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mensile - anno 4 numero 7-8 - luglio - agosto 2010

3 euro

Diritti al suolo

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n째46) art. 1, comma 1, dcb milano

I diritti della Dichiarazione delle Nazioni unite del 1948 sono calpestati o vittime della retorica istituzionale. Sono diritti da esigere. Diritti di tutti.

Numero monografico. Storie, interivste e testimonianze da quattordici paesi del mondo


I tuoi diritti: rispettali e pretendi siano rispettati

Diritto alla Libertà. No a qualsiasi forma di schiavitù o servitù. Diritto al lavoro, a sceglierlo liberamente, ad avere giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro. Diritto a essere protetti contro la disoccupazione. Diritto a fondare sindacati e aderirvi per difendere i propri interessi. Diritto al riposo e allo svago. Diritto a ferie periodiche retribuite. Diritto a un orario di lavoro ragionevole. Diritto ad avere un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della propria famiglia. Diritto alla giusta alimentazione, alla casa, al vestiario, alle cure mediche, ai servizi sociali.

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La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo è costituita da trenta articoli, che sanciscono diritti individuali e comunitari, libertà costituzionali, diritti economici, sindacali e culturali. Oltre agli ambiti in cui tali diritti devono essere osservati ed esercitati. Per la costruzione di questo numero monografico abbiamo organizzato diversi punti della dichiarazione in gruppi omogenei, formando sette categorie.

Diritto all'Eguaglianza. No a qualsiasi tipo di discriminazione, di razza, colore, sesso, lingua, religione, opinione politica. Diritto all'istruzione, che deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. Diritto alla sicurezza sociale e alla realizzazione dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili al libero sviluppo della personalità. Diritto a sposarsi e fondare una famiglia, solo dietro il libero e pieno consenso dei futuri coniugi.

Diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione. Che include la libertà di cambiare religione o credo e di manifestarlo isolatamente o in comune, sia in pubblico che in privato, nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti. Diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere. Diritto alla libertà di riunione e associazione pacifica.

Diritto alla vita. Diritto a cure e assistenza speciali per le donne incinte e per i bambini che, tutti senza distinzione, devono godere della medesima protezione sociale.

Diritto alla sicurezza. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato. Diritto di ricevere da parte della legge uguale tutela contro ogni discriminazione e diritto di poter ricorrere a competenti tribunali nazionali. Diritto alla presunzione di innocenza e a un'equa e pubblica udienza. Diritto alla dignità. No a trattamenti o punizioni crudeli, inumani, degradanti. Diritto alla privacy.

Diritto alla libertà di movimento e di lasciare e rientrare in qualsiasi Paese. Diritto alla cittadinanza e diritto a mutarla. Diritto all'asilo dalle persecuzioni.

Diritto alla proprietà privata. Nessuno può esserne arbitrariamente privato.

«Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza».

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Nessuno vi può dare la libertà. Nessuno vi può dare l'uguaglianza o la giustizia. Se siete uomini, prendetevela! Malcom X

luglio - agosto 2010 mensile - anno 4, numero 7-8

L’editoriale di Maso Notarianni Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Christian Elia Luca Galassi Alessandro Grandi Benedetta Guerriero Enrico Piovesana Nicola Sessa Stella Spinelli

Hanno collaborato per i testi Blue & Joy Gabriele Del Grande Arturo Di Corinto Paolo Lezziero Karim Metref Valentina Ravizza Raffaella Ruffo Alberto Tundo

Progetto grafico Guido Scarabottolo Oliviero Fiori

Hanno collaborato per le foto Stefano Barazzetta Cristiano Bendinelli Alfredo Bini/ Witness Journal Ugo Borga Thomas Grabka Diambra Mariani/ Witness Journal Valentina Merzi/ Witness Journal Paolo Patruno/Witness Journal Ilenia Piccione/Witness Journal Flippo Podestà/Witness Journal Marcello Russo/Witness Journal Franca Schininà /Witness Journal Federico Tovoli/Witness Journal Michele Vittori/Witness Journal

Segreteria di redazione Silvina Grippaldi

Amministrazione Annalisa Braga

Redazione e amministrazione Via Bagutta 12 20121 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net Hanno collaborato per le illustrazioni Stampa Graphicscalve Gloria Bardi/Ed. Becco Giallo Loc. Ponte Formello - 24020 Gabriele Gamberini/Ed. Becco Vilminore di Scalve (Bg) Giallo Finito di stampare 12 luglio 2010 Paolo Parisi/Ed. Becco Giallo Pubblicità e arretrati Via Bagutta 12 20121 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net

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Esigere, pretendere i propri diritti utti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.» Difficile scrivere cose non banali o non retoriche pensando alla Dichiarazione universale dei diritti umani. Vale la pena ricordare la sua data di nascita: 10 dicembre 1948. Non perché sia importante il giorno in cui l'Assemblea generale delle Nazioni unite ebbe a proclamarla. Ma perché questa carta nacque dopo. Il 1948, infatti, viene dopo il 1945. Dopo una guerra mondiale devastante, che causò decine di milioni di morti. Dopo la Shoà, lo sterminio di massa pianificato contro un popolo, quello ebraico. Dopo lo sterminio altrettanto pianificato di comunisti, socialisti, omosessuali, zingari, rom, sinti. Dopo l'agghiacciante e delinquenziale scelta statunitense di sganciare due bombe atomiche su città giapponesi. Dopo che Dresda, città tedesca scelta come rifugio per profughi, feriti e sfollati, venne rasa al suolo da bombe inglesi. Dopo il peggior capitolo della storia dell'umanità. Capitolo cui tutti i protagonisti della seconda guerra mondiale contribuirono a scrivere. Dopo, le Nazioni riunite nella Assemblea Generale, decisero di dire "mai più" a tutto questo. E per farlo decisero che solo attraverso il riconoscimento di alcuni elementari, basilari diritti universali (cioè di tutti) si sarebbe potuto evitare il ripetersi di un simile disastro. "L'Assemblea Generale proclama la presente Dichiarazione universale dei diritti dell'Uomo come ideale da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo e ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l'insegnamento e l'educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l'universale ed effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione".

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In questa frase, preambolo della Dichiarazione universale, sta forse l'errore. Un errore che ha ingenerato - appunto - tutta la retorica che sulla Carta Universale è stata versata a fiumi da Governi che ne parlavano ma non l'applicavano (e non la applicano, vale per il nostro come per quelli di tante "democrazie" occidentali a partire dalla più potente), da politici che si riempivano la bocca di citazioni buone solo per le serate nei salotti, nei ricevimenti delle ambasciate e nelle aule parlamentari rese inutili da scelte fatte altrove. Ma in questa frase (ogni individuo e ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l'insegnamento e l'educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà) sta anche l'atteggiamento retorico di chi aveva invece il compito e il dovere di chiedere con forza che questi diritti fossero rispettati. E invece sulla Dichiarazione universale si sono fatti appelli, prediche, implorazioni. Quelli che vedete scritti - riassunti - qui di fianco sono i vostri diritti. Non vanno chiesti, vanno pretesi. Non ci si deve appellare alla Dichiarazione perché altri la facciano rispettare. È compito di ciascuno di noi rispettarne il contenuto e pretendere che sia rispettato. I diritti, o sono di tutti, o sono privilegi. Il nostro compito, quello di ciascuno di noi, è quello di esigere che questi diritti universali non solo siano riconosciuti, ma che siano praticati. Esigere, pretendere; come ha detto Malcom X: Nessuno vi può dare la libertà. Nessuno vi può dare l'uguaglianza o la giustizia. Se siete uomini, prendetevela! 3


1 Italia

Scusaci, Eleanor di Nicola Sessa

Eleanor Roosevelt, siamo sicuri, avrebbe molto da ridire oggi nel constatare quanto la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani sia stata maltrattata, ignorata, calpestata. La commissione che Eleanor presiedeva concepì tutti i valori più elevati e i sentimenti più nobili per evitare che si ripetessero gli orrori e l’oscurantismo politico e militare generati dalla Seconda Guerra Mondiale. ignità della famiglia umana, inalienabilità e uguaglianza dei diritti a fondamento di libertà, giustizia e pace nel mondo rimangono un’illuminata considerazione del preambolo della Dichiarazione. Sogni e aspirazioni immateriali per chi ci crede; obiettivi sotterrati da interessi e guadagni immorali per chi fa riferimento a essa in maniera obliqua. Non è necessario volgere lo sguardo troppo in là per scorgere le continue violazioni e la perseveranza con cui noi tutti ci siamo impegnati, raggiungendo notevoli risultati, a mortificare l’importanza e la solennità della Dichiarazione già erede perfezionata di un’altra Carta, quella francese de l’Homme e du Citoyen del 1789. Questa è la storia di un fallimento, il fallimento dello Stato Italiano dimostratosi incapace - nel cuore di Roma - di conferire “in spirito di fratellanza” a centinaia di profughi afgani quella dignità che è il principio base su cui si fondano il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza.

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Quanto è credibile lo Stato Italiano? In quasi nove anni di guerra in Afghanistan abbiamo speso due miliardi settecentocinque milioni di euro in finanziamenti; inviato nei diversi avvicendamenti dei contingenti almeno 10 mila soldati, con una presenza fissa adesso di tremila (che va verso i quattromila) e ventiquattro di loro sono rientrati in Italia solo in bare di legno avvolte nel Tricolore. Tutto questo perché, tra i principali obiettivi della missione c’è quello di garantire la sicurezza, una vita quotidiana tranquilla a milioni di afgani. Se questo era il postulato, allora abbiamo un problema nello sviluppo del teorema: ma saremo realmente in grado di mettere in salvo venticinque milioni di afgani dalla ferocia dei talebani, dai proiettili degli Ak-47, dagli Ied se nel cuore di Roma, alle spalle della stazione Ostiense, non siamo in grado di proteggere 150 profughi afgani da pioggia, pulci, topi e soprattutto a preservarne la dignità? Gli afgani arrivano a Roma a ondate: sono per lo più giovani, appena usciti dall’età dell’adolescenza. Sono di etnia pashtun, hazara, tagika. Affrontano un lungo viaggio per sfuggire alla violenza e alla guerra. Quasi tutti arrivano attraverso la Grecia. Quasi tutti lasciano le impronte digitali alla polizia greca. Su molti di loro, spesso, la polizia greca lascia segni di percosse, timbri di infamia. Sono richiedenti asilo o titolari di permessi di soggiorno per motivi umanitari e come tali hanno, avrebbero, diritto a un’assistenza sociale e sanitaria parificata a quella dei cittadini italiani. Vogliono inserirsi, vogliono lavorare. Vogliono che gli italiani vadano a consumare un tè con loro. L’odissea degli afgani non ha fine nella Città Eterna, si spostano da un 4

punto all’altro: dal sottostrada davanti alla stazione Ostiense alla “Buca” di via Capitan Bavastro; dal Centro accoglienza richiedenti asilo (Cara) di Castelnuovo di Porto all’ex ospedale Forlanini sulla Portuense e poi ancora all’ex Terminal Ostiense. Si aggirano in cerchio, roteano come anime in un girone infernale. Senza una soluzione. Chi ha la forza, continua il viaggio della speranza verso Francia, Germania e Scandinavia; gli altri provano a resistere: imparano l’italiano, cercano un lavoro, il crocevia fondamentale per riconquistare la dignità umana. L’articolo 14 della Dichiarazione Universale rimane lettera morta. Ascoltando le storie di questi coraggiosi, di questi sognatori che speravano in un mondo nuovo lontano dalla guerra e dalle violenze che hanno avvelenato la terra afghana, si arriva a una sola conclusione: non è vero che “Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni”. E non è vero quanto sancisce l’articolo 5 che “Nessun individuo potrà essere sottoposto […] a trattamento […] crudele, inumano o degradante”. Ché c’è forse qualcosa di decoroso nel dormire in mezzo al fango d’inverno in compagnia di topi? C’è forse qualcosa di umano nel doversi difendere dall’attacco dei parassiti nella torrida estate romana? È un atto amorevole se, nel corso di “un’operazione di bonifica ambientale”, le ruspe ti portano via anche quei quattro stracci e un tetto di cartone che sei riuscito a rimediare? are che il carattere sopranazionale della Dichiarazione Universale custodita nel forziere del Palazzo di Vetro di New York non sia così marcato. Almeno non quanto i vincoli posti dalla Nato: quelli sì, sono gli impegni da rispettare, i doveri da assolvere. Se gli alleati del Patto Atlantico ci chiamano in “Missione di Pace” (leggasi: “in guerra”), allora non possiamo tirarci indietro. Se si tratta di agire secondo le norme del documento fondamentale delle Nazioni Unite che ha sancito la ri-creazione di un mondo che doveva essere migliore, allora ci si può cimentare in elucubrazioni, fantasticherie, interpretazioni o semplicemente passarci su, facendo carta straccia anche dell’ultimo articolo della Dichiarazione, l’articolo 30: “Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di un qualsiasi Stato, gruppo o persona di esercitare un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione di alcuno dei diritti e delle libertà in essi enunciati”. Così si completa l’opera. La Dichiarazione forgiata da Eleanor Roosevelt, la First Lady of the World, rimane un meraviglioso scritto inapplicato dal suo Preambolo fino all’ultimo degli articoli.

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Afgani all’ex Terminal Ostiense. Roma, Italia 2009. Foto di Nicola Sessa.


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Uzbekistan

I piccoli schiavi dell’oro bianco di Enrico Piovesana Due importanti associazioni britanniche per i diritti umani, Anti-Slavery International ed Environmental Justice Foundation, hanno rivolto un appello alle note aziende di abbigliamento H&M e Zara affinché smettano di usare per i loro prodotti il cotone proveniente dall’Uzbekistan, frutto del lavoro forzato minorile. l fornitore di entrambe queste multinazionali è infatti la Beximco Textiles (Bextex), compagnia bengalese che importa cotone grezzo uzbeco per poi rivenderlo all’estero. Il Bangladesh è il principale canale di commercializzazione dell’oro bianco prodotto da questa ex repubblica sovietica, che ancora oggi basa tutta la sua economia sul cotone (di cui è il quinto esportatore mondiale, con una produzione annua di oltre un milione di tonnellate). Raccolta e commercializzazione sono monopolio di Stato: tutto è gestito dall’autoritario regime di Islam Karimov, che fissa quote di produzione obbligatorie e non va per il sottile nel farle rispettare. Ogni anno, durante i tre mesi del raccolto, tra ottobre e dicembre, le scuole pubbliche vengono chiuse e 200mila bambini vengono forzatamente impiegati nei campi a staccare fiocchi di cotone con le loro piccole mani. La paga è di pochi centesimi di euro al chilo, ma spesso è molto inferiore.

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‘‘Ci troviamo davanti alla nostra scuola alle 8 del mattino - spiega all’Insititute for War and Peace reporting Rukiya Mamajanova, undici anni - e poi andiamo nei campi a raccogliere cotone fino alle 3 del pomeriggio. Così portiamo a casa un po’ di cibo, quello che compriamo con le nostre paghe: io in due mesi di lavoro ho guadagnato 200 som (15 centesimi di euro)’’. I bambini che si rifiutano di lavorare vengono espulsi da scuola, vedendosi così negato il loro diritto allo studio: l’esenzione dal lavoro è concessa solo ai pochi figli delle famiglie benestanti che possono permettersi di pagare 120mila som per un certificato medico falso. I piccoli schiavi che non raggiungono la quota di raccolto fissata vengono puniti, spesso picchiati. Muazzam Israilova, otto anni, torna a scuola con il raccolto della giornata: un chilo di cotone. ‘‘Veramente questo non l’ho raccolto io - confessa a bassa voce - me lo ha dato mio fratello di dodici anni’’. ‘‘Se torniamo senza il cotone - interviene Dilshoda Valijnova, di un anno più grande - la maestra si mette a urlare, ci picchia e ci punisce facendoci lavare i pavimenti o dandoci brutti voti o addirittura cacciandoci da scuola’’. Stessa sorte, niente paga e punizioni anche fisiche, tocca ai piccoli schiavi che tornano dai campi con un raccolto considerato di scarsa qualità: spesso, infatti, per non pungersi con i bozzoli del cotone, i bambini raccolgono soprattutto il cotone caduto, mischiato a terra e foglie. Le condizioni di lavoro sono durissime. I bambini spesso si ammalano per il freddo, per la fatica e per l’assenza d’igiene, ma le autorità non li mandano all’ospedale per non perdere forza lavoro. Così, capita che alcuni bimbi, dopo la stagione del raccolto, 6

non tornino più a scuola perché sono morti di polmonite o per infezioni intestinali causate dall’acqua sporca che viene data loro da bere. ‘‘Da quando è iniziato il raccolto, tre mesi fa - racconta Khafiza Kudratova, dieci anni - non mi sono mai potuta lavare. E anche il cibo non è un granché: pane e tè per colazione e zuppa per pranzo. Mai carne. Spesso c’è della pasta, ma quella dobbiamo pagarla con i nostri soldi’’. Il ricorso al lavoro minorile per la raccolta del cotone è una tradizione che risale all’epoca sovietica. La legge uzbeca vieta il lavoro ai minori di quindici anni, ma in realtà lo Stato impone il lavoro nei campi ai bambini perché senza il ricorso alla loro manodopera gratuita o a basso costo il raccolto non sarebbe economicamente possibile. In questi ultimi anni, per giunta, l’età dei bambini reclutati si è notevolmente abbassata. In epoca passata venivano mandati nei campi bambini dai dodici anni in su, mentre oggi vengono sfruttati anche bambini e bambine di sette anni. Le autorità uzbeche negano categoricamente il ricorso al lavoro minorile, dicendo che si tratta di lavoro puramente volontario animato da spirito patriottico. Falsità, secondo Juliette Williams, responsabile della Environmental Justice Foundation: ‘‘Nonostante l’Uzbekistan abbia firmato l’anno scorso le convenzioni internazionali contro il lavoro minorile, è evidente che i bambini di quel Paese sono ancora forzati a raccogliere cotone che poi finisce nei nostri abiti’’. iverse multinazionali occidentali, come Nike, Gap e Walmart, hanno già scelto di non rifornirsi più di cotone uzbeco. H&M e Zara, invece, continuano a fare orecchie da mercante, affermando che le loro politiche aziendali non prevedono di chiedere ai loro fornitori di tenerli informati sulla provenienza delle materie prima. Anti-Slavery International chiede che l’Unione europea imponga il bando all’importazione e all’utilizzo del cotone uzbeco e obblighi le aziende tessili europee ad adottare un sistema di tracciabilità della provenienza originaria delle materie prime di cui fanno uso. ‘‘Io mi perdo spesso nel campo perché queste piante sono molto più alte di me e così non vedo dove sono gli altri. Infatti è un buon posto per giocare a nascondino, senza farsi vedere dai guardiani’’ dice sorridendo con aria birbante Azamat Buronov, otto anni, prima di riprendere il suo lavoro tra i batuffoli di cotone. Per i bambini tutto diventa un gioco: anche la schiavitù.

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Scolari uzbechi costretti a raccogliere cotone. Uzbekistan 2008. Foto di Thomas Grabka


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Repubblica Ceca

Segregazione Rom di Alberto Tundo Robika ha diciannove anni, un figlio e poche possibilità di trovare un lavoro che gli consenta di uscire dal ghetto in cui è nato e cresciuto. Robika è un ungherese di etnia rom, ha frequentato una scuola per ragazzi con ritardi mentali, pur non avendone, e questo marchio se lo porterà dietro per sempre. i chiama segregazione scolastica, ed è una delle realtà più tristi e meno conosciute del nostro Continente, soprattutto del suo versante orientale: dalla Bulgaria alla Repubblica Ceca, dalla Croazia all’Ucraina, una percentuale preoccupante di bambini rom segue percorsi scolastici differenziati, su binari morti che non portano da nessuna parte, tantomeno fuori dal loro ghetto. Pur essendo cittadini a pieno titolo e con una consistente minoranza in tutti i Paesi dell’Europa orientale (la popolazione rom ha superato gli undici milioni), vivono da segregati nei loro insediamenti.

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La segregazione continua anche a scuola, con i bambini rom che spesso vengono ammessi in classi “speciali” (per bimbi con difficoltà di apprendimento) nelle scuole regolari o addirittura confinati in quelle per ragazzi con ritardi mentali. Percorsi in cui il criterio guida dovrebbe essere il quoziente intellettivo e non l’etnia, ma così non è. I numeri svelano l’arbitrio. È famoso, a esempio, il caso del distretto ceco di Ostrava, dove, nell’anno 20012002, la popolazione studentesca rom non superava il cinque percento del totale ma costituiva oltre il cinquanta percento di quella delle scuole “speciali”. Cifre molto simili compaiono in uno dei lavori più esaustivi in materia, pubblicato da European Roma Rights Center nel 2004 e intitolato Stigmata: Segregated Schooling of Roma in Central and Eastern Europe. Rapporto datato, si potrebbe obiettare. Peccato che studi di recente pubblicazione confermino le dimensioni del fenomeno. Basta leggere il rapporto curato dal Roma Education Fund, eloquentemente intitolato School as Ghetto: Systemic Overrepresentation of Roma in Special Education in Slovakia (settembre 2009), secondo il quale è di etnia rom oltre il cinquantanove percento degli alunni delle scuole primarie speciali e addirittura oltre l’ottantacinque percento nelle classi riservate a studenti con problemi cognitivi nelle scuole primarie normali. Numeri che riflettono le diverse modalità d’ingresso in questi corsi differenziati che finiscono con il diventare botole da cui, una volta caduti, non si esce e la macchia sul curriculum è indelebile. Per questo per i bambini “normali” si aprono prima due o tre paracadute, esami e controesami per verificare che ci siano reali difficoltà di apprendimento. Nel caso dei rom, invece, basta la segnalazione di un insegnante, una difficoltà caratteriale, un problema a parlare una lingua diversa dal proprio dialetto. Rob Kuchen, direttore dello European Roma Rights Center, organizzazione che nella difesa dei rom ha segnato alcuni punti fondamentali (fu l’Errc a individuare e denunciare l’anomalia del distretto di Ostrava), non potrebbe 8

essere più chiaro: “Non c’è nessuna evidenza empirica che i bambini rom abbiano una maggiore predisposizione ai ritardi mentali mentre l’Errc ha trovato molte prove che i piccoli finiscano in queste scuole per una politica di segregazione. Lo ha riconosciuto anche la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che ci ha dato ragione in due cause (D.H. contro Repubblica Ceca e Orsos contro Croazia, ndr). Kushen è un uomo di esperienza, concreto e pragmatico, poco incline all’esagerazione, ma in questo caso non nasconde la sua preoccupazione. “La segregazione scolastica dei rom non è un fenomeno che riguarda solo l’Europa Orientale”, dice. “Certo qui la situazione è particolarmente preoccupante, soprattutto in quei Paesi come la Slovacchia dove il governo rifiuta di riconoscere l’esistenza di un problema, ma è una realtà anche in Spagna, sulla quale stiamo preparando un dossier, e in Grecia, già sanzionata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Diciamo che nell’Europa Occidentale avviene con metodi più sottili”. Ungheria è uno degli Stati in cui la questione rom è diventata un tema incandescente, cavalcato dalle due formazioni di destra che, insieme, hanno ottenuto il settanta percento dei voti alle ultime elezioni. Qui vive e lavora Viktoria Mohacsi, una rom lovari che di strada ne ha fatta. Ex funzionaria del Ministero dell’Istruzione tra il 2002 e il 2004, poi eurodeputata fino al 2009. È una delle attiviste più impegnate e più influenti in assoluto. A lei si deve la legge, approvata nel 2003, che ha posto un freno alla segregazione scolastica e al trattamento illegale delle disabilità mentali. Con la sua Ong, Chance for Children Foundation, fornisce assistenza legale a questa minoranza. Nel suo ufficio di Kun utca, a Budapest, racconta l’ultima battaglia. “Nel 2005 ho chiesto un riesame di sessantasette bambini rom dichiarati disabili mentali ed è risultato che quarantanove di loro non lo erano affatto. Tra questi, ne ho scelti dodici con q.i. molto alto e ho intentato causa in diverse corti locali per trattamento illegale delle disabilità mentali. Abbiamo vinto in soli due casi, dove però i giudici non hanno sanzionato la discriminazione ma solo il mancato coinvolgimento delle madri nel processo decisionale.” Per gli altri dieci annuncia che farà ricorso alla Corte Europea. Ma anche le due vittorie le lasciano l’amaro in bocca. “I ragazzi hanno ottenuto un milione di fiorini l’uno, come risarcimento, ma sono stati privati per sempre della loro occasione di farcela. Quegli anni persi nelle scuole speciali non glieli ridarà più nessuno.”

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In alto: All'interno del campo di via Barzaghi. In basso: I bambini del campo di Via Triboniano. Milano, Italia 2001. Foto di Filippo Podestà / Witness Journal


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2 Senegal

Banca Talibè di Luca Galassi

Centomila mendicanti bambini battono le strade del Senegal in cerca di elemosina. Sono i talibè (dall’arabo “colui che cerca, che chiede”) i piccoli questuanti che dalla mattina alla sera sollecitano i fedeli musulmani a praticare la zakat, l’elemosina, il terzo pilastro dell’Islam. a sua famiglia sono il marabout, il suo precettore, e decine di altri talibè. La pratica è molto diffusa in Senegal: le famiglie inviano sin dalla tenera età i bambini presso i marabout, gli insegnanti del Corano. A volte un privilegio, a volte una necessità dettata dall’impossibilità di mantenerli, la consegna del proprio figlio ai maestri della daara è un atto che, oltre a farne un buon musulmano e un solerte studente dei precetti coranici, può preludere a un avvenire di grande successo. Ma anche, molto più spesso, a un destino segnato da violenze, umiliazioni, abusi. I marabotu sono infatti autorità religiose centrali nella società senegalese, dotati di grande potere, stimati e riveriti, consultati per ogni necessità dai fedeli. Dalle questioni religiose a quelle finanziarie, a quelle professionali o familiari. Marie Julie Gagnon, giornalista canadese, sintetizza così il primato dei marabout: “In Senegal hanno più autorità dei rappresentanti politici”. Il tessuto sociale delle comunità rurali senegalesi riconosce da secoli l’importanza del loro ruolo: le famiglie più povere mandavano i propri figli a lavorare nei campi del marabout locale in cambio di un’educazione religiosa. Ma in molti ritengono che i precettori abusino del loro ascendente sui piccoli talibè, denunciandoli come gente senza scrupoli, che prospera alle spalle della fatica dei piccoli.

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Questi ultimi hanno dai cinque ai venticinque anni e girano scalzi, poco vestiti, sporchi, con una latta di pomodoro vuota in mano, dentro la quale raccolgono le elemosine che a sera porteranno al loro maestro. Le famiglie non rivedranno i loro piccoli per molto tempo, per anni, forse per tutta la vita. E in alcune scuole coraniche, le daara, i marabout ricevono sovvenzioni dai genitori. Una vera e propria retta, anche se esigua e del tutto insufficiente per il loro mantenimento. Per questo, dopo la preghiera dell’alba, i talibè sono costretti a scendere in strada a elemosinare. Nella tarda mattinata tornano alla daara per studiare. Dopo un’ora sono di nuovo in strada a mendicare il pranzo. Poi preghiera pomeridiana, due ore di studio alla daara e ancora per le strade di Ziguinchor, con l’inseparabile latta di pomodoro, fino al tramonto. Le poche centinaia di franchi che il fedele elargisce al talibè sono un gesto che mette in pace con la coscienza. Ma ha anche un’altra funzione, più profonda. Nel subconscio collettivo senegalese, la realtà è popolata di esseri invisibili: spiriti o demoni, la protezione o il perdono dei quali va invocata con adeguati sacrifici. Le offerte - che siano di denaro, cibo, vestiario o altri oggetti - diventano in questo modo una sorta di ‘sacrificio virtuale’ per suscitare la benevolenza di tali creature soprannaturali, per 10

invocarne la tutela, o per ingraziarsele affinché non nuocciano a noi o ai nostri familiari. Pertanto, se il marabout è l’intermediario con il divino, il talibè è il mezzo attraverso il quale ingraziarsi i favori del marabout, e quindi della divinità. I beni che gli vengono offerti possono essere, oltre al denaro, generi alimentari, come miglio o riso, noci di cola, oppure candele, fogli di carta, vestiti. Anche i sacrifici di animali, come montoni, capre o galline, sono considerati offerte alla divinità. Placano gli spiriti, e consentono di beneficiare del favore di Dio. Serviranno a sfamare i poveri della comunità, e talvolta, molto più di rado, anche i talibè. ppure, nonostante tali pratiche solidali, la vita del talibè è una delle più ingrate e penose. Gli interni della daara sono luoghi sovraffollati e insalubri, dove allignano malattie di ogni tipo, dove i bambini dormono su stuoie di paglia, cartoni, o addirittura per terra. Alcuni giovani sono stati visti in strada con la pelle divorata dalla scabbia o tremanti di febbre. Ma al governo queste condizioni importano poco, perché i bambini sono al centro di un’enorme circolazione di denaro. Prendendo le stime più basse, raccolte dalla ong senegalese Enda qualche anno fa, il totale mensile delle elemosine raggiunge oltre i due miliardi di franchi (tre milioni di euro). Una voce invisibile nell’economia del Senegal, una rendita immane, esente da tasse e da controllo, che passa per le mani di piccoli bambini per finire nelle tasche dei marabout. Ma, per fortuna, spesso l’ingegno e la furbizia dei giovani mendicanti consentono di supplire, con piccoli stratagemmi, alla loro miserabile condizione. Gli operatori di Enda hanno condotto interviste sul campo che hanno rivelato come, al termine della giornata, una certa somma di denaro venga messa da parte. I bambini hanno una piccola ‘cassa’ dove conservare i risparmi. Questa riserva, affidata a una persona di fiducia, spesso un negoziante o una donna del quartiere, è la loro ‘banca personale’. “Tale denaro - scriveva l’organizzazione non governativa nel rapporto ‘Sostegno ai talibé’ del 2006 - serve ai talibè come garanzia per le giornate in cui non arrivano a raccogliere il denaro richiesto dal marabout (evitando così percosse o punizioni), per acquistare cibo per sé o per i propri familiari, per giocare. Oppure per fuggire.

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In alto: Una donna attende con il figlio al consultorio pubblico. Tambakounda, Senegal 2004. In basso: Generazioni di donne davanti alla porta di casa. Guedawaye (periferia di Dakar), Senegal 2004. Foto di Filippo Podestà / Witness Journal


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India

Delitti d’onore di Raffaella Ruffo I brutali delitti d’onore che avvengono nell’India settentrionale guadagnano sempre più spesso le prime pagine dei giornali nazionali. Il più alto tasso di omicidi si registra negli stati dell’Haryana oltre che nell’Uttar Pradesh, Punjab e Rajasthan. Le vittime sono soprattutto donne che osano sfidare la morale pubblica, sposandosi per amore e rifiutando i matrimoni combinati. ell’Haryana la casta dei Jat, i padroni terrieri, vieta il matrimonio tra gli abitanti dello stesso villaggio, tra i membri della medesima sotto-casta gotra e tra chi appartiene a caste diverse. Nel 2007 i corpi senza vita di Manoj e sua moglie Babli, rispettivamente di ventitrè e diciannove anni, sono stati ritrovati in un canale vicino alla cittadina di Karnaka. Avevano infranto la legge dei Jat, sposandosi seppure appartenenti allo stesso gotra. Il regista Ajai Sinha, famoso per alcune popolari serie televisive, è rimasto colpito dalla loro storia e ha prodotto un film intitolato “Khap - Delitti d’onore”. Racconta come una coppia moderna, appartenente allo stesso gotra, si sposa scontrandosi con un tabù antico di oltre 500 anni e pagando questa scelta con la propria vita. Sinha vuole che la società indiana diventi consapevole di questi massacri moderni che si verificano a soli cinquanta chilometri da New Delhi. La pellicola, a suo parere, sarà apprezzata da tutte le caste in maniera trasversale, soprattutto nelle metropoli dove il matrimonio non è sottoposto al rigido codice d’onore tradizionale.

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del partito comunista. La bassa considerazione delle donne si riflette sulla preferenza per i figli maschi. Infatti, a causa dell’elezione del sesso dei feti e dell’uccisione delle bambine, per ogni mille uomini in Haryana si contano settecento donne. A causa della carenza di donne in età da marito, si è diffuso l’uso di “comprare le spose” dagli stati del Bihar e del Rajasthan. In India vi sono altri consigli - i raj panchayat - che sono riconosciuti dal governo e coordinano la distribuzione dei fondi pubblici. Dal 1993, grazie a una modifica costituzionale, un terzo dei seggi è riservato alle donne. Secondo Mira Kamdar, ricercatrice del World Policy Institute: “Sono stati segnalati casi di buona gestione amministrativa da parte delle donne, ma non è chiaro se sono diventate più autonome”. “Le rappresentanti sono soggette a mariti e fratelli e non hanno un vero potere nei panchayat”, questa l’opinione drastica di G. Mallikarjuna, direttore della ong Seruds. “Non hanno autorità perché più di metà sono analfabete oppure sono candidate dai parenti che sono politici di classe alta”, conferma Iyer.

Nell’Haryana, si riportano centinaia di casi simili a quello di Babli e Manoj. Quest’anno, a Balla, Sunita che era incinta di ventidue settimane è stata uccisa a calci da un gruppo di uomini perché aveva sposato un abitante del villaggio. Le spose, solitamente, sono bruciate vive o avvelenate con i pesticidi. Il 31 marzo di quest'anno, però, la corte distrettuale dello Stato ha emesso per la prima volta una condanna alla pena capitale per i cinque familiari di Babli responsabili dell’assassinio. Il verdetto segna una svolta storica, infliggendo un duro colpo all’autorità dei Jat. La casta dei padroni terrieri si riunisce nei khap panchayat, consigli tradizionali non autorizzati dal governo, che hanno un grande ascendente sulla popolazione. Quando emettono il veto su un matrimonio, quasi sempre, i familiari degli sposi eseguono un delitto d’onore. In alternativa, le famiglie sono forzate a pagare multe costose o abbandonare i villaggi, perdendo i propri beni. “La coscienza collettiva è più forte del volere individuale”, spiega Iyer, “e pochi osano ribellarsi. Le donne nell’Haryana sono considerate una proprietà, un elemento d’onore per la famiglia e per questo sono le prime a pagare se violano la tradizione”.

a quando i raj panchayat hanno inaugurato le quote rosa, però, è aumentato il livello d’istruzione femminile nell’Haryana. È nata l’iniziativa di garantire prestiti alle abitanti dei villaggi per avviare piccole attività economiche. Sullo spunto della riforma dei panchayat, a breve, un terzo dei seggi del parlamento indiano potrebbe essere riservato alle donne. Si attende solo l’approvazione del Lokh Sabha (la camera bassa) sul Women reservation bill approvato lo scorso marzo dal Senato. Si aprono, quindi, alcuni spiragli per l’emancipazione femminile. L’India vive a cavallo tra il desiderio di modernizzazione e la tradizione e questo conflitto è quanto mai presente negli stati rurali come l’Haryana. Il film di Sinha dimostra che Bollywood è un elemento di rottura con il passato perché presenta modelli culturali inediti a cui aspirano le nuove generazioni. L’indipendenza delle indiane, secondo la ricercatrice, dipende dal loro inserimento nel mercato del lavoro: “Nelle città, le indiane della classe alta assumono posizioni di potere nelle multinazionali, le donne della media borghesia guadagnano più dei genitori grazie alla possibilità di studiare e l’impiego nel commercio.” “È limitata, invece, l’emancipazione per le caste inferiori a cui appartengono 800 milioni di poveri che guadagnano meno di 1 dollaro al giorno”, spiega Kamdar. Una tendenza da invertire se l’India vuole diventare un attore di primo piano sulla scena globale.

Lo Stato rimane un osservatore muto. Pochi politici indiani condannano pubblicamente la pratica medievale dei delitti d’onore nell’Haryana perché contano sull’appoggio elettorale dei Jat. Si oppone solo la All India Democratic Women’s Association, appartenente al debole ramo locale 12

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Varanasi, India 2009. Foto di Michele Vittori / Witness Journal.


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Colombia

I fantasmi del Caquetá di Stella Spinelli Penella è una manciata di umili case, in ordine sparso ai piedi della più fitta Amazzonia colombiana. Siamo nelle viscere del Caquetà, Stato del profondo sud mangiato da guerriglia e coltivatori di coca. A un’ora di carro, quel che rimane di Remolino del Caguan. Famigerata località figlia del business della polvere bianca, ora è ormai l’ombra di se stessa. toglierle ossigeno e orizzonte, i soldati dell’esercito nazionale, aggrappati a quel relitto come un cane al suo osso. Quello è per loro avamposto fondante in una guerra iniziata cinque decenni fa e che resta lungi dal finire. Essere lì significa aver costretto alla ritirata le Forze armate rivoluzionare della Colombia, ora quatte e accorte nei meandri della selva. E restarci significa la morte del mercato più redditizio della Terra. Delle centinaia di cocaleros dei gloriosi anni Ottanta e Novanta, ne rimangono solo qualche decina, costrette a vivere di stenti. Alternative non ce ne sono in quel del Caguan. Qualcuno ci sta provando con il cacao, ma ha vita dura. Trasportare i semi fino alla capitale, Florencia, è un viaggio di ore, a volte di giorni. Tempo e piena del fiume permettendo. E il tutto raggiunge costi stellari, che rendono l’affare un flop prima ancora di partire. Quindi, per non morire di fame si semina un po’ di quello che passa la terra e, di nascosto, si continua con la fogliolina verde. Con processi chimici fai da te, espletati in laboratori di fortuna, si ottiene un po’ di pasta da smistare grazie a fantasiosi e rischiosi sotterfugi ai soliti noti, sempre più rari ma inestinguibili. Che la instradano, poi, verso i narcos legati ai proficui mercati europei e nordamericani. Ma niente paragonabile a un tempo. Negli anni d’oro, chi aveva la fortuna di lavorare a Remolino, in una sola domenica di mercato racimolava tanti pesos da riempire intere balle da fieno. Per fare l’eccezionale acquisto arrivavano aerei piper da ogni dove. Facevano il pieno di pasta e ripartivano. Le connivenze erano totali: sia da una parte che dall’altra della barricata. E a Remolino era una festa continua. Una ricchezza tanto inebriante quanto effimera, che venne sperperata senza sosta. Mai un investimento. Tutti erano convinti che la bonanza durasse per sempre.

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Di quel tempo che fu non restano che gli scheletri. In tanti sono fuggiti davanti all’esercito. Ora gli abitanti si contano sulle dita di poche mani, e di questi alcuni hanno deciso di spingersi ancora oltre quel maledetto Remolino, per vivere in veredas sparse qua e là dove qualche chilo di coca si continua ancora a fare. Penella è una di queste. Conta quindici famiglie. Nove i bambini. “Le nostre case, i nostri campi, le nostre vite non sono che comparse nel grande gioco della guerra - racconta Rafael, ammasso di ossa dietro folti baffi -. Qui esercito e guerriglia giocano a nascondino. E a farne le spese sono i nostri figli. Poca gente resiste. E per i giovani non c’è futuro. Per lo Stato sono fantasmi, lo siamo tutti in realtà. Ma per i miei piccini io pretendo un’altra vita. Eppure, non hanno nemmeno la maestra. La scuola è questo relitto qua, malandato e deserto. Come sperare che per loro si aprano nuove strade, se non possono nemmeno studiare?”. La prima scuola dotata di insegnante, libri e un programma di studi è a un’ora a cavallo, tre ore a 14

piedi. Sei ore andata e ritorno. Impossibile da raggiungere, dunque. “Il governo non fa che ripetere che l’istruzione è un diritto, che è gratis, che è per tutti, ma mia figlia non ha mai visto un insegnante. Ha otto anni”, racconta con le lacrime agli occhi Angela, faccia segnata da rughe di fatica. “Non ce li mandano qua perché i bambini sono soltanto nove, e il numero minimo è quindici. Ma se riunissimo tutti i piccini delle tante veredas dei dintorni riusciremmo anche a superarlo quel maledetto limite minimo, è che non vogliono spendere i soldi per noi disperati. Per Bogotà non siamo niente”. Eppure ci vorrebbe poco: un istituto con dormitorio annesso, per permettere agli scolari che abitano lontano di poter dormire a scuola, e qualche strada battuta. “Tutto qua. Lo chiediamo da anni, ma restiamo gente senza futuro interviene Rafael - Che alternativa hanno i nostri figli? O si arruolano nell’esercito o entrano nella guerriglia. E dato che qua nessuno vede di buon occhio la manu militari statale, la scelta resta una e obbligata. E ad alimentarla saranno tutta la rabbia e le ingiustizie subite. Noi, dello Stato, vediamo soltanto mimetiche e mitra. E siamo stanchi. Maestri al posto di soldati, questo vogliamo. Dateci un soldato in meno e un professore in più”. aria è tersa. In lontananza l’unica strada beige che taglia in due il verde infinito. Su e giù corrono ragazzoni sudati e pieni di lucenti armi a tracolla. “Vedete? Non ci lasciano mai in pace. Ci controllano. Vivono intorno a noi, trasformandoci in target per la guerriglia, che quando decide di attaccare non guarda in faccia nessuno. E quel loro continuo tentativo di coinvolgerci. Uno schifo. Ci chiedono dove sono le Farc, ci minacciano, ci picchiano. Anche i nostri bambini sono schedati e interrogati ogni volta che ne hanno voglia. Senza rispetto per la loro fragilità. Viviamo in continuo stato di polizia”. Una scuola, un dormitorio, un bravo maestro, qualche banale infrastruttura, un piccolo incentivo per avviare coltivazioni lecite e che diano da campare, qualche sussidio e la guerra, quella che da 50 anni il governo centrale cerca di vincere spendendo ogni anno la metà del Pil finirebbe. Perché come Penella ce ne sono altre migliaia in Colombia. “Basterebbe qualche investimento sociale serio per ridare vita e speranza a questa splendida terra - sussurra Paula, flebile alle spalle di Angela -. A quel punto, e solo così, la guerriglia non avrebbe più ragione di esistere. Questa guerra non la si vince con la forza, ma a suon di diritti. Possibile che a Bogotà facciano tutti finta di non saperlo?”.

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In alto: In una capanna di fortuna dopo l'ennesimo sfollamento forzato attuato dall'esercito. Comunità di pace di San José di Apartadò, Colombia 2008. In basso: Operazioni dell'esercito colombiano. Remolino del Caguán, Colombia 2008. Foto di Cristiano Bendinelli


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3 Algeria

Questione cabila di Karim Metref Il primo giugno scorso, al “Palais des Congrès” di Parigi, il militante storico della causa berbera in Algeria, Ferhat Mehenni, proclamava, in presenza di qualche centinaia di militanti e simpatizzanti del Movimento per l’Autonomia della Cabilia (MAK), la creazione del Governo Provvisorio della Cabilia (GPK).

a Cabilia è una regione del Nord dell’Algeria, a pochi chilometri a est della Capitale Algeri. Con le sue tre province centrali (Tizi Ouzou, Bouira e Bejaia) e parti delle tre province limitrofe (Setif, Bordj Bouareridj e Boumerdes), la zona ospita la popolazione berbera più numerosa di tutto il Nord Africa. Si stima a circa sei-sette milioni il numero di algerini che si identificano come Cabili. Buona parte di essi (almeno quattro milioni) residente in Cabilia, l’altra grossa fetta (tra uno e due milioni) residente nella città di Algeri e i suoi dintorni. Il resto sparso in giro per le varie regioni dell’Algeria. La Cabilia è una terra di montagne, molto bella ma povera in risorse. Da sempre i suoi figli sono stati costretti all’emigrazione in cerca di una vita migliore. Infatti la diaspora Cabila in Europa è molto consistente. Solo intorno alla città di Parigi, si stimano a circa un milione i Cabili di prima e seconda generazione residenti. Le popolazioni berberofone nordafricane, per le loro specificità sociali basate spesso sul comunitarismo e sull’autonomia economica e politica hanno sempre dato filo da torcere agli imperi mediterranei e ai poteri centrali. Quella Cabilia, un po’ per la sua posizione centrale, un po’ per la configurazione geologica del suo territorio, un po’ perché è la più popolata di tutte, è sempre stata una delle più attive. Riuscita a vivere in autonomia per migliaia di anni, l’esercito francese è stato il primo a mettere piede nelle zone più remote delle montagne del Djurdjura e della Soumam. Ultima a cadere, la Cabilia fu anche la prima e la più decisa a sollevarsi contro il colonialismo francese. Ma appena raggiunta l’indipendenza dovette subito vedersela con la mafia dei militari pan-arabisti entrati dalle frontiere alla fine del conflitto per prendere il potere.

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È a questa lotta millenaria per l’autonomia che fa riferimento Ferhat Mehenni nel suo discorso d’insediamento. Nel puro stile dei movimenti nazionalisti di tutto il pianeta, ha fatto un riassunto della lunga storia e dell’eterna lotta del popolo per la libertà. Autoproclamando poi il suo movimento e la sua persona come la risultante naturale e logica di tale percorso storico. Non mancava niente nella retorica nazionalista di quello che vent’anni fa era il cantante dei rivoluzionari di estrema sinistra. In apertura ha invitato simbolicamente all’incontro un lungo elenco di “eroi della causa cabila”: militanti per l’indipendenza dell’Algeria, militanti berberi, guerrieri, intellettuali, scrittori, cantanti, giornalisti e semplici cittadini assassinati dal governo o dagli integralisti armati. Poi c’è stato l’inevitabile elogio del popolo cabilo, descritto come generoso, coraggioso e laborioso. Mentre i 16

suoi vicini sono stati, diplomaticamente, descritti come deboli e privi di riferimenti e di anticorpi contro la dittatura e il sottosviluppo. Ovviamente l’autonomia della Cabilia, ha spiegato in seguito, è voluta non per sbarazzarsi degli altri ma per dare un esempio di buona gestione e trascinare così lo sviluppo dell’Algeria intera (No. Non sto confondendo con un discorso di Calderoli sull’autonomia della Padania. Ha detto proprio così). Prova, se ce ne fosse bisogno, che il nazionalismo cabilo, come gli altri, non brilla proprio per originalità e creatività. Poi, come la ciliegia sulla torta, c’è stato anche (come in ogni nazionalismo dei poveri) l’inevitabile occhiolino lanciato verso i signori del mondo: la promessa di essere un ostacolo invalicabile contro il terrorismo islamico e contro Al-Qaeda (il prezioso “apriti sesamo” senza il quale, lo sanno tutti i poveri, le porte della benevolenza delle potenze occidentali rimarrebbero inesorabilmente chiuse). l MAK è nato nel 2001, durante la protesta della “Primavera nera”, mentre i gendarmi sparavano sui giovani insorti contro l’assenza di diritti e di futuro, era chiaro che i partiti tradizionali della Cabilia non erano più in grado di canalizzare la protesta. Approfittando di questo vuoto, Ferhat lancia il suo MAK. L’intento era quello di recuperare la protesta. Ma il “Movimento Cittadino” nato dalla protesta e la popolazione cabila ignorarono superbamente tutti i loro tentativi. Dal 2003, i militanti del MAK si sono dati da fare per occupare mediaticamente il vuoto politico lasciato dalla sconfitta del “Movimento Cittadino”. Ma in Cabilia sembra non ci sia quasi nessuna risposta popolare. Poche centinaia di giovani si avvicinano al movimento. È soprattutto nella diaspora e in modo particolare a Parigi che il MAK trova più sostenitori. I bar parigini, tradizionale covo delle frange più razziste del movimento berbero (anche perché è sempre più facile essere radicale da lontano), hanno subito accolto molto bene il concetto di autonomia. Non è un caso se è a Parigi che Ferhat si autoproclama presidente del “Governo Provvisorio della Cabila”. In Cabilia però l’accoglienza a questo evento oscilla tra la condanna netta (anche da parte di alcuni membri storici del MAK) e l’indifferenza totale che rimane il sentimento più diffuso.

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In alto: Foto archivio PeaceReporter. In basso: Murales di Matoub Lounes, cantante cabilo ucciso nel ‘98. Algeria 2007. Foto di Stefano Barazzetta per PeaceReporter


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Svizzera

Il canto proibito di Luca Galassi Il 29 novembre 2009 il popolo svizzero ha votato per il divieto di costruire minareti sul suolo nazionale. Un referendum lanciato dal Svp (Partito popolare) che ha provocato l’indignazione internazionale, al punto che tale decisione, secondo il settimanale statunitense Newsweek, ha decretato ‘la morte della Svizzera’. Xenofobia, discriminazione e intolleranza hanno minato alla base il modello di democrazia e convivenza civile rappresentato storicamente dal piccolo Paese alpino. a i musulmani residenti, anziché raccogliere l’appello alla ‘guerra santa’ contro la Svizzera lanciato da Gheddafi a febbraio, hanno preferito percorrere la strada del dialogo e dell’integrazione. Come spiega il presidente della Federazione delle organizzazioni islamiche, Hisham Faisal, intervistato da PeaceReporter.

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Signor Faisal, qual è stata la reazione della comunità musulmana svizzera? L’iniziativa non è piaciuta, ovviamente, ma non ha spinto i musulmani a radicalizzarsi. Benché i minareti non siano una componente indispensabile della preghiera, molti musulmani si sentono urtati dal divieto. Noi cerchiamo di contrastare i movimenti più estremisti. Tuttavia, si tratta di un falso problema. Ci sono pochissimi minareti in Svizzera, si contano sulle dita di una mano. Uno è stato costruito nel 1963, l’altro nel 1978. Altri due negli anni successivi. La Svizzera non è affollata di minareti, come il Svp, il partito di destra al governo, vorrebbe far intendere. Qual è il vero problema, allora? Altri sono i problemi, primo tra i quali tentare di fermare la diffusione dell’Islam nel Paese. La gente ha percepito, attraverso la campagna del Svp, un Islam deformato, trasformato, pericoloso. È stata erroneamente compiuta, ed è stato fatto credere che fosse così alla popolazione svizzera, una saldatura dell’Islam europeo con il radicalismo islamico, e con i movimenti estremisti che ci sono in Afghanistan, con al Qaeda, con i Talebani. L’Islam, è stato detto, non è compatibile con la cultura e con la mentalità occidentale. Per questo va fermato. Hanno voluto innescare un meccanismo di reazione nella popolazione alimentando queste paure. Hanno associato la nascita del minareto al muezzin e alla propaganda religiosa estremista, hanno mostrato un manifesto con in primo piano donne col niqab e sullo sfondo minareti come missili piantati sul territorio svizzero. Una rappresentazione dell’Islam come il male assoluto. La donna nel manifesto ha uno sguardo malvagio e i minareti sembrano davvero armi di distruzione. Hanno usato la comunità islamica come uno stratagemma strategico. È dal 1900 che gli svizzeri vedono gli stranieri come nemici, è nella loro mentalità. Attraverso i decenni, hanno usato questa scusa per addebitare agli Auslaender, gli stranieri, le cause della crisi socioeconomica. Nel 1972, un 18

politico svizzero di estrema destra, James Schwarzenbach, aveva teorizzato una società patriarcale, rurale e precapitalista e lanciato una grande offensiva anti-stranieri. Una sua legge che ne impediva l’ingresso nel Paese fu bocciata, ma l’impatto della sua politica fu enorme, e le sue parole rimasero nella coscienza collettiva del Paese come un’eco che non si è mai spenta del tutto. Oggi i musulmani sono un doppio pericolo: sono stranieri e sono musulmani. Ed è ancora più facile per la destra dire che c’è un problema, e che i simboli di questa comunità non devono sorgere sul nostro territorio perché sono una minaccia. Ma, ripeto, i minareti in Svizzera sono solo quattro. Lei sta portando avanti un’iniziativa legale per costruire una moschea nella città di Wil, nel Cantone San Gallo. Sì, ci hanno dato un pezzo di terra e vorremmo costruire una moschea che esteriormente non appaia troppo come una moschea, come un oggetto estraneo, ma che si integri con l’ambiente, nel rispetto urbanistico della località. Chiaramente, dovrà essere riconoscibile, ma l’area dove la costruiremo è fuori dal centro cittadino, nella zona industriale. Sa, non esistono sfumature per un musulmano: o lo si è, e si obbedisce ai precetti di questa religione, o non lo si è. I 750 fedeli musulmani di Wil per pregare devono ammassarsi in un piccolo capannone, addossato ai binari del treno. Io sto investendo tutte le mie energie per raccogliere fondi per la costruzione di questo nuovo centro di preghiera. Non hanno contribuito solo musulmani, ma anche svizzeri. Per la fine dell’estate sono certo di poter raccogliere la somma richiesta, 700mila euro, e di avere la concessione edilizia per cominciare a edificare. Alla fine, in questa piccola città, dove il consigliere del Svp ha detto “non ho nulla contro una nuova moschea”, si potrà parlare di una Svizzera modello di integrazione: un luogo dove le culture, le religioni e le lingue diverse coabitano fianco a fianco. È difficile tenere insieme le varie organizzazioni islamiche svizzere? Sì, e tutti ne beneficeremmo se ci fosse una unità a livello nazionale, un’unica grande organizzazione. Ma è un processo lungo e difficile. In un Paese di sette milioni di persone abitano circa 400mila musulmani, in prevalenza bosniaci, kosovari e turchi, ma anche nordafricani e mediorientali. Sono rappresentati da miriadi di diverse organizzazioni, da quelle conservatrice a quelle secolari. Sì, è duro tenerle insieme. Minareti come missili sul manifesto dell'Svp


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India

Chi critica (il governo) è terrorista di Enrico Piovesana La prestigiosa organizzazione internazionale Human Rights Watch ha duramente criticato il governo indiano per la crescente repressione della libertà di espressione di intellettuali, scrittori, giornalisti e difensori dei diritti umani che criticano le operazioni militari in corso contro i ribelli maoisti ‘naxaliti’ nelle regioni tribali del Paese. l governo di Nuova Delhi ha deciso di adottare il pugno di ferro contro tutte quelle voci che, sempre più numerose, si levano dalla società civile indiana per denunciare le violenze e gli abusi di una violenta campagna militare che, invece di colpire i guerriglieri maoisti, prende di mira le popolazioni indigene contadine allo scopo di allontanarle dalle loro terre, ricche di risorse minerarie destinate allo sfruttamento delle multinazionali indiane e straniere. Lo scorso maggio, il ministro dell’Interno indiano Chidambaram ha annunciato che d'ora in avanti chi criticherà pubblicamente la politica governativa contro i maoisti verrà considerato un simpatizzante dei terroristi e, come tale, trattato secondo la legge anticrimine del 1967 che prevede fino a dieci anni di carcere.

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“Il governo indiano dovrebbe pensarci due volte prima di provare a imbavagliare la discussione politica e di pretendere il sostegno alla propria visione sui gruppi maoisti”, ha dichiarato Brad Adamas, direttore del dipartimento asiatico di Human Rights Watch. “Le autorità indiane sanno bene che queste operazioni militari sono sempre più spesso accompagnate da gravi violazioni dei diritti umani: una società civile attiva e non intimorita che monitori questi abusi, come quelli commessi dai ribelli, è cruciale per garantire la protezione dei civili. Le recenti dichiarazioni del governo contro i cosiddetti simpatizzanti potrebbero essere interpretate dalle autorità locali come un’autorizzazione a perseguire e arrestare coloro che criticano la politica governativa”. Un invito a nozze, insomma, per quei responsabili di polizia che già oggi, soprattutto nelle aree di conflitto, perseguitano attivisti e intellettuali scomodi con pedinamenti, minacce, interrogatori e fermi prolungati. Come il caso di Bianyak Sen, ‘il medico dei poveri’ che da anni si dedica gratuitamente alla cura dei contadini nei villaggi tribali delle foreste del Chhattisgarh, incarcerato per venti mesi con false accuse e poi rilasciato senza spiegazioni. O la vicenda di Himanshu Kumar, popolare attivista ghandiano che, con il suo ashram Vanvasi Chetna di Dantewada, è rimasto l’unico difensore dei diritti degli adivàsi del Chhattisgarh, nonostante le continue persecuzioni della polizia. Dopo le dichiarazioni del ministro Chidambaram, sono state proprio le autorità di questo Stato, dove si concentra la campagna militare governativa, a cogliere la palla al balzo chiedendo alle autorità federali di Nuova Delhi di arrestare per propaganda filo-terrorista la famosa scrittrice e atti20

vista Arundhati Roy (l’autrice di “Il dio delle piccole cose” e di “Quando arrivano le cavallette”) a seguito del suo reportage sui naxaliti “Camminando con i compagni”, che raccontava l’aspetto umano della ribellione maoista e svelava la vera natura di questa guerra contro i poveri. “Sì, io sto dalla parte dei maoisti! Venitemi a prendere, sbattetemi in prigione!”, ha provocatoriamente dichiarato la Roy rispondendo a queste minacce. Minacce che per ora non si sono tradotte in pratica. essun personaggio di spicco è stato ancora arrestato in seguito alle direttive del ministro Chidambaram. Ma, intanto, il ministero degli Interni ha provveduto a stilare una lista nera di ‘sorvegliati speciali’ in cui sono state inserite cinquantasette organizzazioni della società civile e decine di intellettuali considerati filo-maoisti. Tra loro, oltre ad Arundhati Roy, lo storico Ramachandra Guha, il professore universitario Nandini Sundar e l’ex alto dirigente della pubblica amministrazione E.A.S. Sarma, colpevoli di aver criticato il ricorso del governo alle milizie paramilitari civili Salwa Judum, e addirittura un membro in carica della Corte suprema, Prashant Bhushan, reo di aver dichiarato che “l’operazione militare Green Hunt (lanciata dal governo lo scorso novembre in cinque Stati, ndr) non sta indebolendo i ribelli maoisti, ma sta sloggiando i tribali dalle loro terre cosicché le multinazionali possano accedere a quelle risorse minerarie che sono il vero obiettivo di questa operazione”. Tra le organizzazioni sotto osservazione ci sono - come si legge testualmente nei documenti del ministero dell’Interno - “associazioni per i diritti umani, organizzazioni di contadini senza terra, gruppi di sostegno alle popolazioni tribali e agli adivàsi, sindacati, associazioni studentesche ecc. considerati come strutture collegate ai maoisti in quanto integrano la loro attività di lotta armata mobilitando le masse per la causa del popolo, ma principalmente per la causa del partito maoista”. Qualche esempio? La storica Unione popolare per i diritti democratici (Pudr) e quella per le libertà civili (Pucl), che hanno sempre equanimamente criticato sia le violenze e gli abusi delle forze governative che quelle dei ribelli naxaliti. O il Bandi Mukti Morcha, organizzazione per i diritti umani del West Bengal che difende i contadini dagli espropri illegali dei loro terreni: la sua presidente, la nota scrittrice indiana ottantacinquenne Mahasweta Devi, ha sfidato il ministro Chidambaram dichiarando: “Arrestatemi pure, ma prima portatemi le prove dei miei collegamenti con i maoisti”.

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Arundhati Roy. Foto archivio PeaceReporter


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Paesi baschi

Storia di ordinaria tortura di Angelo Miotto Sta raccontando da almeno dieci minuti. Forse. Perché le parole che dipingono drammatici ricordi hanno dilatato spazio e tempo. È seduta su un divano azzurro, non è comoda. Ha l'aria di sentirsi spalle al muro. Salivazione azzerata, pupille che ballano negli occhi. Le labbra tremano. al momento del mio arresto già non mi chiamavo più Susana. Ero una troia, una vacca, una figlia di puttana”. Ogni parola è un macigno, la luce nella stanza entra prepotente, eppure è come se ci fosse solo lei illuminata in una sorta di monologo dell'orrore.

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Susana Atxaerandio è una antropologa basca. Nel 2001 è finita in una retata della guardia civil. Vitoria, Gasteiz per i baschi, ha un centro sociale e la retata va a colpire diversi giovani che frequentavano il centro, o amici degli amici. Lei non viene catturata subito. L'arresto scatta quando si accorge che sulla sua macchina qualche cosa non funzionava: il meccanico la chiama e dice di aver trovato del materiale strano: la stavano seguendo e intercettando da tempo. Gli arresti ebbero un effetto domino: chi veniva torturato cercava di mettere fine ai cinque giorni di isolamento assoluto previsto dalla legislazione antiterrorista, autoincolpandosi e firmando carte che 'incastravano' altri conoscenti, in una lunga spirale di sospetti, detenzioni e sofferenze. “Le minacce sessuali sono state una costante fin dall'inizio. Mi hanno fatto credere che mi avrebbero ucciso e prima ancora che mi avrebbero stuprato. Tutto dopo una lunga seduta di botte. Durante l'esecuzione simulata mi hanno detto di prendere la canna della pistola con le mani. Non avevo mai toccato un'arma. Ero nuda e mi hanno detto di mettermi nella posizione in cui si spara. Io l'ho presa...”. Susana si ferma, un istante che permette alla mano sinistra di salire fino al viso. Le dita scorrono sulle labbra semiaperte, gli occhi guardano sé stessa in quel momento. Tentenna. Poi la mano abbandona il viso. Prosegue. “Mi hanno detto che era venuto il momento, che stavo per morire. Hanno preso la mira, senza toccarmi, ma io sentivo che stavano mirando verso di me e io volevo che mi puntassero l'arma... Poi spararono”. Il labbro inferiore si tende verso il basso, fuori controllo, la voce è tremula, quasi un sospiro. Susana balbetta: “Ma no, non..., non c'era il proiettile”. I denti si scoprono in un sorriso teso, nevrotico. Si muove sul divano, nervosa. “Poi hanno sparato un'altra volta, ancora senza proiettile. Ed è stata una frustrazione enorme, perchè io.. io volevo farla finita”. Il tempo si è fermato, adesso. C'è solo quel corpo che si dimena come un burattino, i fili tirati dalle visioni di un incubo che torna ogni volta che ricorda, ogni volta che rientra in quella stanza, sola, isolata, senza diritti, senza avvocati, nuda, bendata, torturata. “È stato lì che mi hanno detto che mi avrebbero stuprata. Dicevano che avevano aspettato fino ad allora e che 22

c'era una lunga lista di attesa”. I muscoli del viso di Susana sono tesi, le rughe che scivolano dagli zigomi fino al mento sono marcate. “Mi hanno detto che avevano deciso in che modo violentarmi. Mi hanno detto di mettermi con le mani contro il muro, con il sedere in fuori. Poi hanno deciso che questo non era il modo migliore. Allora mi hanno fatto mettere le mani sulla spalliera di una sedia...”. usana Atxaerandio firmò, allora, una dichiarazione in cui riconosceva di tutto e incriminava altre persone, innocenti come lei. Ormai ha gli occhi stanchi, il corpo sfinito si è accasciato sul divano, il ricordo sta per finire nel riconoscere quel tradimento verso sé stessa, verso suoi amici. “Ho dubitato solo un attimo, ma poi ho firmato. Ho firmato la dichiarazione che loro avevano scritto, perché non potevo nemmeno lontanamente sopportare che tutto avesse di nuovo inizio”.

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Nel 2009, dopo otto anni di restrizione della libertà individuale e di pressione processuale quotidiana, Susana Atxaerandio ha patteggiato con altre dieci persone accusate tutte di collaborazione a banda armata una riduzione di pena. Ma solo perché ha, hanno, dovuto accettare di riconoscere quanto avevano firmato dopo il trattamento descritto durante l'interrogatorio. I politici spagnoli da anni affermano pubblicamente che le denunce di tortura sono un preciso compito che l'organizzazione armata affida ai suoi militanti e complici. I numeri del fenomeno smentiscono questa affermazione. L'ulteriore riprova che le storie di tortura fisica e psicologica avvengono - al di là dei rapporti di Amnesty International e di quelli delle Nazioni unite che hanno denunciato violenze ricevendo sempre sberleffi o silenzi da parte delle autorità di Madrid-, sta in quello che si sente in una intervista, negli occhi, nel battito che accelera, nel terrore che ancora a diversi anni di distanza compare all'improvviso e distorce il viso, il corpo. Non è una prova da aula di tribunale, ma racconta una verità anche più importante. Nel giugno del 2010 sedici pagine redatte dalla guardia civil, in una operazione che ha portato in prigione degli avvocati e dei militanti della sinistra, hanno ratificato l'esistenza di interrogatori illegali. Per gli avvocati il documento interno scrive a lettere maiuscole TRATO EXQUISITO, per tutti gli altri c'è scritto “l'interrogatorio dovrà ottenere la conferma degli arrestati rispetto alle accuse che gli vengono mosse”. Per questo si tortura. In alto: Ingresso di un centro sociale. Bilbao, Paesi Baschi (Spagna) 2009. In basso: Manifesti dei 'presos', i prigionieri politici baschi. San Sebastian, Paesi Baschi (Spagna) 2009. Foto di Diambra Mariani e Valentina Merzi/Witness Journal


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4 Romania

Per strada di Benedetta Guerriero

Sono passati poco più di vent’anni dalla caduta del regime di Ceausescu, il dittatore che ha governato la Romania col pugno di ferro dal 1965 al 1989, ma il Paese stenta ancora a spiccare il volo e non riesce a lasciarsi alle spalle il pesante passato. progressi raggiunti nel corso del difficile passaggio dall’economia socialista a quella di mercato sono stati vanificati dalla crisi, mentre a livello sociale la situazione resta ancora bloccata e vede il riemergere di problemi che, con l’ingresso della nazione nell’Unione europea nel 2007 e il boom economico degli anni passati, erano stati parzialmente risolti. È il caso del riversarsi dei minori sulle strade della capitale. Nel 1966 Ceausescu emana il decreto 770 con cui impone delle severe norme, che vietano l’uso degli anticoncezionali e rendono l’aborto illegale per mettere in moto la crescita demografica nel Paese. Il conducator è convinto che una nazione popolosa abbia maggiori opportunità di sviluppo. Negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore della legge si registra un baby boom. Molte coppie, però, a causa della miseria e dell’indigenza, abbandonano i bambini. Il governo interviene, creando degli orfanotrofi, che poi si scoprirà essere dei lager. Non appena possibile, i minori ricoverati fuggono e si riversano nelle strade. Oggi accade lo stesso: la Romania figura ancora ai vertici nella lista dei Paesi europei con il più alto tasso di violenza domestica e l’avanzamento della miseria causata dalla recessione economica ha aggravato la situazione.

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“Il numero dei ragazzi che vivono per le strade di Bucarest - dice Franco Aloisio, rappresentante della Fundatia Parada - si aggira attorno alle mille e trecento unità. L’acuirsi della crisi economica ha portato molti nuovi giovani a scappare da casa o dagli istituti. La recessione economica ha colpito soprattutto la marginalità estrema. Il dato più preoccupante, però, è costituito dall’enorme crescita del consumo di eroina”. Ideata nel 1994, Parada è stata fondata dal clown franco-algerino Miloud Oukili che, nel 1992, venuto a conoscenza dell’esistenza dei bambini delle fogne di Bucarest, ha scelto di fermarsi in Romania per mettere la propria arte a loro disposizione. Dal circo e dai laboratori di acrobatica, giocoleria e mimo, improvvisati nei parchi, ha preso avvio il progetto per il recupero dei ragazzi dalla strada. “In strada - continua Aloisio - si vive in gruppo. Secondo una dinamica molto nota, i più piccoli imitano e ripetono i gesti dei più grandi. Non è raro incontrare per le vie delle periferie di Bucarest bambini di otto, nove anni completamente fatti. Alcuni poi arrivano sulla strada già compromessi. Il consumo di droga è cresciuto anche tra gli adulti, visto che il prezzo si è abbassato enormemente. A Bucarest l’eroina si compra anche a sedici euro al grammo. Una cifra che è facile procurarsi, anche attraverso la prostituzione, altra piaga che continua a tormentare la Romania”. 24

Il turismo sessuale resta ancora una pratica diffusa nella capitale e molti giovani, tra cui parecchi minori, cadono nella rete dei trafficanti di esseri umani. Nonostante gli sforzi delle autorità romene per limitare la pedofilia e la prostituzione, le vittime vengono adescate con molta facilità. L’economia liberale non lavora sull’azione preventiva. Indispensabile è iniziare a lavorare per rimuovere le cause della povertà materiale e culturale che permettono ai trafficanti di avere a disposizione una massa di disperati, pronti a cadere nella loro trappola con la speranza di un miglioramento della propria condizione di vita. L’humus romeno di miseria, frustrazione, alcoolismo e precarietà lavorativa in cui è costretta a vivere la maggior parte della popolazione miete di continuo vittime. La famiglia, in molti casi, resta in Romania un contesto di violenza e di abusi. Padri e madri non smettono di sfogare sui propri figli la rabbia per una condizione economica e sociale triste e deficitaria. Spesso sono proprio i genitori che iniziano a bucarsi e trasmettono il vizio anche ai loro figli, bambini o adolescenti, che arrivano sulla strada, già tossicodipendenti. “Tra il 2004 e il 2005 - prosegue Aloisio - in Romania si registra il boom dell’eroina, che, in un primo momento, è un prodotto riservato a un mercato ristretto. Il progressivo abbassamento dei prezzi delle droghe, in linea con quello che avviene nei principali Paesi europei, inizia a far crollare il costo dell’eroina e il consumo si espande a macchia d’olio”. ttualmente - prosegue il rappresentante della Fundatia Parada - il sessanta per cento della popolazione di strada è tossicomane. Secondo i dati dell’Agenzia nazionale antidroga ogni giorno in Romania ci sono almeno due morti per overdose. Il quadro si complica, se si considera che c’è una permanenza media sulle strade di cinque o sei anni. Chi assume eroina, ha l’organismo già debilitato dall’abuso di alcool e dal consumo della colla. L’eroina dà il colpo fatale. Molte associazioni hanno dovuto riadattare i servizi offerti per poter far fronte a questa nuova emergenza, ma, per quanto cinico e triste da dire, sarà proprio l’eroina a risolvere il problema dei ragazzi di strada di Bucarest”. A tre anni dall’ingresso in Europa, “In Romania - conclude Aloisio - la crisi ha prodotto il ritiro degli investimenti finanziari esteri e il governo ha scelto di imporre pesanti tagli al sociale”.

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In alto: Ragazzi di strada che sniffano la colla. Bucarest, Romania 2006. In basso: Bambini di strada che giocano con la spazzatura. Iasi, Romania 2006. Foto di Franca Schininà/Witness Journal


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Usa

Stati Uniti. Dalla fame di Luca Galassi Anche l’America ha fame. Cinquanta milioni di persone negli Stati Uniti non hanno avuto accesso a un’adeguata alimentazione nel 2009. Un bambino ogni quattro è denutrito. Dati che sconcertano, se si pensa che il numero dei malnutriti è aumentato di 13 milioni rispetto all’anno precedente n terzo delle famiglie americane, secondo il rapporto diffuso dal Dipartimento per l’Agricoltura, si collocano a un “livello di sicurezza alimentare” molto basso. Una fascia consistente di persone spesso salta il pasto, o riduce la quantità e la qualità degli alimenti perchè non può permettersi un’alimentazione equilibrata a causa della mancanza di soldi. Le famiglie indigenti cercano di nutrire i bambini per primi. Ma i dati mostrano che la scarsità di risorse ha portato chi si trova in queste fasce di povertà da 323mila a 506mila nel 2009. Nel momento più duro della crisi le analisi economiche si sono concentrate solamente sulla crescita della disoccupazione e gli effetti della recessione. Il dipartimento dell’Agricoltura, invece, ha stilato un primo ritratto dettagliato delle difficoltà alimentari degli americani. Il notevole incremento delle persone che non possono permettersi abbastanza cibo e in alcuni casi arrivano a soffrire la fame ha colpito persino chi lavora nelle associazioni per la lotta contro la povertà, abituati alle lunghe file nelle strutture delle organizzazioni umanitarie che distribuiscono cibo alle persone bisognose. Una della aree più colpite dalle conseguenze alimentari della crisi è quella del distretto di Washington: qui si stima che negli ultimi tre anni, intorno al 12,4 percento delle famiglie abbia avuto problemi nell’acquisto di generi alimentari. Nel Maryland, la percentuale è del 9,6, in Virginia dell’8,6. Il Segretario del Dipartimento dell’Agricoltura, Tom Vilsack, ha attribuito la difficoltà nell’accesso a una adeguata alimentazione principalmente all’aumento della disoccupazione, che ha superato il 10 percento della popolazione, e all’esistenza di vaste fasce di sotto-occupati. Vilsack ha annunciato che il numero delle persone in difficoltà è destinato a crescere quest’anno. Il presidente statunitense Barack Obama ha definito lo studio ‘inquietante’, promettendo azioni concrete per l’eradicazione dello spettro della povertà. Ma, secondo Vilsack, non si ha alcuna certezza dell’efficacia delle misure che l’amministrazione Obama intraprenderà per combattere il problema e stimolare l’economia.

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Il quadro non è incoraggiante. La ripresa economica è indebolita da un credito bancario ancora scarso e dalle difficoltà del mercato immobiliare. La situazione del mercato del lavoro e dei prestiti ha prodotto un’espansione meno solida di quanto si potesse sperare. Il livello dell’inflazione è tale da consentire di mantenere il costo del denaro eccezionalmente basso per un periodo prolungato, anche se ciò potrebbe comportare il rischio di bolle speculative. Oltre a questo, va tenuta in conto anche la debolezza del dol26

laro. La banca centrale sta monitorando attentamente l’andamento dei cambi. Un dollaro troppo debole, infatti, potrebbe provocare una spinta inflazionistica, e la caduta del biglietto verde ha già contribuito al rincaro delle materie prime. nche le persone che si mettono in fila presso le associazioni caritatevoli o presso gli enti governativi che somministrano pasti hanno raggiunto un numero record, aumentando del 40 percento. L’American Recovery and Reinvestment Act, una legge approvata lo scorso anno, ha aumentato del 17 percento l’assegno alimentare mensile medio per persona, portandolo a 133 dollari. Molti Stati hanno reso meno rigidi i requisiti per entrare nei programmi di assistenza alimentare. I problemi maggiori sono quelli incontrati da nuclei familiari composti solo da madre e figlio. Circa il 37 percento ha riportato qualche forma di ‘insicurezza alimentare’, in rapporto al 14 percento delle coppie con figli. Ma, naturalmente, la crisi ha colpito in primo luogo gli ispano-americani. Il 29 percento delle famiglie di latinos lamenta problemi di denutrizione, a fronte del 27 percento delle famiglie afro-americane e del 12 percento di quelle bianche. Il ritorno a una piena occupazione, ossia a un tasso di disoccupazione compreso tra il 5 e il 6 percento, è distante anni. Attualmente la percentuale è del 10,2 percento, la più elevata dalla recessione del 1982 e al di sopra delle stime di qualche mese fa. Si prospetta la possibilità di una ripresa senza occupazione. La crisi del lavoro colpisce soprattutto gli uomini nei primi anni di servizio: in questa fascia la quota dei disoccupati è passata dal 4 al 10 percento. Altra categoria duramente colpita è quella dei giovani afro-americani: tra loro il tasso di disoccupazione ha superato il 30 percento.

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I problemi nell’approvigionamento alimentare sono sicuramente una conseguenza diretta della recessione e della disoccupazione, ma un altro studio federale, commissionato prima della crisi, mostrava che due terzi delle famiglie americane con bambini definite ‘non sicure’ da un punto di vista alimentare avevano uno o più lavoratori a tempo pieno. Una situazione che spinge a riflettere su come milioni di americani siano già stati intrappolati in lavori a bassa remunerazione prima della recessione, che ha reso ancora più difficile l’esistenza, e la sussistenza, per loro e i loro bambini. La lotta alla denutrizione è una priorità, tra i programmi di assistenza agli orfani, della Kihefo ONG. Kabale, Uganda 2008. Foto di Paolo Patruno /Witness Journal.


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Genova G8 Scuola Diaz, la macelleria messicana Illustrazioni di Gloria Bardi e Gabriele Gamberini, Edizioni BeccoGiallo

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L’analisi

Il diritto all’informazione nel terzo millennio di Arturo Di Corinto “Ogni individuo ha diritto di ricevere, ricercare e impartire informazioni senza distinzione di razza e di genere, provenienza geografica o di religione”. Recita così l’articolo 27 della Dichiarazione dei diritti umani, eppure ancora molta strada resta da fare per la sua piena attualizzazione. a censura di stato, gli oligopoli mediatici, l’arresto di reporter indipendenti, il digital divide, gli attacchi alle infrastrutture di comunicazione di Paesi sovrani, le ripetute violazioni della privacy, i filtri tecnologici ai contenuti on-line prodotti dagli utenti, rendono questi diritti inesigibili nell’era della comunicazione globale in molti Paesi, anche in quelli democratici. Reporters senza frontiere e Amnesty International hanno denunciato a più riprese la violazione di questo primario diritto umano, stilando classifiche dei Paesi dove minore è il rispetto per il diritto e la libertà d’informazione. A dispetto di quello che si pensa però, il problema non riguarda solo la Cina e l’Iran, responsabili a più riprese di pesanti violazioni della libertà d’espressione verso cittadini, giornali, imprese; non riguarda solo il Pakistan o l’Afghanistan che restringono sempre di più l’universale diritto all’informazione, ma anche l’Egitto che usa il braccio di ferro contro i suoi blogger, o le minacce e le intimidazioni verso i giornalisti da parte del governo di Cuba. La libertà d’informazione è a rischio ovunque nel mondo. Non solo per la violenza che i governi e la polizia esercitano verso l’informazione indipendente. È a rischio per le fusioni imprenditoriali e le concentrazioni mediatiche, la riduzione delle fonti d’informazione, il ricatto professionale verso i giornalisti e il controllo diretto e indiretto che la politica esercita sui media: anche nel mondo occidentale. Un controllo che induce autocensura e conformismo preventivo, con il risultato di una stampa impaurita e ossequiosa verso il potere. È il caso dell’Italia, ma non solo. Dice Jean François Julliard per RSF.org: “È disgustoso vedere come le democrazie europee quali a esempio Francia, Italia e Slovacchia scivolino nel basso della classifica (dell’indice della libertà di stampa) anno dopo anno”. “L’Europa dovrebbe rappresentare un esempio per i diritti civili. Come si può condannare la violazione dei diritti umani all’estero se non sei irreprensibile a casa tua?”.

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Eppure si sbaglierebbe a pensare che sia solo una questione di libertà di stampa e d’opinione. È vero infatti che la possibilità globale di informarsi costituisce la condizione necessaria al libero dispiegarsi del diritto alla comunicazione. Ma anche dello sviluppo economico e sociale. Mentre l’innovazione tecnologica aumenta la produttività della terra, del lavoro e del capitale, riducendo costi e migliorando i prodotti, conoscenza e creatività sono sempre più importanti per la diffusione di sapere e conoscenza, per consentire a chiunque di partecipare al progresso economico e sociale. Internet oggi rappresenta la tecnologia chiave per produrre e veicolare informazioni dal basso, creando occasioni di crescita culturale, d’occupa30

zione e di autogoverno, ma anche Internet è sotto attacco. Nonostante la sua natura acefala e decentrata è sbagliato pensare che grazie alla rete sia sempre possibile aggirare filtri e censure, sia per le leggi restrittive dei governi che per il digital divide. È la stessa Europa che non brilla per la difesa dell’elementare diritto all’informazione e alla comunicazione attraverso la rete, con atteggiamenti di chiusura coperti di volta in volta dalla foglia di fico della libertà d’impresa o della tutela della privacy. Il Telecom Package che ha messo a rischio la neutralità della rete, la direttiva Audiovisual Media Service, che regolamenta il diritto alle trasmissioni audiovideo, anche di quelle amatoriali, ma anche i protocolli ACTA relativi agli accordi anti-contraffazione che impongono un forte giro di vite sul diritto d’autore hanno tutti lo stesso effetto: rendere l’esercizio dell’informazione un compito difficile e gravoso, talvolta pericoloso. er una società democratica, il tema dell’apertura e dell’accesso all’informazione è intimamente legato alla libertà d’espressione che in un mondo iperconnesso e digitalizzato non riguarda più soltanto la libertà di parola. Lo scopo ultimo della libertà d’informazione e d’espressione consiste infatti nel creare una “cultura democratica” nella quale gli individui siano liberi di creare, innovare e partecipare al “processo di costruzione di senso” che li identifica in quanto individui e cittadini portatori di diritti. Poiché oggi le stesse tecnologie che consentono alle imprese di allargare i mercati e fare nuovi profitti consentono agli utenti di comunicare fra di loro, appropriarsi dei contenuti dei media e di aggirarne gli intermediari, i grandi poteri cercano di limitare l’apertura della rete e questo ha delle conseguenze importanti dal punto di vista della libertà di esprimersi. È chiaro che se una certa legge non mi permette di accedere a certi contenuti il mio “diritto a conoscere”, apprendere e impartire informazioni ne sarà indebolito; se non posso riprodurre, criticare e comunicare tali informazioni la mia “libertà d’espressione” sarà pregiudicata; e se non posso difendere la mia privacy nel farlo, sarò indotto all’autocensura. Quindi il diritto all’informazione non riguarda solo la difesa della libertà di parola, la lotta all’intolleranza e la libertà dei media on-line, ma una libertà che è oggi intimamente legata all’accesso verso la più grande agorà pubblica della storia dell’umanità.

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In alto: Oleg Panfilov, direttore del Centro per il giornalismo in situazioni estreme. In basso: La scrivania di Anna Politkovskaya alla Novaya Gazeta. Mosca, Russia 2009. Foto di Ilenia Piccioni/Witness Journal


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Mondo intero

Troppi muri di Christian Elia Le celebrazioni, lo scorso anno, per i venti anni dalla caduta del muro di Berlino, sembravano aver chiuso un’epoca. Il 2009, però, è rimasta una ricorrenza. Perché i muri sono tanti, troppi, in giro per il mondo.

roprio in questi giorni, come negli anni Cinquanta, le due Coree sono tornate a minacciarsi. L’affondamento di un’unità navale sud coreana ha spinto Seul a un passo dall’attacco a Pyongyang. Un unico popolo, tagliato in due dal 38° parallelo. Ogni muro racconta una storia. Quello che divide Belfast e le altre città dell’Irlanda del Nord, tra cattolici e protestanti, si racconta per immagini. Una guerra nella guerra, a colpi di murales. Molti di questi raccontano la bloody sunday del 1972, quando l’esercito britannico uccise 18 dimostranti. Sembra che, dopo 38 anni, si avvicini il momento della giustizia. A Belfast, dopo aver atteso a lungo, alcuni tra gli stessi autori di murales hanno iniziato a disegnare il futuro. Qualche muro ruba la terra. È questo il caso della Palestina, dove Israele ha costruito un muro che ruba la terra e l’acqua a quello che dovrebbe diventare lo stato di Palestina. Il grande artista Bansky ha disegnato, sul muro in Cisgiordania, una bimba che lo sorvola attaccata a dei palloncini, per non farsi rubare il futuro. Alcuni muri non li ricorda nessuno, come quello costruito dal Marocco nel Sahara. Quello è un muro che ruba l’orizzonte, la più grande ricchezza del deserto. A metà degli anni Settanta il Sahara Occidentale era una colonia spagnola, finita nelle mire del Marocco, che rivendica diritti storici su un territorio che si vuole indipendente. Anche le Nazioni Unite sono di questo avviso, ma il re del Marocco fa partire migliaia di ‘volontari’ che occupano il Paese. Viene costruito un sistema di muri, di sabbia e cemento. La stessa sabbia stesa come un tappeto sotto il passo di carovane millenarie diventa strumento di chiusura e separazione. Altri muri, come quello che gli Usa hanno costruito al confine con il Messico, rubano i sogni. Quelli di milioni di latino americani, prima sedotti dal mito americano in tv e poi respinti, perché non meritano di farne parte. E, muoiono nel deserto. Sono 1950 le persone trovate morte dal 1998 al 2005. Morti di sete, braccati da volontari che non hanno nulla di meglio da fare nel fine settimana che dare la caccia ai ‘clandestini’. Per ogni vittima, in Messico qualcuno pone una croce, negli Usa li registrano come John Doe in un obitorio. Come gli africani, impigliati nelle reti di Ceuta e Melilla, tentando di raggiungere l’Europa attraverso le due enclavi spagnole in Africa. Un muro, a Cipro, ruba il tempo. Nella terra di nessuno tra lo schieramento greco-cipriota e quello turco-cipriota, tutto è rimasto com’era nel 1975, quando l’esercito di Ankara occupò la parte settentrionale dell’isola che la Grecia voleva annettere. I caschi blu dell’Onu vigilano su una clessidra di pietra, su un pezzo di terra rapito eternamente fermo in un attimo. Quello che è capitato a migliaia di famiglie, turche e greche, divise da un muro ma unite dallo stesso destino: non avere più notizie di un padre, una madre, un

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figlio o un marito. Persone scomparse, come se fossero entrati in quella terra di nessuno per restare imprigionati in un eterno presente. Ci sono poi muri che rubano la storia, come quelli costruiti in Iraq dopo l’invasione degli Usa e dei loro alleati nel 2003. Invece di abbatterli, ne costruiamo di nuovi, ponendoli tra sunniti e sciiti, che hanno vissuto fianco a fianco per millenni nella grande Baghdad. Nulla sarà più come prima. Quartieri sunniti e sciiti, divisi, come se volesse dire vivere assieme. ltri muri sono vecchi come i loro costruttori. Come quello che spezza la regione del Kashmir, contesa tra India e Pakistan, esiste dal 1949. La scissione di Islamabad dall’India è costata molte guerre, ma una ferita permanente. Un muro sul tetto del mondo, un muro che ha la pretesa di dividere le stelle. Ancora l’India, nel 2006, ha eretto una barriera con il Bangladesh. Per impedire ai disperati del piccolo Paese asiatico di raccogliere le briciole del boom di New Delhi. Un muro contro la serenità, quella che permette a tutti di avere qualcosa, invece che ad alcuni di avere troppo e a troppi di non avere nulla. Il muro che divide Botswana e Zimbabwe racconta dell’assurdità di tutti i muri: costruito dallo Zimbabwe per tenere lontani i migranti del vicino, adesso serve al contrario, dopo che lo Zimbabwe è stato travolto dal collasso dell’economia del regime di Mugabe. Un muro che avvolge se stesso. Altri muri sono in costruzione. La regione del Kurdistan è sempre stata un elemento d’instabilità nella regione, divisa com’è tra quattro stati. I curdi iraniani, sul modello di quelli turchi e iracheni, hanno preso le armi contro il governo centrale. Dopo il collasso del regime di Saddam in Iraq, il Kurdistan iracheno è divenuto una retrovia sicura per i guerriglieri curdi iraniani. Teheran non gradisce e ha iniziato a costruire un muro. I sauditi, invece, vogliono rendere impermeabile il loro confine meridionale. Il conflitto tra i guerriglieri sciiti (finanziati dall’Iran) e il governo centrale dello Yemen è sconfinato spesso in Arabia Saudita. Riad vuole sigillare 9000 chilometri di frontiera con un’assurda barriera, che costerà quanto migliaia di progetti di sviluppo per le province ribelli yemenite. Perché l’uomo può arrivare sulla Luna e anche oltre, ma non riesce proprio a evitare di comportarsi come un bambino, che si copre gli occhi e preferisce non vedere, piuttosto che risolvere un problema.

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In alto: Pezzi del muro di Potsdamerplatz. Berlino, Germania 2009. Federico Tovoli/Witness Journal. In basso: Murales di Banksy, noto writer inglese. Betlemme, 2008. Foto di Marcello Russo/Witness Journal


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Italia

“Poveri Voi” di Valentina Ravizza Tecnodipendenti, individualisti, ossessionati dalla carriera. Poveri di umanità. Sono gli italiani degli anni zero. Visti dall’Africa. Che ha deciso di contribuire con i suoi colori ad arginare un disagio sociale sempre più diffuso, soprattutto tra i giovani. i chiama “Poveri Voi” la prima organizzazione non governativa africana, nata per portare aiuti umanitari in Italia. Più che un’associazione, una ciambella di salvataggio, lanciata a un Paese che, secondo gli ideatori della ong, dal punto di vista umanitario è alle ultime boccate d’aria. Responsabile progetti è Koffi Michel Fadonougbo, educatore e scrittore originario del Benin. Collaboratore del festival del cinema africano, dal 1992 organizza a Milano laboratori di teatro, seminari di letteratura orale africana e incontri nelle scuole per raccontare ai ragazzi la sua terra. Un progetto ambizioso quello di “Poveri Voi”, all’inizio poco più di una provocazione, poi un sogno che potrebbe diventare realtà.

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“La nostra è un’idea nuova di cooperazione internazionale. Per molti italiani è quasi impossibile pensare che l’Africa, con tutti i suoi problemi, abbia qualcosa da insegnare loro. Noi invece vogliamo dimostrare che quello della civiltà dell’abbondanza non è l’unico modo di vita possibile”. Come si può esportare una cultura? “Bisogna partire dal minimo: dalle fiabe, dal cibo, dalla musica. Abbiamo diversi progetti, che presenteremo nei prossimi mesi e per i quali speriamo di ricevere finanziamenti dall’Unione Europea. Pensiamo di organizzare laboratori creativi, come quello per la realizzazione di maschere e strumenti musicali, ma anche corsi di teatro e danza rivolti ai ragazzi”. In occasione della presentazione di “Poveri Voi”, nel maggio 2010, avete lanciato la campagna-choc “Adotta un giovane italiano”, per proporre di sostenere a distanza un bambino italiano. “Era una provocazione, ma basata su un disagio reale. La mancanza di relazioni interpersonali, di un senso di appartenenza alla comunità è un fatto che colpisce immediatamente gli africani che arrivano in Italia. Certi malesseri come l’anoressia, lo stress, la depressione, che può aggravarsi fino a portare una persona al suicidio, spesso sono fatti di tanta solitudine e indifferenza. Si parla tanto di integrazione verso gli stranieri, ma gli italiani sono integrati tra loro?” La cultura, il modo di vivere africano certo attribuisce un altro valore alla famiglia e alla società. Tuttavia anche lì esistono gravi situazioni di emarginazione. Non c’è il rischio che la vostra organizzazione, che porta avanti un’immagine dell’Africa fatta non solo di povertà e guerre, cada in uno stereotipo opposto, ma altrettanto sbagliato? “Sicuramente il rischio di cadere nello stereotipo del buon selvaggio, di un popolo fatto solo di artisti e musicisti c’è, ed è forte. Per questo occorre 34

un’adeguata preparazione culturale prima di affrontare un viaggio in Africa. Ho degli amici scrittori, italiani, partiti per cercare i valori di cui io parlo nei miei libri e sono tornati delusi. Il fatto è che gli abitanti dei villaggi sono l’incarnazione di certi concetti, ma non sono in grado di spiegarli perché vivono in quel modo da secoli spontaneamente, non hanno gli strumenti di analisi per capire cosa tu cerchi in loro. È facile cadere nella banalità persino per chi parte con le migliori intenzioni. Per questo occorre lavorare anche una volta tornati in Italia per dare un senso e approfondire l’esperienza africana, senza farsi sopraffare dal mal d’Africa, il senso di nostalgia che spesso assale i viaggiatori di ritorno dal continente”. Uno dei vostri progetti, forse il più ambizioso, è inteso a organizzare dei viaggi di studio-lavoro per imprenditori e funzionari di pubblica amministrazione in Tanzania e Costa d’Avorio. Come intendete organizzarli e in cosa la vostra proposta si scosta dal turismo solidale già in voga da alcuni anni? “Conosciamo alcune organizzazioni impegnate sul territorio che ci aiuteranno a stabilire contatti con le comunità rurali dove verranno ospitati i partecipanti al progetto “Manager di vera vita”. L’idea è che le famiglie locali accolgano, per periodi che vanno da uno a tre mesi, gli italiani che aderiranno e li coinvolgano nelle attività, lavorative e non, del villaggio. Non è un semplice viaggio in cui si sceglie una sistemazione modesta piuttosto che un resort a cinque stelle. È un incontro alla pari tra civiltà diverse, per il quale occorre grande apertura mentale e l’umiltà di riconoscere che non si va in un Paese povero a portare il proprio aiuto, ma in una terra ricca di cultura per riceverlo. E per scoprire che si può essere felici senza telefono cellulare”. Questa assuefazione dell’uomo occidentale alla tecnologia non è anch’essa uno stereotipo? “Certo fa parte dei luoghi comuni sull’Occidente, ma credo che sia vero. Soprattutto per i giovani. Ho lavorato per anni con studenti di età diverse e l’impressione è che la dipendenza da computer e televisione li abbia impoveriti. Il loro livello culturale è molto basso: i bambini italiani stanno perdendo il senso del ritmo, la fantasia e la creatività. E con il tempo anche l’identità: non conoscono la storia locale, sono privi di radici. Da un lato penso che la riscoperta di un certo patriottismo sia positiva. Sebbene oggi ci sia più paura del diverso, più intolleranza verso gli stranieri rispetto a vent’anni fa. Dettata soprattutto dall’ignoranza. ‘Poveri Voi’ nasce anche per rispondere a questo bisogno di informazione. È vero in Africa ci sono le guerre, c’è la povertà, la fame, ma in Occidente io vedo tanta fame di Africa”. Illustrazione di Paolo Parisi, Edizioni BeccoGiallo.


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Somalia

Un sogno normale di Benedetta Guerriero L’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur/Unhcr) ha lanciato un appello per invitare i vari governi “a valutare nella maniera più ampia possibile le domande per ottenere lo status di rifugiato presentate da persone provenienti dalla Somalia e anche a estendere le forme complementari di protezione internazionale nel caso in cui lo status di rifugiato non venga concesso”. invito delle Nazioni Unite a una maggiore clemenza verso gli immigrati somali arriva a causa dell’inasprirsi dei combattimenti nella zona meridionale e centrale del Paese e all’espandersi del conflitto anche nelle aree settentrionali. Nel mezzo delle violenze ci sono i civili che in massa fuggono da Mogadiscio, epicentro della guerra, per mettersi in salvo. L’esodo dura ormai da anni e i campi profughi, allestiti alle porte di Mogadiscio e nel Nord, non possono accogliere altri rifugiati. I più fortunati espatriano e cercano di raggiungere i Paesi europei. Alcuni arrivano anche in Italia, dove la domanda di asilo politico ogni tanto viene accolta. È quanto è successo a Shuayb e Osman, due ragazzi di Mogadiscio, ospiti nel centro di prima accoglienza per rifugiati del comune di Milano. “Attualmente nel nostro centro di viale Fulvio Testi - racconta uno degli educatori che chiede l’anonimato - ci sono 50 persone, che provengono dall’Afghanistan e dal Corno d’Africa, soprattutto dall’Eritrea e dalla Somalia. I rifugiati rimangono con noi dieci mesi e hanno la possibilità di imparare la lingua e fare dei corsi di formazione”. Nonostante la timidezza e la difficoltà a esprimersi, i due giovani hanno voglia di raccontare la loro storia. Parlano a fatica la nostra lingua e male l’inglese. “Un tempo - dice Shuayb - in Somalia si studiava l’italiano, ma in seguito alla guerra non è più stato possibile. Sono nato a Mogadiscio nel 1989 e fin da piccolo mi sono trovato a vivere la guerra. La mia famiglia, cinque fratelli e i miei genitori, sono ancora a Mogadiscio e spero di riuscire a portarli in Italia”. Non è facile capire i discorsi di Shuayb che spesso interrompe la conversazione e si rivolge in somalo a Osman per chiedere aiuto sui termini da usare, tanto in inglese che in italiano. “Ho studiato a Mogadiscio - continua il giovane - ma a un certo punto ho dovuto smettere, perché era troppo alto il rischio di finire a fare il soldato. Tutti gli schieramenti, a turno, sfruttano gli studenti per fare la guerra e andare a scuola non è sicuro. Visto che a Mogadiscio non potevo né studiare né lavorare, ho deciso di partire. Il viaggio per raggiungere l’Italia è stato lunghissimo: dalla Somalia sono andato in Gibuti e poi in Eritrea. Da qui ho raggiunto Khartoum in Sudan, dove sono stato 25 giorni, e poi a Tripoli. I due mesi in Libia sono stati i più difficili, perché non c’è alcuna sensibilità per i diritti umani. Appena è stato possibile, mi sono imbarcato per Lampedusa. Insieme a me sul barcone c’erano tunisini, nigeriani, zambiani”. Da Lampedusa l’odissea di Shuayb è proseguita verso Messina, Torino per terminare, almeno per ora, a Milano. “Sono sbarcato in Italia il 7 ottobre

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2008, non potrò mai dimenticarlo. Ho pagato cinquemila dollari per raggiungere l’Italia e ho sempre viaggiato da solo. Per tanti giorni ho dormito nelle stazioni, nei parchi e, essendo solo, non avevo nessuno che potesse aiutarmi. Per questo ho continuato a girare, ma adesso spero di fermarmi a Milano. Sono il più grande dei miei fratelli e vorrei riuscire a far venire qui la mia famiglia. In Somalia esistono solo due alternative per i giovani: morire combattendo o partire”. entre Shuayb racconta, Osman canta a bassa voce e ogni tanto, su invito dell’amico, interviene per aiutarlo a trovare le parole per esprimersi. Raramente distoglie gli occhi da terra e evita di incrociare lo sguardo di chi ha intorno. Nato nel 1988 a Mogadiscio, Osman stringe tra le mani un foglio in cui ha segnato i principali vocaboli italiani. Continuamente lo ripone nella tasca per poi ritirarlo fuori e studiare. Un gesto quasi ossessivo. Lentamente inizia a parlare della sua storia e dei suoi ricordi della Somalia, dove ha lasciato cinque fratelli e due sorelle. “La mia famiglia - dice il ragazzo - si è trasferita da Mogadiscio a Balad. Nella capitale non era più possibile rimanere. Chi esce non è mai sicuro di tornare a casa. Mio fratello maggiore è stato ucciso dagli Shabaab e i miei genitori hanno deciso di farmi partire. Non ho studiato, sono andato a scuola solo un anno, e volevo restare nel mio Paese. Facevo l’autista, ma ho smesso per colpa della guerra. Le strade non sono sicure, ci sono soldati e guerriglieri da tutte le parti, bombe che esplodono all’improvviso”. Durante il discorso, Osman si anima e, anche se spesso non riesce a trovare le parole, rifiuta l’aiuto dell’amico che mette a tacere, non appena cerca di intervenire. “Sono partito da Mogadiscio nel febbraio 2008 e sono arrivato a Lampedusa a settembre. Ho fatto tappa ad Addis Abeba per un mese e dieci giorni, dove mi ha ospitato un conoscente e poi a Khartoum per due mesi. Dal Sudan ho raggiunto Tripoli. Dopo altri due mesi sono partito per Lampedusa e da qui per Caltanissetta, dove ho vissuto in un centro per rifugiati per sei mesi. Dalla Sicilia sono andato a Roma, poi a Torino e infine a Milano. Mi dicevano che lì avrei trovato lavoro, ma non è accaduto. Ora sto cercando di studiare la lingua. Il mio sogno è prendere la patente e tornare a fare l’autista”.

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Mogadiscio 2008. Foto di Ugo Borga per PeaceReporter


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Tunisia

La memoria del mare di Gabriele Del Grande Un sogno che diventa realtà. Così i depliant turistici presentano le “perle” del litorale tunisino, Djerba e Zarzis. La costa sud del golfo di Gabès è visitata ogni anno da milioni di turisti. I pacchetti vacanza non mancano, e la bellezza dei luoghi è accresciuta dal fascino del mito, perché fu a Djerba che Omero condusse i compagni di Ulisse rapiti dai fiori di loto. ungo quelle stesse spiagge, tra Zarzis e Ras Jedir, ogni giorno dopo il turno alle Poste, Mohsen Lihidheb raccoglie gli oggetti consegnati dal mare lungo 150 chilometri di spiagge. Lo fa da ormai 13 anni. Trova soprattutto bottiglie di plastica, ma anche tavole da surf, canapi, testuggini, lampade al neon, elmetti, spugne, tronchi di legno, palloncini scoppiati. Mohsen ne ha creato un museo, il Museo della memoria del mare. Una memoria di plastica, fatta di opere d’arte sui paradossi dell’uomo moderno, costruite con i rifiuti recuperati nelle spedizioni ecologiche sul mare. Una delle installazioni, al centro del giardino circondato da mura di bottiglie di plastica colorate, è dedicata a Mamadou. È una montagna di almeno 150 paia di scarpe. Sono scarpe nuove, sono scarpe sportive e giovanili. Roba che non si butta. Sono le scarpe dei naufraghi. Perché è nel golfo di Gabès che ha inizio il cimitero Mediterraneo. Mohsen custodisce con cura quelle scarpe insieme a un centinaio di camicie, giacche, pantaloni, maglioni e magliette recuperati a riva, strappati dai corpi sepolti nel mare. Sono tutti lavati e appesi in modo ordinato sotto una tettoia. “Sono l’unico monumento che ricorda la strage che sta avvenendo quaggiù” dice Mohsen.

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Da qualche anno il mare consegna i corpi dei naufraghi alle spiagge di Zarzis. Fuori dalla città, verso Ben Garden, vicino alla frontiera, esiste addirittura una specie di cimitero segreto, tra le dune. Nessuno sa dove sia, ma è sicuro che ci sia e che vi siano sepolte almeno una sessantina di persone. Prima li portavano nei cimiteri di Zarzis, ma poi sono diventati troppi. E l’odore acre che bruciava nell’aria dopo il passaggio del camion con i corpi tardava a sparire. Mohsen nelle sue spedizioni ha ritrovato tre cadaveri e altri tre pezzi di corpi. La prima volta nell’agosto del 2002. “Da qualche giorno si diceva in giro del ritrovamento di parecchi cadaveri sulle spiagge di Zarzis. La gente mi chiedeva se avessi trovato la mia parte di naufraghi, scherzando. Ma io non scherzavo affatto. Ogni volta che entravo in acqua sentivo l’angoscia salire allo stomaco. Avanzavo con cautela, ero scalzo, avevo paura di toccare uno dei cadaveri sottacqua. Il mare mi aveva consegnato prima l’immondizia del nord, giunta dal Canale di Sicilia. Poi i messaggi in bottiglia che parlavano della crisi dell’uomo moderno e finalmente le onde mi portavano la prima vittima in carne e ossa della corsa verso l’Occidente. L’avevo visto da lontano. All’inizio sembrava una tartaruga rivolta sul guscio. Quando mi sono accorto che era un essere umano mi sono sentito mancare. Il battito del cuore mi assordava. Era là bocconi, coperto dalle alghe fino al ginocchio e sopra la testa. Taglia media, quel corpo muscoloso in vita era stato consumato dal sole e dalle onde, la pelle beige. Con le lacrime agli occhi ho recitato il Corano e ho pre38

gato Mosé, Cristo e tutti gli dei perché dessero la pace all’anima di Mamadou. Poi ho gridato con tutte le corde della rabbia la mia collera. Non ho voluto fare foto al mio amico, perché il suo corpo, il suo spirito e la sua bellezza appartengono soltanto a dio”. Mohsen chiama la polizia, che provvede a raccogliere il cadavere e a dargli degna sepoltura. La sera a casa ordina alla moglie una buona cena per tutta la famiglia. “A casa ne ho parlato solo qualche giorno dopo, ma quella sera volevo festeggiare, perché Mamadou non dormiva più al freddo”. on sempre le salme si conservano dopo settimane e mesi nel mare. Il 21 ottobre 2005 Mohsen trova un altro Mamadou. “Quella volta non c’era più il corpo, solo un teschio bianco sporco di alghe e le ossa del busto, strette insieme dalla cintola gialla dei pantaloni blu, annodati su se stessi, senza più le ossa delle gambe”. Insieme a un amico trasportano i resti dell’uomo su una collina di sabbia e lo interrano recitando versetti coranici rotti sul finale da un grido di rabbia. Su quella stessa spiaggia qualche settimana più tardi Mohsen trova un fischietto di plastica. Gli ispira una poesia, in cui gli domanda perché, perché non ha fischiato contro la barca dei clandestini, perché non ha bloccato la strada dei loro destini. Sarebbe bastato poco, un soffio e un fischio nell’aria. Un cartellino giallo e un cartellino rosso all’occorrenza. Fermi tutti, nessuno si muova, e avrebbe salvato gli sfortunati perduti nell’immenso blu. Eppure quando lo ha raccolto sulla sabbia e ha provato a soffiarci dentro suonava, suonava eccome, lo strillo assordava i timpani, adesso che non ce n’era bisogno. Non hanno fatto il proprio dovere, né il fischietto né l’arbitro, lo sguardo distratto, altrove, complici anche loro dell’ennesima tragedia.

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Accanto al mucchio di scarpe al museo, Mamadou e la principessa annegata. Due manichini di legno con indosso i panni dei naufraghi. Cappellino e tuta di nylon lui. Mezzo busto rosa lei. A pochi passi un sole di grosse ampolle al tungsteno e raggi di neon abbracciato da un grande canapo. Mohsen dice che rappresenta l’intelligenza umana contrapposta alla distruzione di massa dei viaggi verso il nord. C’è anche una poesia. “Mamadou dì a tua madre che sei stato il benvenuto, e che abbiamo pregato perché tu sia benedetto. Mamadou racconta al tuo dio, qualunque esso sia, quanto l’uomo soffra e si affligga. Mamadou va’ dai tuoi fratelli e dì loro che la felicità non era altrove e che forse era tutto una maledetta chimera”. In alto: Migranti attraversano il deserto del Tènèrè. Niger 2009. Alfredo Bini/Witness Journal. In basso: Foto archivio PeaceReporter


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7 Bolivia

Proprietà privata, interesse collettivo di Alessandro Grandi

La proprietà privata è uno dei diritti contemplati nella dichiarazione dei diritti dell’uomo. Ma chi stabilisce la stessa proprietà? Padre Alex Zanottelli spesso racconta: “Una volta era la terra, coltivata da tutti, comunitariamente. La gente apparteneva alla terra, ma la terra non apparteneva alla gente. Poi, nell’Inghilterra dei Tudor, si cominciarono a recintare i terreni e nacque così la proprietà privata. Nei secoli seguenti ci siamo spartiti tutto: prima è stata la volta dei mari, oggi di proprietà di questa o quella nazione, poi è stata la volta dei cieli e dell’aria, divisa in corridoi aerei. Ora, tocca ai beni comuni”. hi può dare una risposta così impegnativa se, per esempio, si deve analizzare la situazione boliviana? Soprattutto in questo caso bisogna fare alcune premesse per capire cosa succede oggi e se il diritto alla proprietà privata può risultare un paradosso. Come il cane che si morde la coda. Nel corso dei secoli precedenti la colonizzazione spagnola dell’area dove oggi si trovano i confini boliviani, le popolazioni native gestivano le terre in modo oculato. Il loro sfruttamento era utile al bene comune. Di conseguenza al benessere di tutta la comunità. Poi sono arrivati gli spagnoli. Battaglie e massacri, violenze e soprusi, hanno condizionato tutta la vita (se così possiamo considerarla) degli Indios, che hanno perso tutto. Diritti e beni materiali. Per secoli tutto è proseguito senza che nessuno si ponesse il benché minimo problema sul diritto alle terre per gli Indios. L’arricchimento di pochi contro la povertà di molti è stato il leit motiv che fino a qualche anno fa ha abbracciato la Bolivia. Il discorso è complesso. Più o meno all’improvviso molti Indios hanno perso il diritto a coltivare le terre che per millenni erano state coltivate dai loro antenati. Non avendo più terra da coltivare la società indigena ha anche faticato molto a svilupparsi e a mantenere salde le proprie origini, le proprie tradizioni. Ha dovuto combattere molto e piangere anche diversi morti durante i soprusi dei bianchi, che si credevano padroni di terre che nemmeno conoscevano solo perché avevano uno straccio di documento ottenuto con la corruzione che ne attestava la proprietà. È successo molte volte da quelle parti. Oggi non è più così.

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È iniziato a non essere più così quando alla porta della politica nazionale boliviana si è affacciato un giovane indio aymara. Un sindacalista. Un ex lavoratore del settore della foglia di coca. Un uomo che ha conosciuto la fatica e ha combattuto contro i soprusi per rivendicare i diritti degli ultimi. Per riportare gli Indios a contare a casa loro, come un tempo. C’è voluta tutta la forza di questo uomo, Evo Morales, per riportare ordine in un sistema che proprio per quanto riguarda la proprietà privata, è sempre stato sotto scacco della corruzione e delle manipolazioni della politica. L’aveva promesso e ha mantenuto gli impegni: costruire una nuova Bolivia. Per farlo ha messo sul tavolo una nuova Costituzione, certo senza non poche polemiche. Ma l’ha fatto. In quelle nuove pagine della Carta boliviana si parla anche di proprietà privata. La quarta sezione della nuova Costituzione approvata nel febbraio del 2009 è dedicata alla proprietà privata. Il primo comma dell’articolo 56 definisce 40

che: “Tutte le persone hanno diritto alla proprietà privata individuale e collettiva, sempre che si compia con funzioni sociali”. Il secondo comma però, utile a meglio far funzionare il precedente conferma che verrà “garantita la proprietà privata sempre che l’uso che si fa della stessa non arrechi danno all’interesse collettivo”. Insomma, un nuovo modo (per alcuni troppo socialista) per confermare il diritto alla proprietà privata, ma sapendo che lo Stato è pronto a vigilare. In tutto questo, forse per mettere anche al riparo, ad esempio i piccoli coltivatori dell’altipiano, si garantisce “il diritto alla successione ereditaria”. E, grazie all'approvazione della nuova Costituzione, si è messa di fatto la parola fine allo strapotere dei latifondisti: il voto ha infatti stabilito che la proprietà privata di terra non dovrà superare i 5mila ettari. In questo modo si eliminerà progressivamente il latifondo che in Bolivia è stato uno dei mali peggiori. come si può dimenticare ciò che è successo sempre in Bolivia nel 2000? In quel tempo l’amministrazione di La Paz cadde in una sorta d’imboscata organizzata dalla Banca Mondiale. Per la ristrutturazione della rete idrica, e quindi di tutti i servizi utili alla popolazione, nella zona di Cochabamba il governo chiese alla Banca Mondiale un prestito. Che venne concesso ma a patto che la rete idrica venisse privatizzata. Così chiese la Banca Mondiale e così La Paz fece. L’acqua, bene essenziale e comune, finiva nelle mani di due aziende private. Una statunitense, la Bechtel, e l’altra italiana, la Edison. In breve, i prezzi dell’acqua subirono un innalzamento del 300 percento. L'accesso a quello che era diventato un bene privato non era più aperto a tutti. Ovviamente, poi, chi non era in grado di onorare le bollette, che erano diventate molto salate, vedeva il consorzio confiscare le loro case e rivenderle al miglior offerente. E, c’è anche una storia incredibile. Senza una licenza (dal prezzo proibitivo per i più) rilasciata dal consorzio BechtelEdison, i cittadini di Cochabamba, la terza città per ordine di grandezza della Bolivia, non potevano nemmeno raccogliere l’acqua piovana. La proprietà privata si era impossessata anche dell’acqua del cielo. Ci furono lotte e battaglie a tutto campo. Molti i morti fra la popolazione che protestava. Molti i fermi di polizia. Ma la lotta, la perseveranza e la convinzione di difendere qualcosa di giusto da parte della popolazione ebbero la meglio e il governo fu costretto a fare marcia indietro.

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Lavoratore del settore minerario. La Paz 2009. Bolivia. Foto di Alessandro Grandi©PeaceReporter


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io sto con

emergency

FIRENZE INCONTRO NAZIONALE 2010 7+8+9+10+11+12 settembre

6 giorni di spettacoli teatrali, proiezioni video, film e concerti per festeggiare i primi 16 anni di EMERGENCY insieme ai protagonisti e agli amici che ne hanno condiviso la storia.

* per favore, segnatevi questa data* INFO: T +39 02 881881 Ä firenze2010@emergency.it http://firenze.emergency.it

SEGUIRÀ INVIO DEL PROGRAMMA DETTAGLIATO


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