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mensile - anno 4 numero 9 - settembre 2010

3 euro

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

Bosnia-Erzegovina La clessidra di pietra

Mongolia Sri Lanka Egitto Argentina Italia Migranti

I ninja, abusivi dell’oro Tamil, continua la lotta La battaglia di Azza I nuovi clienti del Cono Sud Quel fresco profumo di libertà Youness “Hurricane” Zarli

Portfolio: Open prison, il quartiere ghetto di Glasgow



Se non ti ribelli di fronte ad una ingiustizia, stai dalla parte di chi la compie. Desmond Tutu

settembre 2010 mensile - anno 4, numero 9

Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Gabriele Battaglia Christian Elia Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Nicola Sessa Stella Spinelli

Hanno collaborato per i testi Alessandra Bonetti Blue & Joy Gabriele Del Grande Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Nicola Falcinella Licia Lanza Paolo Lezziero Giovanni Mancuso Silvia Mollicchi Francesca Rolandi Alberto Tundo

Progetto grafico Guido Scarabottolo Oliviero Fiori Segreteria di redazione Silvina Grippaldi

Amministrazione Annalisa Braga

Hanno collaborato per le foto Fabio Diola Juan Grippaldi Germana Lavagna Simone Manzo Graziano Panfili/OnOff Picture

Redazione e amministrazione Via Bagutta 12 20121 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net

Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Bagutta 12 - 20121 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07

Stampa Graphicscalve Loc. Ponte Formello - 24020 Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 30 agosto 2010

Foto di copertina: Bratunac, Bosnia-Erzegovina 2010. Foto di Germana Lavagna per PeaceReporter

Pubblicità Via Bagutta 12 20121 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net

L’editoriale di Maso Notarianni

Embedded non è giornalismo l lavoro degli embedded, cui autorevolissimi mezzi di informazione stanno dando grande spazio, è un lavoro parziale. Ma non nel senso della parola che viene dato dagli embedded stessi: “Raccontiamo solo una parte della realtà, ma almeno raccontiamo ”. È parziale nel senso che è di parte, e questo è grave. Chi va con le truppe – oggi più che un tempo – sceglie di vedere e di dare voce (voce di massa, voce potente) solo a quello che gli stati maggiori degli eserciti vogliono che si veda. E quindi, banalmente, non vedono tutto quello che di male fa la guerra. Che è la totalità degli effetti della guerra. Che – non smettiamo di ricordarlo – nel 90 percento delle volte in cui produce vittime, le produce tra i civili. In gran parte tra le donne e i bambini. Ma questo gli embedded non lo dicono, così come non dicono delle altre immani sofferenze che gli eserciti cui questi “giornalisti” sono al seguito producono. Così come non dicono delle sofferenze che gli stessi eserciti patiscono: un esempio per tutti, quanti embedded hanno raccontato (non limitandosi ai dati statistici) dei militari statunitensi i cui suicidi hanno superato il numero dei caduti in battaglia? Il fatto che la nostra categoria si sia prestata a supplire al lavoro degli uffici della propaganda militare e che i dirigenti di troppe grandi testate giornalistiche abbiano deciso di dare spazio a questo tipo di disinformazione, rende difficilissimo il lavoro ai quanti (e sono tanti) vorrebbero invece fare i giornalisti davvero, andando sul campo a verificare tra i civili – e non tra i militari – gli effetti della guerra. Guerra che, visti i costi spaventosi dell’apparato militare, ha pesanti effetti economici anche per i cittadini dei Paesi che inviano i militari in battaglia, e questo sarebbe, in teoria, un ulteriore motivo di interesse a verificarne gli effetti. I giornalisti oggi – grazie all’invenzione degli embedded - sono visti come parte in causa. E quindi sono visti come nemici sia dai combattenti “altri” sia dalla stragrande maggioranza della popolazione civile. E questo rende pericolosissimo il mestiere. È il caso di porsi seriamente questo problema come categoria, e non guasterebbe se questo problema se lo ponessero anche gli editori. Troppi sono i colleghi che hanno perso la vita a causa della mancanza di credibilità della categoria. E non è pensabile, a meno di non essere consapevolmente complici, che a chi fa il nostro mestiere sia impedito di andare a raccontare la guerra perché nelle redazioni qualcuno ha preferito trasformare una parte di giornale in un bollettino dello stato maggiore, per quanto ben scritto.

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Italia a pagina 22

Bosnia-Erzegovina a pagina 4 Mongolia a pagina 10

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Migranti a pagina 24

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Egitto a pagina 18

Scritti, disegni e fotografie anche se non pubblicati non verranno resi.

Sri Lanka a pagina 14

Argentina a pagina 20 3


Il reportage Bosnia-Erzegovina

La clessidra di pietra Di Christian Elia e Francesca Rolandi La Bosnia-Erzegovina è ancora imprigionata in un presente fermo al 1995, l’anno dell’accordo di pace. Il suo futuro, dopo anni di indifferenza politica, torna a far gola a più di un attore internazionale. La retorica della storia scritta dai vincitori resta senza parole di fronte a situazioni dove di vincitori non ce ne sono. uesto il contesto nel quale si preparano le elezioni presidenziali del 2 ottobre. Un voto che torna a interessare Unione Europea, Stati Uniti e Russia, senza dimenticare Turchia e Arabia Saudita. Bisogna partire da Dayton, una oscura cittadina della contea di Montgomery, stato dell'Oregon, Usa. Qui vennero firmati gli accordi di pace che posero fine al sanguinoso conflitto esploso alla dissoluzione della Jugoslavia. L'allegato 4 degli accordi sancisce la forma attuale della Bosnia-Erzegovina. Dopo 100mila morti era qualcosa di prezioso. Gli estensori del testo, però, decisero che la situazione sul terreno era troppo spinosa e, con semplicità, la congelarono. La Bosnia-Erzegovina è divisa in due entità: la Repubblica Srpska (dei serbi di Bosnia) e la Federazione Croato – Musulmana (che unisce i musulmani bosniaci, o bosgnacchi, e i croati). Questi due governi eleggono una presidenza tripartita, dove ciascuna delle tre comunità fondanti è rappresentata. La Federazione è divisa in dieci cantoni e infinite municipalità. Si pregano almeno quattro divinità differenti, si parlano tre lingue che un tempo erano una sola. L'unanimità richiesta anche per le decisioni più piccole ha paralizzato questo Paese. La crisi, visibile da anni, è diventata devastante quando - dopo Croazia e Slovenia - anche Montenegro, Serbia e Macedonia hanno avuto accesso ai visti agevolati per l'Ue, anticamera dell'adesione. Resta la Bosnia-Erzegovina, congelata, in una riproduzione posticcia della vecchia Jugoslavia, della sua Unità e Fratellanza, che si è sgretolata nel 1991. La Bosnia-Erzegovina, all'improvviso, torna d'attualità. Se il procedimento di inclusione euro-atlantico, nell'Ue e nella Nato, si completa con le ex repubbliche jugoslave, Bruxelles rischia di trovarsi un buco nel suo tessuto connettivo, una voragine, che va colmata. Uno spazio, però, che sembra ricordare i buchi nei palazzi di Sarajevo, di Mostar, di Srebrenica e di tante altre città della Bosnia-Erzegovina. Tutto intorno ai buchi la vita è ripresa, tra mille difficoltà, con nuovi palazzi che spuntano come funghi. Però i segni dei proiettili sono là, e vanno riempiti. “Tutto nasce dall'origine: la situazione attuale è figlia del riconoscimento di fatto che la comunità internazionale ha dato all'aggressione serba. La Bosnia-Erzegovina era già repubblica nel 1992, prima di essere attaccata. Riconoscendo la Repubblica Srpska come entità autonoma si sono voltate le spalle al fatto che prima del conflitto vivevano in quella zona il quarantacinque percento di non serbi e ora solo il dieci percento”. Zija Dizdarevic non è un uomo per tutte le stagioni. L'appuntamento è nel Club 070, vecchio ritrovo di laici progressisti, alle spalle della Cattedrale cattolica di Sarajevo, che guarda sonnacchiosa il via vai di turisti della Ferahdja ulica, la pedonale che attraversa il centro della città. Poco più in là, la vecchia, affascinante Scuola di Musica. Mura sbrecciate, note dolci dalle finestre. Dizdarevic è, da anni, uno degli editorialisti di punta di “Oslobodjenie”, il quotidiano culto. “Questa costituzione stimola e forza il nazionalismo. Il problema si riflette anche sui ritorni, la maggior parte di coloro che torna non lo fa nel luogo originario, ma dove si trova la prevalenza della propria comunità. I musulmani, al contrario

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di serbi e croati, non avevano padrini internazionali. Un altro dei lasciti della guerra è che oggi l'islamismo si è radicalizzato”. Dizdarevic guarda fuori dal locale, come se tentasse di ritrovare vecchie immagini del passato. “Il primo radicalismo islamico è entrato con i mujaheddin, combattenti volontari che sono venuti per portare a termine altri loro lavori. Alla Bosnia servivano armi e non combattenti, c'erano cinque uomini per un fucile. Ha fatto comodo che arrivassero, per dimostrare che serbi e croati combattevano per la cristianità. Ma non sono stati accettati, portavano tradizioni e abitudini molto diverse da quelle locali. Anche se dopo la guerra la loro presenza si è incrementata e ha influenzato i radicali locali”. Una convivenza difficile. In tutta la Bosnia-Erzegovina ci sono solo trenta chilometri di autostrada. Lungo la carreggiata che porta a Sarajevo campeggiano enormi cartelloni pubblicitari che promuovono l'Ajvatovica, il più grande pellegrinaggio islamico d'Europa. Quest'anno cade il cinquecentesimo anniversario del miracolo compiuto da Ajvaz-dedo, mistico turco, che secondo la leggenda fece sgorgare le acque dal monte del paesino di Donj Vakuf, poco oltre Travnik. Migliaia di pellegrini si assiepano lungo il cammino di circa dieci chilometri, a metà tra una Festa dell'Unità e la celebrazione del Santo Patrono. Ovunque bandiere turche e carne a volontà. Poche ore prima, nella cittadina di Bugojno, un'autobomba è esplosa uccidendo un poliziotto. Immediati gli arresti di alcuni wahabiti (come vengono chiamati i musulmani integralisti). Il dibattito su un Islam ‘altro’ è molto sentito. Secondo un recente sondaggio dell'Agenzia Prisma di Sarajevo, i wahabiti sarebbero circa il 3 percento della popolazione, mentre almeno il settanta percento dei musulmani di Bosnia non li sopporta. Con episodi, a volte, di violenza. Come nel settembre 2008: il movimento gay di Sarajevo organizza il “Queer Festival”. La conferenza stampa di presentazione viene assalita da un gruppo di fanatici religiosi, spalleggiati da frange di estrema destra del tifo calcistico organizzato, in un'alleanza inedita. “Dopo la guerra c'è stata una penetrazione, con l'azione di organizzazioni umanitarie e con la costruzione di moschee che non c'entrano nulla con l'architettura musulmana bosniaca. Queste moschee furono progettate per diventare fabbriche ideologiche, dove si reclutano i wahabiti. Fanno presa sulle frustrazioni, sulle persone che hanno perso un'identità personale o sociale, che si fanno attrarre da slogan e soluzioni semplici, dalle loro interpretazioni del Corano. È un'ideologia totalitaria che vuole imporre la propria struttura secondo un'interpretazione letterale del Corano. Ora c'è un confronto. Il reis Mustafa Ceric (capo dell'Islam in Bosnia) ha accettato quei soldi per costruire moschee e ha intrattenuto relazioni con quei Paesi dove vige un orientamento reazionario: da una parte la sua politica antiterrorismo piace all'Europa e condanna il radicalismo, ma qui coabita con loro. È in corso una lotta per le moschee. Non sono molti. La maggior parte dei Le fosse pronte per la seportura di vittime dell’eccidio di Sebrenica. Potocari, BosniaErzegovina 2010. Foto di Germana Lavagna per PeaceReporter


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bosgnacchi li rifiuta, ma il reis non si è distaccato in modo chiaro da loro”. La rottura all'interno del mondo musulmano non è evidente, ma c'è. Una delle crepe che il partito del potere di sempre, lo Sda, fondato dal padre dell'indipendenza bosniaca Ilja Izetbegovic (morto nel 2003), si trova ad affrontare. I nazionalisti musulmani hanno basato il loro successo elettorale in questi anni sulla memoria della guerra e della loro lotta in quegli anni. Un po' come i partigiani dopo il 1945 in Jugoslavia. Ma ora tutto vacilla. Il 20 aprile scorso, di fronte al palazzo del Governo, più di 6mila invalidi di guerra hanno marciato contro le istituzioni. La polizia li ha caricati con brutalità. Sono stati almeno sessanta i feriti, tutti ‘eroi’ della guerra, tutti elementi fondanti del potere del Sda. Che succede? In un minuscolo appartamento di Grbavica, quartiere operaio di Sarajevo, c'è la sede del Urvi 100%, una delle associazioni di ex combattenti. Irfan è il portavoce, privo di entrambe le gambe. “Le ho perse vicino allo stadio, dove vivono ancora i miei. Non creda alla retorica, nessuno di noi combatteva per l'ideologia. Prendemmo le armi per non fare la fine di Srebrenica”, racconta, mentre lo aiutano a salire le scale dell'edificio malmesso, che non ha una rampa per gli associati in sedia a rotelle. “Quello che è accaduto quel giorno l'hanno visto tutti. La polizia ha reagito, però per una reazione serve sempre un'azione e coloro che hanno seguito la manifestazione in televisione possono farsi chiaramente un'idea di cosa è accaduto: alcuni piccoli gruppi sono stati infiltrati da qualcuno nella manifestazione, per provocare incidenti, e scatenare la reazione della polizia. Solo che i poliziotti se la sono presa con tutti, indistintamente. Il governo può essere questo qualcuno”, attorno a lui tutti annuiscono. Ciascuno con la sua ferita di guerra. “Quei giovani sono stati mandati a fare danni, pagati da qualcuno. Alcuni politici ci vogliono togliere i nostri diritti, che loro chiamano privilegi”. La situazione economica, in effetti, non è facile. Una legge del 2006 prevede lo stanziamento di settecento milioni di marchi convertibili (monete della Bosnia-Erzegovina che valgono cinquanta centesimi di euro) per i veterani e le loro famiglie. Soldi che il governo non ha. Solo nel Center, una delle quattro municipalità di Sarajevo, sarebbero millecinquecento i beneficiari. Una situazione insostenibile, che portò il Paese nel 2008 sul punto di dichiarare bancarotta. Nel 2009 il Fondo Monetario Internazionale prestò 1,2 milioni di marchi convertibili, in cambio delle riforme che suggeriva. Tra queste, quella del regime pensionistico e del pubblico impiego. Ma come si fa a spiegarlo ai veterani? “Volevano quei casini, volevano gli scontri, per metterci contro l'opinione pubblica, facendoci apparire come dei privilegiati. Se non spieghi le cose alla gente è normale che reagisca male a sapere che ci sono redditi cumulativi che superano i mille euro al mese. Ma devi dire che non posso lavorare, che ho bisogno di tanti soldi per le cure mediche e per le attrezzature, come le protesi o le sedie a rotelle. Qui le pensioni arrivano a centoventi, centotrenta euro al mese. Senza i contributi come sfamo la mia famiglia?”, chiede Irfan. Secondo la stampa vicina al governo, però, non è andata così. “I telegiornali e i giornali sono sporchi, lavorano per il potere. Ormai i parlamentari non vanno nei luoghi pubblici, perché li fischiano, ma non c'è nulla sui giornali. Loro dicono che siamo pagati da Radoncic, ma non è vero”. Irfan parla di Farhudin Radoncic, il miliardario padrone anche del gruppo editoriale Dnevi Avaz. Nato nel Sangiaccato è arrivato a Sarajevo facendo fortuna, secondo i suoi critici, come profittatore di guerra. Ha costruito la torre più alta dei Balcani, dove ha sede il suo quotidiano. E da dove ogni giorno sferra attacchi allo Sda al potere, e ai vecchi socialdemocratici all'opposizione, lo Sdp. Lui, pochi mesi fa, ha annunciato che scende in campo. Modello politico dichiarato: Silvio Berlusconi. Tarik Lazovic è uno dei redattori più giovani del suo “Dnevi Avaz”. Faccia da universitario, look informale: “Il figlio di Izetbegovic è una creatura del vecchio del partito Sda, per utilizzare il nome. È un uomo onesto, ma una grande delusione politica: non pratico, senza visione politica, vuole preservare lo Sda che però non è più quello del 1990, ma un partito dove un numero limitato di persone controlla il denaro, dove ci sono dei criminali”. Tarik si aggiusta gli occhiali, dopo la domanda sul ‘suo’ Radoncic. Dopo aver garantito che nel loro quotidiano si parla tranquillamente, evita la risposta. Come l'assistente di Radoncic, che fa muro attorno al suo protetto. Zija Dizdarevic non ha di questi problemi. “Radoncic è una persona di grandi ambizioni, che ha aperto un giornale con lo scopo di dirigere la politica bosgnacca, per essere un mediatore politico, non è entrato subito in politica perché gli era più comoda una posizione differente. Poi si è trovato sommerso dai debiti e la politica gli è 6

sembrata la via di uscita”. Non è solo Radoncic la novità politica delle prossime elezioni: il grande regista Danis Tanovic, Oscar per il miglior film straniero nel 2002 con lo splendido No Man's Land, ha dato la sua immagine nel 2008 alla nascita di Nasa Stranka (il nostro partito). Concorrerà anche in Repubblica Srpska, appoggiato da altri personaggi noti, intellettuali. Responsabile delle relazioni esterne è Srdjan Dizdarevic, storico presidente della sezione bosniaca dell' Helsinki Committee per i diritti umani. ggi si può dire che la società civile in Bosnia-Erzegovina, praticamente inesistente all'inizio della guerra, è forte e suscita rispetto se non paura nei detentori del potere. I suoi attori principali e più forti sono le organizzazioni che si battono per i diritti umani, le organizzazioni femminili, quelle che si battono contro la corruzione e un certo numero di organizzazioni di attivisti che riuniscono giovani e che portano in piazza il loro attivismo”. Srdjan è calato nel ruolo, ma è consapevole che in un Paese dove, secondo il ministero delle Attività Produttive bosniaco, il sessanta percento della popolazione è rurale, il suo rischia di apparire un partito radical chic. “Il nostro partito ha riempito uno spazio che è stato vuoto per tutti questi anni ed è istintivamente multietnico, non è limitato da linee di entità, sostiene gli interessi dei cittadini e non dei suoi quadri dirigenti e dei suoi clienti, si oppone alla corruzione ed è sinceramente filoeuropeo. I suoi soci, come i suoi dirigenti, provengono da tutti gli strati della società e non si può per nulla definirlo un partito di intellettuali. Offre un qualcosa che finora è mancato nella selva di partiti nazionalisti, corrotti e burocratizzati e per questo è attraente per quelli che finora non hanno avuto nessuno da votare. Al posto dell'odio nazionale, offriamo accordo e trattative sulle riforme. Ci battiamo per il rispetto e l'accettazione delle diversità e crediamo che l'identità europea offra anche l'affermazione dei veri valori e una via d'uscita dalle tensioni e dalle paure che mantengono l'elite esistente al potere”. Sarà, ma gli intellettuali che vogliono cambiare questo Paese devono affrontare vecchie ferite, che sono lontane dall'essere rimarginate. Basta andare a Srebrenica, come ogni anno. I primi ad arrivare, il 10 luglio, prima della cerimonia, sono quelli della Marcia della Pace. Ripercorrono la strada, al contrario, che i profughi in fuga dall'enclave musulmana nella Repubblica Srpska imboccarono verso la salvezza, che nel 1995 si chiamava Tuzla. Altre 775 salme sono state ricomposte: attendono, tutte coperte da un drappo verde, nella vecchia fabbrica dove nel 1995 gli uomini vennero divisi da donne e bambini. Furono 8mila le vittime. Per la prima volta, alla cerimonia, presenzierà il presidente serbo Boris Tadic. La tensione è palpabile. Irfan Mustafic, fondatore del Sda a Srebrenica, leader dell'Associazione delle Madri di Srebrenica, lotta con la polizia all'ingresso. Vuole impedire a Tadic di parlare. Non è il solo. Il presidente serbo arriva, teso. Non parla e non parlano neanche le madri. Solo una sequela di politici di tutto il mondo, che promettono mari e monti. Il giorno dopo, a Bratunac, i serbi commemorano i loro di morti. “Tadic è gay”, bofonchia il delegato del partito nazionalista serbo del criminale di guerra Vojslav Seselj. “Lui non rappresenta la Serbia”. Anche là una sfilata di internazionali. Il più chiaro è il ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, a Srebrenica. “Volete entrare in Europa? Dovete chiudere con il passato”. Ancora più chiaro il premier turco Erdogan, con voce di tuono: “Noi siamo qui, da sempre, per voi”. La Turchia si lancia sempre più come punto di riferimento della classe dirigente bosniaca, trattando anche con i serbi. In Bosnia non si gioca solo la partita dei nazionalismi, ma anche quella dell'economia del futuro. Un esempio: mentre l'Ue prometteva, per l'autunno, gli auspicati visti agevolati, la Turchia capeggiava una cordata di stati islamici, pronti a investire milioni di euro in Bosnia. Istanbul apre università, dove le studentesse turche sono libere di portare il velo che in patria è vietato negli uffici pubblici. Contemporaneamente l'Ue non molla e coinvolge la Bosnia-Erzegovina nell'invio di militari in Afghanistan. Le casse vuote, ma un profilo desiderabile. Il 2 ottobre non potrà risolvere, di colpo, tutti i problemi. Ma la Bosnia-Erzegovina, dopo anni, torna a interessare, a est come a ovest. Come uno dei buchi di Sarajevo: la vita scorre tutto intorno, lasciandoli indietro. Ma prima o poi, qualcuno dovrà riempirli.

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In alto: Dodik, premier della Rep. Serba, al cimitero partigiano di Kozara. In basso: Quartiere Barshasha, Sarajevo. Bosnia-Erzegovina 2010. Foto di Simone Manzo per PeaceReporter


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I cinque sensi della Bosnia-Erzegovina

Udito La commemorazione dei partigiani nel parco nazionale di Kozara, la cerimonia in memoria dell'eccidio di Srebrenica, la celebrazione delle vittime serbe a Bratunac. Una lunga sequela di eventi, scanditi da altoparlanti che urlano canti legati alle singole celebrazioni. Una compilation della memoria, divisa e contesa. La nuova Bosnia-Erzegovina è avvinta in un abbraccio inscindibile alla vecchia. Ciascuna ha la sua colonna sonora. Escludendo la musica pop globalizzata e i fenomeni underground locali, è attorno a una dicotomia che si segna il confine tra due mondi: quello che divide il turbo-folk dalla sevdalinka. La prima è ispirata a temi legati a una nuova società, che non brilla per valori tradizionali. Donne procaci che si fanno oggetto, spietati businessman, sciupafemmine e al volante di auto potenti. La sevdalinka resiste e si innova, con le sue romanze struggenti, di amore e di dolore.

Vista I buchi nei muri non li puoi non vedere. Centinaia di turisti, a Sarajevo, tra un birra e lo shopping, non mancano mai di scattare una foto ricordo. Ecco la guerra, recitano alcuni muri. Quella che ora tutti guardano, mentre negli anni Novanta si giravano dall'altra parte.

Un buco non fa male, mentre la gente di Sarajevo vive la vita di ogni giorno. La storia si manifesta e non si cela, in BosniaErzegovina. I simboli, come feticci, continuano a dirti tutto. Zona serba, croata o musulmana: lo capisci subito. A ciascuno la sua bandiera, la sua maglietta. Perfino la sua birra: Karlovacko, Sarajevsko o Nektar - rispettivamente croata, bosgnacca e serba. Anche se si chiede un pivo dappertutto.

Gusto I serbi lo chiamano Bosanska Cafa, i bosgnacchi caffè turco. Ma è lo stesso. La posa sul fondo, il gusto forte. La zolletta di zucchero s'intinge e si succhia. Il caffè è forte, quasi speziato. Comunque da provare. Lungo le strade della Bosnia profonda, a lato delle carreggiate, non mancano mai i banchetti improvvisati. Attorno, a volte, famiglie intere. Formaggi, ma molto più spesso frutti di bosco e miele. Produzioni proprie, all'antica. Qualcosa che assaggiato ti catapulta a un'era geologica precedente, quando un sapore aveva il tono dell'esplosione dei sensi. D'accordo, non è facile - se non sei abituato berla alle dieci del mattino. Ma la rakja, la grappa, è un'esperienza. Di prugne (slivovica), per lo più, ma anche di mele, fichi, amarene e altri frutti. Spesso fatte in casa, simile nel gusto al brandy, ma con una forza leggendaria. Il suo

contenuto alcolico è normalmente del quaranta percento, ma nella rakja fatta in casa può essere superiore, tipicamente dal cinquanta al sessanta percento.

Olfatto La Bosnia-Erzegovina non è solo un posto dove si mangia della carne saporita. è proprio un trionfo, una Shangri-La dei carnivori. Non c'è cerimonia importante o giornata qualunque che non sia scandita dall'odore profumato e rigenerante dei cevapi, le salsicce alla brace, che si allineano disciplinate in attesa del primo avventore. La Bosnia-Erzegovina, come ti dice tutto quello che vedi attorno a te, non ha bisogno del lasciapassare di Bruxelles per essere europea. Ma l'ambizione dell'adesione all'Ue, tra gli altri mille problemi, dovrà anche affrontare quello del divieto del fumo nei locali pubblici. In un caffè, in un ristorante, per la strada... l'odore delle sigarette è ovunque.

Tatto La tradizione della lavorazione del rame a sbalzo ha in Bosnia-Erzegovina radici antichissime. Passare le dita su piatti, vassoi e teiere, finemente lavorate, con temi paesaggistici o storici, è un'emozione. 9


Il reportage Mongolia

I Ninja, abusivi dell’oro Di Gabriele Battaglia Girano con un catino di plastica, generalmente verde, sulla schiena. Sembrano le note tartarughe mutanti dei fumetti. Per questo si chiamano “Ninja”, anche tra di loro. Tutto quello che avevo letto sui cercatori d'oro della Mongolia ne dava un’immagine univoca, fatta di povertà e degrado senza sfumature. olgia infernale” era la metafora banale e ricorrente. In realtà i Ninja sono una società complessa: diverse sono origini, storie personali e motivazioni; diversi l’organizzazione e gli strumenti di lavoro. Un mondo con le sue gerarchie, la più chiara rappresentazione di come in questo Paese i temi sociali, politici e ambientali siano strettamente connessi. Uyanga, regione di Övörkhangai. Siamo a circa 450 chilometri a sud-ovest di Ulan Bator. La miniera a cielo aperto è attiva dagli anni Novanta, quando era gestita dalla compagnia Erel. Il padrone della Erel, B. Erdenebat, è anche il fondatore dell’Ekh oron nam (partito della patria) e tra il 2006 e il 2007 è stato ministro dell’Energia. Nel medesimo periodo, il suo compagno di schieramento, I. Erdenebaatar - ex direttore generale della stessa compagnia - era a capo del dipartimento dell’Ambiente. Nel 2007, una commissione parlamentare svolse un’inchiesta su alcuni siti minerari, tra cui Uyanga. L’allora ministro dell’Ambiente si rifiutò di partecipare ai lavori. Dall’inchiesta emerse che la Erel, dopo avere dismesso le attività, non aveva attuato le opere di riqualifica ambientale previste dalla legge mongola. Come era riuscita ad aggirarla? Olzod Boum-Yalagch è coordinatore della Coalizione Verde (Nogoon Evsel) della Mongolia, un movimento che cerca di informare e responsabilizzare i cittadini sui temi ecologico-sociali: “I costi per recuperare i siti ammontano circa al trenta percento degli investimenti. Per cui, quando il filone è esaurito, le compagnie mettono in giro la voce di avere sfruttato solo il sessanta percento del giacimento: resta un buon quaranta. A quel punto accorrono i Ninja. Le compagnie dichiarano che i lavori di recupero dell’ambiente li hanno fatti ma poi questa gente ha di nuovo devastato tutto. Le autorità locali non controllano, hanno un budget limitato e per acquisire consenso funziona di più organizzare la festa in onore del campione di lotta del distretto”. Gli chiedo chi sono i Ninja. “Povera gente che ha venduto o perso il bestiame oppure che è rimasta senza lavoro in città. Sono organizzati in piccole società da personaggi che gli forniscono l’attrezzatura e poi si prendono una percentuale”. “Si è mai arricchito qualcuno?”, chiedo. “Anche qui fa comodo alle compagnie spargere queste voci, ma non si ha notizia di alcun Ninja miliardario”. A Uyanga ci vado con Otgo, unica dipendente di Nomadgreen.org, il sito di Citizen journalism fondato dallo stesso Boum. Al posto di polizia, il giovanissimo tenente Batpurev ci mette in guardia: “Pensate soprattutto alla vostra incolumità, non fermatevi di notte nei

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pressi della miniera, la criminalità è diffusa e non riusciamo a controllarla perché arriva gente povera da tutta la Mongolia e non si registra”. “Quanti sono i Ninja, tenente?” “Di solito cinque-seimila, ma con l’estate aumentano”. Ci lascia il suo numero di telefono in caso di emergenza. a miniera sta a una decina di chilometri dalla cittadina. Nel percorrere la consueta pista sconnessa, si passa improvvisamente dal verde della steppa al marrone scuro degli enormi cumuli di fango frutto degli scavi, alternati a pozze d’acqua. Qui operano alcune compagnie di medie dimensioni, con scavatrici e cannoni d’acqua per separare la terra dall’oro. Dall’inchiesta del 2007 emerse che la Erel pur dismettendo aveva conservato le licenze. Oggi le subappalta a una quarantina di piccole società che le garantiscono ulteriori introiti senza che muova un dito o una ruspa. La più grande, manco a dirlo, è coreana. La “Korean wave”, in Mongolia, non si è esaurita come nel resto dell'Asia. Sull'onda delle soap-opera si diffonde un vero e proprio culto del Paese che i mongoli chiamano romanticamente solongos, arcobaleno, e che sembra essere una via di fuga al sandwich che li schiaccia tra l'odiatissima Cina e l'antico amore Russia. “Stile coreano” strillano le vetrine dei parrucchieri e, dopo l'inglese, la lingua della penisola è la più studiata dai giovani. Il business ne consegue: oltre all'economia simbolica, qui a Uyanga assume il concretissimo aspetto di un campo cintato con tanto di guardie armate in tuta mimetica all’ingresso. All’interno, le baracche delle maestranze e i macchinari. Sulle colline intorno, fioriscono gli accampamenti di ger, le tende, come margherite bianche in un prato. Sotto, acquitrini e buche dove brulica il popolo dei catini. Sono loro. Sono i Ninja. Il nostro autista, Tumee, ha un amico, Cimba. È della zona e ci fa da guida. Ci porta su un cumulo di terra ormai divenuto collina dove da una ger vediamo uscire il tenente Batpurev con alcuni colleghi. Che ci fanno qui? Il padrone di casa, tale Ganbaa, ci offre ospitalità per la notte, ho il sospetto che gliel’abbia chiesto il poliziotto, non so se per tutelarci o controllarci. Ganbaa ha una piccola compagnia: una decina di persone in tutto e macchinari che oggi sono fermi perché un certo motore elettrico si è rotto. è un tipo sornione che scherza sulla mia italianità (“Ti ha mandato il mio amico

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Un pizzico di polvere d’oro raccolta con un setaccio nella miniera di Uyanga. Mongolia 2010. Foto di Gabriele Battaglia per PeaceReporter.


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della mafia”), non vuole che faccia foto o riprese lì intorno e ogni volta che si fanno domande non di rito cambia discorso, buttandola sempre sul ridere. Si lascia solo scappare che sì, i Ninja sono un problema per la sua attività. Ma non ci dice perché. Andiamo in un accampamento di ger su cui volteggiano falchi e poiane, posandosi ogni tanto su pali e impalcature: non ne ho mai visti così tanti e così da vicino se non allo zoo. A fianco delle abitazioni fiorisce l’indotto Ninja. Come nelle vecchie Gold Town americane, dopo il cercatore d’oro arrivano i servizi: vendono acqua, cibo, c’è chi fa il barbiere e chi, dietro compenso, ti cura i figli mentre scavi. Altoparlanti costantemente in funzione offrono buuz, i ravioli, o zuivan, i tagliolini con carne e verdure. A pochi metri, le buche rettangolari, piccole ma profonde, dove si svolge il lavoro quotidiano. Incontro gente socievole, volti induriti dalla vita, bambini compresi, ma niente catini da queste parti. Ci fanno vedere una buca profonda venticinque metri da cui ogni tanto viene tirato su qualcuno con un argano azionato a mano da due ragazze sui vent’anni. Un tubo verde porta giù l’aria, sistema rudimentale ma che sembra funzionare. Per fare il pozzo usano un generatore che aziona una scavatrice. Lavorano in due turni che durano fino a ventiquattr’ore, senza interruzione. D’inverno, quando le temperature sono polari, costruiscono una ger attorno al buco, che si trasforma quindi in una sorta di tunnel sotto il pavimento di casa. n uomo di quarantacinque anni si lascia riprendere e intervistare con il nipotino appena nato in braccio. Non è un disperato, dice che gli conviene comunque stare qui e, finché dura, tira avanti. L’unità di lavoro è la famiglia allargata, con lui c’è un altro uomo che ha perso tutti gli animali nello zud - l’ondata di gelo - di due anni fa. Non ha i denti, ma è qui per pagare l’università ai figli (naturalmente geologia), non per sopravvivere. L’impressione è che questa gente non sia l’anello più debole della catena, hanno un futuro sul quale investire. Un signore con l’aria da maestro di provincia mi dice: “Non so se scriverai cose belle o brutte su di noi, ma quello che ci interessa è la tecnologia. Per favore, se avete tecnologia da condividere, fatecela avere, ci renderebbe più facile il lavoro”. L’uomo con il bambino in braccio mi fa vedere una pepita. È piatta, lunga circa mezza falange, la metto tra i denti, mi sembra friabile e non stringo troppo. Può valere circa ventimila tögrög (dodici euro), aspettano di averne un numero consistente per pesarle e rivenderle ad alcuni personaggi che arrivano qui in jeep, comprano, e immettono l’oro sul mercato. Loro invece tornano giù nel pozzo. A proposito, quando il filone si esaurisce, il buco resta lì. Però loro non usano mercurio o cianuro per purificare l’oro, almeno così dicono. Qui non è necessario separare il metallo giallo dalle rocce, è tutto fango, basta l’acqua. Arriva un tipo palesemente ubriaco e insiste affinché vada giù nel pozzo. Scantono elegantemente dicendo che non credo di essere forte come uno di loro. In realtà ci vorrei pure provare, ma ho maturato una specie di allergia nei confronti degli ubriachi mongoli, specialmente se stanno all’argano a cui sono appeso venticinque metri più sotto. Torniamo da Ganbaa, ha ospiti. Due giovani sotto la trentina, uno più corpulento che si lamenta perché la sua compagnia va male, l’altro, molto sicuro di sé, che parla con il piglio del boss. Non riusciamo a farci dire il suo nome, ma scopriamo che è a capo di una società che impiega almeno duecento persone ed è un tipo molto conosciuto a Uyanga e dintorni. Suo padre era un dipendente della Erel e ne ha raccolto l’eredità. Rivendica il fatto che i suoi lavoratori hanno salari compresi tra ottocentomila e un milione e duecentomila tögrög, cifre senz’altro consistenti ma che non possiamo verificare. Apprendiamo tra le righe che qui nessuno ha il permesso di scavare, ma basta oliare gli ingranaggi giusti e la cosa si può fare. Dissesto ambientale? “Niente affatto, noi prendiamo l’acqua da una sorgente sotterranea che nulla ha a che fare con il fiume”. Sta parlando dell’Onggi, lungo circa 435 chilometri che arriva fino al deserto del Gobi. Negli ultimi dieci anni si è gradualmente prosciugato e le associazioni ambientaliste riunite nell’Onggi River Movement (Orm) accusano proprio le attività minerarie. L'acqua è preziosa in un Paese che

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rischia la desertificazione ma ha un valore simbolico particolare nella patria dei nomadi. La civiltà pastorale estensiva è la più efficiente su un suolo povero e impermeabile dove la pioggia scivola via e non nutre il terreno. Non si può coltivare, quindi si alleva. E il nomadismo è anche una forma di rispetto per la madre terra: sposto le mie greggi prima che la impoveriscano troppo. È una strategia che dalla notte dei tempi nutre l'essenza stessa della Mongolia, diventa rito, fatto simbolico. Poi arriva la miniera, la terra viene suddivisa e delimitata, milioni di litri d'acqua sono deviati dal loro corso e sparati nel fango. È una ferita aperta, anche nello spirito. Chiedo ai miei interlocutori se fanno il recupero ambientale, il riempimento delle buche, la nuova copertura con l’erba. Cambiano discorso. Il quadro comincia a delinearsi. In principio fu la Erel, poi gli avanzi del pasto vennero lasciati agli altri: fatti loro. I più intraprendenti - compresi quelli con le conoscenze giuste - si sono comprati le licenze e spartiti il territorio: ecco le piccole compagnie. I personaggi che ho davanti sono i nuovi capitalisti “venuti su dal nulla”, i protagonisti dell’accumulazione originaria in versione mongola. Gente che condivide la vita dura dei propri dipendenti ma che punta in alto e vede i Ninja come parassiti da tenere alla larga. C’è poi la fascia dei cercatori d’oro organizzati in unità familiari, che condividono tecnologie semplici ma efficaci e si dividono il lavoro. Anche loro stanno oltre il livello di sussistenza, sono qui perché contano di accumulare un piccolo surplus da reinvestire in qualche modo. Ma i Ninja veri? Andiamo in un avvallamento che sfocia in una grande pozza, tanta gente e per ognuno un catino che pesca nell’acqua. Incontriamo Baiarjargal, quarant’anni e due figli. Suo marito sta in basso a setacciare, lei non può più farlo: è semicieca e ha anche problemi alla schiena. Lavorava in una Ong che si occupa dei non vedenti, poi sono finiti i soldi. Mi dà il nome di un’associazione italiana che ha già collaborato con la sua, mi chiede di informarmi se sono ancora disposti ad aiutare la “gente come me”. Avrebbe bisogno di un’operazione, ma non ha i soldi. Ha ben chiari in testa i problemi di chi vive e lavora lì, tutti collegati tra di loro: primo, non c’è nessuna assistenza sanitaria; secondo, l’alcolismo diffuso; terzo, le violenze sessuali da parte degli uomini che bevono; quarto, le malattie che sessualmente si trasmettono. E si torna al punto numero uno, in un circolo vizioso che nessuno sembra voler spezzare. Eccola la degradazione, ecco l’anello debole della catena. “Che futuro immagini per i tuoi figli?” chiedo. “Di sicuro non qui, adesso stanno in campagna dai nonni. Ma non ci sono soldi”. Arriva il marito con il frutto di una mattina di lavoro: un po’ di pulviscolo dorato che le strappa un sorriso. cendiamo tra le buche, non sono profonde come quella di prima, pochi metri scavati con la vanga. Troviamo una famiglia allargata di tre uomini e cinque o sei donne di varie età, con bambini al seguito. C’è chi è qui da dieci anni, chi da sette. “Le cose prima andavano bene, adesso no”. Anche loro ci mostrano un po’ di pulviscolo: “Ci facciamo cinque-seimila tögrög (un po’ più di tre euro) al giorno”. A pochi metri dalle loro buche, una scavatrice avanza. “Lo vedi? Quando qualcuno di noi trova l’oro, arrivano le compagnie e si prendono tutto”. Chiedo che cosa chiederebbero al loro governo: “In campagna elettorale fanno molte promesse ma poi se ne dimenticano”. Un uomo con i capelli bianchi è molto esplicito: “Chiederemmo un lavoro con un buon salario”, cioè “per una famiglia di cinque persone che vive in città, cinque-seicentomila tögrög (tre-quattrocento euro)”. Non resisto e faccio una domanda di cui immagino già la risposta: “Avete mai pensato di organizzarvi e fare delle rivendicazioni collettive?”. Silenzio. Espressioni vuote. Volgono lo sguardo altrove.

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In alto: Giovane cercatore d’oro, la miniera a cielo aperto sullo sfondo. In basso: Nella buca. Mongolia 2010. Foto di Gabriele Battaglia per PeaceReporter.


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L’intervista Sri Lanka

Tamil, continua la lotta Di Enrico Piovesana Thanushan Kugathasan è il portavoce dei giovani della comunità tamil in Italia. Nato a Jaffna, in Sri Lanka, vive da 22 anni nel nostro Paese, dove la sua famiglia ha trovato rifugio dalla guerra civile che infuriava in patria. Qual è oggi, a oltre un anno dalla fine della guerra e dalla sconfitta dell'Ltte, il partito delle Tigri, la situazione della minoranza tamil in Sri Lanka? Drammatica. Ci sono ancora tra i cinquanta e gli 80mila sfollati tamil rinchiusi nei campi di internamento dell'esercito, trattati come prigionieri di guerra dalle forze armate singalesi. Ma non se la passano meglio i circa duecentomila civili tamil che sono tornati nel nord del Paese, tutt'ora occupato e presidiato dall'esercito singalese. La maggior parte di questi sfollati non possono tornare alle proprie case o perché sono state distrutte durante le ultime fasi della guerra, o perché sono state occupate dall'esercito. Gran parte dei territori tamil nel nord e nell'est dell'isola sono infatti stati dichiarati dal governo Zone di alta sicurezza (Hsz), ovvero territorio militare interdetto ai civili. In queste zone ricadono centinaia di villaggi e quasi la metà dei terreni agricoli e delle coste, il che impedisce anche la ripresa delle attività produttive, dall'agricoltura alla pesca. L'allarme lanciato dal governo dello Sri Lanka sul ricrearsi di gruppi armati tamil nel nord del Paese? Si è sempre saputo, fin dall'estate scorsa, che nelle giungle del Nord sono rimaste nascoste delle cellule della guerriglia. Inizialmente il presidente Mahinda Rajapakse aveva proclamato la decimazione delle Tigri e la pacificazione completa del Paese allo scopo di poter sbloccare i finanziamenti del Fondo monetario internazionale, che infatti poi sono arrivati. Ora che il governo ha conseguito questo obiettivo, questa realtà viene tirata fuori per giustificare la prosecuzione dell'occupazione militare dei territori tamil e il prolungamento dello stato d'emergenza in vigore dal 1983, che consente al governo di imbavagliare la stampa e l'opposizione. Come giudichi l'opposizione del governo dello Sri Lanka a qualsiasi forma di inchiesta internazionale indipendente sui crimini di guerra commessi dall'esercito singalese nei confronti della popolazione civile tamil? È la dimostrazione che il governo dello Sri Lanka ha qualcosa da nascondere. Se Rajapakse avesse la coscienza a posto riguardo alla condotta delle sue forze armate, perché rifiutare un'inchiesta internazionale? Perché impedire che la comunità internazionale riconosca che i crimini di guerra sono stati commessi solo dalle Tigri tamil? Questo potrebbe solo rafforzare la posizione del governo. C'è chi paragona l'atteggiamento di spregio per i diritti umani e per il diritto internazionale del governo dello Sri Lanka a quello del governo israeliano. Qual è la tua opinione? Penso sia vero, come lo è il parallelismo tra l'operazione 'Piombo Fuso' a Gaza 14

e le fasi finali dell'offensiva contro l'Ltte a Mullaitivu, dove l'esercito singalese ha bombardato per settimane una striscia di terra in cui erano ammassati 300mila sfollati, causando tra i venti e i quarantamila morti. Il colmo è che Rakapakse, che da Israele ha comprato i caccia con cui ha bombardato i campi profughi, si presenta come un sostenitore della causa palestinese, senza capire che lui ha trattato i tamil peggio di come Israele tratta i palestinesi. L'ex portavoce dell'Onu in Sri Lanka, Gordon Weiss, ha dichiarato che il governo di Colombo è dominato da ideologi razzisti che ritengono i singalesi ''una razza superiore'' rispetto ai tamil. Cosa ne pensi di questa affermazione? È un dato di fatto. I politici che detengono il potere in Sri Lanka usano il razzismo per mantenere e rafforzare questo loro potere, facendo leva sul sentimento nazionalista della maggioranza singalese per mantenere il consenso. Nelle scuole pubbliche in Sri Lanka i bambini studiano obbligatoriamente un antico testo tradizionale singalese, il Mahavamsa, in cui i tamil sono descritti come una razza inferiore, del cui sangue si ciba la stirpe nobile di Singa. La sconfitta militare della guerriglia separatista delle Tigri tamil significa la fine delle aspirazioni indipendentiste del tuo popolo? Assolutamente no. Chiusa la fase della lotta armata, si apre ora quella della lotta politica, a livello internazionale, per il riconoscimento del diritto all'autodeterminazione del popolo tamil. Una lotta che verrà portata avanti da noi, dalla diaspora tamil sparsa per il mondo, attraverso il nascente Governo transnazionale della patria tamil (Tgte): un organismo ufficiale composto dai rappresentati eletti dalle comunità tamil di tutti i Paesi, che promuoverà la causa tamil nelle sedi internazionali competenti. A che punto è il processo di costituzione di questo governo transnazionale della diaspora tamil? In molte nazioni le elezioni sono già state fatte, in altri, come l'Italia, sono stati nominati temporaneamente dei delegati in attesa del voto. A presiedere il Tgte è per ora stato scelto l'avvocato Visvanathan Rudrakumaran, ex consulente legale della delegazione dell'Ltte ai negoziati di pace del 2002-2006 che vive da molto tempo negli Stati Uniti. E proprio negli Stati Uniti, a Philadelphia, si è tenuta lo scorso maggio la prima riunione formale del Tgte: fuori dalla sala congressi che ospitava l'evento sventolava la bandiera rossa tamil con la tigre, non più simbolo dell'Ltte, ma del popolo tamil che continua la sua lotta. In alto: Sfollati tamil internati in un campo militare. Sri Lanka 2009. In basso: Mobilitazione europea della diaspora tamil. Archivio PeaceReporter


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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

Kosovo

Tanzania

Le buone nuove

Uck ancora sotto processo

Dopo l’accordo, le elezioni

amush Haradinaj, ex comandante dell'Esercito di Liberazione del Kosovo (Uçk) e già Primo ministro del Kosovo, dovrà essere riprocessato. La data della nuova udienza non è ancora stata fissata, mentre il politico kosovaro è stato riportato in una cella all'Aja. Il ribaltamento della vicenda processuale di Haradinaj è arrivata alla fine dello scorso luglio grazie a una sentenza d'appello del Tribunale Internazionale dell'Aja per i crimini di guerra nell'ex Jugoslavia (Icty). Il presidente della Corte, Patrick Robinson, ha impiegato due anni per accogliere il ricorso presentato dalla procura contro la sentenza di assoluzione emessa per lo stesso Haradinaj, sul quale pendevano trentasette capi di accusa. Haradinaj è ritenuto responsabile della morte di 58 persone, in maggioranza serbe, e delle torture che avvenivano nei campi di segregazione di Decani. Nel corso degli anni diversi testimoni a carico di Haradinaj sono stati minacciati, misteriosamente rimasti coinvolti in incidenti d'auto mortali o più semplicemente uccisi a colpi d'arma da fuoco. I due testimoni a cui fa riferimento la sentenza della Camera d'Appello sono il testimone protetto “W.” e Scefqet Kabashi, un ex membro dell'Uçk, che ha tenuto la bocca chiusa in seguito alle minacce ricevute e nonostante il programma di protezione testimoni offerto dal Tribunale: “La protezione non serve a nulla oltre le mura di questa Corte”, ha risposto Kabashi rifiutando il programma, ritenendo preferibile essere processato per reticenza o oltraggio alla Corte, piuttosto che parlare e rischiare la vita. La decisione dei giudici d'appello deve aver scosso gli avvocati difensori e lo stesso Haradinaj che è stato arrestato a Pristina: è la prima volta, infatti, in diciassette anni di attività dell'Icty che il giudice d'appello ribalta - seppur parzialmente una sentenza del Tribunale censurandone altresì la condotta.

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Bolivia, al via la legge indigena Come promesso da Evo Morales, le 36 popolazioni native del Paese hanno ottenuto il diritto ad amministrare in piena autonomia la giustizia. Una decisione rivoluzionaria quella voluta dal presidente e dal Congresso boliviano rimette al centro della vita socio culturale le tradizioni i costumi e i valori dei nativi boliviani. Il Congresso avrà 180 giorni di tempo per approvare un'altra serie di norme che dovranno specificare quali saranno i campi d'azione per la giustizia ordinaria e quali per la giustizia indigena. Ad esempio sarà importante capire se i reati connessi al traffico di sostanze stupefacenti oppure gli omicidi, potranno essere giudicati con le regole delle comunità indigene oppure dalla giustizia ordinaria. Non solo. Diventerà di fondamentale importanza stilare una lista di reati, anche minori, che senza ombra di dubbio potranno essere giudicati dalle comunità. Ma sono in molti ad essere preoccupati per il possibile aumento della violenza legata alla legge indigena. Sono stati molti i casi di linciaggio e lapidazione (ovviamente legati a condanne inflitte dalle comunità) avvenuti negli ultimi anni fra gli indios.

Arizona, bloccata la legge anti-immigrati Il giudice della Corte di Phoenix, Susan Bolton, ha bloccato i punti chiave della nuova legge sull'immigrazione approvata dallo stato dell'Arizona che per mesi ha provocato grandi proteste da parte delle associazioni di immigrati e il ricorso legale della Casa Bianca. È stato cancellato dal testo la possibilità, da parte delle forze di polizia locali, di chiedere i documenti a un passante basandosi sul "ragionevole dubbio" che possa essere un immigrante illegale. Inoltre non sarà più possibile essere arrestati, per il solo fatto di non avere i documenti con sè. Secondo il giudice federale, questi controlli non sono "né equi né nel rispetto del pubblico interesse". La sentenza è arrivata mentre in Arizona la tensione era alle stelle, con gli sceriffi più conservatori che affermavano di aver fatto spazio nelle loro prigioni per gli immigrati clandestini che intendevano fermare e i cittadini contrari che promettevano clamorose azioni di protesta. 16

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Nicola Sessa

a data da tenere presente è il 31 ottobre, quando si terranno le elezioni presidenziali e quelle legislative. Quel giorno sarà chiaro se la Tanzania rimarrà un Paese stabile, con un sistema democratico funzionante e rodato o se invece sarà scivolata nel cono d'ombra delle “democrature”, quei sistemi politici metà democrazia e metà dittatura. Tutto dipende da chi e come succederà al presidente in carica, Jakaya Kikwete. Al momento, ci sono molte ragioni per temere questa involuzione. È da mesi, se non da anni, che le due maggiori forze politiche del Paese non riescono a parlarsi. Da una parte c'è il Chama Cha Mapinduzi (Ccm, Partito della rivoluzione, in swahili), il partito che da decenni governa in Tanzania e nell'isola di Zanzibar, che la Costituzione riconosce come una delle parti che compongono la Repubblica Unita di Tanzania. Dall'altra, il Civic United Front, che accusa il Ccm di esser diventata una formazione preoccupata solo di mantenere il potere, con qualsiasi mezzo. Il quadro politico si è deteriorato a partire dal 1995: le elezioni di quell'anno, come quelle del 2000 e del 2005, sono state accompagnate da polemiche e accuse di brogli. Cinque anni fa, la tensione toccò lo zenith. Il detonatore fu lo scandalo dei fondi della Banca Centrale: si scoprirono somme ingenti prelevate e destinate al partito di governo. E poi c'è anche il problema della gestione del processo elettorale di per sé, altra incognita importante. Proprio a tal proposito, il Programma per lo sviluppo (Undp) dell'Onu l'anno scorso ha varato un “Election Support Project”, con il compito di assicurare uno svolgimento corretto e lineare delle elezioni. Intanto, un primo banco di prova è quello del referendum nell'isola di Zanzibar, del 31 luglio, dov'è in ballo l'ipotesi di formare un governo di unità nazionale. Quando lo scorso 5 novembre i due pesi massimi della politica locale - il presidente Amani Abeid Karume (Ccm) e il Segretario generale dell'Ucf, Seif Sharif Hamad – hanno trovato un accordo, per incanto sono cessati gli scontri tra i sostenitori dei due diversi clan. Alberto Tundo


Portfolio

Open prison Testo e foto di Fabio Diola

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Red Road Flats sono un complesso di 8 palazzi residenziali di 30 piani costruiti negli anni '60 a Glasgow; quando furono costruiti erano il complesso residenziale più alto d'Europa, tanto alti quanto immense erano le speranze che contenevano. Vennero costruiti per consentire alla classe operaia della città di spostarsi dagli slums cittadini e consentire a tutti di avere una vita migliore in questi nuovi e bellissimi appartamenti; di fatto erano un monumento per tutti coloro che arrivavano in città, come un faro che proietta la sua luce il più lontano possibile per testimoniare quanto grande sia la nostra società. Il sogno di una vita migliore possibile per tutti si infranse ben presto: già negli anni '70 graffiti, violenza e dipendenza cronica dalle droghe divennero parte della vita di tutti i giorni per chi viveva nel complesso e sul finire degli anni '80 due degli otto palazzi sono stati dichiarati non adatti per poterci vivere. Ora i Red Road Flats sono utilizzati per dare un alloggio a richiedenti asilo politico, gente che viene da Afghanistan, Iraq, Iran, Somalia e Nigeria principalmente, gente che è fuggita da guerre e atrocità per

giungere in Europa e sentirsi finalmente libera. Di fatto questa libertà tanto sperata resta un miraggio anche una volta giunti in Europa, non possono muoversi da qui, non possono cercarsi e avere un lavoro, in accordo con le leggi del Regno Unito e devono vivere con 35 sterline alla settimana concesse dal governo fintanto che aspettano risposte riguardo il loro status di rifugiati. Alcuni di loro sono in attesa di risposte da anni, vivendo in una costante precarietà, senza sapere nulla del loro futuro, senza sapere se dovranno tornare ai loro paesi o se potranno restare ed essere finalmente liberi, senza poter far nulla, solo sedersi al sole, durante le poche giornate di sole che il clima scozzese concede e aspettare. Vivono in una sorta di sala d'attesa permanente, non ci sono sbarre alle finestre, non ci sono guardie che li controllano, ma le sensazione che tutti hanno è quella di vivere in una sorta di prigione aperta, dove il non poter far nulla li uccide lentamente.





Notizie che di solito non fanno notizia

Le buone nuove Sudafrica, meno diffuso il virus HIV Antille Olandesi

Brasile

Muore un paradiso, Presidenziali: ne nascono tre il dado non è tratto l prossimo 10 ottobre si dissolveranno le Antille Olandesi. Teoricamente ci saranno un paradiso fiscale in meno e qualche pezzo di Olanda in più, nel senso che le cinque isole che formavano uno dei pochi Stati transcontinentali del pianeta (due sono geograficamente sudamericane e tre nordamericane) si dividono ma restano parte del regno di Beatrice. All'origine della decisione, i referendum che tra il 2000 e il 2005 hanno fatto prendere strade diverse a Curaçao, Bonaire, Saba, Sint Eustatius e Sint Maarten (Aruba aveva già scelto di staccarsi nel 1986). Già note come snodo per il commercio degli schiavi, le ex Antille si riorganizzeranno come segue: Curaçao e Sint Maarten diventeranno “territori autonomi” all'interno del regno. Bonaire, Sint Eustatius e Saba assumeranno invece lo status di vere e proprie “municipalità” olandesi con tanto di sindaco e consiglio comunale. Il punto è che da un paradiso fiscale c'è il rischio di ritrovarsene tre. Se infatti un'impresa che voglia operare nelle formalmente autonome Curaçao e Sint Maarten dovrà adeguarsi al codice di condotta Ue sulla tassazione delle imprese, pare che il governo olandese abbia pensato a uno status particolare, ibrido, per le tre “Bes”: una sorta di regime autonomo che non prevede alcuna imposta sul reddito delle società. In pratica, salvo correzioni dell'ultimo minuto, avremo dei comuni in tutto e per tutto “europei” in cui però le imprese non pagano tasse o ne pagano molto poche. C'è il rischio che una società possa pacificamente risiedere a Bonaire, Saba e Sint Eustatius beneficiando di normative e facilitazioni europee (per esempio nelle fusioni e nelle scissioni, nelle cessioni di rami d'azienda e nelle acquisizioni, oppure negli split off azionari tra aziende partecipate e partecipanti) senza versare nulla all'erario. Botte piena e moglie ubriaca: una residenza fiscale appetibile per chiunque.

acendosi strada fra sondaggi e comizi, il Brasile si avvia verso le elezioni presidenziali del 3 ottobre. Dopo aver suggellato le già sperimentate affinità elettive con Cina e Stati africani, il gigante verdeoro si sta imponendo in campo petrolifero, con l’avvio delle trivellazioni al largo di Espirito Santo, dove sembra esserci quantità incalcolabile di petrolio. Il tutto con un grave rovescio della medaglia, però. Se da un lato, con i due mandati del presidente uscente, Luiz Inacio Lula da Silva, sono aumentati occupazione e reddito, dall’altro si sono impennati i consumi e con essi il credito al consumo, quindi i debiti. Il cinquantadue percento delle famiglie di San Paolo, per esempio, ha debiti. Non solo. Il Brasile, nonostante innegabili miglioramenti, resta al settimo posto nella lista Onu dei Paesi con la peggior distribuzione della ricchezza al mondo. Contraddizioni, dunque, spiegabili se si pensa alla complessità di un Paese tanto grande. E chi riuscirà a ereditarne le redini? Le intenzioni di voto paiono divise quasi equamente fra Josè Serra Psdb, ex ministro nel governo Cardoso, ex candidato presidenziale contro Lula, ex sindaco della capitale paulista ed ex governatore dello Stato di San Paolo - e il delfino di Lula nonché suo ex ministro, Dilma Rousseff, del Pt. Nata e cresciuta nel partito dei lavoratori, Rousseff è l’alter ego di Lula, senza il quale nulla sarebbe tanto è oscurata dal suo carisma e dalla ineguagliabile popolarità. Che resiste, nonostante le polemiche legate a una politica che spesso ha scelto la filosofia del cerchiobottismo, allontanando molte delle figure da sempre vicine al presidente operaio. Una fra tutte il suo ex ministro dell’Ambiente Marina Silva, la pasionaria verde, discepola di Chico Mendes e ora avversaria di Rousseff (quindi di Lula) nella corsa al Planalto. L’atteggiamento contraddittorio tenuto dal governo Lula verso la preziosa Amazzonia e i suoi nativi ha spinto Silva prima a dimettersi dal governo e poi a correre da sola, facendo dell’ecologia la sua bandiera. Per ora è ferma al dieci percento delle intenzioni di voto. Ma il dado non è certo tratto. È la passione che governa il Brasile e nessun sondaggio potrà mai ingabbiarla.

Gabriele Battaglia

Stella Spinelli

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L'epidemia dell'Aids causata dal virus Hiv è in netta diminuzione in Sudafrica, secondo un rapporto congiunto stilato dall'Imperial College di Londra e dal Consiglio Sudafricano per le Ricerche sulle Scienze Umane. Lo studio dimostra che il contagio è diminuito del 35 per cento tra il 2002 e il 2005. La malattia è in calo soprattutto tra la fascia più giovane della popolazione in età compresa tra i 15 e i 49 anni. Questo cambiamento è stato determinato da una maggiore consapevolezza e aumento della prevenzione durante i rapporti sessuali. Secondo i ricercatori, in particolare, sono le giovani donne a pretendere l'utilizzo del preservativo e dei test per il virus Hiv. "Le donne giovani sono le più vulnerabili all'Aids. E' molto positiva la notizia sulla diminuzione della sua diffusione, ma vi sono ancora molte infezioni", secondo Thomas Rehle, direttore del Consiglio Sudafricano per le Ricerche che si è occupato dell'indagine, nonostante il Sudafrica, grazie alla violazione delle norme sui brevetti, abbia resto il trattamento anti-retrovirale è diventato più accessibile aumentando di molto la speranza di vita per chi è affetto dall'Aids ma non ha i mezzi per le cure che altrimenti sarebbero costosissime.

Cile, via le mine dal confine Quasi 23 mila mine sotterrate nella zona di confine con la Bolivia negli anni Settanta dal generale Augusto Pinochet sono state scoperte e dissotterrate. "Possiamo confermare che l'amministrazione cilena ha partecipato in modo attivo a quest'accordo sullo sminamento" dice uno dei responsabili del Programa de Naciones Unidas para el Desarrollo (Pnud). Visto il buon risultato ottenuto nell'area di confine con la Bolivia, il Cile spera di riuscire ad attivare un programma simile anche in altre regioni del Paese, come Magallanes e Antartica. In queste regioni al confine con l'Argentina è alto il numero di mine antiuomo e anticarro. Walker San Miguel, ambasciatore boliviano a Santiago del Cile, non ha dubbi e accoglie a braccia aperte le dichiarazioni e i risultati dimostrati dal Cile. "Per la prossima metà di luglio stiamo organizzando fra ministri della Difesa e capi dell'esercito un incontro nella zona di frontiera dove è stato realizzato il programma di sminamento. Questi eventi stanno delineando un'epoca di distensione delle relazioni fra i due nostri Paesi". Punto principale dell'agenda diplomatica è la richiesta messa sul tavolo cileno da parte della Bolivia di ottenere uno sbocco verso il mare, perso nel 1879. 17


Qualcosa di personale Egitto

La battaglia di Azza di Azza Matar Testo raccolto da Silvia Mollicchi

Lavoro per Arab Network for Human Rights Information (Anhri), associazione che si occupa di informazione e fornisce consulenze legali ai detenuti in Egitto, dove lo stato di emergenza dura da ventinove anni. Se la nuova legge sul diritto di associazione verrà approvata, il nostro lavoro sarà completamente stravolto. Vi spiego perché. l nostro lavoro spesso significa andare in giro per l’Egitto, di carcere in carcere, a cercare detenuti di cui si sono perse le tracce. Le persone scompaiono, sembra che il sistema penitenziario egiziano le inghiotta. Ci capita di difendere soprattutto blogger. In un regime come quello egiziano, l’informazione online è la più efficace e gli apparati di repressione la temono perché è più difficile da controllare. I blogger si muovono liberi in rete, stabiliscono nuove frontiere, nuove regole e alla fine è il regime che deve adattarsi. Anhri lavora soprattutto in due ambiti. Uno è l’informazione: pubblichiamo report sui diritti umani, stampiamo blog online in forma di rivista e poi li distribuiamo a giornalisti e gente comune. Il resto dello staff funziona come un ufficio legale. Difendiamo gratuitamente i detenuti arrestati senza capo d’accusa, sotto le norme dello stato d’emergenza. Spesso sono proprio giornalisti o blogger. Tutti capiscono l’importanza di Organizzazioni non governative o di associazioni a statuto misto come la nostra e l’importanza della nostra indipendenza. In un sistema politico moribondo come quello egiziano, siamo l’unico elemento ancora vivo, spesso finisce che facciamo noi il lavoro dei partiti. Il regime questo lo sa - in più tra poco si vota - e ha pensato bene di imbavagliare anche noi, assieme a tutti i movimenti per le riforme democratiche. Considerate che se la nuova proposta di legge sul diritto di associazione fosse approvata, neanche questo mio scritto sarebbe possibile: io sarei un impiegato del governo e non potrei dire nulla delle nostre attività. Era nell’aria dal 2007, poi quest’anno a marzo è uscita la proposta di legge con un articolo sul Dustur (quotidiano egiziano). Questa riforma è pericolosa e mina la nostra indipendenza. Se passa, tutte le Ong dovranno iscriversi alla Federazione Generale per le Associazioni, un organo governativo a tutti gli effetti, visto che Mubarak nomina un terzo dei suoi membri e il presidente. Tra l’altro, quello ora in carica -‘Adb al-‘Aziz Hijazi - ha già dichiarato che in Egitto non servono le Ong che difendono diritti umani, ma solo quelle che promuovono sviluppo. Ogni finanziamento nazionale e internazionale passerà dalla Federazione. Il Ministero degli Affari Sociali, invece, controllerà le questioni interne alle Ong, potrà cambiare gli statuti, gli obiettivi fondamentali e convocare le assemblee. Non potremo più aderire a reti nazionali e internazionali senza prima chiedere il permesso del governo. Il ministero degli Interni, dall’altro lato, deciderà sui membri che lavorano nelle Ong, fino a sospenderli e sostituirli. La cosa più grave, però, è che la legge proibirà l’esistenza di organizzazioni no-profit come noi. Finora molti si dichiaravano no-profit per restare indipendenti ed evitare di essere controllati dai vari ministeri come Ong. Se la legge passasse, questo non

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sarebbe più possibile. Noi, ancora, non abbiamo deciso come agire. Le possibilità sono due. O ci registriamo come Ong, il che significa soffrire perché ci incastrerebbero tra tre fuochi in competizione l’uno con l’altro: il ministero degli Interni, quello degli Affari Sociali e la Federazione Generale. Oppure diventiamo un ufficio legale a tutti gli effetti. Ma anche in quel caso potremmo accedere ai finanziamenti solo tramite un’Ong registrata. Questo aprirebbe la porta a un mare di corruzione e in più non risolveremmo alcun problema. Chiedere i fondi per difendere un giornalista allo stesso ministro che l’ha fatto arrestare senza prove sarebbe assurdo. Un ministero egiziano non pagherebbe mai la campagna contro gli abusi nelle stazioni di polizia del Cairo o nelle altre province. Stendere un report sulle violazioni di diritti diventerebbe addirittura pericoloso per noi come organizzazione. In più molti degli avvocati che lavorano con Anhri lo fanno a progetto, ma anche solo scrivere un progetto autonomo sarebbe impossibile. Il nostro lavoro, se passa questa riforma, o si blocca o diventa inutile. ppena è uscita la proposta, abbiamo dato battaglia. È iniziata una campagna interna con un gruppo di settanta Ong e associazioni egiziane. A livello internazionale, organizzazioni come Euromediterranean Human Rights Network e l’Unione Europea hanno fatto un po’ di pressione dall’esterno. Quando siamo andati in visita alla Commissione Europea, a maggio, la riforma sul diritto di associazione sembrava l’unico argomento interessante per i rappresentanti. Già, perché se cambiano le regole, i soldi della cooperazione europea non vanno più alle singole Ong, ma alla Federazione Generale, che poi decide cosa farne. Così i donatori perdono il controllo sui loro finanziamenti. Nessuno alla Commissione Europea, però, ha capito che il problema non è solo la nuova riforma ma l’intero sistema-Egitto e considerarlo un alleato stabile nella regione è un errore. Leggi come questa sono il mezzo utilizzato per mantenere una stabilità fittizia. Comunque, la discussione, prevista per maggio, è stata rimandata. Adesso il Parlamento è in vacanza e se ne riparlerà a settembre. è stata una vittoria per la società civile, ma l’attenzione non deve calare, il governo non aspetta altro. La pressione dall’interno e dall’esterno deve continuare, soprattutto ora, ad un passo dalle elezioni di ottobre per il Majlis al-Sha’ab (camera bassa del Parlamento) e poi per le Presidenziali. Se diventiamo anche noi organo di governo, senza osservatori internazionali, non ci sarà alcun controllo sul processo elettorale e dovremo rimanere tutti in silenzio.

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In alto: Ragazzi in Vespa nel deserto. In basso: l’ex cimitero del Cairo, oggi un quartiere dove vivono i poverissimi. Egitto 2008. Foto di Graziano Panfili/OnOff Picture


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L’intervista Argentina

I nuovi clienti del Cono Sud Di Stella Spinelli La Cina è diventata il secondo partner commerciale di buona parte dei Paesi latinoamericani. Argentina e Brasile sono i protagonisti degli accordi con Pechino, superando i Paesi europei. Una nuova relazione che ben presto andrà a sostituirsi ai rapporti con gli Stati Uniti e il Vecchio Continente. Ma le nuove rotte non passano solo dalla Cina, perché grandi entusiasmi aleggiano anche intorno agli accordi con l’India. È la coppia asiatica che sta rivoluzionando l’economia sudamericana. E le statistiche già lo rilevano. Alfredo Somoza è presidente dell’Istituto di cooperazione economica internazionale. L’America Latina sta cedendo alle avances cinesi? Una situazione frutto di quanto deciso da Brasile, Argentina e anche Venezuela sulla costruzione di rapporti economici Sud-Sud. Un’architettura nata a Cancun, quando per la prima volta il G20 venne paralizzato dall’azione congiunta di questi Paesi. Da qui emersero i rapporti proficui con gli asiatici e con la Russia, che ha una politica economica molto attiva nei confronti dell’America Latina. Ma qui nacque anche la liaison del Brasile con l’Africa, dove il gigante verde-oro è potenza non solo commerciale, ma anche energetica. Una situazione relativamente recente, questa. Non ha nemmeno dieci anni, ma ormai è diventata preminente. E a farla da padrone è comunque la Cina, che in Sud America ha scelto un profilo politico molto basso. Ha lasciato fare i brasiliani, ha sostenuto dietro le quinte la politica di visibilità del presidente Lula e in cambio ha preteso un diritto di prelazione sulle comodities latinoamericane, ritenute strategiche perché da tempo i cinesi hanno perso la sicurezza alimentare. La Cina non produce più quello che mangia e con il Sud America ha stretto rapporti privilegiati per avere accesso fondamentalmente alle derrate agricole, alle carni e, perché no, anche ai minerali, sia petrolio che gas, ma anche il rame cileno e il litio della Bolivia. L’Argentina è dunque strategica da un punto di vista alimentare? Certamente, anche perché la Cina ha l’abitudine, in tutto il mondo, di non fare solo acquisti, ma anche di fare lo scambio di figurine, avendo studiato prima quali sono i problemi dei Paesi a cui si avvicina. In Argentina, uno dei temi più delicati e rimasti in bilico da anni è la costruzione delle infrastrutture, in primis le ferrovie. Più volte i governi hanno tentato accordi con Paesi esteri, per esempio con la Francia, per ristrutturarle, ma senza successo. Finora. Perché la Cina si è appena candidata a ristrutturarle in toto. Con un sistema di scambio di materie prime. Pechino sapeva perfettamente che la questione treni era il tratto dolente del governo Kirchner, il quale se riuscisse veramente a far decollare un progetto di ristrutturazione ferroviario si rinforzerebbe a dismisura, specialmente a sinistra dove maggiori sono gli scricchiolii. Questa è 20

la Cina all’estero: in Costarica costruiscono stadi di calcio, in Africa aeroporti e in Argentina le ferrovie. Rose e fiori, dunque, tra Buenos Aires e Pechino? In realtà esistono dei punti di conflittualità non da poco. C’è appena stata una ritorsione cinese che però sembra in via di risoluzione. Al centro, l’olio di soia. Al mercato cinese è destinato circa il settantacinque percento dell’olio di soia transgenico argentino, ma da poco meno di un anno Pechino ha interrotto queste importazioni, sbandierando motivazioni sanitarie improbabili, visto il grado di interesse che ha la Cina verso queste tematiche. La vera ragione era che Buenos Aires aveva appena introdotto una sorta di protezionismo sui prodotti industriali che non è piaciuta al gigante asiatico. Immaginare che alla Cina possa dar fastidio la parziale chiusura di un mercato così relativamente piccolo qual è quello argentino fa sorridere, ma la linea dura ha comunque funzionato. La presidente, Cristina Kirchner, ha ceduto ed è appena volata a Pechino per chiudere la diatriba. I cinesi si sono mantenuti sul generico, ma sicuramente cambieranno presto atteggiamento dato che l’India ha appena dichiarato che se alla Cina l’olio di soia non interessa più, lo prende tutto e con piacere. La crisi globale ha scalfito questo legame? Il dato macroeconomico che dice crisi per tutti quest’anno, soprattutto per i Paesi industrializzati, rivela invece che in Argentina e in Brasile la crescita è del sette e mezzo percento. E questo è quasi interamente legato al commercio con Cina e India. La Cina ha avuto una flessione di crescita di solo un punto. Quindi no, non solo non ha scalfito la partnership, ma anzi l’ha rinforzata. I Paesi trasportati dalle economie orientali riescono comunque a crescere. Se a questo si aggiunge l’atteggiamento di chiusura dell’Europa verso il Mercosur, con il quale sono in sospeso accordi da dieci anni, e il protezionismo Usa, i conti sono presto fatti. È quasi un divorzio dunque tra America Latina ed Europa. E anche con gli Stati Uniti, c’è maretta. Questa situazione l’ha ben fotografata il presidente del Brasile, Luiz Inacio Lula da Silva. Ho saputo da fonti vicine al presidente, che a un certo punto, durante una riunione riservata, ha detto “per anni abbiamo lottato contro il protezionismo europeo e americano, adesso non ce ne frega più niente, abbiamo trovato altri clienti”. Belgrano, la Chinatown di Buenos Aires. Argentina 2010. Foto di Juan Grippaldi per PeaceReporter


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Italia

Quel fresco profumo di libertà (quando anche la musica non ne può più) Di Giovanni Mancuso In principio fu la pancia di Cuffaro. La scintilla scoppiò un caldo sabato di maggio del 2006. Il Conservatorio di Palermo era stato improvvisamente tirato a lucido. Quando raggiungo la nuova porta d'uscita una folla eccitata sta adorando una pancia che per un attimo, nel tripudio della calca, mi si struscia contro. Un tocco fatale. immagine di Cuffaro, divinità baciante, e della sua corte di adoratori inchinati mi si fissa nell'immaginazione come una sorta di punto di non ritorno. Dal quel momento le mie letture su Cosa Nostra e sui rapporti tra mafia e politica sono naturalmente confluite nella scrittura musicale. Confidavo, a un livello più alto, che ci fosse la possibilità di una qualche relazione tra la “matematica” di questi sistemi criminali e di potere e le strategie complesse della composizione. Di qualcuno di questi lavori racconterò. “Signor Giudice, se io le dico certe cose lei sarà ammazzato e io sarò preso per pazzo”: L'emblematica frase che Buscetta rivolse a Falcone mi sembrava il paradigma di una rete collaudata nel quale il livello più alto del sistema criminale di patti e ricatti tanto più poteva godere dell'impunità quanto più inaudite fossero le sue responsabilità. La maschera al quale dedicare il brano non poteva che essere lui: il vasavasa pacioccone e devoto per il quale il pubblico ministero aveva appena chiesto otto anni per favoreggiamento alla mafia. Il pezzo presentava un risvolto teatrale affidato a una misteriosa “giuria popolare”: un piccolo coro tragico di persone comuni, cittadini, ragazzini. Durante il concerto alle Sale Apollinee del Teatro La Fenice si unisce all'ensemble strumentale per declamare, cantare e urlare un testo collage nel quale risuonano le parole di Rosaria Schifani e di Letizia Battaglia lanciate con violenza contro un muro di “normalità” che filtra qualsiasi sconcerto e indignazione e attutisce il desiderio di verità. Mancino, ricorda!: Ho l'impressione che molte “menti raffinatissime” in Italia si mordano le mani per non aver ancora a disposizione una sorta di cancellino temporale che, dal computo dei giorni e delle ore, potesse spazzare via qualche data o perlomeno qualche ora il cui contenuto ancora giace con un punto interrogativo sul calendario. Uno di questi è quel famoso 1° luglio 1992 annotato nell'agenda grigia di Paolo Borsellino (quella rimasta) con “ore 19.00 Mancino”. L'incontro, per alcuni, è il momento in cui venne prospettata a Borsellino una trattativa con Cosa nostra. Contrario alla trattativa, il giudice avrebbe firmato la propria condanna a morte. Agli interrogativi circa un incontro con Borsellino, Nicola Mancino ha sempre risposto smentendo o dichiarando di non poter ricordare. Un legittimo dubbio però mi spinge a tentare strade alternative spingendo verso forme d'arte e di ricerca alcuni aspetti della musicoterapia. Così preparo una “musicoterapia ipnotico-regressiva” quale ultimo e disperato tentativo di riportare il senatore Mancino alla memoria dei fatti. L'esperimento viene poi riproposto altre tre volte, purtroppo senza esiti positivi. Chi ha paura di Salvatore Borsellino?: L'occasione per affrontare il nodo cruciale della recente storia italiana, la strage di Via D'Amelio, arriva dalla

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Biennale Musica di Venezia, che mi commissiona un brano per voce ed ensemble. L'idea iniziale era di recuperare una mia opera ispirata a Zappa. Ma la riapertura delle indagini sulla strage del 1992, la comparsa di Spatuzza, il crollo definitivo di Scarantino, mi fecero dirottare verso un testo di Salvatore Borsellino. Un affresco inquietante dell'episodio che lanciava, con una chiarezza che all'epoca scandalizzava forse ancor più, l'ipotesi di una strage di stato. La Biennale accetta, mi affretto a consegnare il testo di Salvatore (“Lampi nel Buio”) e il titolo: “July 19th or How to establish a second Republic founded on the blood of a State Massacre”. Il lungo testo sarebbe stato musicato come una sorta di orazione civile o come un racconto radiofonico, nella traduzione inglese (realizzata con rara sensibilità da Christina Pacella) per superare idealmente le barriere di una patria sorda e rivolgermi al pubblico internazionale. Ma il brano, nell'avvicinarsi il giorno dell'esecuzione, comincia ad irritare qualcuno. così, attraverso una serie di tentativi di “abbassare i toni”, nel timore di querele o ritorsioni, la Biennale cerca inutilmente di smarcarsi e di far firmare agli autori o addirittura al solo autore del testo una “manleva” che li rassicuri. Una censura totale sarebbe un clamoroso autogol quindi, all'insaputa di autori ed esecutori, meglio sostituire nei programmi di sala il lungo titolo con un assurdo “19 Luglio” e impedire la stampa del testo. Gran parte del pubblico non capirà le parole cantate dall'ottimo interprete Romain Bishoff. Ma è il finale che sembra emblematico di un'autocensura che in Italia rassicura sempre il potente: a un minuto dall'entrare in scena arriva “l'ordine di non far salire sul palco Salvatore Borsellino”. Terminata l'esecuzione chiamo sul palco Salvatore. Lui alza l'agenda rossa, il simbolo della ricerca di verità e giustizia, e comincia a raccontare il testo sottratto al pubblico: “...quando un compositore si ispira alla primavera, tutti hanno coscienza dei fiori, della natura che rinasce; quando un compositore parla di via D'Amelio pochi hanno coscienza degli odori, del rumore, della violenza di una strage...” . Cinque lunghissimi minuti a raccontare di Paolo Borsellino, di Emanuela Loi, di Eddie Walter Cosina, di Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Agostino Catalano e della perversa strategia di depistaggio del più grande dei misteri italiani. Mentre un nervoso e iterato tossire dal fondo della sala segnalava l'irritata indisponenza del potere.

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In alto: Particolare della partitura di Signor giudice, se io le dico certe cose. In basso: Giovanni Mancuso. Foto archivio PeaceReporter


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Migranti

Youness “Hurricane” Zarli Di Gabriele Del Grande

Di lui la stampa italiana si era già occupata nel 2005, ma sulle pagine sportive. A Napoli si disputano i campionati italiani di kick boxing e il ventiquattrenne Youness Zarli vince la medaglia d'oro. ei mesi dopo, il 28 novembre 2005, i servizi segreti italiani decretano la sua espulsione, tramite un decreto dell'allora ministro dell'Interno Beppe Pisanu, per aver “tenuto condotte tali da far ritenere che la sua permanenza nel territorio dello Stato possa agevolare organizzazioni legate al terrorismo islamico”. Strano che un terrorista frequenti palestre di boxe e discoteche, come quella dove l'anno prima aveva conosciuto la futura moglie, una ragazza di Bergamo di nome Jessica. Chiunque può obiettare che queste non sono prove. E infatti non lo sono. Ma il punto è che le prove non ci sono mai state. Si tratta di un colossale errore giudiziario. Non le ha trovate nemmeno il tribunale di Rabat che lo ha processato. Si, perchè dopo l'espulsione dall'Italia, il 5 dicembre 2005, Youness Zarli viene arrestato, torturato per dieci giorni nel carcere segreto di Temera, per estorcergli una confessione, e infine assolto dalla giustizia marocchina. La sentenza è del 29 novembre 2006. La corte d'appello di Rabat “proscioglie l'imputato dai reati di terrorismo, visto che non ci sono né prove né elementi”. Insomma i fatti non sussistono. È un buco nell'acqua dei servizi italiani. Finalmente Youness può tornare in libertà. È passato un anno dal suo arresto. Una volta fuori dal carcere di Salé, si sposa con Jessica al Consolato italiano in Marocco e torna in Italia con un visto per ricongiungimento familiare. Ma in Italia lo aspetta la Digos. E quando il 4 maggio 2006 si presenta in questura per ritirare il nuovo permesso di soggiorno viene arrestato con un blitz in pieno centro con tanto di manette e pistole puntate. È la sua seconda espulsione. Il visto è ancora valido. Ci riprova di nuovo, ma ancora una volta, atterrato in Italia viene rintracciato e rimpatriato. È il 21 novembre 2007. Il suo nome è sulla lista nera e con un'espulsione dell'antiterrorismo un suo reingresso in Italia è inimmaginabile. Youness si mette l'anima in pace. La moglie Jessica continua a fare avanti e indietro tra il Marocco e l'Italia. Presto hanno un figlio: Adam. Insomma la vita sembra riprendere lentamente la sua normalità. Fino a quel maledetto 11 aprile 2010. Quel giorno a Casablanca c'è anche Jessica. Stanno giocando in salotto con il bambino, sono le tredici. Dal terrazzo si affaccia la domestica, dice che alla porta c'è un tipo che chiede di Youness. Lui lascia il bambino e scende giù così com'è, ancora in pigiama e in ciabatte. E non torna più. Un sequestro di persona in piena regola. Lo sbattono dentro una macchina e lo portano via, bendato per tutto il tragitto, perché non riconosca la destinazione. Ma bastano le grida dei detenuti torturati, l'odore delle celle, la luce sempre accesa, gli interrogatori nel dormiveglia, e le dosi massicce di psicofarmaci per fargli capire che l'hanno portato a Temera, il carcere segreto dell'antiterrorismo marocchino. Questa volta Youness ci passa ventisei giorni, lo tengono alla fame, perde tredici chili di peso. La moglie Jessica lancia appelli sulla stampa marocchina per avere noti-

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zie del marito sequestrato dalla polizia senza nessun mandato, come previsto dalla legge speciale antiterrorismo e che prevede fino a dodici giorni di custodia senza convalida del giudice, che nella pratica però spesso oltrepassano il mese. a allora sono passati quattro mesi. Quattro mesi rinchiuso nel carcere di Salé, vicino Rabat, lontano dalla moglie e dal piccolo Adam. A giugno Youness inizia uno sciopero della fame estremo: trentasette giorni senza cibo, insieme a altri venti detenuti. Riprendono a mangiare solo il 7 luglio, dopo il ricovero in coma di due di loro. Quello stesso giorno, un altro gruppo di quarantatré detenuti a Kenitra entra nel sedicesimo giorno di sciopero della fame. Tra loro c'è anche il fratello maggiore di Youness, Salah Zarli, in carcere dal 2002 con una condanna a morte commutata in ergastolo per terrorismo. E qui sta l'origine di tutti i mali, della segnalazione di Youness all'antiterrorismo italiana e della sua persecuzione giudiziaria: essere il fratello di un imputato condannato per gli attentati di Casablanca. Salah viveva a Bergamo dagli anni Novanta, insieme a un secondo fratello, Mohammad - morto in Pakistan in circostanze mai del tutto chiarite nel 2003 - e a Youness, il fratello minore arrivato in Italia nel 1997 all'età di sedici anni. A differenza di Youness, Salah è un uomo molto religioso. Lavora come autista e nelle pulizie, frequenta la moschea di viale Jenner, a Milano. E nel 1999, tre anni prima della guerra, passa sei mesi in Afghanistan. Da quel viaggio torna entusiasta, vuole trasferirsi là con la famiglia. Nell'agosto del 2002 però, all'indomani dell'invasione americana, Salah viene arrestato a Casablanca durante una retata dell'antiterrorismo marocchino che porta dietro le sbarre ottanta persone. Passano sette mesi e, il 16 maggio 2003, Casablanca si risveglia nel terrore con l'esplosione di un'autobomba e di una decina di kamikaze in cinque punti della città, intorno alle dieci di sera, che causano la morte di quarantacinque persone. Salah viene condannato a morte come uno dei responsabili di quegli attentati, pur non essendosi mosso dal carcere nei sette mesi precedenti l'attentato. Il caso di Youness e del fratello Salah non sono isolati. Dal 2003 - anno di adozione della legislazione speciale antiterrorismo - al 2009 Amnesty International ha documentato l'arresto e la tortura di almeno duemila persone sospettate di far parte di organizzazioni terroristiche. Effetti collaterali della guerra al terrorismo. In Italia un bambino di due anni, Adam, rischia di crescere senza il papà, sacrificato sull'altare dell'antiterrorismo. La sentenza è attesa per la fine del 2010. E se Youness sarà di nuovo dichiarato innocente dovrà capire come poter raggiungere l'Italia che si ostina a considerarlo pericoloso.

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Ritratto di Youness Zarli. Elaborazione grafica PeaceReporter


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Rubriche

Al cinema di Alessandra Bonetti

Cirkus Columbia

Mauro Rostagno Sociologo e giornalista, Mauro Rostagno nasce in Sicilia nel 1942. Cresce a Torino, frequenta Sociologia a Trento, fonda il movimento politico “Lotta Continua” con Adriano Sofri, Marco Boato, Guido Viale, Enrico Deaglio. Tra i leader del Sessantotto italiano, inaugura a Milano “Macondo”, il primo centro sociale, punto di riferimento per la sinistra alternativa italiana. Successivamente, fonda a Trapani la comunità terapeutica di recupero tossicodipendenti “Saman”, prima nel suo genere. Muore a soli quarantasei anni, vittima di un agguato mafioso, dopo aver denunciato speculazioni e affari di mafia e mentre segue, per l’emittente televisiva Rtc, un’inchiesta sul traffico di armi e rifiuti tossici tra Italia e Somalia.

Mauro Rostagno, un rivoluzionario ucciso dalla mafia di Marco Rizzo, Nico Blunda e Giuseppe Lo Bocchiaro con la prefazione di Adriano Sofri Edizioni BeccoGiallo beccogiallo.it

Drammatico, sarcastico e commovente. È il ritorno a casa di Danis Tanovic, il regista bosniaco premio Oscar per il film No man’s land, che dopo aver raccontato il paradosso della guerra nella ex Jugoslavia attraverso la storia di tre soldati che si ritrovano in una trincea tra le due linee nemiche, fa un passo indietro e ci porta alla vigilia di quel conflitto. Siamo nell’estate 1991 e in un piccolo paese della Bosnia la tragedia viene annunciata dall’arrivo in una fiammante Mercedes rossa, con a bordo un’eccentrica ragazza, un gatto nero e un vecchio signore dal portafoglio ben fornito. Dopo anni di comunismo, un nuovo governo democratico guida il paese e Divko Buntic, figlio di un ùstascia (fascista) croato, torna dalla Germania e inizia prendersi le sue piccole rivincite. A cominciare dalla casa paterna, da dove grazie alla compiacienza delle autorità cittadine fa buttar fuori l’ex moglie Lucija e il figlio Martin ormai adolescente. La donna non ci sta e all’arrivo della polizia, getta dalla finestra una secchiata d’acqua bollente. La guerra, almeno quella domestica, è cominciata. Da una parte c’è Divko (Miki Manojlovic), la nuova era dei Balcani, dove i soldi sembrano vincere su tutto. Dall’altra parte, Lucija (Mira Furlan, entrambi gli attori hanno recitato a lungo con Emir Kusturica), un’Anna Magnani balcanica che non si rassegna alle ingiustizie del nuovo padrone. In mezzo, in quella che parafrasando lo stesso Tanovic potremmo chiamare la “terra di nessuno”, si trova il figlio Martin, combattuto fra la fedeltà al passato e le trasformazioni portate dal padre (fidanzata compresa). Una confusione emotiva che coinvolge anche le amicizie d’infanzia, svelando come un fosco presagio le incomprensioni e i rancori che pochi mesi dopo vedranno ragazzi cresciuti insieme combattersi su due linee nemiche. Nazionalismi, fascismi, ma soprattutto vizi e virtù dell’essere umano. Scritto insieme al giovane narratore croato Ivica Djikic, dal cui romanzo omonimo (tradotto in italiano all'editore trentino Zandonai nel 2008) il film è stato tratto, Cirkus Columbia è prima di tutto una commedia corale in cui i drammi personali si mescolano alla Storia, con risvolti talora esilaranti. Memorabile la scena della scomparsa del gatto Bonny, portato dalla Germania e accudito alla maniera occidentale come e più di un figlio. A lui, infatti, Divko pensa

di dover la sua fortuna e quando lo perde promette una milionaria ricompensa che mette in moto l’intero paese. E galetto fu Bonny, un nome che all’uscita del film sentirete ripetere come un tormentone. Ma altro non si può dire se non si vuol togliere la sorpresa di un finale di pura poesia, dove sullo sfondo delle prime bombe che cadono su Sarajevo inizia a muoversi la giostra di Cirkus Columbia. “In tempi difficili e burrascosi, quando sembra che il mondo stia crollando” dice Tanovic, che dopo 15 anni trascorsi a Bruxelles è tornato a vivere a Sarajevo e con il suo nuovo partito Nasa Stranka si sta preparando alle elezioni di ottobre, “le persone che ascoltano il proprio cuore spesso fanno le scelte giuste, agendo con dignità. Quelli che invece ascoltano la retorica di guerra e usano le bandiere per attaccare, finiscono o dovrebbero finire davanti al tribunale dell’Aja”.

A teatro di Silvia Del Pozzo

Settembre in scena Sul fronte del teatro e della danza settembre ci regala interessanti proposte. A Rovereto e Trento, il festival “Oriente Occidente” alla sua trentesima edizione resta una delle rassegne internazionali più vivaci e “curiose” delle espressioni coreutiche più innovative, dall’Asia all’Africa, dall’Europa alle Americhe: dieci giorni (dal 2 al 12/9) di spettacoli in prima assoluta nazionale. Spostandoci a sud, a Benevento, dal 3 al 12, va in scena la 31° edizione della rassegna “Città Spettacolo”: una quindicina di pièce con molti artisti di matrice napoletana. Apre Beppe Barra, protagonista di “La musica dei ciechi” di Raffaele Viviani. È la curiosa vicenda di un musicista cieco che accusa la moglie di evidente infedeltà, portando una prova inconfutabile: “T’aggio vista!”. E Viviani sembra credergli… E ancora, tra gli altri, “Nuvole barocche” testo e regia di Gabriele Di Luca (anche interprete): il titolo e la vicenda fanno riferimento a una canzone di Fabrizio de André e al rapimento del cantautore nel ’79 . Ne parlano, in una cantina dove progettano il rapimento di un bambino, tre giovani balordi con un disperato bisogno di denaro, per un progettato, ipotetico riscatto sociale. In “Dignità autonome di prostituzione” Luciano Melchionna crea un parallelismo tra la realtà delle prostitute di una casa chiusa e un gruppo di attori, alla mercé del cliente/spettatore più o meno perverso a cui vendono il “piacere teatrale” di monologhi e piccole performance. Ironica, per non dire amara, visione del mestiere del teatrante. “L’altro magnifico Jerry” invece è un omaggio a Jerry Lewis: nel 1971 il comico americano volle vestire i panni di un famoso comico tedesco che, per aver preso in giro Hitler, fu internato al Auschwitz, dove gli venne assegnato il compito di accompagnare i bambini alle camere a gas… facendoli ridere. 27


Al cinema di Nicola Falcinella

London river Il regista franco magrebino Rachid Bouchareb, ha già realizzato un nuovo film, “Hors la loi” (pellicola sulla guerra d'Algeria che ha provocato polemiche all'ultimo Cannes), mentre solo ora arriva sugli schermi italiani “London River”, premiato a Berlino nel 2009 per l’interpretazione del grande attore senegalese Sotigui Kouyaté. Una vicenda ambientata a Londra nei giorni successivi agli attentati del 7 luglio 2005. Elisabeth (Brenda Blethyn) è una contadina che viene dall’isola di Guernsey in cerca della figlia Jane, che non risponde più al telefono dal momento dell’attentato. Della giovane studentessa non sa molto, ha in mano un indirizzo che la conduce in un quartiere di immigrati, sopra una macelleria araba. Della ragazza nessuna traccia, solo segni di una presenza maschile nell’appartamento. In parallelo c’è Ousmane (Kouyaté), una guardia forestale che vive in Bretagna da 15 anni. Ha lasciato in Senegal la famiglia e il figlio Alì, che allora aveva 6 anni. Anche il ventunenne non ha più dato notizie dopo l’attentato. I due genitori si incontrano prima casualmente, poi l’uomo riconosce nella foto di Jane, fotocopiata tra i tanti manifesti appesi sui muri raffiguranti familiari in pena e in attesa, la ragazza ritratta alle spalle di Alì tra gli allievi di un corso di arabo. La prima reazione della donna è di paura e diffidenza, ma l’uomo, silenzioso, rispettoso, elegante pur con il suo bastone per poggiarsi, piano piano le si avvicina. Entrambi arrivano ad accettare

In libreria di Licia Lanza

In the kitchen di Monica Ali che i rispettivi figli avessero una relazione e da qualche settimana convivessero, oltre a superare le idee erronee che si erano fatti sul conto dei ragazzi, i quali avevano in comune il fatto di essere cresciuti senza padri: Jane non aveva mai conosciuto il proprio, un marinaio morto nella guerra Falkland/Malvinas. Senza essere mai ricattatorio Bouchareb riesce a trattare tante questioni attuali e unire due delle maggiori tragedie collettive inglesi dell’ultimo mezzo secolo. Il film ha il sapore di quelli di Ken Loach, con alcuni momenti molto emozionanti, anche se il regista franco magrebino non ha quel tocco di magia del suo collega scozzese quando è ispirato.

La cucina di un ex hotel di lusso nel centro londinese, con i suoi cuochi, lavapiatti e garzoni provenienti da ogni parte del mondo è il punto privilegiato da cui Monica Ali osserva quel melting pot che è la società contemporanea. Lo chef Gabriel “Gabo” Lightfoot cerca di tenere unito come può l’insieme multiculturale di lavoratori sottopagati che si muove nella sua cucina, di sopravvivere ai traffici illegali del maitre, di districarsi tra un padre malato di cancro e una fidanzata da sposare. Fino al giorno in cui nei sotterranei della cucina si scopre il cadavere di un garzone ucraino e una giovane bielorussa fa capolino nella vita di Gabo. Sarà quest’ultima a portare Gabo a prendere decisioni che stravolgeranno la sua vita e il futuro che pensava di desiderare. Dopo il successo di Brick Lane e Alejento

Lettera agli abbonati. Ma non solo Caro lettore, cara lettrice,

mi accingevo a scriverti per sollecitare il rinnovo del tuo abbonamento, che per noi è vitale, quando sono andato a riaprire la lettera che molti dei lettori - quelli che hanno avuto in regalo da Emergency l'abbonamento - avevano ricevuto insieme a una copia della rivista dell'associazione. In quella lettera, la presidente di Emergency raccontava le ragioni per cui l'associazione per il suo quindicesimo compleanno aveva deciso di regalare ai sostenitori un abbonamento a PeaceReporter. Scriveva Teresa: "Nel 2003 Emergency ha dato vita a PeaceReporter, un quotidiano online e una rivista mensile che raccontano la guerra, la pace, la vita in quel mondo in cui non arriva il giornalismo tradizionale. Ci è sembrato un passo importante, per diffondere quella cultura di pace e di rispetto dei diritti umani che ha contraddistinto Emergency fin dalla sua fondazione". Nelle sue parole c'è la ragione della nostra esistenza, che per noi è anche una ragione di vita: diffondere un’altra cultura rispetto a quella dominante. Una cultura che non abbia come fondamento il denaro, il potere, la furbizia, la sopraffazione: la cultura della guerra, insomma. Per farlo, cerchiamo di raccontare il mondo attraverso le parole, gli sguardi e i sentimenti di chi il mondo vive. Quel mondo che troppi altri giornali, radio e televisioni tengono distante, quasi a voler preservare qualcosa, quasi a voler a tutti i costi evitare contaminazioni con il nostro mondo. Ma noi sappiamo che l'umanità, quando è cresciuta, è cresciuta proprio attraverso le contaminazioni, gli scambi. Quando l'uomo si è dedicato ad erigere muri e altre barriere, l'umanità intera ha perso qualcosa. Vogliamo continuare a farlo, questo bellissimo mestiere di raccontare il mondo, e vogliamo continuare a farlo nel modo in cui abbiamo cominciato, con le stesse ragioni di allora che spinsero noi a gettarci in questa impresa ed Emergency a crederci e a sostenerla. Possiamo farlo, ma solo con il tuo aiuto e il tuo sostegno. Perciò non scordarti di rinnovare l'abbonamento. La vita di questo spicchio di informazione libera, di questo soffio di cultura di pace è anche nelle tue mani.

Grazie.

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Blue, la scrittrice britannica di origine bengalese continua a esplorare il mondo degli immigrati e i drammi della vita moderna, fornendo uno spaccato della Londra multietnica e multiculturale di oggi. Edizioni Tracce, 2009, pagg. 112, €12,00

In rete di Arturo Di Corinto

In libreria di Licia Lanza

La mia Bolivia esiste di Federica Rigliani Federica, scrittrice e traduttrice, dopo essersi laureata con una tesi sul gruppo boliviano il “Teatro de los Andes” parte per Sucre. Qui rimane per più di due anni a vivere e lavorare con il gruppo teatrale che tanto l’aveva appassionata; qui nasce Fedequerida, la protagonista, che attraverso e-mail dense di vita racconta all’amica lontana la sua esperienza boliviana. Il teatro le consente di scoprire le tante “Bolivie” presenti su una terra che ha sofferto di conquiste e dittature, le permette di dialogare con andini, quechua, aymara, di scoprire i loro riti ancestrali, di condividere con loro vita e morte. Fedequerida è una donna in viaggio, è alla ricerca del senso dell’esistenza, inquieta e desiderosa di esplorare un Paese che ama e di riflettere su ciò che incontra, sempre pronta a impegnarsi in prima persona con passione. Il suo viaggio vede intrecciarsi i luoghi esplorati e le esperienze personali, le persone che ha accanto e i suoi conflitti interiori. Ne nasce un dialogo intenso, che consegna una fotografia sincera del Paese, una riflessione sociale e antropologica che si immette nella sua vita personale. Un racconto incentrato sul viaggio, perché come sottolinea l’autrice “viaggiare riduce le distanze, abbatte le frontiere, ci permette di dialogare con ciò che è diverso da noi e quindi diventare più ricchi”. Edizioni Tracce, 2009, pagg. 112, €12,00

We want bandwith Perchè la banda larga non decolla in Italia Internet è la più grande agorà pubblica che l'umanità abbia mai conosciuto, ma non è democratica perchè non tutti sanno usarla, non a tutti è consentito accedervi e a dispetto di quello che si pensa è un bene scarso, distribuito nel mondo in maniera ineguale. Eppure l'accesso a Internet è ormai un corollario fondamentale del diritto alla libertà individuale, perché fornisce quegli strumenti critici attraverso i quali ci si forma un'opinione, e il suo utilizzo è diventata la precondizione per potere esercitare gli altri diritti, come la libertà di opinione e di espressione. Secondo Hamadoun Toure, segretario generale della International Telecommunication Union (ITU), “I governi del mondo dovrebbero considerare la rete una infrastruttura di base, come le strade, lo smaltimento dei rifiuti e l’acqua”. Ma l'idea che Internet sia un diritto fondamentale dei moderni è lontana dai nostri lidi. Anche nella ricca Europa solo la Finlandia nel 2009 ha stabilito per legge che a ogni cittadino deve essere garantita una connessione a 100 Mb, perché la rete è uno strumento grazie al quale ciascun individuo può allargare le sue possibilità sia di crescita culturale che economica, come previsto dalla Costituzione. In Italia invece, come se non bastassero le leggi che puntano a imbavagliare Internet, appesantendo i produttori indipendenti di contenuti e i fornitori di servizi con gabelle, norme e concessioni, la rete è insufficiente per le necessità di imprese, cittadini, istituzioni. Il presidente dell'AGCOM, Corrado Calabrò, lo ha detto senza mezzi termini durante la

consueta annuale relazione parlamentare: “La Rete è a rischio collasso”. La domanda allora sorge spontanea. Che fine ha fatto il Wi-Max? Dopo l'asta milionaria (135 milioni) per le concessioni agli operatori, si è fermato tutto. Eppure il Wi-Max è una tecnologia di trasmissione senza fili a banda larga quattro volte più veloce di quella Umts. Pensato per le aree urbane e metropolitane, il Wi-Max è considerato dagli esperti l'uovo di Colombo per battere il digital divide soprattutto nella aree dove per le compagnie telefoniche non è profittevole investire a causa delle asperità del territorio, dei vincoli urbanistici, archeologici e ambientali. E allora perché non la si usa in Italia? La risposta è semplice: vincoli burocratici, ritardi legislativi e soprattutto situazione di oligopolio delle grandi compagnie, che vogliono continuare a sfruttare le vecchie tecnologie UMTS le quali consentono margini di guadagno maggiori. E il piano Romani per la banda larga? Che fine ha fatto il progetto di dare almeno venti mega di connettività garantita a tutti gli italiani entro il 2012? Il piano non è mai decollato perché non sono mai stati stanziati gli 800 milioni (su 1.471) del pacchetto base. Perché? Perché sono stati usati per altri fini: persino per finanziare le missioni in Afghanistan. E il dividendo digitale? Che fine ha fatto l'idea di utilizzare quell'ampia porzione dello spettro radio liberato dall'avvento del digitale terrestre nel passaggio dalla TV analogica alla TV digitale? Un utilizzo efficiente dello spettro radio nelle intenzioni dei governi europei doveva facilitare l'accesso alla banda larga mobile, garantire una trasmissione di alta qualità e ampliare la scelta dei consumatori sul piano dei futuri servizi senza fili. Ma non è successo. Perché? Perché in Italia le frequenze liberate sono state assegnate alle società che già detenevano licenze nell’analogico, non è stata fatta nessuna assegnazione di merito e nessuna gara pubblica. Insomma, si sono ignorate le più basilari regole democratiche e di mercato, trasferendo semplicemente l’oligopolio televisivo dall’analogico al digitale. È per questo che l'opposizione parlamentare e le associazioni di cittadini insistono che lo spazio liberato vada riallocato per altri scopi, la connettività a banda larga per Internet, magari facendo cassa per i bisogni dello Stato con un'asta, come in Germania, dove ha fruttato circa tre miliardi al governo, e contribuire al risanamento dei conti pubblici. Ma il motivo per cui non si fa da noi è probabilmente che le frequenze devono restare a chi le occupa ora, in Italia, come Rai e Mediaset. Sempre gli stessi, mentre solo una minima parte sarà assegnata a nuovi entranti. Insomma negli anni scorsi lo Stato ha speso soldi per favorire la diffusione dei decoder e oggi non si trovano i soldi per far partire la banda larga necessaria a esercitare il pieno diritto alla cittadinanza digitale. Se siamo ai primi posti in Europa per costo dei servizi e concorrenza nella telefonia, e siamo invece sotto la media Ue per diffusione della banda larga un motivo c'è: tutto viene sacrificato in nome della prosperità delle aziende telefoniche e televisive esistenti in Italia. Queste ultime sono controllate dal presidente del Consiglio, che è il più grande editore italiano, l'azionista di riferimento della Rai e per molti mesi ministro ad interim delle telecomunicazioni. Ma Berlusconi oggi è interessato anche all'acquisto di Telecom. Sarà un caso se la rete in Italia non decolla? 29


Per saperne di più

etnici, riceve la notizia della visita imminente del presidente statunitense e si sforza di presentare la realtà locale come un perfetto esempio di ricostruzione e riconciliazione.

BOSNIAERZEGOVINA

DANIS TANOVIC, «No man's land», 2001 Film rivelazione dell'ormai noto regista bosniaco, è un monumento all'inutilità della guerra. Sdraiato su una mina destinata ad esplodere qualora si muovesse, un soldato è attorniato da un carosello di giornalisti e operatori dell'Onu - i Puffi - che alla fine lo abbandonano al suo destino giudicando la situazione irrisolvibile.

LIBRI NENAD VELICKOVIC, «Il padre di mia figlia», Forum, Udine, 2008 Attraverso le penna mordace e sarcastica di Velickovic, dal libro emerge l'immagine di una Sarajevo odierna, sopravvissuta alla guerra, ma abbrutita dal disincanto. Tra povertà e nuovo capitalismo rampante, i personaggi del romanzo cercano, con un sorriso sarcastico, una propria difficile quotidianità. NOEL MALCOLM, «Bosnia: a short history», Basingstoke, London, 1996 Il libro rappresenta una delle sintesi più compiute della storia della Bosnia-Erzegovina a partire dalle origini fino ad oggi. Scritto con una chiarezza che lo rende accessibile anche ai non specialisti, il saggio di Malcolm porta il lettore addentro all'affascinante mosaico di culture e influenze che ha forgiato l'attuale complessità bosniaco-erzegovese. DUNJA BADNJEVIC, «L'isola nuda», Bollati Boringhieri, Torino, 2008 Narrando la storia della sua famiglia la Badnjevic crea un affresco penetrante della storia bosniaca dell'ultimo secolo, segnata da drammatici punti di svolti. Uno di questi è l'isola nuda, Goli Otok, campo di concentramento per gli oppositori politici nel quale viene rinchiuso il padre dell'autrice, fervente comunista che non accetta il distacco della Jugoslavia dalla Russia nel 1948. VJEKOSLAV PERICA, «Balkan idols. Religion and nationalism in Yugoslav States», Oxford University Press, New York, 2002 In questo testo fondamentale, lo storico croatoamericano Perica analizza l'azione politica delle istituzioni religiose delle tre principali religioni della ex Jugoslavia - chiesa cattolica, chiesa ortodossa e comunità islamica - dalla seconda guerra mondiale. Sostenuto da un ingente apparato documentario, il libro rigetta la tesi di uno scontro di civiltà e sottolinea le responsabilità delle gerarchie religiose alla vigilia del conflitto degli anni '90. ALEXANDAR HEMON, «Spie di Dio», Einaudi, Torino, 2001 Caratterizzata da una prosa ricchissima e onirica e da un'ironia graffiante, questa opera prima dello scrittore sarajevese trapiantato a Chicago è una raccolta di racconti nella quale si mischiano le immagini che ossessionavano l'infanzia dello scrittore, da Gavrilo Princip alle spie russe, con squarci della Sarajevo bellica e della vita del profugo.

FILM JASMILA ZBANIC, «Il segreto di Esma», 2006 Un rapporto tormentato tra madre e figlia adolescente nasconde la storia delle violenze subite dalla prima durante la guerra. Ambientato nel quartiere di Grbavica, in una Sarajevo innevata e ricca di contraddizioni, il film racconta una toccante storia al femminile che è valsa l'Orso d'oro a Berlino. PJER ZALICA, «Welcome Mr. President», 2003 Commedia nera secondo la migliore tradizione balcanica. Una cittadina della provincia bosniaca, prostrata dalla corruzione, dalla criminalità e dagli odi 30

EMIR KUSTURICA, «Ti ricordi di Dolly Bell?», 1981 Esordio del regista sarajevese, per la sceneggiatura del poeta Abdulah Sidran, premiato al Festival di Venezia, il film narra la storia agrodolce di un adolescente perdutamente innamorato di una giovane prostituta. Sullo sfondo uno Sarajevo dei primi anni '60, dove vecchio ordine e fede socialista convivono, mentre la cultura pop occidentale (simboleggiata nella colonna sonora dal leit motiv di 24 000 baci) si fa strada.

1958 che fanno comprendere come, almeno in quella parte di mondo, i confini siano un’assurdità: ciò che determina la vita e gli spostamenti del nomade è il rapporto con natura e territorio, l’economia e la politica ne conseguono. CAROLINE HUMPHREY, DAVID SNEATH, «The End of Nomadism?», Duke University Press, 1999 Anni Novanta, come cambia la vita dei pastori nomadi delle steppe di fronte alle grandi trasformazioni che investono Russia, Mongolia e Cina? Poco divertimento (è un testo scientifico) ma tante informazioni sui processi di adattamento al mercato: storia, economia, ecologia, sociologia, antropologia di alcune aree specifiche a cavallo di tre nazioni.

SITI INTERNET http://www.balcanicaucaso.org/ Nasce da un progetto della Fondazione Opera Campana dei Caduti di Rovereto, portale informativo italiano che si occupa di Europa centro-orientale, Turchia, Caucaso. http://www.balkaninsight.com/ Sito nato dall'esperienza di formazione al giornalismo analitico e investigativo Birn (Balkan Investigative Reporting Network), pubblicazione on line.

MONGOLIA LIBRI ANONIMO, «Storia segreta dei mongoli», TEA, 2000 Il classico imprescindibile per chi voglia avvicinarsi alla Mongolia. È la saga di Temüjin, cioè Gengis Khan, scritta una quindicina d’anni anni dopo la sua morte (1227) da un autore anonimo. Di fatto è il testo epico del popolo mongolo, con lo stesso valore storico-poetico dell’Iliade, della Canzone dei Nibelunghi. La storia è "segreta" perché i mongoli, venuti a contatto con altre civiltà e altri testi, un po’ si vergognavano della propria scarsa raffinatezza. E invece il bello è proprio lì: cavalcate nella notte, battaglie e conquiste, nemici bolliti nei pentoloni, donne urlanti e furenti come erinni, fiere amicizie, magnanimità e crudeltà, un action movie ante-litteram. Il migliore esempio di quanto la realtà sia più avvincente della fantasia. LELAND LIU ROGERS, «The Golden Summary of Cinggis Qayan: Cinggis Qayan-u Altan Tobci», Harrassowitz Verlag, 2009 È una raccolta di leggende su Gengis Khan che risalgono agli anni immediatamente successivi alla sua morte. Hanno esercitato una grande influenza su tutte le cronache posteriori e di fatto creato il mito dell’imperatore. Testo in mongolo antico e inglese. Meno sangue, azione e passione ripetto alla Storia segreta, ma più rapporto tra terra e cielo: la legittimazione di Gengis passa attraverso magie e atti divinatori. Ma non manca l’aspetto umano. OWEN LATTIMORE, «La frontiera», Einaudi, 1970 Libro vecchio e introvabile (se non in biblioteca) ma a tutt’oggi fondamentale introduzione alla cultura nomade dell’Asia centrale. Sono i saggi scritti dal grande studioso americano tra il 1928 e il

FILM PETER BROSENS, JESSICA WOODWORTH, «Khadak». Mongolia-Belgio-Germania-Olanda, 2006 Realismo magico nel Paese in cui terra e cielo si incontrano. Una misteriosa epidemia stermina il bestiame e i pastori nomadi sono costretti a trasformarsi in minatori sedentari relegati in squallide cittadine e luoghi degradati: una storia che accomuna molti mongoli. Bagi, che soffre di crisi epilettiche, comincia il suo viaggio alla ricerca di una nuova via. Unica risorsa, i poteri sciamanici. BYAMBASUREN DAVAA, «Il cane giallo della Mongolia», Germania–Mongolia, 2006 Storie nomadi. La piccola Nansal, trova un cagnolino in una grotta e lo porta alla ger. Il padre cerca di farglielo abbandonare in tutti i modi perché teme che attirerà i lupi presso il gregge: il cucciolo “Macchia” non trova la sua ragione d’essere in un contesto in cui ogni essere, a quattro o a due zampe, deve svolgere una funzione. La piccola Nansal, testarda, non molla, astenendosi per altro dal frignare come farebbe un moccioso di casa nostra. Tempi scanditi dal ritmo delle stagioni e della vita nomade, il cane trova il suo riscatto proprio all’ultima scena.

SITI INTERNET http://www.nomadgreen.org/ Il sito di Citizen journalism lanciato da Mongolian and Tibetan Foundation con Mongolian Green Coalition e Globalvoices. Si occupa di problemi ambientali in stretta connessione con quelli sociali, nesso inscindibile in Mongolia. L’idea, come in tutti i casi di giornalismo dal basso, è di diffondere informazione e militanza di pari passo, attraverso una rete di collaboratori che oggi si aggira sulle cento persone. http://www.soyombo.it/ Associazione culturale per la diffusione della cultura mongola, con sede a Milano. Ottima introduzione al Paese e blog aggiornato (http://soyombo.splinder.com/) per seguire tutte le novità. Nel sito è reperibile anche un utile frasario italo-mongolo curato dall’associazione stessa. http://www.flickr.com/photos/40713859@N00/ sets/72157624207126641/show/ Qui si può vedere l’intera fotogallery del reportage "Ninja, gli abusivi dell’oro".


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io sto con

emergency

FIRENZE INCONTRO NAZIONALE 2 2010 010 7+8+9+10+11+12 settembre

INCONTRI, CONVEGNI, CONFERENZE E PROIEZIONI

SPETTA SPETT SPETTACOLI ACOLI E CONCERTI CONCERTI

settembre 3 Martedì 7 settembre 3 Martedì

3V Venerdì enerdì 10 settembre settembre

e 3 Martedì 3 Martedì 7 settembr settembre

PALAZZO DEGLI AFF ARI INCONTRO PUBBLICO - 18.00 — PALAZZO AFFARI PeaceReporter presenta PeaceReporter ALI LE GUERRE SONO TUTTE UGU UGUALI intervengono LILIN, Scrittore NICOLAI LILIN, GARATTI, Chirurgo di EMERGENCY GARATTI MARCO GARATTI, ignettista e scrittore VAURO SENESI VAURO SENESI,, V Vignettista Modera MASO NO TARIANNI, Direttore di PeaceReporter PeaceReporter NOTARIANNI,

UDITORIUM AUDITORIUM INCONTRO PUBBLICO - 16.30/17.30 — A APERTURA PLENARIA DI APERTURA intervengono CECILIA STRAD A, Presidente di EMERGENCY STRADA, GINO STRAD A, Fondatore STRADA, Fondatore di EMERGENCY

21.30 — A UDITORIUM AUDITORIUM MUSICHE, P AROLE E RITORNELLI RITORNELLI PAROLE STEFANO BOLLANI e D DAVID AVID RIONDINO con STEFANO INGRESSO GRATUITO GRATUITO 3 Mercoledì settembre Mercoledì 8 settembr e

AUDITORIUM INCONTRO PUBBLICO - 17.30/18.30 — A UDITORIUM L'EGUAGLIANZA L'EGU AGLIANZA NON È PIÚ UNA VIRTÚ? VIRTÚ? conferenza di MARCO REVELLI, REVELLI, Sociologo/Università degli Studi del Piemonte Orientale

Mercoledì 8 settembre settembre 3 Mercoledì PRATO, Hotel Palace, Palace, via Pier della INCONTRO PUBBLICO - 9.00 — PRATO, Francesca 71 Francesca AGLIANZA EMERGENCY, UN’ESPERIENZA DI MEDICINA E DI EGU EMERGENCY, EGUAGLIANZA intervengono STRADA, Fondatore Fondatore di EMERGENCY GINO STRADA, GIOVANNI CHIESI, CHIESI, Segretario generale SPI CGIL di Prato GIOVANNI MARIGOLLI, Segretario generale CGIL di Prato MANUELE MARIGOLLI, CANTONE, Segretaria generale SPI CGIL CARLA CANTONE, GRAMOLATI, Segretario generale CGIL Toscana GRAMOLATI Toscana ALESSIO GRAMOLATI, GIOVANNI CHIESI Modera GIOVANNI CHIESI,, dibattito a seguire GRATUITO INGRESSO GRATUITO PALAZZO DEGLI AFF ARI INCONTRO PUBBLICO - 18.00 — PALAZZO AFFARI PeaceReporter presenta PeaceReporter AGLIANZA? L’ODIO PER L’OCCIDENTE. L’OCCIDENTE. UN PROBLEMA DI DISEGU L’ODIO DISEGUAGLIANZA? intervengono ZIEGLER, Sociologo/Relatore Commissione dei Diritti Umani ONU JEAN ZIEGLER, FINI, Giornalista e scrittore MASSIMO FINI, STRADA, Presidente di EMERGENCY CECILIA STRADA, NOTARIANNI Modera MASO NOTARIANNI

BOOKSTORE MOSTRA FOTOGRAFICA FOTOGRAFICA - 17.00 — LIBRERIA MEL BOOKSTORE via De' Cerretani 16/R QUI EMERGENCY PALERMO PALERMO interverranno ALESSANDRO BERTANI Vicepresidente BERTANI, V icepresidente di EMERGENCY MARIO DONDERO, DONDERO, Fotografo Fotografo AFFARI INCONTRO PUBBLICO - 18.00 — PPALAZZO ALAZZO DEGLI AFF ARI PeaceReporter P eaceReporter presenta LA RETE È DEMOCRATICA? DEMOCRATICA? intervengono AR TURO DI CORINT O, Giornalista ARTURO CORINTO, STEFANO RODOTÀ, RODOTÀ, Giurista STEFANO RICCARDO LUNA LUNA,, Direttore di Wired Modera MASO NO TARIANNI NOTARIANNI

3 Sabato 11 settembr settembre e

3 Giovedì 9 settembre settembre

INCONTRO PUBBLICO - 11.15/12.30 — A AUDITORIUM UDITORIUM EMERGENCY APRE IL PROGRAMMA ITALIA ITALIA A e l'l'UFFICIO UFFICIO UMANITARIO UMANITARIO DI EMERGENCY con GINO STRAD STRADA

21.30 — AUDITORIUM AUDITORIUM NAVE FANT FFANTASMA ANTASMA ANT ASMA LA NAVE STORTI e RENATO RENATO SARTI RENAT con BEBO STORTI SARTI INGRESSO GRATUITO GRATUITO

ALAZZO DEGLI AFF ARI PROIEZIONE - 14.30/15.30 — SALA PPALAZZO AFFARI eaceReporter presenta il documentario P PeaceReporter LA CASA GIALLA finalista Pr emio P erpignan 2010 Premio Perpignan con NICOLA SESSA, SESSA, Giornalista di PPeaceReporter eaceReporter ANGELO MIO TTO, Giornalista di PeaceReporter PeaceReporter MIOTTO, ARI INCONTRO PUBBLICO - 16.00 — SALA PPALAZZO ALAZZO DEGLI AFF AFFARI Presentazione del libro MADE IN AFRICA con l'autore RAUL RAUL PANTALEO, P ANTALEO ANT ALEO, architetto dei progetti di EMERGENCY CONFERENZA - 16.30/17.15 — A AUDITORIUM UDITORIUM GUERRA, MEDICINA E DIRITTI UMANI conferenza di GINO STRADA, STRADA, Fondatore Fondatore di EMERGENCY INCONTRO PUBBLICO - 17.15/18.30 — A AUDITORIUM UDITORIUM EMERGENCY IN AFGANISTAN AFGANISTAN dell'UFFICIO UMANITARIO UMANITARIO DI EMERGENCY a cura dell'UFFICIO

3 Giovedì 9 settembre settembre

e 3 Domenica 12 settembr settembre

3 Venerdì Venerdì 10 settembre settembre 21.30 — MANDELA FORUM IL MONDO CHE V VOGLIAMO serata ata condotta da FABIO FABIO FAZIO FAZIO OGLIAMO ser tra gli ospiti STRADA, Fondatore Fondatore di EMERGENCY GINO STRADA, CAMILLERI, Scrittore ANDREA CAMILLERI, ANTONIO TTABUCCHI, ABUCCHI, Scrittore ANTONIO SENESI, Vignettista Vignettista e scrittore VAURO VAURO SENESI, Musica con SAMUELE BERSANI GRATUITO INGRESSO GRATUITO settembre 3 Sabato 11 settembre 21.30 — MANDELA FORUM ANDINI Serata condotta da SERENA D Serata DANDINI tra gli ospiti ANESE, LELLA COSTA, COSTA, COSTA DARIO VERGASSOLA ANTONIO ALB DARIO VERGASSOLA,, ANTONIO ALBANESE, NERI MARCORÉ, FIORELLA MANNOIA Musica con PATTI PATTI SMITH e CASA DEL VENT PA VENTO O SEEDS IN THE WIND GRATUITO INGRESSO GRATUITO

INCONTRO PUBBLICO - 9.00/11.30 — A AUDITORIUM UDITORIUM I PROGETTI DI EMERGENCY NEL MONDO dell'UFFICIO UMANIT a cura dell'UFFICIO UMANITARIO ARIO DI EMERGENCY INCONTRO PUBBLICO - 11.30/12.30 — A AUDITORIUM UDITORIUM IL DIRITTO GLOBALIZZAZIONE DIRITTO ALLA VIT VITA A NELL'ERA DELLA GLOB ALIZZAZIONE conferenza di DANILO DANILO ZOLO, ZOLO, Giurista/Università degli Studi di Firenze Firenze INCONTRO PUBBLICO - 14.30/15.30 — A AUDITORIUM UDITORIUM CONCLUSIONI

INFORMAZIONI: http://firenze http://firenze.emergency.it .emergency.it — T +39 02 881881 — firenze2010@emergency firenze2010@emergency.it .it

4 CON 4 CON IL PA PATROCINIO P ATROCINIO DI:

21.30 — AUDITORIUM AUDITORIUM LA MACCHINA MACCHINA DEL CAPO con MARCO PAOLINI PAOLINI e LORENZO MONGUZZI (Mercanti di liquore) PA GRATUITO INGRESSO GRA TUITO

IN COLLABORAZIONE CON: 4 IN 4

POTRÀ SUBIRE V 3 IL PROGRAMMA POTRÀ VARIAZIONI ARIAZIONI http://firenze.emergency.it http://firenze.emergency.it

PROGRAMMA e ISCRIZIONI: http://firenze.emergency.it http://firenze.emergency.it

4 GRAZIE A: 4 GRAZIE


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