mensile - anno 2 numero 9 - settembre 2008
poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano
Sri Lanka Viaggio in una guerra ignorata
Senegal Il grido strozzato Sudafrica L’infanzia rubata Serbia Vivere tra i fantasmi Georgia Le radici del conflitto Italia Don Milani in esilio di Enrico Panini Mondo Caucaso, Pakistan, Libano, Balcani Speciale Olimpiadi Il lato B dei Giochi di Pechino Gino Strada
Curare chiunque ne abbia bisogno è il contenuto del mio lavoro
L’undicesimo fascicolo dell’atlante: Nigeria
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La guerra: il modo più vigliacco per eludere i problemi della pace. Thomas Mann
settembre 2008 mensile - anno 2, numero 9
Direttore Maso Notarianni
Redattori Christian Elia Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Stella Spinelli Naoki Tomasini Alessandro Ursic
Progetto grafico Guido Scarabottolo Segreteria di redazione Silvina Grippaldi Relazioni esterne Marco Formigoni Amministrazione Annalisa Braga Redazione e amministrazione Via Meravigli 12 20123 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net
Stampa Graphicscalve Loc. Ponte Formello - 24020 Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 30 agosto 2008
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Caporedattore Angelo Miotto Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Nicola Aporti Alessandro Baretti Gabriele Battaglia Blue & Joy Lucio Cascavilla Cikin Gabriele Del Grande Silvia Del Pozzo Nicola Falcinella Giorgio Gabbi Kuang Biye Paolo Lezziero Sergio Lotti Luigi Milani Enrico Panini Stefano Piazza Claudio Sabelli Fioretti John Salamini Gino Strada Jasmine Tesanovic Vauro Hanno collaborato per le foto Gabriele Battaglia Massimo Di Nonno/Prospekt Luca Ferrari/Prospekt Alessandro Franzetti Andrea Pagliarulo/Prospekt Samuele Pellecchia/Prospekt Alexey Pivoravov/Prospekt
Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Meravigli 12 - 20123 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07 Foto di copertina: Un anziano malato di fronte alla sua baracca nel campo di sfollati tamil di Poonthoddam, nell distretto di Vavuniya. Sri Lanka 2008. Luca Ferrari/Prospekt
Approfittiamo del primo compleanno del mensile per fare un bilancio. Non era affatto scontato che una impresa come la nostra, costruita da persone giovanissime e per la maggior parte alle prime armi, ottenesse in pochi anni tanti risultati. Prima tra tutti l'autorevolezza: siamo oggi considerati uno dei più importanti mezzi di informazione sull'estero. Poi, e questo era invece previsto, siamo riusciti a occuparci di zone del mondo e di temi del tutto sconosciuti ai grandi mezzi di comunicazione, ma non per questo poco interessanti per il grande pubblico. Siamo stati in Cecenia, erano molti anni che nessun giornalista raccontava quel Paese. Siamo stati nelle Filippine, che molti di noi conoscono solo per la manodopera a basso costo che fornisce alle famiglie e alle imprese italiane, un Paese colpito da un decennale conflitto di cui nessuno sembra accorgersi. Prima che la Colombia tornasse sulle prime pagine dei giornali abbiamo raccontato la dura realtà di un territorio spaccato in due, la vita difficile dei contadini, e quella terribile degli ostaggi delle Farc. I motivi di chi imbraccia un mitra per combattere un regime, di chi sceglie di stare comunque nella legalità cercando di modificarlo dall'interno e di chi decide di non stare né con la guerriglia né con lo Stato, e le prende da tutti e due. Abbiamo raccontato le sponde del Mediterraneo, cercando di far toccare con mano le motivazioni di chi sceglie di rischiare la pelle per attraversarlo. Molti, in questi anni, ci han detto che siamo “antiamericani”. Non è vero per niente: abbiamo raccontato tanti Paesi e tanti conflitti, anche Paesi dove esistono conflitti e guerre che non coinvolgono gli Stati Uniti. Non sono moltissimi, se paragonati a quelli in cui un coinvolgimento dei Paesi europei e degli Stati Uniti d'America - anche solo sotto forma di interessi economici - invece esiste. Ma questo probabilmente dipende dal fatto che è normale che i paesi più potenti e cresciuti economicamente, dove la ricchezza è tutto sommato diffusa, abbiano la necessità di mantenere tale livello di ricchezza. Il nostro compito non è scegliere se quello che raccontiamo sia giusto o sbagliato. È quello di raccontare quello che succede. E, nel caso dei conflitti, di mostrare quanto la guerra sia uno strumento prima di tutto orrendo, ma anche “vecchio” e antieconomico. Nella speranza che il “toccare con mano” che cerchiamo di trasmettere ai nostri lettori serva a renderli più consapevoli. In modo da contribuire almeno un po', nel nostro piccolo, a fare cessare le guerre in ogni luogo del pianeta. E nella nostra testa - strana - di umani. Questo è quel che fanno le persone: usare le loro idee e la loro capacità professionale per ottenere un obiettivo, e la fine delle guerre è il nostro unico obiettivo, importante quanto difficile. Sappiamo bene che i nostri poveri strumenti non sono potenti quanto quelli dei grandi gruppi editoriali. Il nuovo anno di PeaceReporter, sito e mensile, sarà duro e impegnativo. Abbiamo il dovere di farci leggere da chi di solito non viene raggiunto dalle notizie che arrivano da tante parti del mondo. Abbiamo il dovere di diffondere - in poche parole - una nuova cultura della pace. Possiamo farlo trasmettendo quel poco di conoscenza che abbiamo e imparando a parlare una lingua comprensibile a tutti. Per questo, dal prossimo mese, saremo anche in molte edicole italiane. Ma ancora una volta abbiamo bisogno dell’aiuto dei nostri lettori e dei nostri sostenitori. Perché si impegnino, con noi, a portare le storie che racontiamo a quante più persone possibile. Perché si impegnino con noi a diffondere questo giornale e il sito Internet. Migranti a pagina 24
Italia a pagina 18 Cina a pagina 26
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Serbia a pagina 16
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Sudafrica a pagina 14
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Senegal a pagina 10
Sri Lanka a pagina 4 Georgia a pagina 22 3
Il reportage Sri Lanka
La guerra ignorata Di Enrico Piovesana Retrovia del fronte di Mannar. Il sole alto arroventa l’aria umida, immobile sopra le risaie piatte punteggiate da rare palme spelacchiate. Le cicale cantano incuranti dei boati dell’artiglieria che bombarda senza sosta pochi chilometri più a nord, dove le forze governative cercano da mesi di sfondare le linee di difesa delle Tigri tamil una guerra di trincea che ricorda quella del ‘15-‘18. Anche i soldati, giovani singalesi con lo sguardo stanco, sembrano non far caso ai tuoni senza eco di questo temporale senza nuvole. Se ne stanno in piedi dietro una barriera fatta di terra, sacchi di sabbia e copertoni riempiti di cemento. Uno di loro, seduto su un minuscolo banchetto di scuola arrivato qui chissà come, tiene in una mano il suo T-56 – la versione cinese del Kalashnikov – e nell’altra una bottiglia d’acqua di plastica quasi vuota. Ci osserva senza parlare, come tutti i suoi giovani compagni d’armi. Nessuno di loro conosce l’inglese. Ma lui si fa coraggio, si alza e ci viene incontro. È timido. Ci chiede una sigaretta portando due dita alle labbra. Delle sue parole afferriamo solo “Itàly” e “money”. Con i gesti riesce a farci capire che vorrebbe emigrare nel nostro Paese in cerca di un lavoro. Sorride imbarazzato e per chiarire che sarebbe disposto a qualsiasi occupazione prende il suo fucile e, impugnandolo per la canna con due mani, lo dondola verso terra come fosse una scopa. Interviene un altro soldato che conosce qualche parola di inglese. L’aspirante spazzino si chiama Pamu, ha diciannove anni, è figlio di contadini. Gli chiediamo se non è fiero di difendere la sua patria dai terroristi. Lui abbassa lo sguardo, poi spiega di essersi arruolato per la paga – duecento dollari al mese per chi accetta di venire al fronte – ma di aver poi realizzato che non vale la pena di farsi ammazzare. “Cosa ci faccio con i soldi quando sono morto!”. La paura di Pamu è fondata. In questa guerra d’altri tempi i soldati in prima linea cadono come mosche sui campi di battaglia: quasi cinquecento militari morti solo negli ultimi sei mesi. Un’ecatombe che prosegue da venticinque anni e che ogni anno spinge alla diserzione tra i quindici e i ventimila soldati. Poveri ragazzi singalesi di campagna, mandati a morire nelle risaie e nelle giungle del nord per “liberare il paese dai terroristi”, cioè per uccidere ragazzi tamil poveri come loro che sono costretti a combattere per difendere la propria terra e la propria gente. Dopo oltre due ore di attesa sotto il sole, di minuziose perquisizioni e di domande ripetute alla “Chi siete? Cosa portate? Un fiorino!”, l’antipatico ufficiale al comando del checkpoint ci dice che dal quartier generale di Mannar ha avuto ordine via radio di non farci proseguire oltre: “Mi dispiace, questa è zona di operazioni e senza permesso del ministero della Difesa non si passa”. Dopodiché dà un ordine a un soldato che sparisce dietro un bunker e riappare poco dopo, chissà da dove, con delle tazze di porcellana piene di tè al latte. Una cortesia che non ci ripaga della delusione di non poter raggiungere il vicino campo profughi di Nanatan, dove si sono rifugiati centinaia di civili tamil fuggiti dal villaggio di Arippu, appena conquistato dall’esercito dopo pesanti bombardamenti aerei e battaglie campali. A Vavuniya, l’ultima grande città prima del fronte, Rohintha Priyadarshna, giovane avvocato singalese direttore della locale Commissione per i diritti umani, ci aveva mostrato la denuncia di alcuni sfollati di Arippu che raccontavano cosa era successo
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dopo l’arrivo dei soldati: i militari hanno appeso agli alberi e sui muri dei manifesti che invitavano tutti i giovani del villaggio che avessero ricevuto addestramento militare dalle Tigri tamil a presentarsi al comando per rispondere ad alcune domande. In molti sono andati: sono stati picchiati e torturati, e di alcuni non si sa più nulla. ordine di dietrofront ci impedisce di incontrare anche il vescovo cattolico di Mannar, monsignor Joseph Rayappu. Un anziano e battagliero uomo di Chiesa che lo scorso aprile ha sfidato il governo di Colombo ordinando il trasferimento di una famosa statua della Vergine Maria in territorio ribelle, sotto protezione delle Tigri tamil, dopo che l’esercito aveva bombardato il santuario dove essa veniva venerata da oltre quattro secoli. Torniamo quindi a Vavuniya. È abitata da popolazione tamil – in maggioranza sfollati provenienti dal nord – e di fatto occupata dall’esercito singalese. I blindati sfrecciano per le strade lasciandosi dietro nuvole nere di gas di scarico. Soldati con elmetto, mitra e giberne presidiano ogni incrocio con fortini protetti da sacchi di sabbia e filo spinato, e pattugliano le strade fermando e perquisendo senza sosta i passanti, giovani, donne, anziani. Dopo il tramonto, la città assume un’aria spettrale. Per le strade deserte, buie per la mancanza di illuminazione pubblica, rimangono solo militari, branchi di scheletrici cani randagi e qualche ubriaco inebetito dall’arrack, il rum locale ottenuto dalla linfa delle palme da cocco; gli unici suoni sono il canto dei grilli, i rombi sordi e lontani dei colpi di mortaio al fronte e i rotori degli elicotteri da combattimento che volano bassi e a luci spente verso le prime linee. Con il buio vige un coprifuoco non dichiarato ed entrano in azione i paramilitari: armi in pugno e volto coperto, fanno irruzione nelle case e rapiscono i giovani tamil sospettati di legami con le Tigri. “Succede ogni notte, qui in città e nei villaggi della zona”, ci racconta Priyadarshna, il direttore della Commissione diritti umani. “Le vittime di questi sequestri vengono interrogate e torturate per ottenere informazioni sui ribelli. Spesso vengono uccise o semplicemente spariscono nel nulla. Solo da questo distretto riceviamo in media una ventina di denunce di sparizione al mese, ma sicuramente sono di più: molti hanno paura di sporgere denuncia. Noi chiediamo alla polizia di indagare, ma non serve a niente perché i paramilitari sono protetti dal governo, lavorano per loro. Io stesso – ci dice il giovane direttore – sono stato minacciato di morte più di una volta. Chiunque in questo Paese osi difendere i diritti umani dei cittadini tamil rischia di fare una brutta fine, sia esso un politico, un giornalista, un avvocato, un prete”. Ne sa qualcosa l’onorevole Sivanathan Kishore, parlamentare dell’Alleanza
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In alto: Linea ferroviaria Colombo-Batticaloa, più volte colpita da attentati. In basso: Colombo, il quartiere di Pettah è la zona con la maggiore varietà etnica del Paese. Sri Lanka 2008. Luca Ferrari per PeaceReporter
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nazionale tamil (Tna), più volte vittima di atti intimidatori e falliti attentati. Ci riceve in pareo floreale e a torso nudo nella sua casa-ufficio. E’ un uomo grande e grosso, dai modi rudi ma dallo sguardo buono e intelligente. “Pochi mesi fa, di notte, i paramilitari hanno lanciato sei granate qui nel cortile d’ingresso, uccidendo una delle mie guardie. E non era la prima volta. Vogliono farmi paura, vogliono che smetta di denunciare in Parlamento le violenze, le persecuzioni e le discriminazioni che la mia gente subisce dal governo razzista e criminale di Colombo. Dovete sapere – spiega Kishore – che questa guerra, come tante altre, affonda le sue radici nel dominio coloniale britannico: gli inglesi, fedeli al principio del divide et impera, scelsero di affidare l’amministrazione locale alla minoranza tamil piuttosto che alla maggioranza singalese. Ai tamil venne quindi insegnato l’inglese e garantito l’accesso alle università e a tutti i posti chiave nell’amministrazione pubblica, nell’esercito e nell’economia. Questo creò nei singalesi un forte risentimento, un senso di frustrazione e un desiderio di rivalsa che ebbe sfogo dopo l’indipendenza del 1948, quando i nazionalisti singalesi presero il potere e lo usarono per emarginare i tamil, epurandoli da tutti gli impieghi governativi e discriminandoli in ogni modo. Nacque così, come reazione, un sentimento nazionalista e indipendentista tra i tamil, che fu violentemente represso dagli apparati di sicurezza governativi. Il clima di scontro – spiega l’onorevole Kishore – crebbe fino a esplodere con i pogrom del ‘luglio nero’ del 1983, quando folle di singalesi aizzate dal governo massacrarono in pochi giorni oltre mille tamil. Fu la scintilla della guerra civile: le Tigri per la liberazione della patria tamil (Ltte), il più forte movimento indipendentista dell’epoca, scatenò l’insurrezione armata nelle regioni tamil del nord e dell’est del Paese”. a allora lo Sri Lanka è in una guerra perenne che ha ucciso finora oltre settantamila persone. Le speranze di pace suscitate dal cessate il fuoco del 2002 e dalla tregua ‘naturalmente’ imposta nel 2004 dallo tsunami (che colpì le regioni tamil uccidendo più di trentamila persone), sono naufragate con l’avvento al potere nel 2005 del presidente nazionalista Mahinda Rajapaksa, deciso a percorrere fino in fondo la via militare rifiutando ogni dialogo con l’Ltte. Dal 2006 la guerra è ripresa, più feroce di prima: in meno di tre anni si contano circa quindicimila morti. Nel 2007 l’esercito ha riconquistato le regioni tamil sulla costa orientale e dall’inizio del 2008 è partita l’offensiva al nord, attualmente in corso. Incontriamo un responsabile delle Nazioni Unite, un inglese che lavora da anni qui in Sri Lanka, soprattutto nei territori controllati dall’Ltte. Conosce a fondo la realtà di questo conflitto e accetta di parlarne. Ma, essendo un dipendente Onu, non vuole che il suo nome venga citato. “Questa è una guerra fottutamente sporca. Dal 2006 nessun giornalista straniero è riuscito a mettere piede a Vanni, la regione controllata dai ribelli. E anche per le Ong e per noi dell’Onu è sempre più difficile lavorare. Questa è l’unica zona di guerra al mondo, assieme ai Territori occupati palestinesi, dove il governo non riconosce libertà di movimento al personale delle Nazioni Unite e ci considera sostenitori dei ribelli solo perché, com’è normale, lavoriamo anche per supportare la popolazione che vive nelle zone controllate dalle Tigri. Il governo, semplicemente, non vuole testimoni dei crimini che sta commettendo contro la popolazione tamil. Mi riferisco in particolare ai bombardamenti aerei indiscriminati sui villaggi e ai sempre più frequenti e sanguinosi attentati contro i civili compiuti in territorio Ltte dalle forze speciali, delle cosiddette Unità di penetrazione profonda (Dpu): azioni terroristiche governative, di cui nessuno parla mai, a cui i ribelli rispondono puntualmente con gli attentati nel sud del Paese, che tutti invece conosciamo. Ma la cosa più grave dal punto di vista delle violazioni di tutte le convenzioni internazionali – continua il responsabile Onu – è quello che succede nei territori ribelli ‘liberati’ o, sarebbe più giusto dire, occupati dall’esercito. La popolazione locale viene costretta a fuggire prima con la distruzione delle loro case, poi con i rastrellamenti e con i rapimenti, gli stupri, le torture e gli omicidi commessi dalle ‘squadre della morte’, composte da ex-criminali che hanno barattato il carcere per il fronte. Si riconoscono, oltre che dalle brutte facce, perché non hanno nessun distintivo sulla mimetica e portano dei bandana in testa”. A Vavuniya e a Batticaloa li avvisteremo più di una volta. “Dopo aver cacciato la popolazione tamil – prosegue l’inglese – queste aree
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vengono dichiarate ‘Zone di massima sicurezza’, poste sotto controllo militare e spesso ripopolate da gente singalese fatta venire dal sud e installata in insediamenti protetti da postazioni militari. Insomma, qui siamo di fronte a una politica di pulizia etnica e colonizzazione che, di nuovo, ricorda molto da vicino quel che accade in Palestina. Come se non bastasse, ultimamente gli sfollati tamil vengono rinchiusi in campi profughi governativi sorvegliati dalla polizia, i cosiddetti ‘centri di assistenza’, dai quali possono muoversi solo con il permesso delle autorità”. Ne avremo conferma pochi giorni dopo, riuscendo a intrufolarci nel centro di Punthoddam, fuori Vavuniya: una baraccopoli abitata da centinaia di profughi che vivono in condizioni drammatiche, senza nessuna assistenza da parte del governo, presente solo sotto forma di poliziotti armati che sorvegliano l’ingresso del campo. “Non stupisce – osserva il britannico delle Nazioni Unite – che ormai i civili in fuga dai combattimenti preferiscano scappare a nord, all’interno del territorio controllato dall’Ltte, piuttosto che venire a sud in territorio governativo, dove sanno che verranno trattati come criminali, discriminati e perseguitati dalla polizia per il solo fatto di essere tamil provenienti dai territori ribelli”. “Ma perché – gli chiediamo – l’Onu non denuncia questa situazione, perché il Consiglio di Sicurezza non condanna il governo di Colombo?”. “Per vari motivi”, risponde lui. “Innanzitutto Stati Uniti, Gran Bretagna, Europa, Israele, India, Russia, Cina sostengono il governo dello Sri Lanka nella sua ‘guerra al terrorismo’ perché tutti questi Paesi fanno affari d’oro con la fornitura di armamenti all’esercito di Colombo. Poi ci sono i giacimenti petroliferi sottomarini recentemente scoperti al largo dei territori controllati dell’Ltte: un tesoro che fa gola a molti Paesi ma che non potrà essere sfruttato finché le Tigri non verranno sconfitte. Infine, unica ragione giustificabile, una condanna dell’Onu comporterebbe per rappresaglia l’immediata cessazione delle nostre attività in questo Paese, e a farne le spese sarebbe proprio la popolazione tamil. Comunque, qualcosa si sta muovendo: dopo le crescenti denunce delle organizzazioni internazionali per i diritti umani, a maggio lo Sri Lanka è stato buttato fuori dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite”. olombo, la capitale, è una brutta e caotica metropoli sorta in epoca coloniale attorno a piantagioni di cannella. Il centro storico, dove si trovano i palazzi del governo, è un quartiere morto, deserto, militarizzato, chiuso al traffico e ai pedoni da barricate di ferro, cavalli di frisia e filo spinato sorvegliati da decine di soldati e poliziotti. Negozi e ristoranti hanno le serrande sbarrate chissà da quanti anni. Per le strade sfrecciano solo le auto blindate di qualcuno degli ottantacinque ministri del governo, scortate da jeep piene di soldati con i mitra puntati verso i marciapiedi. “Il governo chiede sacrifici alla popolazione per sostenere lo sforzo bellico, raddoppia da un giorno all’altro i prezzi di benzina e trasporti pubblici e vieta gli scioperi accusando i sindacati di aiutare il terrorismo”, ci dice Vedivel Thevaraj, direttore di Virakesari, principale giornale tamil. “Ma intanto Rajapaksa ha appena ordinato in Germania otto Mercedes blindate extralusso per quattrocento milioni di dollari! Questo è il nostro governo: massacra noi tamil, ma opprime e affama anche i singalesi, in nome della guerra”. Com’è possibile che non esista un movimento per la pace, nemmeno negli ambienti religiosi buddisti? “Non esiste perché la gente è vittima della martellante propaganda governativa, che diffonde l’odio e la paura verso i tamil e infonde la falsa convinzione che il nemico sarà presto sconfitto e che quindi basta avere un po’ di pazienza. I buddisti? Qui in Sri Lanka il buddismo è religione di Stato e simbolo dell’identità nazionale singalese: il clero buddista è filo-governativo, ultranazionalista e profondamente razzista. I monaci si sono sempre opposti duramente a qualsiasi trattativa con i tamil e hanno contrastato, anche con la forza, ogni timida manifestazione di pacifismo all’interno della società singalese. So che per l’idea che avete voi in Occidente del buddismo questo vi pare assurdo, ma qui le cose, purtroppo, stanno così. In questo Paese la pace non sembra avere molte speranze”.
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In alto: Un soldato pattuglia la zona musulmana di Batticaloa. In basso: Il campo di sfollati Tamil di Poonthoddam, nel distretto di Vavuniya. Sri Lanka 2008. Luca Ferrari per PeaceReporter
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I cinque sensi dello Sri Lanka
Udito Le litanie dei monaci buddisti e lo stormire del vento tra le foglie al tempio dell’albero dell’illuminazione del Budda, un enorme banano vecchio di 2.300 anni, nella città di Anuradhapura. Il gracchiare delle centinaia di corvi che nelle città sostituiscono i nostri piccioni e sulle coste i nostri gabbiani. Il suono dei tamburi e i canti delle Puje, rituali con cui gli induisti adorano i deva, le divinità dell’articolato phanteon induista. Di solito i riti si compiono davanti ad una Murti, una statua o una immagine dell’aspetto di Dio che si intende adorare.
Vista I tappeti lilla o bianchi di fiori di loto che ricoprono gli innumerevoli stagni. Il verde chiaro brillante e vellutato delle risaie che contro sole brillano come specchi. Gli inquietanti manifesti di reclutamento dell’esercito, con il dito puntato di un soldato disegnato che sembra Hitler con l’elmo di Dart Fener di Guerre Stellari.
I viola e i rossi dei tramonti, resi saturi dall’umidità dell’aria, fanno dei crepuscoli singalesi degli autentici spettacoli pirotecnici.
Gusto L’aroma dolce e intenso dell’arrack, il rum locale prodotto dalla fermentazione della linfa delle palme da cocco. Il piccante delle salse di curry con cui viene condito il pesce e la carne. La pastella secca, dura e piccante dei fritti di verdura, carne e pesce che si trovano, tutti uguali, in tutti i ristoranti di strada del Paese. L’aroma caratteristico dei tè. Nuvara Eliya, Dimbula, Uva, Uda Pussellawa, Kandy o Ruhuana sono i nomi delle diverse qualità, del tutto particolari grazie alla caratteristica morfologia del territorio. Il dolce della frutta, un dono della natura dello Sri Lanka. L’ananas è dolce come miele, le banane vanno dal verde chiaro all’oro scuro, le noci di cocco, King Coconut, sono deliziose e rinfrescanti, i mango, tra i migliori del mondo, la papaya, dal sapore simile a quello delle pesche.
Olfatto Il profumo d’incenso nei templi induisti e quello di wathusudu, simile al gelsomino, nei templi buddisti. L’antico odore dei treni diesel, da noi ormai cancellato dall’avvento dei treni elettrici, che qui invece ancora impregna stazioni e carrozze. L’odore delle spezie che, ancora prima del tè, hanno reso famoso lo Sri Lanka. Dalla cannella prende il nome anche uno dei più bei quartieri di Colombo: Cinnamon Gardens. Stecche di cannella, noci moscate, rizomi di curcuma, lo zafferano indiano, semi di cardamomo e chiodi di garofano vengono venduti sfusi un po’ ovunque. E il loro odore, se non sovrastato dallo smog, caratterizza ogni città e ogni villaggio.
Tatto L’umidità mista alla salsedine dell’Oceano, e allo smog, che si appiccica sulla pelle camminando per le strade della capitale Colombo. I corpi sudati e pigiati uno contro l’altro nella calca soffocante dei passeggeri sugli autobus, che vengono stipati come carri bestiame, con la gente appesa fuori dalle porte. 9
Il reportage Senegal
L’infanzia rubata di Luca Galassi
Dieg Bou Diar è, in lingua wolof, ciò a cui non si può rinunciare. Un persuasivo slogan pubblicitario, che campeggia sul barattolo di concentrato di pomodoro più famoso del Senegal uo malgrado, per il giovane talibé che se la porta appresso tutto il giorno, la lattina con i bordi interni taglienti e la ruggine sul fondo è veramente ciò a cui egli non può rinunciare. Rappresenta infatti la sua vita, lo strumento attraverso il quale sollecitare i fedeli a praticare la zakat, l’elemosina, il terzo pilastro dell’Islam. Mendica tutto il giorno, il giovane talibé (in arabo: colui che chiede, che domanda), sotto il sole dalle sei di mattina fino al tramonto. Poi torna a casa. La sua casa è la daara, la scuola coranica. La sua famiglia sono il marabout, il suo precettore, e decine di altri talibé. Hanno dai cinque ai venticinque anni i giovani mendicanti che, vestiti di stracci, scalzi, sporchi, si radunano a gruppi nei pressi delle pompe di benzina, dei mercati, delle stazioni degli autobus di Ziguinchor, capoluogo della Casamance, la regione più meridionale del Senegal, stretta tra il Gambia e la Guinea Bissau. I loro genitori li hanno fiduciosamente affidati alle ‘cure’ dei marabout. A volte un privilegio, a volte una necessità dettata dall’impossibilità di mantenerli, la consegna del proprio figlio ai maestri della daara è un atto che, oltre a farne un buon musulmano e un solerte studente dei precetti coranici, può preludere a un avvenire di grande successo. Ma anche, molto più spesso, a un destino segnato da violenze, umiliazioni, abusi. Autorità religiose dotate di grande ascendente, i precettori coranici sono figure centrali nella società senegalese. Consultati per problemi familiari, finanziari, professionali e quant’altro, esercitano un’influenza immensa a tutti i livelli della società, e il loro potere è paragonabile a quello di un’autorità politica. Ma i settori più progressisti della società senegalese, i media, alcune Ong e numerose istituzioni internazionali li collocano al rango di veri e propri fuorilegge, definendoli come gente senza scrupoli che vive sulle spalle dei bambini che hanno in carico, senza considerazione alcuna né per la loro salute, né per il loro avvenire. Eppure, tanto è radicata l’importanza di queste figure nella tradizione religiosa senegalese, che le famiglie indigenti non esitano ad affidare i propri figli alla loro custodia, pur sapendo non li rivedranno per anni. Forse, addirittura per tutta la vita. Nonostante in alcune daara le famiglie paghino al marabout una retta, seppur esigua, nella stragrande maggioranza dei casi il maestro coranico non possiede adeguati mezzi finanziari per mantener-
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li. È per questo motivo che, dopo la preghiera dell’alba, i talibé sono obbligati a scendere in strada a elemosinare. Nella tarda mattinata tornano alla daara per studiare. Dopo un’ora sono di nuovo in strada a mendicare il pranzo. Poi preghiera pomeridiana, due ore di studio alla daara e ancora per le strade di Ziguinchor, con l’inseparabile latta di pomodoro, fino al tramonto.
arax è, in lingua wolof, il dono. Ma non solo. Ciò che designa tale termine è indispensabile per comprendere le dinamiche della mendicità in Senegal, le relazioni che si stabiliscono tra chi chiede e chi elargisce. Sarax è infatti la carità, ovvero la richiesta al credente di praticare la zakat, l’elemosina islamica. Ma il concetto indica anche una forma più generica di solidarietà, retaggio e virtù tradizionale della cultura senegalese: le poche centinaia di franchi elargiti normalmente ai talibé (ma che con la sarax possono arrivare fino a mille) sono quindi anche un automatismo morale e culturale, un gesto che, banalmente, mette in pace con la propria coscienza. Infine, la sarax attinge anche ad un ambito trascendentale, di natura religiosa, per sconfinare talvolta nella superstizione. Nel subconscio collettivo senegalese, la realtà è popolata di esseri invisibili: spiriti o demoni, la protezione o il perdono dei quali va invocata con adeguati sacrifici. Le offerte – che siano di denaro, cibo, vestiario o altri oggetti – diventano in questo modo una sorta di ‘sacrificio virtuale’ per suscitare la benevolenza di tali creature soprannaturali, per invocarne la tutela, o per ingraziarseli affinché non nuocciano a noi o ai nostri familiari. La popolazione senegalese è per il novantaquattro percento musulmana e per il cinque percento cristiana, soprattutto cattolica, ma la maggior parte di loro è in realtà legata anche a forme di religiosità tradizionale. Un profondo processo di sincretismo ha reso possibile la coesistenza delle religioni tradizionali, tra cui l'animismo, con quelle rivelate. Con il progressivo estendersi dell’influenza islamica a tutto il Senegal, il ruolo di divinatore è stato largamente occupato dal marabout, leader designato non solo dalla comunità ma, secondo la credenza, dalla divinità stessa. Oltre all’insegnamento dell’arabo e dei precetti dell’Islam, anche le scienze della divinazio-
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Talibé con la sua scatola di pelati. Senegal 2008. Luca Galassi ©PeaceReporter
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il passaparola, hanno spinto i marabout delle altre a collaborare. A patto ne, prima fra tutte l’oniromanzia, l’interpretazione dei sogni, sono attività che pertengono alle scuole coraniche. All’indiscussa autorità del maestro che l’approccio nei loro confronti avvenisse sempre in un clima di sincerità, coranico si accompagna l’attività di questuante del talibé, largamente rispetto e partecipazione. L’opera di sostegno ai talibé è continuata, anche accettata, per non dire incoraggiata, benché la legge la vieti e la religione con la collaborazione di soggetti come l’Association des Enfants et Jeunes Travailleurs (Aejt), un movimento di bambini molto noto – e stimato – islamica la ammetta solo in situazioni di estrema gravità e per un periodo nell’Africa occidentale e centrale, che si propone di difendere i diritti dei limitato. Se il marabout, interprete dei sogni, è l’intermediario col divino e il soprannaturale, il talibé è il mezzo attraverso il quale ingraziarsi i favori minori attraverso il dialogo con le autorità, iniziative di solidarietà reciprodel marabout, e quindi della divinità. La convinzione religiosa che chi riceca e campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica internazionale. ve l’offerta-sacrificio debba essere, secondo il credo, un soggetto ben defiNonostante la collaborazione di buona parte dei marabout, l’attività di negoziazione delle associazioni locali è spesso difficile e complessa, e nito, vuole anche che, in una scala gerarchica fissata da antiche convenincontra tutt’ora resistenze e diffidenze da parte dei ‘maestri coranici’. zioni sociali, dopo una ‘donna dalla pelle chiara, una madre di gemelli, un Centrale, nel miglioramento delle condizioni dei talibé, è soprattutto il ricoalbino, un anziano’, il destinatario privilegiato dell’elemosina sia il bambinoscimento ufficiale delle daara, nella misura in cui no mendicante e, ancor più, lo studente coranico. I tali istituti non siano luoghi di sofferenza o di negabeni che gli vengono offerti possono perciò essere, zione dei diritti dell’infanzia, ma rimangano centri di oltre al denaro, generi alimentari, come miglio o I talibé, giovani mendicanti, riso, noci di cola, oppure candele, fogli di carta, vengono affidati dalle famiglie istruzione e trasmissione di cultura, dove precettori competenti possano offrire ai talibé una vera educavestiti. Anche i sacrifici di animali, come montoni, ai marabout per imparare il Corano. zione, preparandoli dignitosamente all’ingresso nella capre o galline, sono considerati offerte alla divivita adulta. nità. Placano gli spiriti, e consentono di beneficiare del favore di Dio. Serviranno a sfamare i poveri Si stima che siano 10mila solo a Dakar e 100mila in tutto il Ziguinchor sono state censite una quarantina della comunità, e talvolta, molto più di rado, anche Senegal. di scuole coraniche. Hanno dai dieci ai novani talibé. ta bambini. I marabout esigono che i talibé La loro giornata comincia ppure, nonostante tali pratiche solidali, la all'alba, nella daara, la scuola raccolgano tra i cento e i centocinquanta franchi Cfa vita del talibé è una delle più ingrate e peno- coranica, e continua per strada, (l’unità monetaria dell’Africa occidentale, equivalente se. “Quel âge as-tu?”. Il bambino che, appea quindici millesimi di euro) nelle giornate normali e dove i bambini elemosinano na scorto il bianco, il toubab, gli si avvicina per chie- cibo e soldi. A sera tornano alla tra i trecento e i cinquecento il venerdì. Questo è un daara, dove li attende il loro dere l’elemosina, non parla francese. È seguito a giorno particolare, durante il quale i musulmani si ruota da altri tre, tutti con la stessa latta, di cui ‘non precettore coranico, che con- recano in moschea in massa per la preghiera delle si può fare a meno’. Il provvidenziale intervento di trolla se hanno raccolto almeno due di pomeriggio. I mendicanti sanno che il venerdì una donna che parla il pulaar, la lingua del popolo 300 franchi a testa, pena una i fedeli donano a profusione, per questo si raccolgopunizione che può anche peul alla quale il piccolo mendicante appartiene, no numerosi all’uscita della moschea. Secondo le essere corporale. svela una scomoda verità: “Non lo sa – traduce la fonti ufficiali ci sono almeno centomila talibé in tutto il Senegal. Facendo un po’ di conti, si scopre che i donna – non sa quanti anni ha”. “E gli altri?”. Sono numerose le Ong che bambini sono al centro di un’enorme circolazione di “Neanche loro”. I bambini hanno vestiti laceri. cercano di migliorare la loro denaro. Prendendo le stime più basse, raccolte Alcuni, i più piccoli, hanno sguardi miti e sottomescondizione, prima fra tutte si. Una naturale spavalderia non è invece esente l'Enda, ma i maggiori ostacoli dall’Enda nel 2006, calcolando un’elemosina ordinaria di cento franchi al giorno (cinquecento il venerdì) dai volti e dai comportamenti dei meno giovani, evisono costituiti dalla povertà persistente, da una risposta e seicento al giorno per la sarax (mille il venerdì), il dentemente più assuefatti alla vita di strada. Intascano le poche centinaia di franchi e tornano inadeguata da parte del gover- totale mensile raggiunge oltre i due miliardi di franalla stazione di benzina, dove rimarranno finché il no e dal potere dei marabout chi (tre milioni di euro). Una voce invisibile nell’econella società senegalese. nomia del Senegal, una rendita immane, esente da sole non è sceso. Non è stato possibile seguirli fin tasse e da controllo, che passa per le mani di piccoli dentro le loro 'stanze', ma il giorno dopo, grazie bambini per finire nelle tasche dei marabout. Ma, per fortuna, spesso l’inall’organizzazione non governativa africana Enda, abbiamo potuto assistegegno e la furbizia dei giovani mendicanti consentono di supplire, con picre a una lezione di alfabetizzazione dei talibé all’esterno della scuola coranica, senza poter tuttavia visitare gli interni, che ci sono stati descritti coli stratagemmi, alla loro miserabile condizione. Gli operatori dell'Enda come luoghi sovraffollati e insalubri, dove allignano malattie di ogni tipo e hanno condotto interviste sul campo che hanno rivelato come, al termine dove i bambini dormono su stuoie di paglia, cartoni, o addirittura per terra. della giornata, una certa somma di denaro venga messa da parte dai Da quando alcuni giovani sono stati visti in strada con la pelle divorata talibé. I bambini hanno un piccola ‘cassa’ dove conservare i risparmi. dalla scabbia o tremanti di febbre, l'Enda ha deciso, negli anni Novanta, di Questa riserva, affidata a una persona di fiducia, spesso un negoziante o attuare strategie concrete per il miglioramento delle condizioni di vita dei una donna del quartiere, è la loro ‘banca personale’. “Tale denaro – scritalibé. Dopo l’iniziale diffidenza, se non ostilità, da parte dei marabout, è ve l’Enda nel rapporto Sostegno ai talibé del 2006 – serve ai talibé come cominciata in quattro daara di Ziguinchor un’opera di disinfestazione delle garanzia per le giornate in cui non arrivano a raccogliere il denaro richiestanze dagli insetti, di pulizia e miglioramento delle condizioni di alloggio, sto dal marabout (evitando così percosse o punizioni), per acquistare cibo di sensibilizzazione sanitaria, istruendo un talibé per ciascuna delle quatper sé o per i propri familiari, per giocare. Oppure per fuggire”. tro daara a gestire e amministrare una cassetta di pronto soccorso e Dieg bou diar. Una lattina con una donna nera che porta sul moussor, il medicinali fornita dall’organizzazione. L’opera di sostegno e aiuto alle tipico turbante senegalese, una ciotola di legno piena di pomodori. Invita daara è continuata negli anni, con la distribuzione di vestiti di seconda a comprare ‘ciò a cui non si può rinunciare’ con un sorriso gioioso. Ma ciò mano, la messa a disposizione di un bagno dove i bambini possono lavarsi di cui questi bambini non possono davvero fare a meno è la loro infanzia e, soprattutto, l’avvio di un corso di alfabetizzazione in pulaar, la lingua rubata. I giochi con i loro coetanei. La loro dignità. I loro diritti. E il loro, di della loro etnia. Più recentemente, sono cominciati anche corsi di francesorriso gioioso. se e matematica. Dopo la prima positiva esperienza, il lavoro si è esteso a una dozzina di daara, poi a quaranta, situate nei quartieri più bisognosi di In alto: Marabout a Ziguinchor. Kadior, Tilène, Alouar, Kandialang, Nema II e Yamatogne. Sono stati i risul- In basso: Talibé in una daara. tati ottenuti durante gli interventi nelle prime quattro scuole che, tramite Senegal 2008. Luca Galassi ©PeaceReporter
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L’intervista Sudafrica
Bianca come Obama Di Stefano Piazza
Lo scorso dicembre con l'elezione di Jacob Zuma al vertice del partito di governo, l’African National Congress, il Sudafrica potrebbe aver già dichiarato al mondo chi sarà il successore di Thabo Mbeki alla presidenza del Paese. L' Anc dispone di un vantaggio abissale sui rivali della Democratic alliance , difficilmente colmabile prima delle presidenziali 2009. Ma le quotazioni di Helen Zille, sindaco di Cape Town e leader di Da, sono in continua crescita L' Anc domina la scena politica del vostro Paese e Zuma sembrerebbe imbattibile. Molti osservatori credono che lei sia già sconfitta in partenza: cosa rappresenteranno le prossime elezioni per Helen Zille? Un'ottima occasione per noi, come Democratic alliance, di allargare la nostra base di sostegno. Questo soprattutto perché Zuma non ha la fiducia di molti sudafricani. Un recente sondaggio ha rivelato che il quarantotto percento dei miei concittadini crede che Zuma sarebbe “un disastro per il Paese”. Puntiamo a realizzare un polo moderato e “non razziale” nella politica sudafricana. E realizzeremo questo progetto alleandoci con altri partiti che abbiano la nostra stessa visione. La crescita dell'economia sudafricana è in continua ascesa, ma la condizione dei disperati degli slum, esclusi da questa prosperità, rimane invariata. Come affronterebbe questo problema, da presidente? Comincerei sbloccando il potenziale economico sudafricano, attraverso provvedimenti che rendano il nostro Paese più attraente per gli investitori. Ciò anche attraverso la tolleranza zero nei confronti di crimine e corruzione, un mercato del lavoro più flessibile e il ritorno in patria dei nostri “cervelli” emigrati all'estero. Renderei inoltre la formazione una priorità assoluta, a differenza del governo attuale. Una buona formazione è il modo migliore di combattere la povertà. La situazione dell'ordine pubblico è tanto grave quanto sembra dall'esterno? Questo è un problema, nessuno può negarlo. Le statistiche sul crimine indicano che il Sudafrica ha una delle più alte incidenze di omicidi e violenza nel mondo. A questo è collegata la “percezione” del crimine stesso, che abbatte il morale dei sudafricani. Il Mondiale di calcio del 2010 rappresenta un'enorme possibilità per il vostro Paese, ma anche molti problemi. Rispetto a quanto fatto dal governo in carica, avrebbe gestito diversamente i punti “caldi” di questo evento, come le relazioni con la Fifa (Federazione calcistica internazionale), il budget, il problema stadi, soprattutto a Cape Town? Non le sembra che il Sudafrica sia ostaggio della Fifa? Non penso che il Sudafrica sia ostaggio della Fifa. Ovviamente, hanno un prodotto, il Mondiale di calcio che porterà molti benefici al nostro Paese e per ospitare questo evento dobbiamo fare fronte alle loro richieste. Ma non sono inflessibili e possiamo negoziare. Per quanto riguarda il Green point stadium di Cape Town, siamo nei tempi previsti, anche se ci saranno alcuni “sovraccarichi”, rispetto al budget preventivato. Riguardo a cosa avrei fatto di diverso rispetto a quanto deciso dal nostro attuale governo, beh, avrei iniziato prima i lavori per gli impianti e avrei stabilito un piano di finanziamento più rigoroso. Tuttavia, a Cape Town, abbiamo fatto tutto con molta attenzione e la nostra programmazione ha contribuito a proteggerci da debiti eccessivi. 14
In Europa, l'immagine dei politici sudafricani non è delle migliori: parlamentari intoccabili dalla magistratura, corruzione dilagante, la rissa del congresso Anc. Come pensa di poter cambiare la situazione? Un inizio è di sicuro la volontà di ristabilire un legame vero fra i politici e il popolo che rappresentano. L'evidente animosità al congresso dell'Anc era indicativa della concorrenza feroce all'interno del partito per arrivare alle posizioni di vertice. La situazione cambierà solo quando salirà al governo un nuovo partito, con una forte disciplina interna, che sappia far rispettare la legge ai propri membri e che sia votato al servizio dei sudafricani anziché agli interessi personali dei politici. L'apartheid ha lasciato al Sudafrica una pesante eredità. Crede che l'attuale sistema delle quote razziali, che prevede l'assegnazione dei posti di lavoro su base percentuale, in base al colore della pelle, sia il migliore possibile? Nel nostro Paese, esiste un sistema che cerca di armonizzare il lavoro pubblico con la demografia sudafricana. La maggior parte dei dipartimenti governativi presenta moltissime posizioni non assegnate semplicemente perché non è stato possibile trovare abbastanza gente esperta con il giusto colore della pelle. Molti professionisti neri, poi, preferiscono il settore privato, che può offrire loro stipendi migliori. In altri casi, le posizioni sono occupate da persone con la pelle del colore giusto, ma senza le competenze necessarie per svolgere quel lavoro. La triste ironia è il fatto che a soffrire maggiormente l'inadeguatezza del servizio pubblico siano quegli stessi poveri che hanno subito l'eredità dell'apartheid. Il suo Paese è pronto per una donna bianca come Presidente? Non vedo perché no. Se l'America è pronta per Barack Obama, allora forse il Sudafrica lo è per una donna bianca! Scherzi a parte, nelle mie esperienze quotidiane con una vasta gamma di sudafricani, la razza sta diventando meno importante. Sono stata scelta come sindaco di Cape Town malgrado il fatto che fossi una donna bianca perché la gente desiderava un cambiamento: la precedente amministrazione non aveva mantenuto le promesse. Agli occhi del mondo, sembrate ancora un continente nel continente, il Paese meno africano d'Africa. Crede che potrete diventare una guida, un Paese leader per l'intero continente? In termini culturali il Sudafrica è davvero parte del continente. Quello che ci differenzia è un'economia molto più forte della maggior parte degli altri Stati africani. Tuttavia, malgrado questo, quasi tutti i sudafricani si considerano “africani” a tutti gli effetti e il nostro Paese svolge un ruolo molto attivo nell'Unione Africana e nella Comunità degli Stati dell'Africa meridionale. In alto: Helen Zille. In basso: Vista del porto di Cape Town. Sudafrica 2008. Archivio PeaceReporter
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Qualcosa di personale Serbia
Vivere tra i fantasmi Di Jasmina Tesanović Testo raccolto da Luigi Milani
Per me questa incredibile storia è solo all’inizio. Presto Radovan Karadžic sarà al sicuro a L’Aja, dietro le sbarre, a gridare la sua stridente difesa proprio come il suo predecessore Slobodan Milosevic oi qui, nel centro di Belgrado, siamo rimasti con questo misterioso, ridicolo, personaggio, Drcagan David Dabic, che presto svanirà come un eroe da soap opera. Ho davvero paura che “Dabic”, le sue tracce, i suoi scritti e le sue parole verranno cancellati, manipolati e violati dalla stampa, dai suoi amici, dai suoi nemici, dai suoi catturatori. C’è molto in gioco con la sua cattura: verità spiacevoli e domande senza risposta. Abbiamo vissuto con Dabic per tredici anni, è stato uno di noi, tra di noi, nella mezza-vita fantasma della Serbia. Due criminali di guerra vivevano nella mia stessa strada. Biljana Plavsic, la precedente leader della Republika Srpska, che prese il potere dopo che Radovan Karadžic lo lasciò nel 1996. Si dichiarò colpevole a L’Aja, e ora sta scontando la sua pena in Svezia. Il Generale Pavkovic era in carica durante il pogrom degli Albanesi in Kosovo. È ammalato di cancro. La gente a Belgrado si sente sconcertata e tradita. Per tredici anni il governo serbo ha dichiarato che Karadžic non è mai stato in Serbia. Che si nascondeva nelle montagne come Alì Babà e i quaranta ladroni (o come Robin Hood), che si era rifugiato in qualche monastero, dove pregava Dio per la sua terra. Questi miti ovviamente erano stati creati dalle persone che lo nascondevano a Belgrado. Qui Dabic conduceva la sua vita pubblica, mentre la sciagurata popolazione serba era tenuta in ostaggio dai misfatti di Karadžic. Ci vengono in mente molte questioni durante le nostre conversazioni per strada, nei ristoranti, sui blog. La donna di questa sua nuova vita - la brunetta di mezz’età chiamata Mila - sapeva che il suo Danic era Karadžic? Si è mai confidato, lui, con l'impiegato di banca, con il dentista, con il suo barbiere? Davvero qualcuno di questi serbi, così isolati dal resto del mondo, ha apprezzato i suoi insegnamenti di New Age californiana nelle sue lezioni e sugli articoli che scriveva per le riviste? Si sono mai incrociate le nostre strade nelle sue frequentazioni preferite, qui a Belgrado? Dabic era un guru New Age, un emigrato serbo-californiano, un uomo di mondo globalizzato: Dabic passava il tempo in uno dei bar più eleganti di Belgrado, dove puoi avere accesso gratuito a Internet e puoi leggere libri gratis. Ci vado spesso. Era anche solito mangiare in un ristorante molto buono, ma economico, dove vado spesso con i miei amici. Tutti vi abbiamo passato lunghe notti a bere e parlare: noi, dei suoi crimini e delle nostre sofferenze, lui, di come spacciare medicina alternativa e dei miglioramenti da apportare al suo sito web. Il ristorante è vicino alla Corte Speciale per i Crimini di Guerra, al centro di Belgrado. Lì ho seguito il processo di una banda paramilitare, gli Scorpioni,
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accusati di genocidio in Bosnia. Molto spesso, dopo le sessioni in tribunale, dovevamo andare a bere qualcosa di alcolico per calmarci, dopo aver sentito tutte quelle atrocità. Vedevamo gli avvocati della difesa degli Scorpioni seduti lì accanto a noi, che confabulavano animatamente. Le pareti del ristorante erano tappezzate di fotografie di eroi nazionalisti serbi del passato, in mezzo a foto di vari criminali di guerra. Chissà, magari Dragan Dabic si sarà seduto sotto il ritratto incorniciato di Radovan Karadžic. Dabic aveva abilmente cancellato Karadžic, assieme alle ottomila vittime di Srebrenica, le cui morti egli ha sempre negato e mistificato. Occasionalmente, Dabic si è perfino dilettato con musica folk (suonata su gusle, antichi strumenti musicali serbi), aggiornata con versi inneggianti alla pulizia etnica dei musulmani e alla superiorità razziale serba. Per gli sventurati Scorpioni, alla sbarra per alcuni omicidi avventatamente ripresi da essi stessi in video, l’introvabile Karadžic era un mistico semidio. Ogni giorno gli Scorpioni entravano in aula con fare spavaldo, indirizzando oscure minacce a noi del pubblico, che ascoltavamo increduli i racconti delle loro azioni. Anche Dragan Dabic era in aula tra noi, ad ascoltare? alla caduta di Milosevic, la città di Belgrado ha condotto una duplice esistenza. Da una parte, lo sforzo di sfuggire al passato, ma non confrontandosi con esso, bensì oscurandolo, negandolo, incoraggiandone l’oblio in tutti. Dall’altra, l’ostentata esaltazione del passato criminale. Gli sfarzosi concerti folk di Ceca, vedova del signore della guerra Arkan, i rituali religiosi della Chiesa Ortodossa, i cui officianti benedicevano personalmente i soldati del genocidio... Tutte queste manifestazioni sono la superficie pubblica di una robusta, persistente, cultura underground omicida di libri, canzoni, spettacoli teatrali, spille promozionali, fotografie, memorabilia e souvenir di Radovan Karadžic. Era un poeta hippie del ‘68 che era tornato alle sue radici di ciarlatano New Age. Era un dissidente dell’Ottantanove che ignorava la liberazione europea per porgere premurosamente la sua mitragliatrice ai suoi concittadini. Come cittadina di Belgrado, vivendo nella stessa strada di criminali di guerra e zingari, nel mezzo di una transizione verso il nulla, desidero sapere tutto della seconda vita dei criminali di guerra scomparsi. Ancora una volta sono loro ad avere una nuova vita, non noi.
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In alto: Un caffe del centro. In basso: Carri armati e cannoni in esposizione fuori dalle mura di cinta della fortezza Kalemegdan. Belgrado, Serbia 2007. Massimo Di Nonno/Prospekt
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Italia
Don Milani in esilio Di Enrico Panini* Il nostro Paese oggi spende per la “conoscenza” il due percento del Pil in meno rispetto agli altri Paesi europei e con le recenti decisioni del Governo questa distanza è destinata ad aumentare in modo considerevole. Le decisioni del Governo riscrivono i connotati democratici del nostro sistema della conoscenza; rimandano in esilio don Milani ed esaltano la più odiosa di tutte le separazioni: quella fra chi può o non può accedere al sapere sulla base del reddito er la scuola pubblica si prevedono tagli per otto miliardi di euro in tre anni, da realizzarsi principalmente con una pesante riduzione del personale: circa centomila docenti e quarantatremila ausiliari tecnico-amministrativi (Ata). Cifre enormi, il quindici percento in meno degli addetti, un autentico massacro sociale. Per realizzare questo taglio l’ex Decreto 112, che ora è legge, prevede di ritoccare la rete scolastica (cioè meno scuole); di rivedere i criteri per formare le classi (cioè più alunni per classe); di applicare le norme del ministro Moratti (cioè ridurre l’orario nelle scuole elementari e medie a ventisette ore settimanali, di cui due di religione cattolica). Ne conseguiranno un aumento delle difficoltà nella relazione didattica, minori strumenti per affrontare le situazioni più difficili e, quindi, l'aumento di fenomeni come la dispersione e l'insuccesso scolastico. Già negli anni passati si registravano forti sofferenze sul versante degli organici che hanno prodotto lunghe polemiche e mobilitazioni di famiglie, enti locali e scuole: è impensabile che a una situazione di sofferenza di questo tipo si sommi il taglio di centocinquantamila posti. Tempo pieno, arricchimento e diversificazione dell’offerta formativa, tempi distesi per l’apprendimento, lotta alla dispersione e all’abbandono scolastico, sistema di apprendimento permanente per la popolazione adulta rischiano di essere definitivamente cancellati, per via del ripensamento degli ordinamenti e della riduzione dell’orario di lezione tutto in chiave economicista. A ciò si aggiunge la decisione di rendere possibile l’assolvimento dell’obbligo scolastico anche nella formazione professionale regionale, che riporta l'orologio della storia agli anni Cinquanta, alle scelte precoci compiute a quattordici anni di età. Si torna a separare sulla base del reddito, fra chi ha mezzi e opportunità sociali per la scuola vera, e chi parte da qualche svantaggio sociale, con il canale di serie C. La scuola viene trattata da questo Governo soltanto come un costo da tagliare. Non solo: alla Camera, la commissione Cultura è impegnata a discutere un disegno di legge che prevede l'apporto di soggetti esterni e privati alla gestione della scuola, un finanziamento regionale alquanto indeterminato perché legato ad un concetto aleatorio di costo medio per alunno, una riscrittura di tutte le norme che presiedono al reclutamento dei docenti con l’introduzione della chiamata diretta, la cancellazione di fatto della contrattazione sindacale e l'abolizione delle Rsu, le rappresentanze sindacali unitarie, della scuola. Nel complesso quindi più alunni per classe, meno tempo a scuola, niente contrattazione e ritorno all’avviamento professionale – pre-scuola media – per le classi più deboli.
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E se Atene piange, Sparta non ride: su università e ricerca pubblica non spira un vento migliore. Per l’università si prevede la scomparsa dell’attuale sistema nazionale mediante una sua trasformazione in fondazioni di diritto privato. A ciò si aggiunge una pesante riduzione dei finanziamenti pubblici che comprometteranno la possibilità di mantenere nel nostro Paese un luogo di ricerca e didattica libero come prevede la Costituzione. umenterà la frammentazione del sistema universitario e l’esaltazione delle differenze tra le diverse sedi danneggerà ovviamente le situazioni e le persone più deboli. Mentre per gli enti pubblici di ricerca si prevedono soppressioni, nessun aumento delle scarse e insufficienti risorse, una limitazione nell’assunzione di giovani ricercatori che trovano lavoro e riconoscimento delle proprie professionalità in altri Paesi. E nulla di buono si prospetta per i precari dei settori della conoscenza, i tempi sono diventati davvero duri, essendo stato di fatto bloccato il percorso di stabilizzazione faticosamente avviato nella passata legislatura. A ben vedere un processo di devastazione dei nostri sistemi pubblici di dimensioni impressionanti e senza precedenti, anche negli anni più bui della storia del nostro Paese. Ma il problema, in realtà, è ancora più complesso: con la manovra economica approvata dalla maggioranza si riscrive la Costituzione sul versante del diritto al sapere, si privatizza l’attuale sistema, si discrimina sulla base del reddito. Infatti, che cosa è se non questo prevedere che l’obbligo scolastico possa essere assolto anche in corsi di formazione professionale, si badi bene neanche tenuti a seguire i programmi nazionali? O la trasformazione delle università in Fondazioni private? O il commissariamento di tanti Enti di Ricerca (per primi quelli a difesa dell’ambiente) con la relativa perdita di autonomia? O il peggioramento delle condizioni concrete di esercizio del diritto al sapere di tutti i giorni mediante il gonfiamento delle classi e la riduzione degli insegnanti? Insomma, non siamo solo in presenza di una manovra economica intesa in senso classsico, le decisioni del Governo riscrivono i connotati democratici del nostro sistema della conoscenza; rimandano in esilio Don Milani ed esaltano la più odiosa di tutte le separazioni: quella fra chi può o non può accedere al sapere sulla base del reddito.
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*segretario generale della Federazione lavoratori della conoscenza Cgil In alto: Liceo scientifico. Milano, Italia 2008. Andrea Pagliarulo/Prospekt In basso: Una classe di liceo scientifico. Milano, Italia 2008. Andrea Pagliarulo/Prospekt
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Mondo
Notizie che di solito non fanno notizia
Salta l'accordo tra governo e Milf
Le buone nuove
Filippine, tensione Somalia, la crisi nel sud ribelle continua
Mauritius, una luce sul passato
ancava solo la firma, in una cerimonia preparata da tempo in Malaysia. Ma il patto tra governo filippino e ribelli del Fronte islamico di liberazione Moro (Milf) è stato bloccato il giorno prima dalla Corte suprema di Manila, con un'ordinanza di sospensione temporanea. Il “fermi tutti” da parte del più alto organo giudiziario filippino ha fermato così a un passo dal traguardo i negoziati, fondamentali per arrivare a un accordo di pace che ponga fine a un conflitto attivo da quattro decenni. E nel sud dell'arcipelago, dove il Milf dispone di circa 12mila guerriglieri, le violenze non hanno tardato a riaccendersi. L'intesa prevede la concessione di una maggiore autonomia ai musulmani dell'isola di Mindanao, la seconda più grande dell'arcipelago, grazie a più poteri in materia economica, fiscale e di sfruttamento delle risorse naturali (oro, nickel, rame, legname) di cui Mindanao abbonda. La già esistente regione autonoma sull'isola, inoltre, verrebbe estesa ad altri 712 villaggi. Un cessate il fuoco in vigore dal 2003, seppur violato da scontri occasionali, ha permesso di arrivare all'accordo al termine di negoziati durati dieci anni, e proseguiti a singhiozzo. Ma il compromesso tra governo e musulmani ha messo in allarme i cristiani di Mindanao, molti dei quali stabilitisi qui negli ultimi decenni, diventando maggioranza anche sull'isola. Politici locali, lamentandosi di non essere stati consultati dalla presidente Gloria Arroyo, hanno chiesto alla Corte suprema di bloccare l'accordo, che secondo loro spezzetterebbe Mindanao in una serie di enclavi. La Corte ha dato loro ragione e ha fermato tutto, almeno temporaneamente. La parola è così passata di nuovo alle armi. L'esercito ha attaccato i ribelli che avevano occupato alcuni dei villaggi contesi, in un'offensiva costata almeno otto morti e 160mila persone sfollate. La situazione rimane tesa, e a questo punto promette di non risolversi neanche con l'eventuale firma dell'accordo.
ontinua la crisi militare in Somalia, dove il fallimento degli accordi di pace dello scorso 9 giugno ha provocato una nuova recrudescenza nel conflitto tra le truppe somalo-etiopi e l’opposizione armata, guidata dalle Corti islamiche. Nell’ultimo mese gli scontri si sono intensificati, provocando decine di morti e aumentando l’esodo dei civili dalla capitale Mogadiscio, ormai ridotta a una città fantasma. L’ala più radicale delle Corti, che ha sconfessato gli accordi di pace e ha preso il controllo dell’opposizione in esilio in Eritrea, ha lanciato una serie di vaste offensive su tutto il territorio, occupando diverse città e mettendo in seria difficoltà la resistenza dell’esercito. Di questo clima di instabilità hanno fatto le spese anche le organizzazioni umanitarie, molte delle quali hanno lasciato il Paese a causa dei frequenti attacchi (uccisioni e rapimenti) ai danni dei loro dipendenti. La popolazione civile è senza assistenza, e i numeri della crisi somala continuano a peggiorare: secondo l’Onu, sono almeno 8.000 le vittime della guerra civile dall’inizio del 2007 (ma il bilancio potrebbe essere molto più alto), mentre almeno un milione di persone ha lasciato Mogadiscio, principale teatro della guerra. La comunità internazionale non ha però intenzione, almeno nel breve periodo, di aumentare la propria presenza nel Paese, che si limita a 1.500 peacekeepers dell’Unione Africana, sottoequipaggiati e senza la possibilità di intervenire con decisione nella guerra. La missione dovrebbe contare 8.000 uomini, ma i Paesi africani che inizialmente si erano offerti di spedire i propri contingenti hanno cambiato idea, a causa del peggioramento della guerra. A rendere ancora più difficile la situazione è arrivata una crisi politica che ha visto scontrarsi il presidente somalo Abdullahi Yusuf e il premier Nur Hassan Hussein, che aveva tentato di rimuovere Mohammed Dheree, sindaco e potentissimo signore della guerra di Mogadiscio. Il governo, sempre più debole e diviso, fa affidamento sulle truppe dell’alleato etiope per non capitolare di fronte agli insorti.
Alessandro Ursic
Matteo Fagotto
A quasi due secoli dall'abolizione della schiavitù, a Mauritius il Parlamento ha deciso di scavare nel passato del Paese, creando una Commissione per la Verità e la Riconciliazione per fare luce sulla schiavitù, una pratica piuttosto diffusa nell'arcipelago dell'Oceano Indiano fino al 1835.
Australia: addio alla 'soluzione pacifica' Era una delle poche notizie che escono dall'Australia e fanno il giro del mondo: qualsiasi richiedente asilo arrivato nell'isola-continente veniva messo in carcere, e lì ci rimaneva mentre la sua pratica veniva esaminata. Le immagini di questi migranti hanno fatto il giro del mondo e divennero la caratteristica più conosciuta all'estero del conservatore John Howard. Otto mesi dopo la sconfitta del premier che l'ha governata per undici anni, l'Australia ora volta pagina. Il nuovo governo di Kevin Rudd ha deciso di abbandonare la politica di detenzione automatica per i richiedenti asilo. Amnesty International ha definito le riforme “un passo avanti” che porta il sistema australiano “in linea con quello delle altre democrazie occidentali”.
Si vola di nuovo da Belgrado a Pula "È in partenza il volo delle 12:50 con destinazione Pula, dal gate numero 15". L'ultima volta che lo speaker dell'aeroporto aveva annunciato questa tratta, era stato il 13 settembre del 1991 e novantadue passeggeri partiti da Belgrado raggiunsero Pula, Croazia, con il volo JU/740. Poi venne la guerra... e nessun aereo, che non fosse militare, si è più alzato in volo in direzione Croazia e viceversa. Lo scorso luglio la compagnia di bandiera serba, la Jat, ha ripristinato i voli, dopo 17 lunghi anni, verso una delle località turistiche croate più importanti.
Nuova Zelanda, la terra dei Maori Con uno storico accordo, il governo neozelandese ha ceduto a sette tribù Maori i diritti su vaste porzioni di terra. Si tratta di nove foreste, distribuite su 176.000 ettari, del valore di 420 milioni di dollari neozelandesi, circa 200 milioni di euro. 20
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Falliti gli accordi di pace di giugno
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Nigeria Ostaggi del petrolio
a Nigeria è ostaggio del suo petrolio. L'oro nero è stato alla base della secessione armata del Biafra (1967-1970) sponsorizzata dalla Francia che voleva sfruttarne i giacimenti, della guerra di confine col Camerun per il controllo della penisola petrolifera di Bakassi (1993-'94), della feroce repressione dell'etnia Ogoni, costretta a sfollamenti forzati, e dei continui scontri tra le etnie del bacino petrolifero del Delta del Niger. Quest'ultima regione, vasta poco meno di 100 mila chilometri quadrati, tutta paludi e acquitrini, di enorme importanza per l'equilibrio dell'ecosistema di tutta l'Africa, è la cassaforte del greggio nigeriano, ottavo esportatore mondiale e primo produttore dell'Africa sub-sahariana: riserve per 31 miliardi di barili, output di 2 milioni di barili al giorno, cinquemila chilometri di oleodotti in tutto il Paese. Nei nove Stati produttori (Abia, Akwa Ibom, Bayelsa, Cross River, Delta, Edo, Imo, Ondo, Rivers) l'oro nero non ha portato ricchezza. Anzi. La qualità della vita è notevolmente più bassa e le infrastrutture più carenti che nel resto del Paese. Nella regione vivono 20 milioni di persone di 40 gruppi etnici diversi, dei quali gli Ijaw sono quello dominante. La devastazione ambientale prodotta dallo sfruttamento di petrolio e dal gas naturale e l'iniqua distribuzione dei proventi degli idrocarburi sono le cause determinanti il conflitto nel Delta del Niger. Dagli anni '90, la competizione per il petrolio ha alimentato innumerevoli scontri tra la miriade di gruppi etnici dei nove Stati. Da allora l'intera regione è pesantemente militarizzata. Una posizione di spicco ha assunto qualche anno fa il Mend (Movimento per l'emancipazione del Delta del Niger). Nato nel 2005, il Mend si è guadagnato grande risalto internazionale grazie ai rapimenti di tecnici stranieri e ai sabotaggi degli impianti. Progressivamente, le azioni dei gruppi ribelli hanno perso gran parte della loro carica identitaria e della loro missione (il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni del Delta) per spartirsi i profitti delle rendite petrolifere. I militanti sono spesso collusi con gang mafiose e politici corrotti. Spesso, sono le grandi multinazionali a pagare loro un 'pizzo' per
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quieto vivere, oltre ad arricchire le élite degli Stati del Delta accrescendo sempre di più il malconento degli strati più a rischio della popolazione. Sono stati oltre 200 i dipendenti delle multinazionali del petrolio rapiti e liberati dietro pagamento di forti somme. Gli attacchi contro le installazioni petrolifere si contano a decine. Le azioni dei ribelli hanno portato, per motivi di sicurezza, a tagliare quote dal 30 al 50 percento nella produzione, provocando una forte destabilizzazione in tutto il Delta del Niger. L'esercito governativo ha militarizzato gran parte della zona costiera, ricorrendo ad azioni violente e repressive e incaricando una squadra speciale, la Joint Strike Force, di aumentare la sorveglianza intorno alle installazioni petrolifere. In alcune occasioni, militari dell'esercito nigeriano utilizzano elicotteri e imbarcazioni delle compagnie petrolifere per schiacciare la resistenza dei ribelli. Recentemente, anche il Premier britannico Gordon Brown ha offerto assistenza militare per addestrare le forze speciali nigeriane a difendere gli interessi delle compagnie britanniche e porre termine al fenomeno dell'oil bunkering. Quest'ultima pratica consiste nel prelevare illegalmente petrolio dagli oleodotti o dalle installazioni per rivenderlo al mercato nero. Centinaia sono le persone morte per le esplosioni causate dalle fuoriuscite di greggio. È stato stimato che, dall'inasprimento del conflitto nel Delta del Niger, l'industria petrolifera ha perso 25 miliardi di euro a causa dell'asportazione abusiva di petrolio, riducendo la produzione reale di 300 mila barili al giorno. La nuova amministrazione del presidente Umaru Yar’Adua, succeduto nel 2007 a Obasanjo, ha tentato un approccio diverso al problema, provando ad avviare un dialogo con le formazioni ribelli. Dialogo che pare fallito dopo che, alcune settimane fa, i dirigenti della compagnia petrolifera statale nigeriana avevano reso noto di aver pagato milioni di dollari ai ribelli per evitare attacchi ai propri impianti. Per smentire la notizia, i ribelli hanno lanciato una nuova offensiva, rapendo il mese scorso dieci dipendenti stranieri e lanciando nuovi attacchi contro le installazioni petrolifere.
Nigeria
Nigeria Le principali attività estrattive e produttive intraprese dalle compagnie straniere avvengono in joint venture con l'ente nazionale nigeriano per il petrolio (Nigerian National Petroleum Corporation, Nnpc). Ecco le cinque maggiori multinazionali. Nigerian Agip Oil company Limited (Naoc). Joint-venture partecipata da Nnpc (60 percento), Agip (20 percento) e Phillips Petroleum (20 percento). Produzione giornaliera di greggio: 39 mila barili.
Mobil Producing Nigeria Unlimited (Mpnu). La partecipazione è del 60 percento della Nnpc e del 40 percento della Mobil. Gli impianti sono al largo delle coste dello Stato di Akwa Ibom nel Delta sudorientale. Produzione giornaliera: 198 mila barili.
Chevron Nigeria Limited (Cnl). È una joint-venture tra Nnpc (60 percento) e Chevron (40 percento). Le installazioni sono nella regione del Warri, a ovest del fiume Niger, e off-shore, in acque poco profonde. Produzione giornaliera: 127 mila barili.
Shell Petroleum Development Company of Nigeria Limited (Spdc). La produzione ammonta a circa il 40 percento del totale del Paese, con otto impianti estrattivi. La joint venture è composta da Nnpc (55 percento), Shell (30 percento), Elf (10 percento) e Agip (5 percento). Produzione giornaliera: 135 mila barili.
Elf Petroleum Nigeria Limited (Epnl). Proprietà divisa tra Nnpc (60 percento) ed Elf (40 percento). È in competizione con la Mobil per lo sfruttamento di un giacimento da 90 mila barili. Produzione giornaliera: 77 mila barili.
Texaco Overseas Petroleum Production of Nigeria Unlimited (Topcon). Quote di proprietà al 60 percento della Nnpc e al 40 da Texaco e Chevron (20 percento ciascuna). Produzione giornaliera: 2 mila barili (con Chevron, 129 mila barili).
ESPORTATORI (migliaia di barili al giorno)
Arabia Saudita
Russia
Emirati Arabi
Norvegia
Iran
Kuwait
Nigeria
Venezuela
Algeria
Angola
7.925
7.018
2.548
2.321
2.288
2.268
2.040
2.024
1.862
1.707
CONSUMATORI (migliaia di barili al giorno)
Mondo
Stati Uniti
Unione Europea
Cina
Giappone
Russia
Germania
Italia
80.290
20.800
14.550
6.930
5.353
2.916
2.618
1.732
Nasce il governo di unità nazionale
L’onda lunga del Kosovo nei Balcani
Il numero dei morti dal 17 luglio al 14 agosto
Libano, verso una La Georgia come nuova stabilità la Serbia
Un mese di guerre
o scorso 12 agosto il parlamento libanese ha votato la fiducia al nuovo governo di unità nazionale, presieduto da Fouad Siniora. Quel voto chiude un capitolo di grande instabilità per il paese dei Cedri, iniziato nell'autunno del 2006 con la fuoriuscita dal governo dei depitati sciiti, e proseguita con il tentativo, durato diversi mesi, di eleggere un presidente dopo la fine del mandato di Emile Lahoud. Il nuovo governo rimarrà in carica fino alla primavera 2009, quando sono previste le prossime elezioni. I partiti dell'opposizione entrano a far parte dell'esecutivo con potere di veto. La composizione del governo era stata decisa lo scorso 11 luglio ma per votarlo c'è voluto un mese. Comprende sia esponenti dell'ex maggioranza, la coalizione anti-siriana dal 14 marzo, che figure dell'ex opposizione, la coalizione dell'8 marzo che ragruppa gli sciiti Hezbollah e Amal, assieme ai maronti di Michel Aoun. Il ritardo è dipeso dalle difficoltà per concordare un documento che delineasse la politica del governo, testo su cui ci sono stati contrasti, specie in merito al ruolo delle milizie Hezbollah. Il nuovo governo riconoscerà il diritto alla resistenza delle milizie sciite che, dunque, non verranno integrate nell'esercito nazionale. Dopo settimane in cui il disarmo di Hezbollah era stato chiesto a gran voce sia dall'ex maggioranza libanese che da diplomatici francesi, statunitensi e israeliani, si tratta di una grande vittoria per il partito di Dio e per il suo segretario, Hassan Nasrallah. Il giorno successivo, un ordigno è esploso nella città di Tripoli, nel nord del paese, uccidendo sette civili e dieci soldati. L'incidente dimostra che il paese è ancora minacciato, in questo caso da milizie sunnite pro e anti-siriane, cui si aggiungono alcuni dei miliziani che l'anno scorso si scontrarono per settimane contro l'esercito libanese nel campo profughi di Nahr el Bared. La stabilità del nuovo governo dipenderà dunque anche dall'esercito nazionale, il cui ex comandante Michel Suleiman, oggi è presidente.
onda d'urto del terremoto geopolitico che ha scosso Belgrado e Pristina non più di cinque mesi fa ha raggiunto Tbilisi e Tskhinvali. Lo scenario dei Balcani sembra si stia riproponendo nel Caucaso. Quando il 17 febbraio gli Stati Uniti e le princiali potenze europee diedero la loro benedizione alla neonata Repubblica del Kosovo, in molti guardarono immediatamente alle regioni caucasiche di Abkhazia e Ossezia del Sud. E se Belgrado ammoniva l'Occidente sulle conseguenze disastrose derivanti dalla violazione della sovranità serba, nelle cancellerie europee e in quella statunitense si sottolineava la “eccezionalità” della questione Kosovo. Da Mosca Vladimir Putin rispondeva: “Non esistono casi speciali, lo sanno tutti”. All'indomani dell'autoproclamata indipendenza del Kosovo, il leader sud-osseto Eduard Kokoity avvertì di sentirsi ancor più legittimato a perseguire le aspirazioni di secessione per il suo popolo. L'abkhazo Serghei Bagapsh gli fece eco da Sochumi. Nel giro di poche settimane, la Duma (la camera bassa del Parlamento russo) approvò, all'unanimità, una risoluzione per spingere il Cremlino a riconoscere come Stati indipendenti Abkhazia e Ossezia del Sud, facendo montare la rabbia dei georgiani che vedevano il provvedimento come una palese violazione della propria sovranità. Sotto molti aspetti l'intervento russo ricorda quello della Nato nel 1999. Anche l'Alleanza Atlantica diede inizio a una “guerra umanitaria”, bombardando la Serbia per fermare la pulizia etnica. Come l'Occidente chiese di processare l'ex presidente serbo Slobodan Milosevic, così Mosca ha chiesto che Mikhail Saakashvili affronti un processo per i crimini commessi nella regione separatista, mentre sui media russi l'etichetta data questa guerra è quella di “genocidio in Ossezia”. I serbi profetizzarano che il boomerang del Kosovo avrebbe colpito l'Occidente. Mosca ha trasferito sullo scacchiere georgiano la partita cominciata da Stati Uniti ed Europa su quello serbo. E c'è chi scommette che il confronto si ancora in fase di pieno sviluppo.
PAESE
Naoki Tomasini
Nicola Sessa
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Sri Lanka Pakistan talebani Afghanistan Iraq Georgia-Sud Ossezia Somalia Nigeria Pakistan Balucistan India Kashmir India Nordest Filippine Abu Sayyaf/Milf Nord Caucaso Turchia Uganda Thailandia del sud Israele-Palestina Sudan India Naxaliti Filippine Npa Ciad Bangladesh Burundi Algeria Colombia Nepal Rep. Dem. Congo
TOTALE
MORTI
761 584 570 552 412 100 93 70 59 50 42 37 37 32 32 28 23 15 13 13 10 7 5 4 3 2
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La storia Georgia
Le radici del conflitto di Enrico Piovesana
Ossezia del Sud e Abkhazia, due indipendentismi che hanno radici antiche, che si perdono nel complicato mosaico etnico del Caucaso, e che il riconoscimento del Kosovo da parte della comunità internazionale ha fatto riesplodere er comprendere le cause più profonde della ‘guerra dei cinque giorni’ scoppiata in agosto tra Russia e Georgia, bisogna tornare all’inizio dell’anno scorso, quando nella piazza principale di Tbilisi, durante una delle tante adunate oceaniche organizzate dal regime nazionalista georgiano, l’esagitato presidente Mikheil Saakashvili urlò dalla tribuna queste parole: “Quando sono diventato presidente, la Georgia era un Paese in ginocchio. Da allora ci siamo rialzati in piedi e abbiamo imparato a stare ben saldi sulle nostre gambe. Ora è impossibile farci cadere. Abbiamo riacquistato le forze e siamo pronti a metterci in cammino verso l’obiettivo finale: la riunificazione nazionale. Noi saremo la generazione che farà una nuova Didgori. Saremo una generazione che verrà ricordata nei secoli futuri. Una generazione che non si tira indietro davanti ai titanici e quasi impensabili ostacoli che la Georgia dovrà affrontare per prevalere”. Didgori è la gloriosa battaglia nella quale, nell’agosto (guarda caso) del 1121, l’esercito georgiano guidato dal re Davide IV sconfisse le armate turche che occupavano il Paese, riconquistando l’unità nazionale della Georgia. Saakashvili, uomo dal temperamento impulsivo e dotato di scarsa lucidità politica, è sempre stato ossessionato dalla folle idea di riconquistare con la forza le due regioni separatiste di Ossezia del Sud e Abkhazia per ripristinare l’integrità territoriale della Georgia. Un obiettivo da conseguire a qualsiasi costo, secondo il giovane leader georgiano, anche a quello di uno scontro con la ‘titanica’ armata russa, sulla quale lui era convinto di poter prevalere grazie al sostegno militare occidentale, anche al prezzo di scatenare la terza guerra mondiale. Per avere la sua Didgori, Saakashvili ha perseguito una strategia di crescenti provocazioni militari (regolarmente ignorate dai media occidentali) alle quali però Mosca per anni non ha reagito, continuando la sua placida politica di annessione amministrativa delle due repubblichette secessioniste. Da anni, infatti, abkhazi e sud-osseti hanno la cittadinanza russa, il passaporto russo, commerciano in rubli e percepiscono pensioni dallo Stato russo.
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cambiare le carte in tavola, lo scorso inverno, è stata l’indipendenza unilaterale del Kosovo dalla filo-russa Serbia. Uno schiaffo a cui Mosca, già irritata dalla politica di accerchiamento voluta da Washington (scudo spaziale nell’Est Europa e candidatura di Georgia e Ucraina all’ingresso nella Nato), ha risposto chiedendo la stessa indipendenza per Ossezia del Sud e Abkhazia e instaurando, il 16 aprile scorso, relazioni diplomatiche con le due entità: primo passo verso il riconoscimento russo delle due repubbliche. La sfida russa ha fatto impazzire Saakashvili, che ha ordinato una progressiva escalation delle provocazioni militari nelle due regioni separatiste (sparatorie, attentati, bombardamenti) e ha iniziato a comprare armi a tutto spiano in vista dell’agognata guerra, della nuova Didgori. Che però non si decideva a scoppiare. Così, alla 22
fine, ci ha pensato lui, bombardando a tappeto l’Ossezia del Sud e causando in poche ore oltre mille morti civili e decine di migliaia di profughi. “Pulizia etnica come in Kosovo!”, hanno subito gridato dal Cremlino, ordinando un “intervento umanitario” di protezione come fece a suo tempo la Nato. E ora, come per il Kosovo, Mosca pretende l’indipendenza delle due repubbliche dalla Georgia. O quantomeno la loro formale autonomia da Tbilisi come ai tempi dell’Urss, quando Abkhazia e Ossezia del Sud erano regioni autonome rispetto alla repubblica socialista sovietica georgiana (dal ‘21 al ‘31 l’Abkhazia fu addirittura una repubblica socialista a sé). Autonomia che, subito dopo il crollo dell’Urss, la Georgia indipendente di Gamsakhurdia aveva abolito, scatenando le rivolte separatiste in Ossezia del Sud (mille morti e 100mila profughi tra il ’91 e il ’92) e in Abkhazia (15mila morti e 250mila profughi tra il ’92 e il ’93). Entrambe vinte dagli indipendentisti grazie al sostegno militare già allora ricevuto da Mosca. a Russia ha sempre appoggiato le aspirazioni autonomiste di questi due piccoli popoli caucasici contro il nazionalismo anti-russo dei georgiani, che fin dall’Ottocento si sono opposti alla dominazione russa, iniziata su tutto il Caucaso meridionale agli inizi del XIX secolo. Anche quando l’impero zarista crollò sotto i colpi della Rivoluzione d’Ottobre e la Georgia menscevica dichiarò la propria indipendenza, la Russia bolscevica sostenne le rivolte indipendentiste anti-georgiane scoppiate in Ossezia del Sud e in Abkhazia, che proseguirono fino all’invasione sovietica della Georgia del 1921, quando, come abbiamo visto, entrambe le regioni ottennero una larga autonomia – mentre i georgiani continuarono per anni a resistere, inutilmente, all’Armata Rossa. Questi due indipendentismi, certamente fomentati dalla Russia per scopi politici, hanno basi storiche che si perdono nel complicato mosaico etnico del Caucaso. Gli abkhazi, che parlano una lingua caucasica diversa da quella dei georgiani, possono vantare i quasi due millenni di indipendenza dell’antico regno di Colchide (attuale Abkhazia), che si unì al regno di Iberia (attuale Georgia centrale) solo nell’XI secolo. Gli osseti, che parlano invece una lingua indoeuropea iranica simile al curdo e al pashto, si rifanno al regno medievale di Alania che prosperò nel Caucaso settentrionale per cinque secoli, fino alle invasioni mongole del XIII secolo, che costrinsero molti osseti a fuggire a sud oltre le montagne, nell’attuale Ossezia del Sud. Distinzioni complesse, più o meno discutibili, che comunque contano assai poco rispetto alle ben più concrete divisioni create dall’odio seminato da quasi vent’anni di guerre e violenze.
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In alto: Sulla strada per l’Armenia. In basso: Centro storico. Tblisi, Georgia 2005. Alessando Franzetti per PeaceReporter
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Migranti
Israele, la nuova frontiera Di Gabriele Del Grande
Nei mesi di giugno e luglio lungo le frontiere europee sono morti almeno 343 tra migranti e richiedenti asilo. È un bollettino di guerra. Frontiera per frontiera. Il Mediterraneo la grande fossa comune intorno alla quale si erigeranno i monumenti ai caduti egli ultimi sessanta giorni nel Canale di Sicilia, 222 vittime; 51 al largo delle coste spagnole e delle isole Canarie; 38 tra l'Algeria e la Sardegna; 15 in Turchia, nascosti nei camion; e poi ancora morti in Francia, a Calais, nel porto di Venezia, al largo dell'isola francese di Mayotte, nell'oceano indiano e sotto gli spari della polizia egiziana lungo il confine con Israele. L'ultima che hanno ammazzato è una bambina sudanese di sette anni, lo scorso 28 giugno. Quella del Sinai si conferma la nuova rotta dei rifugiati eritrei e sudanesi, che alle carceri libiche e alla morte in mare preferiscono lo Stato ebraico. Nel 2007, secondo l’Unhcr, ne sono arrivati almeno cinquemila. Intanto l’Egitto ha rinforzato i propri dispositivi di controllo, autorizzando la polizia di frontiera ad aprire il fuoco sui migranti. Dall’inizio dell’anno i morti ammazzati sono almeno sedici. Messo sotto pressione da Israele, l’Egitto ha avviato una vasta operazione di arresti e deportazioni, colpendo in modo particolare gli eritrei. Secondo Amnesty International, su un totale dei 1.600 eritrei detenuti nei campi di detenzione egiziani, 810 sono già stati deportati dall'11 giugno 2008. Si tratta della più grande deportazione mai organizzata negli ultimi anni dall'Egitto e potrebbe segnare il passo di una nuova stagione di repressione al Cairo. Intanto chi ce l'ha fatta cerca una nuova vita in Israele. Har Zion street numero tre. È uno degli indirizzi della diaspora eritrea a Tel Aviv. Uno stabile su tre piani, occupato da un centinaio di rifugiati del Corno d'Africa. I materassi sono dappertutto. Sui pianerottoli delle scale, lungo i corridoi. Beyené apre la porta di una camera di quattro metri per quattro, ci dormono in tredici. Alle undici del mattino la televisione è accesa e alcuni sono ancora a letto. Beyené è eritreo. È a Tel Aviv da venticinque giorni. È entrato dall'Egitto. Dal Sudan era partito con la moglie. Ma lei è ancora detenuta a Ketziot, il campo di detenzione israeliano nel deserto del Sinai. Beyené è solo uno dei circa diecimila richiedenti asilo entrati in Israele negli ultimi anni. È cominciato tutto nel 2006 con circa 1.200 ingressi dal Sinai, sei volte i duecento dell'anno precedente. E poi i 5.500 arrivi nel 2007 e i già 2.000 del primo trimestre del 2008. Sono soprattutto sudanesi e eritrei. E non è un caso. Il 30 dicembre 2005, 4.000 agenti egiziani in tenuta antisommossa assalivano i circa 3.500 profughi sudanesi che da tre mesi presidiavano il parco Mustafa Mahmoud del quartiere residenziale di Mohandessin, al Cairo, a poche centinaia di metri dagli uffici dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, chiedendo di essere reinsediati in un Paese terzo. Alla fine degli scontri si contarono ventisei morti, tra cui sette donne e due bambini. Il clima di repressione in Egitto, l'impossibilità di tornare in patria, nel Darfur come nel Sud Sudan, e i rischi del viaggio in mare verso l'Italia, hanno aperto una brec-
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cia nella barriera di filo spinato che separa l'Egitto e Israele. E ai convogli dei sudanesi sono seguiti quelli dei rifugiati eritrei, molti dei quali in fuga dal Sudan, dove il 2 giugno il governo ha ordinato la chiusura degli uffici dell'opposizione eritrea. eyené viveva a Khartoum da due anni. Con la moglie hanno pagato ottocento dollari a testa per il viaggio verso Assuan, in Egitto. Un viaggio relativamente semplice, dice, meno duro della traversata del deserto verso Kufrah, in Libia. Da Assuan al Cairo sono arrivati in treno. Alla stazione li aspettava un connection man. Altri settecento dollari a testa e nel giro di pochi giorni sono partiti alla volta della frontiera. Un pezzo di strada nei camion. E poi a piedi, di notte, in pieno deserto, finché le guide, egiziane, hanno tagliato con delle cesoie la barriera alta un metro di filo spinato e gli hanno detto di aspettare le pattuglie dell'esercito dall'altro lato. Una volta intercettati sono stati portati al campo di Ketziot. È una tendopoli con 1.200 posti, inaugurata nel luglio 2007 nel cortile di un carcere alle porte di Gaza utilizzato per la detenzione amministrativa dei prigionieri politici palestinesi. La moglie di Beyené è ancora là. Lui l'hanno rilasciato con un documento temporaneo di conditional release. Intanto la domanda d'asilo pende presso l'Unhcr, che però non ha abbastanza personale per far fronte alle interviste, e si concentra piuttosto nelle richieste di rilascio dei migranti detenuti a Ketziot e nella ricerca di regolarizzazioni collettive, come il permesso temporaneo di un anno recentemente rilasciato a seicento sudanesi del Darfur e il permesso di lavoro di sei mesi dato a circa duemila eritrei. I rifugiati riconosciuti dall'Acnur e dal governo israeliano sono solo 86. Intanto, il 19 maggio 2008, il parlamento israeliano ha approvato in prima lettura la modifica della legge anti infiltrazione: riaccompagnamento immediato alla frontiera e cinque anni di carcere per il reato di immigrazione clandestina, sette per i cittadini degli Stati nemici: Iran, Afghanistan, Libano, Libia, Sudan, Iraq, Pakistan, Yemen e Palestina. La proposta di legge torna adesso in commissione e sarà votata altre due volte. Intanto però, sui banchi del Parlamento non c'è nessuna proposta di legge sull'asilo. I motivi sono tanti. La questione politica dei rifugiati palestinesi e più in generale dei rifugiati degli Stati nemici di Israele sopra elencati, il possibile arrivo di parte dei due milioni di rifugiati iracheni residenti in Siria e Giordania e la questione ideologica dello Stato ebraico. A Tel Aviv chiunque lo dice: “We are not supposed to be an immigration State, but a Jew State”.
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Cucina di un ristorante tipico. Trentino Alto Adige, 2007 Italia. Alexey Pivovarov/Prospekt
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Speciale
CINA Il lato B delle Olimpiadi Ovvero gli occhi di sei blogger sui Giochi di Pechino (a cura di Gabriele Battaglia)
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Speciale Olimpiadi
La lottizzazione della torcia di John Salamini
La nuova middle-class del Dragone si è spartita il ruolo di tedoforo. Con risultati esilaranti ccompagno la colazione con la tv. L’evento atteso è imminente e la torcia corre per le strade della capitale. Guardo distratto le immagini trasmesse che non sembrano mostrare nulla di nuovo. A breve mi ritrovo ad osservare con crescente sgomento il passaggio di mano in mano della torcia. Ma quanti sono? Qualcosa non sembra funzionare, mi sfugge, poi capisco: ogni cinese che si ritenga vip ha preteso i suoi quindici secondi di celebrità mediatica. Saranno tremila in tutto i passaggi di mano nel corso della giornata. Chiuderà Yao Ming, cestista celebrità. Tremila vip che fingono di correre per un centinaio di metri ciascuno, zampettando sorridenti. Uno di questi riesce perfino a sbagliare direzione, partendo in diagonale e puntando le ali di folla. La sicurezza insegue. Viene raggiunto e reindirizzato. Lui ride felice. La gente attorno pure. Da oggi è vacanza per gli uffici pubblici, il contorno è assicurato. Esco. Il cielo è di nuovo grigio a Pechino, l’aria appiccicosa. È come se colasse su tutto da un barattolo di vernice. Manca un giorno all’evento e la città è deserta, blindata, almeno quella che frequento abitualmente. Poca la gente per strada, ancora meno gli stranieri. Trovo i cinesi finalmente numerosi a Xi Dan, estesa area commerciale per i più giovani, a ovest di Tian An Men. Finalmente il traffico scorre, dopo una settimana di quasi paralisi a targhe alterne e per effetto della corsia riservata a quelli dell’olimpiade. Ci sfrecciano Volkswagen color argento con grossi adesivi verdi sulle fiancate e auto della polizia; poi Audi nere con i lampeggianti, per chi conta in questa storia. Corrono rapaci e noncuranti, sembrano i sinistri uccellacci neri di Capitan Harlock. I tedeschi hanno piazzato le loro auto ovunque. Evidentemente hanno un efficace sistema di relazioni politiche, le famigerate guangxi, senza le quali nulla accade in questo paese. Calma piatta per le strade. Mancano le vibrazioni appunto. Sovraeccitati sembrano solo loro, i televip, principali protagonisti di questa vigilia che per molti versi sembra essere il preludio della prima olimpiade classista. Prorprio qui, nella repubblica Popolare cinese. L’eccitazione è mediatica e
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appartiene a chi vi ha accesso. Cnooc, gigante del petrolio, spende tre milioni di euro per invitare vip a frotte. Qualcuno ne paga circa ventimila, di euro, per assicurarsi un posto alla cerimonia. Poco distante un tizio arranca spingendo sui pedali del suo triciclo. Per l’occasione, queste curiose biciclette con rimorchio sono state ridipinte di blu. Ne circolano pochissime, quasi bandite, credo per non ricordare inoppotunamente a quelli delle auto nere da dove provengono. Trasportano i bidoni trasparenti dell’acqua, l’unica che convenga bere. Lui veste una tuta blu, ha un cappello di paglia e si accorge che lo sto osservando. Mi sorride. Sorrido. Forza Cina! ggi è il gran giorno. Decido di non seguire l’apertura dei giochi in uno spazio pubblico. Mi scoraggia una breve ricognizione sulla Wang Fu Jing, una delle principali arterie dello shopping alla pechinese e una delle poche aree attrezzate per la visione collettiva. Vedo i cordoni di polizia, la gente ordinata che aspetta tranquilla, un certo silenzio che mette a disagio. È come osservare un acquario. Mi rattristo, cambio idea e torno indietro. I più seguiranno l’apertura dei giochi da casa. La prova è che mi fermo al mercatino, vorrei comprare due birre e qualche snack. La Yan Jing, la birra di Pechino è finita, la Qingdao c’è, ma solo calda. Fredda hanno la Heineken a nove renmimbi l’una. Tre anni fa con dieci renmimbi ci prendevo la confezione da sei. Mi riconcilia la cerimonia di apertura, forse un po’ troppo didascalica, ma densa di colore nelle digressioni care ai cinesi ma pur sempre di valore universale. E care anche agli atleti sorridenti e un po’ svaccati. Speriamo siano loro il medium, il mezzo in grado di restituire queste olimpiadi ai naturali proprietari.
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Particolare della torcia olimpica Pechino 2008. Archivio PeaceReporter Di fianco: Guardia cinese in Piazza Tien an Men. Pechino, Cina 2008. Alessandro Ursic ©PeaceReporter 27
Speciale Olimpiadi
Stress Olimpico di Kuang Biye
Una mobilitazione di massa che non si ricorda dai tempi di Mao. Ma per i pechinesi di oggi è “troppo fastidio” n giorno, sul metrò all'ora di punta, un ragazzo pesta per errore il piede a una signora di mezza età. “Stai attento, imbecille!” lo apostrofa la signora, in modo che tutto il vagone senta “Non sai proprio come comportarti. E proprio ora, con le Olimpiadi alle porte! Ma non ti vergogni?”. I Giochi sono stati preceduti da una campagna mediatica motivazionale di quelle che non si erano viste dai tempi di Mao. Praticamente chiunque in Cina, e specialmente a Pechino, ne è stato coinvolto: cartelloni pubblicitari di Stato che enunciavano fieri vari slogan, in particolare il mantra “One World One Dream” e “Pechino vi dà il benvenuto”; pubblicità a tappeto di qualunque prodotto con immagini di sportivi e consumatori pervasi dallo spirito olimpico; attività di gruppo, dalle sedi di partito ai comitati di quartiere alle aziende grandi e piccole, persino negozi, grandi magazzini, condomini, ovunque è stato un fiorire di mini-campagne per imparare l'inglese, per assimilare “i principi olimpici”, per abbellire la città, per educare i cittadini al benvenuto. Poi le grandi campagne nazionali: quella dell'11 di ogni mese per imparare a rispettare le file; quella per non sputare; quella per tenere la città pulita, con tanto di fascicoli e opuscoli distribuiti ai gruppi più strategici per l'educazione del popolo, vale a dire mogli e mamme. Quindi le campagne volte alle aziende: quella delle “Olimpiadi Verdi” per passare a processi produttivi meno inquinanti, quella delle vacanze olimpiche che concede agli impiegati orari flessibili per evitare la congestione dei trasporti pubblici, quella che suggerisce addirittura di chiudere l'azienda per qualche giorno. Le campagne per il traffico (targhe alterne per sessanta giorni, niente mezzi pesanti sulle strade per tutto il periodo olimpico), quelle per la sicurezza (censimento dei residenti e controllo a tappeto dei documenti, con blocchi stradali dei volontari di quartiere e blitz della polizia all'alba o a notte fonda in casa degli stranieri per chiedere se hanno il visto in regola). Si potrebbe andare avanti quasi all'infinito. Il succo è che le Olimpiadi sono diventate, per i pechinesi, un'ossessione da non dormire la notte, un carico di responsabilità che ha cambiato la vita a tutti, una pressione sociale quasi insopportabile. E guai a lamentarsi: qualunque commento deve essere positivo, o si corre il rischio di essere accusati di sabotare lo “spirito olimpico”. Il risultato è che, oltre a diventare il principale argomento di qualunque conversazione, le Olimpiadi sono diventate anche il motore primo della città: adesso, a parlare con i pechinesi, sembra che tutto dipenda e accada in funzione dei Giochi. È pieno di taxi? Naturalmente il governo ha aumentato il numero di macchine a disposizione dei visitatori. Non si trova un taxi? Chissà quanti turisti stanno arrivando. Internet è rallentato? Certamente sarà per le Olimpiadi, tutti si staranno connettendo, e chissà quanti controlli sta facendo l'autorità per fermare i terroristi. Internet è rapidissimo? Si vede che hanno installato infrastrutture olimpiche, del resto non è pensabile che
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ora a Pechino la rete funzioni male. Il prezzo della carne di maiale è salito alle stelle? Con tutta la richiesta delle Olimpiadi è normale che il prezzo degli alimentari aumenti. La gente regala prosciutti per strada? Con le opportunità che ci sono, tantissimi imprenditori sono entrati sul mercato e ora si fanno concorrenza spietata. In sostanza, qualunque anomalia nell'economia, nei trasporti, nelle comunicazioni è attribuito ai Giochi. Fin qui uno potrebbe anche crederci, ma l'ossessione va oltre: c'è il sole? Certo, il governo controlla il tempo per avere bel tempo durante le gare. Piove? Stanno facendo piovere per pulire l'aria e abbassare lo smog. C'è nebbia, non si respira per lo smog e c'è un'afa micidiale? Vedrai che tra poco fanno piovere. Un passante vi sorride, salutandovi in modo gentile? Certo, ora tutti seguono i dettami dello spirito olimpico. Un passante vi supera e vi tira una gomitata? Con tutti i cambiamenti che portano le Olimpiadi chi è che non è nervoso? La paranoia è generale, la nevrosi di gruppo ha il sopravvento e, a stare qui, uno davvero comincia a crederci: che in fondo la storia di Pechino, dalla sua fondazione a oggi, sia stato un processo esclusivamente volto ad ospitare i Giochi del 2008, e che dopo le Olimpiadi forse la città avrà perso la sua funzione d'essere. Qualcuno già, sui giornali, è arrivato a definire le Olimpiadi come uno degli eventi principali in seimila anni di storia cinese. l futuro, una grande zona d'ombra: ognuno è talmente concentrato su queste tre settimane d'agosto che non riesce a pensare al dopo. Se lo chiedi, quasi tutti scuotono la testa. Tranne qualcuno, quelli meno influenzabili che, sottovoce, confidano: “Tutto tornerà come prima”. Ma più spesso c'è una punta di soddisfazione: liberata dalla tirannide dei Giochi, Pechino sarà di nuovo libera e i suoi abitanti torneranno al tran-tran quotidiano, senza che le loro vite siano scombussolate da eventi di portata globale. Ed è in fondo nelle pigre e serene abitudini millenarie, nell'accettazione che nulla è perfetto ma molte cose sono rese uniche dai loro difetti, nella consapevolezza di essere la capitale della Cina e di non dover dimostrare nulla al mondo esterno, che sta la particolarità del carattere pechinese. Se andate per la strada e proponete a un pechinese medio – un tassista, un ambulante, un ristoratore o commesso – un cambiamento di vita, una qualsiasi pratica che vada a intaccare la loro quotidianità, il loro modo di affrontare le cose, la risposta sarà univoca: “Tai mafan”, “troppo fastidio”, “una scocciatura non necessaria”. Non è difficile comprendere che tutta la positività senza compromessi dei pechinesi, che vivono i Giochi sulla propria pelle, non sia altro che conformismo, da sempre l'arte della sopravvivenza in Cina. Nel loro cuore, il giudizio sulla Nuova Pechino tanto sbandierata dai media, è univoco: “Tai mafan”.
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In alto: Al mercato dei libri di Pan Jia Yuan di Pechino. In basso: Prima del turno al ristorante. Cina 2007. Gabriele Battaglia per PeaceReporter
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Speciale Olimpiadi
Tra i manovali di Cikin Stanno costruendo la nuova Cina. Ecco come hanno vissuto la cerimonia d'apertura dei Giochi oteva essere la solita annoiata cricca occidentale davanti ad un maxi schermo piattangolare con dolby surround e cocktail da 80rmb in veranda rinfrescata. Invece abbiamo scelto una piu’ inconsueta cerimonia d’apertura in condivisione con 40 lavoratori del vicino cantiere di Anting road, tra le case dei ricchi della Concessione Francese. I carpentieri, immigrati infaticabili, sparpagliati nel cortile, si concedono la relativa tranquillità nella calda serata shanghainese dopo la consueta fatica della dozzina di ore per demolire e ricostruire la città. Ma nella piatta quotidianità dell’infinito lavoro, questa serata è diversa ed è solenne: la Cina apre i Giochi, diventa mondiale e si apre ufficialmente al mondo. I lavoratori per la serata mantengono il solito stile sobrio con pantaloni rimboccati e ciabatte. I torsi nudi, violentati dal sole, si rinfrescano nella calda brezza serale. La sigaretta accesa è l’unico vizio per le prossime 4 ore. Mozziconi e gargarismi scandiscono il tempo della memorabile serata. Al fondo, lo schermo su CCTV1 trasmette la spettacolare cerimonia: suoni, colori, movimenti, sincronia, salti, balli, grazia, stile. Gli sguardi dei lavoratori vengono rapiti dai pochi pollici catodici dello schermo. Il fumo delle sigarette si muove lento verso l’alto ed è l’unico segno di vita nel riposo silenzioso di questa serata. Si accorgono di noi, si stupiscono, ci offrono subito le sedie, quelle migliori, quelle davanti, quelle pulite. Altri si adoperano per raccattare altre sedie tra le macerie, un giornale toglie la sporcizia. Noi ricambiamo con angurie e birre calde, si
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stappa e si festeggia. Lo scambio di doni che ha reso famosi Marco Polo e Matteo Ricci ha uno strano effetto: i loro sguardi sorpresi e la scarsa abitudine ad interagire con lo straniero li blocca. Al massimo riescono a pronunciare corte frasi di ringraziamento, parole strappate da labbra incollate ai mozziconi accesi. più si lanciano e ci chiamano “amici” stupendosi quasi della parola, insicuri del vero significato verso gli stranieri. Le fette di anguria vengono consumate e il lusso della birra calda ha effetto. Ora finalmente possiamo concederci il piacere della cerimonia tra i cinesi in terra cinese. Però mi rimane un punto interrogativo. Il mio occhio ormai attrezzato alla Cina se ne accorge: siamo insieme ma non uniti, c’è il loro cerchio e il nostro cerchio, cerchi che non si chiudono, cerchi che in questi anni rimangono forzatamente sovrapposti, cerchi che non si intrecciano ancora nello spirito olimpico che si vorrebbe: “One world one dream”. Però è un passo importante: i piccoli gesti di questi lavoratori sono i grandi gesti che porterò sempre con me, nel ricordo di una serata indimenticabile. Forza Cina, forza azzurri, one world one dream, e mi sento parte della cerimonia.
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La Cina (中国) si rinnova . Shangai, Cina 2007. Gabriele Battaglia per PeaceReporter
Speciale Olimpiadi
Dieta a cinque cerchi di Lucio Cascavilla
I Giochi sconvolgono le abitudini alimentari dei cinesi rima dell'inizio delle olimpiadi s'è fatto un gran parlare di alcuni problemi legati alla Cina. Problemi che sembravano e sembrano tutt'ora insormontabili. Uno di questi, i nostri cari amici dell'oriente se lo portano dietro da almeno sei anni. Non mi riferisco solamente alla Cina, ma anche alla Corea (del Sud) e al Giappone. Nel 2002 in occasione dei mondiali di calcio, giocati per la prima volta in Asia, si mosse addirittura Brigitte Bardot. L'attrice ormai incanutita ed impossibilitata a posare di fronte alle macchine fotografiche (causa perduta bellezza), cerca ancora di fare notizia. Protestando ed alterandosi poiché nei luoghi suddetti (a cui si aggiunge la Cina) si mangia la carne di cane. Wang Hui fa il batterista punk. Eravamo assieme ieri sera. E mentre su ogni televisore andavano in onda le immagini della inaugurazione (viste e riverite da tutti con quasi sacrale attenzione) io mi intrattenevo a chiacchierare con lui. La lista delle nazioni che si apprestavano a sfilare era lunga. Troppo lunga. E anche se avevamo intenzione di aspettare, per goderci anche i fuochi artificiali a conclusione del tutto, lui era irrequieto. Aveva fame. Decisi di accompagnarlo. Nel cammino, entrambi concordavamo sul fatto che la cerimonia fosse bellissima e fantasmagorica. Lui per esempio non apprezzava Zhang Yimou; ciò nonostante era rimasto incantato dalle immagini. “Zhang Yimou a me non piace per niente”, continuò, mentre ci sistemavamo sugli sgabelli di una bettolaccia e ci apprestavamo ad acquistare una tazza di spaghetti in brodo, “perché con i suoi film lui va all'estero e parla male della Cina. E soprattutto fa vedere al mondo qualcosa che in Cina non esiste.”
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Provai a dissentire dalle sue parole, dicendogli che forse lui non aveva ben presente la realtà di tutte le altre regioni di quello sterminato paese. Insomma il succo del mio discorso era: magari quel che non succede a Pechino può succedere nello Anhui. “Se così fosse”, riprese lui, “prima di andarsi a fare bello nei festival del cinema, dovrebbe discuterne qui. Con i cinesi. Altrimenti che idea si fanno gli stranieri della Cina? Che è un paese povero, brutto e sporco, dove la gente non ha nemmeno da mangiare. Ma non è così. Anche perchè questa è l'unica cosa che interessa agli stranieri: venire qua e dirci cosa dobbiamo fare”. l cameriere, anche lui perso a seguire le immagini televisive, distrattamente si avvicinò. I due parlarono rapidamente in Cinese, ed io quasi non feci in tempo a capire cosa si stessero dicendo. “Tu mangi?” - mi chiese “qui fanno degli spaghetti in brodo buonissimi”. Accettai di buon grado. Lui ordinò e io mi misi comodo. Aveva chiesto due tazze di spaghetti in brodo con carne di cane. Non mi faceva nè caldo nè freddo: io apprezzo la carne di cane. Ma il cameriere lo guardò sconsolato e scrollò le spalle. Niente carne di cane. “Ma come?”, fece lui incredulo, “non è la specialità della casa?” “Si”, rispose il commesso, molto più interessato alla tivù che a noi, “ma per evitare problemi con gli stranieri, la carne di cane è vietata durante le Olimpadi. Metti che qualcuno si dovesse sentire male. Però abbiamo gli stessi spaghetti con un'ottima carne di capra”! Sospirò desolato. Anche io. 'Sti stranieri effettivamente rompono le scatole.
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Tao zuppa, Cina 2007. Gabriele Battaglia per PeaceReporter 31
Speciale Olimpiadi
Storie della vecchia Shanghai di Nicola Aporti
Tra i vicoli della città vecchia, dove le Olimpiadi si guardano per strada l quartiere nei pressi di Lujiabang Road, sotto al ponte di Nanpu, è uno degli ultimi scrigni della vecchia Shanghai. Questa zona è nota agli stranieri (laowai) residenti e/o di passaggio a Shanghai come quella del Taylor market, il mercato dei sarti, un palazzo di tre piani che ospita centinaia di piccoli negozi di sartoria che per prezzi infimi confezionano in tre giorni qualunque tipo di capo: giacche, camicie, pantaloni, abiti in pelle, seta, lenzuola, pigiami, etc. In realtà, sono sicuro che pochi dei laowai che affollano il Taylor market si siano mai avventurati nei vicoletti che lo circondano, viuzze di catapecchie a due piani, umide e sozze; anfratti dove modernità e comfort sono due concetti che restano confinati all’orizzonte, nelle sagome dei grattacieli che si stagliano sullo sfondo del cielo di Shanghai. Viuzze dove la vita si svolge in strada, in perfetto stile asiatico: in strada si mangia, ci si lava, si parla con i vicini, si dorme su una sedia-sdraio nelle torride notti di Shanghai. Due anni fa, in strada, in queste strade, ho assistito a molte delle partite della coppa del mondo in Germania. Per strada, naturalmente, si può quindi anche guardare l’Olimpiade. La notte è buia, la strada è poco illuminata. Ma la vita pulsa. Negozietti di sartoria, fruttivendoli, chioschi ambulanti che cucinano spaghetti fritti o riso saltato, parrucchieri, edicole di giornali, l’attività freme fino a tardi in questa parte di mondo che non conosce orari né giorni di riposo. Naturalmente in ogni negozio (compresa l’edicola!) campeggia una televisione e, ovviamente, il canale scelto è quello olimpico. Cammino per la strada. Arrivo ad un chiosco che vende fritture varie; è piu affollato di altri. Ha una televisione appoggiata su un tavolino di legno sghangherato. Intorno, una ventina di uomini sudati e a torso nudo assiste al match Cina-Polonia di pallavolo femminile. Sono certamente muratori dell’adiacente cantiere, uno di quelli che sta progressivamente sventrando gli isolati di vecchie casette decrepite per far spazio a compounds megagalattici che ospiteranno espatriati europei, americani, giapponesi o taiwanesi ovvero superstars locali. Mi prendo una birra e cerco di osservare il match senza dare troppo nell’occhio, non voglio rubare la scena alle olimpiadi. Ovviamente, ogni mio tentativo è vano. Dopo dieci minuti di schiacciate e spettacolari azioni difensive da parte delle agguerrite cinesi e delle avvenenti polacche, mi rendo conto che metà degli occhi sono puntati su di me: italiano nei vicoletti di Shanghai, sono doppiamente straniero. Parlo un po’ con loro, sono contadini della provincia di Anhui, una zona poverissima, anzi, forse il superlativo “poverrima” (se esistesse) renderebbe meglio l’idea. Contadini che, come molti altri, da anni sono emigrati a Shanghai per costruire lo sfarzo, la modernità, la grandiosità della Testa del Dragone. Una volta erano pagati una miseria, vivono in cantiere nei dormitori ivi allestiti. E la sera, appunto, birra e Olimpiadi.
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Assistono al match con attenzione e in silenzio. Niente grida né enfasi, ma attenzione quasi come fossero loro in prima linea contro le polacche. Forse, nei loro sogni, lo sono. “Di dove sei? Dove hai studiato il cinese?” “Italiano, ma vivo a Shanghai da tre anni. Qui ho imparato il cinese”. “Italiano? Noi siamo molto piu forti di voi a ping pong!”. Esplosione di risate da parte dei presenti, me compreso. “Certo – faccio io – ma noi siamo molto meglio nel calcio!” Altra esplosione di risate, mie e di tutti i presenti. Giro di gan bei, il brindisi, con le birre ghiacciate a 0,1 euro. llora mi avvicina un signore. L’unico non a torso nudo del “locale”, in pigiama si gode lo spettacolo olimpico sdraiato sulla sua sedia in mezzo alla strada: “Vivi qui vicino?”. “No – dico io – vivo nel quartiere di Jing An, circa quattro chilometri da qui”. “Ah! Vuoi che ti racconti un po’ di storie di questo quartiere? Allora, questa casa qui, la vedi? – dice indicando un palazzo di due piani, i cui fregi alle finestre denotano un passato sicuramente più glorioso che il suo modesto presente – qui da giovane abitò Chiang Kai-Shek. Era allora un giovane squattrinato, viveva da solo in una stanza in fondo al cortile. Sbarcava il lunario come impiegato in un’agenzia commerciale. Nessuno avrebbe immaginato che poi sarebbe diventato chi è diventato. Un bel giorno partì, fece studi ed esperienze all’estero, e si motivò alla politica per diventare poi il capo del Guo Min Dang.” “Incredibile. Ma lei lo ha conosciuto? O visto?”. “Ragazzo – ride – non sono cosi vecchio! Cosa credi? Senti piuttosto quest’altra storia: guarda lì di fronte, nelle casupole dietro quel vespasiano”, e indica delle catapecchie ormai disabitate e col tetto sfondato. “Quando ero bambino mi ricordo che ho conosciuto un uomo che viveva lì. Era conosciutissimo in tutta la via, era un maestro di Kung Fu, uno dei migliori di tutta la Cina! Ogni giorno si allenava in casa e in strada, sbarcava il lunario come maestro. A volte da questo marciapiede, come una rana, volava fino al balcone del primo piano di casa sua. Tutti stavamo a guardarlo a bocca aperta. Una volta da bambino sono caduto per terra e mi sono lussato la spalla. Mia mamma mi portò da lui che, con un colpo secco, mi ha aggiustato l’articolazione e da allora non ho più avuto problemi. Poi arrivarono gli anni ‘60 e ‘70 e la Rivoluzione Culturale. Quelli come lui, esperti di arti antiche e tradizionali, erano il bersaglio prediletto delle guardie rosse. Per anni è stato umiliato e picchiato. Ma per picchiarlo, dovevano andare in tanti, perche fino a sette lui poteva difendersi e anzi li faceva fuggire a gambe levate. Morì, molto vecchio, alcuni anni fa. Ma ormai gli ultimi anni non usciva piu di casa”. Questi, per chi ci crede o no, sono i magici racconti di una notte di mezz’estate a Shanghai, durante le olimpiadi. Per la cronaca, la Cina ha battuto la Polonia 3 a 1, e pian piano tutte le televisioni della strada si sono spente.
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Vicoli di Shanghai. Cina 2007. Gabriele Battaglia per PeaceReporter
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Rubriche
In edicola di Claudio Sabelli Fioretti
O compri o muori Sport di Alessandro Baretti
Homeless world cup Milano ospiterà la Homeless world cup 2009, il campionato del mondo al quale partecipano rifugiati politici ed emarginati in rappresentanza di nazioni provenienti da ogni continente. L’Italia che ci rappresenta al Campionato mondiale dei senzatetto nasce grazie a Bogdan Kwappik, immigrato dalla Polonia, in un container del centro di accoglienza di via Zombini a Milano. Il primo appuntamento è stato con il Mondiale di Graz 2003, nel quale l’Italia ottiene un lusinghiero 5° posto. Gli “azzurri multicolore” ottengono visibilità a partire dall’anno successivo, quando la spedizione ritorna da Goteborg 2004 con la coppa di Campioni del
mondo che sarà difesa anche l’anno successivo a Edimburgo. Nel 2006 in Sud Africa a vincere è la Russia, mentre nel 2007 è la volta della Scozia. Il prossimo torneo è in programma questo mese a Melbourne, Australia. Mel Young, che della Homeless world cup è fondatore e anima, ha scelto per il 2009 il capoluogo lombardo, in lizza con l’indiana Bombay, dopo aver trascorso un paio di giorni a Milano all’inizio di maggio. Ricevuto con un aperitivo allo stadio San Siro, e successivamente garantito dall’impegno del Comune, ha inviato, il 29 maggio scorso, una lettera agli organizzatori nella quale comunicava la scelta di Milano quale sede per il 2009. Teatro del mondiale di calcio, che si gioca quattro contro quattro senza limitazioni di età o sesso, sarà l’Arena Civica: sono attesi settecento giocatori in rappresentanza di sessantaquattro nazioni. La selezione italiana formata da Rom e Sudamericani rappresenterà l’Italia in casa propria. 34
Se uno gode di pessima stampa, in Italia, ha due possibilità per uscirne vincitore: o compra la stampa oppure muore. Anche se non sempre è la più gradevole, la più facile e la meno costosa è la seconda. Sicuramente è quella che non fallisce mai. Se sei un Papa, anche il più controverso, il giorno dopo la morte ti vogliono santo subito, anche coloro i quali te ne hanno cantate un'infinità in vita. Se sei un padrone, il più cattivo dei padroni, quello delle ferriere, anche gli operai più intransigenti, perfino i sindacati selvaggi, canteranno il de profundis per te elencando la tua tolleranza, la tua generosità e il tuo innato senso della giustizia sociale. I giornali, per l'occasione, riempiranno paginate e paginate di commenti favorevoli alle virtù del morto senza mai instillare il minimo dubbio sugli aspetti più discutibili del personaggio. Io sono sicuro che quando, spero il più tardi possibile, morirà Licio Gelli, i giornali metteranno in risalto le sue innegabili doti di mediatore e le sue indubbie qualità organizzative. E sono certo che quando Moggi lascerà i campi di calcio terreni per raggiungere quelli celesti, perfino la Gazzetta dello Sport titolerà: “Se ne è andato il migliore. Mandategli un Sms”. È successo proprio così, quando è morto Antonio Gava. Faccio riferimento a un articolo di Marco Travaglio, come al solito ottimamente documentato. Il più bravo ed efficiente a chie-
dere subito la santificazione di Gava è stato il nostro amato premier. Era “integerrimo” ha detto Berlusconi. Proprio così, “integerrimo”. Non semplicemente integro e nemmeno abbastanza integro o sufficientemente integro. “Integerrimo”. Superlativo assoluto. Per Casini era una vittima della stagione del giustizialismo. Per Mastella fu fiaccato da pesanti accuse che si sono dimostrate del tutto inesistenti. Per Cossiga fu uno dei tanti perseguitati dalla magistratura militante. Pensate che qualche giornale abbia manifestato qualche dubbio? Pensate male. Nessun dubbio nemmeno riportando la frase di Galasso per il quale Gava è uscito sempre benissimo da qualsiasi aula di tribunale in quanto, anche per lui, era “integerrimo”. Ora, io mi chiedo se si fosse sentito benissimo, Gava, anche uscendo dall'aula della corte d'appello che gli aveva ridotto la pena a due anni (dopo la condanna a cinque del tribunale). Fu poi la Cassazione a derubricargli il reato in corruzione (da ricettazione) facendo scattare la prescrizione. Si sentiva “benissimo” l'“integerrimo” una volta “prescritto”? Io penso che si sentisse semplicemente fortunato per lo scampato pericolo perché oggi, voi sapete, uscire da un’aula di tribunale “prescritto” equivale ad una medaglia d'oro di cui andar fieri mostrandola ai nipotini. www.sabellifioretti.it
A teatro
Vauro
di Silvia Del Pozzo
Boris Godunov Gli spettatori vengono presi in ostaggio da terroristi-attori che, armati di kalashnikov, i volti nascosti dai passamontagna, irrompono urlando e sparando (a salve…) dalle porte laterali della sala. Esattamente come avvenne a Mosca nell’ottobre del 2002, al teatro Dubrovka, quando nel bel mezzo del musical “Nord-Ost”, fece irruzione un manipolo di separatisti ceceni armati fino ai denti. Con il tragico seguito di sangue che tutti ricordiamo. A quel drammatico evento si rifà “Boris Godunov” , il nuovo spettacolo della Fura dels Baus, il gruppo catalano che si è fatto conoscere in tutta Europa per la foga vitalistica, talvolta violenta, delle sue messinscena sia teatrali sia operistiche, sempre sorprendenti e dal forte impatto emotivo (quest’estate hanno portato in Italia anche Imperium, uno show durissimo, dalle intonazioni gotiche, interpretato da sole donne) Mentre i “terroristi” creano con il pubblico un rapporto fatto di toni e gesti da cardiopalma, in palcoscenico altri attori interpretano il “Boris” di
Musica di Claudio Agostoni
Dr John and the Lower 911 “City that care forgot” (Cooking Vinyl) Puskin, la vicenda del boiardo diventato zar, tiranno sanguinario e violento quanto se non più di quell’Ivan il Terribile a cui era succeduto. Lo spettacolo di Alex Ollé , direttore della Fura, non ripercorre realisticamente i fatti di Mosca, ma crea simbolicamente ed emotivamente le paure che il terrorismo ha iniettato nelle società del benessere. E vuol mostrare come “la volontà di arrivare al potere con le armi accomuni politici corretti e terroristi”, ha spiegato il regista-autore. Per la violenza dell’azione scenica la compagnia, come si legge sulla locandina, sconsiglia ai cardiopatici, alle donne incinte e ai minori di assistervi. Ma chi ha il coraggio di resistere e due ore di “sequestro”, a parte i molti sussulti di paura, ne esce vivo e contento di aver assistito a uno spettacolo intenso e davvero coinvolgente. “Boris Godunov”, Benevento, Teatro Massimo, il 6 e 7 settembre, anteprima del festival Città Spettacolo. Tra febbraio e marzo 2009 il “Boris” torna in Italia: sarà a Genova, Bologna, Firenze, Milano e Torino.
New Orleans. La chiamavano the Big Easy, il luogo dove tutto era possibile, dove ogni cosa era facile e, soprattutto, eccitante come quei pruriti che attraversano la pelle e le culture ‘sudiste’ ad alta temperatura di questo mondo. È su questa città, una delle città più povere degli States, con un alto tasso di omicidi, bassi livelli d’istruzione e sessantasette percento di abitanti di colore, che nel 2005 si è abbattuta la furia di Katrina, agevolata da dighe costruite senza rispettare le norme e da speculazioni edilizie che hanno edificato quartieri in zone troppo al di sotto del livello del mare. Nulla è stato più come prima. A distanza di qualche anno New Orleans, lungi dall’essersi rimessa completamente in piedi, è ridotta a caricatura di se stessa. The Big City era la capitale della musica a stelle e strisce e che di questa che, più che una calamità naturale è un esempio di drammatico malgoverno, se ne siano occupati sin da subito i suoi musicisti, era quasi scontato. L’hanno fatto raccogliendo soldi, organizzando aiuti, denunciando le malefatte politiche e incidendo dischi. L’ultimo è que-
sto di Dr. John, monumento made in Louisiana. Uno come lui basta che schiocchi le dita e al suo fianco si ritrova artisti del calibro di Eric Clapton, Terence Blanchard, Willie Nelson, Ani DiFranco… Ne è uscito un ottimo lavoro di denuncia e un bel
disco, che scivola tra soul e funky. Secondo qualche critico la seconda traccia dell’album, Time for a change, è la What’s going on della You Tube Generation. Forse sono parole grosse, ma il lavoro merita più di un ascolto… 35
Al cinema di Nicola Falcinella
La terra degli uomini rossi Dal doloroso passato recente dell’Argentina ai drammi di oggi del Brasile dove gli indios lavorano in condizioni di semi-schiavitù. Marco Bechis, cileno di origine, al suo quarto film
corso alla Mostra di Venezia e subito nelle sale italiane, è ambientato al giorno d’oggi nello stato del Mato Grosso do Sul. I ricchi fazendeiros possiedono vaste piantagioni di coltivazioni transgeniche e rompono la noia trascorrendo le serate in compagnia dei turisti che si appostano a osservare gli uccelli. Ai margini dei campi vivono gli indios Guarani – Kaiowà, antichi abitanti di quelle terre e ora costretti nelle riserve con la sola alternativa tra lavorare la canna da zucchero da schiavi moderni
rivolta. Due mondi inconciliabili che si affrontano: si osservano, si studiano, si scontrano. Ma tengono desta una curiosità reciproca, viva soprattutto fra i giovanissimi, così l’apprendista sciamano e la figlia dei fazendeiros si avvicinano sempre di più. Nel ruolo dello spaventapasseri c’è Claudio Santamaria, mentre la latifondista – in mezzo ad attori brasiliani e indios – è Chiara Caselli. Dopo i desaparecidos argentini di “Garage Olimpo” e “Figli”, Bechis racconta una storia più lontana dal suo vissuto, ma comunque una storia di persone e di popoli che scompaiono anche oggi nell’indifferenza generale. E mostra, con grande rigore anche linguistico (la pellicola è in gran parte parlata nell’idioma locale), gli effetti della mondializzazione che in genere restano confinati nel cono d’ombra dell’informazione.
In libreria di Giorgio Gabbi
Come la rabbia al vento sposta il centro d’attenzione ma non il suo modo d’approcciare la realtà. La terra degli uomini rossi (Birdwatchers in originale), passato in con-
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o suicidarsi. È proprio l’ennesima morte di un giovane a spingere Nadio e uno sciamano a capeggiare una
“La guerra è per i teppisti. Anche le moto sono per i teppisti e per i teenager come noi, con i capelli lunghi, la pistola nella cintura, la benzina rubata nel serbatoio e nessuna meta particolare” dice Bassam, protagonista, con l’amico fra-
terno George, di questo romanzo avvincente e amarissimo, ambientato in uno dei periodi più tragici del conflitto libanese, il 1982, l’anno delle stragi dei civili palestinesi nei campi profughi di Sabra e Chatila. L’autore, Rawi Hage, libanese classe 1964, emigrato a New York dopo aver vis-
suto a Beirut gli anni peggiori della guerra civile, racconta di persone che nessuno vorrebbe incontrare di sera in una strada buia. Bassam e George sono arabi di religione cristiana, compagni di scuola in un rispettabile istituto dove imparano un ottimo francese, per essere subito risucchiati dall’ambiente di strada dominato dalla piccola violenza quotidiana che imperversa nella cornice della grande violenza bellica. Così, mentre dal cielo piovono granate, i due ragazzi fanno i primi soldi raccogliendo i bossoli dietro le barricate della prima linea, e poi si arrangiano con furti, contrabbando, rapine. E si stordiscono con l’alcol, l’hashish, la cocaina, sempre a caccia di sesso senza coinvolgimenti amorosi. Ma non sono mostri: credono nel valore eterno dell’amicizia, nutrono grandi speranze per il futuro. Bassam sogna di scappare dal Libano e la sua meta sospirata è Roma. George non è d’accordo: resistendo alle sollecitazioni dell’amico, vuole fare il salto di qualità: tramutarsi da teppista in guerriero: le milizie cristiane gli offrono la sciagurata opportunità di soddisfare la voglia individuale di sopraffazione sotto la copertura patriottica. E le donne? Per buona parte sono madri avvolte in scialli neri, che passano da un lamento funebre all’altro, per i mariti, i fratelli, i figli portati via dalla guerra. E si espongono al tiro dei cecchini avventurandosi sulla terrazza a rubare l’acqua dal serbatoio del vicino, o restando in cucina sotto i bombardamenti e morire uccise da una granata mentre preparano la cena al figlio che rifiuta di scendere nel rifugio. Garzanti, 2008, pagg. 255, € 17,60
lettere a un chirurgo confuso scrivi a chirurgo@peacereporter.net Caro Gino, Mi è capitato di leggere, su l’Espresso, un articolo in cui un appartente alle nostre truppe speciali in Afghanistan, parlando dei rischi che si corrono in quel paese e a proposito del fatto che Emergency riesce comunque e nonostante tutto a tenere aperti e a far lavorare i suoi ospedali, diceva: “Emergency sta lì perché paga, come fanno tutti. Non in dollari, ma paga. Curando tutti, in primis quelli che hanno il potere di concederle di restare laggiù a lavorare. Il potere è in mano ai talebani”. Questa frase mi sembra difficilmente comprensibile, ma molto allusiva. Anche perché di quel che accade in Afghanistan non ci raccontano un granché. Francesca, Trani
Gentile Francesca, quando ho letto l'articolo cui fa riferimento ho fatto un salto sulla sedia. Ho letto le frasi che ci riguardano, lentamente, in un crescendo di stupore. “Emergency sta lì perché paga, come fanno tutti”. Emergency paga qualcuno? E chi? Come tutti? Tutti chi? Le altre organizzazioni non governative, i soldati stranieri pagano per lavorare in Afghanistan? Non lo sapevo. “Non in dollari, ma paga”. Aaah, non in dollari. In euro? In buoni pasto? No: secondo l'intervistato, Emergency paga “curando tutti”. A questo punto lo stupore si è trasformato in sconcerto. Curare tutti, senza distinzione, è un “prezzo” per poter lavorare? Non ci avevo mai pensato. Non credo ci avesse pensato nemmeno Jean Henri Dunant, fondatore della Croce Rossa e Premio Nobel per la pace. Tutti gli uomini sono uguali davanti alla sofferenza: è il principio di imparzialità, uno dei pilastri dell'azione della Croce Rossa Internazionale. Dobbiamo pensare che, durante la battaglia di Solferino, curare gli austriaci fosse il “prezzo” da pagare per poter curare i francesi, o viceversa? Curare tutti o, meglio, curare chiunque ne abbia bisogno, non è un espediente per poter lavorare in Afghanistan: è quello che facciamo, in Afghanistan come in Iraq, in Cambogia, in Sierra Leone, in Sudan. Nel centro di riabilitazione di Emergency a Suleymania, nord dell'Iraq, curdi e arabi imparano ad usare – insieme – le loro nuove protesi. Nel centro di cardiochirurgia di Khartoum, Sudan, dove mi trovo in questo momento, abbiamo operato pazienti del Darfur, della capitale, del Sud Sudan. Qual è l'amico e qual è il nemico? Non sono né l'uno né l'altro: sono esseri umani bisognosi di cure. Sono pazienti. E come tali li trattiamo. Nei giorni scorsi nella provincia di Helmand, profondo sud dell'Afghanistan, si sono intensificati gli scontri a fuoco tra esercito afgano e miliziani talebani. Al Centro chirurgico di Emergency a Lashkargah abbiamo ricevuto decine di feriti, e nessuno, al pronto soccorso dell'ospedale, si è attardato a chiedere chi fossero, o quali fossero le loro idee politiche, alle persone che arrivavano
con un proiettile in pancia. Alcuni di loro, con la barba, potevano essere talebani, feroci combattenti oscurantisti, responsabili di tanta morte, orrore e distruzione tra la popolazione civile afgana? E' possibile. Ma, principio di imparzialità, in quel momento erano solo persone che rischiavano la vita. Altri, con la divisa dell'esercito afgano, erano soldati regolari. Erano gli stessi soldati regolari che, secondo le denunce di molti civili, oltre che di alcune organizzazioni locali, si dedicano nel tempo libero al saccheggio, la rapina, lo stupro della popolazione civile? E' possibile. Ma, principio di imparzialità, in quel momento erano solo persone che rischiavano la vita. Oggi se ne stanno ricoverati nella stessa corsia. E chissà che magari, trovandosi vicini, scoprano che, per dirla con le parole di De Andrè, hanno “lo stesso identico umore, ma la divisa di un altro colore”. Ma questa è solo una speranza. Quel che conta, per i medici egli infermieri che li hanno curati, è che rischiavano di morire. Ed è quello che conta, credo, anche per le migliaia di sostenitori di Emergency, che con le loro donazioni ci consentono di continuare a fare il nostro lavoro. Per inciso, se arrivassero nel nostro pronto soccorso i soldati stranieri del contingente internazionale – che però non arrivano, perché vengono curati negli ospedali militari – opereremmo anche loro. Senza stare a chiedere in via preliminare “Scusate, ma voi siete il tipo di soldato straniero che costruisce pozzi e scuole, oppure siete nella categoria che bombarda i villaggi di notte, riempiendo la nostra corsia pediatrica di bambini ustionati? No, sapete, perché nel secondo caso..”. E una nota a margine: nel centro chirurgico di Emergeny a Lashkargah, come negli altri due ospedali che Emergency gestisce nella capitale Kabul e nella valle del Panjshir, il venticinque percento dei pazienti ricoverati ha meno di quattordici anni. E vi assicuro che, quando arrivano in pronto soccorso dilaniati da una mina sovietica, colpiti da una pallottola vagante, mutilati da un attentato talebano o sfigurati da una bomba intelligente della Nato, non chiediamo loro “Che cosa vuoi fare da grande, il soldato governativo o il talebano?”. Curare chiunque ne abbia bisogno non è un “prezzo”: è esattamente il contenuto del nostro lavoro. A presto, Gino Strada 37
Per saperne di più Sri Lanka
testata giornalistica dello Sri Lanka indipendente dal governo. http://www.tamilnet.com Sito d’informazione vicino alle Tigri tamil che riporta notizie e commenti sul conflitto in corso. Molto attendibile. http://www.army.lk Sito ufficiale dell’Esercito dello Sri Lanka, con notizie aggiornate dal fronte
LIBRI
FILM
ONDAATJE MICHAEL, Lo spettro di Anil, 2003, Garzanti Questo romanzo dell’autore de ‘Il paziente inglese’ racconta la storia di una donna, Anil Tessera, medico legale che lavora per la Commissione per i diritti umani e che torna nel suo Paese d’origine per indagare sulle torture e le sparizioni di oppositori politici, scoprendo che in Sri Lanka il governo è responsabile di gravi crimini e abusi.
JAYASUNDARA VIMUKTHI, La terra abbandonata, 2005 Vincitore del premio Camera d'Or 2005 al Festival del cinema di Cannes, questo lungometraggio è stato girato da un regista singalese nei territori tamil nel breve periodo di tregua dei combattimenti (2002-2005). “Ho voluto raccontare – ha detto il regista – la strana atmosfera e lo stato di sospensione dell’essere tra la guerra e la pace, senza l’una e senza l’altra. Ho cercato di esaminare l’isolamento emozionale proprio di un mondo in cui guerra, pace, Dio sono diventate nozioni astratte”.
WIJESINHA RAJIVA, Atti di fede, 2006. Tranchida Un romanzo lucido, impietoso e intenso, che prende le mosse dall’assassinio di Shiva, un giornalista tamil scomodo al governo. Sullo sfondo, della guerra civile tra governo e Tigri tamil. Lo scrittore e storico singalese Wijesinha ricorre alla satira per mettere in luce una realtà in cui lo Stato incoraggia e promuove la violenza. GANESHANANTHAN V.V., Amori e foglie di tè, 2008. Garzanti La storia è ambientata a Jaffna e narra dell’incontro-scontro di due mondi lontani: quello moderno di Yalini, giovane tamil nata negli Stati Uniti che torna nella sua terra d’origine, e quello tradizionalista di sua cugina Banani, nata e cresciuta in Sri Lanka, figlia di un guerrigliero delle Tigri tamil. NATALI CRISTINA, Sabbia sugli dèi. Pratiche commemorative tra le Tigri Tamil, 2004. Il Segnalibro Attraverso un’indagine antropologica condotta dall’autrice tra il 2002 ed il 2003 nelle aree sotto il controllo della guerriglia tamil, questo libro racconta le pratiche funebri e le concezioni della morte proprie dell’universo ideologico dei combattenti delle Tigri per la liberazione della patria tamil (Ltte). Altri libri, in inglese, acquistabili online su Amazon: CHAMPION STEPHEN, Sri Lanka War Stories, 2007 SUBRAMANIAN NIRUPAMA, Sri Lanka, Voices from a War Zone, 2005 PATHAK SAROJ, War or Peace in Sri Lanka, 2005 WINSLOW DEBORAH, WOOST MICHAEL D., Economy, Culture, and Civil War in Sri Lanka, 2004 MUKARJI APRAIM, The War in Sri Lanka, 2001 ROTBERG ROBERT I., Creating Peace in Sri Lanka: Civil War and Reconciliation, 1999 LAWRENCE J. ZWIER, Sri Lanka: War-Torn Island, 1998
SITI INTERNET http://www.satp.org/satporgtp/countries/shrilan ka/index.html Pagina del Portale sul terrorismo nell’Asia del Sud (Satp) dedicata alla guerra in Sri Lanka, con la storia del conflitto, il profilo dell’Ltte e dati e statistiche ufficiali sulle vittime. http://www.thesundayleader.lk Sito del domenicale Sunday Leader, testata giornalistica dello Sri Lanka molto critica verso il governo. http://www.sundaytimes.lk Sito del domenicale Sunday Times, principale 38
Senegal (a cura di Daniela Greco)
LIBRI KANE CHEIKH HAMIDOU, L'ambigua avventura, Jaca Book, 1979 Riflessione sugli effetti della modernità in Senegal, narra la storia di Samba Diallo, figlio di un capo villaggio, che all'età di sette anni viene affidato ad un maestro religioso, affinché possa conoscere Dio e diventare una persona umile e modesta. La vita nella daara è dura e i metodi del maestro sono spesso molto violenti. Samba Diallo si dedica con passione allo studio del Corano, fino a quando la famiglia decide di ritirarlo dalla scuola coranica e farlo studiare nella scuola straniera e in Francia, ma sente dentro di sé un vuoto, è perso e non riesce più neppure a pregare. Tornerà al villaggio per piangere la morte del vecchio maestro religioso e per concludere la sua avventura spirituale. FALL AMINATA SOW, Lo sciopero dei mendicanti, Argo, 1999 Una circolare ministeriale prescrive di ripulire Dakar dai mendicanti. Il direttore del servizio di igiene vuole trasformare questa operazione in una opportunità per la sua carriera, ma viene convinto che lo stesso obiettivo potrà essere raggiunto sacrificando un bue e distribuendone la carne ai mendicanti. Il tema della mendicità diviene nel romanzo filo conduttore per mettere a nudo l'ipocrisia di un mondo diviso tra modelli di sviluppo proposti dalle società “avanzate” e le “radici” della propria coscienza storica. SESSA PEPPE, Una leonessa in Senegal, in viaggio nel paese dei Teranga, Robin Edizioni, 2008 Zaino in spalla, mezzi pubblici, piatti tradizionali e sistemazioni spartane. Una combinazione piuttosto rodata, per un libro di viaggio. Cio’ che rende questo libro diverso, è la scelta di parlare solo di Senegal, un paese fin troppo nominato per sembrare davvero africano, e al tempo stesso mai davvero conosciuto. Peppe Sessa attraversa in lungo e in largo, dal nord, la regione del Ferlo, ai confini orientali col Mali, fino alla Casamance, terra selvaggia, appassionante e ancora instabile. Paesaggi diversi, emozionanti e desolanti, ardi e brulli, ma soprattutto le genti, le tradizioni, i sogni, la solidarietà, il concetto di tempo, l’animi-
smo, la medicina tradizionale. In un libro che parla alle emozioni.
FILM SEMBENE OUSMANE, Moolaadé, Senegal 2004. Salindé contro Moolaadé, purificazione contro ospitalità. Su questi valori tradizionali della società senegalese Ousmane Sembene intesse l’ultima sua storia, prima di morire. Per sfuggire alle mutilazioni imposte loro da una tradizione controversa e brutale, quattro ragazzine chiedono ospitalità alla coraggiosa Collé Gallo Ardo Sy, una donna del loro stesso villaggio che pochi anni prima, memore delle proprie sofferenze, era riuscita a sottrarre la figlia alla pratica rituale dell’escissione, scontrandosi con le sacerdotesse del bosco sacro. Una donna che sembra impersonificare al meglio il messaggio che Sembene ha voluto mettere in tutti i suoi film, esplicitandolo in diverse occasioni: “In Africa, non si fa cinema per vivere, ma per comunicare. Per militare. ABSA MOUSSA SENE, BUGUL KEN, La republique des enfants (La repubblica dei ragazzi), 1990 Sono due ragazzini di 12 anni, Ken e Jeeli, ingenuità e curiosità di conoscere il mondo allo stato puro. Un giorno decidono di abbandonare la bella isola di Gorèe, dove vivono con la famiglia, e scappare a Dakar, che è proprio li, al di là di un breve tratto di mare. Ma la grande città li accoglie impietosa e i due si trovano ben presto ad ingrossare le fila dei ragazzi di strada. Espulsi all’improvviso tutti quanti da Dakar, i piccoli vagabondi si dirigono verso un villaggio abbandonato dove fondano, sotto la guida di un pastore, la “repubblica dei ragazzi”. TOURE MOUSSA (TGV), Senegal 1998 Commedia esilarante, purtroppo non ancora tradotta in italiano, sull’avventuroso viaggio di un variegato gruppo di passeggeri che parte da Dakar per raggiungere Conakry a bordo di uno sconquassato “car rapide”. Nonostante le minacce di una ribellione imminente da parte dei ribelli Bassari, Rambo, il conducente, impone la democrazia diretta e, di comune accordo con una decina di passeggeri, decide di partire alla volta della capitale guineana. Una successione di imprevisti permetterà all’autore di mettere in scena una buona metafora dell’Africa, delle sue forze, debolezze e assurdità, ma anche del processo di emancipazione di donne e giovani in atto nel continente.
SITI INTERNET http://www.insenegal.org/ Portale sul Senegal. Informazioni su viaggi, turismo, storia, attualità e solidarietà. http://www.turistipercaso.it/viaggi/mappamond o/menu.asp?paese=senegal Il sito di Turisti per caso, spunti e racconti per viaggiare informati http://www.lonelyplanetitalia.it/destinazioni/afri ca/senegal/ Il sito della Lonelyplanet http://www.lobservateur.sn Attualità, cultura, reportage e la società senegalese raccontate dalla più seguita testata giornalistica del Senegal.
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