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mensile - anno 4 numero 6 - giugno 2010

3 euro

Colombia, falsos positivos

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

Migliaia i civili uccisi e poi vestiti da guerriglieri

Italia

Honduras Afghanistan Migranti

L’antiterrorismo fai da te Frugando nella Borsa Lacrime e sangue per nulla Io, prete per fame In viaggio da una vita Uomini di seconda categoria

Inserto speciale:the empty house



Non si può scendere a compromessi sui principi, né tacere le ingiustizie senza rischiare di essere indicati come complici di esse. Oscar Romero

giugno 2010 mensile - anno 4, numero 6

Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Christian Elia Luca Galassi Alessandro Grandi Benedetta Guerriero Enrico Piovesana Nicola Sessa Stella Spinelli

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Blue & Joy Simone Bruno Gabriele Del Grande Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Andrea Di Stefano Nicola Falcinella Licia Lanza Paolo Lezziero Sergio Lotti Cristian Tinazzi

Progetto grafico Guido Scarabottolo Oliviero Fiori Segreteria di redazione Silvina Grippaldi

Amministrazione Annalisa Braga Redazione e amministrazione Via Bagutta 12 20121 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net Stampa Graphicscalve Loc. Ponte Formello - 24020 Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 5 giugno 2010

Hanno collaborato per le foto Simone Bruno Paolo Caprioli/Fotogramma Manuela Cigliutti/Witness Journal Lannino/GiacominoFoto

Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Bagutta 12 - 20121 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07 Foto di copertina: Ras el Bahr 2009. Foto di Massimo Di Ricco per PeaceReporter

Pubblicità Via Bagutta 12 20121 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net

L’editoriale di Maso Notarianni

Libertà di non essere terroristi uello che è successo il mese scorso a Gaza, navi assaltate in acque territoriali, arresti stragiudiziali, deportazioni illegali, omicidi, non è solamente agghiacciante. E in troppi, anche tra chi si dice a favore della pace, hanno fermato la loro analisi sulla assurdità di una serie di fatti uno più grave dell’altro limitandosi a ritenere “eccessivo”‚”spregiudicato”, “criminale” il gesto del governo di Israele. Pochi sono andati oltre, nelle profondità di quell’orrore, per trovare una ragione che spiegasse quel gesto, l’orrenda impunità di cui hanno goduto i suoi mandanti al governo di una nazioni che per anni ha rappresentato una speranza per tutte le democrazie più avanzate del mondo e che oggi è precipitata negli inferi degli Stati che giorno dopo giorno costruiscono la loro esistenza (o resistenza, poco cambia) sulla sistematica violazione dei diritti umani e sull’indifferenza al diritto internazionale. Quella stessa spiegazione può essere data all’orrenda ma lucida follia di un qualsiasi Vittorio Feltri nostrano che si permette di urlare dalle prime pagine del suo giornale che l’esercito d’Israele bene ha fatto a ammazzare dieci persone. Perché quelle persone erano “terroristi”. Le stesse parole del Premier israeliano, ma usate con dodici ore di anticipo. In quella parola c’è la chiave che a molti sfugge. Perché dice che oramai la guerra ha vinto. Il problema non è più, per noi, sostenere la pace in Palestina, o la fine del macello in Afghanistan, o il diritto ai popoli dell’America Latina di scegliersi i loro presidenti indipendentemente dai desideri della corporation multinazionali o statunitensi. Il problema non riguarda più singole questioni. Il problema è che qui e ora c’è urgente bisogno di una grande mobilitazione prima di tutto culturale, per riaffermare il diritto alla pace. Per cacciare dalla scena quel mostro che è la guerra, che permea anche la nostra vita quotidiana e che genera i titoli dei giornali più beceri ma li rende in qualche modo tollerabili, anche se riconosciuti come tali. Quella cultura che vede in ogni tentativo di ragionare e di affrontare questioni come un sostegno ai “terroristi” questa volta, a chissà quale futuro e (altrettanto) immaginario nemico la prossima. Come si può non capire che lasciando che la logica della guerra prendesse il sopravvento anche qui abbiamo permesso che la nostra libertà non solo di pensiero o di espressione, ma anche e soprattutto di vita, sia stata ridotta drasticamente?

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Honduras a pagina 14

Italia a pagina 10, 20 e 22 Afghanistan a pagina 18

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Migranti a pagina 24

Scritti, disegni e fotografie anche se non pubblicati non verranno resi.

Colombia a pagina 4

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Il reportage Colombia

Falsi positivi di Simone Bruno Erano tre anni che donna Diana non veniva a visitare suo figlio. Il viaggio dalla sua fattoria fino al paesino della Macarena è lungo e costoso: “Bisogna prendere un battello che passa sul fiume solo una volta alla settimana e per potermelo permettere devo risparmiare per parecchi giorni. Purtroppo le cose non vanno bene ultimamente e quello che produciamo basta appena per me e mio marito”. contadini si spingono fin là solo la domenica, per poter vendere i prodotti al mercato, andare in chiesa, comprare arnesi e svolgere le pratiche burocratiche. Poi, prima del tramonto, iniziano il viaggio di ritorno. La Macarena si trova nella regione del Meta, nelle pianure sud orientali colombiane ed era il cuore della zona di distensione, una regione di quarantaduemila chilometri quadrati, poco più grande della Svizzera, che l'ex presidente Pastrana aveva smilitarizzato e consegnato ai guerriglieri delle Farc (Forze armate rivoluzionarie colombiane) alla fine del 1998, nell'ambito di un processo di pace durato fino al 2002. La pace non arrivò mai. Tornò invece l'esercito, questa volta con la seguridad democratica, il presidente Uribe, i soldi del Plan Colombia e la guerra. La Macarena si trasformò nel teatro dei combattimenti più duri e la Fudra (forza d'intervento rapido) dell'esercito si stabilì permanentemente nella zona. Gli unici mezzi per andare da Villavicencio, la capitale del Meta, fino alla Macarena sono gli aerei merci, quei vecchi DC-3 che, dopo aver rivoluzionato l'aviazione civile negli anni '30 e aver combattuto la seconda guerra mondiale, vennero dismessi e alcuni esemplari destinati al sud del mondo e impiegati per spostare mercanzie e qualche passeggero ammassato. Ci sarebbe anche una vecchia strada sterrata tra le due città, ma ormai nessuno osa più percorrerla. È una terra di nessuno, controllata dai gruppi armati, come quasi tutto il Meta rurale. Già dall'aeroporto della Macarena si fatica a credere di essere nello stesso paese della Bogotà dei grattacieli e dei centri commerciali. A riceverci, una terra pitturata di rosso, fertile e generosa, e una gigantografia con il volto di un militare in mimetica pronto alla guerra. Dietro di lui, alcuni commilitoni che imbracciano armi pesanti e una frase rassicurante a caratteri cubitali: “Siamo gente normale che fa un lavoro eccezionale”. L' aria è pesante, e non solo perché il sole sembra schiacciarci al suolo. L'atmosfera è quella tipica dei luoghi che vivono e vedono la guerra ogni giorno. Tutta la Macarena ricorda i film del far west: una strada principale con l'hotel, il bar, il ristorante e il centro abitato che sfuma dopo pochi isolati. Al posto del fortino dei buoni, la base della Fudra che domina dalla collina. Dentro, ventimila soldati, cinque brigate mobili e vari elicotteri da guerra Black Hawks e M-17. Ventimila contro tremilacinquecento, quanti sono gli abitanti della Macarena: sei volte in meno il numero di militari. Jesús Hernández lo chiamano Don Chucho. Ha mani simili a quelle di donna Diana, con tanta terra sotto le unghie. Ma non è un contadino: è il becchino del villaggio. Donna Diana lo ricorda molto bene: lo ha incontrato una sola volta, tre anni fa, quando ha seppellito suo figlio. Ma Don Chucho resta impresso nella mente di chiunque lo incontri. Saranno i suoi occhi piccoli e azzurri, troppo freddi anche per un sole tanto cocente; o quell'apparente disinteresse con il quale parla del suo lavoro. Mentre parla delle centinaia di persone a cui ha fatto l'autopsia prima di seppellirle l'immagine delle dimensioni del cimitero di NN appare nitida e brutale.

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C'è del filo spinato a separare la base della Fudra dal cimitero. La parte del camposanto vicina a questa rete è diversa, né ornamenti, né fiori, né foto. Sembra un mare ondeggiante di piccole croci bianche. Ognuna ha un numero inciso. “Credo siano circa settecento i guerriglieri che ho sepolto qui – irrompe Chucho indicando le croci bianche – nel 2002, quando è tornato l'esercito mi hanno chiesto di scavare delle fosse. Da quel momento non ho mai smesso”. Nella Macarena è difficile trovare qualcuno che voglia parlare del cimitero o di chi vi sia sepolto. “Potrebbe essere pieno di falsos positivos – ci confida un venditore ambulante in cambio dell'anonimato –. I militari portano i cadaveri di notte, da tutti i municipi della zona, dicono che si tratta di guerriglieri, ma la realtà è che nessuno sa chi siano, dato che nessuno viene a cercarli”. Tanti NN - più di duemila secondo Chucho - hanno richiamato l'attenzione dei magistrati delle unità specializzate in diritti umani della procura, proprio quelli che indagano sui casi di falsos positivos. Ancora non sono riusciti a organizzare i gruppi forensi per andare a visitare il cimitero, scavare, ricostruire le storie degli scontri armati e cercare di dare a ogni corpo un nome. Gli investigatori della Macarena credono che il villaggio sia quello che conta il più alto numero di NN in tutto il Paese. uello dei falsos positivos è il più grave scandalo della storia dell'esercito colombiano. Oltre duemila civili assassinati dal 2002, vestiti con mimetiche e presentati dai militari come nemici abbattuti in combattimento per ricevere in cambio una serie di benefici. Quando il presidente Uribe fu eletto, era da poco fallito il processo di pace con la guerriglia. L'unica alternativa sembrava la forza, guerra senza quartiere ai ribelli. Uribe prometteva proprio questo, sconfiggere le Farc militarmente. Si recuperano le strade in mano a bande criminali, guerriglie e paramilitari; si militarizzano le strade; si creano reti di spie; s’investe in guerra. Per motivare i soldati, si elargiscono premi per chi uccide i nemici: soldi, licenze e rapide carriere nell’esercito. Improvvisamente arrivano i risultati, ovunque si contano a centinaia i guerriglieri morti. Felici i soldati, felice l'allora ministro della Difesa Juan Manuel Santos, felice il presidente che sciorina i numeri ai quattro venti, chiedendo più soldi per fare più guerra. I problemi arrivano quando ci si accorge che alcuni dei morti non sono affatto banditi o guerriglieri, ma ragazzini o barboni attirati con la scusa di un lavoro, portati in regioni lontane e isolate, uccisi, vestiti e armati come banditi e buttati in fosse comuni, sicuri di passarla liscia. Nonostante da tempo numerose organizzazioni di diritti umani stessero denunciando questi fatti, è stato solamente dopo lo scandalo di Soacha, il

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In alto: Figli scomparsi. In basso: Cimitero di Macarena, dove i militari seppellirono i falsi positivi. Colombia 2009. Simone Bruno per PeaceReporter


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quartiere di emarginati a sud di Bogotá, che il governo ha deciso di prendere seri provvedimenti. auricio Castillo ha quarantadue anni, ma ne dimostra molti di più. È di Soacha, un paesino alle porte di Bogotá: “Siamo andati io e mia sorella fino a Ocaña, - racconta -. Un lungo viaggio di sedici ore in autobus. Abbiamo dovuto disseppellire nostro fratello Jaime con una pala e un piccone. C’erano cinque morti in una fossa e nove in un’altra. Mio fratello era sotto tutti gli altri corpi, e in uno stato avanzato di decomposizione. Ce ne siamo andati lasciando lì gli altri morti, senza sapere chi fossero, pensando alle famiglie che forse ancora li cercano”. Mauricio è uno dei familiari più attivi tra quelli delle vittime e dei falsos positivos. Se l’enorme scandalo è arrivato alla luce in buona parte si deve e lui e sua sorella Jackeline. “È cominciato tutto il 6 agosto del 2008, quando mio fratello ruba il cellulare a un ragazzo e la polizia lo arresta. Andiamo alla centrale qui vicino e un poliziotto mi chiede: ‘Sei il fratello di quel rifiuto? Digli di non farsi più vedere o qualcuno lo farà fuori’. La cosa mi fa infuriare, ma quello dice: ‘Comunque lo abbiamo già liberato, nessuno lo ha denunciato’. Mi sembra subito molto strano. Lo cerco. Sembra sparito. Passano i giorni. Due settimane dopo, ancora nessuna notizia. Lo avevo cercato negli ospedali, alla polizia, ovunque. Quel giorno sentiamo parlare dei morti di Ocaña. Qualche giorno prima, Jaime ci aveva detto che gli avevano offerto un lavoro in quella zona, si trattava di badare a una mandria. Andiamo subito dal giudice per vedere le foto dei morti di Ocaña. Era fra quelli. L’hanno ucciso il 12 agosto, spacciandolo per un guerrigliero”. Jaime Castillo, 38 anni, è stato massacrato dalla brigata di Ocaña assieme a tutti gli altri “muchachos di Soacha”: sedici persone di cui tre minorenni. Agli inizi del 2008, il sergente Alexánder Rodríguez della brigada mobile XV, proprio quella di Ocaña, regione del Norte di Santander, aveva denunciato a giudici e superiori quanto era solito avvenire nel suo battaglione: per avere i cinque giorni di licenza premio, si uccidevano civili e si spacciavano per guerriglieri. Ne era stato testimone, più di una volta. Ma la sua denuncia non venne mai ascoltato e, anzi, il sergente venne persino cacciato dall'esercito. Ma la pratica dei falsi positivi comincia ad apparire atteggiamento assai diffuso. Denunce arrivavano da molte famiglie e da tante ong che si occupano di diritti umani in Colombia. Il presidente Uribe, nel giugno 2007, decise di reagire: “Ogni volta che si uccide un guerrigliero – dice -, immediatamente si mobilitano i suoi portavoce nazionali e internazionali per dire che si è trattato di un’esecuzione extragiudiziale. Le forze armate si sono da sempre impegnate a non dare adito a simili menzogne”. Lo stesso ministro della Difesa Juan Manuel Santos, mentre i muchachos di Soacha venivano sterminati, dichiara: “Alcune persone continuano a ignorare la realtà e cercano di vendere false verità su una politica governativa maliziosamente chiamata esecuzioni extragiudiziali. È un atto deliberato di alcune organizzazioni che vogliono solo presentare false denunce per far crescere questi presunti numeri di esecuzioni extragiudiziali. Questi numeri gonfiati sono poi usati per delegittimare la forza pubblica”. Poco dopo il caso di Soacha, emerge che dal paesino di Toluviejo sono scomparsi vari giovani trovati poi morti a Sucre. Stessa cosa a Risaralda, Popayan, Córdoba. Diventa innegabile che la cosa accadeva da tempo in tutto il Paese. Uribe questa volta è costretto ad ammettere l’enormità dei fatti: “Ci sono crimini commessi da delinquenti e militari dell’esercito collusi. Assassinavano degli innocenti per dare la sensazione di star combattendo dei criminali in quelle regioni, mentre i veri criminali erano in combutta con l’esercito per delinquere”. Un'ammissione risalente all'ottobre del 2008, quando il presidente e il ministro della Difesa decisero di allontanare dall’arma tre generali e ventiquattro tra ufficiali e sotto ufficiali. Un fatto senza precedenti. Capri espiatori per far passare il messaggio dell'eccezione. Ma secondo il sergente Rodríguez, i falsos positivos non sono che una pratica comune di tutto l'esercito: “Sin da quando ero una recluta si sentivano queste cose. Tutti i soldati lo sanno, ma non tutti sono coinvolti. Nel battaglione si sa chi fa queste cose, se vuoi fare parte di quei giri devi diventare amico loro. Ma non esiste un soldato in Colombia che non sappia dei falsos positivos: persone presentante come nemici, false bombe scoperte, arresti di innocenti”.

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Per José Joaquín Cortés, ex generale della seconda divisione dell'esercito colombiano, la conferenza stampa con la quale è stato allontanato dall'arma non è stata che uno “show”. “Si tratta di una decisione politica – precisa per calmare l'opinione pubblica. Per fortuna è finita lì, altrimenti avrebbero dovuto mandare a casa tutti i comandanti di divisione del Paese, dato che casi di falsos positivos si registrano in tutta la nazione.” L’ultimo rapporto dell’ufficio colombiano dell’Onu per i diritti umani dedica molto spazio al tema e dà ragione sia a Cortés che a Rodríguez: “Le esecuzioni extragiudiziali - così l’Onu chiama i cosidetti falsos positivos - non sono casi isolati, ma una pratica molto estesa commessa da un numero importante di unità militari in tutto il Paese”. Il rapporto parla di uno “schema” ricorrente e questo fa rientrare i falsos positivos nella definizione della Corte Penale Internazionale (Cpi) dei crimini di lesa umanità. La Corte sta studiando con attenzione il caso colombiano. I giudici Luis Moreno Ocampo e lo spagnolo Baltasar Garzón hanno visitato ripetutamente il Paese interessandosi soprattutto allo scandalo della “parapolitica”, ma senza dimenticare le esecuzioni extragiudiziali. Onu si occupa da molto tempo di esecuzioni extragiudiziali in Colombia. Il primo caso allo studio risale al 1985. Ciò che è cambiato durante la presidenza Uribe sono le modalità. Prima si facevano passare per guerriglieri i contadini, gli attivisti sociali, i sindacalisti, ora si sequestrano persone ai margini delle grandi città, i più poveri tra i poveri, si trasportano in aree rurali e lì si simula uno scontro a fuoco con bande criminali. “Ogni corpo me lo portano in divisa da guerrigliero, con tanto di armi - continua il becchino della Macarena -. Io mi limito a fare l'autopsia e poi lo seppellisco. Nel caso sull'uniforme vi sia cucito uno pseudonimo lo scrivo sulla croce, altrimenti lascio solo il numero di protocollo.” Quando sente le parole falsos positivos Chucho si irrigidisce, nega: “Per me si tratta solo di N.N., in tanti anni ho imparato a riconoscere i guerriglieri, odorano di foresta, hanno il colore della selva. Quelli che mi portano l'esercito sono guerriglieri morti in combattimento”. Donna Diana però non è d'accordo. “Qui è sepolto mio figlio José Antonio racconta posando un fiore su una croce che recita ‘atto 31, 21 marzo 2006’ aveva ventiquattro anni quando l'esercito me lo ha assassinato. Era un contadino, non sapeva nulla di armi, non le ha mai usate, non è mai andato con la guerriglia, era un ragazzo che lavorava duro. Quando lo hanno fatto sparire ci fu un’incursione di militari nel casolare dove vivo. Lo abbiamo cercato ovunque. Poi siamo venuti qui. Mi hanno fatto vedere delle foto degli ultimi guerriglieri abbattuti e seppelliti come N.N. L'ho riconosciuto subito. Gli avevano messo un fucile, vestiti mimetici e cartucciere. Gli hanno sparato dietro la testa e alla caviglia. È la cosa peggiore che possa accadere a una madre... ”. Il cellulare di Chucho squilla e poco dopo un colonnello, accompagnato da altri militari, ci viene incontro: il Generale vuole vederci. “Da quando sono qui, non ho mai sentito lamentele sul tema dei falsos positivos – ci spiega – E poi questo non è il nostro cimitero, come dicono. È del tutto accidentale che sia così vicino alla base. Quando ci sono dei morti, le indagini le fa la polizia giudiziaria e sono a portarli al cimitero. In questa zona, fortunatamente, la guerra è molto limpida, forza contro forza. Ci sono morti, ovviamente, ma solo durante i combattimenti. Ci scontriamo giornalmente contro il blocco orientale delle Farc, perché è nostro compito eliminarlo”. Héctor Torres è un difensore dei diritti umani che ha lavorato per anni in tutto il Meta. È lui ad aver accompagnato le famiglie nella ricerca dei proprio cari scomparsi e le ha convinte a denunciare. Ed è lui a riaccompagnare donna Diana al suo casolare: “Restano decine di desaparecidos in questi centocinquantatre casolari del municipio – racconta - E siamo certi che molti sono sepolti in quel cimitero. Ma non se ne parla. Fintanto che non vinceremo la battaglia contro la paura non torneremo alla vita. E finché i magistrati non cominceranno a scavare in quel cimitero, la verità su questa tragedia umana resterà seppellita dietro quei freddi NN”

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In alto e in basso: Manifestazioni dei parenti delle vittime dell’esercito colombiano. Colombia 2009. Simone Bruno per PeaceReporter


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I cinque sensi della Colombia

Udito Come in tutte le zone rurali si ascolta musica ranchera, ossia una versione creola del folk tipico dei rednecks americani. I temi sono spesso amori finiti male a causa di donne traditrici, cosa che fa lamentare il cantante in interminabili piagnucolii che scuotono il sistema neuro-celebrale di chiunque non sia cresciuto ascoltando questi ritmi. Meglio la notte, quando l'unico rumore è quello del lento scorrere del fiume e degli animali che si affacciano a curiosare nel villaggio.

Vista Il caño Cristales è l'ampio fiume che scorre al lato della Macarena. È conosciuto anche come il fiume dei cinque colori o, come raccontano gli abitanti, il fiume più bello del mondo. Sul suo fondale nascono alghe di diversi colori: rosse, gialle, verdi e azzurre che conferiscono al fiume una apparenza multicolore. È l'attrazione turistica della zona, anche se di turisti se ne vedono pochi. Come spesso accade in Colombia, posti meravigliosi sono spesso teatro di efferati combattimenti, cosa che riduce il potenziale turistico dell'intero Paese. I piani di consolidazione, ossia di ritorno alla vita civile, dopo che i territori sono strappati agli attori armati, prevedono oltre l'ingresso delle multinazionali, interessate al sottosuolo, anche quello dei turisti, con la promessa di una futura prospe-

rità per gli abitanti. In Colombia il caño Cristales è molto famoso, ma in pochi lo hanno visto. Dato che la luce arriva dai generatori, poco dopo cena la città resta al buio, anzi no, si accende il cielo, che nelle notti serene illumina tutte le pianure.

Gusto La dieta della Macarena è a base del pesce che offre il fiume. Ci sono diverse varietà di pesce-gatto e il pesce giallo, una specialità locale, piuttosto grande e saporita, nonostante sia di acqua dolce. Il pesce resta comunque un lusso, la dieta tipica degli abitanti è a base di riso, patate, yucca e qualche vegetale. A differenza del resto de los llanos (le pianure) della Colombia, nella Macarena non si mangia molta carne. In questa zona infatti si produce la carne per tutto il Paese, quindi, in aree più tranquille ci sono dei grandi barbecue dove si preparano la “mamona” (vitello) e il “cochinillo” (maialini). Si cucinano usando bastoni che fungono da enormi spiedi: si infilzano gli animali quasi interi e si lasciano rosolare vicino a un grande fuoco per ore, mentre di volta in volta vengono tagliate le porzioni da servire.

Olfatto Il vento porta odori di memoria ancestrale dalla selva, odori altrimenti non godibili, dato che

appena fuori da la Macarena comanda la guerriglia. Le pianure orientali colombiane, sono aree molto calde, ma non desertiche. Sono invece coperte da una fitta selva, spesso impenetrabile e solcate da numerosissimi corsi d'acqua. La terra è quindi molto generosa, ricca di minerali portati a valle dai fiumi. La Macarena stessa è un pezzo di terra strappato alla foresta, lontano da tutto, sogno di uno sviluppo mai arrivato e ora di nuovo promesso dalla consolidazione. Un far west colombiano, con cowboy poveri che si muovono a cavallo e indossano galoscie: in epoca di pioggia, bisogna camminare nel fango alto venti centimetri anche solo per attraversare la strada.

Tatto La terra rosso scuro della zona è ovunque. Quando il sole la brucia, diventa vento, si deposita nei capelli, vestiti, tavolini e tutto il resto, diventa l'aria che si respira e le nubi sollevate dalle macchine dei militari. Quando invece piove diventa fango e ricopre ogni strada. Ma anche la tensione è tangibile, la Macarena è una zona di guerra, ci sono persone sedute che osservano, tutti sanno quando arriva uno straniero, una persona nuova in città. L' esercito è ovunque, pattuglia costantemente ogni strada, domina con la sua base il panorama dall'alto. Poi, come se ci fosse un confine invisibile, tutto cambia appena fuori dal centro urbano. I militari non si avventurano, la foresta ritorna padrona e al suo interno coloro che la controllano. 9


Inchiesta Italia

L’antiterrorismo fai da te di Cristian Tinazzi Se la storia fosse inventata potrebbe anche far ridere. Una pièce teatrale o la trama di uno dei tanti film su spie e spioni pasticcioni alle prese con la minaccia dei cattivi di turno. La realtà dei fatti però è ben più seria. Si parla di terrorismo e antiterrorismo (argomento sensibile) spesso a sproposito, e delle aziende a cui viene affidata la sicurezza pubblica. a signora Nicole Touati è una persona molto affabile e simpatica, dicono quelli che l'hanno conosciuta. È la General Manager della Logan’s Ltd, società “fondata nel 1988 da un gruppo di consulenti di sicurezza, dotati di un vasto know-how e di una grande esperienza nel campo della sicurezza antiterrorismo militare e civile. I fondatori hanno riunito una serie di qualità e di capacità e le hanno integrate per formare una sinergia vincente” recita il sito dell'azienda. Una società con sedi all'estero e operante da anni in un settore di primaria importanza in un contesto globale e caotico come quello odierno. I membri di questo super team di esperti, come si rileva sempre dal sito e da alcune interviste rilasciate dalla signora Touati, sarebbero ex-alti ufficiali e tecnici delle forze speciali e della difesa israeliani, esperti di intelligence, ex-alti gradi della polizia internazionale e via discorrendo. Una presentazione con i fiocchi che deve essere piaciuta subito a tutti, soprattutto alle Autorità portuali italiane che, per effetto delle misure di sicurezza antiterrorismo, imposte dal codice Isps (International Ship and Port Security), dovevano assolutamente mettersi in regola entro il primo luglio 2004. Il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, con Decreto Ministeriale del 25/2/2004, finanzia così circa centotrenta milioni di euro per le ventiquattro Autorità portuali presenti sul territorio nazionale. Soldi che devono servire a equiparare le zone portuali a quelle aeroportuali: metal detector, telecamere, muri, controlli. Altrimenti i porti non possono operare. E, alla Logan's arrivano molte richieste di consulenze. La prima è quella per il porto di Livorno tramite la società che gestisce lo scalo, la Porto Livorno 2000. Poco tempo dopo, a un workshop sull'argomento, organizzato dall'Autorità portuale di Venezia, la signora Touati esordisce con una informazione scioccante: "Non solo in Malesia, ma anche nel Golfo di Sicilia i pirati sono tornati, superando come volume d'affari la Microsoft". La notizia dei pirati è falsa, come confermato dall'Ufficio Stampa della Marina Militare. Nel Mediterraneo non ce ne sono mai stati. E il volume d'affari della Microsoft solo nel 2006 è stato di circa 44,3 miliardi di dollari, cifra difficilmente superabile, anche con tutta la buona volontà, da parte di qualche centinaio di pirati sparsi per il mondo. Ma nessuno si prende la briga di controllare la veridicità delle informazioni e la Logan's

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prende consulenze e vince gare d'appalto in importanti porti italiani. Dopo Livorno tocca a Trieste, Cagliari, Olbia, Salerno. Nel 2004 la società israeliana sbarca a Roma. Il Comune le affida il piano di 'blindatura dei depositi' in funzione anti-writer, poi trasformato in piano antiterrorismo dopo le bombe di Madrid. Adriana Spera, del gruppo consiliare di Rifondazione Comunista, l'8 settembre 2005 presenta un'interrogazione urgente al sindaco Walter Veltroni. Il consigliere chiede per quale motivo e da quale organo istituzionale la pianificazione della sicurezza delle metropolitane di Roma sia stata affidata a una società privata, perlopiù non italiana né europea, anziché alla nostre forze dell'ordine. La risposta non arriva, ma arrivano le querele al consigliere Spera e all'agenzia di stampa Adista, che nell'aprile 2004 aveva lanciato la notizia che le Acli (tramite l'Enaip) avevano stretto un accordo con la Logan's lanciando il progetto S.C.U.D.O., esprimendo così una sentita preoccupazione espressa da parte del mondo cattolico. Dello stesso tono era un'interrogazione parlamentare del PRC al Ministro dell'Interno, datata 21 settembre 2004. Le Acli in seguito alle proteste rescindono il contratto con la Logan's, rimanendo l'obbligo di indirizzare verso la società di sicurezza chiunque ne avesse fatto richiesta. Il Comune di Roma la consulenza la paga comunque. a quali sono le credenziali di questa società che ha ottenuto tante consulenze in un settore delicato come quello della sicurezza? Poche, o forse nessuna. La Logan’s innanzitutto non è una “multinazionale israeliana’” come è scritto nel sito: non ha nessuna sede in Israele, se non una casella postale e la sua sede legale è nelle isole St.Vincent & Grenadines, un paradiso fiscale. L'indirizzo, corrisponde allo stesso di centinaia di società offshore, che fanno tutte riferimento alla Trust House, palazzina di proprietà della Jeeves Group, società basata in Lichtenstein, all'interno della quale operano tre società appartenenti alla medesima azienda, e che si occupano di fornire i codici IBC (International Business Company). I codici IBC servono proprio per registrare società offshore. La sede centrale della società allora dov'è? In Italia, guardando la registrazio-

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Porto di Vado Ligure. Italia 2010. Foto di Manuela Cigliutti/Witness Journal.


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Delle centinaia di migliaia di euro spesi per mettere in sicurezza i porti italiani pochi sanno realmente come sono stati spesi e con quali criteri. I risultati sono stati spesso deludenti o inappropriati: emblematico è il caso del porto di Cagliari, messo “in sicurezza” dagli esperti della Logan's. Dopo aver speso 3 milioni di euro per trasformare l'area imbarchi e sbarchi in un bunker munitissimo, con vigilantes armati, check-in ad alta risoluzione e varchi controllati, l'Autorità portuale ha subito finito i soldi. Risultato: la cancellata metallica costruita solo pochi mesi prima per isolare lo scalo da possibili attacchi terroristici è stata smontata e messa in un deposito. Ridotto

anche il numero di vigilantes previsti per abbattere i costi di un servizio che ammontava a 1 milione e mezzo di euro l'anno. Troppi. Nonostante “L'Unione Sarda” abbia definito, in uno dei tanti articoli apparsi in quel periodo, l'opera “A prova di bomba”, nell'agosto 2005 un operatore della Cto (la Compagnia privata dei terminalisti) trova sul pavimento del bar una pistola 7.65 automatica, chiusa in un guanto sigillato con il nastro adesivo. Insieme all’arma, una consistente quantità di proiettili e di caricatori. Stando alle informazioni raccolte dalla Polmare l’involucro è caduto da una delle borse che una comitiva di campeggiatori francesi ha

ne del sito. Infatti il sito web viene registrato il 3 marzo 2002 da un italiano, che lascia traccia del suo cellulare e della sua mail. La sua sede operativa quindi è in Italia e non viene aperta a Roma o Milano, come ci si aspetterebbe da una multinazionale, ma a Berceto, frazione di Lari, in provincia di Pisa. Le domande e i dubbi qui iniziano ad accumularsi. Sappiamo che la Logan's, come scritto nel sito web, è una società di caratura internazionale che opera in tutto il mondo dal 1988. Ma la registrazione in rete però è del 2002. Chi registra il sito, l'unico reperibile su internet, è un italiano e non esistono siti precedenti legati a questo. C'è qualche cosa che non quadra. Inoltre non esistono in rete notizie dell'azienda su siti stranieri o di lavori fatti in precedenza all'estero. Nel 2005 la signora Touati si trasferisce con armi e bagagli a Roma. Anche la sede della società viene trasferita nella Capitale, in un appartamento sito in via Messina 30, un palazzo anonimo in una traversa di via Nomentana. Allo stesso indirizzo è registrato il “Centro Studi Logan's sul terrorismo”, il cui presidente è sempre la signora Touati; vicepresidente il figlio Laurent Lazzereschi, musicista nel gruppo rock pisano Lemmings, e tesoriere la figlia Stephanie Lazzereschi, diploma di geometra con la passione per la fotografia. Un centro studi antiterrorismo a conduzione familiare. Spulciando nel sito si vantano contatti con diverse università italiane. In realtà l'unica posizione che ha aperto la Logan's per collaborazioni e stage con i neolaureati è quella relativa alla ricerca di un webmaster. I dubbi si accumulano anche sulla credibilità di questo fantomatico centro studi a conduzione familiare. Sempre nel 2004 un comunicato dell'Adn Kronos recita: “Iraq: Touati (Logan) ostaggi non addestrati per crisi militari”. Il riferimento è ai quattro mercenari italiani sequestrati dalla guerriglia irachena. Su Maurizio Agliana, uno dei quattro, la Touati dichiara di conoscerlo e di sperare che torni presto a casa. In un articolo riportato dal quotidiano leghista “La Padania”, datato 16 aprile 2004, la signora dice di averlo utilizzato come body guard dal 1996 al 2000: “Cucciolo, come lo chiamavano, non era un mercenario, non lo era nessuno dei quattro, erano dei semplici addetti alla sicurezza civile”. Impiegato in che cosa? Per quale azienda visto che in quegli anni la signora Touati non risultava essere impegnata in nessuna agenzia di security? Ma chi è Nicole Touati allora? È veramente un'esperta di terrorismo che rappresenta in Italia la multinazionale israeliana Logan's o un'abile venditrice di fumo? Nata in Marocco nel 1954, la sua permanenza in Italia risale agli anni ‘80. A suo nome risultano due aziende individuali presso la Camera di Commercio di Pisa con le quali ha operato dal 1985 al 1992. Il settore? Sicurezza? No, traduzioni, segreteria, disbrigo pratiche, lezioni di lingue. Nel 1995 deposita come brevetto sempre alla Camera di Commercio un “Cerchio a doppio tratto contenente una stella a sei punte; su ogni spazio vuoto ci sono simbologie astrologiche e cabalistiche”. Singolare depositare come brevetto alla Camera di Commercio un simbolo. E qui appunto, parlando di simbologia esoterica, scatta la seconda specializzazione della Touati: la radioestesia, ovvero l'arte di ritrovare persone scomparse con il pendolino. Nel 1999 è citata in un articolo del “Resto del Carlino” come radioestesista specializzata con all'attivo oltre sessanta ritrovamenti. Nel 2000 viene ingaggiata dalla famiglia di una donna scom12

caricato insieme alle motociclette su un traghetto. Erano una quindicina: hanno superato tranquillamente il varco security, il tunnel a infrarossi e gli sguardi severi dei vigilantes. A Trieste, altro porto “blindato” dalla Logan's, considerato impenetrabile da qualsiasi attacco terroristico e supercontrollato, il 27 aprile 2006 spariscono due milioni e 700mila euro di profumi griffati, sotto sequestro in un deposito. Mille scatoloni, secondo le ipotesi, caricati su una nave poi uscita tranquillamente dal bunker triestino. I protocolli previsti dal piano della sicurezza ideato dalla Logan's, a due anni di distanza, non erano ancora stati messi in opera.

parsa in Tanzania, le cui ricerche non avevano dato esito. Giovanna Bellotto, medico anestesista in pensione, scompare infatti la notte tra l'8 e il 9 marzo del 1999. Tornata dopo una settimana di sopralluoghi nel Paese africano, la Touati fornisce una pista che i carabinieri, come riferisce l'ex comandante del nucleo investigativo di Mestre, Angelo Jannone, definiscono completamente falsa. In un articolo pubblicato sulla vicenda a dieci anni di distanza dal “Corriere del Veneto”, lo stesso ex ufficiale definisce la signora “una truffatrice”. Come abbia fatto la Touati ad accreditarsi nel giro di due anni, dal 2000 al 2002, come esperta nel ramo antiterrorismo, rimane un mistero. Mistero che si aggiunge ad altri misteri di sparizioni, pendolini e qualche mano benevola che si è data da fare per costruire una storia senza passato di una azienda che esce dal nulla. gli esperti israeliani? Almeno loro, esistono? Uno c'è. O meglio, c'era. Si chiama Lio Udler, israeliano da qualche anno residente in Italia. Consulente di sicurezza, impiegato dalla Costa Crociere per la sicurezza a bordo, veniva chiamato dalla Touati in occasione di particolari incontri o corsi tenuti dall'azienda. Si è allontanato dalla Logan’s quando, racconta, si è reso conto che c'era qualcosa che non era chiaro. "L'unico israeliano che ho visto lì dentro sono io", dice Udler. "Quando sono arrivato all'aeroporto mi hanno detto che veniva una squadra a ricevermi. Mi sono trovato di fronte una signora con un ragazzo, il figlio. Altre persone non le ho viste”. La società arriva a tenere nel 2008 un convegno sulla sicurezza anche all'interno delle stanze dell'Ispro, Istituto di Studi e Ricerche per la Protezione Civile, il cui mentore è l'ex Ministro Giuseppe Zamberletti, 'padre fondatore' della Protezione Civile Italiana. “Ma è stato solo un incontro, precisa il responsabile dell'ufficio stampa. Non abbiamo nessun tipo di collaborazione con loro”. Il sito dell'Ispro però parla di collaborazione tra i due istituti. In Italia non vi è nessun tipo di regolamentazione su questo tipo di mercato. Le aziende sorte dopo l'11 settembre, vere o presunte che siano, nel nostro Paese e nel mondo, sono centinaia. Frutto della paura spesso ingigantita per questioni di interesse politico e della cessione, da parte degli Stati, di settori sensibili e relativi alla pubblica sicurezza a privati. "Un problema sul quale si dovrebbe mettere presto mano", confessa un consulente del Copasir, il Comitato Parlamentare di controllo sui servizi. "Credo che in questi casi l'aspetto commerciale predomini sul resto. Si tratta di sperperare risorse pubbliche usando denari che dovrebbero essere usati in altro modo. La sicurezza dei cittadini rispetto al terrorismo credo che sia l'ultima delle questioni di chi prende decisioni in questi campi", commenta l'ex vicesegretario Onu ed esperto in materia Pino Arlacchi. L'Italia deve essere un Bel Paese, visto dall'estero. Nel senso di un formaggio, ovviamente, possibilmente un groviera, se è così facile infilarsi in settori delicati nei quali servirebbe competenza, professionalità e un buon curriculum. Da noi si può tranquillamente cambiare professione nel giro di un paio d'anni, passando da medium ad esperta di antiterrorismo, vincendo appalti e consulenze. Tanto nessuno ti controlla.

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In alto: Terminal partenze. Porto di Savona. In basso: Porto di Vado Ligure. Container in attesa di essere stivati. Italia 2010. Foto di Manuela Cigliutti/Witness Journal.


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Qualcosa di personale Honduras

Io, prete per fame di Andres Tamayo, testo raccolto da Alessandro Grandi Sono nato in un'area rurale di El Salvador il 24 settembre del 1956 da una famiglia povera, molto povera. La mia vita mi ha aiutato a vedere meglio lo sfruttamento terribile della terra da parte dei “ricchi”. Ma un altro mondo è possibile. ia madre è morta quando avevo poco più di tre mesi e mio padre non riuscendo a mantenere tutta la famiglia mi ha regalato. Sì, mi ha regalato insieme a un altro fratellino a una famiglia se possibile più povera della nostra. Che però ci ha adottato e trattato molto bene. La famiglia che ci ha accolto viveva in un tale stato d'indigenza che non c'era cibo per tutti. Io fin da bambino mi sono dovuto arrangiare e cercare di recuperare un tozzo di pane o un frutto per sfamarmi. Insomma, gli anni della mia infanzia sono stati davvero difficili, sotto molti punti di vista. Nel frattempo crescendo iniziava la mia formazione culturale. Nel villaggio in cui ho vissuto da bambino c'era un frate francescano con la sua Missione. Io lo guardavo mentre frequentavo la parrocchia: mangiava bene, sempre e tanto. Come si dice: la fame sofferta da un bambino si vede in tutto il suo corpo. Non è sufficiente capire dai suoi occhi e dalle sue ossa che non mangia carne. E nemmeno dai movimenti della gola: chi mangia ingoia un boccone e chi non ha da mangiare ingoia solo saliva. Mi ricordo un giorno in particolare: ero giovane e mi trovavo all'interno della parrocchia proprio quando il parroco stava iniziando il suo pasto. Fra me e me mi sono detto: se un giorno mai riuscirò a diventare sacerdote allora anche io mi mangerò una gallina intera, tutta da solo! E così con estrema franchezza e tranquillità posso dire che la vocazione per me non è entrata dall'anima ma dallo stomaco. Di certo la mia vocazione è stata dettata maggiormente dalla fame e dalla povertà. E questa, che può sembrare solo una storia di fame e miseria come tante ce ne sono nel Continente da cui arrivo, è stata anche l'ispirazione che mi ha spinto ad andare avanti e a diventare un uomo migliore e sensibile. Ad avvicinarmi ancora di più alla mia gente, al mio popolo e purtroppo ai problemi sociali. Io stesso oggi non so perché sono dove sono e non so chi sono. So solo che nella vita ho imparato a soffrire e a resistere. So solo che nella vita ho lavorato tanto e che ho sofferto la fame. Solo, e in ogni momento della mia vita non mi sono mai e poi mai sentito vinto. Tutto questo mi ha portato ad arrivare dove volevo: in seminario. E anche se in un primo momento il tutto è stato drammatico, la sensazione era quella di non essere desiderato in casa e quindi il seminario poteva essere l'unica soluzione, ho capito che quella era la mia strada. La strada giusta da seguire per lottare in ciò che credevo. Perché io sono convinto di quello che amo, il mio popolo e la mia terra. Io amo la vita e amo gli ideali, la natura, l'ambiente che ci circonda. Amo la Chiesa. Quella Chiesa che ha il coraggio di indignarsi, mettersi in mezzo, compromettersi e difendere il popolo. Ed è proprio per queste ragioni che da quando sono sacerdote non ho mai misurato il mio sacrificio, la mia lotta per la giustizia sociale. Ovviamente dopo essere stato ordinato sacerdote a tutti gli effetti la mia battaglia è proseguita. È stata una sfida avvincente, enorme, per diversi

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motivi: i miei tratti somatici indigeni, la mia statura e la mia giovane età. In molti non credevano in me e nelle mie possibilità. Ma dalla mia parte avevo una caratteristica d'assoluta eccellenza: lo spirito di lotta. Una caratteristica che hanno solo le persone che da sempre sono state costrette a lottare per farsi spazio nella vita. L'esperienza della mia vita mi ha aiutato a vedere meglio quelle che erano le condizioni dell'ambiente che mi circondava: lo sfruttamento terribile della terra da parte dei “ricchi”. Vedevo il popolo soffrire per la mancanza d'acqua. on solo. L'ho visto soffrire le peggiori umiliazioni. Ho visto il popolo subire e venire mandato via dalle terre che abitava, terre ricche di risorse naturali come miniere e boschi. Questo non sono riuscito a sopportarlo. Mi sono reso conto che non sarebbe più servito a nulla scrivere lettere o parlare con qualcuno. Bisognava cambiare. Era necessario passare oltre, giungere a un nuovo step. Mi chiedevo come il 'potere' potesse sedersi allo stesso tavolo di un sacerdote e cominciare un dialogo e non mi davo risposta. Ma è stato l'uragano Mitch abbattutosi sull'Honduras nel 1998 a far regredire il Paese in modo impressionante. Fu una tragedia. Morirono molti cittadini. Una delle motivazioni principali di quel disastro fu da attribuire alla deforestazione. La terra era ormai senza protezioni. Le comunità si ritrovarono senza acqua. La natura aveva fatto il suo corso ma la mano dell'uomo l'aveva aiutata a scagliarsi con forza impressionante e distruttiva. Quando si attacca la natura questa prima o poi si ribella e castiga l'uomo. La convinzione ambientalista che da tempo mi aveva catturato è cresciuta si è fatta più convinta. Per questo e per evitare lo sfruttamento delle multinazionali abbiamo creato il Movimento Ambientalista del Olancho. Quindi sono arrivato fino a oggi, costretto a riparare in Italia perchè nel mio Paese, l'Honduras, la situazione sociale è molto critica. Io sono stato allontanato dal Paese dopo essere stato uno dei più vicini collaboratori del legittimo presidente Manuel Zelaya. Con lui ho passato giorni asserragliato nell'ambasciata brasiliana di Tegucigalapa. Per il suo rientro mi sono speso in prima persona. Ho visto molti amici morire sotto i colpi dei cecchini inviati dall'illegittimo presidente Micheletti, messo lì dagli Usa e dalle multinazionali straniere. Ho sentito la morte in ogni angolo di strada del Paese quando c'è stato il colpo di stato un anno fa. Oggi l'Honduras rischia di diventare uno stato serbatoio per le grandi nazioni, soprattutto gli Usa la cui estrema destra nazionale ha lavorato per il colpo di Stato contro Zelaya e per impossessarsi così delle risorse del Paese. Ma io sono convinto che lottando le cose si possono cambiare. E per me un altro mondo è possibile.

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Padre Andrés Tamayo. Italia 2010. Foto di Alessandro Grandi©PeaceReporter.


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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

Afghanistan

Le buone nuove

Italia sempre più in Garzón a processo guerra

Spagna

Reggio libera Reggio Si chiama tecnicamente ‘vetrofania' l'adesivo, o sticker, da appiccicare sulla vetrina del vostro negozio, per chiarire alla clientela che siete ‘Pizzo Free'; una iniziativa rivoluzionaria per Reggio Calabria, o ‘Ndrinopoli', la capitale della Mafia più feroce, quella da oltre 800 morti nei cinque anni di guerra tra clan negli anni '80. La promuove Libera di Don Luigi Ciotti e vi aderiscono i tre sindacati maggiori, ma anche Confesercenti, Confartigianato e Confcommercio. "È importante notare come l'iniziativa abbia coinvolto sia aderenti di destra estrema come di sinistra, laici come cattolici, confessioni religiose delle più disparate, dai Valdesi ai cattolici ai protestanti", spiega don Mimmo Nasone, animatore di ‘Libera' nella provincia della Calabria citeriore.

Bolivia, Morales chiede scusa ai gay Il presidente boliviano, Evo Morales, ha chiesto scusa per le affermazioni offensive contro gli omosessuali. Il presidente aveva associato il consumo di alimenti transgenici alla possibilità di diventare gay. “Le mie parole sono state male interpretate”, ha affermato Morales, “tutti abbiamo gli stessi diritti e vi sono omosessuali che lavorano anche all'interno degli apparati governativi”. In un paese machista come la Bolvia, anche delle scuse formali sono una buona notizia.

Usa, dubbi sulla guerra afgana Negli ultimi mesi, negli Stati Uniti, le proteste popolari contro la guerra si sono moltiplicate: non più solo grandi cortei nelle grandi città ma decine di sit-in organizzati in contemporanea nelle città di ogni Stato davanti ai locali uffici dei singoli parlamentari. Una protesta capillare che, a quanto pare, sta dando i suoi effetti. Molti politici stanno riconsiderando le proprie posizioni sulla guerra. Lo scorso 10 marzo, quando ben 65 membri della Camera hanno votato una mozione in cui si chiedeva l'immediato ritiro delle truppe statunitensi. La scontata bocciatura della mozione è stata preceduta da un lungo dibattito, senza precedenti, sui costi economici e umani, sulla reale utilità e perfino sulla legalità della prosecuzione della campagna bellica statunitense contro i talebani. 16

n queste settimane stanno iniziando ad affluire in Afghanistan i primi rinforzi militari italiani che il governo Berlusconi ha offerto a Washington e alla Nato, e che nel giro di alcuni mesi porterà le truppe italiane schierate sul fronte afghano dagli attuali 3300 uomini a circa 4000. I nuovi arrivi consistono in due compagnie di bersaglieri della brigata ‘Garibaldi' con cingolati Dardo e una compagnia della brigata di fanteria corazzata 'Pinerolo' dotata di nuovi carri blindati Freccia. Sei-settecento uomini in totale, che vanno a formare un quarto Battle Group italiano (tre sono già operativi) da schierare sul fronte sud-occidentale di Farah, (uno dei più 'caldi' del teatro di guerra afghano), dove dopo l'estate arriveranno a dar manforte anche i lagunari del reggimento 'Serenissima', i Marines italiani, con i loro potenti mortai da 120 millimetri. Lo scorso dicembre, annunciando l'intenzione del governo di inviare questi rinforzi, il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ha chiaramente detto che le nuove truppe verranno impiegate, come quelle già schierate, per combattere: ''Il quarto Battle Group permetterà una svolta radicale nella nostra attività operativa, consentendo alle truppe italiane di bonificare una zona e poi di presidiarla in modo da impedire agli insorti di riconquistarla''. Lo sforzo bellico dell'Italia in Afghanistan continua a crescere senza sosta, in termini di uomini e di mezzi da combattimento inviati al fronte. Questo comporta, oltre al rischio di maggiori perdite, costi economici sempre più gravosi per le malmesse casse dello Stato: almeno 750 milioni di euro quest'anno, contro i 540 milioni dello scorso anno e i 350 del 2008. Un impegno crescente che mal si concilia con le necessità di tagli alla spesa pubblica, oltre che con l'articolo 11 della nostra Costituzione. Un'escalation che sul terreno, lungi dal produrre maggiore sicurezza per la popolazione, sta provocando reazioni sempre più aggressive da parte della guerriglia afghana.

re cause pendenti in Spagna, un posto al Tribunale internazionale per i crimini di guerra dell'Aja. Il protagonista è il “super” giudice Baltasar Garzón dell'Audiencia Nacional, il tribunale speciale di Spagna che giudica su terrorismo, corruzione e narcotraffico. Famoso per aver incriminato Augusto Pinochet, nonostante la legislazione spagnola non ammettesse processi in contumacia, a lui rimase la nomea di 'paladino dei diritti umani'. Gli stessi diritti che non sono stati presi in considerazione in molteplici casi di denuncia di tortura presentati di fronte ai suoi occhi da militanti della sinistra basca. Il giudice chiuse un giornale, “Egin”, una radio, “Egin Irradia”, riviste, organizzazioni e molti militanti soffrirono torture piscologiche e corporali. Ma Baltasar Garzón rimane, nelle cronache del mainstream, il giudice che ha sollevato il processo per i crimini del franchismo. I tre processi a suo carico riguardano accuse di prevaricazione. Nel giudizio sui crimini del franchismo, perché non ne aveva la competenza, per le sue relazioni con il Banco Santander, per le intercettazioni degli avvocati dell'inchiesta sulla corruzione del Partido popular di destra (caso Gurtel). E mentre pendono i processi, il super giudice annuncia che se ne vuole andare all'Aja, dove la sua nomea e la fama che si è costruito in tutti questi anni di giustizia politica gli hanno aperto la strada. A difesa dell'onorabilità del giudice istruttore ci sono personaggi famosi e movimenti di appoggio latinoamericani. Ma le cronache hanno omesso un documento che arriva proprio dal Continente Sud, un appello firmato da associazioni, movimenti e decine di personalità della società civile. Nel testo si legge: “Le centinaia di cittadini che hanno subito percosse, stupri e torture (water-boarding, la “scarica elettrica” o il “soffocamento”) hanno denunciato a viva voce, di fronte al giudice Garzón, queste violenze. In cambio hanno sempre ricevuto il suo silenzio”.

Enrico Piovesana

Angelo Miotto

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thE EMPty hOUsE Testo di Christian Elia e Nicola Sessa. Foto di Gianluca Cecere La versione web del documentario The Empty House, prodotto da PeaceReporter e realizzato da Christian Elia, Nicola Sessa e Gianluca Cecere, è navigabile all'indirizzo www.theemptyhousewebdoc.com


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uesta è una storia di quelle che si raccontano attorno al fuoco o davanti al camino, magari in una giornata di pioggia. Una storia aspra, una storia di guerra. Quelle che, da troppo tempo, si ripetono come una brutta abitudine. Kosovo, 1999. Il mondo guarda il cuore dei Balcani, qualcuno porta i bambini a vedere i caccia bombardieri partire dall'Italia. L'esercito serbo in fuga, le colonne di profughi che prima sono albanesi verso sud, poi serbi verso nord. Nel mezzo i conti da saldare.

Mentre l'Onu si dispiega nella provincia albanese della Serbia, lenta come un autocarro che fa manovra in uno spiazzo troppo stretto, alcune persone scompaiono. Altre erano scomparse prima della guerra. Migliaia. Albanesi e serbi. Le vittime non si scelgono, ma in questa storia ci sono case che sono rimaste vuote. Alcune di loro sono abitate dall'incubo che qualcosa di terribile sia accaduto. Già durante il conflitto, come in tutte le guerre, giravano voci. Secondo alcuni, i miliziani albanesi dell'Uck avevano creato delle prigioni nell'Albania settentrionale, retrovia sicuro. Secondo altri in quelle prigioni c'erano molti serbi, dei quali non si è saputo più nulla. Anche adesso che sono passati più di dieci anni. Per qualcun altro ancora, in quelle prigioni accadevano fatti terribili. Alcuni prigionieri venivano trattati bene per un fine inconfessabile: l'espianto dei loro organi, da rivendere sul mercato internazionale gestito da un racket senza scrupoli. Passano gli anni e le voci si affievoliscono, come i rumori delle bombe, che scivolano in sottofondo. Fino al 2008, quando viene pubblicato il libro di memorie di Carla Del Ponte. Che esplode come una bomba. Il magistrato svizzero, procuratore del Tribunale Penale Internazionale per la exJugoslavia dal 1999 al 2007, si dice certa che il traffico di organi sia avvenuto. Parla di una casa gialla, che adesso è bianca, dalle parti di Burrel, nell'Albania settentrionale. Ora come allora la abita la famiglia Katuci. Sarebbe stato il teatro di orrori terribili. Carla Del Ponte sostiene di non aver potuto indagare, perché i reati sarebbero stati commessi dopo il dispiegamento delle Nazioni Unite, quindi fuori dalla giurisdizione del tribunale. Una spiegazione che non basta alle madri, ai figli, ai mariti e alle mogli,



ai fratelli e alle sorelle che non hanno neanche una tomba sulla quale piangere. Queste persone sono serbe, ma potrebbero essere albanesi, argentine, cipriote. Il dolore è uguale, come l'assenza. Come il vuoto che c'è in una casa, quando il dolore non si può elaborare. Questa storia racconta di loro.

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acconta di pareti che si fanno troppo strette, per contenere il ricordo. Parla di storie che aspettano un finale. Narra di persone che, già logorate da un esito incerto, si sentono dire che la morte potrebbe non essere la cosa peggiore che è capitata alle persone che hanno amato e continuano ad amare. Perché scompaiono le persone, non lo sguardo che ti hanno lasciato l'ultima volta che le hai viste. Uno sguardo che ti chiede giustizia, al quale non puoi rispondere che le indagini sono state fatte male dall'Unmik, la missione Onu in Kosovo. Uno sguardo che non si abbassa solo perché la politica in Serbia si è dimenticata di te, dopo che ti ha sfruttato per anni come un simbolo. Solo che le persone non sono simboli, ma storie. C'è un procuratore, a Belgrado, che non si arrende, anche di fronte a una politica distratta. Ci sono le famiglie degli scomparsi e la loro associazione, che non se la sentono di girare le spalle a quello sguardo. Questa storia racconta di loro.

The Empty House è un viaggio attraverso paesi dove si affacciano case. Case abitate dall'assenza. Riavvolgendo il nastro di un'inchiesta che ha tanti, troppi, buchi neri. Un cammino durante il quale sono state raccolte testimonianze di persone che cercano una risposta. Cica, mentre fuori mulina la neve, tiene stretta la treccia che suo figlio Marjan le ha lasciato prima di svanire nel nulla. Verica, ogni domenica dal 1999, aspetta che suo marito Andrja torni a casa. Olgica, al contrario di sua madre, si è convinta che le ossa che le hanno dato siano dei suoi fratelli, Todor e Lazar, ma non accetta di non sapere chi ha ucciso il loro futuro. Dragica, invece, non ci crede che di suo marito Mladen e di suo figlio Nemanja siano rimasti solo quei poveri resti.



Srdjan è rimasto in Kosovo, mentre tutti scappavano, perché suo fratello Dragan aveva aiutato tante persone quando faceva il sindacalista nella fabbrica dove lavorava e dove l'hanno rapito. Prima o poi, si dice Srdjan, qualcuno parlerà. Anche Bogdan è rimasto in Kosovo e vive a pochi metri dalla fossa dove hanno ritrovato suo fratello Rados. Le sorelle Jasmina e Ivana aspettano che qualcuno spieghi loro come è possibile che il padre sia svanito nel nulla, nella scuola dove lavorava e dove era arrivato accompagnato dai caschi blu dell'Onu.

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n viaggio nel dolore e nella rabbia, dalla periferia di Belgrado, dove molte famiglie hanno trovato rifugio in fuga dal Kosovo, al Kosovo stesso, dove altre famiglie sono rimaste a vivere. Una terra aspra, il Kosovo, raccontata dal poliziotto Antonio Evangelista, che ne ha indagato l'anima nera, e dal generale Fabio Mini, che ha comandato quei caschi blu, a volte impotenti, a volte negligenti. Simbolo di una giustizia internazionale, di una legge che non protegge. Oggi rappresentata dal giudice Usa Robert Dean, che indaga ancora. Passando per la “parola alla difesa”, in prima persona, come sempre, da parte di Ramush Haradinaj, il comandante dell'Uck, indicato dalle famiglie tra i maggiori responsabili del loro dolore, ma assolto dalla comunità internazionale. Un viaggio intenso, fino all'ultimo chilometro, a Burrel. Dove la famiglia Katuci chiude la porta di fronte ai dubbi. Migliaia di chilometri, partendo dalla procura di Belgrado, dove il magistrato Vukcevic indaga e dove il ministro per il Kosovo Bogdanovic tenta di convincersi che sia ancora una storia importante. Lo è di sicuro per l'Associazione delle famiglie degli scomparsi, in un piccolo ufficio della capitale serba. Alle pareti una teoria di volti. Di sguardi. Che chiedono una risposta. The Empty House non cerca una risposta, ma vuole porre una domanda, al di là del fatto che le voci siano serbe. La domanda, qualsiasi sia la lingua nella quale viene posta, è: cosa significa giustizia?


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Notizie che di solito non fanno notizia

Le buone nuove Uruguay, prima donna a Montevideo Indonesia

Algeria

Foreste in estinzione

Operazione militare contro gli islamisti

ontinua la deforestazione illegale in Indonesia, dove la commissione nazionale anti-corruzione ha contestato all’inizio di giugno la violazione delle regole per lo sfruttamento boschivo a oltre 470 compagnie. Tra gli illeciti, permessi scaduti, taglio di legname senza successiva piantumazione, distruzione di alberi per attività estrattive ed evasione fiscale. Tale diffuso stato di illegalità è costato al governo oltre cento miliardi di dollari. In aggiunta al problema della corruzione, anche il gigante anglo-olandese Unilever ha annunciato che continuerà ad acquistare il 65 percento dell'olio di palma necessario per le sue produzioni cosmetiche e alimentari, a dispetto delle preoccupazioni di organizzazioni ambientaliste come Greenpeace, che accusa da anni la Sinar Mas, la più grande compagnia indonesiana che produce olio di palma, di devastazione ambientale dell'habitat naturale di specie a rischio, prima fra tutte l'orango. La corruzione permea ogni livello della filiera, dai manager delle grandi aziende fino al funzionario locale che concede i permessi. La Sinar Mas è una delle compagnie che estrae ettari su ettari di foresta primaria per far spazio alle piantagioni di palme da olio, incoraggiando una deforestazione massiccia che ha fatto balzare l'Indonesia al terzo posto nel mondo per produzione di gas serra, tra le principali cause del riscaldamento globale. Contrastare l'illegal logging, il taglio illegale di legname, è un'impresa impossibile per il governo indonesiano: costosa prima di tutto, poi debolmente efficace, con i mezzi a disposizione dell'ente forestale nazionale. La vastità delle foreste, la scarsità di elicotteri e di equipaggiamento adeguato sono tra le cause che rendono vano ogni tentativo di invertire una tendenza che porterà - secondo le stime del Rainforest Action Network - alla scomparsa del 98 percento del manto verde dell'arcipelago entro il 2022.

esercito algerino ha dato il via, il 20 maggio scorso, a un'imponente operazione militare denominata Ennasar (vittoria). Obiettivo dei soldati di Algeri è il rastrellamento di ventidue province del Paese, nella zona nord orientale dell'Algeria, per “ripulire i covi dei terroristi”, secondo la definizione del comandante in capo delle operazioni. I militari di Algeri sono convinti che l'ex Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, rinominatosi alla fine del 2006 al-Qaeda, nel Maghreb Islamico goda di una rete di appoggi logistici che permette ai miliziani (pur duramente colpiti dalla repressione) di continuare a essere operativi. Questa offensiva è la più imponente dalla riconciliazione nazionale del 2005 e sta impiegando migliaia di soldati delle forze speciali e della polizia, coadiuvati dagli elicotteri dell'esercito. Secondo fonti di stampa locale, il capo dell'organizzazione Abdelmalek Droukedal sarebbe in difficoltà, assediato con i suoi fedelissimi sulle alture di Bejaja, a est di Algeri. Stessa sorte per Abu Musab Abdel Wadoud, braccio destro di Droukedal, circondato nella regione di Zekri, a est di Bejaja. Per anni l'intelligence algerina ha ritenuto che Abdel Wadoud si nascondesse in Cabilia. La prossima estate, poi, sarà scatenata un'altra offensiva che vedrà i militari algerini impegnati al confine sud, di concerto con i militari dei Paesi confinanti. I guerriglieri integralisti, al comando di Mokthar Bel Mokhtar, utilizzano il confine poroso del Sahara per muoversi e sfuggire alle ricerche dei militari algerini. Durante il vertice, svoltosi ad Algeri il 13 e 14 aprile scorso, tra i comandanti di stato maggiore degli eserciti di Algeria, Mali, Mauritania e Niger è stata varata prima una vasta esercitazione congiunta degli eserciti dei Paesi confinanti, in modo da sferrare una grande offensiva in estate. L'Algeria, un anno fa, ha rifiutato di consegnare il comando strategico di queste operazioni agli Usa, mentre il Marocco ha varato il progetto African Lion, di concerto con i marines statunitensi.

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Luca Galassi

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Christian Elia

La comunista Ana Olivera, professoressa di letteratura di 56 anni, è la prima donna nella storia dell’Uruguay a essere eletta Intendente di Montevideo. A queste consultazioni, che sono le quinte nell’arco di un anno e vedevano contrapposti al Frente Amplio, il Partido Nacional, conservatore e nazionalista, e il Partido Colorado, liberale, ha partecipato il novanta percento della popolazione uruguayana avente diritto al voto, due milioni e mezzo circa di persone.

Educare alla pace attraverso i film Il sito internet NFB.ca della National Film Board of Canada ha dato vita ad una nuova sezione interamente dedicata alla guerra e alla pace. Creata da Douglas Roche, autore di 19 libri, parlamentare e diplomatico specializzato in pace e diritti umani, The Strength of Peace raccoglie film e documentari prodotti negli ultimi decenni, oggi ancora attuali grazie alle tematiche affrontate. La nuova sezione del sito, in francese e in inglese, si prefigge lo scopo di aiutare la promozione di una cultura della pace nella speranza di far diventare norme di vita moderna il rispetto per tutte le forme di vita, il rifiuto della violenza, la condivisione con gli altri, la cura per il pianeta: “la migliore, se non unica, strada per arrivare a questo è l'educazione”, scrive Roche.

Croce Rossa, lezioni di soccorso ai talebani Lo scorso aprile, secondo quanto riporta il quotidiano britannico Guardian, la Croce Rossa ha iniziato a impartire lezioni di primo soccorso non solo, come ha sempre fatto, ai soldati e ai poliziotti afgani e ai tassisti locali (che spesso svolgono il ruolo di ambulanza), ma anche ai membri delle “opposizioni armate”, ovvero ai talebani, affinché questi siano in grado di prestare le prime cure a chi ne ha bisogno, siano essi civili o combattenti.

Cina, vince chi sciopera In Cina, gli operai di uno stabilimento della Honda sono riusciti a ottenere un aumento sostanzioso sulla propria busta paga al termine di uno sciopero che la settimana scorsa aveva costretto la compagnia giapponese a sospendere la produzione. È successo a Foshan, nel sud del Paese, dove un centinaio di operai hanno protestato davanti ai cancelli della fabbrica per ottenere un aumento di 800 yuan, a fronte di stipendi che oscillano tra i 900 e i 1.300 yuan, vale a dire tra i 108 e i 166 euro. Lo sciopero è uno strumento di lotta considerato illegale in Cina e come tale duramente represso, tanto che anche questa volta gli operai hanno denunciato di aver subito percosse e ricevuto minacce da funzionari dell'azienda. 17


Scrittori Afghanistan

In viaggio da una vita di Benedetta Guerriero Enaiatollah Akbari è nato a Nava, un piccolo villaggio situato a sud di Kabul. La sua età, però, è un mistero, nessuno sa con esattezza quando sia venuto al mondo. Nemmeno lui. otrebbe avere vent'anni o poco più: la maggior parte della sua vita l'ha trascorsa nel lungo viaggio che l'ha portato dall'Afghanistan in Italia, passando attraverso il Pakistan, l'Iran, la Turchia e la Grecia. Quel che è certo, invece, è che Enaiatollah ha conosciuto molto presto la violenza e che è un hazara, “Afghani - come scrive nel libro - con gli occhi a mandorla e il naso schiacciato”, una minoranza mal vista in Afghanistan. Orfano di padre, fin da piccolo è stato abituato a nascondersi prima dai pashtun e dai talebani e infine dai poliziotti dei vari Paesi in cui ha vissuto come immigrato irregolare. I ricordi del suo lungo viaggio, che si è concluso a Torino, sono raccolti in un libro “Nel mare ci sono i coccodrilli”, scritto da Fabio Geda, che ripercorre l'intensa vicenda di Enaiatollah.

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Da dove è nata l'idea di scrivere un libro? Non è merito mio, ma di Fabio. Ci siamo incontrati durante la presentazione di un altro suo libro “Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani” che narra un'altra vicenda di emigrazione, quella di un adolescente romeno. Ero presente come ospite e, dopo che Fabio ha ascoltato la mia storia, ha deciso di raccontarla. Un'occasione imperdibile, che ho colto al volo. “Nel mare ci sono i coccodrilli” sta avendo un grosso successo. Ti aspettavi tutta questa attenzione da parte del pubblico e dei media? No, ma sono molto felice che la mia storia abbia affascinato e attirato l'interesse di tante persone. Da quando sono arrivato in Italia ho letto molti libri, ma sono pochi i testi che mi hanno colpito e che mi hanno lasciato qualcosa. Fammi degli esempi? Un autore che mi è piaciuto molto è Primo Levi, mentre uno dei miei romanzi preferiti è “Il vecchio e il mare” di Hemingway. Dopo aver letto le opere di questi scrittori, sognavo anch'io di poter scrivere un libro che potesse emozionare. Spero che “Nel mare ci sono i coccodrilli” non lasci indifferenti i lettori, specie quelli giovani. Vorrei che i ragazzi italiani si rendessero conto della loro condizione privilegiata e di quanto è grande e eterogeneo il mondo. Ti senti fortunato? Per molti tuoi coetanei afghani il viaggio non si interrompe mai e non c'è lieto fine... Sì, certo. Ho avuto tanta fortuna, e non potrò mai dimenticare quello che ho vissuto, anche se vorrei accadesse. Ora sono in affido presso una famiglia di Torino e ho due fratelli che mi hanno aiutato e dato tanto affetto. Molti miei coetanei vivono l'inferno dei dormitori, dei luoghi dove alle sette del mattino sei costretto a uscire per ritornare la sera. Ai minorenni, invece, spetta la comunità. Per noi afghani, tra l'altro, la situazione è molto più complessa, perché spesso 18

non conosciamo la nostra età e l'esame che ci fanno non è quasi mai obiettivo. Iniziamo a lavorare da bambini e le articolazioni si sviluppano più in fretta. Qual è stato il momento peggiore da quando hai lasciato l'Afghanistan? Quando mi sono svegliato in Pakistan e ho scoperto che la mia mamma era partita per tornare dai miei fratelli e mi aveva lasciato solo. È stato terribile, avevo all'incirca dieci anni e mi sono sentito abbandonato. Non ho mai più provato una solitudine così intensa, profonda. Ho pensato seriamente di non farcela. Il libro termina con la prima telefonata a tua madre dopo che vi siete separati. La senti ancora? Sì, sono in contatto con la mamma e con i miei fratelli. Anche loro hanno lasciato l'Afghanistan e ora vivono in Pakistan, a Quetta. Sono molto contento di riuscire ad aiutarli e che mio fratello minore stia studiando. Li sento spesso e mi mancano. Spesso nel libro parli del tuo desiderio di poter studiare. Mi ha colpito in particolare quando racconti che, mentre eri costretto a lavorare in Pakistan, ti distraevi osservando i bambini che uscivano da scuola e pensavi ai tuoi compagni. Da dove trae origine questo tuo amore per la scuola? Penso che avere la possibilità di studiare sia un privilegio enorme. Anche quando vivevo a Nava mi piaceva moltissimo andare a scuola ed ero molto affezionato al mio maestro, che è stato ucciso dai talebani davanti a noi bambini. Nonostante i divieti, il mio maestro è andato avanti a insegnare e ha pagato con la vita. Per me è stato un grande esempio. Quando i talebani hanno chiuso la scuola è come se avessero spento la luce, perché quello era il luogo dove c'erano gli amici, la cultura. Tutto. Appena mi sono sistemato a Torino, ho ripreso subito a studiare e continuo anche ora. Il mio sogno è frequentare l'università. Tornerai in Afghanistan? Mi piacerebbe molto, ma devono cambiare le condizioni. Vorrei tornare in un Afghanistan dove pashtun, tagiki, hazara fossero tutti cittadini di una stessa nazione, senza differenze. Non sono favorevole alla guerra, ma desidero un Afghanistan libero dai talebani che sono dei pazzi, dei fanatici. Recitano a memoria il Corano, ma non sanno nemmeno contare fino a quattro. Com'è la tua vita adesso? Bellissima e piena di impegni. Sto studiando per diventare educatore e mi piacerebbe lavorare con le persone disabili o con i minorenni stranieri. Penso che la mia esperienza possa essere di aiuto. In alto: Contadini hazara al lavoro. Afghanistan 2009. Foto di Enrico Piovesana ©PeaceReporter. In basso: Enaiatollah Akbari. Archivio PeaceReporter.


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L’intervista Italia

Frugando nella Borsa di Angelo Miotto È un trader. Lavora da anni, tanti, in quello che la percezione comune chiamava e continua a chiamare “giocare in borsa”. L'attacco della finanza speculativa che ha contrassegnato tre giorni di panico puro di fronte al default greco l'ha vissuto e percepito davanti ai suoi terminali, rispondendo alle chiamate dei molti clienti preoccupati. Rassicurandoli.

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o cercato di tranquillizzarli - spiega a PeaceReporter Niccolò Mancini - dicendo a chiare lettere che ormai gli attacchi speculativi, con forzature date dal fatto che il denaro costa poco, si stanno ripetendo a intervalli sempre più brevi”. Come si è reso conto che la tempesta si stava abbattendo sulla Borsa in quelle ore? “Ho guardato il differenziale dei tassi fra titoli italiani, spagnoli e tedeschi, che si allargava a favore di quelli tedeschi. Evidenziando che c’era uno Stato con un forte grado di rischio. Nel caso della Grecia arrivava addirittura al 15 per cento. I Cds (Credit Default Swap) greci davano un 80 per cento di possibilità di andare in default. Se la Grecia fosse crollata, sarebbe saltato l'Euro.” Attacco speculativo. Ma chi ci guadagna? “È stato sicuramente un attacco speculativo, che ha colto il momento di una crisi forte, quella greca, che andava avanti da qualche mese e che si era espansa al Portogallo. In quelle ore ho notato che, in Italia, tutti citavano solo Grecia, Portogallo e Spagna, ma in pochi hanno parlato di quello che è avvenuto e avverrà in Italia. Dal punto di vista del differenziale con la Germania il nostro Paese è poco distante dalla Spagna: sui titoli con scadenza a 10 anni abbiamo uno spread - la differenza fra il rendimento dei titoli tedeschi e italiani - superiore a quello della Spagna. Quindi l'Italia per finanziarsi deve pagare, a chi la finanzia, interessi più elevati, perché c'è incertezza sui suoi conti. Da noi si continuava a scrivere Pigs: Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna. Ma all'estero aggiungevano una 'i', includendo anche l'Italia. Questo attacco speculativo, che diversamente da quello che abbiamo vissuto due anni fa è imputabile solo marginalmente agli hedge funds, ha visto protagoniste le grandi banche, da Goldman Sachs a Morgan Stanley, che muovono importanti capitali e, nonostante il fondo messo a loro disposizione dalla Banca Centrale Usa, il TARP, sono riuscite a ripagarlo in meno di due trimestri grazie a una attività di trading imponente, comprando e vendendo titoli, valute, bond. Il fulcro di questo attacco sono stati questi Cds, strumenti finanziari nati come forma di copertura rispetto alle società e al debito degli Stati. Funzionano così: io, grande investitore, ho una esposizione, per esempio, di 10 miliardi in titoli di Stato italiani. Comprando Cds mi proteggo dall’eventualità che lo Stato/società sottinteso dal titolo che ho acquistato fallisca. Ma con il tempo anche i Credit Default Swap sono diventati come i futures sui bond o sulle azioni, un tipo di investimento altamente speculativo e soprattutto con poche regole. Il problema è che dietro questi Cds c’è un mercato di circa 45 trilioni di dollari, una cifra che è difficile anche pronunciare.” Ma i grandi speculatori hanno una strategia di mossa e contromossa studiata, o si muovono a seconda dei propri singoli interessi? 20

“Non credo a un intervento coordinato, perché come dimostra l'esperienza ognuno si muove per se stesso. Certo, quando leggo sui giornali che vengono chieste opinioni fondamentali sull'andamento dell'economia a uno come George Soros - che nel 1992 causò l'affondamento della Lira e attaccò la Sterlina - qualche dubbio mi viene. È chiaro che in questa situazione in cui il danaro non costa nulla, quando l'Euribor sta a poco più dello 0,6 per cento, le banche hanno grandi facilità a finanziarsi e così anche i grandi speculatori. È chiaro che si instaurano dei meccanismi per cui, in una fase di incertezza, è più semplice attaccare uno Stato. Abbiamo visto come le grandi società abbiano registrato utili elevati nelle ultime trimestrali. Utili record. Mi balza agli occhi che il potere sempre più forte delle lobby, soprattutto negli Usa, è riuscito a bloccare la legge che il presidente Obama voleva per limitare, appunto, le manovre delle grandi banche, too big to fail . In questo caso c'era un problema evidente dei conti greci fuori controllo, ma era un problema noto da due o tre mesi. L'Europa avrebbe potuto evitare tutto quello che è accaduto muovendosi velocemente. Ma c'erano le elezioni tedesche... Ancora una volta Bruxelles si è mossa in maniera slegata e solo dopo la telefonata perentoria di Obama, preoccupato per un effetto a catena sui mercati statunitensi.” C'è chi sostiene che di fronte a operazioni speculative le Banche centrali debbano comprare azioni e titoli sotto attacco. “Può essere un’ipotesi percorribile per quanto riguarda i titoli emessi dagli Stati, mentre sono assolutamente contrario a un intervento di salvaguardia dei titoli azionari o obbligazioni di singole società private. Se si ritiene che le azioni siano sottovalutate, sono le aziende private che devono organizzare dei piani di buy back, riacquistando le proprie azioni. D'altronde, se ci fosse una regolamentazione, che le lobby non vogliono, nel mercato dei “derivati” e dei Cds non assisteremmo a queste cose.” Vi sono intellettuali ed economisti che parlano dello shock finale del capitalismo. “Penso che il capitalismo così come lo abbiamo visto fino a oggi sia finito. Il problema è che cercano di mantenerlo in vita con le unghie e con la forza. Ma, ripeto, si devono introdurre regole per evitare il rischio per gli Stati e sul debito degli stessi. Nel prossimo futuro queste tensioni si acuiranno; le regole non servono per limitare gli investimenti ma le speculazioni che hanno strumenti difficilmente combattibili.” Regolamentare: non si vuole, non si è capaci o è troppo tardi? “Non si vuole.” Quindi, secondo Lei, siamo condannati a immagini come quelle delle contestazioni drammatiche di Atene? “Assolutamente sì.” Piazza Affari, Milano. Italia 2009. Foto Archivio PeaceReporter.


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Italia

Lacrime e sangue. Per nulla di Andrea di Stefano Un piano di lacrime e sangue non garantisce alcuna ripresa della salute dell’economia italiana e soprattutto non interviene sugli squilibri italiani, sia in termini di diseguaglianze sia in termini di criticità di un sistema produttivo che vive sulle piccole e medie imprese con specializzazione produttiva molto delicata. l Paese avrebbe bisogno, invece, di nuovi condoni edilizi (e forse fiscali), di un piano d’urto basato su una profonda revisione della spesa pubblica (riforma fiscale e taglio alla spesa) accompagnato da importanti interventi di politica economica (banda larga, trasporto pubblico, reti energetiche e rinnovabili) e da una forte azione politica a livello internazionale (sostegno alla tassa sulle transazioni finanziarie, abolizione dei mercati non regolamentati, agenzia sopranazionale di regolamentazione dei mercati). Sul primo fronte è indispensabile un’immediata revisione della tassazione delle rendite finanziarie, l’incremento di almeno un punto percentuale dell’aliquota massima dell’Iva (dal 20 al 21 percento), la defiscalizzazione dei prodotti a basso impatto ambientale e la reintroduzione di un’imposta comunale sugli immobili. Accanto a questi interventi andrebbe sostenuta la tassa sulle transazioni finanziarie (www.zerozerocinque.it): si stima che tassando dello 0,05 percento (un valore intermedio nella forbice tra le proposte più severe che puntano allo 0,1 e le più morbide che propongono lo 0,01) ogni compravendita di titoli e strumenti finanziari nella sola UE si potrebbe registrare un gettito tra i 163 e i 400 miliardi di dollari annui, mentre a livello mondiale il gettito sarebbe compreso tra 400 e 946 miliardi di dollari l’anno. Una piccola goccia nel mare di danaro speso sinora per salvare la finanza e le banche: secondo il Fondo Monetario Internazionale sinora gli Stati hanno speso 13.620 miliardi di dollari. I cardini delle nostre politiche economiche ruotano tutti intorno all’incremento degli investimenti in tecnologia, ricerca e sviluppo anche come forma per combattere il declino economico di interi comparti industriali (chimica, metalmeccanica, elettronica, tessile, solo per citare i più importanti). Va impressa un’immediata e forte inversione di tendenza rispetto agli ultimi vent’anni con un grande piano nazionale per la nuova rete di telecomunicazioni e energia in grado di impattare concretamente sul Pil anche a livello locale. Quello che bisogna evitare è di sperperare decine di miliardi con un irrealistico piano per il rilancio del nucleare. Citigroup, uno dei principali istituti di credito al mondo, ha pubblicato un report che dice già tutto nel titolo

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“New nuclear: why the economics says no!” Nuovi investimenti in questo settore sono considerati ad alto rischio e soprattutto antieconomici perché un Mwh di energia elettrica costerà almeno 70 euro, più del doppio delle stime Enel e nettamente più caro degli attuali costi di produzione dell’energia con combustibili convenzionali o con le rinnovabili, eolico in testa. l ruolo della tecnologia e degli investimenti in ricerca è ben evidenziato da una recente analisi di Roberto Romano: la quota del commercio internazionale dei beni ad alta e media tecnologia è passata dal 15 percento del 1985 al 40 percento del 2006. “Nei Paesi che hanno una spesa in ricerca e sviluppo prossima al 2 percento del Pil, le ore lavorate per addetto sono sempre più contenute delle ore lavorate nei Paesi che hanno una spesa per ricerca e sviluppo prossima o di poco superiore all’1 percento del Pil. Alcuni esempi possono aiutarci: la Germania spende per R&S (Ricerca e sviluppo) il 2,53 percento, mentre le ore lavorate annue sono pari a 1433 ore; la Danimarca spende per R&S il 2,48 percento con 1574 ore di lavoro annuo - scrive Romano -, diversamente da questi Stati, troviamo Paesi come l’Italia che spende in R&S l’1,18 percento del Pil, ma con un monte ore per addetto tra i più alti d’Europa, cioè 1824 ore; la Polonia che spende in R&S lo 0,57 percento, mentre un lavoratore deve occupare 1976 ore. L’aspetto dirimente per questi Paesi non è tanto e non solo il lavoro flessibile, piuttosto la probabilità di trovare lavoro è legata al solo lavoro flessibile, cioè il lavoro tipico diventa un’eccezione, alimentando per questa via la de-specializzazione del Paese. L’esito non è sorprendente. Infatti, la spesa in ricerca e sviluppo rappresenta il livello tecnologico di un Paese, cioè la possibilità di estrarre maggiore valore aggiunto rispetto a tutti quei Paesi che devono agire dal lato del costo, quindi anche del costo del lavoro”.

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In alto: Energia nucleare. Foto Archivio PeaceReporter. In basso: Energia eolica. Foto Archivio PeaceReporter.


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Migranti

Uomini di seconda categoria di Gabriele Del Grande “Caro Gabriele, ho importanti notizie sui prigionieri somali a Gatrun, c’è stata una rivolta, la situazione è molto tesa, apprezzerei tantissimo se potessi chiamarci.” erozero duecentodiciotto novedue seitrequattro… Libia. Era un numero sconosciuto, ma la cosa non mi stupiva più di tanto. Non era la prima volta che mi arrivavano messaggini anonimi dalla Libia. Da quando ero stato a Tripoli il numero del mio cellulare circolava tra gli eritrei e i somali della capitale. Entrai in una ricevitoria, comprai una scheda prepagata e chiamai. Rispose una voce sconosciuta. Un uomo. Parlava arabo. Ci capivamo a stento. Diceva che si trovava nel carcere di Gatrun. Chiesi di passarmi qualcuno che sapesse l’inglese, ma a quanto pareva nella sua cella non c’era nessuno. Disse di richiamare dopo una mezz’ora. Quando lo feci, fui stupito di sentire la voce di una donna, che oltretutto mi dava il buongiorno in italiano. Rimasi muto per qualche secondo prima di risponderle. Si chiamava Mona. Era la moglie di Abdirahman, il tipo che mi aveva risposto prima. L’italiano l’aveva imparato nel 1994 con i soldati italiani impiegati nella missione di pace, Restore Hope, a Mogadiscio. Erano passati quindici anni da allora, gli italiani se ne erano andati insieme a tutti i caschi blu delle Nazioni Unite, ma in Somalia la guerra non era mai finita. Prima di partire, Mona aveva lavorato con la missione di Medici senza frontiere a Mogadiscio, dove aveva fatto conoscenza con dei medici di Roma. Si ricordava ancora nomi e cognomi di tutti. Conosceva a memoria persino l’indirizzo. Mona era in quel carcere da due mesi. Si lamentava del cibo, delle guardie, della sporcizia. Era un fiume di parole. Ma un po’ per l’accento e po’ per la linea disturbata perdevo metà di quello che diceva. Una cosa però la capii bene: “La barca degli italiani”. Mona diceva che c’era un gruppo di somali riportati sulla barca degli italiani. Fermati in alto mare sulla rotta per Lampedusa e riportati in Libia. Erano lì in carcere con lei e Abdirahman. Abdu Wali era uno di loro. Me lo passò al telefono: “Siamo partiti il 27 agosto, da Tripoli. Eravamo ottantuno, tutti somali. Con noi c’erano diciassette donne, sette bambini e una donna anziana. Dopo due giorni di navigazione verso nord, il gommone aveva incontrato una motovedetta maltese. Ci hanno dato acqua e giubbotti di salvataggio. Abbiamo chiesto loro la direzione per Malta, non volevamo andare in Italia, l’intermediario ci aveva detto dell’accordo con la Libia e pensavamo che se fossimo arrivati a Malta non saremmo stati respinti. Allora ci hanno detto di seguirli e ci hanno accompagnato per altre cinque ore. Poi però sono arrivati gli italiani”. Il racconto di quelle ore coincideva con la cronaca delle agenzie di stampa del 30 agosto 2009. L’imbarcazione era stata intercettata a ventiquattro miglia di distanza da Capo Passero, in provincia di Siracusa. Cinque dei passeggeri erano stati trasferiti in ospedale in condizioni critiche, a Malta e in Sicilia. Tutti gli altri erano stati trasbordati su un pattugliatore d’altura della Guardia di Finanza e riportati in Libia. “Quando ci hanno preso a bordo non ci hanno detto dove ci stavano portando, l’abbiamo capito soltanto il giorno dopo. Eravamo in mare da troppo tempo. Ci stavano riportando indietro a Tripoli. Fu allora che sul ponte scoppiò la protesta. Ci hanno diviso. Le donne con i bambini stavano da una parte. Gli uomini dall’altra. Le donne piangevano, gli uomini gridavano. Per fortuna c’erano tre

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uomini che parlavano inglese e facevano da interpreti con gli italiani. ‘No life in Libya’ dicevano. Gli abbiamo spiegato che siamo somali, che in Somalia c’è la guerra e che in Libia ci avrebbero arrestati. Chiedevamo asilo politico, e se proprio volevano respingerci, insistevamo perché ci rimandassero in Sudan, dove non avremmo corso rischi, ma non in Libia.” “Inizialmente i militari italiani sembravano ben disposti, addirittura toccati. A bordo c’era un ufficiale più anziano degli altri. Era un signore con i capelli bianchi. Piangeva, era commosso vedendo le donne e i bambini in lacrime e la signora anziana, e al pensiero di rimandarci in galera. Ci ha tranquillizzato, ci ha detto di non preoccuparci, che avrebbe chiamato Roma per sapere cosa fare. Ma evidentemente Roma dette l’ordine di proseguire. La motovedetta libica sopraggiunse poche ore dopo. E iniziò la manovra di abbordaggio. Li avrebbero trasbordati in alto mare e i libici li avrebbero ricondotti al porto di Tripoli. Fu allora che esplosero le proteste. Le donne e i bambini piangevano e tra noi uomini c’era chi minacciava seriamente di buttarsi in mare. Ci sono stati momenti di grossa tensione, i militari italiani hanno dovuto usare la forza per fermarci, si sono accaniti a manganellate contro un povero ragazzo. Ma noi di salire con i libici non volevamo saperne. Alla fine hanno deciso di non trasbordarci e siamo rimasti sulla barca degli italiani fino al porto di Tripoli. Uno di noi aveva il numero di telefono del corrispondente da Roma dell’edizione in lingua somala della radio della Bbc. L’abbiamo chiamato e gli abbiamo raccontato quello che stava accadendo. Non sapevamo cosa fare, ormai stavamo entrando nel porto di Tripoli. Appena a terra, sul molo, le proteste cessarono immediatamente. Conoscevamo la polizia libica. Se ci fossimo soltanto azzardati a parlare ci avrebbero bastonato senza pietà. Ci hanno chiusi dentro un camion e ci hanno portato tutti in carcere. Uomini, donne e bambini.” ggi, a distanza di nove mesi dal loro respingimento in Libia, da quel carcere i respinti non sono mai usciti. Sono uomini, donne e bambini. Alla faccia di chi sostiene che in Libia le Nazioni Unite siano in grado di tutelare il diritto d'asilo. Hanno i volti e le storie di Mona, di Abdirahman e di Abdu Wali. Sulla loro sorte però si è accesa una speranza. La Procura di Siracusa infatti ha chiesto il rinvio a giudizio di tutta la catena di comando che ordinò da Roma il respingimento in Libia, quel 30 agosto 2009. E al centro delle indagini sono finiti il direttore centrale dell'immigrazione e della polizia delle frontiere del Viminale, Rodolfo Ronconi, e il generale della Guardia di Finanza, Vincenzo Carrarini. L'ipotesi di reato contestato è di concorso in violenza privata.

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In alto: Sbarco immigrati clandestini. Lampedusa, Italia 2003. Foto di Lannino Giacomino Foto. In basso: Manifestazione “Io non respingo”. Roma, Italia 2009. Foto di Paolo Caprioli/Fotogramma.


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Rubriche

A teatro di Silvia Del Pozzo

Napoli in scena In tivù di Sergio Lotti

Duri colpi alla mafia

Il delitto Pasolini A trentacinque anni dall’omicidio di Pier Paolo Pasolini, avvenuto nella notte tra il 2 e il 3 novembre 1975 sul lungomare di Ostia, Gianluca Maconi ricostruisce minuziosamente le ultime ore di vita del poeta: l'intervista con Furio Colombo, la cena con Ninetto, la tremenda aggressione, il ritrovamento del corpo martoriato alle luci dell'alba, le prime indagini che mettono in evidenza - fin da subito - le contraddizioni del racconto di Pino Pelosi. Ne esce un ritratto umano, straziante del grande poeta. Uno squarcio sui suoi pensieri più intimi, la piena consapevolezza della sua scomodità e - forse - del suo tragico imminente destino.

Il delitto Pasolini di Gianluca Maconi con la Prefazione di Furio Colombo Edizioni BeccoGiallo 96 pagine, b/n, Euro 14,00 beccogiallo.it

Gli eventi, giorno dopo giorno, gli hanno dato ragione e ne hanno fatto un profeta. Come un implacabile giocatore di bowling, Pasolini ha centrato in pieno quei due puntelli di una regolare vita pubblica che - lui ci stava dicendo era solo finzione e illusione. dalla prefazione di Furio Colombo

Provoca sdegno e sgomento il racconto, andato in onda durante Annozero, del padre di uno dei due poliziotti che probabilmente salvarono la vita al giudice Giovanni Falcone nell’attentato dell’Addaura, più di venti anni fa. Questi due poliziotti si avvicinarono agli scogli a bordo di un canotto, facendo pensare in un primo momento che la minaccia venisse dal mare, mentre invece in una ricostruzione successiva sarebbe venuta da terra e non avrebbe raggiunto l’obiettivo proprio per l’intervento dei due agenti, che forse avevano visto troppo, perché sono entrambi morti in circostanze poco chiare. Almeno uno di loro aveva capito di essere in pericolo, perché aveva lasciato un biglietto nel portafoglio, dove aveva scritto che se gli fosse successo qualcosa dovevano guardare nel suo armadio e avrebbero capito tutto. Il padre lo disse alla polizia, l’armadio fu perquisito, ma gli fu riferito che non c’era niente d’importante. La rabbia di questo padre lampeggia ancora negli occhi nascosti fra la folta barba bianca. Una rabbia dovuta anche al fatto che venti anni dopo non si è ancora arrivati alla verità, mentre si fa avanti l’idea che nella uccisione dei giudici Falcone e Borsellino, accanto alla mafia, ci possa essere stata la mano di qualche infedele servitore dello Stato. Sarà anche vero che questo governo ha inflitto duri colpi alla mafia, come vanno ripetendo alcuni suoi illustri rappresentanti, ma non si direbbe proprio ascoltando l’imprenditore lombardo, anche lui intervistato ad Annozero, che si è trovato nei guai per aver fatto lavorare gente in odore di ‘ndrangheta. Secondo lui anche al nord, compresa l’area milanese, molti imprenditori sono costretti a lavorare con mafiosi. Anche se lo sanno, fanno finta di niente perché hanno paura. A chi gli chiede perché, se aveva paura e si sentiva sotto ricatto, non si è rivolto agli organismi competenti, allo Stato insomma, l’imprenditore risponde: quale Stato? Dov’è lo Stato? Non sono gli stessi uffici e organismi che consentono a questi signori di lavorare? Chi è che rilascia loro le necessarie autorizzazioni? Il significato di queste parole, indipendentemente dalla buona fede o meno del singolo imprenditore, appare molto chiaro: chi ha il dovere di fermare le infiltrazioni mafiose non può limitarsi ad accusare le imprese di collusione, senza aver offerto loro una credibile protezione.

Chiusi per la pausa estiva i teatri di città, inizia con giugno la stagione dei festival, tra le solite, ma quest’anno anche più gravi, difficoltà di finanziamento e qualche ritardo nella definizione dei programmi. Tra i più interessanti va segnalato il Napoli Teatro Festival (427/6), con un cartellone ricco di appuntamenti curiosi che si svolgono in ventitré diversi spazi cittadini: non solo teatri ma angoli di Napoli con una storia e un fascino particolare, come il Maschio Angioino, l’Albergo dei poveri, i Quartieri spagnoli o l’ex-Birreria Milano, per un totale di ben trentacinque spettacoli (oltre ai trentanove del Fringe festival). Il “tempo” è il filo rosso che attraversa questa terza edizione: si va da spettacoli di dodici ore a quelli di appena dieci minuti, recitati all’improvviso alle fermate degli autobus, negli atri di palazzi storici, in uffici pubblici (la rassegna “L’attesa” è curata da Mario Fortunato). Tra gli show ‘lunghi’ il record va a “Delitto e castigo”, riduzione del romanzo di Dostoevskij da vivere per due giorni nei vicoli e nel teatro dei Quartieri Spagnoli, mangiando e dormendo in un albergo della zona. Non è da meno lo spettacolo di Peter Stein che porta in scena (alla ex-Birreria Milano) un altro Dostoevskji, “I demoni”, spettacolo che dura nove ore, con due intervalli dove si servono pranzo e cena. “Bizzarra” - di nome e di fatto- è l’insolita teatro-novela in programma, un’ora al giorno per venti giorni, al teatro Sannazzaro: ambientata in una Buenos Aires agitata da scioperi e tensioni sociali che assomiglia molto a Napoli. Nell’estate dei mondiali in Sudafrica due omaggi al calcio: “El Diego” tributo al pibe de oro, idolo mai dimenticato dei napoletani, con un concerto per immagini al teatro San Carlo, musiche di Roberto de Simone; e “Football football”, spettacolo di teatro-danza che mette in luce l’essenza di uno ‘sport semplice che travalica confini, classi sociali, razze e idee politiche’ dice il regista Haris Pasovic. E ancora, scegliendo tra le proposte più curiose: in “Tango Toilet” una coppia balla nello spazio angusto di una ‘toilet’, mentre Giancarlo Sepe con “Napoletano” racconta la storia di una famiglia partenopea al ritmo del popolare ballo argentino. Nella ormai consolidata tradizione di rivisitare i classici in chiave contemporanea, l’inglese Alexander Zeldin mette in scena “Romeo e Giulietta” con attori nordafricani e mediorientali, a rappresentare il mondo multietnico dei giovani di oggi a confronto con la realtà dei loro genitori. E poi, Alessandro Gassman si confronta con “Immanuel Kant” e Marco Balliani con “La Repubblica di un solo giorno”, racconto dell’ultima notte della repubblica romana del 1848. Gli appuntamenti sono molti e i più non inclusi in questo elenco: per esempio la danza, di cui segnaliamo almeno la performance di Claire Cunningham che con “ME (Mobile/Evolution)” esplora le possibilità di movimento armonico di chi può muoversi solo con le grucce. Napoli Teatro Festival Italia: Napoli, spazi vari; info e prenotazioni tel. 081 19560383 27


Al cinema di Nicola Falcinella

Il tempo che ci rimane Un anno dopo il suo passaggio in concorso a Cannes arriva in Italia “Il tempo che ci rimane” di Elia Suleiman. Uno dei più conosciuti registi palestinesi, assente dagli schermi dal tempo del memorabile “Intervento divino”, premiato sempre al festival francese nel 2002. Questo somiglia molto a quello e dunque è meno sorprendente, ma godibile, forte e interessante. Quattro momenti della storia palestinese dalla nakba, catastrofe in arabo, (la festa dell’indipendenza in Israele, che ha significato la fine della Palestina e l’inizio dell’esodo dei palestinesi) dal ‘48 a oggi, partendo dai ricordi del padre del regista. Suleiman, anche protagonista, ha la rara capacità di trattare temi tragici con una maschera comica (e spesso muta, come il suo modello Buster Keaton). Alla base c’è l’idea che le cose siano rimaste nel tempo uguali se non peggiorate e molto meno chiare; tutto è raccontato in una chiave surreale consentendo riflessioni che la mera adesione alla cronaca impedirebbe. E, che si rida un po’ meno che nel film precedente è segno dei tempi correnti. Il finale è naturalmente contro gli estremismi e gli integralismi, anche se le situazioni mostrate possono, grazie all’esasperazione e all’invenzione, affrancarsi dal politicamente corretto. Nella memoria restano le gag, per esempio quelle dei miliziani palestinesi che si trasformavano in ninjia nel film precedente “Intervento che resta”. Oppure un soldato che ha

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perso la strada o ancora i soldati israeliani a Ramallah che ondeggiano dentro la jeep al ritmo della musica ascoltata dai loro coetanei arabi. E soprattutto lo stesso Suleiman che impugnando l’asta per il salto in alto riesce a scavalcare il muro eretto dagli israeliani intorno ai territori, e anche più in là. Forse l’unico modo per superare uno dei simboli più forti della divisione fra i popoli che purtroppo ancora c’è. È il messaggio che serve una botta di fantasia per uscire dalla spirale di odio, pregiudizi e rivendicazioni reciproche per arrivare ad assicurare pieni diritti sia agli israeliani sia agli arabi che vivono tra Israele e territori dell’autorità palestinese.

In libreria di Licia Lanza

Finchè avrò voce di Malalai Joya Malalai è nata in Afghanistan e rappresenta la generazione dei trentenni che non hanno mai visto la pace: dall’invasione dell’ex Unione Sovietica alla guerra civile, dal regime dei talebani all’occupazione degli americani e degli alleati della NATO, fino all’attuale governo di Karzai. Quando Malalai ha la possibilità di entrare a far parte dei delegati della Loya Jirga, il gran consiglio afghano che ha il compito di governare il nuovo corso, si trova fianco a fianco con i criminali che negli anni hanno distrutto il suo Paese. Consapevole di fare una scelta che condizionerà per sempre la sua vita, prende la parola e decide di dare voce a tutti gli afghani che questa voce non ce l’hanno, condannando pubblicamente i signori della guerra. “Infedele” e “prostituta” sono le offese che le urla l’aula. Da quel giorno Malalai è oggetto di continue minacce di morte, di attentati e viene espulsa dal parlamento, di cui era la rappresentante più giovane. Ma la sua battaglia continua, anche attraverso questo libro, in cui denuncia l’estrema povertà diffusa - il 70 percento degli afghani sopravvive con meno di 2 dollari al giorno -, l’elevatissimo tasso di analfabetismo e la terribile condizione della donna. Un libro che si augura possa correggere la disinformazione di cui è vittima l’Afghanistan, che non è un Paese di terroristi e tagliagole, ma di


persone coraggiose e amanti della libertà, purtroppo vittime del “grande gioco” delle superpotenze. Edizioni Piemme, 2010, pagg. 350, €17,50

L’autore di “Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano” ci regala un racconto pieno di humor, tristezza e speranza, capace di farci riflettere sul destino dei tanti stranieri che ogni giorno vediamo muoversi nel mondo. Edizioni e/o, 2010, pagg. 240, €17,00

In libreria di Licia Lanza

In rete

Ulisse da Baghdad di Eric-Emmanuel Schmitt

di Arturo Di Corinto

“Nascere è una lotteria, e il numero estratto può essere buono o cattivo. Se esce l’America, o l’Europa, o il Giappone uno si sistema e la cosa finisce lì: viene al mondo una volta per tutte, non ha bisogno di ricominciare. Ma se esce l’Africa o il Medio Oriente…” Così Saad - un nome dal significato contrastante, speranza in arabo e triste in inglese - inizia a raccontare la sua storia, un cammino percorso da tanti immigrati. Saad è un ragazzo onesto, giovane, che vuole laurearsi in giurisprudenza e sposare la ragazza che ama. Ma è iracheno e vive nella Baghdad del regime di Saddam Hussein, dove la popolazione è consumata dagli attacchi terroristici, dalla mancanza di cibo e medicine, dall’odio. Quando decide di partire per l’Europa, Saad inizia la sua odissea attraverso il Medio Oriente e l’Europa, passando anche per l’Italia. Saad è l’Ulisse dei nostri giorni, l’uomo alla ricerca di un luogo in cui vivere in pace e serenità, l’immigrato costretto a intraprendere un cammino che mai avrebbe immaginato, irto di pericoli e difficoltà. È lo straniero che camminando nel mondo incontra le frontiere, quelle stesse frontiere di cui parla l’ufficiale italiano che interrogandolo si chiede se “tracciare dei confini sia veramente l’unico modo perché gli uomini possano vivere insieme”.

Comunicazione politica e nuove forme di democrazia Storicamente le forme della comunicazione si sono intrecciate con le forme di democrazia. Questo è stato vero da Atene in poi. Con l'avvento della comunicazione di massa l'illusione utopica che ogni nuovo media potesse prefigurare una nuova alba della democrazia, ci ha accompagnati fino ai giorni nostri. Basta ricordare come è stata salutata la comparsa della radio prima, del cinema e della televisione dopo. Sappiamo come è andata a finire: prima l'uso propagandistico e "goebbelsiano" di questi mezzi, poi concentrazioni e fusioni hanno creato conglomerati mediatici a guardia di ciò che era utile comunicare alle masse e come; poi l'occupazione dello spazio mediatico di tycoon candidati a ricoprire le più alte cariche dello Stato dalla Thailandia all'Italia passando per il Messico. Nel frattempo si faceva strada un nuovo strumento di comunicazione - ovvero un insieme di strumenti che per semplicità chiamiamo Internet, che ci ha fatto immaginare una nuova era ateniese di democrazia come la chiamava Al Gore. I suoi primi teorici sono stati Kelly e Rossetto, quelli di Wired, cantori dell'utopia californiana, che auspicava una politica e una democrazia senza intermediari di professione, grazie all'uso delle tecnologie della

distanza che permettevano a tutti di parlare con tutti, fino alla dichiarazione dell'indipendenza del cyberspazio di John Perry Barlow. Anche qui sappiamo come è andata finire: nella fase attuale della comunicazione politica in rete vince chi ha più soldi, elabora i siti migliori e può pagare agenti virali per innescare la catena della visibilità che porta al consenso. Pensavamo che grazie a Internet si potesse comunicare ad armi pari piccoli e grandi, giovani e vecchi, ma non è così. Diverso è il discorso dei movimenti che usano la rete. A dispetto di quello che qualcuno pensa e scrive, non è stato il "Popolo viola" a usare per primo e meglio la rete ai fini di una mobilitazione e per irradiare un messaggio politico. Le cose cominciano invece nel “Terzo Mondo”, nella Selva Lacandona, quando il sub-comandante Marcos affida ai BBS texani e californiani e poi ai server universitari americani il proprio messaggio di ribellione. Ma, la più grande mobilitazione creata attraverso Internet è del novembre 1999 quando nasce il “Popolo di Seattle”, ricordate? La seconda superpotenza mondiale. L'effetto Seattle continuerà in molti modi, a Genova, ad esempio, nel 2001, sempre in occasione di una contestazione, quella al G8, in cui il carabiniere Placanica, ucciderà Carlo Giuliani. Prima che emergesse un nuovo grande movimento capace di usare la rete in maniera efficace per mobilitare persone, è il caso di MoveOn, sono accadute molte cose. Poi abbiamo vissuto in diretta su Twitter l'onda verde iraniana e il movimento a sostegno dei monaci birmani. In Italia oggi abbiamo il "Popolo viola" che si organizza intorno a Facebook, ma abbiamo anche il Popolo del pomodoro, il Popolo della valigia Blu, eccetera. Possiamo dire che queste forme di aggregazione rappresentino un nuovo modo di partecipazione democratica? Sicuramente sì. Queste forme sono sufficienti a cambiare le cose? Certamente no. E qui il discorso va approfondito: da una parte cercando di capire cos'è Internet e come può essere uno strumento di democrazia, dall'altra parte ragionando su cosa si debba intendere per democrazia. È un fatto che Internet sia la più grande agorà pubblica della storia, ma solo perché è stata progettata per poterlo essere consentendo un dialogo multilaterale, orizzontale, da molti a molti con pari dignità e senza esclusione per alcuno. Tuttavia leggi e decreti, oltre che condizioni particolari come il digital divide, minacciano costantemente la sua natura aperta e la possibilità di accedervi. La democrazia invece, che non va confusa né con il referendum elettronico su alternative date e calate dall'alto, né con l'e-voting, né con la democrazia dei pareri tipica dei social network, è un processo dove la possibilità di esprimersi secondo delle regole, è il fondamento di un processo di dialogo e consultazione che deve arrivare a una deliberazione. Se e solo se Internet sarà usata per innervare forme di democrazia deliberativa e costituente potremo dire che il cerchio sarà chiuso e la nuova era ateniese di democrazia elettronica diverrà determinante per la creazione di una nuova sfera pubblica. http://www.ilpopoloviola.it http://www.ilpopoloviola.eu 29


Per saperne di più COLOMBIA

dai governi 'democratici' latinoamericani che negli anni Novanta erano tornati al potere dopo la lunga notte dei molti governi militari o comunque autoritaria delle due decadi precedenti. Il risultato di queste politiche è stato l'ulteriore impoverimento di larghi strati della popolazione e l'indebolimento della democrazia rappresentativa con la nascita di nuove forme di aggregazione e di lotta politica dal basso.

LIBRI GUIDO PICCOLI, «Colombia, il Paese degli eccessi», Feltrinelli, 2003 La sperimentazione americana della "guerra sporca" svelata, spiegata e raccontata, con una documentazione ineccepibile e con ritmo da thriller. Una delle necessità del neoliberismo è di trovare metodi efficaci di contenimento dell’antagonismo che inevitabilmente genera. Uno di questi metodi è il cosiddetto "sistema del passero", sperimentato con sanguinoso ma straordinario successo in Colombia e suggellato con la recente elezione a presidente di Alvaro Uribe Vélez. I primi paramilitari degli anni quaranta, epoca d’inizio dell'inesauribile guerra civile colombiana, venivano infatti chiamati pajaros per la loro capacità di agire e scomparire rapidamente, senza lasciare traccia. Da allora, nel ricco e bellissimo Paese latinoamericano, si sono accumulate centinaia di migliaia di cadaveri di politici, sindacalisti e, soprattutto, povera gente massacrati con sistematicità, mai casualmente, e nell'impunità più scandalosa. "Il sistema del passero" rivela l'agghiacciante evoluzione del paramilitarismo, dalle sue origini nella teoria statunitense della "guerra a bassa intensità", fino all'abbraccio con i signori della droga e con l'oligarchia nazionale e, buon ultimo, con i guerrieri della Enduring freedom che, come ricorda Bush dopo l'11 settembre, la guerra deve essere "necessariamente sporca". Ma il libro pone in risalto anche come la tendenza alla "privatizzazione dell’uso della forza" vada ben al di là della Colombia e sia evidente in tutti i moderni conflitti: dall’utilizzo delle bande clandestine parastatali, fino all’uso, ormai consueto in continenti come quello africano, delle Military Private Company. AA.VV, a cura di ALDO ZANCHETTA, «America Latina, l'avanzata de los de abajo, movimenti sociali e popoli indigeni», Massari Editore, 2008 L'America Latina continua a essere considerata come il Continente della Speranza. La relativa unità di lingua, di religione e di una storia comune le danno una forza riconosciuta che la fa apparire come un attore del procedere della storia, non solo del Continente, ma del mondo intero. L'irrompere dei nuovi movimenti sociali, la dolorosa e lunga marcia dei popoli indigeni, dei movimenti femminili, di quelli di difesa ambientale e la loro autonomia culturale sottolineano alcune delle linee convergenti del provesso in atto in America Latina. Aldo Zanchetta, nel suo libro imprenscindibile per la storia dell'America Latina, ci offre la descrizione delle specifiche situazioni oggi presenti nelle diverse Nazione del nostro Continente. La ricchezza di questo variegato panorama sinteticamente descritto e la solida richeista per la trasformazione del sistema dominante ci permette di misurare l'esitenza carica di speranza di questo processo. Questo libro ci stimola e ci impegna all'approfondimento delle implicazioni per il futuro del Continente. Dalla prefazione di Don Samuel Ruiz, vescovo emerito di San Cristobal de Las Casas, Chiapas. AA.VV, a cura di ALDO ZANCHETTA, «America Latina, l'arretramento de los de arriba», Massari Editore, 2006 Il primo volume di Zanchetta, uscito nel 2006, completa il quadro. Qui vengono analizzate le conseguenze delle politiche neoliberiste imposte dalle istituzioni internazionali e subite assai docilmente 30

FILM SIMONE BRUNO E DADO CARILLO, «Falsos Positivos», USA-Italia, 2009 E' un documentario. Attraverso il viaggio di un uomo e una donna per recuperare i corpi dei loro amati fratello e compagno, si dispiega lo scandalo dei falsos positivos in tutta la sua tragica dimensione. Un ex generale, un reclutatore e vari membri della società civile analizzano il più grande scandalo moderno della storia dell' America Latina: più di duemila persone innocenti sono state assassinate dall' esercito Colombiano e poi indicate come nemici abbattuti in combattimento nella interminabile guerra contro i guerriglieri delle Farc. SIMON BRAND, «Paraiso Travel», 2008. Reina, una giovane donna colombiana, vorrebbe trasferirsi a New York. Marlon, disperatamente innamorato di lei, rimane intrappolato nella ragnatela delle sue fantasie e non può far altro che seguirla ciecamente nelle sue intenzioni. E così i due si imbarcano nel viaggio della speranza, il duro viaggio che migliaia di clandestini tentano ogni mese: cercare di entrare negli Stati Uniti senza permesso, senza documenti.

SITI INTERNET http://www.semana.com Il sito del più importante settimanale di attualità del Paese. È proprio grazie alle indagini dei giornalisti di Semana che lo scandalo dei Falsos Positivos, così come tanti altri dell' era Uribe, è stato conosciuto dai colombiani e dal mondo. http://www.lasillavacia.com Pagina di attualità politica, ricca di blog e analisi approfondite sui temi del Paese. La direttrice: Juanita Léon, ha una vasta esperienza e ha creato, grazie alla fondazione Soros, un sito fresco e ricco di nuove idee. Non si tratta di una semplice trasposizione di un giornale in formato elettronico, ma di un sito che utilizza il web in modo intelligente, trasformandosi in uno strumento a disposizione degli utenti.

PORTI LIBRI PINO ARLACCHI, «L'inganno e la paura. Il mito del caos globale», Il Saggiatore, 2009 Dopo l'11 settembre il tema della sicurezza personale, nazionale e globale è balzato al primo posto nell'agenda politica dei Paesi occidentali. In nome delle ragioni di sicurezza sono state destinate risorse sempre maggiori agli apparati militari e repressivi, si è giustificato il ricorso alla guerra preventiva, si sono violati fondamentali principi costituzionali e imposti vincoli ai diritti individuali. Con una crescente pressione mediatica e propagandistica da parte della politica e dei mass media, tutto ciò si è progressivamente insediato nell'immaginario collettivo, alimentando quella tolleranza zero che viene fatta propria da sempre più persone. A un così diffuso bisogno di sicurezza corrisponde un reale e crescente pericolo per i cittadini e le società? Pino Arlacchi si basa su inoppugnabili dati

statistici dai quali risulta che conflitti e violenze private sono in costante diminuzione: il sentimento d'insicurezza globale è pertanto frutto di un "grande inganno", a causa del quale ci sentiamo costantemente in pericolo pur vivendo in un'epoca molto più sicura delle precedenti. Un inganno che stravolge la scala di priorità dei reali problemi da affrontare e che diventa a sua volta fattore di esasperazione delle tensioni e dei conflitti interni e internazionali. GABRIELLA PAGLIANI, «Il mestiere delle armi. Dai mercenari ai manager della sicurezza», Franco Angeli, 2004 Il fenomeno risale agli anni Novanta, ma solo gli specialisti ne sono a conoscenza. Si tratta delle nuove compagnie di ventura, le società private militari, Private Military Companies, (Pmc) che traggono il loro punto di forza da una struttura societaria articolata e complessa. Esse sono specializzate nella gestione della sicurezza e della guerra a livello mondiale, dove la statualità è in declino e il monopolio della forza in sfacelo. L'Africa è il loro terreno di coltura: Congo, Angola e Sierra Leone sono i tre casi studio analizzati nel libro, Paesi ricchi di risorse minerarie ed energetiche, dove le Pmc con poche centinaia di uomini, sono intervenute in situazioni d'instabilità politico-militare. Ma non è solo l'Africa il campo d'azione di tali società armate private: negli Stati Uniti, un ruolo sempre più trainante è ricoperto dall'industria dei contractors, giganti economici a cui il Pentagono e il Dipartimento di Stato affidano i servizi militari, logistici e d' intelligence per sostenere la crescente presenza della macchina bellica americana nel mondo. Pmc e contractors rappresentano con i loro corporate warriors quindi due aspetti diversi della privatizzazione dell'uso della forza. Il libro, articolato su due piani di ricerca-studio e di attualità, tenta un'analisi sistematica e approfondita del fenomeno, ed è il frutto di lunghi soggiorni all'estero e di accurate indagini. In un mondo globalizzato che anela alla sicurezza si delinea così una nuova concezione della guerra che prefigura una parallela "privatizzazione della pace". Il tutto nell'inquietante assenza di una normativa a livello internazionale e locale che definisca e delimiti il ruolo e l'attività di questi nuovi attori nel palcoscenico mondiale. FRANCESCO VIGNARCA, «Mercenari S.p.A», Bur, 2004 L'arte della guerra ha una nuova faccia. Modellata da personaggi a loro agio più nelle sale della borsa che nei campi di battaglia. Una dimensione corporativa in grado di cambiare profondamente gli scenari di sicurezza domani. Come mostrano i dati di oggi: l'8% del bilancio alla difesa americano è privatizzato; in Iraq il contingente delle compagnie militari private è il secondo più numeroso sul campo; in molti conflitti del Sud del mondo sono le aziende private a gestire, da protagoniste, la macchina bellica. Un mercato da 100 miliardi di dollari l'anno, in continua crescita. Questo libro, frutto di anni di ricerche sul campoquindi basato su ampia documentazione, racconta per la prima volta la realtà delle aziende private che fanno la guerra per conto terzi. Ne emerge il ritratto dettagliato di un sistema che pochissimi conoscono. E che nessuno controlla. Il rischio è reale: abbandonare i conflitti nelle mani degli amministratori delegati, nuovi generali in doppiopetto.


Joy

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EMERGENCY ringrazia l’editore per lo spazio concesso gratuitamente - Illustrazione di Guido Pigni

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guerra e della povertà. Oltre 3 milioni e mezzo di persone curate in Afganistan, Cambogia, Iraq, Repubblica Centrafricana, Sierra Leone, Sudan e in Italia. Con il tuo contributo, senza costi per te, parteciperai alla costruzione di un progetto di Pace reale.

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