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mensile - anno 2 numero 7-8 - luglio - agosto 2008

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Numero speciale

A forza di essere vento Gitani, sinti, camminanti, kalé, khorakhanè, dasikané. Una lingua, tanti popoli Reportage da Napoli, Guastalla, Mestre Italiani in Campo Vivere con i rom di Pino Petruzzellli Macedonia La città governata dagli zingari Interviste Alex Zanotelli e Marco Revelli Francia La santa Sans Papiers di Vauro Senesi La ricerca I rom, questi sconosciuti di Paola Arrigoni

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

Italia

Inserto Olimpiadi Cina, l’orgoglio del dragone Gino Strada

Il caso della Santa Rita: la clinica dell’orrore o l’orrore dei clinici?

Il decimo fascicolo dell’atlante: la grande nazione nomade


È venuto il momento di fareunabuonaazione:

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I figli cadevano dal calendario, Yugoslavia, Polonia, Ungheria: i soldati prendevano tutti e tutti buttavano via... Fabrizio De André

luglio-agosto 2008 mensile - anno 2, numero 7-8 Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Christian Elia Matteo Fagotto Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Stella Spinelli Naoki Tomasini Alessandro Ursic

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Paola Arrigoni Francesca Bellemo Sergio Bontempelli Blue & Joy don Virginio Colmegna Gabriele Del Grande Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Nicola Falcinella Cecilia Ferrara Giorgio Gabbi Paolo Lezziero Sergio Lotti Andrea Mihai Enza Roberta Petrillo Pino Petruzzelli Claudio Sabelli Fioretti Vauro Senesi Gino Strada

Progetto grafico Guido Scarabottolo Segreteria di redazione Silvina Grippaldi Relazioni esterne Marco Formigoni Redazione e amministrazione Via Meravigli 12 20123 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net

Stampa Graphicscalve Loc. Ponte Formello - 24020 Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 30 giugno 2008

Hanno collaborato per le foto Francesca Bellemo Lucio Cavicchioni/CavicchioniDalmasio Massimo Di Nonno/Prospekt Cecilia Ferrara Luca Ferrari/Prospekt Nanni Fontana/Prospekt Andrea Pagliarulo/Prospekt Enza Roberta Petrillo Amministrazione Annalisa Braga

Pubblicità Sisifo Italia s.r.l. Via Don Luigi Soldà 8 36061 Bassano del Grappa Tel: (+39) 0424 505218 Fax: (+39) 0424 505136

Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Meravigli 12 - 20123 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07

na delle preoccupazioni che maggiormente avverto in questo periodo è il rischio di veder aggregate tante persone in una schiera di anonimi, senza volto e senza relazioni. Così come non vorrei abituarmi a dover considerare tutto in termini di numeri e di fredde statistiche. Perché quelli che da più parti sono definiti genericamente come i clandestini da espellere, per me sono bambini, donne e uomini, che ogni giorno incontriamo alla Casa della carità. Persone che hanno un nome, una storia, una propria fisicità e che portano con sé delle motivazioni, spesso drammatiche, che li hanno indotti a venire in Italia. Tutto questo non lo si può ignorare. Penso ai rom che ospitiamo, in particolare ai bambini che hanno frequentato con successo l’anno scolastico e che ora si trovano con i nostri operatori in vacanza al mare, in Toscana. Se i genitori li hanno lasciati andare è perché con loro abbiamo instaurato una relazione di fiducia reciproca. Penso alle tante donne rom che stiamo inserendo in alcuni percorsi lavorativi che, come Casa della carità, abbiamo promosso a vari livelli. Penso alla cooperativa di lavoro che abbiamo formato insieme ad alcuni uomini rom, che possono così avere un lavoro regolare e contrattualizzato. Penso ancora a tutte quelle famiglie rom che, dopo essere transitate da noi e supportate nel loro tentativo di realizzare l’autonomia, adesso vivono in appartamenti come tutti. Dietro tutte queste storie positive ci sono, appunto, delle persone. Ma anche dietro alle situazioni più difficili e di disagio ci sono delle persone. Ed è questo il punto che non dobbiamo mai dimenticare. L’individualità e la specificità della singola persona è un elemento estremamente importante quando si fanno considerazioni e valutazioni dei problemi di carattere sociale, anche di quelli che creano più allarme. In quest’ottica, diventa necessario anche abbassare i toni del linguaggio condannando quei modi pesanti di esprimersi, da parte di alcuni, che non fanno altro che creare discriminazioni sulla base di generalizzazioni. Non si può criminalizzare un’etnia, tanto per intendersi, ma bisogna affrontare responsabilmente le questioni avendo il coraggio di rompere qualsiasi omertà e di denunciare quelle sacche di illegalità, che certamente sono presenti e che alimentano le legittime preoccupazioni dei cittadini. Allo stesso tempo, però, bisogna anche trovare il coraggio di valorizzare le esperienze e le storie positive, dato che anche queste sono certamente presenti. Così si abbattono i pregiudizi e così si impone quella cultura di dialogo che è fondamentale per la costruzione di una società coesa. La cultura del dialogo non deve essere una semplice cultura di tolleranza, ma una cultura ricca di socialità, di legami e di relazioni tra le persone. Questa è l’unica strada che io credo si debba percorrere per giungere alla cosiddetta sicurezza. Non voglio abituarmi ai numeri, ma voglio ancora indignarmi, commuovermi e preoccuparmi di fronte alle persone e alle loro storie.

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don Virginio Colmegna, presidente fondazione Casa della carità

Foto di copertina: A Sucar Plaza Italia, 2008. Lucio Cavicchioni per PeaceReporter

Milano a pagina 24

Mestre a pagina 12 Guastalla a pag 8

Distribuzione in libreria Joo Distribuzione - via F. Argelati 35, 20143 Milano - Tel 028375671

Servizio abbonamenti e arretrati Picomax S.r.l. Via Borghetto 1 - 20122 Milano. Tel 0277428040 - fax 0276340836 Informativa abbonamenti: Ai sensi dell’Art. 13 del D. Lgs. 196/03 informiamo che i dati forniti saranno trattati da Picomax Srl in qualità di responsabile del trattamento, nonché da Dieci dicembre soc. coop. a r. l. titolare del trattamento, per le seguenti fiinalità: invio abbonamento della rivista PeaceReporter e invio di materiale promozionale inerente i prodotti di Dieci dicembre soc. coop. a r. l. Gli abbonati hanno diritto di esercitare i diritti di cui all’Art. 7 del D. Lgs. 196/03 inviando una email a privacy@picomax.it

Albania a pagina 32

L’informativa completa è disponibile sul sito di Picomax: www.picomax.it Scritti, disegni e fotografie anche se non pubblicati non verranno resi.

Francia a pagina 30

Napoli a pagina 4 3


Il reportage Italia

Napoli: baracche e burattini Dal nostro inviato Naoki Tomasini, ha collaborato Enza Roberta Petrillo

Gitani, sinti, camminanti, kalé, khorakhanè, dasikané. Accomunati da due cose: la lingua, il romanesh, e i pregiudizi del mondo che li circonda. A Napoli, però, sono i napulengre, e hanno anche loro un commissario speciale, come la munnezza. ppena fuori, a nord di Napoli, verso Secondigliano e Scampia. L’Asse Mediano è una strada a scorrimento sopraelevata, un tappeto di asfalto sotto cui cittadini e aziende delle periferie hanno ammassato montagne di rifiuti di ogni tipo. I cumuli occupano le strade che passano sotto l’Asse, stringendo la carreggiata via via che si fanno più alti. Nascosti tra la spazzatura, all’ombra della sopraelevata e nei prati circostanti, vivono alcune centinaia di rom. Sono in maggioranza slavi ortodossi, qualche musulmano e alcuni rom rumeni. Tra i pilastri di cemento e le baracche di legno, due bambini impugnano una culla piena di oggetti metallici raccolti tra i rifiuti. “E’ il lavoro più diffuso qui” spiega un uomo irsuto, un rom rumeno, di fronte alla sua baracca in muratura e lamiera. Uomini e ragazzi, ma anche donne e bambini, raccolgono il ferro, “lo smontiamo, lo puliamo e lo rivendiamo allo sfascio (lo sfasciacarrozze) per venti centesimi al chilo. In una giornata si guadagnano una ventina di euro”. La moglie si affaccia da una baracca poco distante, un coltello in una mano e un brandello di carne nell’altra, mentre la figlia, a occhio quattro anni, gioca tra le carcasse delle auto smembrate. Vivono lì da sedici anni e non amano le visite dei gagè, gli stranieri non rom. Sono cittadini comunitari ma non rivendicano nulla, “Aiuto non ce ne serve - dice con orgoglio un’anziana - la famiglia pensa a me”. “I rumeni, i rom rumeni, puzzano” dichiara poco dopo un giovane rom albanese che vive in un accampamento cento metri più in là, per sottolineare che, anche all’interno della stessa discarica, ci sono diversi gradi di civilizzazione. “Noi siamo slavi - precisa - noi siamo puliti e non possiamo stare con loro attorno. Loro sono una cosa diversa, hanno una cultura strana: rubano nelle case e uccidono le persone...”. Molte persone della maggioranza slava condividono questi pregiudizi ben noti agli italiani, “ma non siamo razzisti - precisa un altro giovane - se un rom delinque o fa violenze, vicino a noi non ci può stare e lo mandiamo via”. Intanto, da un terzo insediamento si solleva un cono di fumo scuro. Alcuni uomini hanno dato alle fiamme un cumulo di rifiuti a pochi metri dalle loro baracche che sono invase, come anche la strada sopraelevata, da una nebbia bianca e dall’odore acido della plastica bruciata. Dopo qualche minuto sopraggiungono due autopompe dei vigili del fuoco e una pattuglia della polizia. Per gli agenti si tratta di un intervento come ultimamente ne capitano tanti, nei campi come nei quartieri periferici e in città. “Lo dobbiamo bruciare perché puzza troppo, e poi è pieno di topi” gli risponde un uomo con in mano un forcone. “Non è il fuoco pericoloso, ma la spazzatura! I bambini si pigliano l’epatite”. Napoli è invasa dai rifiuti e nei campi attorno all’Asse Mediano non solo non vengono raccolti, vengono gettati. Una situazione igienica tragica, confermata anche dalla dottoressa Annamaria Di Stefano, responsabile dell’ufficio Rom e Patti Sociali del comune di Napoli. “Noi mandiamo lettere di protesta

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ogni giorno - dice - ma l’Asia (l’azienda municipale di smaltimento) si rifiuta di raccogliere i rifiuti in quella zona. Ogni giorno che piove provo sollievo perché col caldo è la fine, già i topi brulicano...”. La dottoressa parla di rimpalli di responsabilità anche da parte della Provincia, poi allarga il discorso alle campagne di disinformazione della stampa, che “continua ad associare rom e immondizia. Non ci vuole un sociologo per dire che questo tipo di associazione di viene letto come: il rom è un rifiuto”. Eppure, proprio in questi campi, a breve, sorgerà un impianto di compostaggio dei rifiuti cosiddetti umidi. Lo stanno preparando gli abitanti di un insediamento, che viene ironicamente chiamato campo Svizzero. Si distingue dagli altri per le abitazioni in muratura, uniformemente tinte di rosa, un piazzale di cemento sgombro, con attorno piante e siepi di alloro. Hanno fondato un’associazione che si chiama Asunen Romalen (sentiteci gente), che dialoga e interagisce con le associazioni del volontariato locale, dall’Opera Nomadi all’associazione Chi rom … chi no, e con i comitati di quartiere di Secondigliano e Scampia. Assieme promuovono attività culturali e artistiche rivolte ai giovani del campo, e per fare conoscere ai napoletani la cultura rom. na delle menti di Asunen Romalen è Nihat Smailovic, detto Nino, due lauree, viene dall’ex Jugoslavia e vive in Italia da oltre vent’anni. Il 13 giugno, lui e il suo gruppo erano i soli rom presenti al primo incontro delle rappresentanze cittadine con il commissario speciale per l’emergenza rom, Alessandro Panza. Nino si mostra fiducioso sulle prospettive del dialogo con le istituzioni, mentre ne riferisce agli altri uomini del campo, all’interno del suo omonimo bar-rivendita allestito in casa sua. Accanto a loro ci sono tre postazioni con pc, un rudimentale internet point, dove i ragazzini che vivono sotto la sopraelevata imparano a navigare. “Nessuno vuole vivere in un campo, ma per affittare un appartamento occorre la residenza, e per quella serve il permesso di soggiorno... è un gioco in cui non si riesce a entrare”. Nino parla a fiume, e si scalda, ma ci tiene a mostrare che ha le idee chiare, anche su come si comunica con giornalisti e politici. “Un ragazzo rom deve almeno avere una chance di vita prima che si dica che non si vuole integrare. Nel ‘92, durante le guerre in Jugoslavia, non ci è stato riconosciuto lo status di profughi di guerra, parlo della legge firmata anche dall’attuale presidente della Repubblica, la Turco-Napolitano. Senza asilo, siamo rimasti per anni come clandestini. Anzi come fantasmi. Abbiamo solo i documenti slavi ottenuti dopo la caduta di Milosevic. Ora sono sette mesi che chiediamo al comune un censimento e una possibilità di legalizzazione, lo chiederemo anche al commissario speciale”.

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In alto: Raccogliendo ferro a Secondigliano. In basso: Ferrandi e il suo “assistente” prima di Italia-Romania. Napoli, Italia 2008. Foto di Naoki Tomasini ©PeaceReporter


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Accanto a Nino siede Dusham, pelle scura e scavata. Prima raccoglieva il rame e lo rivendeva, ma oggi lavora con l’associazione: “Per migliorare la vita dei nostri figli”, dice. “Sono venti anni che lavoriamo per ottenere un riconoscimento. I miei figli sono nati qui, sono arrivato da ragazzino, a diciassette anni, e adesso sono diventato trisnonno” (nel senso di nonno per la terza volta, ndr). E aggiunge: “Non abbiamo ottenuto tanto, però, le iniziative che facciamo nel quartiere stanno migliorando la nostra immagine. I politici ci accusano solo per mostrare agli elettori che fanno qualcosa, che se la prendono con qualcuno”. In assenza di uno stato civile, gli abitanti del campo Svizzero rappresentano la migliore approssimazione possibile all’integrazione. L’isolamento non è una scelta per queste persone, anche se Nino precisa: “Certo non rinunceremo mai completamente alle nostre tradizioni. Per esempio, oggi gli italiani vogliono sempre più chiudersi in casa, al sicuro, mentre noi amiamo essere tanti e stare stretti tra noi, sia quando c’è da festeggiare che quando dobbiamo piangere”. “Tuttavia - continua - in questo campo la gente è integrata. La maggior parte di noi lavora e manda a scuola i bambini. Li chiamiamo pure con nomi italiani, alle volte di persone che ci hanno aiutato: Sabrina, Laura, Valentina...” O Christian, che corregge l’ortografia dei comunicati stampa dell’associazione e il romanesh non lo parla nemmeno. Parla napoletano, e se gli si chiede: “Tu che cosa sei?” risponde: “So o’ scugnizzo romanè”. on tutti i rom la pensano come Nino, molti, specialmente i più giovani, vorrebbero vivere in una casa normale e avere un impiego regolare. Di certo non vorrebbero continuare a vivere nascosti, ignorati dalla gente e dalle istituzioni. “Se non si offre loro nemmeno una fornitura di acqua - spiega la dottoressa Di Stefano - non ci si può stupire quando, come nei campi di Secondigliano, loro si allacciano abusivamente a quella di una scuola”. Nel campo di via Santa Maria del Pianto, che giace accanto al cimitero di Poggioreale, in una strada isolata e circondata dalla spazzatura, l’acqua non arriva proprio. I rom rumeni che vi risiedono devono procurarsela, attingendo alle fontanelle del cimitero. Una processione che comincia ogni mattina, presto. Donne e bambini trasportano taniche e vagano per i cumuli di rifiuti, in cerca di qualcosa di recuperabile. Non gradiscono la presenza di giornalisti e glissano le domande dicendo: “Non parlo bene italiano, qual è il problema?” oppure “non so nulla, va tutto bene”. “Scrivono già abbastanza falsità, vengono qui a filmare e poi non fanno niente”. Un cartello accanto all’ingresso recita ‘zona derattizzata’. “Ma quale derattizzazione? C’è scritto, sì, ma non è mai stata fatta. Sono qui tutti i giorni da anni, se ci fosse stata lo avrei saputo” sbotta Patrizio Bonocore, un volontario della protezione civile che monta una specie di guardia davanti all’ingresso del campo. “Il Comune ha abbandonato queste persone. Perché non si possono assegnare delle strutture per portarle fuori da questo schifo? La gente di qui campa vendendo il ferro, qualcun altro fa il muratore, i bambini non vanno a scuola, ma posso assicurare che non c’è nessuno che ruba, non hanno mai creato problemi. È vero, hanno paura, ma sono brave persone”. Le associazioni e le autorità che si occupano di rom a Napoli parlano di questo campo come della peggiore situazione umanitaria in città. Eppure, non c’è stata alcuna invasione di massa di clandestini: duecento persone vivono lì, nell’indifferenza, da almeno quattro anni. “Qui la sera è pieno di topi - conferma Bonocore - i bambini sono sporchi luridi e sempre con le mani in bocca, bagni non ce ne sono, docce nemmeno, come crescono queste creature? Non si possono vedere i bambini di sette mesi camminare in mezzo alle zoccole”. “I rom non si regolarizzano, non si respingono, quindi si tollerano, è questa la via nostrana all’integrazione”, spiega la dottoressa Di Stefano. I campi spontanei vengono tollerati finché a qualcuno non torna comodo sgomberarli: con la polizia oppure, come accaduto a Ponticelli lo scorso mese di maggio, con le molotov della camorra. La responsabile dell’ufficio Rom e Patti Sociali del Comune di Napoli è convinta che “se il Comune avesse riconosciuto il campo di Ponticelli, allacciando l’acqua, la camorra non avrebbe mai avuto il coraggio di darlo alle fiamme. Gli sgomberi - continua - non risolvono i problemi, se i rom vivono in situazioni a rischio vanno spostati, però bisogna offrire loro soluzioni alternative. È questione di come si spendono i

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soldi: basti pensare che una giornata di stipendi degli agenti per fare uno sgombero costa cinquantamila euro, mentre allestire anche solo una tendopoli costerebbe molto meno. Spero che il commissario straordinario capisca che non si tratta di un’emergenza rom, ma dell’estrema necessità di sanare dei diritti negati. Questi sono campi spontanei di cittadini neocomunitari. Vengono dalla Romania, hanno il passaporto ma nessun diritto”. Napoli l’emergenza rom esiste per lo stato in cui versano i campi abusivi nelle periferie, ghettizzare centinaia di persone in quelle condizioni rende impossibile l’integrazione”. Chi parla è Cristian Ferrandi, responsabile della struttura di accoglienza nella scuola Deledda, tra Soccavo e Fuorigrotta. È l’unica struttura di accoglienza funzionante del comune, anche se appaltata all’associazione Lima. Da cinque anni ospita circa centoventi rom provenienti dalla Romania, hanno tutti passaporto o carta d’identità. L’associazione Lima non si occupa di nomadi, è legata alla protezione civile. Ferrandi gestisce la struttura assieme a uno degli ospiti, Damian, che si comporta come un suo luogotenente. La scuola è circondata dalle sbarre, ingressi e uscite sono controllati. “Alcuni tra gli ospiti lavorano - spiega - i bambini vanno a scuola e seguono percorsi sanitari” anche se, lontano dallo sguardo suo e di Damian, alcune bambine si lasciano sfuggire che a scuola non ci vanno e che, da quando sono in Italia, non sono mai uscite dalla struttura. “Per stare qui ci sono delle regole - continua - come il divieto di consumare alcolici e il rispetto dei turni di pulizie per uomini e donne. I minori devono stare sempre con i genitori e non possono uscire mai da soli”. Nella struttura c’è una stanza per ogni nucleo familiare, arredata con mobili e suppellettili recuperati dagli ospiti. C’è anche una lavanderia, ma all’interno del centro è vietato cucinare, così si preparano le cene all’aperto, nel cortile sul retro. Il centro di accoglienza alle nove di sera chiude i cancelli, che peraltro sono sempre chiusi anche di giorno. Polizia e carabinieri vi entrano spesso, cosa che, secondo Ferrandi, “fa sentire sicuri gli ospiti onesti”. Negli ultimi anni molte persone sono state allontanate dalla struttura per aver violato i regolamenti, mentre gli altri hanno iniziato un’esperienza di vita stabile, che non contempla però un percorso di inserimento sociale al di fuori della struttura. “C’è voluto molto tempo per educarli si vanta il responsabile - e del resto loro si presentano molto male, non sono abituati alla pulizia e alla convivenza civile. Quasi tutti i rom rumeni in Italia fanno marchette, anche se la prostituzione è estranea alla loro cultura che personalmente penso che abbia molto da criticarsi. Inoltre, dopo i trent’anni la maggior parte di loro diventano alcolizzati”. Il centro di accoglienza non viene pubblicizzato per evitare di turbare la gente del quartiere, ma Ferrandi ne parla come di un esempio che funziona, e per questo, secondo lui, darebbe fastidio a qualcuno. “Tempo fa - precisa - giravano voci che fossi un pedofilo, perché avevo stroncato dei giri di minori rom che si prostituivano. Passate quelle calunnie, oggi, si dice che faccio caporalato con i rom che lavorano... Insomma, c’è gente che non ci vuole bene e l’amministrazione non ci sa difendere”. “Assistenti sociali qui non ce ne sono, e nemmeno psicologi. Questa gente non ne ha bisogno”, dice ancora Ferrandi, che aggiunge: “Veramente non avrebbero bisogno di nulla, ma se li lasciassimo da soli scorderebbero tutto quello che hanno imparato in questi anni”. Tono di superiorità pedagogica a parte, Ferrandi usa per i rom rumeni le stesse parole usate dai rom slavi di Secondigliano. Nino, il rom slavo del campo Svizzero, si dissocia e cerca spiegazioni indietro nel tempo: “Nel nostro passato c’è Tito, che diede molto ai rom slavi: scuole gratis, aiuto, casa, lavoro... mentre i fratelli in Romania sono sempre stati buttati lontano dalle città, senza fognature, acqua, luce. Ora che sono usciti e che Ceausescu non c’è più, sono come dei cani trattenuti troppo a lungo in catene che vogliono mangiare tutto, anche a rischio di soffocarsi o che qualcuno si faccia male. Non gli importa di nulla. La violenza da noi non esiste, siamo un popolo totalmente pacifico, ma capiamo perché per loro è così: non hanno nulla, anche se loro sono entrati in Europa e noi no”.

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In alto: Nel bar di Nino In basso: I pompieri spengono la monnezza. Campo rom di Secondigliano, Napoli, Italia 2008. Foto di Naoki Tomasini ©PeaceReporter


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Il reportage Italia

Al margine dell’argine dal nostro inviato Luca Galassi

“Na giari mani cip?”. Non sapete la mia lingua? Soami è curiosa ed espansiva. Ha sei anni, è sinta, ed è la prima a salutare con voce squillante i visitatori che si recano al Sucar Plaza, Bella Piazza in sinto. Siamo nel Comune di Guastalla, ex capitale del ducato dei Gonzaga, in provincia di Reggio Emilia.

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guastallesi lo chiamano ‘campo nomadi’. Ma è una definizione che poco ha a che vedere con una struttura residenziale ordinata, pulita, composta da sei casette colorate nel bel mezzo di un campo di granoturco. Chi vi abita preferisce chiamarlo ‘residence’. Sorge non lontano da quell’argine del Po dove Bernardo Bertolucci ha girato molte scene di ‘Novecento’, la saga di una famiglia contadina ambientata tra la caduta del fascismo e la lotta di resistenza. Ed è a due passi da Brescello, il paese che ha ospitato le vicende di Don Camillo e Peppone. “Il piccolo mondo di un mondo piccolo, piantato in qualche parte dell’Italia del Nord”: così Guareschi aveva descritto la dimensione geografica e umana dei suoi racconti, trovando in queste terre l’ambiente, la gente, il clima più caratteristico della Bassa Padana. Anche il ‘Sucar Plaza’ è un microcosmo, circoscritto in un mondo piccolo per dimensioni e per mentalità. Le famiglie sinte che nel tempo hanno patito le discriminazioni degli abitanti, insofferenti alla presenza ventennale delle roulotte accampate sull’argine del torrente Crostolo, hanno trovato in questo residence una sorta di ‘risarcimento’. Risarciti dell’ingiustizia di trovarsi spesso vittime dell’intolleranza. Degli sguardi indignati di qualcuno, che nel vederli diversi, a volte sporchi, senza un lavoro fisso, esposti loro malgrado a condizioni precarie di vita e di salute, avrà ben pensato ‘che se ne tornino al loro Paese’, senza magari sapere che ‘loro’ sono italiani da tre generazioni. E residenti a Guastalla. Ma non è per questo - per il pudore di qualche guastallese troppo sensibile - che l’amministrazione ha deciso di spostare il loro piccolo insedia8

mento dal torrente Crostolo, al bordo della statale ‘Cisa’, in mezzo al campo di granoturco. Quanto per la lungimiranza di un sindaco, Mario Dallasta, e di un’associazione mantovana, la ‘Sucar Drom’. Uno dei suoi membri, Yuri Del Bar, sinto emiliano, è diventato nel 2005 consigliere comunale a Mantova, primo rappresentante di una minoranza nazionale sinta e rom eletto in un organismo politico nell’Italia repubblicana. Grazie alla collaborazione tra l’associazione e l’ammministrazione guastallese, il progetto ha preso forma nel 2002. Fu allora che il Comune acquistò per centomila euro quattromila metri quadri di terreno dagli Altomani, proprietari di una vecchia fornace di mattoni le cui ciminiere svettano ai lati dell’insediamento. Sono questi ruderi di archeologia industriale, visibili a grande distanza, i riferimenti che consentono di raggiungere facilmente il Sucar Plaza. alla Cisa, si segue l’argine del torrente Crostolo per poche decine di metri e si è subito in mezzo al verde. Dall’alto, il perimetro del residence sembra essere stato intagliato nel campo di granturco. Le casette hanno colori tenui, azzurro, giallo, rosa. Sono sei lotti indipendenti, dotati ciascuno di una struttura abitativa diurna (soggiorno, cucina e bagno), di uno spazio verde e di parcheggio. Il linguaggio buro-

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In alto: Sucar Plaza. Guastalla, Italia 2008. In basso: Sul patio di casa. Guastalla, Italia 2008. Foto di Lucio Cavicchioni per PeaceReporter


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cratico del verbale di approvazione del progetto da parte del consiglio comunale parla di un residence “atto ad offrire alle famiglie sinte di antico insediamento, residenti a Guastalla, un’abitazione in cui vivere con stabilità, tranquillità e sicurezza, offrendo il proprio contributo culturale, sociale e lavorativo alla comunità guastallese”. Per una volta, la lingua dei tecnocrati rispecchia la realtà. ‘Tranquillità e sicurezza’, oltre che ordine e pulizia, sono alcune delle sensazioni che si ricavano una volta scesi dall’argine alla struttura. Un’altra è la calorosa ospitalità dei residenti, il cui ‘portavoce’ è Fabio Suffrè, quarantatré anni, mediatore culturale della ‘Sucar Drom’, che ha contribuito allo sviluppo del progetto e che fa un po’ da capo-condomino. In braccio, la figlia Jennifer: tre anni e due meravigliosi occhi azzurri. La moglie Cristina offre acqua fresca e caffè, mentre ci accomodiamo all’ombra del porticato. “Un bel risultato, non c’è che dire”, esordisce Fabio. “Il frutto di un cammino iniziato sei anni fa, che per una volta ci ha fatto sentire protagonisti di una scelta positiva, fatta da un’amministrazione che ha felicemente risolto il problema della presenza delle nostre comunità nel tessuto sociale cittadino”. A differenza di quanto ci si aspetti, Fabio non accenna mai a problemi con i guastallesi, con in quali parla di “convivenza pacifica, mai nessun episodio di intolleranza. Qui da noi nessuno delinque, per questo la popolazione locale ci rispetta”. Cinque delle sei famiglie che abitano al Sucar Plaza hanno una roulotte “per conservare la tradizione e ospitare parenti o amici”. Secondo il regolamento comunale, ciascuna famiglia può ospitare nel proprio lotto una o più famiglie o ospiti, comunicando preventivamente al sindaco la loro permanenza. Così come ciascuna famiglia è responsabile della gestione, pulizia, igiene e manutenzione delle strutture. Purtroppo, nel progetto non era contemplata la zona notte, così Fabio ha dovuto ricavare un piccolo letto a castello davanti al bagno per Jennifer e l’altro figlio, Richard, che ha dieci anni. “Gli spazi sono un po’ limitati – si lamenta Daris, il ‘vicino’ – non per fare polemiche, ma se c’era da fare una cosa prima dei pannelli solari, erano le camere da letto”. Ciascuna abitazione, dotata di un impianto fotovoltaico per il risparmio energetico, è costruita in legno e fibrocemento e ha una superficie di trentasei metri quadri. “Un po’ piccola – continua Daris – per chi, come noi, ha almeno due figli, se non tre. Io, per esempio, ne ho un terzo in arrivo. Dobbiamo aprire il divano letto e accamparci, per dormire”. Poco a poco siamo attorniati da bambini. Eccezion fatta per Soami, di origine indiana, nessuno ha un nome che trae origine dalla tradizione Sinta. Anzi, sono tutti nomi americani: Jennifer, Richard, Kevin, addirittura J.D. “Gli diamo i nomi dei personaggi della televisione” dice Daris. Se il terzo mi nasce maschio lo chiamo Brendon, se è femmina Shakira”.

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rom e sinti lombardi sono tredicimila, secondo i dati del Viminale. Nella provincia di Reggio Emilia poco più di un migliaio. Reggio, con un sinto/rom ogni 425 abitanti, è seconda in Italia dietro a Roma (uno ogni 411 abitanti). Le differenze tra le due comunità si riscontrano sia nella mentalità che nel vissuto quotidiano. In termini di autopercezione, i rom sono più ‘deboli’ e quindi tendenzialmente piu’ chiusi, meno propensi a fruire dei servizi e a relazionarsi con gli altri. Sono inoltre meno integrati anche professionalmente. I sinti, dal canto opposto, appaiono come più stabili, mentalmente più “alla pari” rispetto al gagè (il non-appartenente alla comunità), più aperti e interattivi rispetto all’ambiente circostante. In una parola, anche se con le pinze, più “integrati”. Ma Claudio Suffrè, lo zio di Fabio (al Sucar Plaza, in un modo o nell’altro sono tutti parenti tra loro), non ha esattamente le stesse idee del nipote in merito a integrazione e discriminazione.”Siamo sinti lombardi o emiliani da sette generazioni, ma il razzismo qui è sempre stato forte – spiega –. Alla buon’ora, dopo ventotto anni di battaglie, alla fine ci hanno dato una sistemazione decente. Ma per quanto riguarda il lavoro, nessuna prospettiva. Io ho due figli di sedici e diciotto anni. Hanno fatto decine di colloqui di lavoro, ma tutte le fabbriche gli hanno chiuso la porta in faccia. Perché? Perché sono sinti. Per due anni e mezzo io stesso ho lasciato il libretto di lavoro all’ufficio di collocamento di Guastalla. Mi hanno detto: fa prima a tornare al suo Paese a trovare lavoro. Ma il mio Paese è l’Italia. Mio papà è di Cremona, mia cognata di Verona, altri parenti sono di Milano. Sono di Torbole Casaglia, 10

io. Provincia di Brescia. Italiani. Ma qui non ci possono vedere. Non ci sopportano”. n tempo, i lavori più diffusi erano quelli di ambulanti, artigiani girovaghi, allevatori di bestiame. Oggi, gran parte dei sinti italiani, così come i residenti del Sucar Plaza, fa il giostraio o raccoglie ferro da rivendere agli sfasciacarrozze. Ma gli introiti sono scarsi, perchè neanche gli italiani hanno ferro da buttare. “Ho girato decine di fabbriche stamattina – continua Claudio – ma non ne ho raccolto nemmeno un grammo. Poi dicono che rubiamo... quasi ci spingono a farlo”. C’è chi ricorda nostalgicamente il passato, quando “un po’ più di lavoro c’era. Nei periodi della fiera, era festa grande, e c’era la fila per venire alla nostra autopista. Al suo posto, oggi ci sono le giostre di gomma gonfiabili. Oggi, le fiere e le sagre sono quasi dimenticate. Così come noi, per troppo tempo, siamo stati dimenticati nelle nostre roulotte, sul greto del Crostolo”.

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chi a Guastalla chiede informazioni sul Sucar Plaza, viene risposto “Per il campo? Dovete andare di là...”. Ma nessuno qui vuol sentire parlare di ‘campo’. “Chi definisce così questo spazio – precisa Fabio – dovrebbe provare sulla sua pelle cosa significhi essere costretti a vivere in un certo luogo, contro la propria volontà, senza alcun tipo di privacy, senza servizi igienici”. Le cosiddette ‘aree attrezzate a sosta’, conosciute come “campi nomadi”, nascono come risposta a un particolare tipo di segnaletica, che comincia a trovarsi un po’ ovunque a partire dagli anni Settanta: sono i cartelli di “divieto di sosta ai nomadi”. Questi cartelli, in palese contrasto con il dettato costituzionale (articolo 16) e con la legislazione contro le discriminazioni razziali ed etniche, negano il diritto di circolare e soggiornare liberamente sul territorio nazionale ai soli cittadini italiani riconosciuti come “nomadi” o “zingari”. Un altro piccolo successo, per i sinti emiliani, è la possibilità di far rimuovere i pochi cartelli rimasti sul territorio. “Si fa domanda al Comune – spiega Fabio – e questa indegna discriminazione viene cancellata dalle stesse autorità che l’avevano messa”. Fabio è un uomo diplomatico. Dopo anni di lavoro in fabbrica, ha fatto il mediatore culturale per la ‘Sucar Drom’, ed è grazie alla costante opera di intercessione dell’associazione se la micro-area abitativa è diventata una realtà. “Ora però bisogna andare avanti con il progetto di mediazione avviato in questi anni. Crediamo che ci sia ancora molto da fare, soprattutto in ambito sanitario e scolastico”.

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lia, il figlio di Claudio, ci accompagna dietro una delle casette assieme al cugino Kevin. Elia è un bel ragazzo: ha sedici anni, fisico teso, braccia e spalle enormi. “Io mi alleno qui”, dice, indicando una piccola struttura in legno. All’interno, la sopresa: Elia ha costruito una vera e propria palestra dotata di tutto l’equipaggiamento per allenarsi al pugilato: pesi, panca, punch-ball, corda, c’è addirittura un ring ricavato nell’angolo della struttura. Elia e Kevin entrano nel ring e si mettono in posa per alcune foto. “Sono tesserato a Carpi, da cinque o sei mesi, perché a Guastalla non c’è la pugilistica”. Come vanno le relazioni con i giovani di qui? “Abbastanza bene”. Avete delle ragazze? “Io no, lui sì”, fa Kevin. “Si, frequento una ragazza”. “Sinti?”. “No”. “Di Guastalla?”. “Nemmeno. Qui è un casino con le donne, sono diffidenti e sospettose. Non è facile trovare una fidanzata locale. Se sanno che sei sinto spesso non ti vogliono”. Dopo una piccola esibizione, con il cugino che gli fa da sparring-partner, Elia si toglie guantoni e caschetto di protezione. “Zor”, forza, “andiamo a fare un po’ di chilometri”. Con un’educazione d’altri tempi, degna della ‘nobile arte’ del pugilato, salutano con deferenza e cominciano a correre verso l’argine del Po, lungo i filari di pioppi. Claudio approva in pieno la scelta del figlio, considerandola una possibile occasione di riscatto sociale. E lo incoraggia. Certo, con i suoi metodi: “Torna a casa dopo un incontro e mi dice che le ha prese? Allora gliene ridò due anch’io”.

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In alto: Nella palestra del Sucar Plaza. Guastalla, Italia 2008. In basso: Interno di famiglia al Sucar Plaza. Guastalla, Italia 2008. Foto di Lucio Cavicchioni per PeaceReporter


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Il reportage Italia

Paolo, maledetto dalla Lega di Francesca Bellemo “Vado anche a donare il sangue, io, scrivilo, scrivilo che se qualcuno di voi ‘gagi’ ha bisogno di sangue deve ringraziarmi...”. Paolo scherza, perché ha voglia di sdrammatizzare un po’ la situazione di tensione che si è creata intorno al campo nomadi in cui vive. ndossa una tuta da ginnastica bianca di marca. Pulita. Ha il viso tondo e solare. I suoi tratti somatici ricordano più quelli di un napoletano che quelli di uno zingaro. La moglie è nella veranda della sua casetta di legno chiaro e sta seduta davanti ad una macchina da cucire: è bionda naturale come la figlia che sta nel passeggino. Nessuno a prima vista direbbe mai che si tratta di nomadi. E in realtà tanto nomadi non sono perché sono nati a Mestre e da quel campo non si sono mai spostati. Sono ‘sinti’, i loro nonni vivevano in Istria ed emigrarono qui più di quarant’anni fa radicandosi nella comunità di via Vallenari, a Mestre, in un campo, l’unico della provincia di Venezia che è stato loro assegnato dal Comune. E’ tardo pomeriggio e ha piovuto per tutta la mattina. Il campo è coperto di pozzanghere, la via principale che lo attraversa è ricoperta di asfalto e tra le roulotte e le casette prefabbricate è sparsa della ghiaia bianca. Sembra di essere in uno dei camping del litorale veneziano: roulotte e verande di legno ben curate, con i fiori sui davanzali, persino qualche statuetta della Madonna circondata di lumini rossi. Il bucato steso fuori sugli stendini, qua e là qualche triciclo o bicicletta per bambini, alcuni cani gironzolano liberamente tra le piazzole e le donne siedono tutte insieme all’ombra di una veranda. C’è chi stira, chi cuce, chi semplicemente chiacchiera. Alcune vestono di nero con i capelli lunghi e neri raccolti in una coda, altre invece portano i jeans e le magliette firmate e aderenti. Sono soprattutto le ragazze più giovani ad essere particolarmente curate e belle. Quasi ci si stupisce nel non riconoscere nel campo mestrino quelle immagini di campi nomadi che passano di frequente alla tv. È vero: ci sono qua e là mucchi di ferraglia abbandonata e i bagni sono diroccati e malfunzionanti. Tutt’intorno al campo sterpaglie e teli di plastica verdi arrangiati alla meglio. Ma per quanto riguarda i singoli nuclei familiari, ciascuno ha curato alla perfezione il suo spazio vitale, decorandolo per quanto possibile e tenendolo pulito. Paolo è appena tornato dal lavoro e ha appena fatto la doccia in un bagno pubblico diroccato dove la porta della doccia si chiude a malapena. L’acqua calda non basta mai per tutti, così spesso e volentieri, anche in pieno inverno, Paolo fa la doccia fredda. D’altronde tutti vogliono farsi la doccia al ritorno dal lavoro perché tutti gli uomini qui fanno un lavoro pesante: la raccolta del ferro vecchio. “Veritas (l’azienda di servizi ambientali veneziana) spiega Paolo ci ha autorizzato a raccogliere il ferro vecchio che troviamo in giro e a rivenderlo alle ditte specializzate. Lavoriamo tutti, tutto il giorno perché più ferro troviamo più soldi riusciamo a portare a casa alla nostra famiglia. Ci sono giorni in cui lavoro anche fino a sera tardi, fino a che non trovo abbastanza ferro da rivendere per guadagnare a sufficienza la giornata. Di certo non ho il tempo di andare a rubare, anche se in molti pensano che non sappiamo fare altro”.

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Paolo, insieme ad altri uomini del campo, siede intorno a un tavolo di legno verniciato di verde bosco, all’ombra di un salice. A pochi metri di distanza passa via Martiri, la bretella che collega la Tangenziale di Mestre a Venezia. Al di là di quella strada, dove le auto sfrecciano notte e giorno, il Comune ha da tempo progettato, anche con la collaborazione dei residenti del campo, la costruzione di una nuova area, un nuovo villaggio. Ma sulla scia dei disordini nazionali che hanno coinvolto altri campi nomadi, allo scoccare dell’inizio dei lavori previsto per maggio 2008, alcuni cittadini si sono mobilitati per protestare contro l’iniziativa, riuscendo a bloccare l’apertura del cantiere nonché sollevando un polverone nazionale. Molto amareggiati, i residenti del campo passano ora il loro tempo a rispondere alle domande dei numerosi giornalisti che si sono precipitati sulla notizia insieme a cameraman e fotografi. “Non fotografate i bambini – grida a un fotografo, rincorrendolo, un uomo più anziano che conosce bene le leggi italiane a tutela dei minori – e non ci fotografate in faccia, per piacere. Rischiamo di perdere il nostro lavoro!”. “Purtroppo è vero – spiega Paolo – Succede che quando la gente ci vede per la strada o ci incontra nel lavoro non si accorge che siamo nomadi, anche perché vestiamo come tutti gli altri cittadini, i nostri giovani sono curati e vestiti di marca e poi parlano esattamente come i loro coetanei. Insomma, nessuno fa caso al fatto che siamo nomadi. Questo avviene anche se uno di noi fa un colloquio di lavoro. Nessun problema fino a che non leggono il nostro cognome e la via dove abitiamo. Allora scatta subito il pregiudizio. Molti di noi hanno cercato a lungo, prima che Veritas ci offrisse le autorizzazioni per la raccolta del ferro, altri lavori regolari, ma ci hanno sempre sbattuto la porta in faccia. C’è un pregiudizio pesante su noi anche se siamo qui da quarant’anni, e frequentiamo i negozi della città, i suoi supermercati, i nostri figli vanno tutti a scuola… Continuiamo ad essere confusi con quelle persone che chiedono l’elemosina, cosa che per noi è un disonore, si pensa che siamo sporchi e che rubiamo, ma in realtà non abbiamo mai commesso reati, e anche se tante volte ci hanno perquisiti e controllati, non è mai stato trovato nulla di illegale o di irregolare nel nostro campo”. È un caso atipico di integrazione tra i nomadi e la città quello mestrino, un caso unico in Italia e che la stessa città di Venezia non conosce forse fino in fondo. Un caso per il quale da tanti anni si spendono i servizi sociali del Comune, e in particolare l’Etam, secondo quella logica che preferisce intervenire sulle politiche sociali e nella prevenzione piuttosto che ricorrere a estremi rimedi. Un caso che forse potrebbe essere preso ad esempio di un’integrazione quasi del tutto riuscita, dove poco più di un centinaio di

Nel campo. Barcellona, Spagna 2007. Luca Ferrari/Prospekt per PeaceReporter


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persone vivono da tre generazioni secondo le proprie tradizioni, tranquillamente, senza aver mai causato gravi disagi per la città. Qualche disturbo ai vicini forse si. Perché qualche anno fa a ridosso dell’area ci hanno costruito degli appartamenti con le terrazze e le finestre che si affacciano direttamente sul campo, dove la vita all’aria aperta è la regola e dove il concetto di casa si estende al giardino. Ma mai un caso di criminalità cittadina ha coinvolto i residenti. È stato lo stesso prefetto di Venezia, Guido Tardone, a ribadirlo spesso: “I nomadi di via Vallenari sono una comunità tranquilla”. Nonostante questo, i controlli della polizia sono costanti e frequentissimi: “Passa di qua la pattuglia – dice Paolo – due, anche tre volte la settimana. Guardano, controllano. E non trovano niente. Noi non abbiamo problemi: che passino pure, li salutiamo. Il problema è quando vengono con la violenza, allora no che non sono i benvenuti: è capitato anni fa che ci hanno caricati tutti su due pullman per farci fotografare e schedare. Tutti, anche i bambini, a spintoni, trattandoci come criminali. La polizia era in divisa antisommossa, noi eravamo in pigiama. L’anno scorso fecero un controllo in tutti i campi del Veneto: vennero all’alba, era freddo, e ci buttarono tutti fuori dal letto in malo modo, buttarono per aria tutto, ci fecero altre foto e comunque non trovarono nulla. In altri campi qualcosa saltava fuori, ma qui da noi non trovarono nulla”. anti non ci sono da nessuna parte, e sono loro a sottolinearlo, mentre Maria Paola, una delle donne del campo, versa acqua fresca in bicchieri di plastica. “Paghiamo tutti le tasse – dice Paolo – e le bollette, siamo cittadini veneziani a tutti gli effetti, siamo nati qua, i nostri figli sono nati qua. Siamo tutti schedati e controllati, non possiamo fare nulla di male. Ci conoscono tutti, abbiamo molti amici in città. Ciò che vogliamo è soltanto la possibilità di vivere dignitosamente secondo le nostre tradizioni, chiediamo troppo?”. Per ‘dignitosamente’ Paolo intende con servizi igienici funzionanti e privati: “Pensi che ci faccia piacere lavarci in pieno inverno con l’acqua gelida lì dove si lavano tutti?” Nel progetto del nuovo villaggio, che prevede una spesa di quasi 3 milioni di euro, dovrebbero esserci delle strutture prefabbricate per ciascun nucleo familiare con bagni privati alla quale poi i nomadi possano ‘agganciare’ la loro roulotte, proprio come si fa nei campeggi al mare. Un progetto promesso da vent’anni e che cerca di rispettare, invece che costringere le famiglie a trasferirsi in appartamenti, una tradizione radicata nel popolo nomade: “Noi amiamo la vita all’aperto – spiega Paolo – per noi ‘casa’ significa anche il giardino, lo spazio della veranda, i nostri bambini giocano all’aperto, stanno insieme, e le nostre famiglie si aiutano”. “Ho più figli e più nipoti – interviene un vecchio – e non voglio che ci dividano in tanti appartamenti. A noi piace vivere tutti insieme, come si faceva una volta anche tra le famiglie vostre”. Da quando i primi nuclei arrivarono nel territorio veneziano, sono numerosissimi i nomadi che si sono ‘convertiti’ all’appartamento e che ora vivono indisturbati nei quartieri residenziali della città, pienamente integrati con il resto della popolazione. Molti hanno celebrato matrimoni misti, la maggior parte delle tradizioni sono andate perdute. Ma non per tutti è stato facile. Per alcuni sembra ancora del tutto impossibile vivere in un appartamento. “Alcune famiglie – spiega una donna – hanno accettato di trasferirsi in appartamento per non essere più considerati ‘nomadi’, per offrire ai propri figli un futuro migliore, lontano dai pregiudizi, ma non è stato così facile. Ci sono persone che non riescono a dormire al pensiero di avere altre famiglie sopra la testa. Altre ancora che non riescono ad avvicinarsi alle finestre perché soffrono di vertigini. Che male c’è se noi vogliamo vivere nelle nostre roulotte cercando di mantenere viva questa ultima tradizione che ci è rimasta?”. I sinti di nazionalità italiana sono dunque una vera e propria minoranza di cittadini, solo che nulla della loro storia e del loro passato viene tutelato e riconosciuto. In ogni tempo e in ogni paese i nomadi in generale hanno sempre incontrato difficoltà di integrazione. E anche a Mestre, dove tutto sommato l’integrazione c’è, i pregiudizi non muoiono. “I nostri bisnonni – ricorda un uomo – sono stati perseguitati durante il

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nazismo in tutta l’Europa. In pochi ricordano che, insieme agli ebrei, nei campi di concentramento morirono in migliaia, forse in milioni, anche gli zingari rom e sinti. Tutti noi abbiamo avuto degli antenati coinvolti dallo sterminio pianificato. E mai nessuno ha ricevuto alcun risarcimento per questo, né alcuna scusa”. a via Vallenari, un po’ periferica, ma immersa in una zona della città altamente residenziale, non è considerata una via raccomandabile in cui passare, proprio a causa della presenza del campo nomadi, tanto meno per una ragazza da sola. Ma una volta entrati a conoscenza di quella realtà, come sempre, un po’ di pregiudizi vengono abbattuti e anche la diffidenza si scioglie. A guardarsi intorno, dopo essersi soffermati un paio d’ore nel campo, si colgono vari dettagli di vita quotidiana: i bambini che giocano e girano per il campo con le biciclette con le rotelline, laggiù una donna sta cucinando su dei fornelli nella veranda della sua roulotte, un gruppo di giovani alla moda chiacchierano tra di loro guardando di tanto in tanto il cellulare. Ci si può anche sforzare ma sporco o puzza, di quella che si immagina di trovare in un campo nomadi, neanche l’ombra. Avvicinandosi alle persone o alle abitazioni c’è odore di casa, di cena sul fuoco, di vapore del ferro da stiro, di legni, di fiori sui balconi. Al massimo di asfalto bagnato dalla pioggia. Ma quando si dice zingari nell’immaginario collettivo si stampano nella mente determinate fotografie che possono essere rimosse solo in seguito a una conoscenza diretta: “Non sappiamo più cosa fare – dice ancora Paolo – continuiamo a dire chi siamo, continuiamo a spiegare alla gente, ai giornali, alla tv come viviamo e che siamo persone oneste che vogliono solo vivere tranquille insieme alla loro famiglia. Ma non sempre i media ci vengono in aiuto, spesso ci confondono con i rom, spesso ci confondono con i Rumeni, ci confondono con gli irregolari, spesso per parlare del nostro campo utilizzano foto di altri campi, in altre città. Ma non è giusto generalizzare, perché così facendo alimentiamo i pregiudizi e l’ignoranza. E non sarà mai possibile una vera integrazione e una convivenza pacifica”. Mentre gli adulti sono impegnati a discutere, i bambini l’integrazione la fanno già da tempo. Già perché nelle scuole vicine al campo da parecchi anni è in atto un programma di integrazione, sempre promosso dal Comune di Venezia, che cerca di accompagnare nell’inserimento scolastico i figli dei nomadi che non hanno nella loro cultura l’abitudine dell’istruzione. Molti degli adulti del campo non hanno mai frequentato le scuole e alcuni non sanno nemmeno leggere e scrivere. Ma i bambini da diversi anni sono perfettamente inseriti nella scuola dell’obbligo, tanto che molti frequentano anche la scuola dell’infanzia. Ci sono degli operatori che aiutano i bambini nei compiti, altri che organizzano iniziative all’interno delle scuole, con il risultato che in classi dove c’è un’altissima presenza di bambini nomadi la differenza tra ‘nomadi’ e ‘gaggi’ non si vede ormai più. “Fanno ancora un po’ di fatica – spiega Maria Paola- i ragazzi delle scuole medie a inserirsi nel percorso comune: i nostri ragazzi a didici, tredici anni sono molto più maturi dei coetanei, nella nostra tradizione ci si sposa molto presto e si cresce in fretta, quindi spesso i nostri ragazzi faticano a confrontarsi con il resto della classe e c’è chi abbandona presto gli studi. Ma c’è anche chi, proprio grazie al percorso fatto, sta iniziando a pensare di proseguire negli studi superiori, cosa rara tra la nostra gente, per cercare opportunità di lavoro diverse”. È un percorso lento, quello dell’integrazione, che richiede tempo, ma contemporaneamente impegno concreto da parte della città che accoglie. “L’integrazione – dicono gli uomini del campo, che in mezzo a tante polemiche non vedono l’ora di avere un po’ di spazio per essere ascoltati – passa per la conoscenza reciproca e per il rispetto: noi rispettiamo la città, vorremo che la città rispettasse noi”.

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In alto: Donna sinti. Le Saintes Maries de la Mer, Francia 1978 Lucio Cavicchioni per PeaceReporter In basso: Il campo nomadi. Mestre, Italia 2008. Francesca Bellemo per PeaceReporter


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I cinque sensi dell’Italia

Udito Guastalla La musica gitana che esce dalle roulotte accanto alle casette, dove è sempre presente una chitarra o una fisarmonica. Melodie a volte malinconiche e struggenti, a volte esplosioni di sfrenata energia. Napoli Il rumore nei campi nomadi non è nitido. Le grida dei bambini si confondono con lo scalpellio dei lavoratori di rame. I rom rumeni ascoltano Manele, un giovane cantante folk. Nei campi dei rom slavi gli adulti ascoltano Šaban Bajramović e Mónika Miczura. I bambini no. Tra di loro canticchiano il neomelodico napoletano Raffaello. Mestre Rumore di gente che vive, insieme: voci di bambini che giocano all’aria aperta, donne che chiacchierano, cani che abbaiano, cellulari che squillano. E il sottofondo continuo delle auto che sfrecciano nella vicina tangenziale.

Vista Guastalla Il verde acceso del campo di granoturco. Le ombre lunghe dei pioppi sull’argine del torrente. I colori tenui e sereni delle casette prefabbricate. Gli occhi azzurri dei bambini. Napoli A Napoli i campi nomadi sono un’escrescenza informe della periferia tra palazzi grigi, rifiuti, pneumatici, carcasse di auto. I rom sono gli unici

che nella città della munnezza riciclano tutto: la rete di un letto è un cancello, una vecchia serranda è muro divisorio. Mestre Verde, grigio, marrone e sprazzi di rosso (sono i fiori sui davanzali, il triciclo di un bimbo e i lumini accesi davanti alla statua della Madonna). Inaspettato l’ordine e il decoro delle abitazioni in contrasto con i mucchi di ferrame accatastati. Inaspettata la cura nell’abbigliamento in contrasto con le condizioni dei servizi igienici.

Gusto Guastalla La zuppa di verza e pasta. Cucinata in occasione di feste, matrimoni, o quando vi sono ospiti, è composta da grossi maccheroni fatti in casa con acqua e farina, a volte con l’aggiunta di patate lesse. Napoli Un sapore unico a coprire il resto: quello della polvere. E poi l’amaro del caffè turco bevuto con gli anziani, le chewingum dal sapore di fragola masticate con i bambini, il gusto assoluto e puro dell’acqua a rimuovere la confusione dei sapori. Mestre Acqua fresca da frigo in bottiglia di plastica e in bicchiere di plastica.

Olfatto Guastalla L’aroma del caffè che si spande all’aria aperta,

immancabile bevanda della tradizione sinti e rom da centinaia d’anni. L’odore degli stufati di carne, che le donne della comunità cominciano a cucinare sin dal primo pomeriggio. Napoli Da queste parti, il tanfo greve e rancido della munnezza si confonde con la puzza dei rifiuti bruciati. Qui si raccolgono i miasmi e gli odori di tutta la città. Intorno, quasi impercettibili, il profumo di sapone dei panni appena lavati e l’odore della carne arrosto. Mestre Odore di asfalto bagnato dalla pioggia e nient’altro. Lo stesso odore che si annusa cento metri più in là, dove ci sono i condomini, o più in qua, dove ci sono le villette.

Tatto Guastalla Le mani piccole e morbide dei bambini che si stringono attorno al visitatore per giocare. Quelle consumate e a volte ferite degli uomini, abituate a maneggiare rottami ferrosi. Napoli I campi nomadi sono ruvidi, arrugginiti, umidi. Sono il compensato poroso delle baracche, la plastica liscia dei bidoni che contengono l’acqua, i pezzi spigolosi di ferro con cui giocano i bambini. Mestre Mani rugose e forti, di chi lavora. E di chi ci tiene a stringertela prima di parlarti. 17


Il reportage Macedonia

A Sutka sono tutti leader di Cecilia Ferrara

Quando il taxi arriva a Suto Orizari, la strada diventa sempre più disconessa e si stringe tra le case. Il mercato ai lati e gente da tutte le parti; macchine e autobus passano incrociandosi, sfiorandosi pericolosamente, e quando al primo incrocio passa il carretto trainato dal cavallo, scatta l’imprecazione. uando te ne vai da Suto Orizari, con un taxi locale, è ancora più avventuroso: ti può capitare una Lada degli anni Settanta tenuta insieme dallo scotch e tassametro rotto (garantito quindi dover trattare sul prezzo), o l’autista che entra in una strada interna, si ferma davanti a casa, fa un grido alla moglie e gli passa la spesa dal finestrino. Siamo a Skopje, capitale della Macedonia (“ex Repubblica Yugoslava della Macedonia, come si scrive ufficialmente): verso nord, a pochi chilometri dal centro, si trova Suto Orizari, amichevolmente Sutka, l’unico comune rom al mondo. Nel 1963 un fortissimo terremoto devasta Skopje e i rom, che vivevano principalmente nel quartiere Topana, vengono sistemati - o si trasferiscono, a seconda della versione - sulla collina di Suto Orizari. L’insediamento è cresciuto negli anni diventando una piccola città con negozi, un grande mercato che è anche l’attrazione principale del quartiere, moschee, chiese. Negli anni Settanta ci abitavano circa sessantamila persone. Era un posto dove andare, la terra promessa di un popolo senza nazione. Nel 1996, in seguito alla decentralizzazione della Macedonia, Suto Orizari diventa una delle municipalità di Skopje e inizia ad avere i primi sindaci rom E le prime politiche locali. Ma non la fine di tutti i problemi. “Quando parliamo di Suto Orizari, noi diciamo orgogliosamente che è l’unico governo locale a guida rom al mondo – dice Nadir Redzepi, della Ong Sonce – ma io dico che è un ghetto e secondo me andrebbe smantellata”. Redzepi è di Tetovo, nord della Macedonia, a due passi dal Kosovo, la sua ong si occupa dei diritti delle minoranze e monitora l’avanzamento della “Roma Decade”, l’iniziativa dei paesi del sud est europeo a favore dell’inclusione dei rom. Redzepi conosce bene la situazione di Suto Orizari. “Il problema è che a Shutka si concentrano tutti gli stereotipi sui rom, e si autoriproducono. L’integrazione continua ad essere negata ai suoi abitanti. Il comune ha prodotto molti leader ma pochissimi tra questi hanno le capacità, i partiti non hanno struttura e la corruzione è altamente diffusa”. Nel 2005 è uscito un documentario, The Shutka book of records, del regista serbo Alexsander Manic, che raccontava di alcuni personaggi di Suto Orizari con strane ossessioni e ovviamente con tanti luoghi comuni sui rom. Il film è stato adorato in tanti festival internazionali, ma è stato fortemente criticato da una buona metà della popolazione rom, che ha protestato di fronte ai cinema di Skopje dove veniva proiettato. “È come se di un volto – spiega il sindaco di Suto Orizari, Erduan Iseni – si facessero vedere solo le ferite”. I personaggi ridicoli e grotteschi che hanno recitato se stessi, secondo il sindaco sono stati sfruttati per scopi commerciali. E questo è sempre un rischio quando si va a Shutka, perché comunque di cose strane se ne incontrano tante. Nel comune di Shuto Orizari ci sono ufficialmente ventunomila abitanti, ma si pensa che siano almeno il doppio, senza contare gli abitanti che vivono in altri paesi europei, che riempiono Shutka l’estate. Le uniche fonti di reddito all’interno della municipalità sono il mercato, che vende merce che arriva dalla Bulgaria e dalla Turchia, e il riciclaggio delle bottiglie di plastica. Le donne vanno a fare le pulizie nelle case dei macedoni o nelle strutture pub-

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bliche. Appena entrati a Shutka, ciò che colpisce immediatamente sono le gigantografie del candidato al parlamento nelle scorse elezioni, Amndj Bajram. È un uomo potente a Shuto Orizari, parlamentare rom già dal 1998, è riconoscibile per la sua ricchezza e il suo modo di mostrarla. I suoi figli si chiamano Gianni Versace Bajram, e Lady Diana Bajram perché nati l’anno della morte di questi due eroi di papà. “Ha un linguaggio molto semplice – dice di lui Redzepi – non è educato, è un ex uomo d’affari che ha guadagnato un po’ di soldi all’epoca della dissoluzione della ex Jugoslavia”. Alla fine degli anni Novanta è stato condannato perché coinvolto nel traffico illegale del materiale di una fabbrica fallita e ha passato quattro anni in carcere (per questo non ha potuto ricoprire la carica di sindaco a cui aspirava). In questa tornata elettorale ha nuovamente vinto, ma ancora non è chiaro se risiederà in parlamento: la legge macedone non permette a chi ha passato più di sei mesi in carcere di diventare un rappresentante del popolo. a sede del partito di Amdi Bajram, nella strada principale di Suto Orizari, è un ex bar dai colori accesissimi e sulle tende viola in fondo spicca un suo poster mentre arringa la folla. Ibrahim, ventun’anni, ci accoglie e ci spiega che il partito di Bajram, Unione dei Rom di Macedonia, è all’opposizione in comune, ma con la coalizione dell’Vrmo è vincitore delle ultime elezioni in Parlamento. In questa tornata elettorale tutti e sei i partiti rom, al di là delle precedenti appartenenze, si sono schierati con il presidente macedone, Nikola Gruevski, tranne il sindaco, che ha deciso di restare fedele ai Socialdemocratici. Incontriamo lì Nesat Zafer, attivista del partito che ci parla dei problemi di Sutka: lavoro, educazione e sistemazione urbanistica. La disoccupazione tra i rom di Sutka è all’ottanta percento. Nesat ha lavorato vent’anni nella Tabacco Macedonia, che è chiusa, e si è ritrovato senza lavoro e senza nessun aiuto sociale. Ora vive con l’aiuto del figlio, che ha un banco al mercato, e raccogliendo bottiglie di plastica per quattro denari al chilo: per fare un euro deve raccoglierne quindici chili. “Certo - interviene Didar Sherif, una signora di cinquantotto anni - a Skopje i rom vivono meglio che in qualunque altro posto al mondo, ma io mi ritrovo con quattro figli di cui uno solo lavora, e dopo aver lavorato per trentadue anni pulendo l’università non ho uno straccio di pensione”. Il mercato è l’altra grande questione. È sicuramente nato come un mercato nero, ma ora non si capisce se è legalizzato o no, non si capisce se le rette che pretende il sindaco da chi ha il banco siano tasse o mazzette, né dove vadano a finire. Quando ci congediamo, Didar decide che mi deve leggere il futuro: prende una manciata di fagioli, li butta sul tavolo e li divide a mazzetti, riesce a indovinare più o meno il periodo del mio compleanno e prevede che tutti i miei desideri si avvereranno. “A Shutka sono tutti leader”, dice Redzepi, e questo dopo un paio di giorni

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In alto e in basso: Per le strade di Sutka. Macedonia 2007. Cecilia Ferrara per PeaceReporter


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Intervista a Erduan Iseni di Cecilia Ferrara Erduan Iseni è il sindaco di Suto Orizari, uno dei più giovani politici rom, e proviene da una delle più importanti famiglie di Suto Orizari. Da poco ha abbandonato il suo partito (Partito per l’Emancipazione Rom) in disaccordo con la decisione di allearsi con gli altri partiti rom e con il partito di governo, quello del conservatore Nikola Gruevski, dell’Vmro. “Non si può passare così da sinistra a destra – spiega Iseni – perché così si ingannano gli elettori”. Nato e cresciuto a Suto Orizari, dopo le elementari e medie aveva iniziato il liceo a Mostar, ma pochi mesi dopo l’inizio del primo anno è scoppiata la guerra in Bosnia e il liceo è stato trasformato in accademia per paracadutisti. Tornato a Skopje, finisce il liceo e si laurea in chirurgia odontoiatrica. Dopo alcuni anni di lavoro all’estero ha iniziato la sua carriera politica e adesso è al secondo mandato come sindaco. Sindaco Iseni ci può raccontare la nascita del Comune di Suto Orizari? Nel 1991 la Macedonia divenne indipendente, alle prime elezioni parlamentari è stato eletto un deputato rom, che ha iniziato a sensibilizzare l’assemblea nazionale sui problemi e sulle richieste di diritti dei rom. Penso che da una parte ci sia stata la buona volontà del governo macedone, dall’altro lato i rom erano ben organizzati in partiti politici che potevano fare pressione. Suto Orizari è sempre stata famosa, non c’era in nessun altro posto una cosi alta concentrazione di rom: quarantamila persone su un unico territorio. Quindi è stato deciso di istituire una municipalità che è diventata parte della municipalità di Skopje. Le cifre ufficiali parlano di ventimila abitanti? Non è facile un censimento. Intanto spesso il censimento viene fatto con una metodologia che non riesce a raggiungere i rom. Poi c’è tanta gente che non ha i documenti, persone anziane che non sono mai andate a un’anagrafe presso uno sportello pubblico. Inoltre sono registrati circa ventimila elettori a Suto Orizari, quindi questo vorrebbe dire che non abbiamo bambini o ragazzi al di sotto dei diciotto anni. Il grosso problema per i rom è quello di non avere un database. Parliamo di problemi, parliamo di programmi, parliamo della Roma Decade, ma non abbiamo dati. Con un database iniziale possiamo presentarci alle istituzioni e alle organizzazioni internazionali con un documento solido. Penso anche che il governo non abbia la volontà di creare un censo ufficiale di rom: in Macedonia ad esempio il dato ufficiale è di cinquantacinquemila rom, il due e mezzo percento della popolazione macedone, ma solo in Suto Orizari ci sono quarantamila persone. Non è verosimile che il dato ufficiale corrisponda a verità. Anche in altri paesi abbiamo lo stesso problema: in Albania, in Bosnia, in Montenegro. In Serbia c’è una grossa comunità rom, ma nessuno sa con esattezza il loro numero. Qual è la composizione del consiglio comunale a Suto Orizari? In consiglio ci sono dieci rom un macedone e otto albanesi. Non è molto giusto perché la percentuale di albanesi a Suhtka è inferiore al venticinque percento, ma nel 2005 gli albanesi sono riusciti a ottenere otto consiglieri a causa della bassa percentuale di persone che sono andate al voto tra i rom.

e tante parole si inizia a capire. Uno di questi è sicuramente Zoran Dimov, redattore capo e fondatore della Tvbtr, la seconda televisione rom, ideatore dell’Informative Business Center Rom, per lo start up di imprese e fondatore di una università professionale, dove si studia dal marketing al cucito. Dietro il Business Center c’è lo spazio dove Dimov raccoglie la plastica riciclata che porta in Italia o in Slovenia. Non solo, è anche numero due dell’Iru, International Rom Unione, un’organizzazione che tratta con le istituzioni europee. Da diciassette anni la Tvbtr, inoltre, organizza la spettacolare manifestazione “Miss Roma International”, concorso di bellezza internazionale per donne rom. Per questo concorso, Dimov ha ricevuto dure critiche da parte dell’Organizzazione Donne Rom della Serbia che lo hanno accusato di promuovere un tipo di bellezza tipicamente bianca e occidentale che poco ha a che fare con la cultura rom. Zoran Dimov è il ritratto dell’uomo di successo un po’ spaccone, racconta aneddoti sugli incontri con Bill Clinton e Olli Rehn, ma anche con Putin e Berlusconi. “Tutti mi dicono che sono un po’ il Berlusconi rom – ci dice – ho una televisione, una radio, dei giornali, un’università, un business center”. Qual è la condizione dei rom in Macedonia? “Il governo Macedone ha lavorato molto per i rom, ma – ammette – ancora c’è una forte discriminazione, non c’è posto per loro nelle amministrazioni pubbliche e nelle strutture di governo. Ci sono partiti rom, ma sono 20

Qual è la percentuale di rom che va a votare? In media tra il quaranta e il quarantacinque percento. È molto difficile rendere le persone coscienti dei loro diritti e qui, per colpa di un bassissimo livello di educazione, ancora di più. Il problema con i rom, secondo me è che sono fortemente individualisti, non hanno una visione collettiva. Non investono nella collettività. Solo apparentemente vivono insieme, alla fine della giornata ognuno pensa a se stesso. Si vede al mercato: lavorano su base giornaliera, pensano al giorno dopo, ma non al giorno dopo ancora. L’economia rom è molto debole, non abbiamo lavoro, non abbiamo fabbriche a Shuto, non abbiamo un piano a lungo termine, pensiamo solo all’oggi, al domani e al matrimonio! Il settantadue percento dei capi famiglia sono nella lista dei servizi sociali e la disoccupazione tocca il cinquanta percento. Ma bisogna anche dire che il settantasei percento della popolazione ha solo l’educazione elementare, non sono qualificati per alcun tipo di lavoro. Suto Orizari, come unico comune rom, ha una posizione di forza? Sicuramente, ma con molte debolezze. È una ricetta molto importante per mostrare alla maggioranza e agli altri rom che questa è la via verso l’integrazione, che è necessario dare ai rom la possibilità di pianificare e decidere per loro stessi. Allo stesso tempo questo porta responsabilità e noi non siamo molto equipaggiati su questo fronte. C’è ancora una rivoluzione sull’educazione in corso, abbiamo una significativa percentuale di analfabetismo nella nostra comunità. La prima cosa da fare per l’emancipazione è l’educazione. I bambini una volta educati non vorranno andare ai semafori a chiedere l’elemosina, cercheranno di mettere il loro investimento in pratica e cercheranno un impiego. Abbiamo bisogno di un’altra decina di anni per arrivare alla soluzione di questi problemi. Ora abbiamo un asilo e due scuole elementari, abbiamo il progetto di costruire un liceo con l’aiuto principale dell’ambasciata austriaca, ma ancora mancano fondi. Che lingua si impara a scuola? Nelle scuole si studia in macedone, il romani è un’opzione. Non siamo spaventati dalla perdita della lingua madre, ci sono dodici milioni di rom in Europa e ognuno parla il suo dialetto, quindi non c’è pericolo di perdita di cultura. Non è un problema per noi dimenticarsi il cavallo e la carrozza, il problema per noi è quello di andare a scuola. Abbiamo tantissimi stereotipi nella nostra testa, anche di più dei non rom. Ce li abbiamo verso gli altri rom, non gli crediamo, ci isoliamo e spesso, quando non abbiamo la soluzione di un problema, giriamo il capo e continuiamo la migrazione. Non è una soluzione. I rom non sono una nazione, sono la composizione di gruppi etnici, di tribù. E quando non hai una nazione, non hai sentimento nazionale, non hai la coscienza delle tue origini, è molto facile per te migrare e andare in un altro paese e sistemarti nella periferia della società contemporanea. Ma i ragazzi che studiano qui non corrono il rischio di non vedere altro da Suto Orizari? Beh, non è che loro non vorrebbero andare in città, nei bar, in un club, ma sanno che una volta là sarebbero messi alla porta perché rom e allora preferiscono non provarci, perché soffrirebbero. Ci sono stati troppi esempi di umori anti-rom nella regione e ora sono riluttanti a provare a integrarsi.

partiti stagionali con poca influenza e capacità”. Il problema più grave è l’educazione. Solo il cinque percento dei bambini vanno alla scuola secondaria. Tutti gli altri in genere dopo il secondo anno lasciano. I rom hanno anche qui risentito delle guerre balcaniche: “Nel 1999 con la guerra in Kosovo e nel 2001 con la guerra tra macedoni e albanesi sono arrivati molti profughi – continua Dimov - qui si sentivano più sicuri. La forza di Shutka è quella di essere tutti insieme. Ma adesso, dopo il 2001, la Macedonia è diventata lo stato dei macedoni e degli albanesi e i rom sentono che non c’è più posto per loro. Molti giovani se ne vanno”. Usciamo da via Garcia Lorca, dove si trova il Business Center, e ammiriamo le case più lussuose di Shuto Orizari, costruite come ville americane con portici e grandi terrazze e con i nomi della famiglia scolpiti sulla facciata della casa. Ma accanto alle case con il giardino e alle loro inferriate ci sono case molto povere. Due strade più in alto, gli intoccabili: baracche di alluminio dove gli abitanti di Shuto Orizari non vanno mai. Là ci sono le famiglie più povere, bambini, donne e vecchi che vivono in condizioni al limite della sopravvivenza e che hanno potuto trovare un posto solo lì, ai confini di Shutka. In alto e in basso: Per le strade di Sutka. Macedonia 2007. Cecilia Ferrara per PeaceReporter


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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

Parte da Brescia. Un segnale che si propaga su dodici ponti satellitari

Una Nazione che non vuole divenire Stato, ma che rivendica una rappresentanza

Le buone nuove

La voce dei rom è nell’aria

Internazionale nomade

India: spiragli di pace in Assam

Romano Krlo, un trasmissione in onda tutti i sabati sulle frequenze dell'emittente bresciana Radio Onda d'Urto. Da sedici anni, sempre nelle salde mani di Baraim Osmani, quarantotto anni, giornalista e commissario per i media dell’International Romani Union, organizzazione non governativa che rappresenta i Rom di tutto il mondo. La trasmissione non si esaurisce nei novanta minuti di un format che si è arricchito man mano di voci in diretta da più Paesi: è un potente network multilingue in cui capita di sentir parlare in italiano, in romanì, serbo e in tutte le lingue delle realtà geografiche in cui arriva il segnale satellitare. Informazione, tanta, cultura e musica: sono i tre pilastri della Voce dei Rom, che vede la partecipazione di professori, docenti, intellettuali e le telefonate in diretta gestite da Osmani. Laureato in economia, un lavoro come metalmeccanico, ottimi rapporti con le istituzioni locali. “La nostra musica è quella del popolo rom. Io sono originario del Kosovo, note e ritmi non partono solo dagli studi di Brescia. Arrivano dalla Macedonia, dalla Bosnia, dalla Corazia”. Una trasmissione che ha vissuto, in diretta, il cadere delle bombe. Su Belgrado come sul Kosovo e che fa dei diritti umani, dei diritti dell'infanzia e all'educazione i perni fondamentali della propria missione. Unire attraverso ponti, quelli satellitari e quelli della comunicazione. “Date fiducia ai rom – dice Osmani con forza – la possibilità di essere rispettati, conosciuti, di avere un lavoro è la soluzione a tutti i problemi. Chi commette reati deve essere arrestato e giudicato: ma non si può etichettare un popolo intero. Non si può andare casa per casa a prendere generalità o impronte digitali a rom che sono in Italia da seicento, settecento anni”. C'è una pausa, un attimo di silenzio che precede il commiato con il giornalista di Romano Krlo: “Ma cosa sta succedendo in questo Paese?”.

ella percezione comune, i rom non hanno una rappresentanza mondiale, persi come sono nelle tante differenti tradizioni e migrazioni che li hanno portati a sparpagliarsi in giro per il mondo. Ma hanno una bandiera, e una sorta di Internazionale Roma esiste: la International Romani Union (Iru). Fondata nel 1971 a Londra, il suo primo presidente è stato Jan Cibulka, un medico Rom proveniente dalla Slovacchia. Alla sua fondazione, l'Iru adotta un inno trasnazionale, Gelem Gelem, composto da Janko Jovanovich e una bandiera a bande orizzontali con l'azzurro, colore del cielo, in alto, il verde, colore della terra,in basso e una ruota di carro rossa al centro, simbolo del nomadismo. L'Iru è una organizzazione internazionale non governativa. Nel 1993 è stata riconosciuta alle Nazioni Unite, dove mantiene uno status di osservatore, e attualmente è formata da un gruppo di Rom che ne costituiscono il fulcro, provenienti da trentadue paesi, compresa l'Australia, la Nuova Zelanda, gli Usa e l'India. Essi sono i membri del Congresso. Fin dall'inizio l'Iru è stata attiva in campo culturale, nel campo dell'educazione e della presa di coscienza della propria identità da parte dei Rom. Fin dal IV Congresso, tenutosi a Varsavia nel 1990, l'Iru è gradualmente cresciuta fino ad evolversi nell'organizzazione politica che rappresenta attualmente di tutti i Rom del mondo. Obbiettivo principale dell'Iru è lavorare per creare condizioni di vita dignitose per tutti i Rom nei loro rispettivi paesi, dove inserirsi, ma non farsi assimilare. Il Congresso Mondiale dell'Iru, nel luglio 2001, ha approvato solennemente la Dichiarazione della Nazione Rom. Una Nazione che non vuole divenire Stato, ma che rivendica una rappresentanza, anche nell'ambito delle Nazioni Unite, che riconosca il valore transnazionale di una cultura e di un popolo senza frontiere. La proposta, presentata ai capi di Stato e di governo, è stata quella di creare la cittadinanza europea per i rom, quale primo passo di quel che è la attuazione di una vecchia promessa fatta dai governi europei, e che è prevista anche dai Trattati Europei.

Dopo trent’anni di guerra, in Assam si aprono spiragli di pace. Una parte dei comandanti del Fronte unito di liberazione dell’Assam (Ulfa) ha annunciato una tregua unilaterale per porre fine a un conflitto che, dal 1979 a oggi, ha causato almeno quindicimila morti.

Jamaica: dal carcere a second life Si chiama Prison Diares il progetto di giornalismo partecipativo della Students Expressing Truth (Set) per la casa circondariale di massima sicurezza di Kingstom. Un corso intensivo su come si gestisce un blog, un podcast, un programma radio e addirittura su come ci si relaziona su Second Life.

La storia torna in Mesopotamia Le autorità giordane restituiscono al governo iracheno oltre duemila manufatti archeologici, trafugati in seguito all'invasione del paese. Lo annuncia la ministro del Turismo di Amman, Maha Khatib, secondo cui “ora che la stabilità del Paese è stata ripristinata, la Giordania è pronta a rimandare quelle antichità nel luogo da cui provengono: l'Iraq, la culla della civilità”.

Argentina, giù le mani dal Bauen Dopo aver resistito a una miriade di tentativi di riprivatizzazione, i lavoratori dello storico albergo del centro di Buenos Aires, simbolo dell'autogestione 'all'argentina' che ha salvato centinaia d'imprese dopo la crisi economica del 2001, sono vicini a coronare un sogno. La deputata nazionale del Frente para la Victoria, María Victoria Donda, ha presentato un progetto di legge affinché la cooperativa possa diventare finalmente proprietaria a tutti gli effetti dell’hotel.

Grecia, l'isola dei diritti Una coppia di uomini e una di donne si sono sposate nell'isola di Tilos, dove il sindaco socialista Anastassios Aliferis ha celebrato la funzione approfittando di un vuoto legislativo in materia. Sono i primi matrimoni gay della storia greca.

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Speciale

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Speciale Cina

L’orgoglio del dragone dal nostro inviato Alessandro Ursic

L’amico italiano che non vedeva da otto anni stava per ripartire, puntando verso nord. Un po’ giù di corda perché non l’avrebbe ritrovato per chissà quanto tempo, e spinto dall’ospitalità e dalla generosità tipiche dei cinesi, Tse Ping Leung iniziò quindi a insistere: ti regalo una di queste polo in vetrina, scegli tu quale. ome in altre occasioni del suo soggiorno a Hong Kong, l’ospite sapeva benissimo che tentare di rifiutare l’offerta era inutile. Ci provò comunque e a lungo, senza risultati. Poi, messo di fronte ad almeno dieci tinte unite diverse, indicò una maglia arancione. “Sei sicuro che la vuoi di quel colore? Perché non la scegli rossa...”, disse allora Leung. E per quale motivo, indagò l’amico, incuriosito dalla risposta. “Perché l’arancione ora è il colore delle proteste in favore del Tibet, in Cina qualcuno potrebbe sentirsi offeso e farti storie”. Qualche ora dopo l’italiano - autore di questo articolo - si faceva apporre il timbro cinese sul passaporto nella stazione ferroviaria di Guangzhou. Nello zaino c’era anche quella polo arancione: indossata in alcune occasioni, naturalmente senza nessun problema, nelle settimane successive. Intorno, in un mese di maggio segnato dal devastante terremoto che ha colpito la provincia del Sichuan, c’era un Paese diviso tra commozione e solidarietà per il disastro, attesa entusiastica delle Olimpiadi, e rabbia verso l’Occidente per la questione del Tibet, della fiaccola olimpica contestata, delle critiche al governo di Pechino. Ma si percepiva anche un altro sentimento, un minimo comune denominatore di quelli descritti, che da esso si alimentano e che a loro volta contribuiscono ad accrescere: un orgoglio nazionale sopito per decenni, rinato negli ultimi anni e pronto a mettersi in mostra durante i Giochi di agosto.

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o si intuisce già a Hong Kong, che è sì parte integrante della Cina dal 1997 - pur con uno status di “regione amministrativa speciale”, con tanto di dogana al confine - ma conserva un carattere ibrido, prodotto di un secolo di presenza britannica. “Fino a dieci anni fa, se all’estero mi chiedevano di dove fossi, specificavo ‘Hong Kong’“, ti dice Leung, che come tutti gli abitanti dell’ex colonia di Londra si è scelto un nome inglese (Eric) oltre a quello datogli dai genitori. “Ma ora sono orgoglioso della crescita della Cina, che negli ultimi quindici anni ha fatto passi da gigante. Per questo, oggi tengo di più alla mia identità cinese”. Le magliet-

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te “I love China” che i venditori ambulanti cercano di vendere a prezzi gonfiati agli occidentali lungo il Bund di Shanghai assieme ad altri gadget olimpici, ma che vengono comprate e indossate da parecchi giovani della metropoli, ti danno un secondo indizio. Quando, in una Pechino ancora cantiere aperto in vista dei Giochi, noti bandierine della Repubblica popolare sventolare dai finestrini di tante automobili, il cerchio si chiude. Tanto più che, come spiegano gli stranieri che vivono nella capitale da anni, fino a qualche mese fa le bandierine non c’erano. Si sa cosa è successo. O meglio: si conoscono le varie reazioni all’estero e in Cina, ma su come sono davvero andate le cose in Tibet a metà marzo forse non verrà mai fatta luce. Di certo, a Lhasa e poi in altre città sono stati attaccati e distrutti negozi e case degli Han, i tanti cinesi che negli ultimi decenni sono venuti a popolare la regione autonoma, provocando il risentimento dei tibetani. Inizialmente sorprese, le forze di sicurezza hanno poi represso la rivolta e la calma è lentamente ritornata. Ma sul bilancio di giorni di violenze, tibetani e cinesi raccontano due storie differenti. Per i primi, la repressione dell’esercito ha causato oltre cento morti. I secondi ribattono che le uniche vittime sono diciannove cinesi uccisi dai rivoltosi, organizzati secondo Pechino dalla “cricca separatista del Dalai Lama”, che nega e accusa la Cina di portare avanti un “genocidio culturale” nella regione, invasa militarmente nel 1950 dopo alcuni decenni di autonomia. Nelle settimane successive, il passaggio della fiaccola olimpica in Europa è stato contestato duramente. A Parigi è stata attaccata anche una tedofora disabile, e molti Stati - Francia in testa - hanno ventilato l’ipotesi di boicottare la cerimonia di apertura delle Olimpiadi. I cinesi l’hanno presa sul personale. Informati dalla propaganda dei media statali, ma infervorati da un genuino tam-tam propagatosi sui tanti siti In alto: Libri e poster al mercatino di Pan Jia Yuan a Pechino In basso: Osama Bin Laden e Yao Ming, idolo del basket, in un negozio di Yangshuo Cina 2008, Alessandro Ursic ©PeaceReporter


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Internet dove possono sfogare le loro opinioni, folle di giovani arrabbiati hanno manifestato in tutto il Paese per protestare contro l’Occidente. È stato lanciato un boicottaggio della Carrefour, la catena francese della grande distribuzione che in Cina ha centinaia di ipermercati. Grazie alle prese di posizione del presidente Sarkozy, i francesi si sentono nel mirino. Julie, una ragazza di Poitiers che lavora in Cina da tre anni per un’associazione culturale transalpina, alza gli occhi al cielo quando le chiedi come va nell’ultimo periodo. “È cambiato tutto. Noi francesi veniamo guardati male. Per la prima volta da quando sono qui, mi sento a disagio. Non è un bel periodo per abitare a Pechino”, si sfoga. Non siamo alle minacce, e magari non si arriverà mai a quel punto. Ma tra gli expat europei nella capitale circola da un po’ l’aneddoto su un ragazzo italiano fermato da un cinese, curioso di sapere se è francese. Dopo la risposta negativa, l’italiano si trova di fronte al perentorio invito: “Dimostramelo”. Che sia verità o leggenda metropolitana, già il fatto che se ne parli dà l’idea del clima. a Francia è un obiettivo nuovo. Tradizionalmente, come rimarcano tutti gli esperti che hanno analizzato il fenomeno, i tre destinatari del nazionalismo cinese erano Giappone, Taiwan e Stati Uniti. La rivalità con il potente vicino è la più antica, e si nutre ancora oggi del risentimento per l’invasione e i crimini - come il massacro di Nanchino del 1937, con centinaia di migliaia di morti - avvenuti prima della Seconda guerra mondiale, per i quali il Giappone non si è mai scusato. Taiwan, l’isola dove i

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nazionalisti di Chiang Kai-shek si rifugiarono nel 1949 uscendo sconfitti dalla guerra civile con i comunisti di Mao Zedong, è considerata da Pechino una provincia ribelle e qualsiasi tentativo verso l’indipendenza formale farebbe soffiare venti di guerra con gli Stati Uniti, visti come la grande potenza che vuole ostacolare l’ascesa cinese. onostante recenti tentativi di disgelo - a giugno si sono tenuti i primi colloqui diretti dal 1999 tra i rappresentanti di Pechino e Taipei - la questione Taiwan rimane più che mai aperta e non si tratta solo di freddi calcoli politici. Elena, una ragazza italiana che insegna inglese in un liceo di Pechino, di recente ha rischiato il licenziamento per un riferimento all’isola in classe. Si parlava della difficoltà che gli orientali hanno nel distinguere i volti degli europei, come gli occidentali spesso non trovano differenze tra un cinese e un giapponese. Ma d’altronde, ha osservato Elena davanti ai suoi studenti, anche voi non capireste la differenza tra uno di Hong Kong e un taiwanese. “Non l’avessi mai detto... ‘Non dire taiwanese!’, mi ha gridato uno studente alzandosi in piedi, rosso in volto e tremante per l’agitazione”, ricorda la giovane, che ha subito poi i richiami dei dirigenti scolastici.

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Qui sopra, Anche la pubblicità punta sull’orgoglio nazionale. A pagina V, in alto: Militari sfilano in piazza Tienanmen. In basso: Giovani patrioti a Shanghai Cina 2008, Alessandro Ursic ©PeaceReporter


I ROM quadro storico generale

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om, sinti, Manus, Kalè e Romanicel sono un insieme di popolazioni diffuse in tutta Europa che parlano dialetti di derivazione indiana. I nomi dei diversi popoli corrispondono ai loro autonimi, cioè ai termini che i popoli utilizzano per designare se stessi. In tutte le lingue europee esistono invece parole più o meno equivalenti all’italiano “zingari”, utilizzate in genere come dispregiativi: si tratta in questo caso di eteronimi, cioè termini che non sono utilizzati dai diretti interessati. Queste diverse popolazioni – designate spesso in modo generico come “rom” – provengono dall’India, e sono arrivate in Europa tra il XIV e il XV secolo. Da allora, la loro presenza nel Vecchio Continente è stata accompagnata da diffuse persecuzioni, discriminazioni ed esclusioni, tanto che la storia degli zingari si confonde e si intreccia con la storia dell’antizinganismo (cioè dell’odio nei loro confronti). In Valacchia e Moldavia (attuale Romania), i rom sono stati schiavi fino al decreto del 13 Febbraio 1856 che aboliva la schiavitù. In Europa occidentale, i rom erano ambulanti, artigiani girovaghi, allevatori di bestiame: la loro presenza fu duramente osteggiata dagli Stati, che nel periodo della loro formazione non tolleravano alcuna forma di vagabondaggio. La storiografia ricorda oggi i numerosi bandi che cacciavano i rom dai territori europei, costringendoli a spostarsi di continuo in cerca di protezione. Già all’inizio della loro storia (almeno di quella conosciuta e tramandata), i rom sono stati dunque dei nomadi forzati. Il nomadismo, che il senso comune identifica come “tratto culturale unificante” dei rom, è in realtà il prodotto delle persecuzioni che hanno dovuto subire: persecuzioni culminate nello sterminio nazista, che i rom ricordano come “Porrajmos”

(l’equivalente di quello che gli ebrei chiamano “Olocausto”). Dopo la guerra, ai rom verranno negati i risarcimenti per aver subito lo sterminio, perché – secondo l’opinione di storici ed esperti – la persecuzione nei loro confronti non era dovuta a motivi razziali, ma al vagabondaggio. Studi recenti hanno invece chiarito che, secondo le teorie naziste, i rom avevano il gene del nomadismo, ed erano dunque una razza inferiore e pericolosa. Nell’Europa dell’Est, quasi tutti i paesi socialisti hanno varato piani di assimilazione forzata: i rom identificati come nomadi e vagabondi erano puniti con i lavori forzati, mentre a chi decideva di «adattarsi» erano garantiti casa, lavoro, assistenza sanitaria e scolarizzazione dei minori. Così, in molti paesi sono gradualmente scomparse le carovane zingare che attraversavano le città, e con esse i mestieri tradizionali legati all’artigianato e alla vendita ambulante: molti rom sono diventati operai, minatori, ferrovieri, ma anche dirigenti dei partiti comunisti al potere, sindaci, operatori dei servizi segreti. Il confine tra rom e gagè (non-rom) si è fatto via via meno netto e riconoscibile, e molti gruppi si sono mescolati e meticciati con le popolazioni maggioritarie. Con la caduta dei regimi comunisti, i paesi dell’Est hanno conosciuto nuove persecuzioni: come nel caso della ex-Jugoslavia, dove i rom sono stati più di altri vittime di violenza e pulizia etnica. Nell’Europa Occidentale, rom, sinti, Manus, Kalè e Romanicel hanno continuato a subire discriminazioni, esclusioni e vere e proprie persecuzioni, mentre negli ultimi anni sono emersi importanti flussi migratori di rom dai paesi dell’Est.


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In Italia la popolazione zingara si divide in:

I rom in Italia I rom sono presenti in Italia almeno dal XV secolo. Contrariamente a un pregiudizio diffuso, coloro che attualmente vivono nel nostro paese sono in maggioranza italiani. Si tratta cioè di una vera e propria minoranza linguistico-culturale, composta da cittadini a tutti gli effetti che parlano una propria lingua, oltre a quella nazionale: più simili, in questo, ai gruppi ladini dell’area alpina, o agli albanesi arbresh del Molise, che agli stranieri immigrati. Da tempo, i rom italiani chiedono di essere inseriti nella lista delle minoranze etnico-linguistiche, mentre la legge 482 del 1999, che tutela le lingue minoritarie, non li ha riconosciuti: da allora sono stati presentati diversi progetti di riforma, mai approvati dal Parlamento. Se in molte città del Sud Italia (in particolare in Abruzzo) i rom si sono sedentarizzati, e abitano da decenni in vere e proprie case, al Nord i gruppi conosciuti come sinti hanno continuato a vivere in carovane itineranti, oggetto – negli anni ‘50 e ‘60 – di provvedimenti di sgombero e di veri e propri “bandi” comunali di allontanamento dal territorio. A partire dalla fine degli anni ‘60, in molte città si fa strada invece un’idea diversa: rom e sinti sono visti ora

come «nomadi», incapaci di adattarsi alla vita sedentaria della modernità, da educare e indirizzare alle regole del «vivere civile». Partono così i primi esperimenti di «campi sosta»: luoghi dove le carovane zingare possono fermarsi per qualche tempo, dove gli operatori e i volontari possono lavorare per la scolarizzazione dei bambini e l’integrazione degli adulti. Costruiti sulla base di un pregiudizio (i rom non sono nomadi), i «campi sosta» si trasformano presto in veri e propri ghetti permanenti, i cui abitanti vivono in condizioni di grave marginalità sociale. Negli anni ‘80, la politica dei «campi» viene formalizzata nelle leggi di diverse regioni italiane: e in questi nuovi ghetti ai margini dei centri urbani vengono confinati anche i rom immigrati prima – negli anni Novanta – dalla ex-Jugoslavia, poi dalla Romania. Secondo un recente censimento di Opera Nomadi, i rom e i sinti presenti in Italia sono oggi circa 150.000: di questi, 70.000 sono cittadini italiani, 50.000 provengono dalla Romania, gli altri dai paesi della exJugoslavia. Si tratta, come si vede, di una presenza numericamente irrisoria, equivalente allo 0,2-0,3 percento della popolazione residente.

Rom italiani (con cittadinanza): circa 90.000, di cui 30.000 residenti nel Sud Italia, distinguibili in: Rom abruzzesi e molisani: giunti in Italia al seguito dei profughi arbreshe dall’Albania dopo la battaglia di Kosovo Polje nel 1392, parlano romanÏ oltre ai dialetti locali e praticano l’allevamento e il commercio di cavalli, oltre che, nel caso delle donne, la chiromanzia (romnÏa), diversi nuclei sono emigrati in vari centri del Lazio a partire dal ‘ 900 Rom napoletani (napulengre): ben integrati, fino agli anni ‘70 si occupavano principalmente della fabbricazione di attrezzi da pesca e di spettacoli ambulanti Rom cilentani: comunità di 800 persone residente ad Eboli, con punte di elevata alfabetizzazione Rom lucani: uno dei gruppi più integrati Rom pugliesi Rom calabresi: uno dei gruppi più poveri, con 1550 ancora residenti in abitazioni di fortuna Camminanti siciliani Rom harvati: 7.000 persone giunte dalla Jugoslavia settentrionale dopo la seconda guerra mondiale. I khalderasha ne costituiscono un sottogruppo. Rom lovari: circa 1.000 persone, si occupano principalmente dell’allevamento di cavalli (la parola viene dall’ungherese lÛ, che significa appunto cavallo). Rom balcanici: circa 70.000 Rom jugoslavi: presenti principalmente in campi del Nord Italia. Meno del 10% dei minori frequenta le scuole pubbliche e bassissimo è il tasso d’impiego degli adulti. Khorakhanè, “lettori di Corano”: caratterizzati dalla religione musulmana e provenienti da Kosovo e Bosnia-Erzegovina, sono il gruppo più numeroso di rom stranieri presente nel Bresciano. La migrazione è avvenuta dalla seconda metà del 1991 fino all’estate del 1993, in concomitanza con l’aggravarsi della situazione bellica nella ex Jugoslavia Dasikhané: caratterizzati dalla religione ortodossa, provenienti da Romania o Bulgaria. Rom romeni: sono il gruppo in maggior crescita; hanno comunità a Milano, Roma, Napoli, Bologna, Bari, Genova, ma si stanno espandendo anche nel resto d’Italia. Sinti: circa 30.000, residenti principalmente in Nord e Centro Italia e occupati principalmente come giostrai, mestiere che sta scomparendo e che li costringe ultimamente a reinventarsi in nuovi mestieri, da rottamatori a venditori di bonsai. A questi si aggiungono i rom clandestini, il cui numero non è stabilito ufficialmente.

Pagine a cura di Sergio Bontempelli


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Le imminenti Olimpiadi, com’era prevedibile, hanno solleticato l’orgoglio nazionale e suscitato interesse anche in chi lo sport di solito non lo segue. “Non sono appassionata in particolare di nessuno sport”, dice Rita Tan al suo amico italiano in visita a Hong Kong. “Ma mi piacciono le Olimpiadi!”, aggiunge entusiasta prima di regalargli un ventaglio con il logo di “Beijing 2008”. Come indica lo slogan ufficiale “One World, One Dream”, la Cina vive l’organizzazione dei Giochi come il suo definitivo inserimento nel mondo, l’ascesa allo status di potenza globale, con l’aspirazione di essere rispettata e ammirata dal resto del pianeta. Le infrastrutture preparate per l’occasione sono il prodotto dei migliori architetti mondiali: il nuovo Stadio Nazionale, soprannominato “il nido d’uccello” per la sua forma caratteristica, è già diventato - e lo merita - una delle principali attrazioni turistiche di Pechino. Ma l’attesa per le Olimpiadi non è influenzata solo dalle aspettative per un brillante futuro del Paese. Perché tutto parte dal passato. I Giochi, con tutti i significati già descritti, sono una rivincita storica. on finisco mai di sorprendermi di come, nella mentalità collettiva, gli eventi dell’Ottocento con protagoniste le potenze europee contino qui più dei crimini commessi da Mao quaranta anni fa”, spiega Yulin Zhuang, un cinese appena laureato che ha vissuto negli Stati Uniti da quando aveva un anno, e che dopo gli studi è tornato a Pechino. Perfettamente bilingue, anche lui insegna inglese ai giovani cinesi, con il privilegio di poter capire al meglio le diverse mentalità e le reciproche incomprensioni tra due culture lontane. “I miei studenti ribollono di rabbia quando menzionano le Guerre dell’oppio con gli inglesi, in cui sono morti migliaia di soldati. Ma per il Grande balzo in avanti di Mao, una tragedia portatrice di carestie che hanno ucciso decine di milioni di persone, o per la Rivoluzione culturale, non provano la stessa passione. Furono scelte sbagliate, dicono. Errori commessi dalla Cina durante la sua evoluzione”, continua Yulin. Così, il progressivo accaparramento di pezzi di territorio cinese da parte degli stranieri durante il declino terminale della dinastia Qing, gli affari fatti dagli europei da fine Ottocento, le traversie di un Paese dal passato glorioso nel trentennio abbondante di transizione dall’impero alla repubblica comunista, bruciano ancora come ferite vive. E qualsiasi interferenza di oggi da parte dei vecchi nemici - un sostegno alle rivendicazioni tibetane, una critica al governo cinese, figuriamoci un boicottaggio dei Giochi - viene percepita sempre allo stesso modo: vogliono dividerci e mantenerci deboli, come hanno fatto in passato. “Questa sensazione di essere vittime è così profonda che, per la maggior parte dei cinesi, è impossibile vedersi come gli aggressori”, ha scritto recentemente sul Wall Street Journal Ian Buruma, un giornalista e scrittore sinologo. “L’idea che i tibetani, per esempio, possano avere un po’ di ragione a considerarsi vittime dei cinesi, è assurda. Di più: molti cinesi credono genuinamente che questo tipo di ‘propaganda’ tibetana sia stata deliberatamente fatta propria dalla stampa occidentale per infliggere un’altra umiliazione al popolo cinese”.

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uando le tensioni tra Cina e Occidente sul Tibet si stavano spegnendo, il 12 maggio una scossa di magnitudo otto ha devastato il Sichuan, causando oltre settantamila morti. La reazione della gente è stata compatta, in un’ondata di solidarietà sicuramente ben amministrata dal Partito, ma poi superata dalla risposta emotiva della popolazione. Tre ore dopo il sisma, il primo ministro Wen Jiabao era già sull’aereo che lo portava nelle zone disastrate. I dodici canali della tv di Stato trasmettevano senza sosta le operazioni di soccorso, le parole consolatorie del premier, le promesse per una veloce ricostruzione. Nelle città di tutto il Paese, nelle piazze si formavano lunghe code davanti alle ambulanze per la donazione del sangue, o ai banchetti per raccogliere fondi. E il Partito, messo di fronte a una tragedia di tale impatto emotivo, è rimasto spiazzato. Mentre il bilancio delle vittime si moltiplicava nel corso dei giorni, i cinesi hanno capito prima dei loro politici che mancava qualcosa, che le parole rassicuranti non bastavano. Servivano gesti concreti in cui convogliare il

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dolore e la compassione di una nazione, e invece sembrava che le disposizioni di Pechino fossero quelle di andare avanti con la vita normale: non erano previste interruzioni delle cerimonie per il passaggio della fiaccola olimpica nelle varie città cinesi, per esempio. Poi il governo ha capito, dichiarando tre giorni di lutto nazionale e sospendendo la corsa dei tedofori. Chi scrive si trovava a Nanjing Lu, la via pedonale dello shopping a Shanghai, quando le sirene hanno suonato il 19 maggio alle 14.28, esattamente una settimana dopo la devastante scossa: migliaia di passanti si sono fermati all’unisono, rimanendo immobili per tutti quei tre interminabili minuti di dolore collettivo. l terremoto ha cambiato le dinamiche secondo le quali il Partito si è mosso in altre emergenze nazionali”, dice Yulin Zhuang. “Per la prima volta, il governo ha inseguito il sentimento della gente invece di guidarlo”. Cinque anni fa, all’epoca della Sars, le autorità occultarono fino all’ultimo il diffondersi dell’epidemia. Nel 1998, i danni provocati dallo straripamento dello Yangtze (con tremila morti e quattordici milioni di sfollati) furono anche censurati, e - due settimane prima del terremoto - la stessa sorte è toccata al deragliamento di un treno, che ha causato oltre settanta morti. Erano tutte tragedie provocate, o favorite, da errori riconducibili all’apparato statale: i fallimenti della sanità pubblica, gli investimenti rivelatisi inutili nella costruzione di dighe e argini per domare lo Yangtze, la scarsa sicurezza dell’enorme rete ferroviaria. Così, lo Stato aveva sempre cercato di controllare l’emozione collettiva in modo da non far nascere domande scomode. E da questo punto di vista, fornendo quell’insolita copertura mediatica del terremoto nel Sichuan, forse ha esagerato. Perché, passato il cordoglio iniziale, le popolazioni delle zone colpite hanno iniziato a chiedersi il motivo per cui molte scuole si sono afflosciate su se stesse, mentre a pochi metri di distanza i palazzi del potere sono rimasti in piedi. Centinaia di genitori rimasti senza bambini sono scesi in piazza per protestare e sono stati arrestati; sullo scandalo delle “scuole tofu”, naturalmente, i mezzi di informazione statali non hanno speso una parola. Come d’altronde fanno passare sotto silenzio le proteste di massa - oltre duecento al giorno, si calcola - che esplodono nel Paese. Proteste di contadini, di operai, di cittadini che hanno subito espropri. Contro funzionari corrotti, contro la costruzione di fabbriche inquinanti, contro le crescenti diseguaglianze sociali. Nella sua “ossessione per la stabilità sociale”, come la chiama Susan Shirk nel suo libro “China: fragile superpower”, il governo sa che se queste proteste sparse si coagulassero in un movimento unico, l’esistenza del regime sarebbe a rischio.

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per questo che il crescente orgoglio nazionale cinese, promosso come strumento per legittimare il Partito comunista dopo il crollo del Muro di Berlino, e la repressione di piazza Tiananmen nel 1989, viene tenuto sotto costante osservazione da Pechino. Che lo fa sfogare ogni tanto, ma quando rischia di scappare di mano cerca di disinnescarlo. Il recente malcontento contro l’Occidente, per esempio, non è stato alimentato dal governo. Mentre in Europa si criticava la mano pesante dei suoi soldati in Tibet, il governo cinese invece “era preoccupato dall’opinione pubblica interna, che lo criticava per aver risposto debolmente alle violente proteste tibetane”, spiega la Shirk. Così, in realtà slogan delle Olimpiadi come “Harmonious China, Courteous Beijing”, affissi su enormi manifesti nella capitale, contengono un messaggio rivolto più all’interno che all’esterno. Perché se controllare i desideri e le aspirazioni di un miliardo e trecentomilapersone è problematico adesso, mentre il Paese viaggia col vento in poppa, figurarsi come sarà quando l’economia non crescerà più del dieci percento l’anno, come fa in media da quindici anni. Il volto che la Cina farà vedere al mondo durante i Giochi sarà anche “armonioso e cortese”. Ma quello che avrà in futuro, non lo può prevedere nessuno. In alto: In attesa del pranzo in un bar di Pingyao. In basso: Bandiere a mezz’asta a Shanghai durante il lutto nazionale per il terremoto Cina 2008, Alessandro Ursic ©PeaceReporter


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Speciale Cina

POLITICA Il Paese è governato dal Partito comunista cinese, un’organizzazione che conta settanta milioni di iscritti, che controlla tutto l’apparato statale, applicando notevoli restrizioni alla libertà di stampa, di espressione, di religione e di riunione, con l’obiettivo di non far emergere nessun soggetto politico alternativo. Le uniche elezioni che si tengono in Cina sono alcune a livello locale, per eleggere funzionari minori del Partito, ma molti cittadini non ricevono neanche le schede a casa. Alla gente va bene così? “I cinesi sanno che il loro sistema politico non è perfetto. Ma non gli piace parlarne male con gli stranieri”, spiega Gao Li Hao, una studentessa di Xian. Dalle richieste di maggiori libertà politiche di piazza Tiananmen, nel 1989, la situazione non è però più scappata di mano al Partito. ECONOMIA Formalmente uno Stato comunista, ma in realtà aperto progressivamente al capitalismo dalla fine degli anni Settanta, la Cina ha un’economia che cresce in media del dieci percento l’anno dall’inizio dello scorso decennio: un’ascesa verticale senza precedenti, che ha trasformato il Paese garantendo un tenore di vita sempre più da benestanti per centinaia di migliaia di persone. Gli squilibri economici e sociali tra città e campagne rimangono però enormi e anzi si accrescono sempre di più, mentre continua un colossale spostamento della popolazione dall’ovest rurale alla più industriale parte orientale. E’ stato calcolato che, per continuare a produrre nuovi posti di lavoro, la Cina debba crescere del sette percento l’anno. Il governo sa che, finché l’economia va bene, la popolazione è soddisfatta dell’attuale sistema politico. Ma in caso di rallentamento dell’economia, che prima o poi VIII

sarà fisiologico, tutto potrebbe essere rimesso in discussione. Al momento l’economia dà segni di surriscaldamento, con un’inflazione salita oltre l’otto percento e aumenti ancora più marcati nei prezzi degli alimentari. Anche per questo, le autorità di Pechino hanno iniziato una politica di stretta monetaria che però, in una fase difficile per l’economia mondiale, potrebbe essere pericolosa. ENERGIA E INQUINAMENTO Spinta dall’incredibile tasso di crescita dell’economia, la Cina ha visto aumentare esponenzialmente anche il suo bisogno di energia. Ogni anno, il Paese aggiunge alla sua rete elettrica una quantità di energia pari a quella dell’intera Gran Bretagna. Con scarse riserve di gas e petrolio, la Cina sta puntando forte sul carbone, che possiede in abbondanza (tredici percento del totale mondiale): nei prossimi sette anni, nel Paese saranno costruite in media sei centrali termoelettriche al mese. L’anno scorso la Cina è diventata il Paese che inquina di più al mondo, per quanto le emissioni pro capite siano circa un quarto di quelle degli Stati Uniti. L’utilizzo intensivo del carbone, la crescente diffusione delle automobili e la presenza di fabbriche altamente inquinanti stanno provocando alterazioni dell’ambiente che preoccupano sia il governo sia la popolazione. In molte città l’aria è irrespirabile e il tasso di tumori è al di sopra della media. Nel nord del Paese le precipitazioni sono calate drasticamente, mettendo a rischio un intero sistema di irrigazioni agricole, e le piogge acide rappresentano un problema. Il governo ha iniziato a muoversi sul fronte dell’energia pulita, puntando ad arrivare al 2020 con il dodici percento del proprio fabbisogno coperto dalle fonti rinnovabili. Ma le emissioni

nocive sono destinate a salire ancora per molto. I DIRITTI UMANI La Cina è criticata all’estero per tutte le violazioni dei diritti umani che accadono al suo interno, dalle restrizioni alle varie libertà all’applicazione massiccia della pena di morte, dopo processi veloci e con poche garanzie: il numero delle esecuzioni è segreto di stato, ma si calcola siano migliaia all’anno e ciò fa della Cina il Paese che più utilizza la pena capitale. Oltre alla questione dei diritti umani e del Tibet, riesplosa dopo le rivolte di marzo nella regione, l’altro argomento che ha fatto invocare il boicottaggio delle Olimpiadi è la questione del Darfur. L’appoggio della Cina al governo del Sudan, dove Pechino ha interessi petroliferi, equivale per gli attivisti al sostegno delle milizie governative responsabili di atroci crimini nell’enorme regione occidentale del Sudan, in guerra da anni. LA PREPARAZIONE ALLE OLIMPIADI L’inquinamento è una preoccupazione anche per gli imminenti Giochi olimpici. L’aria di Pechino è notoriamente pessima, impestata di fumi nocivi e oggetto occasionalmente di tempeste di sabbia provenienti dalla Mongolia. Nel tentativo di renderla più respirabile in vista dell’8 agosto, data d’inizio delle Olimpiadi, il governo ha fatto chiudere le fabbriche più inquinanti, sostituendo inoltre taxi e bus obsoleti. Nel “pacchetto” per pulire l’aria sono comprese anche misure bizzarre, come il divieto di cucinare carne all’aria aperta per i venditori ambulanti. Basterà? Sarà dura, anche perché Pechino soffre per le emissioni provenienti dalle circostanti regioni carbonifere, le più inquinate del Paese.


Porrajmos, la soluzione finale del regime hitleriano ha colpito anche i nomadi

Si tramanda di generazione in generazione un’altra origine del popolo rom

L'olocausto degli Figli degli indios, zingari non degli indiani

Il numero dei morti nel mese di giugno*

Un mese di guerre PAESE

ingari, rom e sinti. Razza inferiore per le gerarchie naziste del Reich hitleriano. La notte del 31 luglio 1944 fu quella della soluzione finale. Tutti gli zingari ancora in vita, detenuti nei campi di sterminio, vennero uccisi nelle camere a gas e poi cremati nei forni. La persecuzione, che porterà all'eccidio di cinquecentomila esseri umani, era iniziata ben prima. Nel 1933 iniziano le discriminazioni verso una minoranza esigua in Germania, a prevalenza rom, e in Austria, in prevalenza sinti. Rober Ritter fu lo 'scienziato della razza' incaricato di classificare gli zingari: dopo alcuni studi giunse alla conclusione che si tratta di un gruppo deviante e degenerato e che la devianza, così come il nomadismo, avevano carattere ereditario. Di prove, con tutta evidenza, non ne aveva raccolte, ma la tesi passò. Dal 1933 gli zingari tedeschi furono sottoposti, come fu per i disabili, a una feroce campagna di sterilizzazione. Una pratica segreta, che non ha permesso di stabilire, oggi, quante furono le persone sottoposte al trattamento. Il terzo Reich motivava l'odio sempre con la stessa frase: “lotta alla criminalità e atteggiamenti antisociali”. Il primo campo zingari fu aperto nel 1935 a Colonia: doveva accogliere trecento persone, ma ne stiparono seicento. La prima deportazione di massa è di cinque anni dopo, mentre nel 1942 Heinrich Himmler diede ordine di deportare tutti gli zingari tedeschi e quelli dei territori occupati nel campo di AuschwitzBirchenau. Lì c'era una sezione specifica, si chiamava 'Zigeneur lager'. E lì il dottor Mengele selezionò duecento zingari per i suoi esperimenti sui gemelli, per mantenere un cimelio di razza estinta, dicevano le motivazioni. Una delle testimonianze più forti sulla notte della soluzione finale è proprio quella del comandante del lager di Auschwitz: “Non fu facile mandarli alle camere a gas. Personalmente non vi assistetti – disse – ma mi dissero che fino ad allora nessuna operazione di sterminio era stata così difficile”.

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a quale Pakistan, ma quale India, noi rom discendiamo dagli indios dell'America Centrale e meridionale”, racconta Anna, occhi azzurri come il mare e capelli bianchi raccolti in una lunga treccia, anziana della famiglia rom al campo di via Bonfadini di Milano. “Eppure a noi sembra che si noti piuttosto bene la somiglianza con gli indios sudamericani, sia nella conformazione dei capelli che per il taglio degli occhi. La nostra storia, la nostra tradizione, viene tramandata solo oralmente e io sin da piccina ho sempre e soltanto sentito dire dai miei parenti che noi rom abbiamo origini lontane che risalgono, appunto, alle Americhe”. Anna è sicura di quello che dice: “Le nostre origini non sono certo della zona del Pakistan e dell'India anche se la carnagione di alcuni di noi è più scura e potrebbe assomigliare a quelle persone. Ma sull'argomento, comunque poco trattato, c'è molta confusione. In questo momento, poi, dove noi rom siamo nell'occhio del ciclone tutti ma proprio tutti si sentono in diritto di dire la loro. Sono tutti professori. Una massa di esperti che ci vengono a raccontare da dove veniamo solo perché hanno studiato e fanno ipotesi. Insomma, io non credo agli esperti e credo solo a quello che mi è stato raccontato fin da bambina. E poi se me lo consentite mi piacerebbe sapere perché tutto questo interesse intorno alle nostre origini. Forse una volta scoperta la nostra reale provenienza le autorità si sentiranno più sicure e in dovere di rispedirci 'in quel Paese?”. Il capofamiglia è d'accordo: “In effetti anche a me hanno sempre raccontato che proveniamo da quella zona – racconta L. – è logico che poi con i matrimoni misti tutto è andato via via dissolvendosi. E sarà così anche per la nostra cultura. I matrimoni misti, la mancanza di una tradizione scritta, l'assoluta assenza di libri “nostri” faranno in modo che i rom si estinguano senza che nessuno se ne accorga. E senza che nessuno abbia fatto niente per evitarlo”.

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Afghanistan Iraq Sri Lanka Ciad Somalia Sudan Pakistan talebani India Nordest Thailandia del sud Nord Caucaso Uganda Turchia Israele e Palestina India Naxaliti India Kashmir Filippine Npa R.D.Congo Mali Rep.Centrafricana Colombia Filippine Abusayyaf/Milf Nigeria Algeria Bangladesh Nepal Etiopia Burundi

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Periodo: 22 maggio – 27 giugno

I dati che qui riportiamo sono dati ufficiali, raccolti da agenzie di stampa internazionali o locali. Per cui sono da intendersi sempre per difetto: in molti paesi del mondo non si contano i vivi, figuriamoci i morti.

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Qualcosa di personale Italia

Italiani in campo Di Chiara e Andrea, rom italiani Testo raccolto da Alessandro Grandi

Milano, campo nomadi di via Bonfadini. Poco meno di trecento rom italiani vivono qui dal 1987. Quasi tutti hanno un lavoro. Da quando è scoppiato il “caso rom” si sentono ancor di più nell’occhio del ciclone. Occhi blu, capelli bianchi raccolti in una lunga treccia. La pelle chiara e la corporatura robusta. Lo sguardo vigile sui bambini che giocano in casa e tanta gentilezza. Chiara, madre di dieci figli, racconta la sua storia di rom italiana, originaria della zona di Pescara. Andrea, quarantatré anni, non si nasconde, e qualche furto lo ammette. Ma se la legge è uguale per tutti, non tutti sono uguali davanti alla legge ono italiana. Mi chiamo Chiara, sono rom, ma sono italiana. E il clima intorno a noi è pesante. Noi rom siamo discriminati dai nostri stessi concittadini. E sappiamo bene cosa significa davvero razzismo. Ne conosciamo bene anche le conseguenze che lasciano ferite profonde. È da una vita che va avanti così. Ormai sono rassegnata, abituata. Ma su di noi sono state raccontate storie per lo più sbagliate. Convenienti al sistema del momento. E poi c’è una profonda ignoranza su tutto il mondo rom. La gente non ha ancora capito che c’è differenza fra un sinti e un rom. Fra un rom bulgaro e uno slavo. Se ci conoscessero più e a fondo imparerebbero anche ad apprezzarci e non si irrigidirebbero quando sono vicini a noi. Che paura ha la gente di un rom italiano? C’è troppa confusione nella testa della gente. Fare di tutta un’erba un fascio è stata la cosa peggiore che si potesse fare. Tutti questi stranieri di origine bulgara, rumena e slava dovrebbero tornare a casa loro. Sono loro che fanno casino e creano problemi anche a noi. La colpa più grande è delle istituzioni. Non dovrebbero permettere l’ingresso degli irregolari. Quelli che sono senza lavoro, senza fissa dimora. È logico che se poi li fai entrare devi dargli la possibilità di trovare un lavoro altrimenti per mangiare cosa devono fare se non andare a rubare o a commettere altri reati? Ma non possiamo pagare noi, che siamo italiani, le colpe dei delitti commessi dagli stranieri. Con quella gente non abbiano nulla da spartire e se per caso qualcuno di loro volesse insediarsi nel nostro campo lo manderemmo via. Anche in malo modo se necessario. E poi la cosa che più infastidisce é che vengono qui e credono di comandare. Di fare ciò che vogliono. È normale, inoltre, che se la tv e la stampa fanno campagna contro i rom ci andiamo di mezzo anche noi che siamo regolari in tutto e per tutto. Con un lavoro fisso, con una famiglia. Anche se viviamo in una campo. Ma, come ripeto, è una vita che va avanti così fra discriminazione, indifferenza, intolleranza. Anche da parte della chiesa. Eppure noi siamo cristiani praticanti, fedelissimi. Una volta chiesi alle suore della parrocchia qui vicino al campo se mi potevano dare del cibo per le bambine piccole della moglie di mio figlio. Ma non ho ottenuto nulla. Solo una risposta agghiacciante: “Torna a casa tua e fatti mantenere da quella che ti ha creato”. Mi sono sentita umiliata. Dopo cinque minuti dalla stessa porta alla quale

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avevo bussato io è uscita una ragazza, forse marocchina, con un pacco di cibo per il suo bambino. Perché a lei si e a me no? Non siamo forse tutti creature del signore? o, Andrea, non posso nascondere la realtà. Se non si riesce a lavorare per qualche settimana è impossibile andare a fare la spesa e inevitabilmente ci si deve arrangiare con qualche furtarello, qualche piccola ricettazione. Qui al campo son ben pochi quelli che non hanno precedenti, che ci volete fare. Spesso sono le storie di vita che ci costringono a commettere reati. Ma anche qui ci sarebbero molte cose da dire. Da queste parti affari di droga o armi non se ne fanno. E comunque quando un rom commette un reato la galera se la fa tutta. Mia cugina ha rubato al supermercato per dare da mangiare ai suoi figli e si sta facendo tre anni di galera. I medici del Santa Rita che hanno ucciso molte persone si fanno i domiciliari. Nei tribunali sotto la scritta ‘La legge è uguale per tutti’ ci dovrebbe essere anche scritto: ‘Ma non tutti sono uguali davanti alla legge’. Come non esiste che si rapiscano i bambini. Tutte invenzioni. Ne abbiamo già tanti dei nostri. Quelle cose le fanno gli slavi. Noi italiani non ce le sogniamo nemmeno. Da queste parti si lavora in regola e basta. Ci si sveglia alla mattina e si va chi in fabbrica chi al mercato chi nei negozi. La cosa brutta è la discriminazione nei nostri confronti nata dalla generalizzazione del problema rom. Sono d’accordo con chi sostiene che gli stranieri si debbano mandare via. Se potessi lo farei io. Hanno solo contribuito a farci puntare il dito addosso. E quando cerchiamo di far capire che fra noi e voi non esistono differenze, non ci ascoltano nemmeno. Non ci ascolta nessuno. Anzi, appena sanno che sei rom non ti aiutano. Prova a dire a un datore di lavoro che sei rom. Nel novantanove percento dei casi non ti fa lavorare. Ti manda via e assume un altro. E poi è semplice andare a dire “chiedete aiuto”. A chi lo chiediamo? Alla polizia? Alle istituzioni? No, nessuno ci vuole dare una mano. Siamo emarginati ma orgogliosi di essere rom italiani. E la nostra voce non è ascoltata. La parola di un rom non vale niente.

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In via Adda. Milano, Italia 2003, Massimo Di Nonno/Prospekt


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La storia

Nomadi per scelta o per forza di Pino Petruzzelli essun antropologo al mondo potrà svelarlo, anche perché sono pochi quelli che se ne sono occupati negli anni. E forse è un bene, se l’unica volta che la scienza volse lo sguardo sugli “Zingari” fu durante il periodo nazista e per sterminarli tutti. In quella occasione ci fu la più grossa ricerca scientifica sui rom e sui sinti mai effettuata nella storia dell’umanità. Pare che anche oggi, in Italia, il Prefetto di Milano, nominato commissario all’emergenza rom, abbia mostrato interesse per il mondo rom, avendo chiesto e ottenuto che la polizia schedasse e fotografasse i rom del suo territorio, indipendentemente dalla fedina penale pulita. In questi giorni abbiamo assistito nel nostro Paese alle prime schedature su base etnica dopo quelle del periodo fascista degli anni Trenta e Quaranta. L’unica differenza è stata nella forma: oggi i modi sono stati da gentleman. Nessuno ha urlato o spintonato o puntato il fucile: “Vogliate cortesemente farvi fotografare. Ci spiace comunicarvi che non avete scelta.” Neanche io so se i rom e i sinti siano nomadi per scelta o per forza, so solo che gli impediamo di viaggiare e allo stesso tempo di fermarsi. Eppure la maggior parte di loro sono italiani a tutti gli effetti: italiani di etnia rom e sinta. I loro nonni, come molti dei nostri, hanno combattuto per rendere libera l’Italia e permettere a tutti di poter parlare oggi, compresi coloro che li insultano, li maledicono quando non gettano bottiglie incendiarie sulle loro case. Sono troppo poche le persone che sanno dei partigiani rom e sinti morti per la libertà dei loro figli e dei figli dei non rom e non sinti. “Peccato che pochi lo sappiano”, mi disse il direttore dell’Istituto Storico di Imperia quando mi mise tra le mani il Certificato al Patriota Catter Giuseppe. “Era uno zingaro e combatté nelle fila partigiane prima di essere ucciso da un gruppo di brigatisti neri.” Già, peccato che pochi lo sappiano.

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o viaggiato per cinque anni attraverso la cultura e la gente rom e sinta. Ho attraversato diversi paesi dell’Est Europa e molti campi nomadi in Italia e sempre ho trovato una porta aperta. Gente che incontravo per la prima volta in vita mia. Ovunque arrivassi, anche nei quartieri rom più poveri della Bulgaria o dell’Albania, la prima cosa che mi sentivo chiedere era se avessi un letto dove andare a dormire quella notte, se

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avessi mangiato, se avessi fame. Erano poveri, ma due uova e un tè uscivano sempre fuori. Per quanto cerchi nella memoria, non ricordo una sola esperienza cattiva. Può darsi che la mia sia una visione parziale, ma anche quella di chi vede i rom e i sinti come eterni delinquenti lo è. Anzi, molte delle persone che parlano degli “zingari” raramente ne hanno conosciuto uno. E’ assurdo vedere il rom e il sinto solo come capro espiatorio di propri fallimenti. Faccio davvero fatica a credere che se non ci fossero più quei centotrentamila “zingari” che abitano l’Italia saremmo tutti più felici, con i conti in banca lievitati e con i figli tutti primi della classe a preferire un buon libro ai varietà televisivi. Si, è possibile che la mia sia una visione di parte, ma non scegliamo ogni giorno dove posizionarci? Si, sto dalla parte del rispetto verso l’etnia rom e sinta, e non dalla parte del razzismo. Un frate rom mi disse un giorno: “Ognuno di noi sa sempre se l’azione che sta facendo porterà il bene o il male a un altro uomo. E se per caso fosse nel dubbio può provare a chiedersi, sempre che si definisca cattolico e vada a messa la domenica, come si sarebbe comportato Gesù Cristo al suo posto. Se dici di essere cattolico e di riconoscerti nei valori cristiani, come puoi essere in dubbio?” el mio libro Non chiamarmi zingaro ho lasciato parlare i rom e i sinti incontrati in questi cinque anni. Mi è parso giusto, doveroso lasciare parlare questo popolo la cui storia è stata sempre scritta dagli altri. Voglio riportare alcune delle frasi sentite da rom o sinti e che ho raccolto nel libro: “Non c’è nessuno che capisca il nostro linguaggio. Quando noi diciamo bianco voi capite nero”. “Fa male vedere come trattate degli esseri umani. Noi jenisch, rom, sinti non siamo mai entrati in guerra”. “Io fino a sei o sette anni fa nascondevo il fatto di essere rom. Poi sono arrivato a capire che sono come tutti e che il problema non è mio, ma di chi mi disprezza”.

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In alto: Campo di Secondigliano. Napoli, Italia 2008. Enza Roberta Petrillo per PeaceReporter In basso: Processione. Le Saintes Maries de la Mer, Francia 1978. Lucio Cavicchioni per PeaceReporter


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L’intervista

Emergenze napoletane Di Enza Roberta Petrillo

Padre Alex Zanotelli, settant’anni, originario della provincia di Trento, è un prete comboniano che ha operato in Sudan e in Kenya, oltre ad aver diretto il mensile Nigrizia negli anni Ottanta. Oggi vive a Napoli, nel rione Sanità, il quartiere che è diventato un simbolo del degrado sociale italiano. Recentemente si è occupato anche dei problemi dei rom. In Italia da alcuni anni, i media nazionali stanno sposando in pieno la politica dei governi. Oggi quello di Berlusconi, ieri quello di Prodi. C’è un’incapacità generale di presentare la realtà per quello che è veramente. Il problema di Napoli non sono i rifiuti che oggi vediamo per le strade, ma nasce molto prima, quando si decise di fare della Campania lo sversatoio nazionale dei rifiuti tossici. Nel momento in cui non abbiamo più potuto esportarli verso l’Africa, la Somalia, li abbiamo iniziati a versare qui. É a questo punto che scatta l’accordo tra camorra e mondo industriale del nord: un legame strettissimo in cui si inserisce anche lo Stato. Per quattordici anni, incredibilmente, la Campania è stata commissariata, abbiamo avuto nove commissari speciali per l’emergenza rifiuti. Durante questo periodo la camorra ha sversato migliaia di tonnellate di rifiuti tossici, soprattutto nel cosiddetto triangolo della morte, tra Nola, Acerra e Marigliano. E con il decreto del nuovo governo Berlusconi cosa cambia? Se decidono di mandare a Napoli l’esercito, allora i soldati dovrebbero essere usati per bonificare queste aree. Qui la camorra controlla il territorio e la politica fa gli affari. In questo senso, i reciproci interessi si sono trovati a collimare. L’unica cosa che i commissari speciali hanno fatto è stato espropriare comuni, provincia e regione di tutti i poteri. Hanno speso oltre due miliardi di euro per produrre sette milioni di tonnellate di ecoballe che di eco non hanno nulla, sono solo balle. Queste non si possono bruciare e nemmeno seppellire. È questo oggi il dramma di Napoli, dovere obbedire ai diktat degli industriali, che oggi spingono perché si facciano gli inceneritori. Vogliono che noi si consumi il più possibile per poi bruciare tutto. Primo ci guadagnano perchè li costruiscono, secondo perché producono energia che rivendono all’Enel. Ma c’è anche un’altro fattore importante: l’Italia è il solo paese in tutta Europa in cui il Chip6, il sette percento che paghiamo ogni anno per le energie rinnovabili, non va a sostenere quelle ma gli inceneritori. Il governo Prodi, quando già non era più in carica, ha preso due incredibili decisioni: la prima: ha deciso di bruciare le ecoballe ad Acerra, la seconda: contro il volere del Parlamento, che nella scorsa finanziaria aveva abolito il Chip6, ha deciso di assegnare quei fondi alla costruzione di tre inceneritori in Campagna. Adesso arriva Berlusconi che, con l’aiuto dell’esercito, impone il ciclo industriale dei rifiuti in una regione già martirizzata. Questo scenario è il simbolo della negazione dei diritti umani e un esempio di come si schiaffeggia un intero popolo, ecco perché noi non ci stiamo e lotteremo fino in fondo. Per queste cose vado in galera volentieri, è un’oscenità totale. E i rom in tutto questo? In questo scenario drammatico Napoletano scoppia il problema dei rom, che a 28

maggio hanno visto i loro campi a Ponticelli bruciati dalla camorra. Si dice che i rom in città e provincia siano circa quattromila persone, che vivono in un numero imprecisato di campi. Una cosa è sicura, però, questi sono i peggiori campi che esistano in Italia. Lo ha dichiarato anche l’eurodeputata ungherese Viktòria Mohàcsi. Una situazione gravissima in cui si inseriscono, in zone particolari come Ponticelli, le tensioni tra comunità e popolazione locale. Frizioni tra poveri ma non solo: ci sono anche le grosse speculazioni edilizie in corso, e la camorra ne ha approfittato per attaccare i campi abusivi. I rom di Ponticelli pagavano il pizzo alla camorra per stare nelle baracche, cinquanta euro a testa al mese. I roghi dei loro campi però sono scoppiati quando una rom di quattordici anni è stata accusata di aver tentato di rapire un bambino... Già, ma come comitato civico chiediamo che vengano rese pubbliche le indagini della magistratura, perché se fosse vero sarebbe il primo caso confermato, nella storia italiana, di un rom che rapisce un bambino. Questo è potuto accadere anche perché in tutto il paese era già in atto la caccia ai rom, una xenofobia crescente e un moltiplicarsi di storie cruente su di loro. La colpa è solo della politica e della camorra? Ai napoletani contesto il silenzio, il fatto di essere stati zitti senza ribellarsi per quattordici anni. Ma le vere responsabilità sono della politica, dei governi ignobili che si sono susseguiti. Da un lato è vero che l’attivismo politico dal basso si sta sfaldando, ma dall’altro l’associazionismo di base sta crescendo. Ci sono diversi comitati civici per i rifiuti, abbiamo dato il via anche a un coordinamento a livello regionale e ci sono diverse associazioni che si occupano dei rom. I passi fatti per unire la società sono stati notevoli. Napoli poi è una realtà particolare, qui non ci sono state mai esperienze collettive forti, per via di un debito storico che ha fatto sì che qui ognuno abbia sempre cercato di risolvere da sé i propri problemi. Oggi la politica ha bisogno di capri espiatori perché premiano in termini di voto, come si può ovviare a questa situazione di degrado politico? Voglio citare l’antropologo francese Renè Girard, che considero uno dei geni del secolo scorso. Girard sostiene che ogni società umana, ogni cultura, costruisce la propria pace sull’eliminazione del capro espiatorio. Una società nei pasticci trova sempre qualcuno a cui scaricare la colpa, oggi ce la prendiamo con i rom e ci illudiamo, eliminandoli, di poter trovare la nostra pace.

In alto: Spazzatura a Secondigliano. Napoli, Italia 2008. In basso: Alex Zanotelli. Napoli, Italia 2008. Naoki Tomasini ©PeaceReporter


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La storia Francia

La Santa Sans Papiers Di Vauro Senesi

La piccola Asia ha gli occhi azzurrissimi. Come il cielo? Come il mare? No, perché oggi il cielo su Le Saintes Maries de la Mer, in Camargue, è coperto e grigio, e il mare lo riflette plumbeo. sia invece ha un vestitino rosso acceso, ricco di sbuffi di pizzo. Un vestitino da zingara. Asia è una zingara. L’ultima nata di una grande famiglia di sinti, zingari italiani, che con i loro camper, sono arrivati in questa piccola città di mare insieme ad altri zingari: rom, manouches, gitani, che vengono qui ogni anno, da mezzo mondo, per festeggiare la loro patrona Sara. Quest’anno ce ne sono più di quarantamila. E appena i campi attrezzati , e anche il lungomare, si riempiono di roulotte, camper e carri, la festa dilaga in tutte le vie della città. Non basta certo un cielo basso e grigio a contenerla. Esplodono i colori sgargianti dei vestiti delle donne, luccicano i monili d’oro degli uomini. Gli schiamazzi di mille bambini felici si fondono con le risate e le parole di frasi pronunciate in tanti idiomi differenti, ma tutti zingari. La musica erutta da ogni angolo, da ogni caffè e avvolge tutte e tutti: sono violini, fisarmoniche, trombe e pianole. “Un tempo erano solo chitarre flamenghe” dice con orgoglio e con un’ombra di nostalgia Manitas de Plata, il re, da tutti riconosciuto, della musica gitana. Vestito di bianco, bianchi i capelli lunghi, Manitas, ottantasette anni, cammina a mala pena aiutato da una donna dalla gonna ampia. “Questa era la festa gitana - continua - ora ci sono tutti, sinti, rom, manouches...”. Ma quando qualcuno gli porge una chitarra, le note che le sue mani traggono dalle corde sembrano provenire da un’orchestra intera e gli altri suoni si tacciono. Manitas de Plata è davvero il signore di tutti gli zingari, rom o manouches che siano, e quando lui cammina con il suo passo malfermo nelle viuzze gremite, ognuno gli fa largo e lo saluta con deferenza. Poco prima delle quattro del pomeriggio, come da tanti affluenti, la folla si riversa in un unico straripante fiume colorato che riempie la cattedrale e la piazza antistante. Sulle teste svettano i gardians (mandriani di

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tori della Camargue) in sella a cavalli bianchi. Appena la statua di Sara, portata a braccia, uscirà dalla chiesa, saranno loro ad accompagnarla in processione fin dentro l’acqua del mare. Sara che dal mare è venuta. Alcuni dicono che fosse la serva egiziana di Maria di Giacobbe e di Maria di Salomè, approdate su queste sponde, in fuga dalla Palestina, dopo la Crocifissione di Cristo. Su una barca alla deriva, senza remi. Altri che fosse la regina di una comunità zingara che pare vivesse già qui dal tempo degli antichi romani e che salvò le due Marie dal naufragio. Sara ha la pelle nera, non è riconosciuta ufficialmente come santa dalla Chiesa. E’ insomma una santa sans papiers, chi meglio di lei poteva divenire la patrona dei figli del vento? E loro la seguono, pregando e cantando, fin dentro la spuma delle onde. gni zingaro ha la sua storia su Sara, ogni zingaro giura che sia quella vera. Così Sara rimane avvolta nel mistero di mille leggende. Lo stesso mistero di questi nomadi che sanno essere così felici e liberi nonostante tutto. Forse è il mistero della libertà e della solidarietà, forse è quel mistero che a noi gagé, così ci chiamano, fa tanta paura, perché stiamo perdendo sia l’una che l’altra, semmai le abbiamo avute. La mattina il cielo di Le Saintes Maries de la Mer è ancora grigio, ma stavolta è grigia anche la città. I campi sono vuoti, spariti camper, carri e roulotte. Gli zingari se ne sono andati e con loro la musica e i colori.

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In alto e in basso: Giovani donne nomadi. Le Saintes Maries de la Mer, Francia 1978. Lucio Cavicchioni per PeaceReporter.


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La storia

I colori dell’integrazione di Andrea Mihai

La legge è uguale per tutti indipendentemente dall’etnia, la nazionalità o la cultura. In una delle sue forme simboliche, la giustizia viene rappresentata da una donna bendata che afferra una bilancia e una spada, messaggio che va a rafforzare l’idea che nessuno dovrebbe essere al di sopra dell’imparzialità della giustizia e della legge. a giustizia non ha e non dovrebbe avere colore, né l’intolleranza dovrebbe guidare i suoi passi. Se questo ragionamento ci trova tutti d’accordo, da dove arriva e come viene fabbricata la “romfobia”? Analizzando i casi mediatici che hanno coinvolto cittadini di etnia rom, si potrebbe chiaramente scoprire che rientrerebbero, per la stragrande maggioranza, sotto la competenza della polizia. Pertanto, tutti gli stereotipi culturali mantenuti e nutriti dai media, come ad esempio ‘sporchi’, ‘ladri’, ‘rapitori di bambini’, non avrebbero nessun peso e nessun tipo di forza coercitiva sull’opinione pubblica. Ci troviamo davanti a un “semplice”, ma allo stesso tempo complesso, problema di delinquenza, di criminalità e, conseguentemente, di giustizia. Qualsiasi equivoco tra ‘la legge uguale per tutti’ e i “ladri, sporchi, criminali senza scrupoli” non fa altro che produrre giudizi e condanne in blocco senza diritto di appello e di difesa. La confusione tra le due percezioni viene costantemente rilanciata da alcuni politici, mantenuta da alcuni media e propagata dalla disperazione e dalla frustrazione di una popolazione stanca, che si ritrova alla fine del proprio limite di sopportazione.

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rom non rappresentano una minaccia, il popolo rom non è composto da delinquenti e non ama vivere in condizioni disumane, anche se si potrebbe quasi notare un piacere morboso nel guardare le condizioni pietose in cui vivono, come se la loro vista ci rendesse tranquilli sulla nostra civiltà e sulla scelta di “sicurezza” che ci viene inoculata. Basta scavare sotto la superficie della “paura rom” per scoprire una realtà che molto più complessa, interessante e affascinante di qualsiasi invenzione coniata per interessi politici. La maggior parte dei rom, che in Romania formano la principale minoranza del paese, è poverissima, abita le campagne in condizioni ben peggiori rispetto ai contadini rumeni, ma è perfettamente integrata, tant’è che andando per i piccoli paesi di campagna si troveranno gli zingari occupati con alcuni dei mestieri tradizionali che li contraddistinguono: il maniscalco, il fabbro, il ramaio, il fioraio, ecc. I loro interessi vengono rappresentati nel Parlamento rumeno da vari deputati, da un partito politico e da Ong rom che difendono e divulgano la conoscenza sulla cultura e sulla complessa realtà rom. Ma in Italia, dei rom, anche se rappresentano lo 0,25 percento della popolazione, viene percepita solo la 32

minaccia, la paura, la disgrazia e la miseria dei pochi a discapito dei molti. Un terzo di questo 0,25 percento ha la cittadinanza rumena, la maggioranza non sono, né sono mai stati nomadi, e solo una manciata delinquono. La giusta strada dell’integrazione non potrà mai essere quella dell’assimilazione forzata, che comporta quasi sempre una rinuncia alle proprie tradizioni per adattarsi alla cultura adottiva, e nemmeno quella dell’invasione rom da combattere, dato che con lo 0,13 percento di rom stranieri presenti in Italia, si potrebbe parlare di tutto tranne di un’invasione. I rom sono bersagli facili da demonizzare in un’Italia che ha sempre avuto bisogno di qualche capro espiatorio su cui sfogare le proprie insoddisfazioni derivanti da una politica egoista e preoccupata più della propria immagine che di rispettare le promesse fatte alla gente comune. ostinazione nel trattare la criminalità come un problema di immigrazione e di cultura frenerà l’evoluzione dell’Italia in un mondo in cui la globalizzazione è un dato di fatto contro il quale nessuno avrebbe una chance di vittoria. Amiamo le vacanze ad Amsterdam e Londra perché sono culturalmente eclettiche, ci piace mangiare all’indiano, al cinese, all’argentino, fa chic comprare mobili e oggetti etnici, ma non amiamo vedere le persone “etniche”, gli stranieri portatori di diritto di queste ricchezze culturali perché la globalizzazione (anche se negata e ignorata) vale solo per le merci. Si nota il rifiuto di integrare le persone che vorremo fossero integrate nella società: non vogliamo i rom vicino alle città, creiamo consapevolmente i ghetti, per poi chiederci, angelicamente, come mai non riescono a integrarsi. La vera sfida da affrontare sarà l’integrazione futura degli attuali bambini rom che sono testimoni, sulla propria pelle, delle strategie italiane di integrazione che dovrebbero preoccuparci sul futuro che ci stiamo creando. L’Italia sta subendo la propria incapacità di accettare, riconoscere e trasformare le diversità in risorsa a favore di una società che forse ignora il reale e profondo significato della parola integrazione, vale a dire “aggiungere al dato ciò che manca”.

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In alto: Campo romeno alla periferia di Barcellona. Spagna 2007. Luca Ferrari/prospekt In basso: Donna rom. Milano, Italia 2006. Lucio Cavicchioni per PeaceReporter


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L’intervista

Io ho paura. Degli italiani Di Angelo Miotto

Marco Revelli, sociologo torinese, conosce da vicino la storia del popolo rom. Quando era consigliere comunale sotto la Mole ha vissuto per qualche tempo insieme a loro, alla fine degli anni Novanta. Oggi la sua è una delle più autorevoli voci che si levano a denunciare pogrom e la trasformazione di una comunità in capro espiatorio. Con orribili reminiscenze sulla bestia del Novecento, che torna libera ai giorni nostri. Partiamo da qui. Dalle condizioni storiche, sociali e politiche che ci hanno fatto ripiombare in questa emergenza democratica. C’è davvero un’emergenza civiltà, in Italia. Riguarda il quadro politico, ma anche l’informazione e i suoi i linguaggi, oltre all’atteggiamento collettivo. Su questi tre livelli stiamo assistendo a una rottura, a un cedimento strutturale del modello di società che era emerso dopo la fine della seconda guerra mondiale. È la caduta della Costituzione materiale che, nonostante alcuni limiti, aveva fatto proprio il messaggio del rifiuto del razzismo, almeno nel linguaggio pubblico, con un atteggiamento di tolleranza, che è una parola pessima perché vuol dire sopportare quello che non piace. Questo quadro è saltato. Sono finiti una serie di anticorpi ed è ricominciato l’uso delle retoriche del disumano, attraverso le quali si nega l’umanità a una parte consistente dei nostri simili. Era successo nel periodo fra le due guerre mondiali; evidentemente quella terapia d’urto non è servita. Una parte dei nostri simili non vengono considerati uomini, negando quell’elemento comune che abbiamo. Si inizia a considerare altre parti dell’umanità come oggetti, strumenti simbolici sui quali scaricare la propria crisi di identità. Quali sono le cause sociali che hanno creato un humus fertile per questa deriva? La ragione principale è la sostanziale ignoranza che domina nel nostro Paese. Che il nostro Paese sia agli ultimi posti in istruzione e ai primissimi nell’intolleranza è un dato significativo. Un secondo elemento è l’impoverimento. Questo è un Paese che sta vivendo, oggettivamente e soggettivamente, un periodo di caduta, di impoverimento. Parte consistente della popolazione, dopo aver sfiorato un livello di benessere nella seconda metà del 900, oggi avverte di perdere posizioni e di non potersi più permettere quello stile di vita consumisticamente distruttivo che aveva raggiunto. Per di più i grandi ricchi si muovono ormai in uno spazio, disegnato dalla globalizzazione, che li rende irraggiungibili. Non appartengono più alla stessa civitas degli altri. Sentendosi impoverire e non avendo meccanismi di redistribuzione sociale, una parte della società scarica frustrazioni e paure in un conflitto orizzontale. Quello dei penultimi nei confronti degli ultimi E il meccanismo è tragico. È quello che ha segnato la seconda parte della Repubblica di Weimar: si ricorre al meccanismo del capro espiatorio, rispondendo a una crisi di identità. Non si sa bene più chi si è e si sa che non si potrà godere dei livelli di benessere conquistati. Quindi si scarica tutto sul 34

capro espiatorio, sul quale operano le retoriche del disumano, uomini privati dello status di uomini e resi disponibili per operazioni simboliche e reali. La pulizia etnica come risarcimento della propria perdita di identità di ruolo, di prestigio sociale. Perché la parte sana dello Stato non reagisce con forza a questo allarme? Quando un imprenditore politico decide di quotare nella propria borsa questi sentimenti ad alto potenziale emotivo, come l’odio del diverso, quando il sistema mediatico non ha più un proprio Dna, è difficile trovare la maniera di resistere. Puoi farlo solo se hai un forte retroterra identitario e culturale. Può resistere solo una forza politica che sappia molto bene chi è, che abbia una identità riconosciuta. E che sia determinata a contrapporsi, a contrapporre un sistema di valori proprio. Purtroppo assistiamo - e le due cose marciano storicamente insieme - al ritorno di questi meccanismi devastanti insieme alla dissoluzione delle forze che un tempo si chiamavano le diverse sinistre; una cancellata dallo spazio parlamentare, l’altra svuotata, evaporata. Oggi, quella che dovrebbe essere l’opposizione politico parlamentare è un ectoplasma privo di identità e di autoconsapevolezza, in balia del vento che prevale nella cosiddetta opinione pubblica, fortemente condizionata dai cliché, dagli standard dal nuovo conformismo, dell’intolleranza. Vie di uscita? Dove porterà quest’ondata di disumanità? Sono terrorizzato. Ho paura. Anche io mi associo al clima che domina: ma non ho paura degli altri, ho paura degli italiani, di cosa possa succedere se la crisi morderà ancora di più, quando il petrolio continuerà a salire, l’inflazione crescerà ancora con salari che continuano a diminuire. Ho paura di quando si perderanno le case, comprate con i mutui, o le auto, prese a rate. L’impoverimento favorisce l’imbarbarimento. Ci sono tutti gli ingredienti per una apocalisse culturale. Se ci sarà il tempo, se la situazione economica sociale tiene, possiamo provare a richiamare gli elementi base di civiltà, per far ritornare in sé un popolo che è caduto in preda a una crisi di nervi. O riusciamo a dare la parola agli uomini e alle donne che sono stati considerati ‘non persone’, ascoltare il racconto del popolo rom, la sua cultura nobile e profonda, oppure il peggior Novecento ci ripiomberà addosso. Nel campo di Triboniano. Milano, Italia 2007. Andrea Pagliarulo/Prospekt


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La ricerca

Rom e sinti, questi sconosciuti Di Paola Arrigoni “Sogno in rom e sogno in italiano”. “Se io vado in televisione e dico ‘sono una rom’ mi dicono ‘ah, ma tu non sei vera”. Si sa poco dei rom, dei sinti e degli altri gruppi di lingua romanì residenti in Italia. È quanto è emerso da una ricerca realizzata da Ispo, Istituto per gli studi sulla Pubblica Opinione, nell’ottobre del 2007 per il Ministero dell’interno. alle domande rivolte a un campione rappresentativo di italiani maggiorenni per genere, età, titolo di studio, condizione professionale, area geografica e ampiezza del centro di residenza, è risultato che gli italiani, i gagi, i non rom, non hanno la minima idea di quanti siano (56 percento) oppure ne sovrastimano la presenza fino a dire che sono due o più milioni (35 percento): mentre le stime più verosimili ci dicono che sono circa 150 mila. La maggioranza (49 percento) non è consapevole che la metà di loro ha la cittadinanza italiana, mentre a saperlo è solo il 24 percento dei rispondenti. Addirittura l’84 percento poi pensa che siano nomadi, mentre si stima che solo l’8 percento pratica ancora una qualche forma di nomadismo. Infine, credono anche che si tratti di un popolo omogeneo per cultura, lingua e provenienza, mentre si tratta di una galassia di minoranze. Il quadro che ne deriva è desolante: solo un italiano ogni mille (0,1 percento) ha una conoscenza completa (con riferimento ai quattro elementi di base sopra detti) del mondo rom e sinto. La non conoscenza si accompagna ad atteggiamenti di forte ostilità nei confronti dei rom e dei sinti, fino a sconfinare, per alcuni, nell’antiziganismo. Del resto l’antiziganismo ha in Italia e in Europa una storia lunga, con l’intensificarsi delle loro persecuzioni a partire dall’illuminismo fino al genocidio nazista. I rom risultano il popolo meno gradito agli italiani, visto che l’81 percento li considera antipatici (solo il 39 percento esprime un giudizio altrettanto duro sull’insieme degli immigrati). Abbiamo stimato che è circa il 37 percento degli italiani a dichiarare atteggiamenti apertamente antizigani: più di un terzo della popolazione manifesta una profonda antipatia nei loro confronti, accompagnata da immagini negative e generalizzate (ladri, chiusi) e dalla convinzione che siano “colpevoli” per la situazione in cui versano, facendo combaciare in loro la vittima e il carnefice. Pensano anche che l’abitare in “campi nomadi” degradati e marginali sia una loro scelta e che la convivenza sia impossibile per differenze culturali incolmabili. Si tratta soprattutto dei meno informati e degli abitanti in zone metropolitane, con forti accentuazioni tra i disoccupati e chi politicamente si colloca all’estrema sinistra o all’estrema destra. Esiste comunque in Italia anche un’ampia quota di possibilisti sulla convivenza pari al 38 percento e tra questi ci sono più spesso cattolici praticanti, persone che si sentono di centro sinistra, studenti, abitanti del Sud e Isole. Il restante 25 percento è costituito dagli infastiditi dal nomadismo: il problema è l’esistenza dei campi nomadi così come sono, il problema è la loro presunta nomadicità. Di una cosa però c’è consapevolezza: il 67 percento degli italiani li ritiene uno dei popoli più discriminati sulla terra.

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cosiddetti opinion leader rom e sinti hanno molte cose da dire, cose che decostruiscono la maggioranza dei pregiudizi su di loro. «Rubano i bambini»: questo si dice, nonostante diverse ricerche effettivamente dimo-

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strino come tale prassi non abbia elementi di veridicità. Un vero e proprio marchio di infamia, continuamente rinnovato dai media. Come ricorda uno degli intervistati nel corso della ricerca, «dopo che hanno arrestato quella donna, accusata di avere “rubato un bambino”, i testimoni hanno ammesso che non ne erano sicuri e che in effetti sono terrorizzati dai rom. Si è verificata un’allucinazione collettiva». «Sono nomadi»: secondo gli intervistati è un pregiudizio con conseguenze molto rilevanti, che può portare a sostenere e giustificare l’idea del «camponomadi» come politica appropriata e desiderata dagli stessi destinatari. Sono sporchi». Rom e sinti sarebbero semmai ossessionati dalla pulizia e, anche nei campi più disastrati, l’interno delle abitazioni è tenuto in ordine e pulito con grande cura. E’ solo attraverso inferenze indebite che riconducono a una cultura ciò che invece è da associare alle condizioni di alcuni campi nomadi e baraccopoli, che i rom possono essere definiti “sporchi”. «Non hanno voglia di lavorare»: secondo i rom e i sinti è un’affermazione non dimostrabile, poiché per loro è veramente difficile avere l’opportunità di lavorare. Ma gli opinion leader rom e sinti chiedono soprattutto di avere voce, di partecipare direttamente e di valorizzazione le loro forme autonome di rappresentanza. Perché ritengono che nelle politiche di contrasto alle discriminazioni e alla segregazione, qualsiasi pratica che non abbia come soggetti di interlocuzione e negoziazione i rom stessi, non potrà mai essere efficace. «Non devono essere i gagi a parlare in nome dei rom, ma i rom e i sinti stessi a farlo»: «Senza la nostra partecipazione attiva alla vita sociale, culturale e politica non ci sarà mai integrazione culturale». «Ora è giunto il momento di supportare le capacità di partecipazione dentro tutti i diversi gruppi». ia gli italiani che i rom e sinti intervistati reputano rilevanti il tema del rispetto delle leggi, della sicurezza, dell’incolumità personale e il ruolo degli apparati di repressione. Tuttavia, il tema della legalità viene declinato in modo diverso. Per la maggior parte dei gagi, la legalità è una pre-condizione necessaria per percorsi di inclusione sociale. Per gli opinion leader rom e sinti deve essere ribadito che bisogna smettere di criminalizzare un intero popolo. Una maggiore «legalità» si può ottenere, nel medio periodo, avviando politiche per l’inclusione, «dando la possibilità di rispettare le regole». «Sarebbe giusto intervenire a favore del popolo rom perché così diminuirebbe anche la criminalità; ma la realtà dei fatti è che non si vogliono trovare veramente delle valide alternative per integrare nella società le famiglie rom, ci si adopera soltanto per reprimere e punire; non si guarda alle reali difficoltà in cui versano i rom».

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Le Saintes Maries de la Mer, Francia 1978. Lucio Cavicchioni per PeaceReporter.


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Rubriche

In edicola di Claudio Sabelli Fioretti

Silenzio, si rigoverna In tivù di Sergio Lotti

Il vento è cambiato Più di quello che si è visto, nelle ultime settimane sui teleschermi, ha colpito quello che non si è visto. Prendiamo il caso del trentenne operaio milanese che ha stuprato la ragazzina marocchina di tredici anni, mettendola incinta. Era accaduto qualche mese prima, ma lo si è saputo soltanto quando la madre, musulmana praticante, ha avuto il coraggio civile di denunciare il colpevole. Non era forse una vicenda alla quale dedicare un po’ di spazio? Non si pretendeva il salotto di Vespa, Mentana o Floris, ma almeno un pizzico di indignazione da parte di un membro del governo, di un amministratore locale, di un politico di opposizione nell’angolino di qualche telegiornale. Ovviamente non la stessa indignazione manifestata quando la vittima era italiana e l’aggressore un romeno, ci mancherebbe, sarebbe bastato molto meno. Invece solo qualche breve cenno di cronaca, con la precisazione che si trattava di un balordo: non si vorrà mica ingenerare il sospetto che i milanesi siano stupratori come i romeni. Intanto due coniugi veronesi hanno ucciso un dipendente romeno e gli hanno dato fuoco per incassare la sua polizza d’assicurazione. Anche in questo caso il rilievo sui teleschermi non è stato minimamente paragonabile a quello concesso per delitti molto meno efferati compiuti da immigrati. Il vento è cambiato e anche la Rai, come sempre, si adegua. E’ passato quasi sotto silenzio persino il corteo organizzato da sinti e rom per far sapere che sono poco più di centomila, la metà dei quali cittadini italiani, che molti loro padri hanno lottato contro il fascismo a fianco dei partigiani, che in buona parte hanno studiato in Italia (c’è anche chi ha un paio di lauree), che non rapiscono i bambini e che solo meno del dieci per cento di loro sono nomadi. Di questo passo, prima o poi saranno loro a cercarsi spazio sui teleschermi europei per dire che non ne possono più di un paese in cui vengono confinati come appestati in miserevoli campi che ogni tanto vengono incendiati, di essere sommersi da montagne di rifiuti tossici, di rischiare di essere ricoverati in cliniche piene di topi e scarafaggi, dove ci può essere in agguato qualche chirurgo pronto a toglierti il polmone sano per arrotondare lo stipendio. E si chiederanno: ma un paese così può restare nell’Unione europea? 38

Una volta la casta dei giornalisti era casta ma reattiva. Oggi sembra ripiegata sul suo ombelico. Un ombelico piccolo, modesto, senz’anima. Che cosa bisogna fare, oggi, perché i giornalisti si incazzino? Che si incazzino realmente, intendo, non che dichiarino che prima o poi si incazzeranno. Possibile che solo il rinnovo del contratto li mobiliti fino allo sciopero? Ormai i giornalisti sanno di essere degli impiegati del catasto e quindi deontologia e valori li considerano degli optional per i quali non vale la pena battersi. Questo governo, sostanzialmente d’accordo con questa opposizione, ha deciso che i giornalisti, quei pochi che hanno ancora a cuore la professione, se pubblicano intercettazioni telefoniche che altri hanno diffuso, debbono finire in galera. Non importa che cosa contengano queste intercettazioni, non importa che nessuno voglia sapere come hanno fatto a uscire dalle cancellerie, non importa nulla. Importa solo che si puniscano i giornalisti perché sono loro gli ultimi anelli della catena (il che non è vero, gli ultimi sono i giornalai, perché loro no?). Quello che fa questo gover-

A teatro di Silvia Del Pozzo

Colloquio con il proprio io Vent’anni fa nel carcere di Volterra scoppiò una rivolta. Pacifica e assolutamente fuori da ogni regola non scritta di un istituto di pena. La rivolta della cultura: un modo per evadere con la mente dai confini claustrofobici della cella. Nacque nel 1988 la compagnia della Fortezza, fatta di detenuti- attori che nel palcoscenico di una cella appunto - 3 metri per 9allestirono con la guida del regista Armando Punzo il loro primo palcoscenico. L’esordio in scena fu “La gatta Cenerentola” di De Simone, seguirono “Marat Sade” di Weiss, “I Negri” di Genet, “Macbeth” , “Amleto” e tante altre pièce fino a Beckett, “L’ultimo nastro di Krapp”, che nel ventennale va in scena, a fine luglio, nel carcere e in città, insieme alla ripresa del “Marat Sade” e “Pinocchio, lo spettacolo della ragione”. Oggi la compagnia della Fortezza è un gruppo teatrale riconosciuto e superpremiato che ha fatto scuola: molte infatti sono le carceri nelle quali l’attività teatrale non solo fa parte dei programmi di rieducazione, ma addirittura è riconosciuta (dal 2000) come un lavoro vero e proprio. Il primo a scoprire in penitenziario il fascino e la libertà del teatro è stato l’americano Rick Cluchey, che 50 anni fa, a San Quintino, fu illuminato da Samuel Beckett , che di costrizioni fisiche e psicolo-

no io lo capisco, non mi aspetto niente di buono e trovo del tutto normale che qualcuno cerchi di salvarsi la pellaccia. Il problema è come mai i giornalisti non siano in piazza, non stiano facendo un grande girotondo attorno a Palazzo Chigi. Come mai i direttori, quasi tutti i direttori, tacciono? Come mai gli opinionisti al massimo sussurrano? Come mai i sindacalisti fanno finta di fare la voce grossa ma in sostanza tiepidamente esalano flebili lamenti? Sapete chi è rimasto a difendere la libertà di diffondere le notizie? Francesco Cossiga, proprio quello con la “k”. Kossiga. Ci difende lui, il presidente emerito, qualcuno sospetta sia matto. Ormai il conflitto di interessi è diventato un gigantesco bubbone che riguarda tutti, non solo Berlusconi. E’ lo Stato stesso che si identifica in un imbarazzante conflitto di interessi. Invece di fare leggi per il nostro benessere, la classe politica pensa solo a perpetuare la propria esistenza. Destra, centro e quello che rimane della sinistra, quasi senza alcuna apparente differenza. E intanto è assordante il sostanziale silenzio dei cosiddetti colleghi.


giche aveva intessuto il suo il teatro dell’assurdo … Di Beckett Cluckey divenne amico, fondò una compagnia all’interno del carcere e la portò in giro per il mondo. Il 22 e 23 arriva a Volterra con un altro allestimento di “L’ultimo nastro di Krapp”. Sarà interessante mettere a confronto le due versioni e verificare come italiani e americani abbiano interpretato la storia del vecchio professore fallito che, in un isolamento totale, continua a risentire la registrazione della propria voce: un colloquio con il proprio io che riflette e racconta frammenti della sua esistenza. Un Io che gli diventa via via sempre più estraneo.

Vauro

Festival Volterra Teatro 08. Dal 14 al 27 luglio, Volterra, nel Carcere e in altri spazi della città. Info: tel.0588 80392, www.volterrateatro.it

Musica di Claudio Agostoni

The Chalga Band Ratka Piratkka (Ishtar) Ratka Piratka è una trasmissione radiofonica, in onda sulle frequenze di Radio Popolare, dedicata alle musiche dei Balcani. Una delle capitali di questo universo culturale è Sofia, la città della chalga: un genere musicale onnivoro, come tutta la musica figlia del popolo rom. Due i suoi tratti distintivi: i testi, degni delle migliori pagine del ‘Vernacoliere’ livornese, e i suoni, capaci di coniugare i ritmi dell’universo rom con gli afrori dell’odierna cultura urbana. Lo sdoganamento per il grande pubblico è arrivato con la title track di questo lavoro: quella ‘Ratka Piratka’ che narra della piccola Rade, voluttuosa piratessa dai capelli rossi, in grado di stendere gli scapoli sfilandosi sulla scena il reggiseno usando la stessa mano con cui tiene il microfono. Una delle voci più rappresentative della chalga è Sissi Atanassova, giovane artista rom che qui troviamo in ben due brani, tra cui Gelem Gelem: una sorta di inno, non ufficiale, del popolo zingaro. Zingarella è un brano della tradizione serba, qui cucinato in salsa bulgara. Ma Marem Ma e Daj Nasval’I sono due brani estrapolati, rispettivamente, dal repertorio del cantante bulgaro Jony Iliev e di Vera Bila, strepitosa musicista ceca cresciuta ascoltando le canzoni di Adriano Celentano sulle frequenze di una vecchia radio del suo campo. Iest Sexi, un brano che sarebbe piaciuto a Serge Gainsbourg, è il tipico parto di certi locali della banlieu di Bucarest, mentre Yaz è la cover di un successo di Sezen Aksu, la Mina del Bosforo… Insomma, più che un cd, un Bignami delle musiche amate dai rom del terzo millennio.

Daniela Diakova (Ishtar) L’educazione musicale è parte fondamentale della cultura rom e viene coltivata fin dall’infanzia. È il caso di Daniela Diakova, nata trent’anni fa nella comunità rom di una città bulgara, in una famiglia nella quale suo padre e suo nonno erano

compositori e musicisti. Il suo talento vocale si sviluppò in modo naturale con la crescita, ed è stato supportato dai genitori che, pensando per lei ad una carriera di cantante, le hanno fatto studiare musica dandole una formazione classica. La lirica divenne il mezzo espressivo della sua voce, ma prima che Daniela potesse avere successo sulla scena operistica internazionale, alcuni avvenimenti personali ne deviarono il cammino. Ciò nonostante, quest’album resta una valida prova del suo talento. Le composizioni appartengono al repertorio musicale di suo nonno, autore originale di alcune di esse. L’interpretazione di Daniela mette in risalto uno stile che combina il classico canto operistico con una rilettura eccentrica dei testi. Il risultato è una raccolta di arie di romanza dal gusto anti-

co. Fatto sorprendentemente raro per la tradizione culturale rom, che è quasi interamente orale, i testi sono stati scritti in lingua rom. Melodie uniche, completamente sconosciute e tuttavia semplici da ripetere, canzoni di facile ascolto, ricche di un sentimento antico e diretto.

ERRATA CORRIGE: A pag. 27 del numero di giugno 2008 di PeaceReporter abbiamo omesso il credit fotografico dello spettacolo How Nancy whished that everything was an april fool’s joke tenutosi al Palladium di Roma nell’ambito del Romaeuropa Festival 2007. La foto è di Piero Tauro/Romaeuropa Festival. Ce ne scusiamo con gli interessati. 39


Al cinema di Nicola Falcinella

Cinema nomade Come sono buoni i rom. Al cinema. Oppure, si potrebbe dire, per fortuna che c’è il cinema. Per i gitani. Che nei titoli sono di solito sono chiamati genericamente zingari. Sullo schermo sono espressione di un mondo seducente e miserioso. E quasi mai evocano paure. Due i filoni di film che li vedono protagonisti. I più li vedono dall’esterno. Casi illustri del passato sono Marlene Dietrich, zingara che traveste lo scienziato Ray Milland catturato dai nazisti in “Amore di zingara”, di Mitchell Leisen, per aiutarlo a fuggire in Svizzera, e Alain Delon evaso ne “Lo zingaro”, di Josè Giovannini. Ma anche “Giovani e belli” (1996), poco ruscito lavoro di Dino Risi con Anna Falchi improbabile zingara (meglio “Prendimi e portami via” con Valeria Golino), l’estetizzante “Il re degli zingari”, con Sterlyng Hayden, Shelley Winters e Susan Sarandon, e il buon “Tir-Na-Nog – Vietato portare i cavalli in città” di Mike Newell, tra magia e realtà con cavalli e bambini in Irlanda. Sull’altro fronte chi s’è immerso nella vita del popolo senza patria, per un solo film o per gran parte della carriera: vengono subito in mente Emir Kusturica e Tony Gatlif. Del primo sono da vedere “Il tempo dei gitani” e “Gatto bianco, gatto nero”, uno con uno sbocco tragico, l’altro sovraffollato di caratteri e con uno spirito di divertimento. Gatlif è il regista che più volte ha raccontato di zingari, dall’India

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all’Andalusia, dal nord Africa al sudest Europa: da “Latcho Drom”, “Gadjo Dilo”, “Vengo”, “Exils” a “Transylvania”. Non sempre del tutto compiute (ma un momento da ricordare c’è in ciascuna), le opere del regista d’origine algerina uniscono tragedia, amore e musica, pulsioni primitive e sentimenti forti. Entrambi gli autori propugnano un cinema folle, anarchico (anche se Kusturica è più strutturato, classico e con referenze più immediate, da Tarkovski a Fellini alla scuola ceca), appassionato e rispettoso della dignità delle persone. Da non dimenticare i capolavori “Ho visto anche zingari felici” (1967), di Aleksandar Petrovic (anche qui amori, drammi e musica in una comunità della Vojvodina), “I lautari” e “Anche gli zingari vanno in cielo” di Emil Lotijanu. Tra i documentari, il poetico “Zingari” (1963) di Wladyslaw Slesicki, lo spassoso “Il libro dei record di Šutka”, di Aleksandsar Manic, “Rom”, di Yervant Gianikian ed Angela Ricci Lucchi con la memoria del genocidio, e “Rom Tour” (2002) di Silvio Soldini con Antonio Tabucchi.

In libreria di Giorgio Gabbi

Zingari di merda di Antonio Moresco Il titolo è sgradevole e discutibile, per motivi del tutto evidenti. Ma basta arrivare in fondo alla seconda pagina del volumetto per capirne il signi-

ficato: è proprio così che definisce sé stesso lo zingaro che fa da guida all’autore del testo e al fotografo in un tormentato viaggio in Romania, ed è così che chiama i suoi simili. Loro rispondono sghignazzando e replicando con insulti altrettanto volgari e sempre in italiano. Tanto per mettere in chiaro che il disprezzo che mostrano verso di loro i razzisti del “paese ospite” lo rilanciano indietro come una sfida: “Ci chiamate così? Ci sta bene:


siete contenti, adesso?” A dimostrazione dell’abisso che separa il loro universo da quello dall’elettorato di tanti sindaci italiani decisi a “risolvere il problema dei rom”. Nel loro viaggio in Romania i due italiani visitano, nelle loro baracche originarie a Slatina, famiglie di zingari che hanno trascorso periodi anche lunghi in Italia e che poi sono state espulse dopo la distruzione dei “campi abusivi”. Intascati i soldi del rimpatrio, molte famiglie si dicono intenzionate a ritornare in Italia: qui le elemosine raccolte in media da una donna in una giornata sono tre volte la paga di un operaio rumeno in patria. Le briciole che cadono dalla tavola imbandita dell’Europa benestante sono più ricche di quanto gli zingari riescano a rimediare in Romania. Gli autori hanno documentato anche l’allucinante insediamento di Listava, dove le famiglie degli zingari, per ripararsi dalla neve e dal gelo, vivono addirittura in buche scavate nel terreno e coperte con tetti di fortuna, vere tane sotterranee, in condizioni di vita che si pensava fossero finite in epoca preistorica. La denuncia di Antonio Moresco è durissima. Il servizio fotografico di Giovanni Giovanetti, molto efficace, accompagna il lettore dall’insediamento abusivo dell’ex Snia Viscosa di Pavia fino alla Romania e ritorno. Parole e immagini crude che collocano la vicenda di questo popolo “diverso” nella cornice della società e dell’economia mondializzata. Che genera imponenti migrazioni di popoli ma appare del tutto incapace di controllare in modo umano e civile questo come tanti altri processi sociali dei nostri giorni. Effigie Edizioni, 2008, pagg. 96, € 15,00

In rete di Arturo Di Corinto

In un mondo senza confini Un mondo in veloce trasformazione genera fenomeni di insicurezza diffusa. La globalizzazione dei mercati, la finanziarizzazione dell’economia, l’outsourcing e le speculazioni di borsa producono impoverimento, precarietà economica ed esistenziale, senso d’impotenza. L’inadeguatezza delle politiche di welfare di fronte alla mutazione del lavoro e alla crisi degli Stati Nazione ha scosso dalle fondamenta la fortezza Europa. Così la paura di non poter progettare il futuro dovuta alla precarietà esistenziale si rovescia in paura per il diverso. E la proiezione psicologica e fantasmatica delle paure individuali - di non trovare o mantenere un’occupazione, di non poter avere una casa, di non poter fare la spesa, di non accedere ai diritti d’un tempo - trova nell’altro da sé il capro espiatorio perfetto: il migrante. Di volta in volta presunto responsabile del degrado urbano, dei reati contro il patrimonio, della violenza contro le donne. Anche se le statistiche dicono il contrario. Anche

lettere a un chirurgo confuso scrivi a chirurgo@peacereporter.net Caro Gino, nelle pagine dei giornali abbiamo letto degli orrori della clinica Santa Rita di Milano. Ma io credo che quella della attenzione al denaro, al business, più che alla salute dei pazienti, sia una tendenza. Tu, cosa ne pensi? Grazie e un saluto Luca - Massa

È stata chiamata “la clinica dell’orrore”. Un medico – intercettato al telefono – invita a “fare i conti” nel decidere la terapia. Un polmone operato rende più di una mammella, e un intervento chirurgico in più, anche se non necessario, è sempre un guadagno... A metà tra scienza e arte, la medicina è nata e si è sviluppata per curare gli ammalati, o i feriti. Per salvare vite umane, o alleviarne le sofferenze. È stata questo, per molti secoli, in tutte le culture. Poi, qualche decennio fa, la medicina ha iniziato a cambiare, allora è stato partorito l’orrore. Forse tutto è iniziato da una semplice constatazione: che tutti noi, prima o poi nel corso della vita, avremo bisogno di medicina. Sarebbe stato naturale e sensato trarne la conseguenza che le cure mediche, proprio perchè rispondenti a un bisogno comune, dovessero essere di alta qualità, pubbliche, cioè di tutti, e per questo gratuite per tutti. Invece c’è chi ha visto il problema in termini diversi: gli esseri umani - che di volta in volta si ammalano - sono sicuri clienti di un mercato, quello della salute appunto, potenzialmente illimitato. Anche perchè l’essere curati non è un lusso al quale potremmo rinunciare, ma piuttosto una necessità, spesso urgente. Tutti gli esseri umani – o almeno tutti quelli che possono pagare - saranno clienti garantiti, c’è da guadagnare tantissimo danaro: così gli “investitori del settore” si sono fatti avanti, coltivando amicizie con politici e amministratori, oltreché all’interno della ‘classe medica’, per trasformare il gesto di cura da diritto umano fondamentale in “fornitura di servizio”. Nello stipendio dei medici sono state introdotte le “compartecipazioni”: più prestazioni fai, più guadagni. Poi è arrivata la “attività privata” nelle strutture pubbliche: pezzetti di ospedali pubblici in concessione per visite private, dietro pagamento di una percentuale. Allo stesso modo lo Stato o le Regioni si sono

“convenzionati” con cliniche, ospedali, laboratori privati (chi esalta sempre “il privato” poi succhia regolarmente i soldi dal pubblico), consentendo a pochi di guadagnare sulle malattie dei cittadini. Un orrore. Nel corso degli anni, la “logica del privato” è penetrata a fondo nelle strutture sanitarie pubbliche. I primari ospedalieri fanno corsi da manager, ci sono le pubblicità di “medicinali” nelle corsie, i direttori sanitari sono imprenditori... Gli ospedali sono diventati “Aziende Ospedaliere”, i cui reparti devono effettuare comunque “tanti interventi” se vogliono i rimborsi previsti dalle tabelle. Bisogna “essere in attivo”, bisogna “produrre”, bisogna “fare profitto”.... Ma che senso ha tutto questo, se si sta parlando di un malato che soffre, forse uno dei nostri genitori o dei nostri figli? Ancora orrore. Resto convinto che non ci debba essere alcuno spazio per il profitto nell’esercizio della pratica medica. Non mi piace l’idea che il mio stipendio sia proporzionale al “numero di prestazioni effettuate”, non mi piace l’idea di guadagnare di più perchè gli esseri umani che mi stanno intorno soffrono di più, e hanno più bisogno di cure. In modo bipartisan, la casta politica – sempre tanto sensibile ai voleri delle multinazionali e delle corporazioni quanto questa sensibilità è redditizia - sta progressivamente trasformando la pratica di curare nell’industria della salute. Con la pesante complicità dei medici, sia chiaro, che in molti casi speculano e guadagnano cifre esorbitanti (preferibilmente “in nero”). Quello che è successo alla clinica Santa Rita di Milano resta un orrore, un crimine. Ma non può stupire. E soprattutto a stupirsi non possono essere i mandanti del crimine, coloro che hanno contribuito all’industria della salute spalancando le porte al profitto sulle sofferenze di tutti. Gino Strada

se sappiamo che “il mostro” è dentro casa, nelle famiglie, nei governi e nei consigli d’amministrazione, nei comuni omertosi governati dalla camorra, è più “semplice” avere paura dei migranti. E la paura per i migranti diventa razzismo. Culturale, prima che biologico. Ma non tutti si rassegnano alle semplificazioni ingigantite dai media di un fenomeno antico come l’uomo. Da molti anni agisce in Europa una rete di attivisti contro il razzismo dal nome significativo, “No Border Network”.

Fino all’ottobre 2008 questa rete europea sarà impegnata in una serie di eventi, proteste e azioni in tutto il continente: contro le detenzioni e le deportazioni, contro lo sfruttamento del lavoro migrante e per la legalizzazione di tutti gli immigrati. Per il diritto alla mobilità e alla permanenza di ogni uomo. Contro la logica dei confini. Nessuno è illegale in un pianeta senza confini. http://www.noborder.org 41


Per saperne di più La nazione nomade (a cura di Sergio Bontempelli)

FILM GATLIF TONY, Lo straniero pazzo, Francia; 1997 Stéphane è un giovane parigino che intraprende un viaggio di ricerca in Romania: vuole trovare Nora Luca, una cantante zingara le cui canzoni hanno accompagnato la morte del padre. Stéphane non la conosce, ma porta con sé la sua voce incisa su un nastro magnetico. Durante il viaggio il giovane incontra Izidor, un anziano rom che gli offre ospitalità in un villaggio rom vicino a Bucarest. Immerso in un luogo completamente nuovo, in mezzo a gente di cui non capisce la lingua, Stéphane impara gradualmente ad adattarsi, e inizia a registrare i canti popolari zingari. In questo contesto conosce la giovane Sabina, l’unica persona che capisce e parla un po’ di francese. I due si innamorano e Stéphane, che decide di trattenersi nel villaggio, sarà testimone di un drammatico caso di violenza contro i rom. Presentato nel 1997 al Festival di Locarno, il film ha ricevuto numerosi premi. KUSTURICA EMIR, Il tempo dei gitani, Jugoslavia 1989 Perhan e Daza, due ragazzini slavi, sono sballotati tra la Jugoslavia e l'Italia, nelle mani di un branco di malviventi che trafficano con gli esseri umani. Prima della dissoluzione della repubblica titoista. Kusturica al suo terzo film cambia sceneggiatore e si vede. Non c'è più Abdullah Sidran e così ci perdiamo gran parte dell'atmosfera e del divertimento. Ottime le musiche di Goran Brgovic, e alcuni momenti sono trascinanti, anche se il film ha momenti di stanca. LOTJANU EMIL, I lautari. URSS 1972 Quando in Russia regnavano gli zar, la Moldavia si chiamava ancora Bessarabia: è tra quelle lande che Toma Alistar, violinista nomade, spende la vita cercando disperatamente l'adorata Ljanka, destinata dalla famiglia a un matrimonio di interesse. Magico film di giullari e santi, lupi e zingari, cantastorie e proverbi, neve e passione. Un maestoso, struggente ritratto fiabesco-musicale (solo leggermente appesantito da qualche passaggio eccessivamente barocco) che racconta l'amore e la vita con una potenza espressiva, visiva e poetica straordinarie. Quasi una ballata, narrata da Lotjanu coi toni atemporali della favola.

LIBRI PETRUZZELLI PINO, «Non chiamarmi zingaro», Chiarelettere, 2008 Leggere queste storie di rom e di sinti fa uno strano effetto. La zingara medico che sorveglia sulla nostra salute, lo zingaro responsabile degli antifurti di una banca, l'insegnante, i bambini che vanno a scuola, il prete: realtà che sembrano straordinarie ma che appartengono alla vita quotidiana. E che Petruzzelli riporta dando la parola ai protagonisti andandoli a trovare nelle periferie delle nostre città ma anche in Romania, Bulgaria, in Francia. Racconti di vita dura e sofferta, di 42

miseria e di intolleranza, di forti tradizioni. L'autore ricorda anche le persecuzioni e le torture che gli zingari hanno subìto in Germania e in Svizzera: storie scomode, che nessuno vuole riconoscere, per evitare possibili risarcimenti.

OsservAzione.

MONASTA LORENZO, «I pregiudizi contro gli zingari spiegati al mio cane», BFS editore, Pisa 2008. Un libro, spiega l’autore nell’introduzione, «destinato non ai cani ma ai loro padroni». Nato pensando al fatto che alcune cose, alcuni concetti, siano molto semplici: e che in realtà non c’è nulla di complicato nella questione «zingara», se non le barriere mentali che noi stessi costruiamo. Informazioni storiche e decostruzioni dei principali pregiudizi, in un linguaggio semplice e accessibile. PIASERE LEONARDO, «I Rom d’Europa. Una storia moderna», Laterza, Bari-Roma 2004. Docente di antropologia culturale, Piasere è uno dei massimi esperti italiani delle problematiche rom. Il libro riassume gli esiti del pluridecennale lavoro di ricerca svolto dall’autore, spiegando in modo semplice e scientificamente rigoroso l’evoluzione storica del popolo rom, le caratteristiche della lingua e della cultura rom, le politiche nazionali dei diversi paesi d’Europa e l’antiziganismo. SIGONA NANDO, «Figli del ghetto. Gli italiani, i campi nomadi e l’invenzione degli zingari», Nonluoghi-Libere edizioni, Napoli 2002 La coltre di pregiudizi che avvolge i rom trova la sua espressione architettonica e urbanistica nei campi nomadi: vere e proprie favelas italiane, i «campi» non hanno nulla a che fare con la «cultura» o la «diversità etnica» dei rom. Si tratta, piuttosto, di nuovi ghetti in cui la politica italiana ha confinato e marginalizzato queste popolazioni. Nando Sigona ricostruisce, in questo libro, la storia dei campi nomadi, dell’esclusione dei rom e dell’invenzione del «nomadismo». REVELLI MARCO, «Fuori Luogo. Cronaca da un campo rom», Bollati Boringhieri, Torino 1999 La coltre di pregiudizi che avvolge i rom trova la sua espressione architettonica e urbanistica nei campi nomadi: vere e proprie favelas italiane, i «campi» non hanno nulla a che fare con la «cultura» o la «diversità etnica» dei rom. Si tratta, piuttosto, di nuovi ghetti in cui la politica italiana ha confinato e marginalizzato queste popolazioni. Nando Sigona ricostruisce, in questo libro, la storia dei campi nomadi, dell’esclusione dei rom e dell’invenzione del «nomadismo». AA.VV. «Il caso zingari», a cura di Marco Impagliazzo, Leonardo International, Milano, 2008 «Questo libro», spiega Andrea Riccardi nell’introduzione, «vuole essere un contributo a una cultura politica non appiattita sull’emozione del momento o sugli archetipi del nemico, nomade e straniero». A partire dallo sterminio ad opera dei nazisti, e dalle secolari persecuzioni contro gli «zingari», i diversi contributi in cui si articola il volumetto – scritto su iniziativa della Comunità di S. Egidio - riflettono sui rom, ma anche sulle «nostre» paure, sui nostri stereotipi e sulle nuove forme di razzismo.

http://www.osservazione.org/ OsservAzione è un centro di ricerca e azione contro le discriminazioni di rom e sinti, che opera in Italia in collegamento con alcune importanti ONG europee. Il sito si propone come strumento di ricerca e di approfondimento, e pubblica studi, inchieste, report di organismi internazionali per i diritti umani, articoli di taglio giuridico, sociologico e storico. Federazione “Rom e Sinti Insieme”. http://comitatoromsinti.blogspot.com/ La «Federazione Rom e Sinti Insieme» raccoglie e coordina tutte le organizzazioni di rom e sinti presenti in Italia, e attive sia su scala locale che nazionale. Lo spazio web pubblica comunicati, informazioni e notizie della Federazione: si tratta di uno strumento prezioso per capire come si muovono e cosa fanno le organizzazioni promosse autonomamente dai rom. Consiglio d’Europa, spazio web sui rom (in inglese). http://www.coe.int/t/dg3/romatravellers/Default _en.asp Il Consiglio d’Europa (COE) è una organizzazione intergovernativa, con sede a Strasburgo, che riunisce 47 Stati: non ha nulla a che vedere con l’Unione Europea, e non va confuso con il Consiglio Europeo che è, appunto, un’organismo UE. Il COE si occupa di diritti umani e di protezione delle minoranze: lo spazio web sui rom pubblica ricerche e studi sulla discriminazione e sulla condizione di questi gruppi nei diversi paesi dell’Europa. ERRC, European Roma Rights Center (in inglese). http://www.errc.org/ L’European Roma Rights Centre (Centro Europeo per I Diritti dei rom) è una organizzazione non governativa attiva in Europa per i diritti dei rom, contro il razzismo e le discriminazioni. Il sito pubblica informazioni, notizie, inchieste sulla violazione dei diritti umani nei vari paesi europei.

SITI INTERNET

Piemonte Immigrazione: Rom e Sinti. http://www.piemonteimmigrazione.it/romesinti.ht m Un catalogo, continuamente aggiornato, di fonti normative, leggi, circolari e delibere riguardanti rom, sinti, politiche contro la discriminazione, politiche abitative, tutela delle minoranze etniche. A cura dell’Osservatorio sull’Immigrazione in Piemonte.

Sucar Drom. http://sucardrom. blogspot.com/ Prodotto dall’Istituto di Cultura Sinta di Mantova, il sito «Sucar Drom» è un’agenzia quotidiana di comunicazione e informazione sulle problematiche dei rom e dei sinti: ogni giorno vengono proposte notizie, reportage dalle città, informazioni sulle vicende che riguardano i rom, articoli di dibattito politico e culturale, approfondimenti e rassegna stampa.

Fondazione Michelucci, ricerche e progetti negli spazi del sociale. http://www.michelucci.it/ La Fondazione dedicata al grande architetto Giovanni Michelucci si propone di contribuire agli studi nel campo dell’urbanistica e dell’architettura moderna e contemporanea, con particolare riferimento ai problemi delle strutture sociali, ospedali, carceri e scuole. Nell’ambito delle ricerche sui temi dell’habitat sociale e del rapporto fra spazio e


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