo in cui viviamo, simbolicamente evocato da Michelangelo Pistoletto nell’opera “Gabbia specchio”. E “Trittico delle gabbie “ è proprio il titolo che riunisce tre pièce di Stefano Massini (anche regista) ambientate nel parlatorio di un carcere, spiate dagli spettatori attraverso le sbarre di una gabbia. Una trilogia che

A Mantova invece, il 19 giugno, aprono il festival “A Zvornik ho lasciato il mio cuore” e “Hijab”: il primo, scritto dall’albanese Abdulah Sidran, racconta la guerra in Bosnia, con le pulizie etniche , i pogrom dei musulmani, le violenze perpetrate dalle bande criminali serbe nelle città e nei villaggi lungo la Drina; “Hijab”, scritto e diretto da Letizia Quintavalla, registra le voci di donne musulmane e italiane che si parlano, si confrontano, si interrogano a proposito dell’uso del velo islamico (hijab, appunto). “Festival delle colline torinesi”, Torino (sedi varie) dal 5 al 28 giugno, tel. 011 19740291. “Teatro Arlecchino d’oro”, Mantova dal 19 al 18 giugno, tel. 0376 221259

Musica di Claudio Agostoni

AA. VV. “Playing for Change – Songs around the world” Hear music affronta argomenti come il terrorismo (nel dialogo tra una giovane brigatista e la madre borghese, sgargiante nei suoi abiti e gioielli), l’eutanasia (ancora una figlia, violinista, e un padre professore, incarcerato per una colpa che resta sempre nell’ombra) e la corruzione politica (nella “versione dei fatti” che ne dà una vecchia carcerata). Di altri internati, i malati di mente, parla Danio Manfredini in “Il sacro segno dei mostri”, un racconto fatto di inquietudini e poesia, di dolore ed emozioni, il vissuto di persone fragili ed eccessive - tutto sommato non molto diverse da noi - che Manfredini ha conosciuto bene negli anni in cui insegnava disegno in una casa di cura per malati psichici di Milano. E ancora, sempre a Torino, “Stranieri” di Antonio Tarantino, ritratto impietoso di un uomo solo e malato che, chiuso nel suo appartamento, sente bussare in continuazione alla porta da fantasmi che lui identifica in quei pericolosi immigrati che vogliono usurpare il suo mondo. Altro spettacolo da segnalare “Salonicco 43”, un racconto degli ebrei di quella “Gerusalemme dei Balcani” (erano 50 mila su 100 mila abitanti) molti dei quali sottratti alla furia nazista (più di 500) dal console Guelfo Zamboni, uno Schindler italiano.

A partire dall’italica ‘Pregherò’, di celentaniana memoria, quante cover conoscete di ‘Stand by me’? E quante della marleyana ‘One Love’ o di ‘A change is gonna come’, la canzone con cui Sam Cooke, nei primi anni Sessanta, annunciava al mondo che qualcosa stava finalmente cambiando?


Vauro

Eppure il progetto Playing For Change (CD + DVD) è riuscito a dare una freschezza sorprendente a dieci standard che hanno fatto la storia del pop. Per farlo il produttore/tecnico del suono Mark Johnson, uno con un curriculum che include anche dei Grammy, ha seguito un percorso lunghissimo. In pratica, ha fatto il giro del mondo, scoprendo numerosi musicisti sconosciuti e chiedendo loro di suonare alcune canzoni partendo da un ritmo di base identico, per poi mixare il tutto in una fusione di suoni e ritmi davvero incredibili. È stato ovunque: Cile, Francia, Congo, India, Israele, Cuba… L’ambizioso percorso ha condotto il team di Mark Johnson dal Sud Africa del dopo-apartheid alle antiche strade del Medio Oriente, fino alla remota bellezza dell’Himalaya e oltre. Grazie a innovative attrezzature digitali portatili, la squadra di Playing for Change ha filmato e registrato più di 100 musicisti, in larga parte all’aperto: piazze, parchi, strade (spesso sterrate) e villaggi. Ogni performance ripresa creava un nuovo mix in cui in sostanza ogni musicista interagiva con gli altri, a dispetto della distanza di centinaia o migliaia di chilometri che separava gli uni dagli altri. Negli States e in Canada lo speciale CD (10 tracce) +DVD (sette tracce, cinque delle quali sono versioni live, in video, di altrettante canzoni) è distribuito nei centri Starbucks. Dalle nostre parti più che nei negozi di dischi è reperibile on line. La mission di Johnson era di ispirare pace attraverso la musica e di mettere in contatto musicisti di tutto il mondo, inclusi quanti vivono in realtà conflittuali. Missione compiuta? Come dice un vecchio saggio “the answer is blowing in the wind”.

In rete di Arturo Di Corinto

Banda larga e digital divide L'Italia è tra gli ultimi paesi in Europa per diffusione di Internet. Il Governo e gli oligopoli delle telecomunicazioni pensano di affrontare il problema posando nuovi cavi e incentivando la diffusione della banda larga. Ma non basta. I motivi sono molteplici. Il primo è che nonostante le intenzioni dichiarate, i grandi player non hanno intenzione di portare la rete veloce dove non è profittevole, come in certe zone montane dove non hanno certezza dei ritorni in termini di numeri e abbonamenti; il secondo è che i grandi player, pur di bloccare

potenziali competitor, fanno blocco a livello europeo e italiano per impedire la diffusione di servizi concorrenziali ai loro, come nel caso della telefonia via Internet (Skype), che abbatterebbe i costi per gli utenti finali e ridurrebbe i loro introiti. Una situazione che fino a pochi giorni fa era nota solo agli esperti, ma che da oggi non è più così. Grazie a Wikileaks, un sito che, come dice il nome, si occupa di far “trapelare” e quindi rendere pubbliche tutte le iniziative top secret di Stati e governi. Wikileaks ha diffuso in rete un documento - stilato dal consulente del governo Francesco Caio - che tracciando le linee di intervento per lo sviluppo della rete di telefonia fissa e mobile facendo leva sulla diffusione della banda larga, denuncia il pessimo stato della rete in Italia e l'esclusione dall'internet veloce del dodici per cento degli italiani, ma anche il bluff di tanta ingannevole pubblicità che vorrebbe gli operatori offrire Adsl velocissime, che però si “impallano” appena provi a scaricare le foto di matrimonio del tuo migliore amico. Sicuramente, come suggerisce il Rapporto Caio, l'implementazione di reti di nuova generazione, l'ammodernamento della rete esistente, l'uso di tecnologie come il Wi-Max, possono contribuire a risolvere il problema ma, in assenza di una governance efficace della rete, l'Italia sarà sempre agli ultimi posti. In particolare perché Internet, la piattaforma che oggi abilita la fruizione di servizi digitali, è un'infrastruttura a rischio di virus, spamming, interruzioni fisiche, sovraccarico funzionale. Per intervenire su questa fragilità che non riguarda solo il nostro paese, la Commissione Europea ha proposto il famigerato pacchetto Telecom, che

però è stato bocciato dal Parlamento perché rischiava di creare nuove povertà digitali e di favorire i soliti noti, senza dare alcuna garanzia di sviluppo, né di concorrenza né di inclusione sociale. Quindi, è necessario investire sulla diffusione della banda larga, ma non basterebbe comunque a ridurre il digital divide nel Belpaese perché questo divario è di tipo culturale, generazionale, cognitivo, di genere. E da questo punto di vista non si può fare a meno di pensare al dato macroscopico che ogni linguista ha in mente. Cioè il fatto che in Italia c'è qualcosa oltre il trentasei percento di analfabetismo funzionale (la media UE è sotto il quindici): persone che a fatica riescono a leggere i titoli dei giornali e a scrivere il proprio nome cognome e indirizzo e che alle Poste hanno bisogno dell'aiuto degli impiegati per mandare una raccomandata. Quindi è vero che i problemi sono infrastrutturali, ma il quadro regolatorio e le politiche attive di alfabetizzazione alla rete sono assai importanti. Ora, lasciamo perdere il fatto che certe fortune politiche sarebbero inconcepibili senza questo dato. È comunque evidente che queste persone difficilmente si metteranno in casa un attrezzo dotato di tastiera QWERTY, per accedere a un mondo dove le cose si cercano scrivendo delle parole. Insomma, non basta parlare del sottosviluppo di Internet in Italia, senza parlare dell'analfabetismo funzionale degli italiani. E su questo, a parte la riduzione dell'offerta formativa universitaria, del numero degli insegnanti nella scuola primaria e l'obbligo di mettere il grembiule, non c'è uno straccio di proposta. 27


Al cinema di Nicola Falcinella

Linha de passe Una donna, non più giovanissima, con tre figli ormai grandi, uno ragazzino e un quinto in arrivo. Siamo nella San Paolo del Brasile, affollatissima, caotica e piena di contrasti, portata sullo schermo, in “Linha de passe – Linea di passaggio”, da Walter Salles con Daniela Thomas, sua collaboratrice in alcuni dei suoi progetti più riusciti (come nel poco conosciuto Midnight, uno dei ritratti di favela più credibili). Un anno fa al Festival di Cannes vinse piuttosto a sorpresa la Palma d’oro di miglior attrice per l’esordiente Sandra Corveloni e ora è nelle sale italiane. Per la cronaca l’interprete non poté ritirare il premio perché aveva appena perso il figlio che portava in grembo durante le riprese. Del resto anche il suo personaggio non se la passava bene. Povera e con cinque figli avuti da uomini diversi, era il perno su cui ruota un film che segue separatamente i componenti della famiglia, un mosaico anziché un quadretto familiare. Che non ci sia nulla da incorniciare lo si capisce subito. Reginaldo, il più piccolo, è nero e cerca suo padre, con il sogno di fare il conducente di autobus. Dario, diciotto anni, è un bravo calciatore ma le squadre lo considerano ormai troppo grande e non gli danno spazio, anche perché ormai bisogna essere raccomandati anche per entrare in campo. Dinho fa il benzinaio ma dedica la sua vita al gruppo evangelico di cui è membro. Il

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più grande, Dénis, ha già un figlio, fa il pony express ma è anche tentato dalla strada facile della malavita. Una situazione di squallore e miseria che Salles (“Central do Brasil”, “I diari della motocicletta”), figlio di un banchiere ma da sempre attento ai diseredati, affronta con tatto e partecipazione, senza calcare la mano, denunciando con il semplice gesto del mostrare. I ragazzi sono solo manovalanza, carne da macello in mano a chi li vuole sfruttare (per lo sport, la criminalità o il fanatismo), ma i loro sogni e le loro capacità a volte li riscattano. Il film è di umore scuro ma ha un finale positivo: la “linea” del titolo sta davanti a tutti e cinque i protagonisti e per qualcuno indica un passaggio a qualcosa di meglio.


In libreria di Giorgio Gabbi

aggiustare i processi a loro carico, guardare le spalle dei politici collusi. Ma, più numerosa di tutte, c’è la massa degli omertosi, di quelli che “si fanno i fatti propri”, pagano il pizzo ma guardano dall’altra parte. Vittime e complici. Ha una chance la gente onesta di vedere il giorno in cui onestà e legalità saranno la regola, in Italia? Il libro della Mascali finisce con una tenue nota di speranza: occorre cambiare la testa di moltissima gente, ma per riuscire, per essere davvero convincenti, bisogna unire i propri sforzi e lavorare all’impresa tutti i giorni. Convegni, lapidi ai caduti, commemorazioni non bastano. La mafia vive beata fra gli altisonanti proclami antimafia. E don Luigi Ciotti, instancabile animatore di Libera, l’organizzazione che ha fatto della lotta alla mafia un impegno quotidiano, indica nella prefazione il lavoro da fare. Altrimenti “quella violenza che rende orfani e vedovi…rischia di uccidere l’idea e la voglia del futuro.” Chiare lettere editore srl. 2009, 314 pagine, 14,60 euro.

In libreria

Lotta civile- Contro le mafie e l’illegalità di Antonella Mascali Dodici lunghe interviste a persone che hanno avuto il padre, la madre, il coniuge assassinati su ordine della mafia. Storie personalissime, viaggi nelle memorie più strazianti, percorsi di dolore e di rabbia. Chi legge non può fare a meno di restarne coinvolto emotivamente e di provare un senso di nausea per questa “guerra asimmetrica” che la mafia, anzi “le mafie”, combattono ogni giorno, oggi non meno che al tempo delle stragi degli anni Ottanta, contro la gente onesta di questa Italia. Oscena come lo sono sempre le guerre, la guerra della mafia ha quel tanto di oscenità in più che hanno le guerre civili. Dove l’esito dello scontro è deciso non solo e non tanto da chi impugna le armi, quanto dal comportamento delle masse coinvolte anche loro malgrado nella lotta. Così, nei racconti dei parenti, rivivono più che le facce degli assassini stampate dai giornali, i comportamenti viscidi delle persone considerate “per bene” anche se spesso indagate e processate per collusione con le mafie, e che continuano a fare politica, finanza e impresa con soldi sporchi. Ci sono giornalisti ed editori che stendono cortine di nebbia attorno agli affaristi e ai politici collusi, spesso diffamando i parenti delle vittime di mafia. Ci sono i “grandi cervelli” che ripuliscono i proventi del traffico di droga e delle estorsioni. Ci sono anche quelli che in guerra sono chiamati “traditori”, ma che le cronache correnti preferiscono chiamare “talpe” infiltrate negli organismi dello stato per passare informazioni ai mafiosi,

di Angelo Miotto

Carte false, l’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hovratin, 15 anni senza verità A cura di Roberto Scardova “Stia attenta, signorina. Da noi, chi ha parlato del trasporto di armi, chi ha detto di aver visto qualcosa, poi è scomparso. In un modo o nell’altro, è morto”. Una profezia, quella del sultano di Bosaso, che si avvererà il 20 marzo del 1994, pochi giorni dopo l'intervista e i sopralluoghi di Ilaria Alpi e dell'operatore Miran Hrovatin sulla strada maledetta, la Garowe-Bosaso, dove furono sperperati i miliardi del Fondo per le cooperatrive italiane, in una storia di tangenti, rifiuti tossici, servizi segreti e alleanze

con le fazioni somale in guerra. Il libro uscito per i tipi di Edizione ambiente, nuova collana 'inchieste' di VerdeNero, è scritto a più mani. Le prime cento pagine sono curate da Roberto Scardova, collega di Ilaria Alpi al Tg3. Stile secco, avvincente, ricco di particolari: se non fosse la testimonianza di un dramma e dei tanti punti rimasti fino a oggi oscuri, sarebbe la trama di un avvincente giallo. Senza un finale: depistaggi, inerzie, insabbiamenti non hanno ancora permesso – a quindici anni di distanza – di arrivare alla verità giuridica. Quella storica è ormai ampiamente dimostrata, anche grazie al lavoro degli altri autori: Francesco Cavalli, Alessandro Rocca, Luciano Scalettari raccontano dei viaggi recenti lungo quella strada che, come annotava Ilaria Alpi nei suoi taccuini, ”inizia e finisce nel nulla”. Perlustrazioni a proprie spese, con un magnetometro fra le mani per cercare risonanze dei fusti tossici sotterrati sotto la crosta di asfalto, con effetti terrificanti per la popoalzione locale che da allora ha iniziato a soffrire di strane malattie. Mariangela Gritta Grainer, infaticabile nella sua opera di indagatrice politica ai tempi di una Commissione parlamentare sfregiata dalla presidenza dell'avvocato Taormina ripercorre i tanti passaggi misteriosi e mistificati. Infine la voce della famiglia; Luciana e Giorgio Alpi raccontano di rabbia, stupore e testarda tenacia nella ricerca di una verità nascosta. Oggi esiste un Premio giornalistico intitolato a Ilaria Alpi, esistono inchieste e nuovo materiale che ha permesso a un giudice per le indagini preliminari di affidare a un nuovo pm la riapertura del caso. Mancano ancora troppi pezzi, a partire da una parte dei block notes dell'inviata fatti sparire nel trasbordo delle salme, così come intere cassette registrate da Hrovatin prima della fredda esecuzione. Due fori, proiettili da arma corta sparati a contatto con la nuca della giornalista e del suo operatore. Per un pubblico che non si stanca – anche quindici anni dopo – di esigere verità. Edizioni Ambiente, 2009, 192 pagine, 14 euro. 29


Per saperne di più CINA LIBRI LESLIE T. CHANG, «Factory Girls», Spiegel & Grau, Usa 2008 Leslie T. Chang, ex-corrispondente dalla Cina del Wall Street Journal, con questo libro delinea un ritratto indimenticabile delle lavoratrici migranti nella Cina di oggi, donne esuli dalle campagne che stentano ad adattarsi alla frenesia della vita nelle città della “fabbrica del mondo”. In una realtà in cui tutto è precario, le protagoniste di questa formidabile inchiesta agiscono spinte dall’imperativo di migliorare se stesse, rispondendo ad un impellente bisogno di innalzare la propria condizione sociale. PHILIP PAN, «Out of Mao’s Shadow», Simon & Schuster, Usa 2008 Philip Pan, ex-corrispondente da Pechino del Washington Post, con questo libro ricostruisce quella che egli stesso definisce “la lotta per l’anima di una nuova Cina”. Sulle pagine di questo volume prendono vita le vicende di persone più o meno note che a modo loro hanno partecipato alla costruzione dello spirito di questo immenso Paese, spesso trovandosi ad affrontare conseguenze gravissime per le proprie azioni. Si va dal regista indipendente che ha girato un documentario su aspetti dimenticati della Rivoluzione Culturale al medico che per primo ha avuto il coraggio di denunciare le menzogne del governo cinese sulla Sars, dai redattori del giornale che hanno sfidato la censura all’attivista cieco che si oppone alla brutalità degli aborti forzati. Tutti ritratti indimenticabili. IVAN FRANCESCHINI, Cronache delle Fornaci Cinesi, Cafoscarina, Italia 2009 Ivan Franceschini con questo volume si propone di ricostruire uno dei più gravi scandali del lavoro successi in Cina negli ultimi anni attraverso la traduzione di materiali originali pubblicati sui media cinesi. Nell’estate del 2007 alcuni giornalisti cinesi hanno portato alla luce un imponente traffico di adolescenti e disabili destinati alle fornaci di mattoni in nero sparse nelle campagne della provincia settentrionale dello Shanxi e in poco tempo questo ha scatenato una reazione senza precedenti dell’opinione pubblica cinese. Oltre a far luce su alcuni problemi del lavoro in Cina, questo libro illustra il ruolo dei media nella Cina contemporanea.

FILM WANG XIAOSHUAI, «Le biciclette di Pechino», Francia Corea Cina 2001 Un giovane migrante arriva a Pechino e viene assunto come fattorino in una ditta di spedizioni. Per lavoro gli viene fornita una bicicletta, un “dono” che riempie d’orgoglio il ragazzo. Quando la bici viene rubata e il capo minaccia di licenziarlo per questo, egli dovrà mettersi alla ricerca del veicolo perduto, sfidando l’ostilità di una città a lui ancora completamente sconosciuta. Un film che illustra il mondo spietato che i migranti cinesi si trovano ad affrontare una volta in città. LI YANG, «Blind mountain», Cina 2007 La storia di una giovane ragazza di città venduta come moglie ad una famiglia di contadini in un villaggio sperduto tra le montagne. I continui tentativi di fuga della ragazza vengono sventati dagli abitanti del villaggio, i quali non trovano niente di strano nella schiavitù di una giovane donna. Uno straordinario ed estremo ritratto della vita in alcu30

ne zone della Cina rurale. ZHANG YIMOU, «Vivere», Cina 1994 La storia di una famiglia cinese nel periodo chiave che va dagli anni finali della guerra civile allo scoppio della Rivoluzione Culturale. Ironia e tragedia si fondono nella narrazione, dando vita ad uno dei film più originali che abbiano mai tentato di rappresentare il travaglio del popolo cinese all’epoca di Mao, tra grandi speranze di rinnovamento sociale e profonde delusioni.

SITI INTERNET http://www.zonaeuropa.com Blog di Roland Soong, un cinese che è recentemente rientrato ad Hong Kong dopo aver vissuto in America per oltre trent’anni . Si tratta di un blog “ponte”, in quanto esso contiene principalmente traduzioni di documenti apparsi sui media cinesi, in particolare sul web. http://thechinabeat.blogspot.com Blog collettivo sulla Cina a cui contribuiscono diversi accademici, giornalisti e scrittori di fama internazionale. Insuperabile per la qualità e l’approfondimento dei contenuti. http://www.danwei.org Blog collettivo avviato nel 2003 dal sudafricano Jeremy Goldkorn. Esso si concentra soprattutto su aspetti relativi al mondo dei media, della pubblicità e della vita urbana in Cina. http://appunticinesi.blogspot.com Blog di Ivan Franceschini, che in questa sede egli propone alcune analisi personali su problemi relativi al lavoro e ai media nella Cina popolare. http://ingigi.blogspot.com Blog di Gianluigi Negro, giovane laureato all’Università di Venezia. Una visione originale sugli ultimi sviluppi del web 2.0 in Cina. http://www.chen-ying.net Chén Ying è il nome in cinese di Gabriele Battaglia, giornalista e fotografo italiano che in questo sito raccoglie parole e immagini sulla sua grande passione: la Cina

ROSARNO LIBRI ANTONELLO MANGANO, «Gli africani salveranno Rosarno (e probabilmente, anche l'Italia)», Edizioni Terrelibere.org per Fortress Europe, 2009 Con contributi di Tonio Dell'Olio, Fulvio Vassallo Paleologo, Giuseppe Lavorato e Gabriele Del Grande La ricostruzione del tentato omicidio di due ragazzi, un ivoriano e un canadese, e di come il movimento per la legalità abbia cercato di ovviare alle carenze delle condizioni di vita degli immigrati che accorrono nella Piana ogni inverno per la raccolta di olive ed arance, mandarini. L'ex sindaco Giuseppe Lavorato ripercorre due decenni di lotte ''per il lavoro e contro le mafie''. Vassallo Paleologo dimostra l'opportunità sociale per il Sud di avere una classe di lavoratori non assoggettata e piegata a logiche non legalitarie ANTONIO NICASO e NICOLA GRATTERI, «Fratelli di Sangue», Pellegrini, 2008 Nicaso è un ricercatore con alle spalle diversi titoli sulle mafie, mentre il magistrato Nicola Gratteri, per decenni alla antimafia della procura di Locri (Reggio C.) e da 4 anni alla Dda antimafia di Reggio, sotto gli ordini del procuratore Antimafia Giuseppe Pignatone, è uno degli studiosi più attenti della Mafia più ricca e più potente al momento in Italia e in Sudamerica: la 'Ndrangheta calabrese.

Si studia anche il suo passaggio dalla dimensione pastorale ai grandi traffici internazionali, un dato storico che condiziona anche la condizione dei braccianti in Calabria oggi, come in altri angoli del meridione apparentemente non sviluppato, ma dove girano milioni di euro in profitti illegali ANTONIO NICASO, ‘Ndrangheta, le radici dell'odio, Aliberti, 2007 Dello stesso autore di Fratelli di Sangue è stato anche molto apprezzato per aver tracciato una cronistoria efficace delle fortune dei clan calabresi, man mano che scalzavano le 'famiglie' siciliane dal cartello dell'import di cocaina da Colombia e Latino America in generale GABRIELE DEL GRANDE, «Mamadou va a morire», Infinito edizioni, 2007 Gabriele Del Grande è anche curatore del sito d'informazione e raccolta dati sull'immigrazione in Europa 'Fortress Europe' http://fortresseurope.blogspot.com, nonché collaboratore di PeaceReporter, ed è uno dei più affidabili osservatori del fenomeno della migrazione clandestina in questo continente

SITI INTERNET http:// www.terrelibere.it Per saperne di più sui temi dell'immigrazione in terre di mafie, bisogna seguire il sito dello studioso di mafie e territori Antonello Mangano http://www.africalabria.org Giuseppe Pugliese e i suoi ragazzi volontari hanno un gruppo su Facebook e pubblicizzano le loro battaglie da questo sito. L'associazione di questi ragazzi cura anche l'Osservatorio sulla legalità nella Piana (di Gioja Tauro) http://www.csoacartella.org Per chi vuole avere notizie indipendenti sul territorio di Reggio e delle Calabrie in generale, informazioni sull'emergenza criminalità e sulle infiltrazioni mafiose nella politica e nei pubblici lavori, consulti la newsletter del Centro Sociale Occupato Autogestito dedicato ad Angelina Cartella, martire delle mafie; vi si possono trovare tutti gli eventi e gli argomenti che caratterizzano settimana per settimana la lotta per la legalità e contro la cementificazione di un territorio–simbolo della devastazione del territorio come strumento di sviluppo drogato e affidato alle imprese malavitose. http://territoriot.noblogs.org La Madre di tutti gli appalti pubblici per i 10 anni a venire sarà, ovviamente il Ponte sullo Stretto di Messina, una opera che vale come 10 Porti di Gioja Tauro, e combattuta da una rete di Ong collegata con la rete NO -Tav, che da questo portale pubblica i propri comunicati http://technorati.com/tag/ammazzateci-tutti A Locri, dopo l'omicidio nell'ottobre 2005 del vicepresidente regionale Domenico Fortugno, è nato un movimento di ragazzi under 30, in buona parte studenti universitari fuorisede, ma anche parecchi rimasti in Calabria a lavorare o studiare, di ribellione alle intimidazioni mafiose: si chiama “Adesso AMMAZZATECI tutti” dallo slogan di maggior successo della manifestazione in nome di Fortugno dopo il suo omicidio in pieno centro di Locri, mentre si svolgevano le primarie per il Partito Democratico in Calabria.


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