E il mensile giugno 2012

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E - IL MENSILE. GIÀ PEACEREPORTER • ANNO VI - N°6- GIUGNO 2012 • EURO 4,00 • PUBBLICAZIONE MENSILE POSTE ITALIANE S.P.A.- SPEDIZIONE IN ABB. POSTALE - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N°46) ART. 1, COMMA 1, LO/MI

Italia al futuro.Corea.Dopo la primavera araba.Sogni cubani GIUGNO 2012

Paesi arabi primavera sfiorita Corea, a scuola di capitalismo

E-IL MENSILE GIUGNO 2012 • EURO 4,00

Italia costruiamo il futuro

hanno scritto: Christian Benna.Roberta Carlini Luciano Del Sette.Christian Elia Leonardo Padura Fuentes.Claudio Sanfilippo hanno fotografato e illustrato: Carlo Gianferro André Liohn.Antonino Savojardo Christian Tasso.Serena Viola


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l’editoriale

accendiamo la luce Femminicidio: qualcuno dice che la parola suona male. Ma è la realtà che suona peggio. Se ne sono occupati, una volta tanto, anche i grandi quotidiani, le tv. È un tema “in”. Sarà stato l’appello “Mai più complici” di Se non ora quando, firmato da centinaia di visi noti, da Roberto Saviano a Susanna Camusso. Sarà l’evidenza orribile della cronaca. Il convivente che ha strangolato e buttato giù da una scarpata Vanessa, vent’anni, a Enna, ai carabinieri ha detto: «Ho fatto una fesseria» (tentativo molto frequente di rimpicciolire i gesti più efferati). Saranno i numeri: in Italia nel 2010 la morte di 127 donne su 151 rientra nella categoria dei femminicidi. Le hanno uccise persone conosciute: padri, mariti, conviventi, ex. Delle 127, il 70 per cento aveva denunciato (invano) percosse, minacce, maltrattamenti fisici e psicologici, stalking alle forze dell’ordine o agli assistenti sociali. Nel nostro piccolo, noi su E di femminicidi parliamo dal primo numero, nella rubrica Casa dolce casa curata da Stella Spinelli in collaborazione con la Casa delle donne per non subire violenza, che ha sede a Bologna. Quelle due pagine (e le altre dedicate ai morti sul lavoro e in tutte le guerre in corso) sono le nostre lampadine accese su realtà indegne di qualunque Paese civile. Vogliamo veicolare una cultura di pace, ma non ci può essere pace senza libertà. Una donna, in Italia e altrove, deve essere libera di vivere la sua vita con la sua testa e il suo cuore, senza soggiacere alla violenza di uomini-padroni che da sempre si sentono autorizzati a decidere per loro. Non è che accendiamo lampadine solo nelle rubriche indicate. Avete visto una copertina ottimistica, o almeno non deprimente. C’è la crisi, lo sappiamo. Ma ci sono anche persone che, individualmente o in gruppo, cercano di reagire, di fare qualcosa, di resistere alla deriva. Raccontiamo le loro storie con nomi, cognomi, facce, com’è nostra abitudine. Aspettatevi esempi positivi, non certo manuali di sopravvivenza. E poi proponiamo un piccolo giro del mondo. A che punto è la primavera del Nordafrica? Che succede in Siria? E dov’è Anseong? A 80 chilometri da Seul. Lì gli esuli nordcoreani vanno (con molte difficoltà) a scuola di capitalismo. Poi, un bel salto: un pezzo di Leonardo Padura Fuentes accompagna il portfolio sulle stanze da letto dei cubani: come dormono, cosa sognano. Infine, un viaggio nostrano, a Cinecittà o meglio a quel che rimane delle passate glorie, tra la mole dell’acquedotto e i ricordi dei rastrellamenti al Quadraro. Buona lettura. Gianni Mura P.s. Ci sarebbe un altro modo per accendere tante lampadine in posti in cui di luce c’è un gran bisogno: sprecare meno soldi in armi e in spese militari. Sul sito di E – www.eilmensile.it – abbiamo lanciato una campagna: scrivete al governo e segnalate gli sprechi. Facciamolo in tanti, facciamolo tutti.


in questo numero 5 le storie Sto lavorando

44 il fumetto

Confondersi con gli altri

La strage di Brescia Sono passati trentotto anni da quel 28 maggio in cui una bomba esplode in piazza della Loggia uccidendo otto persone e ferendone un centinaio. Una strage senza colpevoli

di Marco Aime foto di Max Valle

scritto da Francesco Barilli disegnato da Matteo Fenoglio

La casa dell’euro

54 il viaggio

di Pino Di Leone foto di Elisa Profico

E se accadesse a voi? di Stella Spinelli foto di Irene Socci

di Camilla Mastellari

Eppure sboccia ancora di Aldo Castelli foto di Mar Kito

12 le cronache

Io speriamo che me la cavo Ovvero come reagire alla crisi. Storie raccolte in giro per l’Italia, tra gente che ha preso in mano il proprio futuro. Per autocostruirsi una casa, per rilevare l’azienda di cui era dipendente, per inventare le scarpe a chilometro zero. Storie di lotte che pagano, come la Innse di Milano, o di occupazioni sorprendenti come quella dell’ospedale di Kilkis in Grecia di Roberta Carlini, Gabriella Saba, Valentino Necco e Leonardo Bianchi foto di Christian Tasso, Germana Lavagna, Giorgio Mondolfo, Almasio & Cavicchioni e Dino Fracchia

28 il reportage

A scuola di capitalismo Siamo entrati nell’istituto in cui, in Corea del Sud, vengono “rieducati” coloro che fuggono dal regime di Pyongyang. Un isolamento che dura mesi, lezioni di finanza personale e di libero mercato. Che non bastano certo a rendere ben accetti i profughi di Christian Benna foto di Antonino Savojardo e Tomas van Houtryve

L’altra Roma Quella del Decimo Municipo, Quadraro, Cinecittà, San Giovanni Bosco. Quella dei nuovi centri commerciali e dei fascinosi studi di quando Roma era la capitale del cinema. Quella di migrazioni antiche e nuove di Luciano Del Sette foto di Carlo Gianferro

66 il portfolio

Sogni cubani Dimmi dove dormi e ti dirò cosa sogni, consiglia Padura Fuentes, entrando nelle case dei suoi connazionali. Il progetto ”Dormir con...” restituisce la realtà dell’isola tra interni che conservano tracce di antichi splendori e luoghi di grande miseria foto di Enrique Rottenberg e Carlos Otero Blanco con un testo di Leonardo Padura Fuentes

80 il dossier

La primavera sfiorita Che cosa resta delle rivoluzioni arabe? Quali gli itinerari nazionali e i nuovi equilibri? È fondato l’allarme sulla laicità e sui diritti delle donne? Con il parere di tre analisti dell’area e un reportage Dalla piazza al governo

98 il racconto

Cassata e pastiera Tra le mura di un ospedale, reparto di ortopedia, ci si racconta storie terribili di infanzia e si diventa amici, disputando se sia meglio la trionfale cassata o la profumata pastiera di Claudio Sanfilippo illustrazioni di Serena Viola

104 domani

Musica di Carlo Boccadoro Teatro di Simona Spaventa Cinema di Barbara Sorrentini Documentario di Matteo Scanni Arte di Vito Calabretta Design di Claudia Barana Libri di Alessandra Bonetti Rete di Arturo Di Corinto

109 sul campo

Fotografare l’innocenza testo e foto di Massimo Grimaldi

le rubriche 26 Robe di Alessandro Robecchi 27 Grill di Till Neuburg 42 Polis di Enrico Bertolino 43 Spiriti liberi di Giulio Giorello 52 Buen vivir di Alfredo Somoza 53 .eu di Stefano Squarcina 53 Parola mia di Patrizia Valduga 62 Televasioni di Flavio Soriga 63 Decoder di Violetta Bellocchio 64 Mad in Italy di Gianni Mura 65 Un fisico bestiale di Bruno Giorgini

76 Il capitale di Niccolò Mancini 77 Pìpol di Gino&Michele 112 La posta di E

il nostro osservatorio 24 Buone nuove 40 Casa dolce casa 78 L’Italia è una Repubblica

fondata sul lavoro

96 Cessate il fuoco

di Christian Elia

Siria, le tre rivolte di Francesca Borri foto di Lynsey Addario, Eric Bouvet, Bryan Denton, André Liohn, Christopher Morris, Jehad Nga e Finbarr O’Reilly

in copertina foto di Christian Tasso

Ci vediamo in edicola dal 25 giugno con il numero di luglio


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E - IL MENSILE GIUGNO 2012

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Christian Benna

Roberta Carlini

Giornalista freelance, si occupa con continuità di due webmag: www.sbilanciamoci.info (l’economia com’è e come può essere) e www.ingenere.it (economia, ma anche molto altro, da un punto di vista di genere). Ha pubblicato per Laterza L’economia del noi, che poi è diventato un blog (www.economiadelnoi.it). Ha lavorato al manifesto, di cui è stata vicedirettore fino al 2003. Nel servizio d’apertura è andata a scoprire alcune ricette contro la crisi.

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Christian Tasso

È nato a Macerata nel 1986. Realizza documentari e reportage fotogiornalistici a carattere sociale, antropologico e umanitario. Ha ottenuto riconoscimenti nazionali e internazionali tra cui, nel 2011, il premio The Aftermath Project nella sezione Saharawi Grant. Sta lavorando a un progetto sulla realtà degli ultimi eremiti d’Italia. A Senigallia ha visitato un cantiere speciale.

Alle biblioteche carcerarie che ne facciano richiesta verrà attivato un abbonamento omaggio

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Luciano Del Sette

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Antonino Savojardo

Nasce a Palermo nel 1978, si trasferisce a Milano per studiare design. La passione per la fotografia lo porta nel 2006 a lavorare nello studio del fotografo di architettura Paolo Utimpergher. Nel 2007 inizia in parallelo la carriera di fotoreporter. Ha realizzato reportage in circa venti Paesi, dal Maghreb al Sudamerica, dal Libano al Giappone, su temi sociali, tecnologia, architettura. I suoi lavori sono stati pubblicati su tutti i più importanti periodici italiani e su diverse testate straniere. Suo il reportage dalla Corea del Sud.

Leonardo Padura Fuentes

È nato all’Avana nel 1955. Scrittore e giornalista, ha conquistato critica e pubblico con il ciclo di romanzi che hanno come protagonista il detective Mario Conde, pubblicati in Italia da Marco Tropea Editore: Passato remoto; Paesaggio d’autunno, Premio de la literatura de las islas; Maschere, Premio Café Gijon; Venti di Quaresima, Premio nacional de novela. Addio Hemingway; La nebbia del passato. Per Marco Tropea Editore sono inoltre usciti Il romanzo della mia vita, che ha vinto il Premio Casa de Teatro 2002, e la sua opera più recente L’uomo che amava i cani, bestseller in tutta Europa. Su E racconta perché i cubani sognano meno di prima.

Felix Petruška

È nato a Milano nel 1977. Ha disegnato per Diario, Corriere della Sera, il Saggiatore, Isbn edizioni, Feltrinelli e Salani. È un nostro affezionato illustratore.

Carlo Gianferro

Resp. trattamento dati (D. Lgs. 30.06.2003, n.196) Gianni Mura

La nostra carta Questo giornale è stampato su carta certificata PEFC

Giornalista, classe 1976, torinese. Appassionato di jazz, ciclismo e pugilato. Per pagare l’affitto scrive di cose economiche su varie testate. Dal confine tra le due Coree ha scritto A scuola di capitalismo.

Giornalista, vive e lavora a Roma. Scrive per il manifesto e per il suo settimanale Alias. È autore e conduttore di programmi per RadioTre Rai. Per noi ha fatto un giro nel Decimo Municipio di Roma.

Ama fotografare le persone nei loro interni: l’ambiente nel quale vivono rivela molto della loro vita. Un’immagine può bastare, a volte, a raccontare tutto un mondo. Ha cominciato a lavorare sulle popolazioni rom in Moldavia e Romania nel 2004 e da questi progetti sono derivati due libri e diversi riconoscimenti, tra cui il primo premio World Press Photo nel 2009 nella categoria ritratti e storie. Qui ha fotografato Cinecittà e dintorni.

Stella Spinelli

Nata a Firenze, cresce fra le colline di Carmignano sognando di fare la giornalista. Nel luglio 2003, sente parlare del progetto PeaceReporter. Entra nella squadra e non la molla più. Ha al suo attivo vari viaggi reportage in America Latina. In questo numero ha raccontato la storia di Malika Yacout. Ogni mese cura la rubrica Casa dolce casa.


storia 73 - Pino Di Leone

Sto lavorando

di

Pino Di Leone

foto

Elisa Profico

Pino Di Leone, papà di Carlotta e di Francesco, è educatore professionale (tesi “Hasta la victoria siempre, ma pure nu pareggiu è dignitoso. Valenza educativa nello sport”). Lavora al Centro diurno Peter Pan di Torino, servizio della Cooperativa Animazione Valdocco. Insieme a due colleghi si occupa di minori segnalati dai servizi sociali, provenienti da contesti svantaggiati, che attraversano periodi di crisi di identità. I progetti del Centro coinvolgono scuola e famiglie e puntano sulla mediazione dei conflitti, sull’autostima e sull’autonomia dei ragazzi.

All’uscita di un cinema di Torino incontro vecchi compagni della squadra di calcio. «Ciao Pino, che cosa fai di bello?», mi chiede il mio ex centrocampista. Certo che ha preso un paio di chili dall’ultima volta che l’ho visto. Sicuramente avrà smesso di giocare, ma non ho voglia di fare domande anche perché i ragazzi del mio Centro mi stanno pressando per andare a prendere il tram. «Sto lavorando», rispondo frettolosamente. Chissà che cosa passa nella testa dei miei ex compagni: penseranno che sono un critico cinematografico (in realtà mi ero iscritto a Lettere, Storia e critica del cinema, ma loro forse non lo sanno nemmeno), o il gestore della sala. L’opzione attore la scarterei a priori. Alla fine scambiamo due parole sul calcio e poi via sul tram. Quella volta al cinema, mentre stavo lavorando, proiettavano Will Hunting-Genio Ribelle. Le mie due colleghe erano con le ragazzine del gruppo, io con i “maschi”. Morale della favola, ho rincorso Diego per le file delle poltrone mentre i pochi spettatori mi guardavano. Ci sono momenti in cui la gente non domanda. Guarda, osserva. Comunque il film merita, anche per la colonna sonora per chi apprezza il jazz. Dentro la Fnac, mentre guardo dei cd, incontro amici, per fortuna non gli stessi del cinema. Non chiedono che cosa ci faccio lì, ma vorrei dire loro che sto lavorando. Stiamo parlando, quando vengo chiamato da quei bei personaggi che ti guardano all’ingresso con un’aria di sfida come a dire: “Prova a fregare qualcosa che ti faccio fare una figura di merda davanti a tutti”. Ho sempre paura che siano loro a infilarmi qualcosa nello zaino, così tanto per ricordare alla spettabilissima clientela che c’è chi lavora sul serio. Comunque vengo chiamato perché, non un mio ragazzo, ma suo cugino (“ma perché lo hai portato?”) aveva “preso in prestito” un Game Boy. In effetti per lui fottere il giochino era stato un gioco da ragazzi. Ma non aveva fatto i conti con la telecamera. «Per questa volta, visto che è con lei, non facciamo niente. Se vuole può vedere la registrazione». Sì, magari anche la moviola, grazie.

Stadio delle Alpi, partita di campionato tra Juve e Bologna. Sto lavorando anche lì. Incontro il mio ex allenatore. Sapeva che dopo aver appeso le scarpe al chiodo, avevo intrapreso la strada per diventare allenatore/osservatore. “E bravo il Pino”, avrà pensato, “si intravedeva già quando giocava che aveva un occhio da talent scout”. Abbiamo i biglietti per la tribuna stampa, in effetti qualche aggancio ce l’ho. Eccitati i ragazzi, eccitato il sottoscritto (la mia collega non so). Per arrivare in tribuna stampa si prende l’ascensore. «È la prima volta che non scavalco», mi dice M. Quando si aprono le porte dell’ascensore, sua maestà il campo. Bello, non come dalla curva (non fate i fighi nel dire che la curva è quella dei guerrieri, dei veri tifosi. In curva non si vede niente). Compare anche il solito personaggio in giacca e cravatta con l’onnipresente auricolare: «Dove andate voi?». «Dove vuole che andiamo, scusi? Stadio uguale partita di calcio». «Io sto lavorando, non faccia lo spiritoso», mi dice. «A dire il vero sto lavorando anche io e non sa che soddisfazione sentire di avere l’appoggio dei miei ragazzi». Quel personaggio non si capacita che dei “truzzi”, e i due adulti con loro, abbiano in mano quei biglietti. «Ascolti, ci ha fatto perdere cinque minuti di partita, ci può dire dove dobbiamo sederci?». Cazzo, un po’ di autorevolezza davanti ai miei ragazzi ci vuole, e poi, diciamocelo, quel tizio è della Juve dell’era Moggi e proprio simpatico non è. Ma il bellimbusto (e sì, perché questi bei personaggi sono quasi sempre palestrati) subito dopo si prende pure la ramanzina del mio gancio (è l’addetto stampa, non ho grossi meriti se non quello di averci giocato contro nei campionati di Promozione e di abitare in un paese vicino al suo). Adesso dalla tribuna stampa sì che posso lavorare come si deve. Perché fare l’educatore è anche questo.

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storia 74 - Malika Yacout

E se accadesse a voi? storia raccolta da

Stella Spinelli foto

Irene Socci

Sono indignata, chiedo giustizia da sette anni, ma la giustizia non mi ascolta. Solo sentenze di archiviazione, pur avendo io subìto un abuso gravissimo, con tragiche conseguenze per me e soprattutto per la bambina che allora portavo in grembo. Un abuso comprovato da elementi schiaccianti, che dal Tribunale di Firenze, però, sono stati sminuiti e accantonati. Nel 2004 mi è piovuto addosso un ordine di sfratto. Avevo una figlia piccola e il marito in Marocco, dov’era tornato per cercare di vendere delle proprietà e ricavarne i soldi che ci servivano. Avevamo sempre fatto una vita agiata, ma il bar che gestivamo aveva cominciato ad andare male e, insieme a quello, tutto il resto. La richiesta di sfratto diventa esecutiva in tempi record, pochi mesi, troppo pochi per trovare i soldi e un altro alloggio. Quando arriva l’ufficiale giudiziario sono in

condizioni disastrose: incinta di cinque mesi e costretta a letto per una minaccia d’aborto, con l’altra bambina ricoverata in ospedale per un malore e mio marito ancora in Marocco. Accolgo lo squadrone dello sfratto con i certificati medici in mano e supplico il proprietario di concedermi almeno un mese di proroga, ma è irremovibile. Lo sono anch’io: resto a letto, dico loro che il mio bambino è in pericolo e mi rifiuto di uscire di casa. L’ufficiale giudiziario non batte ciglio: invoca un Trattamento sanitario obbligatorio urgente e chiede al medico presente di sedarmi. Nonostante le urla, i miei no, il dottore mi inietta due farmaci: Largactil, neurolettico-antipsicotico, e Farganesse, un antistaminico, entrambi molto pericolosi per il feto. C’è scritto persino sui “bugiardini”: “Controindicato in gravidan-


Malika Yacout ha 46 anni e quattro figli. È nata in Marocco, ma arriva in Italia nel 1990 per amore di un fiorentino conosciuto sulle spiagge del suo Paese e sposato poco dopo. La relazione dura un paio d’anni. Poi l’incontro con l’uomo che diventerà il padre della sua prima figlia. Insieme prendono in gestione un bar a Firenze. Le cose inizialmente vanno bene, poi Malika rimane sola con la bimba piccola. Ad aiutarla, un uomo marocchino con cui deciderà di convivere. È con lui che ha messo al mondo gli altri tre figli.

za accertata o presunta” per l’antistaminico, mentre quello del Largactil spiega: “L’uso del Largactil in gravidanza è da riservare, a giudizio del medico, ai casi di assoluta necessità”. Eppure me li somministrano senza remore, pur avendo di fronte una donna sana di mente e per di più incinta, e in un batter d’occhio mi ritrovo nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Santa Maria Nuova. Il mio ricovero non viene neppure convalidato, come vuole la legge, dal dirigente medico del reparto. La legge 180 del 1978, infatti, dato che il Tso è un trattamento limitativo della libertà personale, impone parametri molto ristretti: occorre una patologia psichiatrica conclamata o in atto, la richiesta di un medico va controfirmata da un sanitario di una struttura pubblica, dopodiché va trasmessa al sindaco, che deve emettere un’ordinanza da inoltrare all’autorità giudiziaria che, a sua volta, deve convalidarla. Niente di questo iter viene rispettato. Sono stata avvelenata e privata della libertà personale in maniera illegittima eppure nessun giudice ha ancora aperto un processo sul caso. E che dire di mia figlia, che più ci ha rimesso in questa sporca storia? Quei veleni l’hanno rovinata. Zara è nata con una grave encefalopatia e una lunga lista di perizie medico-legali stilate da esperti di tutta Italia collega il suo handicap a quei farmaci. E allora mi chiedo, perché si rifiutano di ascoltarmi in tribunale? Perché vogliono impedire il giusto processo? Ho presentato querela due volte e due volte me l’hanno archiviata in fretta e furia, senza le dovute indagini e senza addirittura notificarmi la decisione. Forse per impedirmi di ricorrere in Cassazione? Io mi sono aggrappata alle legge con i denti e, sostenuta da vari legali, vado avanti, contro tutto e tutti. Ci sono troppe anomalie e stranezze che non mi convincono: documenti che si perdono in cancelleria, richieste di archiviazioni inviate a indirizzi errati o spedite via fax

in ritardo e magari a cavallo di un ponte festivo, per far perdere tempo prezioso e lesinare i dieci giorni dalla notifica entro i quali ricorrere in Cassazione. Troppe circostanze fumose. Vogliono prendermi per sfinimento, ma non ce la faranno. L’ottobre scorso con il mio avvocato, Serena Giannini, abbiamo fatto ricorso contro l’ennesimo provvedimento di archiviazione, scaturito per di più da un ricorso tardivo causato da un fascicolo scomparso in cancelleria. Una decisione, quella di archiviazione, peraltro presa da un giudice che già si era pronunciato su questo procedimento nel 2009 e che dunque non avrebbe potuto rientrare nel merito del caso. Roba da matti. Quanti pasticci, troppi, per un singolo caso. Ci sono questioni inconcepibili e inspiegabili, che mi fanno molta paura. Ma almeno con il nostro ultimo ricorso sono stati costretti a riaprire le indagini. La mia è una storia che dovrebbe allertare le coscienze. Una situazione economico-finanziaria difficile può capitare a chiunque, ma la dignità e i diritti delle persone devono essere inviolabili. Basta impunità. Non bisogna essere avvocati, giudici o medici per capire che ho subìto un abuso enorme. Sono stata privata della mia libertà personale e ricoverata in un reparto di psichiatria senza i presupposti, ed è tutto normale? Mi hanno somministrato farmaci dannosi in gravidanza, ed è tutto normale? Mia figlia è affetta da gravi disturbi neurologici causati da queste medicine, ed è tutto normale? E se domani accadesse a voi? Sarebbe normale?

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storia 75 - Il Suq di Genova

Confondersi con gli altri storia raccolta da

Marco Aime foto

Max Valle

Questo è l’incipit del libro di Marco Aime sul Suq di prossima uscita. Raccoglierà storie, impressioni, immagini di una esperienza unica in Italia, che nel 2013 compirà 15 anni. Per chi volesse conoscerla dal vivo: Suq Festival delle culture, dal 13 al 24 giugno 2012, Porto Antico di Genova. www.suqgenova.it

Lunedì pomeriggio. Il sole si appoggia svogliatamente sull’acqua pigra del porto. Turisti passeggiano tra l’acquario e il Caricamento. Ragazzi africani attendono accanto ai loro teli stesi per terra con su la loro merce. Un occhio ai clienti, l’altro ai vigili. Una giornata normale, a prima vista, ma normale non è. Non è normale che centinaia di persone si pigino nel groviglio di quinte che ha trasformato il tendone di Renzo Piano in un mercato, anzi in un suq. Non è normale che, nel sole estivo, a due passi dal mare, si parli, si discuta di problemi del mondo, del mondo degli altri. E ancora meno normale è che quegli “altri” siano lì a discutere anche loro, ad applaudire o a dissentire. Ho partecipato a moltissime manifestazioni di carattere interculturale, dove si parla degli stranieri, si balla sulla loro musica, si mangiano i loro cibi, ma gli stranieri non ci sono. Qui al Suq, ci sono eccome. E le cose accadono anche perché un mercato deve essere un po’ caotico e anarchico per definizione, quale posto migliore per incontrarsi, anche tra diversi, di uno spazio non condizionato come questo? Fin dall’antichità i mercati sono luoghi neutri, fatti per l’incontro. Non a caso fin dall’antica Grecia vigeva il divieto di portare armi nel mercato e tale divieto è ancora valido oggi in molti mercati del mondo. Incontrarsi, scambiare non soltanto merci e cose, ma anche idee: questo è il Suq, nato tredici anni fa da un’idea di Valentina Arcuri e Carla Peirolero. Incontrarsi, ma in modo spontaneo, senza troppa formalità, lasciando un po’ al caso ciò che avverrà. Così il Suq diventa un intreccio di storie: storie di quelli che il Suq lo fanno e cioè quelli che ci stanno e quelli che ci vengono. Ognuno lì, con il proprio racconto, ma racconti che spesso, nella quotidianità si sfiorano, si intuiscono, magari si incrociano, ma non si intrecciano. Il Suq in fondo rispecchia un po’ l’anima vecchia di Genova:

quei vicoli stretti, dove si cammina solo a piedi e per questo ci si vede in viso, ci si riconosce, anche se non ci si conosce. Come al Suq. Al Suq la gente assaggia il cibo degli altri, cose mai gustate prima, ci prova. Il cibo è una formidabile metafora della cultura: è un gran viaggiatore, si mescola con ingredienti di origine diversa, si perde per rinascere sotto nuove forme e nuovi sapori. Come le culture umane, fatte anch’esse di pezzi diversi, cuciti tra loro e in continuo cambiamento. Improvvisazione e sorpresa, questi sono gli ingredienti più gustosi del Suq. Così, per esempio, accade che al Suq un lunedì pomeriggio, alla fine del dibattito sul problema dei curdi, ci sia un po’ di movimento ai bordi del palco. Sono ragazzi, si guardano in faccia l’uno con l’altro, come a dire, vai tu prima. E c’è un giovane africano aitante e con lo sguardo determinato, che li incita: «Dai, andate, dai!». E loro si fanno coraggio, si avvicinano a Carla Peirolero, l’anima del Suq, chiedono timidamente di poter fare una danza turca. Non hanno i dischi, però hanno le suonerie dei cellulari e allora è un attimo, si mette il microfono di fronte a un telefonino e la musica parte e la danza pure. Un paio di loro ballano benissimo, alcuni guardano gli altri e ci provano, ma non è questo che conta, quel che conta è esserci, vivere la festa e il pubblico lo capisce e applaude. Perché è così che ci si incontra, perché ci vuole un po’ di caos per abbattere le barriere. E se la parola suq viene usata da qualcuno in modo spregiativo, per indicare “confusione”, “disordine”, rispondiamogli che ha ragione, perché confondersi, confondersi con gli altri è il solo modo per fare umanità.

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storia 76 - Frank Buckley

La casa dell’euro

Abitavo a 60 chilometri da Dublino. Erano gli anni del boom immobiliare, quando comprare casa era facile come ordinare un piatto di fish&chips. Ho ottenuto un mutuo a copertura totale delle spese, malgrado non avessi un lavoro né un’entrata fissa. «Che problema c’è?», mi disse la banca. Un anno dopo è scoppiata la bolla dei mutui e la mia casa da 365mila euro si è trasformata in una zucca. Non riuscivo più a pagare gli interessi e una mattina gli esattori hanno buttato giù la porta e si sono presi i mobili e la mia macchina bianca. Un’aggressione in piena regola che ha dato inizio a un effetto domino. Il mio matrimonio è andato a rotoli e sono caduto in depressione. Quando uno dei miei più cari amici si è tolto la vita dopo lo sfratto, mi è scattato qualcosa dentro. Dovevo fare qualcosa. Così sono andato alla Banca centrale d’Irlanda e mi sono fatto dare un miliardo e 400 milioni di euro in banconote fuori corso destinate al macero. Non è stato difficile: ho firmato qualche carta e ho portato via dalla zecca due carrelli ricolmi di biglietti sminuzzati. Poi ho iniziato a fare arte. Volevo mostrare a che livello di disperazione il denaro ha ridotto il mio Paese: l’Irlanda è una giostra da cui, dopo l’ebbrezza seguita all’entrata nella Ue, sono scesi tutti. Ho preso una tela e ci ho incollato su pezzetti di banconote e monete. Quando sono riuscito a mettere insieme 67 opere ho allestito una mostra e l’ho intitolata Expression of recession: Ireland 2007-2011. Ma mi restava ancora il problema di dove dormire. Con l’assegno di disoccupazione non potevo permettermi un alloggio, così mi è venuta un’idea. C’era questo bel palazzo in centro, il Glass House Building, nuovo e abbandonato per via della crisi. Perfetto per accamparvisi. Ho usato gli euro che restavano per costruirmi una casa fatta di soldi. Ho mischiato l’argilla alle banconote stracciate e ci ho fatto dei mattoni 15x5. Se faccio bene i calcoli ogni mattone vale tra i 40 e 50mila euro. Non male per un senzatetto. Non ci avrei scommesso un centesimo, ma la mia casa da un miliardo è davvero confortevole e calda. L’euro è un fantastico isolante termico. Tutti mi chiedono perché sono contrario alla moneta unica, ma non è così. Io sono contro quello che hanno fatto con l’euro. Il danno che hanno provocato alla gente. Il valore che viene dato ai soldi è proprio sbagliato. Intendo dire, è solo carta, ma ci ha reso dipendenti. Ci siamo dimenticati di tutto: del senso della comunità, della condivisione. Vivo in una casa milionaria e non ho i soldi per un panino. Ci sono migliaia di persone a Dublino nella mia stessa condizione e il governo irlandese cosa fa? Niente. I ministri vanno in Cina a cercare opportunità di business. Perché non investono qui invece di girare il mondo? Preferiscono il Brasile o l’Asia perché è lì che gira l’economia. Qui da noi invece si sono venduti tutto e la sovranità popolare è in mano alle multinazionali. È l’Fmi che comanda. La Germania ci dice che cosa fare perché vuole indietro i soldi del

nostro debito, ma noi non ce li abbiamo. Il 31 maggio ci sarà un referendum per votare il nuovo accordo sulla politica fiscale dell’Unione europea, il Fiscal Compact. Ma è tutta una farsa, a decidere sarà l’Europa, non gli irlandesi. Qualche giorno fa, l’ex primo ministro Bertie Ahern, il sedicente campione della rinascita economica nazionale, è stato accusato di corruzione. Sono certo che non farà un giorno in cella. A me volevano mettermi in prigione perché non potevo pagare una multa di 80 euro per guida senza cintura. Tutto quello che mi rimane è la mia voce. Il futuro sono le mie parole e la mia arte. Non sono mica il presidente, sapete, non ho l’opportunità di raccontare la mia verità di fronte a quattro network televisivi. Ma c’è qualcuno che ha iniziato a interessarsi alla mia storia. Mi telefonano dall’Italia, dall’India, dall’America: adesso ho l’occasione per trasmettere un messaggio. Certo, non sono in gamba come Nelson Mandela; lui sì che è stato capace di cambiare le cose per la sua gente. Io mi scaldo, alzo la voce. Lui invece sapeva gestire la rabbia e utilizzarla in modo costruttivo. Ma soprattutto, sapeva perdonare. Vorrei riuscirci anche io.

E

storia raccolta da

Camilla Mastellari

Frank Buckley è cresciuto negli anni Sessanta nella periferia di Drimnagh, a Dublino. Dopo un’esperienza decennale nel mondo della musica, ha iniziato a dedicarsi all’arte, firmando nel ’93 un’installazione in commemorazione delle vittime del bombardamento dell’Ira a Warrington presso il Point Theatre della capitale. Nel 1997 ha fondato l’associazione no profit Sport Against Racism Ireland per favorire l’integrazione delle minoranze etniche nella comunità locale. Oggi si sta dedicando al progetto di un centro di recupero per tossicodipendenti nel monastero Thamkrabok in Thailandia.


storia 77 - Bloom

Eppure sboccia ancora

storia raccolta da

Aldo Castelli foto

Mar Kito

Aldo Castelli è il presidente della cooperativa Il Visconte di Mezzago che gestisce Bloom dal 16 maggio 1987. Oasi culturale nella Brianza profonda, da allora il locale ha offerto migliaia di concerti, film, incontri, corsi, letture, dischi e bicchieri di birra. In occasione del suo venticinquesimo compleanno, è in libreria Sviluppi incontrollati. Bloom Mezzago Crocevia Rock, a cura di Aldo Castelli e Massimo Pirotta, con la prefazione di Manuel Agnelli (Volo libero Edizioni). Parte del ricavato andrà a Emergency.

Queste storie parlano di persone e tutto sommato Bloom è una persona. È piuttosto difficile fare cultura in Brianza, la terra dei mobilifici, della Lega e dei Suv. Se poi pensi di aggiungere al sostantivo cultura l’aggettivo alternativa, qualunque cosa esso significhi, diventa ancora più difficile. Ma per fortuna in questi venticinque anni molta gente ha incontrato Bloom e tante collaborazioni sono nate. Sotto la cenere della Brianza covano molti fuochi. Bloom è un centro culturale. Mi viene qualche brivido quando pronuncio questa parola, fa venire in mente qualcosa di serioso, di ufficiale, di autorevole. Bloom non è affatto così. E allora quale altra definizione si potrebbe trovare? È un posto dove della gente fa delle cose. Intanto, quale posto? Un vecchio cinema diviso in diverse sale, fra i campi di asparagi di Mezzago, piccolo paese a nord di Milano, tra Vimercate e Trezzo d’Adda (così lo indicavamo prima dell’avvento di Google Maps). E poi, quali cose? Musica, cinema, teatro, corsi, incontri, vendita di libri e di prodotti equosolidali. E infine, o forse prima di tutto, quale gente? Una cooperativa. Un centinaio di soci più o meno attivi, una decina di dipendenti stipendiati, malamente purtroppo. Nessun contributo pubblico, più per incapacità che per volontà. Molto volontariato, da parte di tutti quelli detti sopra, più un nutrito giro di amici e simpatizzanti. Bloom ha cominciato la sua attività nel 1987, nella Brianza come la conoscevamo allora, quando anche il concetto di biblioteca comunale era agli albori. Qualcuno si ricorda che cosa c’era o non c’era venticinque anni fa? C’era il Muro di Berlino, c’erano le pensioni, le fabbriche, il Pci

e la Dc. Non c’erano i dvd, né i cellulari, niente internet e social network. Nessuno aveva un contratto nei call center, forse anche perché non esistevano. Neanche Berlusconi esisteva, o almeno si vedeva poco. Si stava allenando a far danni con le sue ancora piccole tv. Bloom voleva essere un posto per gente curiosa. Una scatola magica dove infilare di tutto: quello che ti incuriosisce, quello che ti sembra di non capire, quello che ti sembra troppo lontano, quello che credevi di non poter mai vedere o ascoltare in queste lande. Quello che non ha spazio per parlare o per farsi ascoltare. Quello che non è ancora stato fagocitato, triturato, omogeneizzato dal mercato, dall’industria o dal business. La musica per prima cosa, perché i padri fondatori di Bloom venivano quasi tutti da una delle prime radio libere, Radio Montevecchia. Tutti sanno che al Bloom hanno suonato i Nirvana (prima che fossero i Nirvana, ma anche dopo che lo erano diventati). Ma non dimentichiamoci di tutte le altre band. Italiane e straniere, alcune diventate famose, altre sparite nell’oblio. Bloom ha offerto il suo palco a moltissimi musicisti esordienti, cosa di cui forse nessuno si ricorda, ma loro, i musicisti, sicuramente sì. E poi il cinema, d’essai, ogni giorno. Circondati dalle multisale, siamo un “cinema di quartiere” sopravvissuto. E ancora: teatro, anche senza gli spazi giusti (e anche con nomi importanti: Fo, Sarti, Ovadia); corsi di ogni genere (cinema, cucina, danza); incontri con scrittori e artisti. I puntini di sospensione si sprecano perché l’elenco sarebbe sconfinato. Bloom ha anche offerto i suoi spazi a molte associazioni per le loro iniziative. Dall’anno scorso, in memoria di Vittorio Arrigoni, abbiamo deciso di organizzare “Restiamo umani”, una rassegna di incontri con uomini e donne che nella loro quotidianità affrontano questioni apparentemente sovrumane: la laicità dello Stato, l’accoglienza, il testamento biologico, la solidarietà. Restare umani, in fondo, è quello che abbiamo sempre cercato di fare. In questa terra di padani e di rampanti, la conservazione dell’umanità è stata il sottofondo non dichiarato del nostro impegno. Forse, per questo, Bloom è diventato una sorta di sigillo di garanzia. Visto da dentro tutto ciò appare abbastanza strano. Le contraddizioni, interne ed esterne, abbondano. Le tensioni pure. Non parliamo delle difficoltà economiche. Eppure siamo ancora qui a insistere. Non siamo missionari né educatori, però ci piacerebbe, dopo i concerti del venerdì sera, non trovare più le lattine di birra dentro il bidone dell’umido. Abbinare rock e raccolta differenziata. Che sia questa la missione di Bloom?

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Io speriamo che me la cavo di Roberta

Carlini

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Christian Tasso

C’è chi, con i colleghi, raccoglie fondi per comprare l’azienda dove lavorava come dipendente, chi guarda alla terra, chi costruisce la propria casa. Chi ha impedito che qualcuno smantellasse la “sua” fabbrica e chi ci prova da solo, semmai su un’ape. Era successo in Argentina e le aziende trasformate in cooperative ancora vivono. È accaduto in Grecia, dove medici e infermieri hanno occupato gli ospedali. Così, in Italia si cerca di aggirare la crisi che, quest’anno, divora altri seicentomila posti di lavoro


Quest’anno salteranno altri seicentomila posti di lavoro, secondo le previsioni degli industriali italiani. Andranno ad aggiungersi ai 315mila per i quali è già formalmente aperto uno stato di crisi al ministero dello Sviluppo economico, quel palazzone romano ormai militarizzato quasi quanto la vicina ambasciata statunitense. L’ordine pubblico teme la carica disperata dei lavori persi, mentre si vedono meno quelli che non sono mai nati: in tre anni, dal 2008 al 2011, il numero dei giovani occupati è sceso di un milione. Centinaia di migliaia che escono, centinaia di migliaia che non entrano. Il Prodotto interno lordo in calo, per quest’anno, almeno del 2 per cento. Mentre le banche continuano a tenere chiusi i rubinetti del credito e il governo sigilla quelli della spesa pubblica. In questo quadro, più che fosco, qua e là spunta qualcosa di nuovo. Lavoratori che si prendono la fabbrica, trasformandosi da dipendenti in soci, un minuto prima che i cancelli si chiudano per sempre. Allevatori che si coalizzano e scoprono la possibilità di una filiera alternativa, che permette di non portare libri e mucche in tribunale. Senzacasa che, non avendo conti né santi in banca, ricorrono a cooperative di autocostruzione. Volontari e professionisti del web che fanno nascere, da una catastrofe naturale, la prima gestione delle emergenze 2.0 in Italia, com’è successo a Genova durante l’alluvione dello scorso novembre. Imprese storiche che per sopravvivere riscoprono il baratto e imprese nuove che per vedere la luce cercano finanziamenti dal basso, in entrambi i casi saltando la strozzatura delle banche. Famiglie che scelgono di condividere spazi, tempi o consumi, per cambiare un po’ bilanci e stili di vita. Strade nuove, rimedi estremi che spuntano dai mali estremi della crisi più grave mai vissuta dalla maggior parte dei viventi in Italia. Estremi e il più delle volte solidali. È il caso dei cosiddetti workers buy out, ossia dell’acquisto dell’impresa da parte dei suoi dipendenti riuniti in cooperativa. «Non è facile prendersi la fabbrica sulle spalle, è un peso tremendo. Per farlo, devi proprio essere in una situazione di esasperazione, non avere via d’uscita», dice Marcelo Vieta, studioso delle empresas recuperadas, quel fenomeno che, nel pieno della crisi argentina dei primi anni Duemila, attrasse ricercatori e attivisti da mezzo mondo, un po’ per militanza e un po’ per interesse scientifico. Nel caso argentino, i lavoratori occuparono le fabbriche in crisi, dalla metalmeccanica Impa di Buenos Aires alle ceramiche della Zanon, dalle tipografie all’abbigliamento sportivo Gatic, fino a una clinica di Córdoba. Alla fine, le imprese “recuperate” sono state circa 250, per un totale di dodicimila posti di lavoro. «Può sembrare poco, in rapporto ai 16 milioni di lavoratori argentini – dice Vieta – ma la cosa ha avuto un impatto sociale e politico molto forte e la soluzione dei workers buy out è vista ora come una possibilità concreta. Anche il diritto si sta adeguando». Vieta adesso è in Europa e vede in alcuni fenomeni qualcosa di analogo al trauma argentino di allora. Come in Grecia, dove si sono visti anche medici e infermieri occupare cliniche e ospedali. «Sono casi diversi, ma anche qui nascono da una drammatica crisi regionale o nazionale, con una risposta esasperata, che poi cerca le strade per farsi istituzionale».


Senigallia

foto Christian

Tasso

Le mani sul mattone Un pizzaiolo iraniano, due poliziotti italiani, un’infermiera ucraina, un artigiano albanese... Sarà una piccola assemblea dell’Onu, la prima riunione del nuovo condominio che si sta tirando su a Senigallia, in località Cesano. Sette nazionalità per venti appartamenti. Ma le famiglie che a fine estate entreranno nelle nuove case si sono già conosciute sul cantiere, lavorando fianco a fianco. Quello di Senigallia è infatti un progetto di autocostruzione, nel quale tra le condizioni poste per entrare (oltre all’aver bisogno di casa e a non avere altri immobili né patrimoni) c’era proprio la disponibilità a metterci le mani: 750 ore di lavoro per famiglia. “Le mani, per vivere insieme” è il nome della cosa: iniziata nelle carte ministeriali nel 2007, avviata dalla Provincia di Ancora, gestita

dal Consorzio di solidarietà e dal consorzio Abn di Perugia, assistita finanziariamente da Banca Etica. L’autocostruzione, ancora poco diffusa in Italia, è una delle frontiere possibili dell’housing sociale: una politica per la casa rivolta a quella fascia di popolazione che è troppo povera per accedere al mercato immobiliare privato, ma troppo ricca per quel po’ di edilizia popolare che abbiamo. Un modo di costruire diverso, partecipato anche fisicamente. Cosa che permette di abbattere i costi (insieme al fatto che i terreni li ha messi il Comune): per dire, una casa di 116 metri quadri viene a costare alla fine 148.355,83 euro. Tra le condizioni del progetto, il fatto che le case andassero per il 50 per cento a stranieri.

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Momenti di vita quotidiana nel cantiere di Senigallia dove cittadini di sette nazionalità diverse lavorano insieme per un obiettivo comune: il condominio che diventerà la loro casa


Una via istituzionale, in realtà, in Italia era ed è più facile. C’è una legge, la Marcora, che dal lontano 1985 prevede che i lavoratori possano rilevare l’azienda in crisi. E fondi e strumenti giuridici pronti. Fino al 2010, racconta Camillo De Berardinis, amministratore di Cfi, – fondo istituzionale dedicato alla conversione di imprese in crisi in cooperative – i casi di workers buy out da noi sono stati una sessantina, per un totale di circa diecimila posti di lavoro. Ma con l’acuirsi della crisi, nell’ultimo anno, le richieste sono cresciute: una trentina solo dai primi mesi di quest’anno. Molti nell’industria, anche in distretti che erano vecchie glorie dell’industria nazionale – come la Greslab di Scandiano, nel settore delle piastrelle, o la Spes di Fabriano, che produce dispositivi di software per gli elettrodomestici. Ma cosa fa sì che una coop possa riuscire laddove il padrone ha fallito? Nell’immediato, spiega De Berardinis e ci dicono i casi di cronaca, la fabbrica resta aperta grazie a sacrifici dei lavoratori, che ci mettono del loro: spesso le liquidazioni e un taglio degli stipendi. Ma anche così non si reggerebbe, se non ci fosse una sostenibilità economica nel medio periodo; spesso ignorata dai proprietari, che magari abbandonano solo per un calo dei margini di profitto di breve periodo, oppure perché si spostano altrove, o – non è raro, nelle aziende a struttura familiare – per stanchezza, cattiva gestione, scarsa volontà di innovazione. I numeri argentini confermano che le imprese “recuperadas” non sono state un fuoco di paglia: «Se al 90-95 per cento sono ancora aperte – dice Vieta – è perché quelle persone hanno investito molto di più di un capitale monetario, c’era dentro tutta la loro vita e la vita di una comunità, di un territorio, questo fa la differenza». Torna la cooperazione, e torna anche il baratto, in forme moderne. Tra imprese, per esempio. È il caso dei circuiti di scambio messi in piedi tra imprenditori che hanno preso a pagare i loro fornitori in natura, con altri pezzi o servizi: si chiama corporate barter e prevede network di scambio tra imprese. Chi aderisce – sono per lo più imprese medie o piccole – paga un abbonamento annuale al network, al quale fornisce beni e servizi; chi vende viene pagato con una moneta complementare, con la quale può comprare ciò che gli serve presso altri fornitori del network (che fa anche da garante delle transazioni). In Italia esistono già diversi casi del genere, a livello nazionale, come BexB (Business Exchange Business) e Cambiomerci, o locale, come la Sardex. Anche il successo di formule del genere mostra la spasmodica ricerca di meccanismi nuovi per sostituire quelli inceppati dalla crisi: le banche, in primo luogo, che stanno facendo pagare il riaggiustamento dei loro conti disastrati dall’ubriacatura finanziaria alle imprese (soprattutto le piccole) e alle famiglie. Alla fine della grande recessione, gli economisti e gli storici documentano quali e quante trasformazioni strutturali, in piccolo e in grande, sono state prodotte dalla crisi. Per ora, la cronaca ce ne fornisce qualche esempio, nelle scelte di produzione e stili di vita. Cominciamo a tracciarne una prima mappa.

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Cagliari

Dal macello al castello

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Alto, in giacca di lino bianca e cappello stile Borsalino, un orecchino d’argento non troppo vistoso, Claudio Dessì si dà da fare fin dalla mattina presto intorno al simbolo della sua riconversione professionale (e personale): un ape-calessino color panna della Piaggio con cui da qualche mese porta in giro i turisti (e qualche cagliaritano «che vuole provare l’ebbrezza di girare su quel mezzo»), per la zona antica della città, Castello o, in sardo, Casteddu. «Amo profondamente Cagliari e mi entusiasma raccontare la sua storia a chi non la conosce», spiega Dessì e intanto mostra il quadernone in pelle in cui clienti di tutto il mondo hanno lasciato messaggi piuttosto entusiasti: “Merci mille fois à Claudio pour sa gentilesse et son sourire”,


Giorgio Mondolfo recita una. E un’altra: “Gostamos muito de dar a volta em Cagliari”. (Ce ne sono anche in giapponese, ma non ci è dato decifrarle). Claudio Dessì è uno di quegli italiani che piacerebbero a Mario Monti: piuttosto che continuare ad annoiarsi lavorando a contratto presso le macellerie di vari mercati («un mestiere faticosissimo e mal pagato»), si è riciclato in guida turistica con un’area di azione ben delimitata: quel Casteddu, appunto, le cui stradine a saliscendi sono a volte così strette che non ci passa un’auto, un taxi, ma invece vi può sfrecciare agilmente quell’ape o apixedda (vezzeggiativo sardo) che Dessì non fa che strigliare come se fosse un cavallino di razza, e sulle cui fiancate spicca il marchio svolazzante dello sponsor: “Arnold’z, the new generation of take away”. A colpi di tre turisti a giro (ogni giro dovrebbe durare fra i trenta e i quaranta minuti che lui allunga fino a cinquanta senza sovrapprezzi, il tutto per dieci euro), il quarantanovenne cagliaritano si è accreditato in poco tempo come una delle guide più originali del capoluogo: non parla precisamente nessuna lingua, ma i turisti lo capiscono e si divertono a muoversi su quell’ape che permette loro di risparmiare arrampicate a volte estenuanti.

È stata proprio una coppia di anziani turisti esausti, d’altronde, in un pomeriggio particolarmente torrido di qualche estate fa, ad avere dato a Claudio l’idea per quella attività. Era affacciato alla finestra della sua casa in via Sant’Efisio quando si sentì chiedere, dalla strada, se c’era un mezzo per arrivare fino a “lassù”, e cioè fino a Casteddu. Lui era già stufo delle macellerie e aveva il sogno di un lavoro che conciliasse libertà e cultura (la sua passione era, da sempre, la storia di Cagliari) e qualcosa di simile a un’illuminazione gli rischiarò un futuro che in quel momento vedeva precario e grigiolino. Qualche mese dopo chiese un prestito a una finanziaria ed ecco l’ape. Parcheggiata tutto il giorno davanti ai portici di via Roma, il viale davanti al porto, è diventata una specie di elemento decorativo del paesaggio e lui un personaggio sui generis nella rilassatissima vita cagliaritana. «Per restituire i soldi ci vorrà un po’, ma gli affari vanno discretamente e questo lavoro mi entusiasma», dice tutto allegro. «Per il momento, direi che mi accontento». (gabriella saba)

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Modena

Roma

Basta tagli, Cooperativa splende il sole in camice I tagli ai Comuni e alle scuole pesano dappertutto, anche nel cuore del modello emiliano. Siamo a Modena, dove alla scuola elementare Saliceto Panaro il problema dei tagli alle spese correnti l’hanno risolto partendo dal tetto. Sul quale sono stati installati pannelli fotovoltaici, per una potenza di 93.600 kw all’anno, con l’esplicita intenzione di prendere dal sole il necessario per le spese per la didattica. Fin qui, niente di particolarmente nuovo: è successo anche in altri casi che ci si decidesse a sfruttare i tetti degli edifici pubblici per l’energia pulita. La novità, nel caso della Saliceto Panaro, è che il fotovoltaico scolastico è nato dal basso: dalla comunità di genitori, insegnanti e cittadini interessati alla scuola del quartiere, che hanno accettato di mettere dei soldi in cooperativa per coprire il 40 per cento dell’investimento: 240mila euro, per la precisione. Tutti raccolti con microquote, da un minimo di 250 a un massimo di diecimila euro. Il resto dei fondi necessari è venuto da Banca Etica, con un mutuo che sarà ripagato dai contributi di legge al fotovoltaico. A regime, il Comune (che ha ceduto il tetto della scuola) risparmierà sulla bolletta; i microfinanziatori avranno un rendimento basso ma garantito, e la soddisfazione di aver migliorato il quartiere; la scuola tratterrà quel che resta, ossia i proventi di tutta l’energia che produce e non consuma, e userà questi soldi per la didattica.

Una specie di workers buy out tra colletti bianchi. Anzi, tra i camici bianchi degli informatori sanitari e i manager messi sul lastrico dalla Warner Chilcott, multinazionale che, appena diciotto mesi dopo aver rilevato dalla Procter&Gamble tutto il ramo farmaceutico, ha deciso di disfarsi del “rametto” europeo. Lasciando a casa 550 persone, 160 delle quali in Italia. Motivazione ufficiale: stava per scadere il brevetto di un farmaco molto diffuso contro l’osteoporosi, cosa che avrebbe fatto calare i profitti. «In realtà loro sapevano benissimo quel che compravano, dunque anche il fatto che il brevetto scadeva: hanno fatto un’operazione finanziaria», dice Salvatore Manfredi, presidente di Fenix Pharma: che è una cooperativa nata dopo la fuga della Chilcott, fatta da 39 ex dipendenti della multinazionale. Manfredi e soci non hanno rilevato l’azienda né il suo ramo: si sono limitati a proseguirne l’attività, comprandosi le licenze per produrre il farmaco generico che ha tanto spaventato la Chilcott. Loro ci mettono faccia, soldi (della liquidazione) e anche una parte degli stipendi, dimezzati rispetto a prima. «Ma soprattutto ci mettiamo le nostre competenze. Potevamo anche costituire una società, ma abbiamo scelto una formula più vicina ai nostri valori di fondo, l’idea è quella di fare qualcosa incentrato sulle persone, non sui capitali».

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Brescia

foto Germana

Lavagna

Le mucche alla riscossa Strangolati dalle banche e dal gasolio. La sorte della ditta Luciano e Giuseppe Olini, cinquanta mucche e un’azienda agricola nel Bresciano, non era dissimile da quella di tanti imprenditori del dopo Lehman. Con l’aggravante, comune a tutti gli agricoltori, della disattenzione generale che c’è in Italia per quello che succede nelle campagne. Poteva finire come tante altre storie simili e andare a chiudere in solitudine, smettendo di fare latte, yogurt e formaggio. E invece è finita bene, cioè non è finita. Quest’anno l’azienda degli Olini produrrà trecento quintali di latte biologico. L’ha salvata una specie di “cavaliere bianco” della campagna cremonese, una cooperativa agricola che si chiama IrisBio che già in passato ha fatto cose del genere: per esempio, comprandosi il pastificio dove prima andava a produrre la sua pasta bio, salvando 22 posti di lavoro e chiudendo la filiera corta che va dai campi della cooperativa ai gruppi d’acquisto. Stavolta IrisBio non ha rilevato l’azienda, ma ha accolto il titolare tra

i suoi soci e ha architettato l’intervento di salvataggio e riconversione. Che prevede una filiera interamente biologica e diretta: dal mangime, prodotto da un’altra struttura della coop, alla vendita, che sarà locale e senza intermediari. «Un’operazione così non la fai se non ci metti qualcosa di più, una collaborazione solidale», dice Maurizio Gritta, presidente di IrisBio, realtà vitalissima e assai conosciuta nel mondo del consumo critico e dei Gas. Non che questo mondo sia al riparo dalla crisi, tutt’altro. «Anche per noi non sono tempi facili. Riusciamo a fare una pasta biologica a un prezzo accettabile, come quelle dei supermercati che però biologiche non sono». Ma non basta, con i tempi che mordono. Così «abbiamo deciso che sui prodotti basilari tutta la filiera, dal produttore al trasportatore, rinuncia a qualcosa, per fare una borsa della spesa calmierata, almeno su due prodotti: la pasta e il pomodoro».

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Montecarotto

Ci hanno messo due anni, e infiniti conti e incontri, avanzamenti e passi indietro: tutto per mettersi insieme, tra persone e imprese che hanno sempre lavorato sulle stesse cose nel raggio di una ventina di chilometri, nel cuore del distretto calzaturiero delle Marche, ma non avevano mai collaborato. E invece, il maggio del 2012 ha portato la novità: la prima scarpa a chilometro zero, interamente prodotta in zona, dal pellame alla confezione finale, da una rete di cooperative e imprese. Gente che lavora nelle scarpe da una vita, o anche da diverse generazioni, ma che ha voluto “mettersi in proprio”: staccarsi, almeno per un pezzo di produzione, dai grandi marchi committenti che dettano prezzi e tempi sempre più stretti, spingendo i contoterzisti a delocalizzare in Romania o Tunisia. Così la Gommus di Montecarotto che fa le suole, la Luis di Monterado che confeziona, più tutti gli altri pezzi della produzione – da chi taglia il pellame a chi fa la pubblicità su internet – sono ora riuniti in una rete unica, proprietaria del marchio (R)evolution. Dove la prima revolution sta nel riappropriarsi della produzione delle scarpe, dall’inizio alla fine: spezzettata tra capannoni e Paesi del mondo a tal punto che, per fare bene i conti sull’intero processo, quelli di (R)evolution hanno chiamato per superconsulente un operaio anziano, prossimo alla pensione, con la memoria e la sapienza di tutte le fasi del lavoro. Nei primi modelli della collezione primavera-estate 2012, ogni scarpa è contrassegnata da un numero, che è il costo orario del lavoro di chi l’ha fatta. 14,70 è per esempio il codice del primo modello, in colori blu marine/ beige per gli uomini e tortora/lilla per le donne. Che vuol dire: 14 euro e 70 l’ora (al netto dei contributi, ma al lordo delle tasse), sommando tutte le fasi della lavorazione. Poi ci sono i materiali e l’energia, tutti ecologici: gomme riciclate, concia vegetale, collanti a base d’acqua, fotovoltaico per i capannoni. E per la vendita, la rete dei gruppi d’acquisto ma anche le vetrine dei negozi. Alla fine, le scarpe (R)evolution vengono a costare 102 euro ai Gas, 129 nei negozi. Le prime cinquecento paia già viaggiano per l’Italia.

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Dino Fracchia

Mocassini a km zero


Milano

foto Almasio&Cavicchioni e Dino

Fracchia [buenavista]

La lotta paga (ogni tanto)

Questa è la storia, rara, di una battaglia vinta. Loro sono gli operai della Innse. Una fabbrica storica, sana, con un proprio mercato, comprata, si sospetta, per essere poi rivenduta a pezzi. E senza di loro. Per dodici mesi hanno bloccato l’entrata. Con le loro famiglie e l’aiuto di chi ci ha creduto. E tre anni dopo continuano a lavorare Nelle pagine precedenti: Luciano e Giuseppe Olini e le loro mucche. L’azienda è stata salvata dal crac dalla cooperativa agricola IrisBio.

www.eilmensile.it Sul nostro sito il video girato nell’azienda Olini

Il cantiere della Innse di Milano. Nel 2008 la protesta di cinquanta operai contro la messa in mobilità dà inizio a un braccio di ferro, durato un anno, con i vertici dell’azienda. La vertenza si è conclusa con la riassunzione dei licenziati

«Chi ci ha aiutato di più sono stati i centri sociali». Stefano, operaio, 40 anni, due figli, ricorda l’agosto del 2009, quando centinaia di poliziotti in assetto militare cercarono di sgombrare la Innse con la forza. Tutto comincia nel giugno del 2008: Stefano e altri 49 colleghi ricevono, fulmine a ciel sereno, un telegramma dell’azienda che li mette in mobilità. Perché, dato che la Innse è un’azienda sana, che produce, che ha commesse e clienti? Silvano Genta, commerciante di rottami di Torino, l’ha acquistata due anni prima dall’amministrazione controllata (l’azienda faceva parte di una holding che aveva scaricato su di essa i debiti del gruppo) grazie ai notevoli sgravi concessi dalla legge. Prezzo d’acquisto, settecentomila euro: una cifra irrisoria, non fosse altro che per il valore dei macchinari, alcuni dei quali veri e propri pezzi unici in Europa. Campione della metalmeccanica pesante, la Innse sforna pezzi (presse, laminatoi, macchine utensili) da 50-100 tonnellate. Gli operai si ribellano

a una chiusura che non sembra avere ragioni economiche. Il sospetto è che il padrone abbia acquistato la Innse solo per speculare sul valore degli impianti: gli basterebbe venderli a pezzi, a peso di rottame, per farci un utile. Ma alcuni insinuano che la decisione di chiudere si iscriva in un disegno più ampio. I terreni della ex Innocenti, dove un tempo si producevano gli omonimi tubi, la Mini e la mitica Lambretta, è un deserto industriale che il proprietario, l’immobiliare Aedes, spera di trasformare in area residenziale. La Innse è un ostacolo al cambio di destinazione d’uso dei terreni. Ma gli operai, tutti iscritti alla Fiom, non ci stanno. Proclamano un’assemblea permanente, eludono la sorveglianza dei vigilantes e occupano lo stabilimento. Lavorano in modo autogestito. Fatturano quasi duecentomila euro, versano i soldi nelle casse dell’azienda. Ma alla fine di agosto Genta chiude la procedura di mobilità e licenzia tutti. Gli operai resistono, continuano a lavorare anche senza stipendio.


Fino a metà settembre, quando la forza pubblica sgombera la fabbrica e li mette alla porta. «Ma non ci siamo arresi», raccontano. «Ci siamo detti: tu ci butti fuori dalla fabbrica? E noi non lasciamo entrare te». Si accampano all’ingresso e organizzano un presidio, decisi a bloccare ogni tentativo di smantellare gli impianti. Incassano la solidarietà di molti cittadini, ma intanto sono senza soldi e persino il sindacato esprime qualche perplessità sui metodi di lotta: «Ma poi è stato al nostro fianco sino alla fine», dice Stefano. Per un anno vivono lì, giorno e notte, dandosi i turni per non lasciare mai sguarnito l’ingresso. A febbraio un primo tentativo di sgombero è sventato dal “pronto intervento” dei ragazzi dei centri sociali che si affiancano agli operai nell’affrontare le forze dell’ordine. Intanto la politica è impotente: non mancano acquirenti per la Innse, ma i tentativi di mediazione sono infruttuosi. I primi di agosto del 2009 un altro blitz: arrivano centinaia di poliziotti e carabinieri in assetto antisommossa,

scoppiano tafferugli, i manifestanti bloccano la vicina tangenziale. La situazione è disperata e quattro operai, accompagnati da un delegato Fiom, riescono a forzare il blocco di polizia. Entrano in fabbrica e salgono sul carroponte. La Innse finisce sulla cronaca nazionale. Per otto giorni Vincenzo, Massimo, Fabio, Luigi e Roberto vivono sospesi a venti metri da terra, la loro protesta fa il giro d’Italia e verrà emulata da molti altri operai in lotta per il posto di lavoro. Una lotta che nel loro caso, finalmente, riesce nello scopo: il 13 agosto l’annuncio dell’accordo, trovato tra Genta, Aedes e l’acquirente, il gruppo Camozzi di Brescia. A tre anni di distanza la Innse è tornata alla normalità: grazie alla manutenzione notturna dei dipendenti licenziati, gli impianti sono stati salvati e rimessi in funzione; l’azienda lavora per altre imprese del gruppo, ma sta anche acquisendo commesse esterne; tutti gli operai sono stati riassunti. (valentino necco)

B

L’interno della Innse. A tre anni dalla protesta gli impianti sono stati salvati e gli operai lavorano a pieno regime


Kilkis, Grecia

La terapia dell’occupazione Leta Zotaki si è laureata in medicina all’Università di Salonicco. È la direttrice del reparto di radiologia dell’ospedale di Kilkis. Ha 58 anni e una figlia di 27 anni. Troppi per lottare? No di certo, dice, se sono in ballo il proprio lavoro e la sanità per tutti

Da qualche tempo in Grecia è in corso un vero e proprio attacco al Sistema sanitario nazionale. Il governo chiude gli ospedali, i posti letto vengono ridotti, le attrezzature sono carenti, c’è una cronica mancanza di medicinali e i licenziamenti del personale sono all’ordine del giorno. Al contempo, i politici hanno deciso che i cittadini debbano pagare di tasca propria le spese mediche. La crisi è solo una scusa: stanno spingendo la gente a rivolgersi al settore privato. Noi questo non possiamo accettarlo. Il 30 gennaio 2012 io e altri 283 tra medici e infermieri (su un totale di seicento lavoratori) abbiamo deciso in assemblea di occupare il nostro ospedale di Kilkis, città nella Grecia settentrionale. L’idea originaria me l’ha data Spyros Raftopoulos, compositore e mio grande amico. Venivamo da una situazione in cui non percepivamo lo stipendio da mesi. In passato abbiamo anche provato a indire scioperi, organizzare manifestazioni e utilizzare altre forme di protesta per portare all’attenzione del pubblico, e soprattutto delle autorità, la nostra condizione. Ma non è successo nulla: il governo non solo è rimasto indifferente, ma anzi ha ulteriormente tagliato i fondi. Il 20 febbraio, primo giorno dell’occupazione, ci siamo divisi in tre gruppi. Il primo è entrato nell’ufficio del direttore dell’ospedale. Il secondo ha preso possesso degli uffici amministrativi e il terzo ha bloccato i pagamenti dei pazienti. Il direttore ha minacciato di chiamare la polizia. L’abbiamo semplicemente ignorato. Quando effettivamente sono arrivati gli agenti, questi ultimi ci

hanno chiesto se ci fossero problemi. «Va tutto bene. Grazie e arrivederci», abbiamo risposto. Dal momento che l’occupazione era pacifica, i poliziotti se ne sono andati e alla fine della giornata non è stata sporta nessuna denuncia. Per tutta la durata dell’occupazione i nostri ruoli sono rimasti pressoché gli stessi. Certo, c’era da lavorare di più: oltre alle classiche incombenze mediche, si erano infatti aggiunte pratiche burocratiche e contabili da sbrigare. I pazienti e i cittadini di Kilkis hanno dimostrato sin dall’inizio un grande supporto alla causa. Ci hanno esortato a combattere, a non mollare. Le loro speranze, del resto, sono direttamente connesse alla nostra battaglia e ad altre lotte come quelle dei lavoratori di Halyvourgia Ellados, di Alter tv e del giornale Eleftherotypia. I partiti, invece, sono rimasti assolutamente latitanti. Nessun politico ha reagito o mostrato interesse e sono quasi tentata dal dire per fortuna. Più che una risorsa, consideriamo i partiti come una parte del problema. Purtroppo l’occupazione è stata sospesa verso la fine di marzo. Ci sono state minacce sia da parte dell’amministrazione dell’ospedale sia dai primari di alcuni reparti. Uno dei medici più attivi durante l’occupazione, per esempio, è stato trasferito in un altro ospedale. Hanno provato a dividerci e indebolirci. Ma non ci sono riusciti e non ci riusciranno. La classe politica preferisce usare i nostri soldi per ripagare un debito che ha creato da sola, non per curare il nostro sistema sanitario moribondo. Sono convinta che se lo Stato non riesce a garantire cure mediche gratuite, la sicurezza sociale e l’istruzione per tutti, allora il significato stesso della parola Stato si svuota del tutto. In definitiva, la nostra occupazione è stata un atto volto a dimostrare che le persone – se lo vogliono veramente – hanno il potere e la capacità di cambiare le cose, sia politicamente sia socialmente. Dobbiamo ricordarci che siamo la maggioranza e la parte più forte della società: l’unico problema è che molti non ne sono consapevoli e sono riluttanti ad affrontare i problemi in prima persona. La soluzione, del resto, non sarà calata dall’alto. Verrà dal basso. (storia raccolta da leonardo bianchi)

d


Buone nuove a cura di

Gabriele Battaglia

illustrazioni Oscar

Sabini

11 aprile, Italia

L’Ikea sposta alcune delle sue produzioni dall’Asia al Piemonte, un flusso in controtendenza rispetto ai trend globali. Nonostante quanto si potrebbe pensare, l’Italia vanta una bilancia commerciale in attivo rispetto al colosso svedese dei mobili, che compra nella penisola più di quanto venda: i fornitori nazionali sono in tutto 24, per circa un miliardo di euro di acquisti. Ikea è il primo cliente della filiera italiana dell’Arredo Legno e crea dalle nostre parti undicimila posti di lavoro, tra filiera produttiva, rete commerciale e indotto.

12 aprile, India

Paolo Bosusco, la guida italiana che vive e lavora in India, viene liberato dai ribelli maoisti che lo avevano sequestrato a metà marzo con l’altro connazionale, Claudio Colangelo (rilasciato giorni prima), nel distretto di Orissa. I loro rapitori chiedevano la fine dell’offensiva militare governativa Green Hunt e la liberazione di alcuni prigionieri politici. «Queste persone sono considerate delle bestie, dei criminali sanguinari. Invece, hanno dimostrato il loro lato più umano», ha dichiarato Bosusco da uomo libero. «Se si riuscisse a dare loro più giustizia, avrebbero molto da dare alla società».

12 aprile, Stati Uniti

4 aprile, Stati Uniti

La lotta per proteggere la “balena franca” del nord Atlantico assume una veste high tech con la creazione di un’applicazione per iPad e iPhone in grado di avvertire i marinai delle navi che si avvicinano troppo ai cetacei. L’applicazione Alert Whale, disponibile in download gratuito, utilizza il sistema di posizionamento globale e altre tecnologie per inviare al dispositivo dell’utente gli ultimi dati sui rilevamenti di balena franca, inseriti nei grafici digitali della National Oceanic and Atmospheric Administration (Noaa). Si spera così di limitare il numero di collisioni mortali tra le balene e le navi, soprattutto quelle di grandi dimensioni come le navi da crociera e le portacontainer. Quando le balene vengono rilevate in zona, le navi possono rallentare o cambiare rotta.

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Il Connecticut è il diciassettesimo Stato ad abolire la pena di morte. Dopo la Camera, anche il Senato statale ha approvato il bando della pena capitale, con 86 favorevoli e 62 contrari. La pena massima sarà d’ora in poi il carcere a vita e non più l’iniezione letale. La maggioranza degli Stati Usa continua a prevedere la pena capitale, ma si va diffondendo una corrente d’opinione favorevole alla sua abolizione, non solo per motivi umanitari, ma ora anche economici: sembrerebbe infatti che la lunga permanenza dei detenuti nel braccio della morte a causa di appelli e rinvii, la costruzione e gestione di carceri di supersicurezza dove rinchiuderli e i costi legali a carico della collettività, incidano più dell’ergastolo sui bilanci statali.

13 aprile, India-Pakistan

Confini aperti per la prima volta dopo cinque anni. È stato infatti costituito il “posto di controllo integrato” di Attari, vicino a Wagah, sull’unica strada che attraversa i due Paesi. È una scelta volta a favorire il traffico commerciale, ma è anche la prima “porta aperta” dal 2007. Quello di Attari è il primo dei tredici passaggi previsti, a seguito di anni di negoziati tra i due Paesi. Ora ci si attende un passaggio di camion compreso tra i 150 e gli 800 veicoli al giorno, nel buon nome dei reciproci vantaggi economici.

18 aprile, Argentina

L’Argentina fa il primo passo concreto per inserire il femminicidio nel codice penale. Con 203 voti a favore, nessun contrario e un’astensione, la Camera dei deputati approva un disegno di legge che unisce


tredici precedenti norme e modifica l’articolo 80 del codice penale, stabilendo che il “legame” tra l’assassino e la vittima può essere un fattore aggravante. Ora si attende il passaggio al Senato. In pratica, è più grave l’omicidio compiuto da “coloro che uccidono un ascendente, discendente, coniuge o persona con la quale hanno avuto, o hanno provato senza successo, a iniziare una relazione”. Il femminicidio è definito anche come l’omicidio di “una persona di sesso femminile, quando l’atto è perpetrato da un uomo attraverso violenza di genere”. L’applicazione della pena massima è prevista anche quando l’assassinio è stato effettuato “come mezzo per infliggere sofferenza a una persona con cui si mantiene o si sia mantenuto un rapporto”. La nuova legge prevede tra i moventi “piacere, avidità, odio razziale, religioso, di genere o per l’orientamento sessuale, l’identità di genere o la sua espressione”. Nel corso del 2011, secondo l’Observatorio de Femicidios en Argentina Adriana Marisel Zambrano, ci sono stati in Argentina 282 femminicidi, una tendenza in crescita.

19 aprile, Mondo

Nel mondo non ci sono mai state così tante aree protette. Lo dice un rapporto del World Database on Protected Areas (Wdpa), secondo cui al 2008 esistevano 120mila aree protette, per un totale di circa 21 milioni di chilometri quadrati di terra e di mare. Le aree protette terrestri coprono il 12,2 per cento della superficie della terraferma, mentre quelle marine rappresentano il 5,9 per cento delle acque territoriali e lo 0,5 di quelle extraterritoriali. Tuttavia rimane ancora molto da fare. Solo il 45 per cento dei 236 Paesi presi in esame protegge oltre il 10 per cento del proprio territorio, mentre, se si valutano le acque territoriali, si scende al 14 per cento dei Paesi. Il cammino per raggiungere gli obiettivi fissati dalla Convenzione sulla diversità biologica è ancora lungo, ma il trend è positivo: nelle “ecoregioni”, le macroaree ritenute più importanti per preservare la biodiversità del pianeta, le aree protette sono cresciute dal 19-25 per cento nel 1990 al 26-35 per cento del 2007.

23 aprile, Italia

Liberata la Enrico Ievoli. I pirati avevano sequestrato al largo delle coste dell’Oman la nave da 16.631 tonnellate e il suo equipaggio il 27 dicembre del 2011. La Enrico Ievoli, di proprietà della napoletana Marnavi, aveva a bordo sei italiani, cinque ucraini e sette indiani; trasportava un carico di soda caustica dagli Emirati Arabi.

24 aprile, Islanda

Riscuote notevole successo il progetto per rendere l’agricoltura islandese autosufficiente dal punto di vista energetico. Si tratta di una campagna per ridurre del 20 per cento entro il 2015, e dell’80 per cento entro il 2020, l’energia acquistata dagli agricoltori locali. L’Innovation Centre Iceland

(Ici) ha organizzato i corsi Farmer Energy che aiutano gli agricoltori da un lato ad adottare sani principi di risparmio energetico, dall’altro a produrre energia nelle stesse aziende agricole, sotto forma di metano, energia eolica, idroelettrica o delle biomasse. Fa effetto apprendere che in Islanda l’energia rinnovabile copre già il 67 per cento del fabbisogno totale, ma il governo intende aumentare la percentuale.

24 aprile, Cile

Il governo annuncia che coprirà le spese degli studenti universitari. Un provvedimento necessario, che interessa il 90 per cento degli iscritti all’università e che scaturisce dall’ondata di proteste del 2011. A quei tempi era in corso un processo di privatizzazione delle università che avrebbe prodotto una selezione “naturale” basata sul reddito. A questo punto l’istruzione pubblica resterà tale e gli studenti non dovranno accollarsi il perenne debito provocato dal Cae (Credito con Aval del Estado), un prestito elargito agli universitari che non potevano permettersi di pagare le rette, basato su tassi di interesse altissimi che la maggior parte degli studenti finisce di pagare dopo anni dalla laurea.

27 aprile, Ghana

È il primo Paese africano a lanciare un programma di vaccinazioni simultanee per proteggere i bambini da malattie mortali: le patologie da pneumococco e la diarrea (causate dal Rotavirus), la poliomielite, il morbillo e la tubercolosi. Il progetto è sostenuto dalla Global Alliance for Vaccines and Immunisation (Gavi). Al momento del lancio, il ministro della Salute, Alban Bagbin ha detto che il programma rappresenta un «importante contrattacco. I nostri bimbi – ha aggiunto – sono morti per troppo tempo a causa di queste malattie prevenibili con i vaccini».


robe di

Alessandro Robecchi

foto Carsten [visum/luz]

Koall

io, lei e l'Europa Dopo un corteggiamento serrato, invii di fiori, messaggini da adolescente ascendente cretino, sdilinquimenti vari e complimenti sfrenati, ha accettato di uscire a cena. Con mio grande stupore è bastato dirle, un minuto prima che si arrendesse: «Insomma, ce lo chiede l’Europa!». Mi sembra di averla vista allargare le braccia, forse sbuffare, non potrei giurarci, ma che importa: non aveva scelta. Dopo aver imposto questa semplice ma efficace soluzione, la mia vita è cambiata. Nei primi mesi di felice convivenza, ho dovuto comunicarle altre pressanti richieste dell’Europa come per esempio: tivù libera per le partite il mercoledì, cene con gli amici (i miei, visto che i suoi non danno sufficienti garanzie di stabilità nel rapporto debito/Pil), totale libertà negli orari (i miei, visto che i suoi sono più vincolati alla gestione ordinaria della casa). Tutto bene, insomma, l’Europa si complimentava per gli eccellenti risultati raggiunti. Fino a una luminosa mattina d’aprile, quando il mio sguardo – attratto dall’impeccabile colazione già pronta a tavola (una modesta richiesta dell’Europa) – si è scontrato contro la dura realtà e una frase che mi resterà impressa: «Prima dovresti lavare i piatti». Seguita da un sorriso incoraggiante: «Ce lo chiedono i mercati». Improvvisamente lo spread tra ciò che mi ero aspettato da quella storia e quello che realmente si stava profilando è balzato a 300 punti. È arrivato a 400 quando i mercati mi hanno chiesto di portare giù il cane durante un temporale memorabile, e ha raggiunto la spaventosa quota di 500 quando mi sono trovato una domenica pomeriggio a spingere un carrello dell’Ikea, mentre lei – suppongo incoraggiata dai mercati – esclamava «che carino!» ogni due passi. Poi sono arrivati i tagli. Inesorabili. Inevitabili. Dolorosi ma necessari, come mi veniva comunicato all’ora di cena mediante tabelle colorate e, se devo dire, incomprensibili. Ammetto di aver fatto qualche resistenza. Sarà stato questo, o la pressione dei mercati. Certo mi ha preso alla sprovvista la sua decisione di delocalizzare: «Da questa sera dormo da un amico». Capirete che non è un bel periodo, devo assolutamente studiare qualche mossa che stimoli la crescita e la ripresa. Così, per rifarmi – lo sapete com’è nei momenti di crisi, no? – ho chiamato un’amica cinese: «Non è che stasera verresti a investire da me?». Mi è sembrata cordiale, e disponibile. «Perché no – ha detto – ma mi raccomando, niente noiosi discorsi sui diritti umani, eh!».

D


grill di

Till Neuburg

tecnico culturale Lo stesso anno in cui morivano Duke Ellington, Vittorio De Sica, Walter Lippmann e l’uomo di Stato che aveva ispirato il Beaubourg, videro la luce anche Kate Moss, il floppy disk, TeleMilano, Gola Profonda, “Happy Days”... e il nostro “ministero per i Beni culturali e ambientali”. Dopo il povero esordiente Spadolini, su quella poltrona s’erano poi appisolati una lunga serie di culturisti democristiani, dei quali non è rimasta alcuna traccia, nemmeno negli archivi de Il Vernacoliere o dell’Opus Dei: Antoniozzi, Ariosto, Biasini, Bono Parrino, Facchiano, Gullotti, Pedini, Scotti, Vernola, Vizzini, erano i cognomignoli di quelle comparsate. Ma poi, con l’entrata in scena del capocomico aziendalista/piduista, di colpo il cast di quel teatrino cambiò. Al posto dei buffoni di terza fila, finalmente la nostra cultura fu interpretata da caratteristi di provato mestiere: Domenico Fisichella, Rocco Buttiglione, Sandro Bondi e Giancarlo Galan avevano, con la monarchia, i mausolei, le sagrestie, le stalle padane, un ottimo rapporto prezzo/qualità. Dentro e fuori, su e giù, sacro e profano, do ut des. Il penultimo di questi mohicani, l’ex sindaco comunista e promoter della Unipol, il poeta da weekend, il più zelante sciuscià davanti la Porta a Porta di Sua Maestà, voleva lasciare un segno indelebile come il più zimbello del reame: quando si trattò di scegliere colui che avrebbe sistemato il futuro dei nostri musei (compresa la nuova Grande Brera), il nostro zerozerosette della sottocultura (“Mi chiamo Bondi, Servo Bondi!”) optò per il presidente del Casinò municipale di Campione d’Italia e della McDonald’s, l’amico Mario Resca, arruolato, secondo un comunicato della Uil, con l’amichevole tariffa di due milioni e mezzo di euro l’anno. Invece il suo successore, il capoclan padoan Galan, forzista e arrivista della prima ora (per piazzare al meglio la merce del suo boss, era persino diventato direttore centrale di Publitalia ’80), ce l’aveva messa tutta per affondare una delle sempre più rare scialuppe della cultura nazionale: a pilotare la Biennale, voleva installare nientemeno che una sorta di Schettino della cultura. Non solo Giulio Malgara è stato l’inventore dell’Auditel (il più diabolico meccanismo per incentivare l’idiozia alla tv), ma per ben 23 (ventitré!) anni il Giulivo manager aveva guidato l’Upa, l’associazione delle aziende che investono in pubblicità (oltre metà nel duopolio televisivo e nelle testate dei partiti, più qualche spicciolo nei settimanali, nella radio, nell’affissione e nel web). Il fattaccio è che nella Commissione Cultura alla Camera, il suo amicone reclamista, non ottenne la maggioranza: 23 voti a favore, 23 contro. Il neoministro per i Beni e le Attività culturali (oggi quell’isola dei danarosi si chiama proprio così) tentò di tenere duro, ma alla fine dovette desistere, desistere, desistere. Un vicino di banco del suo successore alla guida della Regione degli Sghei, il noto gentleman leghista Mario Borghezio, lo considera semplicemente «un cretino, un idiota totale, un padano italianizzato». Oggi, per guidare le sorti della nostra cultura, abbiamo un “tecnico” (parolone un tantino enfatico che di solito si usa per gli antennisti, i mister della pedata o i produttori di dentiere). Una volta il nostro Rettore Magnifico Lorenzo che di cognome fa Ornaghi, aveva come maestro il vate leghista Gianfranco Miglio, ma nel profondo del suo Cattolico Sacro Cuore batte sempre e solo il tric trac del Culto Ambrosiano (da non confondere con cultura milanese). Difficile immaginare che il neoministro si senta complice dei vari Abbado, Bianciardi, Brera, Cederna, Fo, Gaber, Pollini, Serra, Volonté. Piuttosto lo vedo contiguo alla Cultura che si esprime rigorosamente con la C majestatis, come in Cartello, Cedola, Compravendita, Contratto, Capital gain, Ceo, Cash... nonché, ovviamente, Chiesa Cattolica, Confessionale, Cei. Rovistando tra l’armamentario “tecnico” di questo governo, viene spontaneo parafrasare la fin troppo nota frase nazista: “Quando sento parlare di cultura, tolgo la sicura alla mia ironia”.

W


di Christian

Benna

foto Antonino Savojardo Tomas van Houtryve [vii]

A scuola di 28


capitalismo

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Antonino Savojardo


La chiamano scuola, ma Hanawon è un luogo di rieducazione politica. Obbligatoria. Un istituto di riprogrammazione mentale per i defectors, i rifugiati nordcoreani che scappano dalla povertà e dalla repressione del regime di Pyongyang. I cugini di Seul li rinchiudono in isolamento per mesi e li “addestrano” alla nuova vita.Vengono liberati dopo che ne viene accertata la fedeltà ai principi del libero mercato. E un corretto uso di bancomat e carte di credito. Che non basta però a integrarli

È ancora bagnato di rugiada il filo spinato che circonda la scuola quando il cancello del checkpoint si solleva metallico e nervoso. Gli occhi delle guardie, tutte appartenenti alle forze speciali sudcoreane, non ti mollano un secondo. «Documenti, prego. Lasciapassare? Autorizzazione firmata?». Siamo ad Anseong, una tranquilla cittadina di provincia, appena 140mila abitanti, a 80 chilometri a sud di Seul. E non siamo in guerra. Ma ci sono voluti mesi di attese, richieste e carte bollate per mettere piede dentro questo compound di mattoni rossi difeso come una fortezza. Tanta protezione in fil di ferro e armi sguainate è destinata alla scuola, come qui tutti chiamano Hanawon, il centro di rieducazione per fuoriusciti nordcoreani. «Hanno imparato cose sbagliate e noi cerchiamo di correggere gli errori», dice Youn Mi-Ryand, il direttore delle attività di “recupero”. Fino agli anni Novanta, i defectors o talbukjia (la gente che fugge) erano pochissimi. Non più di settecento in quarant’anni di divisione politica delle due Coree. Dopo il crollo dell’Urss tutto è cambiato,

da allora circa ventimila nordcoreani sono fuggiti, via Cina, verso Seul. L’economia prevalentemente agricola di Pyongyang, che oggi vive di aiuti alimentari (cinesi, per lo più) e qualche concessione dagli Stati Uniti, è stata demolita sotto i colpi dell’embargo e dell’ostracismo internazionale. Le carestie degli anni Novanta hanno decimato intere famiglie più che le esecuzioni di regime. Si stimano circa tre milioni di morti per malnutrizione. E chi è riuscito a racimolare qualche soldo, magari sotto banco, prova a scappare, affidandosi ai trafficanti. Il ministero dell’Unificazione della Corea del Sud è corso ai ripari per arginare questi ospiti non troppo amati e oggi di poco valore propagandistico creando la scuola di Hanawon, con una capienza di settecento posti, per accogliere, rieducando, i cugini nemici. L’articolo 3 della Costituzione recita: “La Repubblica di Corea consiste della penisola coreana e le isole adiacenti”. Insomma la Corea del Nord, per Seul, è un’espressione geografica e i suoi abitanti sono considerati coreani, quasi come gli altri sotto il 38esimo parallelo.

In queste pagine immagini delle due Coree: la vita a Pyongyang e la propaganda di regime, fotografata da Tomas van Houtryve, dall’altra la quotidianità di Seul negli scatti di Antonino Savojardo


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Per questa ragione nasce Hanawon, “a fini umanitari”, il primo di tre centri (il terzo verrà completato entro fine anno) per rieducare quei “compagni che hanno sbagliato”.

Spie o gente in fuga?

I nordcoreani non hanno status di profughi e non dispongono quindi dei diritti internazionali dei rifugiati. Oggi la legge li inquadra come saetomin, gente della nuova terra. Per costoro il prezzo della libertà non sta soltanto in un viaggio ovviamente illegale e molto pericoloso. Perché, una volta sbarcati, ai saetomin spettano sei mesi di accertamenti e recupero. Intanto vengono detenuti e interrogati per tre mesi filati in una località segreta, dove viene verificato dalle autorità militari di Seul se si tratta di spie nemiche o di “veri” nordcoreani in fuga. Ad Hanawon si va in classe tutti giorni per otto ore almeno. Spesso, come afferma il direttore della scuola, Youn Mi-Ryand, «si lavora anche la sera». Perché tre mesi di «riprogrammazione culturale sono troppo pochi». Nello specifico il piano di studi prevede 188 ore destinate alla conoscenza del libero mercato e dei suoi meccanismi, 48 ore di lezione per «stabilizzare la psicologia dei fuoriusciti», 62 di visite – inclusa una gita a Seul – e altre 114 di istruzioni per l’uso della scelta di una carriera nel difficile mondo del turbocapitalismo sudcoreano. La cultura coreana, intrisa di pragmatismo confuciano, dove lo studio è un dovere, si traduce nel corso intensivo di “Atm”, ovvero come si usa un bancomat, prelevare e inviare un bonifico. Finanza personale

prima di tutto. Poi viene l’approfondimento storico, per raccontare l’ultimo secolo secondo “la giusta” prospettiva: gli Stati Uniti sono amici e non il diavolo, il liberismo economico è la strada che porta alla democrazia e alla libertà individuale. I fuoriusciti cominciano a masticare la “nuova” lingua coreana (apprendendo i dialetti del Sud) e un po’ di inglese e pure a destreggiarsi con internet e telefonini intelligenti. «È stato un periodo piuttosto stressante», riconosce senza troppo enfatizzare Kang Chol-Hwan, uno dei pochi nordcoreani di Seul, egli stesso mediatore culturale per compatrioti, che non ha timore di rivelare la propria identità. «Gli interrogatori erano duri, la cultura del sospetto ancora molto elevata. Hanawon ha buone strutture educative, ma le persone la vivono un po’ come una prigione. Non possono uscire né ricevere visite. Su questi aspetti bisognerebbe migliorare». Passate le forche caudine degli interrogatori incrociati, il nordcoreano riceve una nuova identità. Questo sul piano formale. Dal punto di vista sostanziale bisogna diventare sudcoreani a tutti gli effetti. Per le autorità sudcoreane Hanawon è la Casa dell’Unità, per gli americani è una Freedom House, anche se la detenzione di tre mesi non è facoltativa, ma obbligatoria. Per i critici, infatti, come le ong per i diritti umani, è una prigione, un luogo di sospensione di diritti più elementari, un laboratorio dove con modi gentili si compie l’ennesimo lavaggio del cervello ai rifugiati.

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Occupy Jeju

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Tensioni nucleari a stelle e strisce in Corea. E questa volta non c’entra per nulla il volto bellicoso di Pyongyang. La minaccia atomica arriva da Jeju Island, isola paradiso dei turisti che si affaccia sul mar Giallo. Qui gli Stati Uniti, in accordo con il governo di Seul, stanno costruendo una base navale militare da 900 milioni di dollari che custodirà una ventina di sommergibili nucleari pronti all’azione. Ma i residenti non ci stanno. E tanto meno le nuove generazioni sudcoreane. Soprattutto dopo che il presidente Barack Obama ha riaffermato il totale controllo militare sul Paese in caso di conflitto con la Corea del Nord. E da quando sono iniziati i lavori, la scorsa estate, è andata in scena la protesta in una sorta di “Occupy Jeju”, che è riuscita a mettere insieme, sotto l’ombrello dell’associazione Save the Island, diverse parti di società civile: movimenti cattolici, studenti di sinistra e abitanti dell’isola, raccogliendo l’impegno di intellettuali d’oltreoceano come Noam Chomsky e Robert Redford. L’occupazione dei terreni su cui dovrà nascere la base non è durata a lungo. Pochi mesi fa le autorità hanno sgomberato con la forza il campo dei protestanti arrestandone almeno 35. Da allora la protesta va sul gommone, a bordo di natanti per disturbare i cantieri. La partita non è ancora chiusa. Anche perché la Cina, che si ritroverà sommergibili nucleari americani sotto casa, è furiosa. «A inizio marzo funzionari governativi cinesi hanno sottolineato che le autorità di Pechino si riserveranno di far incrociare vascelli militari nell’area», spiega Giovanni Andornino, docente di relazioni internazionali dell’Asia orientale della Scuola di studi superiori dell’Università di Torino. «In questo contesto la base su Jeju potrà servire da piattaforma di osservazione e – eventualmente d’azione – in tutta l’area del Mar Cinese orientale, con riflessi sulla sicurezza del vicino Giappone».


Qui non siamo benvenuti

Oggi della Corea del Nord, Hunjoo, che adesso ha 34 anni e lavora nella raccolta di rifiuti a Inchon, ricorda solo la fame. «Bollito di corteccia d’albero e nei periodi peggiori anche topi alla griglia. Alla fine non si trovano nemmeno quelli nei campi». Critiche antiregime non ne fa. Se la prende solo con i «militari che si mangiano tutto il cibo e gli aiuti umanitari». Il 75 per cento dei defectors sono donne, particolarmente ambite dai trafficanti cinesi per lo sfruttamento della prostituzione. Anche Hunjoo, come tante donne, è stata ad Hanawon sei anni fa. All’epoca il centro non esisteva nelle carte, coperto com’era da segreto militare. Dopo le pressioni internazionali, la Corea del Sud ha incominciato a permettere visite selezionate. «Nessuno chiede cosa pensi e cosa vorresti fare», dice la donna. «Ti dicono come ci si comporta e come vivere in una società diversa da quella dove sei nata. Per certi versi l’imposizione è simile a quella con cui sono cresciuta. Qui non siamo i benvenuti. Ma almeno abbiamo da mangiare». Alla scuola di Hanawon il livello di sicurezza è massimo. Niente fotografie e niente interviste agli ospiti nordcoreani. «Meglio che non parlino, potrebbero essere rapiti dalle spie del Nord», dice il direttore del centro. Ai detenuti tocca un addestramento, «anche duro – conferma – ma è per il loro bene. Così sapranno far fronte alle difficoltà della nostra società». Niente pensioni, zero welfare, un’unica università statale, destinata ai migliori studenti, e tutto il resto del

sistema educativo in mano ai privati. Questa è la Corea del Sud, turbocapitalismo allo stato puro. E ai ragazzi del Nord serve un manuale di sopravvivenza. Per i fuoriusciti il tutto si rivela un disastro. I nordcoreani del Sud sono per il 50 per cento disoccupati; il 40 per cento di loro soffre di depressione, il 75 per cento di chi lavora svolge lavori di bassa manovalanza, il tasso dei suicidi tocca il 16 per cento. E le seconde generazioni non se la passano meglio, visto che secondo l’ong canadese Rainbow, più del 50 per cento abbandona gli studi alle scuole medie.

Riunificazione, no grazie

«Il punto è che qui nessuno vuole l’unificazione», ci confida Marta, una dottoranda italiana in Diritto di famiglia all’Università Ewha, da quattro anni a Seul. «I giovani dicono senza mezzi termini che non sono disposti ad accogliere i morti di fame del Nord, perché ruberebbero loro risorse e lavoro». Per il direttore di Hanawon si tratta di questioni senza senso, alle quali lui non può rispondere. Lui è un rieducatore. «I nostri programmi intendono insegnare come è regolata la nostra società: democrazia liberale e capitalismo, stabilizzare le loro emozioni e soprattutto curare i loro corpi, logorati da anni di malnutrizione. La psiche di queste persone è devastata. Per questo nel nostro centro abbiamo sette dottori e altrettanti psicologi».

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Tutti a destra Il nordcoreano buono vota a destra. Basta chiedere a Cho Myung-chul, un ex professore universitario fuggito negli anni Novanta da Pyongyang, e oggi primo deputato del Parlamento di Seul ad avere natali oltre il 38esimo parallelo. A metà aprile la Corea del Sud è andata al voto, per eleggere i suoi rappresentanti nell’assemblea, dove ha vinto a mani basse il Saenuri, il partito conservatore guidato dalla lady di ferro orientale Park Geun-hye, figlia del dittatore Park Chung-hee al potere dal 1963 al 1979, quando fu assassinato dai servizi segreti sudcoreani. Tra gli eletti del Saenuri spicca, appunto, il nome del fuoriuscito nordcoreano Cho Myung-chul, un debutto nella vita legislativa che sancisce l’unione di due mondi contrapposti da 60 anni. Lui assicura: «La mia esperienza politica sarà spesa in favore dei 23mila nordcoreani che oggi abitano al Sud con enormi difficoltà di adattamento. Con la mia elezione mandiamo un chiaro messaggio alle élite del Nord: che la riunificazione non solo è possibile, ma fortemente auspicabile». Per Cho Myung-chul è l’inizio di una brillante carriera politica. A dicembre la Corea del Sud voterà per le presidenziali. Stando ai sondaggi, la persona più accreditata è la leader del partito conservatore. Che vorrà avere a suo fianco al governo personaggi-icone della Corea riunificata.

◀La capitale sudcoreana è talvolta teatro delle manifestazioni dei rifugiati che protestano per i diritti umani e contro l’appoggio che la Cina continua a dare alla Corea del Nord


Una vita da fantasmi

Kyung Ahn, un venticinquenne nordcoreano residente da un anno a Seul, si è messo a fare film sui teenager del Nord per dimostrare che sono coreani come gli altri, con gli stessi desideri e le stesse passioni. Eppure per girare il suo documentario ha dovuto utilizzare attori sudcoreani al cento per cento. «Nessuno vuole metterci la faccia. Hanno paura di ripercussioni contro i parenti al Nord, ma soprattutto delle forze dell’ordine del Sud. Molti vivono come fantasmi. Solo qualcuno ce la fa, magari facendo politica, coccolato dalle destre». Sotto il 38esimo parallelo qualunque dimostrazione di simpatia o tolleranza per Pyongyang viene considerata come alto tradimento. Lo scrittore Hwang Sok Yong si è fatto sette anni di galera, cinque in isolamento, dal 1993 al 2000, solamente per aver partecipato a un pre-

mio letterario nella capitale del Nord. Per Antonio Fiori, docente di Relazioni internazionali dell’Asia Orientale all’Università di Bologna, è difficile incontrare un nordcoreano che parli male del regime. «La dittatura è spietata, questo è vero. Ma le esecuzioni di massa sono leggende raccontate fuori dal Paese. Chi sgarra, la paga caramente, intendiamoci. E finisce in un campo di rieducazione. Ma la vera minaccia è la fame, per questo la gente scappa». E dei nordcoreani sembra non potersi fidare troppo neppure Seul. Un pasto gratis per loro

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c’è. Usciti da Hanawon, i defectors ricevono un buono annuale (circa settemila dollari) per sopravvivere fino a quando non trovano un lavoro, normalmente in fondo alla scala sociale. Restano sempre e comunque sotto il controllo della polizia. «Ad Hanawon cercano di insegnarti le basi. Ma cosa puoi imparare in tre mesi?», sbotta Jung Gwan-Il, attivista dei diritti umani. «E, soprattutto, che cosa vuoi

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cavare fuori da una persona se è costretta a imparare, chiusa in gabbia per l’ennesima volta? Le autorità cercano di fare un brainwash alla gente, niente di più». Come prova di questo, Jung mostra un sondaggio: l’87 per cento degli ospiti dice di non sopportare un giorno di più ad Hanawon mentre il 63 per cento preferirebbe un’accoglienza in case famiglia dove essere accompagnato alla scoperta del nuovo mondo con affetto. «Il

governo, anzi i governi giocano con i migranti. Li trattano come pedine, quasi ostaggi. Ma voi europei con gli immigrati vi comportate diversamente?».

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Casa dolce casa a cura di Stella

Spinelli

illustrazione

Guido Guarnieri

7 aprile, Cirò Marina (Kr)

Ha sparato un colpo di pistola alla moglie nella loro camera da letto e poi si è tolto la vita sparandosi in un’altra stanza. Franco Fioretti, 71 anni, e Silvana Rustia, 72, erano insieme da decenni. Originari di Roma, erano emigrati, giovanissimi, in Australia dove vivono ancora i loro familiari. Poi cinque anni fa la decisione di ritornare in Italia. Amici e conoscenti non sanno spiegare le ragioni del gesto.

13 aprile, Calenzano (Fi)

Mario Bartoli, 54 anni, benestante geometra padre di tre figlie, ha sparato tre colpi di pistola calibro 9 contro la compagna di una vita, Gianna Toni, 50 anni, ferendola a morte. Quindi, ha rivolto per scriverci: l’arma contro se stesso e si è sparato alla testa senza casadolcecasa@e-ilmensile.it provocarsi, però, lesioni mortali. Ferita di striscio da un proiettile vagante anche la secondogenita, 16 anni, che intanto era accorsa nella stanza per tentare di dividere i genitori coinvolti nell’ennesimo litigio. Il tutto è accaduto fra l’una e l’una e mezza di notte. In casa c’erano anche le altre due figlie, 20 e 7 anni, e il fidanzato della ventenne. È stata la coppia a dare l’allarme. La bambina dormiva e non si è accorta di nulla.

Casa dolce casa è l’osservatorio mensile sulle donne uccise in Italia da uomini che conoscevano, che hanno amato, di cui si fidavano. Si chiamano femminicidi e rimandano alla relazione di potere tra i generi, che resta tuttora un fattore che ordina la società. I dati pubblicati, vista l’assenza di ricerche ufficiali sul fenomeno, sono raccolti dalla stampa e riguardano il periodo di tempo dal primo aprile al 3 maggio. Questo monitoraggio viene effettuato in collaborazione con la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna (www.casadonne.it), associazione impegnata da diversi anni contro la violenza sulle donne, alle quali offre sostegno, ascolto, consulenze e case-rifugio, con una particolare attenzione ai figli minori. Da tempo inoltre la Casa svolge un lavoro di ricerca sul femminicidio dal quale ogni anno deriva un’indagine-quadro sulle donne uccise: nel 2011 sono state 97.

15 aprile, Napoli

Antonio Russo, 73 anni, ha preso a pugni l’anziana donna che accudiva, Concetta Paracolli, 88 anni, e poi l’ha accompagnata in ospedale dicendo ai medici che le lesioni erano state provocate da una caduta accidentale. Concetta, che presentava anche segni di un tentato strangolamento, è morta due giorni dopo per le gravi ferite riportate. A scatenare la furia di Antonio, motivi economici. I carabinieri lo hanno arrestato il 21 aprile.

20 aprile, Fontana di Rubiera (Re)

Tiziana Olivieri, 40 anni, è stata uccisa durante un litigio dal suo convivente, Ivan Forte, 26 anni, dal quale aveva appena avuto un figlio, Nicolò. Tiziana aveva deciso di lasciare l’uomo e lui non lo accettava. Così dopo averla ammazzata ha appiccato un incendio nell’appartamento che condividevano, per inscenare una morte accidentale. Ha portato in salvo il bambino e ha chiamato i soccorsi. A incastrarlo l’autopsia sul corpo di Tiziana. Ivan ha quindi confessato tutto.

20 aprile, Vittorio Veneto (Tv) Raffaello Salvador, 72 anni, ex sottufficiale dell’aeronautica, ha ucciso a fucilate la moglie, Giacomina Zanchetta, 67, e poi si è tolto la vita


con un colpo alla testa. Sposati da 40 anni, due figli ormai adulti, i coniugi con gli anni si erano sempre più isolati a causa del carattere possessivo di Raffaello. Giacomina aveva più volte confessato il suo enorme disagio alle amiche più intime: «Prima o poi mi uccide. Ho i giorni contati. Non ce la faccio più». Anche i figli le avevano chiesto a più riprese di lasciarlo e andarsene di casa.

24 aprile, Enna

Vanessa Scialfa, 20 anni, è scomparsa da casa il 24 aprile ed è stata ritrovata priva di vita ai piedi di un cavalcavia due giorni dopo. A strangolarla il suo convivente, Francesco Lo Presti, 34 anni, disoccupato, che inizialmente ha cercato di depistare le indagini ammettendo solo una lite con Vanessa il giorno della scomparsa. È però crollato davanti agli inquirenti e ha confessato di averla uccisa per motivi di gelosia.

1 maggio, Cuneo

Pierina Baudino aveva 85 anni e da 27 conviveva con Vittorio Ninotto, 76 anni. Da tempo l’uomo la tradiva e i litigi erano continui. Mesi fa Pierina, stanca della situazione, era arrivata persino a lasciarlo, per poi riaccoglierlo dopo che aveva tentato di uccidersi. La sera del primo maggio, però, Ninotto l’ha aggredita e strangolata a mani nude durante l’ennesima discussione, poi ha avvertito i carabinieri.

3 maggio, Milano

Matilde Balestra, 63 anni, voleva tornare in Puglia per stare accanto alla figlia, incinta di tre mesi, ma suo marito, Umberto Passa, pensionato di 65 anni, non voleva saperne di lasciare Milano. Malato di cuore, era da tempo in preda a un forte stato depressivo e spesso litigava con la moglie. È stato al culmine di una lite che ha afferrato un coltello e l’ha uccisa. Poi si è suicidato con la stessa arma.

Rimini, un anno dopo

È stato condannato a 30 anni di carcere, Cristian Vasile Lepsa, l’uomo che nel febbraio 2011 uccise con un pugno la fidanzata, Elena Catalina Tanasa, 25 anni. Lepsa, ex militare romeno di 36 anni, aveva raggiunto la giovane a casa di un’amica, dove si era rifugiata per sfuggire alle sue violenze. Entrato con la forza, aveva colpito la giovane con un pugno in pieno volto, riducendola in coma. Elena è morta dopo alcuni giorni di agonia. La difesa aveva chiesto che il reato fosse derubricato in omicidio preterintenzionale, ma il giudice Stefania Di Rienzo ha emesso la condanna dopo cinque ore di Camera di consiglio.


la festa alla res publica polis di

Enrico Bertolino

foto Tullio Farabola [archivi farabola]

Forse, dopo tanti anni in cui il 2 giugno è stato vissuto come una festa da genio pontieri, ovvero un perno feriale su cui costruire un ponte di almeno quattro giorni di vacanza consecutivi, quest’anno varrebbe la pena di soffermarsi anche sul significato della giornata. La festa della Repubblica, appena celebrati i 150 anni dell’Unità, ma soprattutto nella situazione nella quale versa attualmente il Paese che la ospita, andrebbe forse vissuta un po’ meno come vacanza e un po’ più come momento di riflessione commemorativa. Forse, quando festeggia la Repubblica come istituzione democratica, qualche domanda dovrebbe cominciare a porsela un Paese così: un’Italia unita dove persistono moti secessionisti provenienti a intermittenza dalle folkloristiche lande padane; dove si continua a vivere una divisione Nord-Sud a livello industriale e sociale da far invidia alle due Coree; con un sistema politico che per sopravvivere si aggrappa a improbabili alleanze e a barricate fatte accumulando privilegi ormai obsoleti anche nelle monarchie costituzionali. E allora, come mai, mentre l’Europa sta cercando di porre un argine alla crisi economica mondiale, salvaguardando al massimo le classi meno abbienti al fine di non abbattere i consumi e soprattutto di non creare ulteriori diseguaglianze sociali, la nostra amata Repubblica non riesce a fare altrettanto e pare che nemmeno ci provi più del dovuto? Perché Germania, Francia e altri Paesi riescono a pianificare la lotta all’evasione fiscale, senza spot in tv sui parassiti e senza retate scenografiche a Saint-Tropez o a Baden Baden, ma semplicemente, per esempio, imponendo alle nazioni-rifugio dei grandi evasori, come la Svizzera, trattati di reciprocità e controlli nelle banche con prelievi forzosi, mentre nella nostra Repubblica non si riesce a intervenire nemmeno sulle banche italiane o sui capitali occultati o accumulati illegalmente? Non vado oltre per non cadere nel tranello del facile populismo rivoluzionario da assemblea condominiale, ma se si vuole davvero per una volta festeggiare la Repubblica italiana, senza trovarsi con i soliti dieci milioni di veicoli che si muovono per il ponte (unica manifestazione che ottiene sempre grande adesione: Occupy Rimini), perché non cominciare a fermarsi un attimo e a pensare che Res Publica vuol dire Cosa Pubblica, e non Cosa Nostra, in tutti i sensi. Forse iniziando noi per primi a rispettarla, con comportamenti degni e coerenti che vanno dallo scontrino alla ricevuta fiscale fino alla solidarietà e all’impegno civile, non risolveremmo i problemi del Paese, né potremmo mettere fine alla crisi economica o creare occupazione, ma certamente aiuteremmo le generazioni a seguire, ovvero quelli che già da ora non possono fare affidamento su una pensione ma che si faranno carico delle nostre. Invece della festa della Repubblica, negli ultimi vent’anni abbiamo assistito impotenti, o forse semplicemente rassegnati e narcotizzati dall’effetto benessere (ristoranti pieni e aerei pure), alla festa alla Res Publica, con saccheggi e ruberie, affossamenti culturali e mediocrità diffusa che per la prima volta hanno visto unite le forze dell’Impero politico romano (i partiti tradizionali) e i barbari (gli Unni e gli altri delle Leghe nordiche) a banchettare insieme sulle macerie dell’etica e tra le rovine del sistema democratico. Dato che però il passato non si può modificare, sarebbe il caso di concentrarsi sul presente per preparare un futuro degno di essere chiamato tale, dove la Res Publica non venga onorata solo il 2 giugno, ma ogni giorno dell’anno.

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spiriti liberi di

Giulio Giorello

liberi come Bobby Riflessioni di primavera. Il 24 aprile 1916, Lunedì dell’Angelo, nel centro di Dublino una formazione di uomini armati fece la sua comparsa davanti all’edificio neoclassico del General Post Office. Il loro capo, il socialista James Connolly, intimò: «Ecco il Gpo! Carica!». Non andavano a comprare francobolli, ma a rivendicare la libertà del loro Paese. La “insurrezione di Pasqua” venne soffocata nel sangue dai britannici; l’Irlanda ottenne (1921) una parziale libertà dopo una dura guerriglia. La partizione dell’isola ha lasciato sotto il dominio della Corona sei contee nordorientali dell’Ulster, protraendo fino ai giorni nostri la questione della cosiddetta Irlanda del Nord. Oggi la via della pacificazione appare praticabile ma irta di difficoltà. Vale ancora l’esortazione del combattente repubblicano Bobby Sands ad affrontare ogni traversia per assistere infine “al sorgere della Luna”: The Rising of the Moon è una popolare ballata che ricorda gli eroici sforzi, nel corso del tempo, degli irlandesi di qualsiasi schiatta o confessione religiosa per realizzare una società senza discriminazione alcuna e capace di garantire i diritti di cittadine e cittadini. Sands è morto durante gli scioperi della fame del 1981, più precisamente il 5 maggio. Usualmente ricordiamo quella data per la dipartita di Napoleone, il generale che trasformò la ventata della rivoluzione nella creazione di un impero. A un dominatore di popoli preferisco chi ha dedicato la propria vita e la propria morte alla liberazione da condizioni materiali di servitù e dai pregiudizi intellettuali della discriminazione: dietro le sbarre, Sands si batté fino all’ultimo per il riconoscimento della condizione di prigionieri politici ai detenuti indipendentisti, innescando il processo che avrebbe portato allo smantellamento del regime carcerario nell’Ulster. Sarebbe un’occasione per riscoprire il fascino della repubblica intesa come la struttura che meglio realizza il fine dello Stato come servizio alla libertà delle sue varie componenti, per dirla con alcuni classici del pensiero politico libertario come Machiavelli, Spinoza e Cattaneo. In Italia dovremmo pure riappropriarci del 2 giugno, in onore della fondazione di una società aperta e democratica dopo una lotta sanguinosa contro il dispotismo nazifascista. L’acquisizione della libertà è inseparabile dalla consapevolezza della responsabilità. Hegel diceva che è tale “filosofica” conquista a farci comprendere il significato della nostra individualità. Questa o quella forma di potere può sempre concedere qualche diritto alle persone, ma è attraverso l’assunzione dei propri rischi che ci si realizza come autentici individui. Sotto questo profilo, l’individualismo non è affatto una sorta di cancro dell’Occidente, come lo bollano moralisti della più varia estrazione, ma la molla di un’autentica solidarietà, al di là di ogni mistificazione comunitarista che ci riporterebbe al dispotismo tribale.

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LastragediBrescia testo Francesco

Barilli

illustrazioni

Matteo Fenoglio a cura di BeccoGiallo

28 maggio 1974, una bomba esplode in piazza della Loggia durante una manifestazione dei sindacati e del comitato permanente antifascista. I morti sono otto, un centinaio i feriti. Se piazza Fontana è il punto di partenza, l’esplosione a Brescia rappresenta lo sbocco tragico della “strategia della tensione”, che si è evoluta rapidamente adottando nuove tattiche al mutare della situazione geopolitica. Trentotto anni dopo, il 14 aprile 2012, la Corte d’Assise d’Appello di Brescia ha confermato la sentenza di assoluzione per gli imputati emessa il 16 novembre 2010.









buen vivir di

Alfredo Somoza

foto Evaristo Sa [afp/getty images]

la sfida di Cristina Lo scorso 17 aprile, l’Argentina ha nazionalizzato l’ex compagnia statale petrolifera Ypf, espropriandola alla spagnola Repsol che l’aveva acquistata nel 1999. Questa azione clamorosa della presidenta Cristina Kirchner, sancisce simbolicamente l’uscita definitiva dell’America Latina dall’ubriacatura neoliberista degli anni Novanta, che aveva visto privatizzare i servizi essenziali in quasi tutto il continente, dai telefoni all’energia elettrica, dalla sanità ai trasporti. Queste privatizzazioni, indiscriminate e fuori da ogni controllo, hanno generato grandi guadagni per i gruppi assegnatari, tra i quali primeggiavano gli spagnoli, ma molti disagi ai consumatori, sia per l’aumento dei prezzi, sia per la scarsa qualità del servizio offerto. Questo era stato possibile in un momento storico nel quale Fujimori, Menem, Mahuad e Cardoso erano arrivati al potere contemporaneamente in Perù, Argentina, Ecuador e Brasile, promettendo una rivoluzione liberista. La rivoluzione ci fu, ma si rivelò una scelta politica fallimentare che provocò inoltre un’esplosione della corruzione. Se molti Paesi dell’area si erano lanciati in queste liberalizzazioni, solo l’Argentina aveva privatizzato anche il petrolio, che fino ad allora l’aveva resa autosufficiente dal punto di vista energetico. Nel 2011, dopo poco più di un decennio dalla privatizzazione, il Paese si è trovato a sborsare dieci miliardi di dollari per comprare greggio all’estero. La vendita alla Repsol era avvenuta durante il governo di Carlos Menem, che è ancora senatore e ha votato a favore della nazionalizzazione, e del suo super ministro Domingo Cavallo, uno dei preferiti dalla grande stampa economica internazionale. L’impresa spagnola è riuscita a diventare una protagonista internazionale grazie ai profitti macinati dalla sua filiale argentina, senza investire un euro in nuove ricerche, modernizzazione delle infrastrutture o migliorie alla rete di distribuzione. E questa è la motivazione del decreto di esproprio che recita: “L’agire di Repsol negli ultimi anni dimostra che gli interessi dell’azionista di maggioranza sono diversi dagli interessi degli argentini”. È un discorso fortemente pragmatico, che si allinea con le lotte mondiali per i beni comuni. Un discorso che fotografa il momento politico, con un’America Latina in crescita economica e che, anche grazie al Brasile, ha acquisito maggiore peso politico internazionale e una Spagna che arretra come l’Europa. Molti Paesi in quest’inizio di millennio vogliono essere considerati mercati nei quali investire e non colonie da sfruttare. A questo gli spagnoli, e non solo loro, non erano preparati. Il consolidamento della crescita economica in Latinoamerica è il dato, insieme alle politiche redistributive, che ha permesso l’uscita dalla povertà di decine di milioni di persone in pochi anni e su questo successo si fonda oggi il consenso dei nuovi progressismi latinoamericani.

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parola mia di

Patrizia Valduga

è qui il cliché L’attimo è fuggente, l’invito è chiaro, il segnale è forte, il problema è delicato, la riflessione è profonda, l’analisi è spietata, la precisione è chirurgica, la proposta è concreta, la disciplina è rigorosa, il metodo è radicale, l’esperienza è indimenticabile, la vista è mozzafiato, la natura è incontaminata, il riposo è ottimale, il décolleté è generoso, l’atmosfera è magica, la temperatura è percepita, la situazione è kafkiana, la società è liquida, il silenzio è assordante, i tacchi sono vertiginosi, le ricerche sono accurate, i vecchietti sono arzilli, le verdurine sono di stagione, gli strumenti sono di avanguardia, i villaggi sono pittoreschi, i pomodorini sono freschi, il passato non passa, c’è la morale della favola, c’è il percorso da fare, c’è la fine della fiera, si dice di tutto e di più, si scrive di tutto e di più, si spalma un po’ di meno, si vive l’automobile, si scava nella vita, si scava nell’inconscio, si parla al cuore, si parla al cuore e alla mente, si parla alla pancia, si parla alla mente e alla pancia, si parla al proprio inconscio, si sondano gli abissi dell’inconscio, si cerca la propria identità, si sviscera l’essenza, si dipana il racconto, si danno dritte, si danno chicche, si affronta il problema, si rimuovono i batteri, si cattura la polvere, si intercettano voti, si assume l’alcol, ci si radica sul territorio, ci si mette la faccia, non ce le si manda a dire, ce la si tira, ci piace pensare, si gestisce il corpo, si gestisce l’emozione, si regala un’emozione, si cattura l’emozione, si cattura lo spettatore, si condivide la memoria, perché non succeda più, si condivide l’emozione, si condivide il condividere, ciaociaociao, buona giornata, bacio.

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.eu di

Stefano Squarcina

foto Emma Espejo [getty images]

le leggi dei cittadini Dal primo aprile 2012 l’Unione europea è un po’ più democratica, anche se molto rimane ancora da fare. Sono finalmente entrati in vigore i regolamenti che disciplinano la cosiddetta “iniziativa cittadina”: il Trattato di Lisbona, alla base del funzionamento dell’Europa comunitaria, prevede che almeno un milione di cittadini europei possa farsi promotore di un’azione politica presso la Commissione di Bruxelles affinché quest’ultima elabori delle proposte legislative in qualsiasi settore di competenza dell’Unione. Una volta ottenuta la registrazione della sua proposta da parte della Commissione, il comitato promotore ha un anno di tempo per raccogliere – anche online – il milione di firme, che devono provenire da almeno sette Paesi Ue, rispettando alcune soglie minime facilmente raggiungibili. Diventata in tal modo ufficiale, la Commissione avrà l’obbligo di dare un seguito istituzionale alla proposta entro novanta giorni, sempre che non sia “palesemente futile, ingiuriosa o contraria ai valori fondamentali dell’Unione”. Ciò significa che anche le organizzazioni della società civile potranno forzare la Commissione ad attivare iniziative legislative nel campo dei diritti civili, delle libertà fondamentali, dell’aiuto umanitario, della politica di cooperazione, ma anche della sanità, dei trasporti, dell’ambiente, della politica economica, della sicurezza o della giustizia. Non si potrà invece far granché sulla politica estera, che rimane ancora saldamente in mano agli Stati membri nonostante i tentativi di coordinarla a livello europeo. Non sono poche le “iniziative cittadine” già annunciate: ci sono quelle sul riconoscimento dell’acqua come bene comune europeo non privatizzabile, sulla messa al bando degli Ogm e per un’agricoltura sostenibile, sul matrimonio delle coppie gay e così via. «Considero i nuovi regolamenti come una svolta a favore della democrazia partecipativa, spero favoriscano lo sviluppo di un vero e proprio demos europeo», dice forse un po’ troppo pomposamente il commissario Ue Maroš Šefcˇovicˇ, ma non c’è dubbio che la nuova “iniziativa cittadina” si presta bene a porre sul tavolo della politica europea questioni sinora volutamente ignorate dai governi dell’Unione o boicottate dalla tecno-burocrazia di Bruxelles. Sta a ognuno di noi cogliere la palla al balzo, impossessarci di questo nuovo strumento di partecipazione e costringere l’Unione a dare risposte precise alle preoccupazioni crescenti, affinché non sia più solo percepita come uno spazio politico lontano o addirittura ostile. È un’opportunità da usare per costruire l’Europa dei popoli e non delle banche.

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di Luciano

Del Sette

foto Carlo

Gianferro

L’altra Roma


Dal centro si prende la via Tuscolana che scorre in mezzo a una pianura di speculazioni edilizie: il Quadraro, CinecittĂ , San Giovanni Bosco, i quartieri del Decimo Municipio, si stagliano come un monumento al brutto e al bello del Novecento. Tra gloriose scenografie di cartapesta e vita vera, ipermercati e luoghi di resistenza umana, va in scena la convivenza tra migrazioni vecchie e nuove


▲Una delle operatrici del Lucha y Siesta, il centro di tutela delle donne aperto in un’ex palazzina dell’azienda dei trasporti pubblici romani, occupata dal 2008 ▲▲▶I condomini del Decimo Municipio sovrastati dalla cupola di san Giovanni Bosco ▲▶ Il presidente del Decimo Municipio, Sandro Medici ▶ I giardini pubblici intorno alla chiesa In apertura: la Roma antica, set di Cinecittà particolarmente ambito dalle produzioni internazionali

La nobiltà e la bellezza delle memorie antiche sono patrimonio di altre grandi vie, l’Appia Antica prima fra tutte. La vanità di un passato glorioso appartiene alla Flaminia, all’Ostiense, alla Salaria, alla Cassia. Lei, la via Tuscolana, aperta nel Medioevo, scorre, brutta, in mezzo al paesaggio urbano della Roma del Novecento cresciuta a dismisura attraverso le due guerre, il fascismo, gli insediamenti abusivi, le speculazioni edilizie. Non ha attrattive a uso del turista, la Tuscolana. Eppure è la direzione giusta da seguire, se si vuole afferrare un lembo nascosto della Città eterna. In un tratto del suo percorso, la via diventa dettaglio fondamentale di tre tessere nel mosaico delle periferie romane. Tre tessere che raccontano migrazioni, lotte, poteri politici senza remore, falansteri costruiti su quella che, fino agli albori del Ventesimo secolo, era un’immensa pianura disabitata, un tempo granaio della Roma caput mundi. Riunite, le tre tessere costituiscono una porzione significativa del Decimo Municipio, 185mila abitanti su 39 chilometri di superficie. Si chiamano Quadraro, Cinecittà, San Giovanni Bosco e corrispondono ad altrettanti quartieri. La gente che le colora non dà molta importanza ai singoli e piccoli confini. Anzi, ama confonderli

nella quotidianità, sovrapporre le vicende di una storia comune con appena cent’anni sulle spalle, cercare nelle differenze ulteriore motivo per essere “altri” rispetto “all’altra” Roma. Puoi camminare su un marciapiede della Tuscolana lastricato come una lunga pellicola cinematografica e punteggiato di pannelli che raccontano le vite degli attori; infilarti nelle strade su cui affacciano le casette da paese del Quadraro; rimanere spiazzato di fronte al gigantismo della chiesa dedicata a san Giovanni Bosco; superare l’ingresso dell’universo artificiale di Cinecittà. La certezza è, sempre e comunque, che quelle tre tessere combacino; che, pur con qualche indubbia e netta imperfezione, compongano un alfabeto sociale perfettamente leggibile.

Solo cent’anni

L’ufficio di Sandro Medici, presidente del Decimo Municipio, ha il suo spazio in un luogo unico: l’edificio di piazza Cinecittà 11, che ospitava l’Istituto Luce prima di venir ceduto, era il 1978, al Comune di Roma. Qui le Belle Arti sono guardiane severe di uno dei capolavori dell’architettura razionalista, ombreggiato da pini marittimi. Medici racconta del “suo” Decimo, intreccian-


do la storia di cent’anni appena con la realtà di ogni giorno; le prime migrazioni dall’Abruzzo con quelle dal Bangladesh e dalla Romania; le battaglie delle formazioni partigiane con le battaglie della Lucha y Siesta, aperta occupando dal 2008 una palazzina dismessa dell’Atac, l’azienda romana dei trasporti, per assistere le donne che hanno subìto violenza, botte, stalking. Le parole di Medici danno corpo a un “Baedeker” da seguire passo dopo passo, richiamando, subito e di nuovo, la storia di cent’anni appena e il Quadraro, dove la storia è iniziata. Ai primi del Novecento, in mezzo al nulla, spuntano baracche come rifugi per chi ha conti aperti con la giustizia e fa vita grama non solo a Roma. Intorno agli anni Trenta, complice anche la costruzione di Cinecittà, il Quadraro assume quello che anche oggi rimane il suo volto urbano dominante. Il Governatorato crea una lottizzazione fatta di villini a uno o due piani. Ci sono due cinema, l’ufficio postale, la Casa del Fascio.

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Il rastrellamento del Quadraro Il pomeriggio del 10 aprile 1944, un commando delle Brigate partigiane guidato da Giuseppe Albano, detto “il gobbo del Quarticciolo”, entra nella trattoria Da Gigetto, a Cinecittà. Tre soldati tedeschi vengono uccisi. Per Herbert Kappler, comandante della Gestapo a Roma, è la goccia che fa traboccare il vaso. Da mesi nelle periferie, i partigiani compiono attentati, incursioni, sabotaggi. Il Quadraro è l’osso più duro, il “nido di vespe”, così lo ha soprannominato Kappler. Se un tedesco o un fascista ci entra, non esce vivo. Il 17 aprile, alle quattro del mattino, scatta la Unternehmen Walfisch (Operazione balena). Un migliaio tra soldati, membri della Gestapo e delle SS, uomini della Banda Koch, circondano il quartiere e fanno irruzione casa per casa, schedando duemila uomini tra i 19 e i 50 anni nella sala del cinema Quadraro. Di loro, 947 vengono caricati sui camion e portati al campo di transito di Fossoli, vicino a Carpi. Da lì, il 24 giugno, saranno trasferiti come “lavoratori volontari” nei campi di concentramento in Germania e Polonia. Solo la metà di quelli che vennero ribattezzati “gli schiavi di Hitler” tornerà a Roma.

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Ma la vocazione a essere luogo di ribelli si riaffaccia quando la Resistenza prende le armi. Dal Quadraro partono le formazioni partigiane che ingaggiano scontri a fuoco, compiono attentati e sabotaggi. Il 17 aprile 1944, Kappler ordina un rastrellamento (ne raccontiamo qui a fianco), che per tragicità compete con quello del Ghetto ebraico della capitale. Sul lato opposto della Tuscolana, negli anni Cinquanta, sorge il quartiere popolare Ina Casa, il Quadraro Nuovo. Firmano i palazzi grandi architetti, tra i quali Adalberto Libera e Saverio Muratori. Quest’ultimo realizza, su largo Spartaco, con Mario De Renzi, un complesso lineare di sette piani, che, piegandosi a V nel centro, gli varrà l’appellativo popolare di “Boomerang”. Pasolini, che scelse la zona per le riprese di Mamma Roma, lo definì «un monumento alla gloria proletaria». Dal sottopasso del Boomerang, sempre dritti, si arriva al Centro sociale Spartaco, presenza fondamentale nella vita del Municipio, nato da un’occupazione del 2006. I ragazzi dello Spartaco organizzano iniziative sociali e culturali, guardando al di là delle generazioni. Prova ne sia la presenza degli anziani seduti ai tavoli per un bicchiere di vino e una sigaretta (qui si può),

condividendo gli spazi con chi rolla tabacco e beve birra. Tutti insieme, il murale colorato a fare da sfondo. Anche la Palestra popolare, a poche decine di metri, nasce da un’occupazione dello Spartaco. La boxe, sport principe, è intesa come buon pretesto per fare esercizio fisico, conoscersi, tirare di guantoni senza sognare ring impossibili. Lo stesso avviene per la squadra di rugby, la Spartaco, va da sé. Nel terzo tempo, spesso si brinda a un’onorevole sconfitta.

Il viale del tramonto

Torniamo agli anni Cinquanta. La Democrazia cristiana governa Roma. Tra il Quadraro e Cinecittà, la grande pianura ha ancora molti spazi. La democristiana Provvidenza decide di regalare ai Salesiani una vasta area sulla quale innalzare una chiesa. In breve tempo, sull’onda della speculazione, attorno alla classica cattedrale nel deserto sorgono palazzoni privi di senso estetico, oltre che di servizi. Il quartiere San Giovanni Bosco continua, nel Terzo millennio, a mostrarsi un condensato degli eterni mali che affliggono tutte le periferie costruite a puro scopo di lucro; un mondo avulso dagli altri mondi che gli stanno accanto, se si

▲Gli immigrati dal Bangladesh sono una presenza importante del nuovo tessuto sociale del Quadraro ◀▲Il grande murale che fa da sfondo agli ambienti del Centro sociale Spartaco ◀Le scale mobili che portano al centro commerciale Cinecittà 2 ◀▼Una partita di cricket accanto agli archi dell’acquedotto San Felice


Tre generazioni di statue Alla fine degli anni Sessanta, l’impero di Cinecittà inizia a vacillare. Si fermano le produzioni dei kolossal storici, l’industria italiana del cinema mostra forti segni di crisi, il piccolo schermo diventa concorrente sempre più pericoloso. È l’inizio di un declino che durerà un ventennio e svuoterà anche le botteghe artigiane all’interno dell’area. Tutti chiudono i battenti, a eccezione della Cinears della famiglia De Angelis. Già prima della nascita di Cinecittà, il patriarca, Angelo, collaborava con alcune importanti produzioni, fornendo loro decorazioni e sculture per i set. Nel 1942, il laboratorio si trasferisce accanto agli stabilimenti. Il posto di Angelo viene preso dal figlio Renato. Oggi è Adriano, figlio di Renato, a continuare un’arte che ha lasciato il suo segno in un elenco sterminato di film. Tanto per citare: Guerra e Pace, Ben Hur, Cleopatra, molti titoli di Fellini. In tempi più recenti, Gangs of New York, Il gladiatore, La leggenda del pianista sull’Oceano. Le statue del laboratorio De Angelis costituiscono esempi meravigliosi di quella finzione cinematografica in cui i nostri artigiani sono maestri. Centinaia di pezzi in gesso, cartapesta, vetroresina, legno, riproducono personaggi storici, figure mitologiche, dei e semidei, animali, mostri, elementi scenografici giganteschi. Tutto sembra marmo, granito, pietra. Ma così non è. La famiglia De Angelis accoglie volentieri i visitatori discreti. Un consiglio: fatevi mostrare il crocefisso utilizzato nei film di Peppone e Don Camillo e nell’Esorcista.

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fa eccezione per Cinecittà, intesa come quel recinto di mezzo milione di metri quadri dove tutto è, dal 1937, pura finzione. Inutile raccontare la storia degli stabilimenti nati per volere del regime fascista, che nel cinema vedeva un formidabile mezzo di propaganda. La si rintraccia sui libri, o su internet. Inutile riandare ai tempi di tanti maestri della macchina presa; dei divi che dai teatri sciamavano su via Veneto, inseguiti dai paparazzi. Anche questo è scritto su carta o sullo schermo del computer. Varrà, invece, parlare della Cinecittà di oggi, assai più televisiva che cinematografica, avvolta in un bozzolo di nostalgie. Il suo fascino non si discute, difficile resistergli, nonostante tutto. Ma la Hollywood sul Tevere, adesso, ha il volto di un’anziana signora. Lo guardi, e ti viene da pensare a come doveva essere bello. Da qualche tempo, le porte si aprono per accogliere visitatori stupiti dalle scenografie spettacolari di Gangs of New York o della Roma antica. Il resto è silenzio, passeggiata tra cimeli sparsi qua e là, dentro un’atmosfera da Sunset Boulevard, che si dissolve quando, subito oltre il perimetro delle cancellate, compaiono il vetro, il cemento e l’acciaio di Cinecittà 2. Il nome non inganni. Dentro il primo ipermercato di Roma,


costruito nel 1988, va in scena quel rito collettivo che vede coppie e famiglie fare acquisti su larga scala, specie il fine settimana. A differenza dei ciclopi commerciali sorti pochi anni dopo intorno alle città, il complesso possiede, però, un certo garbo e una certa eleganza; una misura “umana” che ne fa tuttora luogo dove ci si ritrova non solo per riempire il carrello della spesa. All’ultimo piano si organizzano mostre come quella dedicata ai disegni originali che Milo Manara eseguì per Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet, uno dei film incompiuti di Federico Fellini.

Terra d’approdo

Pochi passi separano il visitatore dall’uscita dell’ex tempio del cinema. Passi che si fermano davanti a una scritta slavata, “disinfezione”, sul muro ocra di edificio. Cinecittà, negli anni dell’ultima guerra, si trasformò in un grande campo profughi. E profughi sono i migranti dei nostri giorni, approdati alla via Tuscolana dal Bangladesh e dalla Romania. Nel Quadraro, i bengalesi svolgono con successo attività commerciali, dal negozio al bar. I rumeni, zoccolo duro del lavoro nei cantieri edili, comunità di circa tremila persone, si riuniscono la

domenica in uno spazio assegnato loro dal Municipio, accanto alla fermata Anagnina della metro, aperto a tutti. «Integrazione e solidarietà sono parole che qui hanno un significato concreto», dice Sandro Medici. E racconta di quando il giovane prete Roberto Sardelli, correvano gli anni Sessanta, arrivò con il buio alla canonica della chiesa di San Policarpo, cui era stato destinato. Il mattino seguente, spalancando la finestra, scoprì che i suoi fedeli, gente di Celano, profondo Abruzzo, abitavano sotto le volte dell’acquedotto Felice. Don Roberto andò a vivere con loro. Fondò la Scuola 725, doposcuola al numero civico di una baracca abbandonata da una prostituta. Con i ragazzini leggeva i giornali e discuteva, mettendo da parte, come Don Milani, i libri di testo. Nel fine giornata, dal finestrino dell’auto, l’ultimo scorcio è proprio quello dell’acquedotto. In una Roma che non sembra Roma, un piccolo popolo di periferia a essere felice ci prova da cent’anni.

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▲Un pannello espositivo lungo il percorso della visita agli stabilimenti di Cinecittà ◀▲Adriano De Angelis tra le sculture dello storico laboratorio Cinears


televasioni di

Flavio Soriga

illustrazione

Borislav Sajtinac

oltre il Billionaire C’è gente che litiga sul divorzio fino all’insulto, all’odio, a maledirsi per sempre, maledetto tu e tutti i tuoi futuri amanti. A volte, ci sono motivi concreti: i soldi, le case, i figli da mantenere. Altre volte, è solo o soprattutto il dolore di vedersi così cambiati, e non in meglio, e benedetto il giorno in cui di te non resterà che un ricordo lontano, di nuovo leggero il mio andare per il mondo. Tra Silvio e Veronica, il problema non potevano essere i soldi, che sono così tanti che basterebbero per le spese dei due, e di ciascuno dei figli, per decenni, forse per secoli. Così tanti soldi che non finiranno mai in nessun caso, un mare di soldi, un’infinità di soldi. E comunque: hanno discusso, fatto discutere gli avvocati, ma è finita, anche questa è andata; il nostro ex premier è l’unico uomo politico del mondo che abbia dovuto divorziare da over 70, e buon pro gli faccia questo nuovo record. Intanto noi abbiamo dovuto ascoltare, e riascoltare, nelle web tv e nei programmi d’informazione, le telefonate tra lui e le sue donnine, e delle donnine tra loro, e di un vecchio giornalista con le donnine. Bisogna ascoltarle, quelle voci, il tono dei discorsi di quelle ragazze, perché sono frutto di decenni di programmi pomeridiani delle tv dell’ex premier. Non si capisce di cosa si parli, ma tutto va detto con posa da ministro degli Esteri, con convinzione e spreco di espressioni alte: stima, rispetto, e tanto tanto amore, tutti si chiamano amore, tutti si giurano amore. Poi si accoltellano, si deridono, si insultano, e soprattutto vanno al sodo: i soldi da scucire al vecchio tocco. Sarebbe bello sapere come li hanno spesi, i soldi, quelle ragazze, che non si riesce a non pensare anche perdenti e perdute, poveracce, mischinette, sarebbe bello sapere cosa sarà di loro, tra qualche anno, quando tutto questo sarà lontano, e i soldi finiti da tempo, e chissà che lavoro avranno trovato, o se si saranno almeno sposate bene. Nel frattempo, le loro amiche sfigate del liceo hanno preso una laurea con buoni voti, e imparato due lingue e trovato un lavoro ben pagato, o decentemente, e no, non avevano ragione quei figoni sui troni della tv, non è tutto qui e adesso, no, c’è una vita oltre i salottini del Billionaire, e non è nemmeno male, in fondo, meno disperation, sì, di certe sere nelle ville del drago. (“Nel tuo piccolo mondo/ fra piccole iene/anche il sole sorge/ solo se conviene./Fra piccole iene, solo se conviene/mia piccola iena/ solo se conviene./La testa è così piena che non pensi più./ Ti si aprono le gambe oppure le hai aperte tu?” Afterhours, Ballata per la mia piccola iena)

W


massaggi in codice

decoder di

Violetta Bellocchio

Giovane massaggiatrice con figli e mutuo a carico trova lavoro in un centro benessere dove per fare i soldi veri bisogna masturbare i pazienti uomini; lei si adegua, e ci guadagna una tenutaria premurosa, nuovi amici. Una seconda famiglia. Fin qui, una serie tv appena partita negli Stati Uniti, The Client List. Perché la storia regga, il commercio sessuale dev’essere pulito, sicuro e allegro, i consumatori sempre galanti. Una sola differenza rispetto alla vecchia fantasia della cortigiana felice: ci si rivolge a un pubblico di donne. Molto più faticoso il modo in cui la cronaca italiana racconta i luoghi dove vanno in scena certe nuove forme di prostituzione. Il salone di massaggi viene ribattezzato la casa dello scandalo, oppure Eros Center. (Il che confonde le acque, essendo un marchio già usato nei Paesi europei dove gli scambi corpo/denaro sono legali). Per la scelta del décor, invece, va forte la “palazzina discreta in pieno centro”, frequentata da “personaggi noti”, a volte “autentiche celebrità”: a Torino ci fu il Viva Lain, chiuso dieci anni fa; seguirono Estetica 2000, Studio Monalisa, tutti con calciatori e imprenditori tra gli ospiti. E le professioniste? Trucco delicato, scarpe costose. Insospettabili. Se non si può puntare sul fattore Bella di giorno, scatta “l’inferno”, lo scantinato con le tapparelle di metallo, zeppo di immigrate clandestine – meglio se sfruttate da biechi connazionali, magari cinesi. Ultima possibilità: sparare cifre e basta. L’indagine milanese di aprile ha portato a “quindici esercizi chiusi”, “sette arresti”. Non si sa altro. Insomma: ci sono posti dove il giornalista non mette piede comunque, tanto vale parlare in codice. Perché dire “bordello” quando si può dire luogo equivoco, e perché dire “masturbazione” quando si può dire lieto fine.

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Alles Banane

H


il vizionario mad in italy di

Gianni Mura

illustrazione

BACUCCO

vecchio verme

BALDANZA

fusione, inutile, di ballo e danza

BARICENTRO

segnale stradale nel capoluogo pugliese

Felix Petruška

BARRITO

aperitivo alle 11

BASTO

autosufficiente

BELLIGERENTI

cfr “Masters of War” di Bob Dylan

BENDARE

porgere con grazia

BICOCCA

frutto mutilato

BISARCA

arca di riserva

BOMBETTA

cappello esplosivo

BOSSOLO

capomafia appartato

BOTTONE

gran rumore Passato il 25 aprile, cui teneva molto, il diretùr torna a zampettare tra le pagine del Dizionario e farne un Vizionario (visionario, a volte).

BROCCA

ASSOBUCO

BURLOTTO

BABACO

CALIBRO

BACILLO

CARAPACE

campione dopato verme da dessert bacio breve

BACITRACINA

sconsigliabile avvicinamento labiale a un pesce dotato di spine velenose

contenitore scarsino fagiolo scherzoso volume domestico quiete pagata ad alto prezzo, o molto amata

U


un fisico bestiale di

Bruno Giorgini

l'assedio del debito Rubo il titolo dallo splendido libro di poesie di Zbigniew Herbert, Rapporto dalla Città assediata, dove si racconta l’Europa attraversata dalle onde autoritarie e i regimi totalitari. Con popoli e individui ribelli in uno scontro che fu durissimo. Anche oggi la “città europea” è assediata. Le oligarchie del capitalismo finanziario, dei mercanti di armi, petrolio, droghe varie, delle multinazionali globali nonché i tecnocrati di alto rango e i dirigenti politici della destra aggrediscono il modello europeo di stato sociale, fondato su un corpus di diritti pubblici, sottratti al mercato e fino a ieri inalienabili; scuola, sanità e pensioni oggi sono sull’orlo della distruzione totale. Il pretesto è il debito, lo strumento le politiche d’austerità o rigore o comunque le si voglia chiamare. Diritti conquistati a caro prezzo, lungo oltre un secolo, dalla lotta contro i padroni delle ferriere a quella contro fascisti e nazisti. Ma formazione, sanità e pensioni sono anche grandi possibili affari, per cui va smantellato il sistema pubblico facendone tabula rasa, in nome delle imprese private che su quella tabula rasa costruiranno novelle fortune e smisurati profitti, con accumulo di hedge fund e altre iniziative finanziarie devastanti. Di pari passo corre l’attacco ai lavoratori nelle aziende e nel pubblico, tramite il loro drastico impoverimento, da una parte, e con la limitazione dei loro diritti sul luogo di lavoro, dall’altra, affinché possano essere licenziati a piacere di lor signori e si possa addirittura negare la rappresentanza sindacale di chi non è d’accordo, per chi non si piega alla volontà del padrone; fiat voluntas mea, Marchionne dixit. È una enorme violenza sociale che viene esercitata contro i popoli, impiccandoli con una continua emergenza e cercando di inchiodarli alla croce di un debito che non sono stati loro a provocare, con restrizioni progressive anche della democrazia rappresentativa. Questa strategia, dove Draghi per la Bce, Monti per il nostro governo, Merkel per la destra tedesca, Sarkozy, fino alla sconfitta, per quella francese e parecchi altri si danno la mano, è del tutto esplicita, apertamente dichiarata. Stupisce che parte della sinistra europea, Pd italiano in testa, non se ne accorga, o finga di non aver capito. Se ne accorgono le popolazioni, dalla Valsusa a Marsiglia, da Atene a Madrid, fino a Londra, che a volte si sollevano in rivolta contro. Scrive Herbert: “L’assedio è lungo e i nemici devono darsi il cambio/[...]/crescono i cimiteri cala il numero dei difensori/ma la difesa continua e continuerà fino alla fine/e se la Città cadrà e se ne salva uno/lui porterà in sé la Città lungo la via dell’esilio/ lui sarà la Città/guardiamo il volto della fame il volto del fuoco il volto della morte/quello peggiore di tutti, il volto del tradimento/e solo i nostri sogni non sono stati umiliati”. Ma alla fine i nazisti furono sconfitti e con loro il nero fascismo della miseria di cui erano portatori.

[fototeca storica nazionale ando gilardi]

Miniatura tratta dall’Eneide di Virgilio, in un codice del XV secolo

C


foto Enrique Rottenberg e Carlos [courtesy of galeria rita castellote - madrid]

Otero Blanco

Sogni cubani testo

Leonardo Padura Fuentes



Servizio in camera Raccontare Cuba attraverso le camere da letto dei suoi abitanti. Questo è il senso del progetto fotografico Dormir con..., ideato e realizzato dai fotografi Enrique Rottenberg e Carlos Otero Blanco. Sono oltre settecento le persone che hanno accettato, senza alcun compenso, di aprire le porte della propria casa, lasciando che venisse fotografato quello che è il luogo più intimo. Il risultato è un viaggio affascinante, dalla capitale alla provincia, in un caleidoscopio di colori e stili. Un cortocircuito surrealista al quale i due autori affidano il compito di raccontare la vera essenza di un popolo.

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Se guardiamo i loro letti, possiamo capire cosa sognano. Da più di vent’anni – periodo di emergenza generazionale – i cubani si sono svegliati dal peggior sogno collettivo possibile. Il ritorno alla realtà non è avvenuto per una caduta dal letto: è stato come se, a un certo punto, sotto i nostri corpi fossero spariti i letti e, con loro, la tranquillità del riposo e la possibilità di sognare. Prima di quell’improvviso risveglio, intorno agli anni Novanta, la maggior parte dei cubani viveva con uno, due, tanti sogni, di quelli che ti carezzano, a volte si realizzano e ti rendono felice quando ti svegli. In quell’arsenale di chimere ce n’era una che, in qualche maniera, le conteneva tutte: migliorare la qualità di vita grazie al merito sociale e al lavoro condito con l’indispensabile ingrediente dell’impegno personale. Il Paese che abitavamo allora ci dava la possibilità di avere quell’illusione di andare oltre, che alcuni riuscivano a realizzare nei più svariati modi: una carriera universitaria; una casa che grazie a tanti sacrifici nasceva, cresceva oppure migliorava; si sognava persino di viaggiare all’estero o di meritare il privilegio che lo Stato, per via delle sue migliaia di tentacoli nervosi che accoglievano tutto, ti toccasse con la sua bacchetta magica concedendoti il diritto di acquistare l’oggetto supremo del desiderio nazionale chiamato automobile. Studio, casa, auto, viaggi. Il grande sogno cubano in un Paese dove quelle chimere diventavano difficili, ma non impossibili. Sognabili. Quelle illusioni cubane cominciarono a sgretolarsi il giorno delle terribili scosse di un terremoto il cui epicentro era distante da noi 9.500 chilometri (la distanza l’abbiamo saputa da uno slogan di un programma tv), nella remota ma vicina Mosca. La scoperta della grave malattia, l’agonia e subito dopo la morte del socialismo sovietico e dell’Europa dell’Est, provocarono il drammatico risveglio cubano alla cruda realtà: quello che si era vissuto fino ad allora era un sogno, un’illusione e tutti sappiamo (così disse quattro secoli fa Calderón de la Barca) che i sogni, sogni sono. Il Paese che conoscevamo, nel modo in cui lo capivamo, in realtà era una finzione, un Paese virtuale alimentato da Mosca che ora negava il cibo a se stessa, esibendo le sue bugie e le sue verità, strappandoci, con la sua olimpica negazione, il letto sul quale si era costruito quel territorio di fantasia. L’incontro con la Cuba reale, che cercò di mantenere inalterato il sistema politico e sociale dentro l’implosione del suo sistema economico, trasformò i sogni in incubi. Iniziò così per la maggior parte degli undici milioni di cubani abitanti dell’isola la lotta alla sopravvivenza, dove non c’era spazio per un’altra illusione se non quella di avere il privilegio di due pasti e mezzo al giorno. Mangiando qualunque cosa ci fosse in giro, pur di non andare a letto a stomaco vuoto e avere altri incubi oltre a quelli inevitabili. Pure la macchina sognata da alcuni diventò la bicicletta reale di tutti, cinese ovviamente, e il viaggio all’estero, in molti casi fu una fuga, un passaggio senza ritorno verso qualsiasi altro luogo. Quando il Paese reale iniziò a rammendare le sue strutture, molti cubani furono costretti a imparare a vivere con nuovi codici, che riducevano drasticamente la possibilità di sognare. L’onnipresente Stato non poteva più garantire la piattaforma dei sogni e la vita reale iniziò a distin-

guere tra coloro che avevano e coloro che avevano meno o che non possedevano nulla. Tra coloro che potevano sognare e quelli che avevano la possibilità di dormire chissà in quale modo. A Cuba, come in altri luoghi, oggi sono più numerosi coloro che possiedono meno oppure non hanno nulla. I loro letti svelano meglio di tutti i discorsi a favore, o le diatribe contro, la realtà in cui molte persone pensanti si ammalarono di delusione, si estesero la sopravvivenza e la contingenza come stile di vita e il lavoro perse il suo significato perché nessuno poteva più vivere dello stipendio ufficiale. A Cuba, scaricare le valigie in un albergo era più redditizio che esercitare la professione di medico o di ingegnere. Essere abile, poco scrupoloso, rischiare di più, a volte può essere più redditizio che essere colto. Grazie a tutte queste alterazioni della rete sociale, l’un per cento dei cubani vide estinguersi il diritto a sognare, come se fosse un animale preistorico, del cui passaggio su questa terra rimangono solo i resti fossili. Inoltre, lo Stato protettore si rese conto delle sue incapacità e cominciò a tagliare le cose che una volta distribuiva frettolosamente, senza fermarsi a fare i conti e avvisò gli insonni cubani che i tempi erano cambiati: adesso per sognare alcune cose (case, macchine, cellulari, alberghi, computer, materassi morbidi e, se ce la fai, viaggi all’estero) c’è bisogno del denaro. La generazione che nacque nel momento dell’esplosione della crisi, dove si produsse il violento risveglio, ora ha circa vent’anni ed è cresciuta in quel Paese reale. Sono più di un quarto dei cubani che vivono sull’isola. Quasi tutti hanno accettato di applicare i nuovi codici per necessità di vita, sono meno creduloni, più realisti e hanno i loro sogni. Una buona parte sogna di mettere il proprio letto in un altro posto, di andare a dormire da un’altra parte. Altri vogliono vivere la loro vita nel miglior modo possibile, senza dormire molto, senza sognare troppo, senza aspettarsi niente dal cielo. Il desiderio di avere una laurea, che i genitori sono riusciti a realizzare, oggi è un privilegio per pochi: all’università ci sono meno posti e di sicuro hanno più possibilità coloro i cui genitori possono pagare, sin dalle elementari, una maestra privata che li aiuti ad appronfondire ciò che viene insegnato nella scuola pubblica, che rimane universale e gratuita. Esistono giovani di questo Paese reale che sognano di cambiare e migliorare il mondo. A volte i loro progetti sono appassionati, utopici e, proprio perché sono giovani, iconoclasti. Come sempre (o quasi sempre), hay de todo en la viña del Señor, c’è di tutto, come nella vigna del Signore. A differenza di altri Paesi, la notte, quando i cubani arrivano spossati, tutti quanti hanno un letto dove stendersi. Alcuni hanno letti veri, altri è un po’ difficile chiamarli così. Le differenze tra un letto e l’altro riflettono in maniera drammatica come si vive in questo Paese. A seconda del letto dove dormi, saranno diversi i sogni che verranno a trovarti. Se guardiamo i loro letti, capiamo non soltanto cosa stanno sognando i cubani. Capiamo anche perché alcuni hanno smesso di sognare.

E









il capitale di

Niccolò Mancini

illustrazione Todd [getty images]

Davidson

credito esaurito La luna di miele tra Mario Monti e il mondo economico/finanziario sembra un lontano ricordo. Rottura definitiva? Chi può dirlo, anche se i segnali per una frattura traumatica ci sono tutti a partire dallo spread, tornato a preoccupare analisti e operatori finanziari. A onor del vero, bisogna riconoscere che questa volta il bersaglio privilegiato della speculazione è la Spagna e noi siamo il semplice contorno, come testimonia l’ennesimo declassamento punitivo del rating degli iberici da parte di Standard&Poor’s sul finire dello scorso aprile. Ma a preoccupare gli uomini della finanza, in mancanza di un deciso cambio di rotta, è il futuro di un Paese sempre più strozzato dalle imposte dirette e indirette (in questo senso un eventuale aumento dell’Iva al 23 per cento potrebbe essere deleterio), un futuro sintetizzato dalle stime di crescita del Pil (Prodotto interno lordo) che dopo il calo dell’1,5-2 per cento di quest’anno, tornerà a crescere, ma sotto il punto percentuale, dal 2013, per poi continuare con progressi risicati addirittura fino al 2020, erodendo progressivamente la ricchezza di chi ce l’ha e mettendo letteralmente in ginocchio i tanti che già oggi arrivano con difficoltà alla fine del mese. A erodere ulteriormente la fiducia nel governo, contribuisce anche l’impotenza dimostrata nei confronti delle lobby, siano esse quella dei tassisti o dei farmacisti, a cui si contrappone uno sterile decisionismo a scapito dei “soliti noti” dai quali è semplice continuare a pescare. In campo internazionale poi, non piace la scarsa autonomia rispetto ai diktat tedeschi in tema di austerity (il cosiddetto Fiscal Compact) con Frau Merkel sempre poco propensa a spingere sulla crescita allargando i cordoni della borsa, anche se alla cancelliera tedesca non saranno certo sfuggiti i malumori crescenti nel vecchio continente che hanno avuto l’eco più eclatante dai risultati delle elezioni presidenziali francesi. Infine, il cosiddetto governo dei poteri forti (banche, Bocconi, Trilateral, massoneria) si è dimostrato debolissimo in tema di regole finanziarie, se ancora ci troviamo a fare i conti con gli effetti delle scorribande della speculazione sulla nostra vita quotidiana dove spread e agenzie di rating continuano a tenere banco fornendo nuove cartucce agli affossatori dell’euro, sotto attacco per l’ennesima volta, ma le cui quotazioni rimangono “misteriosamente” elevate nei confronti del dollaro; un livello che, guarda caso, non mette in pericolo l’export del made in Usa.

U


pìpol di

Gino&Michele

il nemico era in noi «I love the smell of napalm in the morning. Smells like victory». (Apocalypse Now) Il mese scorso abbiamo raccontato un po’ di Vietnam, quello che ci ricordiamo del Vietnam. Oggi di quel Paese sappiamo che nel 1975 la guerra è finita, vinta dal Nord e dalle forze che lo sostenevano, persa dal Sud e dagli americani. Siamo andati a documentarci: dal ’65 al ’72 gli Stati Uniti preventivarono per quella guerra 140 miliardi di dollari. Il regista Stanley Kubrick fa dire nel suo Full Metal Jacket al mai dimenticato sergente maggiore Hartman: «Dio ci si arrapa con i marines. Perché noi ammazziamo tutto quello che vediamo. Lui fa il suo mestiere, noi facciamo il nostro. E per dimostrargli il nostro apprezzamento per averci dato tanto potere, noi gli riempiamo il cielo di anime sempre fresche. Dio è arrivato prima del corpo dei marines e quindi a Gesù voi potete offrire il cuore; ma il vostro culo appartiene alla nostra arma!». Il Vietnam, assicurano, è un Paese molto bello e ogni anno siamo lì lì per andarci, ma non lo facciamo. Ci accontentiamo per ora delle frasi dei nostri film preferiti su quell’argomento. Soldato Joker – E come fai a sparare sulle donne e sui bambini? Mitragliere elicotterista – È facile, vanno più lenti: miri più vicino. (Full Metal Jacket di Stanley Kubrick, 1987) *** Cap. Benjamin L. Willard – Saigon. Merda. Sono ancora soltanto a Saigon. Ogni volta penso che mi risveglierò di nuovo nella giungla... (Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, 1979) *** Adrian Cronauer – Tu eri mio amico. Mi fidavo di te... Tuan – Tu uomo ingenuo, Cronauer. Tu stai da parte stupida. Adesso tu va via, è molto meglio. Cronauer – Non è questo il punto perdio! Hai capito bene? Io ho fatto a botte per farti entrare in quel bar! E tu lo fai saltare in aria? Cazzo! Senti, ti ho dato la mia amicizia, mi sono fidato, e adesso mi dicono che il mio miglior amico è in realtà il nemico! Tuan – Nemico? Ma cos’è nemico? Voi uccidete noi in Paese lontano. Noi no nemico! Voi, nemico! Cronauer – Tu mi hai usato per uccidere due persone, due poveracci sono morti in quel bar! Tuan – E questo che c’entra? Mia madre è morta, e poi mio fratello, più grande di me: lui è stato ucciso da americani. E il mio vicino, anche. Sua moglie, anche! Perché? Noi non essere umani per loro, piccoli vietnamiti e basta! (Good Morning, Vietnam di Barry Levinson, 1987) *** Chris Taylor – Le stelle... Non c’è giusto o sbagliato per loro: sono lassù e basta. È un modo bello di vivere. [...] Adesso credo, guardandomi indietro, che non combattevamo il nemico, ma noi stessi. E il nemico era in noi. (Platoon di Oliver Stone, 1986) *** Michael – No, uccidere o morire in montagna o nel Vietnam è esattamente la stessa cosa, ma deve succedere lealmente. Nick – Come? Un colpo solo? Michael – Un colpo solo. Nick – Io non ci credo più tanto a questa storia del colpo solo, Mike. Michael – Tu devi contare su un colpo solo, hai soltanto un colpo, il cervo non ha il fucile, deve essere preso con un colpo solo. Altrimenti non è leale. Stanley – Come ci si sente a farsi sparare? Michael – Non fa male... se è questo che vuoi sapere. (Il Cacciatore-The Deer Hunter di Michael Cimino, 1978) *** Ten. Col. William Kilgore – Arriveremo a bassa quota con il sole alle spalle e a un miglio di distanza gli sbattiamo la musica! Cap. Benjamin L. Willard – La musica? Ten. Col. William Kilgore – Io uso Wagner, fa cacare sotto i vietnamiti, i miei ragazzi l’adorano! (Apocalypse Now) *** Kurtz – Lei è un assassino? Cap. Benjamin L. Willard – Sono un soldato. Kurtz – Né l’uno né l’altro. Lei è un garzone di bottega che è stato mandato dal droghiere a incassare i debiti sospesi. (Apocalypse Now)

J


L’Italia è una Repubblica a cura di

31 marzo, milano

4 aprile, Rosolini (Sr)

31 marzo, Torino

5 aprile, Lanciano (Ch)

1 aprile, Cumiana (To)

9 aprile, Cavriglia (Ar)

Titolare di un’impresa edile, stava sistemando il filo della carrucola, al quarto piano di un palazzo quando è precipitato al suolo. La vittima è un egiziano di 41 anni del quale non è stato fornito il nome.

Cosimo Di Muro, carpentiere di 47 anni, è caduto da un ponteggio alto circa 40 metri nel cantiere in cui stava lavorando.

L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro è il nostro osservatorio sulle morti bianche. Si tratta di un elenco parziale e incompleto, ricavato da fonti secondarie, degli infortuni mortali avvenuti tra il 31 marzo e il primo maggio. A cura di rassegna.it, sito d’informazione su lavoro, politica ed economia sociale, che dal settembre 2010 porta avanti un monitoraggio quotidiano delle vittime.

Agricoltore di 48 anni, Franco Marocco, è rimasto folgorato mentre lavorava nel terreno di sua proprietà.

2 aprile, Berbenno (So)

Un operaio di 48 anni, Michele Pinalli, stava lavorando in un’azienda in località Prato Maslino. È rimasto schiacciato dall’escavatore che manovrava.

2 aprile, Caserta

Stava lavorando con il trattore nel suo terreno a Fontegreca, quando il mezzo si è ribaltato e lo ha travolto. Così è morto Antonio Altieri, 80 anni.

2 aprile, Girifalco (Cz)

Stava spostando lastre di marmo in un’azienda a Girifalco, quando una di queste, sganciatasi, gli è caduta addosso e lo ha schiacciato. La vittima è Domenico Burdino, 50 anni.

2 aprile, Traversetolo (Pr)

Nello Piovani, 70 anni, era titolare di un’azienda per la lavorazione del formaggio. È stato colpito alla testa da una forma di parmigiano di 50 chili, caduta da uno scaffale.

3 aprile, Nembro (Bg)

Federico Aglieri, 77 anni, stava lavorando nel suo terreno a Gavarno di Nembro. Il trattore, finito in una piccola scarpata, si è ribaltato e lo ha travolto.

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Stava riparando una falciatrice nel terreno di sua proprietà, quando questa si è rimessa in moto. È stato dilaniato dalle lame. La vittima è Pietro Di Mari, 33 anni.

Giuseppe Travaglini, 38 anni, stava lavorando sul trattore a Lanciano; è rimasto incastrato sotto il mezzo, che si è ribaltato in un tratto in pendenza.

Roberto Orlandi, 66 anni, stava lavorando in un terreno quando ha perso il controllo del trattore, finendo in una scarpata.

9 aprile, Pisa

Kumar Sanoy, nepalese di 32 anni, addetto all’ippodromo di San Rossore, il 23 febbraio era stato colpito dal calcio di un cavallo. È morto in ospedale.

10 aprile, Genova

Benito Ratti, 69 anni, stava lavorando in una cava di ardesia: forse per un malore, è scivolato sulla scala che riporta in superficie.

11 aprile, Roma

Luigi Lucatelli, meccanico di 63 anni, è rimasto schiacciato dall’auto che stava riparando nella sua officina.

12 aprile, Borghi (Fc)

Filodelmo Urbini, 48 anni, stava lavorando in una cava a Ripa Calbana di Masrola. È morto schiacciato da un nastro trasportatore di massi.

12 aprile, Castagneto Carducci (Li)

Stava raccogliendo legna su un trattore a Sassetta, quando il mezzo si è ribaltato. La vittima è un operaio bosniaco di 30 anni. Le sue generalità non sono state diffuse.


fondata sul lavoro Dipendente di una ditta di impianti elettrici, Luigi Saccogna, 47 anni, era al lavoro nella zona industriale di Modugno. La pala meccanica che stava manovrando si è rovesciata e lo ha colpito.

13 aprile, Magione (Pg)

Il proprietario di un mobilificio, Francesco Beccari, di 71 anni, stava spostando un albero con un muletto. Il peso del tronco ha causato il ribaltamento del mezzo che lo ha colpito alla testa.

13 aprile, Modena

Maurizio Trenti, 47 anni, stava pulendo la canna fumaria di un palazzo. È caduto dal tetto da un’altezza di circa dieci metri.

13 aprile, Parma

Domenico Passatore, autotrasportatore di 51 anni, stava scaricando mangime con il braccio meccanico di un mezzo agricolo: con quest’ultimo ha tranciato i fili dell’alta tensione ed è morto folgorato.

18 aprile, Pisticci (Mt)

Antonio Melfi, 48 anni, operatore ecologico, è stato investito da un camion per la raccolta rifiuti che procedeva in retromarcia all’interno di una discarica comunale.

24 aprile, Milazzo (Me)

Titolare di un’azienda di manutenzione elettrica, Francesco Scibillia, 55 anni, è caduto dal trattore su cui stava lavorando, rimanendo schiacciato.

26 aprile, Albiano (Tn)

Tiziano Pisetta, 41 anni, era salito su una scala nel magazzino della sua azienda; ha perso l’equilibrio ed è scivolato. È morto in ospedale dopo cinque giorni.

26 aprile, Brindisi

Stava smontando i pannelli di un opificio, quando è caduto dall’impalcatura. Così è morto, dopo venti giorni d’ospedale, Tommaso Creanza, 63 anni.

28 aprile, San Vito dei Normanni (Br)

Cosimo D’Agnano è rimasto schiacciato da un carrello. Era un artigiano piastrellista e pavimentista molto noto nella zona. Aveva 43 anni.

28 aprile, Villasanta (Mb)

Un macellaio di 50 anni, Giovanni Beltramini, era impegnato a disossare un vitello. Un movimento incauto e il coltello gli è entrato nel petto.

30 aprile, Bolzano

Johann Innerhofer, agricoltore di 45 anni, stava lavorando nel terreno di sua proprietà. La puntura di un’ape gli ha provocato uno choc anafilattico.

30 aprile, Cerete (Bg)

Stava effettuando lavori di manutenzione su un mulino, quando è scivolato negli ingranaggi che lo hanno stritolato. La vittima è Roberto Giudici, 46 anni.

30 aprile, Rubiera (Re)

Elettricista di 48 anni, Roberto Di Maria era impegnato nella manutenzione di lampade in un’azienda a Rubiera. Ha perso l’equilibrio cadendo dalla scala.

1 maggio, L’Aquila

Un operaio rumeno di 51 anni, Vasile Copil, si trovava in un cantiere a Rocca di Cambio; era al lavoro su un’impalcatura, quando è scivolato, precipitando al suolo.

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31 marzo - 1 maggio morti sul lavoro

Maurizio Galimberti

12 aprile, Modugno (Ba)


di Christian e Francesca

Elia Borri

foto dal progetto Adil,

Almost Dawn in Lybia

Paesi arabi

Primavera 80


sfiorita 81


Dalla piazza al governo di Christian

Elia

È l’incognita che si pone alle rivoluzioni arabe: il passaggio dalle tante Tahrir a una prospettiva politica. Da un movimento che ha ridato voce alla società a un nuovo ordine democratico. Tre analisti si confrontano: quale sarà l’evoluzione della primavera di questi Paesi tra il ruolo dei partiti religiosi e le spinte dei giovani e delle donne? Che ruolo avranno il Qatar e l’Arabia Saudita? L’Occidente sarà capace di uno sguardo nuovo?

Da un piccolo centro nella Tunisia profonda alle strade di Homs, in Siria, la strada è lunga. È passato molto tempo dal 17 dicembre 2010 – quando il venditore ambulante Mohamed Bouazizi si è dato fuoco a Sidi Bouzid – alla mediazione delle Nazioni Unite nella crisi siriana. Eppure si continua a identificare tutto quello che è accaduto in questo arco di tempo, in Paesi anche assai diversi tra loro, con il logo della “primavera araba”. Mentre tutto accade, è difficile orientarsi, ma è necessario tentare un’analisi. Tre voci, tre punti di vista, attorno alla realtà del mondo arabo che dal 2011 è mutata per sempre.

«Si tratta della prima vera rivoluzione post leninista. La prima organizzata non da una leadership politica o ideologica, ma da un movimento sociale», spiega Bertrand Badie, politologo francese, specializzato in relazioni internazionali, docente all’Institut d’études politiques di Parigi e ricercatore presso il Centre d’études et de recherches internationales. «Le conseguenze di questa sollevazione diventano il punto chiave: questo movimento è capace di generare un ordine politico nuovo? Se non sarà capace di questo ricorderemo la primavera araba come il 1968 in Europa e nel mondo. Ma questa trasformazione, per ora, non si vede». François Burgat,

▲foto André Liohn [prospekt]

Dentro un edificio del centro di Misurata, i ribelli combattono contro l’esercito di Gheddafi ▲▶foto André Liohn [prospekt]

Gli insorti si preparano all’irruzione in una casa di Misurata occupata dai soldati filogovernativi foto Lynsey [vii]

Addario

In apertura, un combattente dell’opposizione si acquartiera dopo la riconquista di Ras Lanuf


politologo francese, direttore della ricerca del Centre national de la recherche scientifique, dal 2008 direttore dell’Institut français du Proche-Orient, è più attendista: «Siamo all’alba di un processo che si preannuncia lungo e i cui itinerari nazionali saranno molto differenti. Molti tra i maggiori Paesi arabi hanno appena superato una tappa essenziale sulla strada che li porterà a uscire dall’era dell’autoritarismo. Comunque ciò che è accaduto costituisce una bella pagina per la storia di questa regione».

L’estate calda

Per Georges Corm, storico ed economista, ex ministro delle Finanze in Libano, autore di una monumentale Storia del Medio Oriente, si vede già una differenza. «È necessario distinguere due periodi. Un primo frangente, in Tunisia ed Egitto, in cui le rivolte erano disarmate, pacifiche, animate da uno spirito costruttivo e ottimistico», spiega. «In un secondo momento, invece, questa primavera si è trasformata in un’estate davvero calda: Bahrein, Yemen, Libia (con l’intervento della Nato), poi e tuttora, la Siria. Questo ha totalmente mutato l’immagine idealizzata delle prime insurrezioni. Questo passaggio pone molti interrogativi su ciò che accadrà in futuro, confermando che ogni processo

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rivoluzionario è molto lungo». Ad avviso di Badie è troppo presto per dare giudizi: «La Tunisia è un esempio chiaro della discrepanza tra la piazza e il ruolo dei partiti religiosi. In Egitto si è creata la stessa distanza tra i Fratelli musulmani e i ragazzi di piazza Tahrir che non hanno saputo diventare un contenitore politico. La questione adesso è cancellare il gap tra i movimenti sociali e l’evoluzione politica della ribellione. Anche lo sguardo internazionale verso quello che è accaduto nel mondo arabo deve essere capace di includere i movimenti tra le chiavi interpretative di quella regione, deve adattarsi a questa trasformazione, accettandola come legittima. Restano delle resistenze che si sono palesate in Libia, dove si è voluto controllare il processo rivoluzionario, appropriandosene, per adattarlo alla visione della diplomazia internazionale. La Libia ha inaugurato una fase nuova, che osserviamo pure in Siria. Anche se da parte dell’Occidente l’appropriazione della rivolta siriana è molto più difficile». Un’invasione di campo, che per alcuni osservatori ha finito per inficiare la spontaneità dei moti rivoluzionari. Burgat è contrario a questa interpretazione: «Ci troviamo di fronte a fenomeni interni ai singoli Paesi. Ciò non significa che l’effetto del contagio mediatico e gli interventi esterni non abbiano influenzato gli eventi. Ma senza il fulcro di un profondo malcontento popolare non sarebbe accaduto nulla. In alcuni Paesi (quelli del Golfo, per la precisione) dove questo malcontento non era ancorato in maniera altrettanto solida, non è nato alcun movimento significativo. L’idea, più volte avanzata e non solo dai regimi minacciati, di

Queste foto Adil, Almost Dawn in Lybia, è un progetto nato dall’idea del fotografo André Liohn “per favorire la guarigione della società libica”, attraverso il ripristino delle relazioni sociali e del dialogo tra persone e gruppi etnici. Liohn ha raccolto le fotografie sue e di altri sei importanti fotoreporter che hanno seguito il conflitto libico. I cento scatti, selezionati dai curatori Paolo Pellegrin e Annalisa D’Angelo, costituiscono una mostra – allestita contemporaneamente a Tripoli, Bengasi, Misurata e Zintan – che si propone di raccontare la guerra attraverso l’occhio di un osservatore indipendente per favorirne la comprensione e la riconciliazione, perché “le immagini non cambiano ma lo possono fare gli occhi che le guardano”. Accanto alle mostre, dibattiti e workshop su temi come pace, disarmo e diritti. Il progetto è stato finanziato attraverso il crowdfunding realizzato tramite la piattaforma Emphas.is. Una curiosità: in arabo Adil è anche un nome proprio maschile, che significa giusto, virtuoso.


un complotto o di manipolazioni da parte di un agente esterno (statunitense o franco-britannico, nel caso della Siria) non è a mio parere credibile». Possibilista, invece, Corm: «Credo che nel primo periodo abbiamo assistito ad autentiche rivolte popolari, legate a un’agenda tutta nazionale. Un fenomeno impressionante in tutto il mondo arabo. A quel punto, in Libia, si è visto un intervento esterno, che poi ha riguardato anche il Bahrein (con l’intervento militare della monarchia saudita). Nel silenzio dei media, almeno in questo ultimo caso. In Libia, invece, l’intervento (Nato e Qatar su tutti) ha mutato il volto di un’insurrezione popolare pacifica in una guerra. Non ci sono dubbi, a mio parere, che in Siria al movimento popolare si siano affiancate una serie di pressioni esterne, creando una situazione simile a quella della guerra civile spagnola del 1939».

Qatar o Arabia Saudita?

Da un anno a questa parte il Qatar è divenuto un attore chiave degli equilibri del mondo arabo. Al punto, secondo alcuni analisti, di aver rilevato il ruolo che per anni è stato dell’Arabia Saudita. «La monarchia, in Arabia Saudita, non è più dinamica come prima»,

sostiene Corm. «C’è un’autocrazia vecchia, che il Qatar sostituisce con una politica estera dinamica e concordata comunque con Riad, dalla leadership nella Lega araba all’intervento in Libia, e adesso in Siria. L’agenda è la stessa, ma c’è stato un passaggio di consegne». Una distanza, quella tra Doha e Riad, che per Badie ha motivazioni chiare: «Il collasso, negli anni, di Egitto, Iraq e la crisi della Siria hanno consegnato una sorta di primato politico all’Arabia Saudita. Riad pretende una leadership che, non facendo parte l’Iran del mondo arabo, ha un’unica seria e credibile controparte: il Qatar. Nessun altro. Per le ottime relazioni del Qatar con l’Occidente, per la sua posizione strategica nel golfo Persico e per le sue risorse finanziarie. Il Qatar ha il vantaggio di avvicinarsi molto di più alla visione del mondo dei Fratelli musulmani rispetto

▲foto Christopher Morris [vii]

Il primo giorno dell’attacco aereo della Nato, Aisha Gheddafi circondata dai sostenitori del colonnello nel compound del padre ▲▶foto Bryan Denton [corbis]

Un insorto provvede alla sepoltura secondo il costume islamico di militari dell’esercito, vittime della battaglia di Misurata ▶foto Lynsey Addario [vii]

Un ricovero per i ribelli nei pressi dell’ospedale di Ras Lanuf


Marocco e Sahara occidentale Tutto era iniziato con il movimento 20 febbraio, che nelle piazze di Rabat, Casablanca, Marrakech chiedevano “un re che regni ma che non governi“. Mohammed VI è stato solerte nel controllare il malcontento popolare, emendando la costituzione e sottoponendo la riforma a referendum popolare il primo luglio 2011. Per la prima volta, si aprono spiragli di libertà politica, anche se il re tiene per sé i poteri principali. Smette, però, di scegliere il premier, limitandosi a nominare il candidato del partito che vince le elezioni. Come era prevedibile, hanno vinto gli islamisti moderati, da anni tenuti ai margini della politica. Dal Sahara occupato si era levata una protesta soffocata nel sangue da Rabat.

Algeria Il gigante dorme ancora. Solo nei primi mesi del 2011, mentre Tunisia e Libia bruciavano, in Algeria si sono viste manifestazioni e assembramenti. Troppo viva la memoria dolorosa della guerra civile degli anni Novanta per altri salti nel buio. Un risultato, però, le manifestazioni lo hanno portato a casa: è stato revocato lo stato d’emergenza proclamato nel 1990. Molto resta da cambiare, ma le opposizioni, per ora, non hanno saputo diventare un movimento di massa.

Tunisia

all’Arabia Saudita, più vicina alla visione radicale dei salafiti. L’Occidente e i nuovi assetti nati dalle rivolte hanno, in questo momento, maggiore prossimità con il Qatar che con l’Arabia Saudita. Questi due Paesi competono e la questione è capire se hanno la capacità di gestire un’egemonia nel mondo arabo». Secondo Burgat, quella del Qatar è una centralità non priva di contraddizioni: «Il peso diplomatico del Qatar costituisce senza ombra di dubbio una novità, diventando

anello fondamentale della catena nelle relazioni euroarabe. Diplomazia non priva di ambiguità, poiché il suo obiettivo di diventare interlocutore privilegiato porta Doha a fare delle concessioni etiche e politiche. I suoi alleati e l’universo delle sue simpatie si possono più o meno identificare con le opposizioni vicine ai Fratelli musulmani, mentre le leve d’azione dell’Arabia Saudita sono i più tradizionali movimenti salafiti. Allo stesso tempo, il Qatar e l’Arabia danno un’identica let-

Dopo trent‘anni è finito il potere di Ben Alì. Disperso nel suo esilio dorato in Arabia Saudita, Ben Alì ha visto il Paese andare alle urne ed eleggere l’Assemblea costituente. Per mesi i lavori dei deputati eletti sono rimasti impantanati attorno all’articolo 1 del testo fondamentale: quello sulla laicità dello Stato. Gli islamisti del partito Ennadha, largamente vincitori delle elezioni, hanno resistito alle spinte salafite e mantenuto il vecchio testo che non prevede la sharia.


tura della crisi siriana (o di quella del Bahrein). Questa posizione è almeno in parte condizionata dal fatto che entrambi i Paesi hanno come obiettivo l’indebolimento dell’alleato iraniano della Siria o, nel caso del Bahrein, sono riluttanti al passaggio del potere nelle mani di una maggioranza sciita. In Europa, l’azione diplomatica è ancor più paradossale se consideriamo che il Qatar è alleato prossimo del governo francese malgrado le radicali divergenze che separano la ‘politica musulmana’ di Parigi dalla mentalità di Doha, così com’è emersa, in particolare, dai toni del canale al Jazeera».

Fra tv e social network

Ma quanto conta davvero al Jazeera? «Al Jazeera non è il Qatar, come la Bbc non è la Gran Bretagna», dice Badie. «Questo processo rivoluzionario riguarda, prima di tutto, i social media. Facebook, twitter hanno giocato un ruolo determinante nello strutturare questo disagio, dandogli una rete di riferimento e condivisione, come al Jazeera gli ha dato una visibilità mondiale. E bisogna distinguere questo processo dell’informazione da quello più strettamente politico». L’informazione sembra però aver dimenticato il Bahrein. «Quella del Bahrein è una questione davvero

imbarazzante», sostiene Badie. «Questo Paese è in una posizione strategica ed è in maggioranza sciita per cui ha un rapporto speciale con l’Iran. D’altra parte lì è stata praticata una brutale repressione delle istanze sociali, con un piano preordinato del governo. Questi due elementi hanno fatto sì che le diplomazie occidentali non abbiano potuto reagire e condannare quello che è accaduto. Questa è una grande contraddizione rispetto alle posizioni assunte sulla Libia prima e sulla Siria adesso, salvo ammettere che esistono due differenti standard di reazione di fronte ai medesimi problemi». Il concetto del doppio standard è condiviso anche da Corm: «Il silenzio non riguarda solo il Bahrein. Anche lo Yemen. Migliaia di persone, ogni giorno, nelle strade. Represse con violenza. E nessuno ne parla, perché vengono considerati nella sfera di influenza dell’Arabia Saudita e, come sempre, c’è un doppio standard nel chiedere il rispetto delle istanze popolari. Nessuno interferisce con le politiche del Golfo, a maggior ragione in un periodo di forti tensioni regionali con l’Iran». Per Burgat «il Bahrein è la dimostrazione perfetta di come il capovolgimento che ha condotto le diplomazie internazionali a sostenere le rivolte arabe è stato più di natura utilitaristica che umanitaria. L’appoggio della rivolta del Barhein avreb-

▲foto Eric Bouvet La battaglia di Bengasi ▶foto Bryan Denton [corbis]

Misurata: un medico tenta un massaggio cardiaco su un paziente ferito gravemente


Libia L’era di Gheddafi è finita nel sangue del linciaggio del Colonnello, che dal 1969 ha governato con il terrore il Paese. Il Consiglio nazionale di transizione, che ha condotto l’insurrezione e gestisce la fase transitoria, dovrebbe convocare le elezioni nei prossimi mesi, ma non si hanno certezze. La giustizia internazionale chiede che vengano processati anche i miliziani ribelli che si sono macchiati di gravi crimini, mentre alcune formazioni armate attive contro Gheddafi si scontrano spesso per il controllo del territorio.

Egitto Il Faraone è caduto. L’ultima immagine, steso in barella, durante il processo, è il simbolo della fine di un’epoca. Ma tutto il resto dell’apparato è ancora al suo posto. Le elezioni hanno premiato i Fratelli musulmani e i salafiti, mentre sembra svanito il blocco sociale dei giovani che per primi avevano occupato piazza Tahrir. I militari, per ora, in attesa delle elezioni presidenziali, tengono ancora saldamente in mano il potere e hanno dimostrato in più di un’occasione di non gradire manifestazioni di piazza e di usare metodi di repressione non differenti da quelli di Mubarak.

Israele e Palestina Quello che rimane il nodo gordiano delle tensioni in Medio Oriente è come sparito dalle cronache internazionali. Il processo di pace è fermo, mentre con lentezza continua il riavvicinamento tra Hamas e Fatah, i due partiti politici palestinesi che, interrompendo ogni rapporto, avevano diviso Gaza e Cisgiordania. La richiesta di unità nel fronte palestinese davanti all’occupazione israeliana è stata il cavallo di battaglia del movimento 15 marzo (in Cisgiordania) e del movimento Gybo (a Gaza). I dirigenti palestinesi hanno in un primo momento agito con fermezza, poi hanno preferito la via del dialogo. In Israele, per qualche mese, le piazze di Tel Aviv si sono popolate del movimento Occupy Tel Aviv, che chiedeva una moderazione del rigore economico e un cambio generazionale della classe politica israeliana, ma che non toccava il tema del conflitto con la Palestina.


be costituito un casus belli con l’Arabia Saudita, Stato che non risponde ad alcun criterio di quella democrazia che noi abbiamo sostenuto, improvvisamente e in modo così spontaneo, in Libia o in Siria».

Allarme laicità

Da alcuni Paesi, Tunisia in primis, arriva però un allarme che registra la crisi della laicità, in particolare per quanto riguarda i diritti delle donne. «La religione è uno strumento che ha permesso di mobilitare folle, donne comprese, in sistemi dove per anni è mancata una dialettica pubblica e libera», sostiene Badie. «Il suo ruolo nel dibattito politico seguirà l’evoluzione delle società arabe e la loro capacità di darsi obiettivi e raggiungerli. Come la laicità, che è obiettivo trasversale di una parte della società, in Tunisia per esempio, e che non ‘fa bene’ solo alle donne». «Credo che le donne – dice Corm – continueranno a giocare un ruolo crescente nelle società arabe: sono la componente maggioritaria nelle manifestazioni contro la corruzione e la tirannia. Sono tutte attive, sia quelle che chiedono il rispetto del secolarismo sia quelle che aderiscono ai valori islamici e al codice di comportamento religioso. Il primo gruppo è impegnato a ridimensionare l’influenza dei partiti di ispirazione religiosa, difendendo la loro liberazione dalla tradizione; il secondo si batte contro il tentativo degli uomini di riprendere il controllo sulle attività delle donne e limitare le loro libertà. Ecco, è come se si fosse sviluppata una convergenza tra il movimento femminista arabo e le donne impegnate nei partiti politici islamici».

Il rapporto con gli indignati

Contraddizioni, cambiamenti, complessità. Di sicuro, però, nella mancanza di certezza sul futuro, emerge l’importanza del momento storico che vive la regione. Al punto da contagiare il mondo? Corm è possibilista: «Credo di sì, soprattutto all’inizio la spinta della sponda meridionale del Mediterraneo ha contagiato e affascinato l’Europa meridionale e i suoi movimenti chiamati Occupy e Indignados». «Sarei molto prudente nell’avallare una lettura analogica tra questi movimenti, che trovano espressione in un ambiente politico e in un contesto storico radicalmente diverso», ribatte Burgat. Per Badie, invece, non c’è dubbio: «Abbiamo assistito a un fenomeno davvero interessante. A Bologna ho trovato una manifestazione di ragazzi indignati chiamata piazza Tahrir. Questo è solo uno dei mille riferimenti ai moti dell’altra parte del Mediterraneo. Una contaminazione che denuncia la distanza sempre più grande tra le istanze sociali dei giovani nel mondo e la politica, una disaffezione per le istituzioni simbolo dell’ordine sociale, una lontananza tra chi decide e i cittadini. La stessa matrice delle rivolte arabe».

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▲foto André Liohn [prospekt]

Un soldato di Gheddafi mortalmente ferito viene arrestato a Sirte ▲▶foto Finbarr O’Reilly [reuters]

Veicoli distrutti dagli attacchi aerei delle forze occidentali nei pressi di Ajdabiyah


Giordania Il ruolo della monarchia ha un valore unico in Giordania, dove attorno alla famiglia reale si tiene la stessa unità nazionale del Paese. Per una decina di mesi, ogni venerdì, per le strade di Amman si sono tenute manifestazioni delle opposizioni, divise tra islamisti e progressisti. Re Abdallah II ha promesso riforme e licenziato il premier ritenuto troppo lento nell’applicarle. Il nuovo governo è composto da figure tecniche, con l’introduzione del ministero per gli Affari femminili. Le figure più controverse del passato, accusate di aver violato i diritti umani per anni, sono state allontanate, ma senza quell’apertura ai partiti religiosi che veniva chiesta al re.

Siria

Siria, le tre rivolte di Francesca

Borri

Un massacro che, nonostante l’arrivo degli osservatori delle Nazioni Unite, non finisce. Le truppe di Assad continuano ad assediare i quartieri delle città dove i ribelli sono più organizzati, mentre a Damasco e Aleppo la situazione sembra nelle mani del regime, salvo per alcuni attentati. Un quadro complesso, che attira gli interessi di molte potenze, regionali e non. Il mosaico etno-religioso siriano non lavora a favore dell’unità dell’opposizione, che il regime sembra poter controllare (anche grazie al sostengo di Iran, Russia e Cina) senza riuscire a fermarla del tutto.

Libano Dalla calma apparente di Damasco al deserto silenzioso, interrotto da folate di mitragliatrice, delle altre città. L’alternativa secca, pro o contro Bashar al-Assad, qui si frantuma: c’è l’insurrezione dei giovani umiliati dalla povertà in un Paese in cui o nasci nella famiglia giusta o non hai nulla, c’è il Consiglio nazionale siriano che riunisce i dissidenti e l’Esercito siriano libero. E la divisione dell’opposizione fa la forza del regime C’è sempre questo ragazzo, a un certo punto, che scala le spalle di un altro. Ha a stento vent’anni, è uno dei tanti in mezzo alla folla, fissa fermo i soldati, sventola la sua bandiera. Chiede le dimissioni di Assad. È una scena vista mille giorni in questi mesi, in mille piazze Tahrir. Dopo c’è il ragazzo che cade, all’improvviso, centrato da un proiettile. È il momento in cui l’esercito comincia a sparare a caso, i cecchini dai tetti: il sangue, la polvere, il momento in cui si comincia a morire. Ma nessuno arretra. «La prima volta che si scende in piazza, è ovvio, scappare è un istinto. Pensi: ma è la mia unica vita. Poi però capisci. È esattamente per questo: perché è la nostra unica vita».

Secondo l’Onu i morti sono quasi diecimila: eppure in Siria si entra così. In infradito, come questa ragazza olandese che fa la grafica in un’agenzia pubblicitaria. L’aria distratta da turisti, un pullman che parte da Beirut, un’ora e sette dollari. Perché la vita, qui, sembra la vita di sempre. Vicoli di limoni e gelsomini, caffè all’aperto, i piatti di rame da comprare, i mastri artigiani in botteghe come miniere. «In realtà questo è il momento migliore, per comprare una casa a Damasco. Stia tranquilla, non gliela bombarda nessuno. Non abbiamo mica il petrolio, qui». Ahmed vende antiquariato e, fra un tappeto e l’altro, fa il mediatore immobiliare. Mostra delle

Più che una primavera, in Libano, si è visto solo un pallido raggio di sole. Un anno e mezzo fa, per un paio di settimane, si sono tenute nel Paese manifestazioni che chiedevano la fine del settarismo, che dalla fine della guerra civile (1990) gestisce il Paese assegnando quote di potere a sciiti, sunniti e cristiani. Quel refolo di cambiamento è svanito presto, lasciando il posto all’ansia del Paese che segue gli sviluppi della situazione siriana con preoccupazione, considerata l’influenza di Damasco sulla politica libanese.


fotografie: una casa nel quartiere ebraico, le finestre ad arco, il cortile verde di rampicanti. Il proprietario è un alawita, la minoranza sciita cui appartiene la famiglia Assad che domina la Siria e la sua maggioranza sunnita. In tanti hanno già lasciato il Paese, convinti che la fine di Bashar sarà l’inizio di faide e ritorsioni. «Ma la crisi è ovunque: non ha senso protestare. Anche perché, diciamo la verità, questi ragazzi studiano cose strampalate, psicologia dell’olivo, scienza della gastronomia. Cose di cui nessuno ha bisogno. Invece di imparare l’aramaico, tutti vogliono diventare artisti e musicisti: imparino a restaurare questo capolavoro persiano, guardi qui, è mogano, guardi che intarsio. Guardi questa, tutta pietra, guardi queste piastrelle. Fine Settecento, che meraviglia», si appassiona Ahmed. Un altro alawita che ha lasciato tutto quel che aveva ed è corso via. «Che follia. Non guadagnerà mai abbastanza, nella sua nuova vita, da ricomprare una sola di queste piastrelle».

Sunniti contro alawiti?

A leggere i giornali, non sembra complicato. C’è il solito Paese del Medio Oriente con le frontiere tracciate a sciabolate dalle potenze coloniali, in questo caso la Francia, e il solito arzigogolo di minoranze etniche e religiose. In Siria la maggioranza è musulmana sunnita, ma le minoranze sono consistenti: quasi il 15 per cento gli alawiti, intorno al 10 per cento sia i cristiani sia i curdi e poi drusi, ismailiti, turcomanni, circassi. I soli cristiani, a loro volta, sono divisi in undici comunità. Dunque, è chiaro: la crisi economica, la disperazione dei tanti Mohamed Bouazizi finiti, con un dottorato in tasca, ad arrostire spiedini per strada, e pronti a incendiarsi.

Soprattutto: sunniti contro alawiti. Perché è la minoranza, qui, a governare. Furono i francesi a privilegiare gli alawiti, in nome del divide et impera. Da quando poi si sono insediati al potere gli Assad – Hafez nel 1970, con un colpo di Stato, suo figlio Bashar nel 2000, con la Siria trasformata in repubblica ereditaria – gli alawiti hanno occupato i principali ruoli politici ed economici e, soprattutto, militari. «Storicamente, per difendersi, le minoranze hanno preferito le aree interne, meno accessibili e quindi anche più povere. I sunniti, invece, i centri urbani. Quindi lo scontro non è tanto tra il cristiano e il musulmano, qui, ma più esattamente, tra il bracciante cristiano e il latifondista musulmano», spiega Ahmed. «Se ha voglia di capire questo Paese, lasci perdere i giornali. Lasci perdere la religione. Legga Marx». A leggere i giornali non sembra complicata perché pare che in Siria sia in corso una rivolta sola. Che l’alternativa sia secca: con Assad o contro. Invece le rivolte, qui sono tre. Quella, pacifica, delle mille manifestazioni quotidiane, dei “giovani”, parola che in realtà non ha molto senso, dal momento che la popolazione è per metà sotto i diciotto anni e lo stesso Bashar è diventato presidente a trentaquattro. La seconda, del Consiglio nazionale siriano, che riunisce i principali movimenti e dissidenti, spesso in esilio, ed è l’interlocutore ufficiale della comunità internazionale. E infine una terza, quella dell’Esercito siriano libero: i disertori delle truppe di Assad. Tre rivolte parallele. E come tutti riconoscono, è questo che fa la vera forza del regime: la frammentazione dell’opposizione.

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▲foto André Liohn [prospekt]

Gli insorti entrano a Sirte, ultima roccaforte delle truppe di Gheddafi, che verrà quasi completamente distrutta dalla battaglia ▲▶foto André Liohn [prospekt]

Un’ambulanza porta via dall’ospedale di Ras Lanuf il corpo di un ribelle morto durante i primi giorni di combattimento


«Bashar ha sbagliato. Quando quei bambini, a Daraa, hanno scritto quelle frasi contro il regime, certo, la reazione è stata eccessiva, torturare dei bambini. Ed è stata eccessiva la reazione a tutto quello che è venuto dopo. Ma Bashar, all’inizio, aveva intenzione di riformare profondamente la Siria». Tace ogni rumore, ogni disordine di strada nel soggiorno di Ra’ed a Damasco, le pareti ovattate di libri. Cattedra in filosofia, è stato uno dei protagonisti della primavera di Damasco, che qui, per tutti, è quella del 2000: quella di adesso, dipende da chi parla, è resistenza o terrorismo. «Allora furono mesi intensi. Intellettuali, registi, giornalisti. Giuristi. Abbiamo chiesto l’abolizione dello stato di emergenza, l’amnistia per i detenuti politici. Libertà di espressione e associazione e un diverso ruolo del Ba’ath, che oggi è il partito unico ed è davvero un anacronismo. Proposte concrete. Dettagliate, esito di ore e ore di discussione tra le migliori intelligenze di questo Paese. Proposte ancora valide. Mentre adesso in queste manifestazioni non trovo che frustrazione ed esasperazione. La democrazia, sa, ha la domanda facile e la risposta difficile. Senta: sarò scomodo. Ma prima degli Assad, qui, avevamo ogni mese un colpo di stato. Il problema non è Bashar, è la vecchia guardia di coloro che sono stati i più stretti consiglieri di suo padre e che sono ancora al governo. Ricorda John Locke? Niente legge, niente libertà».

I resti della battaglia

Ma, fuori da Damasco, la Siria è un panorama di città deserte, asfalto cosparso da bossoli, pietre, copertoni bruciati, avanzi di corteo e di battaglia. Sole e cemento e nel pomeriggio rovente, a tratti, folate di mitra-

gliatrice. «Forse non è chiaro. Nel 1999, al referendum per conferire ad Hafez un quinto mandato, votarono contro solo in 219. Elezioni farsa, insomma. Di cosa stiamo parlando? L’unica stabilità, qui, è quella della repressione. Il presidente è il comandante delle Forze armate, il segretario del Ba’ath e il capo dell’esecutivo. Nomina il vicepresidente, il primo ministro, il governo, i più alti funzionari civili e i più alti ufficiali militari. Nomina i giudici. L’unica vera legge, qui, è lo stato di emergenza. Consente l’arresto di chiunque sia sospettato di costituire un pericolo per l’ordine pubblico. L’unica regola, qui, è l’eccezione». Ha ventisette anni, Zaynab, è di Homs e, da febbraio, vive in uno scantinato sotto il tiro dell’artiglieria. Niente acqua né elettricità, diciassette persone, di cui tredici sotto gli otto anni. Uno è nato qui. «Mio padre, un avvocato, è sparito così: sono entrati nel suo studio, una mattina, io ero piccola. In Siria c’è un agente di polizia ogni 153 abitanti: di che cosa stiamo parlando? Veniamo processati in tribunali in cui fa prova anche il sentito dire. E l’unico tema lecito di discussione è l’economia. La prima reazione di Bashar alla rivolta è stata l’aumento degli stipendi. Come Gheddafi, quando promise ai libici l’auto nuova. È il modello Cina: il consenso in cambio di una lavatrice. E voi, in Occidente, credete che funzioni. Ma funziona perché in piazza Tien’anmen sono arrivati i carrarmati». «Non è vero che è merito di Facebook. Nei Paesi occidentali eravate tutti concentrati su bin Laden, ma gli ultimi anni, ovunque, sono stati anni di manifestazioni. Non avevo bisogno di Facebook: mia madre si è consumata di un cancro che era troppo costoso curare. Hai idea di cosa significa non avere neppure la

Arabia Saudita La minoranza sciita che popola la regione orientale del Paese ha dato vita a numerose proteste che la monarchia ha soffocato nel sangue. I media internazionali non hanno mai raccontato la ribellione, mentre la famiglia reale ha soffocato anche le opposizioni politiche, riducendo le pur minime aperture democratiche del passato.

Yemen Alì Abdullah Saleh, al potere dal 1990, ha abbandonato il Paese, protetto da Arabia Saudita e Stati Uniti. Le proteste di piazza, soffocate nel sangue per mesi, sono riprese perché la popolazione chiede che l’ex presidente venga processato in Yemen. Nessuno è intenzionato ad accontentarli, mentre il potere è gestito ancora da un uomo di fiducia di Saleh, in attesa della riforma costituzionale e di elezioni.


morfina?». Ha venticinque anni, Layla, e una laurea in biologia. Lavora in nero in un ristorante di Damasco, il suo stipendio è poco più di una cena per due. «Non siamo giovani e disoccupati: siamo giovani e umiliati. Infinitamente più competenti di chi governa questo Paese, ma senza alcuna possibilità di decidere, di votare, di cambiare. Non voglio un’auto nuova, voglio un pezzo di carne, ogni tanto. Perché sai cosa significa inginocchiarsi davanti a un medico, sapere che nella stanza accanto hanno tutto per salvare tua madre, e sentirsi chiedere mille dollari che non avrai mai? Tutto, qui, dipende dalla famiglia in cui sei nato. Stai dentro o stai fuori: e io sono nata fuori. Mio fratello è stato ucciso colpito da un proiettile al funerale di un altro mio fratello. La prima volta, è ovvio, è istinto. Pensi: ma è la mia unica vita. Poi però capisci. E perché è

esattamente per questo: perché è la nostra unica vita». La diffidenza che si respira in Siria non potrebbe essere più forte. Tra «quelli che credono di rovesciare Assad dai caffè di Parigi», per dirla con Zaynab, e «chi fa proposte vere, con realismo e lucidità», per dirla con Ra’ed. Ed è forte la diffidenza nei confronti dell’Esercito siriano libero. Ha le sue basi oltreconfine, in Turchia, e la sua identità, la sua strategia, i suoi obiettivi, i suoi finanziatori, soprattutto, non sono affatto chiari. Di certo, ci sono solo i suoi punti deboli. Non ha addestramento ed equipaggiamento a sufficienza per controllare il territorio e quindi si limita a incursioni e azioni di guerriglia. «Può impedire la stabilità, non garantirla», riassume un diplomatico europeo. Può prolungare la guerra: non fermarla. È questa, da oltre un anno ormai, la forza di Assad. Presentarsi come il solo garante della stabilità.

▲foto Eric Bouvet Dopo sei mesi di durissimo conflitto, i ribelli arrivano a Tripoli e conquistano il compound di Gheddafi a Bab-al-Aziziya foto Jehad Nga In chiusura, per le strade di Tripoli la fine del culto di Gheddafi


Oman Il più tranquillo dei Paesi della regione, con una popolazione ridotta, che beneficia della politica sociale del sultano Qaboos, è stato scosso da alcune proteste un anno e mezzo fa. Auto incendiate e qualche corteo per strada hanno rappresentato una novità assoluta per il Paese del Golfo. Il sultano ha risposto con delle leggere aperture democratiche dell’ordine istituzionale, senza usare la forza, e ottenendo un ridimensionamento delle polemiche.

Bahrein Nonostante un forte movimento di opposizione alla monarchia, represso nel sangue e con gravi violazioni dei diritti umani, la crisi del Bahrein non trova spazio sui media. La maggioranza della popolazione, sciita, manifesta da più di un anno per chiedere alla monarchia sunnita di riformare il regno e concedere pari opportunità a tutti i cittadini. L’emiro al-Khalifa ha promesso inchieste indipendenti sulle violenze della polizia e una parziale riforma dello Stato, ma allo stesso tempo accusa i dimostranti di essere al soldo di non meglio precisate potenze straniere.

Kuwait A novembre 2011 le tensioni tra l’opposizione e l’emiro al-Sabah sono sfociate nell’occupazione del Parlamento. L’emiro, congedato il premier e cambiato il governo, ha promesso riforme che non si vedono.

Emirati Arabi Uniti Come finirà?

Ma anche la paura, in realtà, in Siria, non è una sola. Othman è un generale dell’esercito. Un lealista. «In Occidente dite di sostenere la democrazia, ma poi siete alleati dell’Arabia Saudita, in cui alle donne è vietato persino guidare. Ai talebani non avevate niente da obiettare, quando erano una diga contro i sovietici. Tutto questo non è che un’operazione americana. Dall’inizio. Fomentare l’intolleranza, l’odio. Per frantumarci in tanti piccoli stati monoetnici e monoconfessionali, facili da controllare e depredare. Ma senza Bashar, sa come finisce, qui? Come in Libano. I miei uomini fronteggiano terroristi armati dall’estero. Altro che disertori: sono traditori. Combattono perché sono pagati per combattere. E se non finisce come in Libano, finisce come in Iran. Ha visto l’Egitto? Ha visto la Tunisia? Decine di manifestazioni, decine di morti e han-

no consegnato il potere ai Fratelli musulmani. E non stia lì a crederci: sono il Medioevo. La democrazia è laica o non è democrazia. In piazza Tahrir, le giornaliste vengono violentate. Nessuno nega che questo Paese abbia bisogno di riforme. Ma per migliorare un Paese, bisogna intanto essere padroni del proprio futuro. La priorità, adesso, è fermare l’aggressione straniera. Poi discuteremo di riforme. Non esiste democrazia senza sovranità. Altrimenti finisce come in Libia». L’opinione di Aisha, dall’altra parte della barricata, è opposta. «Dicono che finiremo come la Libia: ma sono i sostenitori di Assad e quelli che pensano possibile una soluzione di compromesso i venduti, non noi. Perché c’è anche un’altra guerra in corso, qui: una guerra per l’egemonia tra Iran e Arabia Saudita, tra sciiti e sunniti. Cosa credono, che non arriverà il momento, per tutti, di saldare

L’unico movimento degno di nota è quello di aprile 2011, quando i familiari di cinque attivisti democratici – sostenuti da Human Rights Watch – hanno manifestato per chiedere la liberazione dei loro congiunti. Non è accaduto nulla e nessuna altra protesta ha avuto luogo.


Qatar Molto resta ancora da capire delle rivolte arabe, ma di sicuro il Qatar è emerso come una nuova potenza regionale. Dall’invio di truppe in Libia fino alla posizione dominante nella Lega araba, il Qatar ha ottenuto molto dal cambio della guardia in tanti Paesi e il suo ruolo viene spesso paragonato a quello di al Jazeera, che ha sede proprio in Qatar, diventata il ripetitore mondiale delle rivolte.

Iraq Le tensioni tra sunniti e sciiti dopo la caduta di Saddam Hussein sono diventate più politiche che belliche, ma continuano a dividere il Paese. A ridosso delle manifestazioni in Tunisia ed Egitto, anche in Iraq si erano tenute manifestazioni per chiedere la fine del settarismo e un ricambio ai vertici del Paese. Tutti i leader della protesta sono stati arrestati e solo alcuni sono stati rilasciati, dopo pressioni di gruppi internazionali che si battono per i diritti umani.

il debito per il sostegno ricevuto? E poi l’Iran e questa storia del fondamentalismo: il Corano non prescrive uno Stato islamico, ma ti spiega che essere musulmani significa eguaglianza e giustizia. Il nemico, allora, è il Fondo monetario, non il vino e il sesso prima del matrimonio, è il protezionismo agricolo dell’Unione europea, è questa economia sottratta alla politica. Eguaglianza e giustizia significa avere un lavoro, non qualcuno che in moschea ti elemosina pane e riso. Magari l’islam fosse la soluzione. Parlate di primavera araba: ma io vedo ragazzi in piazza in Spagna, in Grecia, in Cile. Davanti a Wall Street. Ragazzi che incendiano Londra e Roma. Non voglio la fatwa di un religioso, ma neppure la fatwa di un’agenzia di rating. Ed è inutile, onestamente, anche che ripetano che finiremo come il Libano: io sono sunnita, Zaynab e Layla alawite. E questo non ci impedisce di essere qui insieme. Perché l’alawismo è islam sciita, con alcuni riti pagani e cristiani: ma soprattutto, è un culto tramandato solo ai figli maschi. Quindi la verità è che quando tutti sono siriani, tu sei l’alawita. Ma quando tutti sono alawiti, tu sei il disoccupato. Il povero, il malato. Quando tutti sono uomini, tu sei la donna».

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La fuga verso il Libano

A capire neppure aiuta guardare al Jazeera. Il capo dell’ufficio di Beirut, Hassan Shaaban, si è dimesso, sostiene che la tv è diventata uno strumento della politica estera del Qatar, alleato dell’Arabia Saudita e quindi martella sulla Siria, ma ignora il Bahrein, in cui è l’Arabia Saudita ad avere il ruolo di Assad. Perché anche la primavera araba, in realtà, vissuta da qui, è al plurale: tante primavere arabe. Intanto a Nord, alla frontiera con il Libano, arrivano ogni notte a decine i profughi, impolverati e disperati, in fuga dal mattatoio di Assad. Arrivano letteralmente senza niente. Mentre in televisione il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, assicura che il mondo non tentenna e non ha altri interessi, in Siria, se non la tutela dei diritti umani, Aso, che ha diciannove anni, commenta sarcastico: «Tentiamo il possibile. Ma è quello che può fare un panettiere con un kalashnikov che non ha mai usato prima. Gli Stati Uniti, le Nazioni Unite... ero convinto che in un paio di mesi tutto sarebbe finito. Ora non so più. Una settimana fa, a Homs, quelli di Assad si divertivano a sparare agli asini. Hanno ucciso decine di asini. Scrivi questo. Sono sicuro che gli animalisti insorgeranno, negli Stati Uniti, e costringeranno la Nato a intervenire». Non è difficile riconoscere i siriani in giro per Tripoli: in molti hanno un cerotto sul braccio. Per sfamarsi, si vendono il sangue.

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e

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Cessate il fuoco a cura di

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Lorenzo Bagnoli

Messico Colombia

Cessate il fuoco è l’osservatorio mensile delle vittime dei conflitti nel mondo. I dati, che si riferiscono al periodo dal primo aprile al 3 maggio, vengono raccolti da organizzazioni umanitarie o da fonti giornalistiche e quindi non potranno essere esaustivi.

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Le notizie sui conflitti in tempo reale su: www.eilmensile.it

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Messico

Il 2 maggio dodici persone sono morte in uno scontro a fuoco tra narcos ed esercito in un albergo del municipio di Guasave, nello Stato di Sinaloa. Tra le vittime, due sono soldati, gli altri sono membri dell’organizzazione criminale. Fonti militari hanno confermato che s’è trattato di un’imboscata di sicari legati al cartello dei Beltrán Leyva, un gruppo che contende ai narcos di El Chapo Guzmán la supremazia nello Stato di Sinaloa. Le forze armate stavano pattugliando la zona dopo che alcuni cittadini hanno segnalato loro la presenza di uomini armati nell’hotel. I sicari si erano barricati nelle camere, da dove hanno cominciato a sparare sui militari.

Afghanistan

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Alle sei del mattino del 2 maggio un’autobomba è esplosa nella periferia est di Kabul uccidendo sette persone e ferendone altre 17. L’attentato suicida è stato rivendicato dai talebani in risposta all’accordo siglato dal presidente afgano, Hamid Karzai, e quello statunitense, Barack Obama. Il documento stabilisce il ruolo di Washington dopo il ritiro delle truppe, previsto nel 2014. La visita di Obama ha avuto luogo un anno dopo l’uccisione di Osama bin Laden ad Abbottabad, in Pakistan.

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Egitto

Trenta sostenitori del candidato salafita Hazem Salah Abu Ismail sono stati uccisi da militanti del gruppo armato Baltajiya. Le vittime si trovavano nel quartiere Abbasiya, al Cairo, dove lo scorso 2 maggio era in programma un sit in di protesta davanti al ministero della Difesa egiziano. Gli uomini del Baltajiya, appostati sui tetti dei palazzi attorno, hanno aggredito i manifestanti salafiti lanciando bombe molotov. L’agguato è poi proseguito con l’irruzione negli ospedali in cui sono stati ricoverati i feriti. Testimoni oculari hanno messo sotto accusa il Baltajiya anche per gli scontri dello scorso febbraio allo stadio di Port Said, costati la vita a 79 persone. L’ex presidente Hosni Mubarak, durante il suo governo, ha più volte ingaggiato il gruppo armato per sedare le contestazioni con la forza.

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Sudan

Una madre è morta insieme ai suoi due figli sotto le bombe dell’esercito sudanese nello Stato del Kordofan meridionale. L’operazione dell’aeronautica di Khartoum, avvenuta il primo maggio, aveva come obiettivo il Movimento armato per la liberazione del popolo sudanese-Nord (Splm-n), milizia attiva sulla frontiera tra il Sud Kordofan (Sudan) e lo Unity State (Sud Sudan). Il gruppo armato ha smentito di essere sostenuto dal governo di Juba per destabilizzare l’area. L’escalation di violenza al confine tra i due Sudan è cominciata dopo l’assedio di Heglig, importante centro petrolifero del Kordofan meridionale. La città è stata presa da guerriglieri ostili al governo di Omar al Bashir il 12 aprile. Da allora, secondo l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, sono almeno 35mila i profughi che hanno lasciato il Sudan.


Cassata e pastiera di

Claudio Sanfilippo

illustrazioni

Serena Viola

Claudio Sanfilippo Claudio Sanfilippo, cantautore e scrittore, ha pubblicato gli album Stile libero (Targa Tenco 1996), Isole nella corrente, Appunti di viaggio, I paroll che fann volà, Fotosensibile. Ha scritto per Mina, Finardi, Bertoli, Cristiano de Andrè e altri. In ambito narrativo ha pubblicato Allo specchio (Arcana), la plaquette di poesia Nel sangh che rüsa’l vent e il più recente Fedeli a San Siro (Mondadori), scritto con Tiziano Marelli. Nel 2012 uscirà un nuovo album, Avevamo un appuntamento, con alcune canzoni inedite e le poesie di Filippo Davòli lette da Neri Marcorè. www.claudiosanfilippo.it

Serena Viola Illustratrice, artista e designer, vive e lavora a Milano. Ha vinto un Award dell’illustrazione italiana, ha esposto alla Galleria Cavaciuti di Milano, alla Biblioteca della moda e in diverse mostre internazionali di illustrazione. Alcune delle sue opere sono alla Fondazione Carlo Besta di Milano, altre sono state selezionate dall’Annual Illustrazione Italiana negli anni compresi tra il 2007 e il 2012. Ha collaborato con le più importanti agenzie realizzando opere per brand internazionali. www.serenaviola.it

……. quella erre da ufficiale di marina, gorgogliata ignota alla scrittura, la erre di Renato, vecchio magrone napoletano di costiera ……. A nove anni gli portarono via il padre, in un cortile di Portici e lui a ringhiera col cuore schiacciato nel ferro a guardare sua madre che gridava di lasciarlo andare che lui non c’entrava niente, non era partigiano, intanto che correva verso il camion dei tedeschi col cane che abbaiava, il piccolo cane di Renato, poco prima della cena. La secca mitragliata pose fine e silenzio, e il padre fu portato via. Renato, quella tua erre che sgarrula i motivetti americani dei Quaranta come ha potuto resistere se non per un’azzurra porta di cielo inchiodata allo scialle di lei, uno scialle leggero ……. (Al compagno di stanza)

Non aveva avuto il coraggio di lasciare la poesia sul comodino. L’aveva scritta di getto, come se stesse parlando, o pisciando. In fondo la poesia altro non è che questo, una cosa che sgorga, uno sbocco, una precipitazione. Lo pensava mentre stava in piedi davanti all’orinatoio del reparto di ortopedia, con la bottega del pigiama aperta, le grucce appoggiate al lavandino. Erano diventati amici tra le mura scrostate di un vecchio ospedale, che fortuna essere capitati insieme in quella stanza, il tempo da trascorrere in quel posto non sarebbe stato breve per nessuno dei due. L’intervento che dovevano affrontare era il medesimo, solo che Renato aveva settant’anni e Roberto venticinque di meno, di solito quell’operazione si rendeva necessaria in età avanzata tranne che nei casi come quello di Roberto, che alla fine si era arreso al dolore, l’anca non riusciva più a trasportare il suo quintale. Nonostante l’artrosi Renato era riuscito a mantenere una postura aristocratica: alto, dalle movenze eleganti, con un modo nobile di porgere la fisicità che non lasciava dubbi sulle sue ascendenze.

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Cassata e pastiera

Ma non era così. Renato era di origini umili, lo stile non era figlio della sua educazione, né – tanto meno – delle sue frequentazioni. Era così e basta, un dono di leggerezza innata. Roberto aveva visto male, questa volta non ci aveva azzeccato, lui così sensibile ai segreti celati nei gesti, una qualità (e un vizio) che lo accompagnava sin da bambino. Di solito non sbagliava. Quella volta invece il suo sesto senso aveva preso un abbaglio, lui pensava che Renato fosse un borghese di alto lignaggio caduto in disgrazia, che aveva preservato le sue attitudini gestuali senza più la possibilità di permettersi un ricovero adeguato al proprio status. Invece Renato, davanti a una minestra esangue con rari pezzi di verdura che galleggiavano in un liquido molto simile all’acqua, gli raccontò una storia di quando era bambino, e tutto fu chiaro. Una storia terribile. Dopo l’8 settembre del 1943 l’esercito nazista prese il controllo della città di Napoli, e furono giornate durissime, il 12 settembre venne proclamato lo stato d’assedio e il coprifuoco, che un paio di settimane più tardi avrebbe innescato una rivolta spontanea che nei libri di storia si ricorda come “le quattro giornate di Napoli”. In quei giorni l’esercito tedesco perse il controllo delle proprie azioni, saccheggiando e terrorizzando la popolazione. Renato aveva nove anni ed era figlio unico, stava in casa con il suo piccolo cane e sua madre che stava preparando la cena, il babbo sarebbe rientrato a minuti dall’ennesima giornata in cerca di qualcosa che potesse mettere insieme il pranzo con la cena del giorno dopo. Erano tempi grami, ogni giornata era materia da inventare. Questo accadeva a Portici, in una piccola casa di ringhiera. Renato raccontava che il cane cominciò ad abbaiare e uscì sul ballatoio, continuando a ringhiare in direzione del portone. Dal passo carraio giungevano le voci secche e concitate dei soldati tedeschi, pochi minuti prima una camionetta nazista aveva parcheggiato in cortile, ma fino a quel momento senza rivelare intenzioni bellicose. E poi perché mai avrebbero dovuto averne – si diceva Renato – in quella casa di corte abitava povera gente, nessuno aveva voglia di attaccar briga, tutti sognavano il pane, la fine della guerra, la pace. Ma il cane non smetteva di abbaiare, e così con sua madre uscì sul ballatoio: i soldati tedeschi tenevano a tiro di fucile suo padre, che ciondolava atterrito, bloccato da due soldati che lo trascinavano per le spalle verso la camionetta. Sua madre cominciò a gridare: «Francesco, France’! Che è successo France’!». Ma suo padre non riusciva nemmeno a voltarsi verso di lei, muoveva le labbra e le parole si perdevano tra le urla dei soldati, che sembravano decisi a caricarlo sulla camionetta. Renato rimase impietrito a guardare sua madre che scendeva giù per le scale di corsa, col cane appresso: «Lasciatelo andare, mio marito non ha fatto niente, lasciatelo, non è della Resistenza, vi prego, lasciatelo andare!». E mentre urlava, disperata, avanzava verso Francesco che le gridava di stare ferma, di non muoversi, adesso poteva sentirlo ma non c’era niente da fare, non si sarebbe fermata. Quando fu a pochi passi da lui un soldato spianò il mitra, una raffica secca, improvvisa, e sua madre si afflosciò senza emettere un grido. Suo padre no, suo padre gridava «Rosa», straziato, ma fu trascinato subito sulla camionetta, e Renato non lo vide mai più. Restò paralizzato a guardare sua madre che giaceva inerme, con una gamba piegata e una distesa, la testa girata verso di lui con i capelli che le coprivano il viso. La ringhiera si era riempita di gente, tra le preghiere sommesse, il pianto, i segni della croce e il suo compagno di giochi che non sapeva se gridare o abbassare lo sguardo; una vicina di casa lo abbracciò, gli mise una mano sugli occhi. L’ultima cosa che gli rimase impressa, mi diceva Renato mentre rimestava una zucchina nel similbrodo, fu lo scialle di tessuto azzurro sulle spalle di lei, uno scialle leggero, che si era inzuppato di sangue in pochi secondi. Restò solo col suo cane. La sera stessa


andò a vivere con la zia, la sorella di sua madre, insieme allo zio e alle tre cuginette. Aveva perso i suoi genitori in un incubo dal quale per molto tempo avrebbe sperato di svegliarsi per capire che tutto era tornato come prima, con suo padre che fischiettava mentre saliva le scale, e il profumo del pomodoro che si restringeva sul fornello mentre sua madre mondava le foglie di basilico. Invece dovette trovare la forza per nascondere quei fotogrammi da qualche parte dentro di sé, preservando i ricordi belli in una zona più accessibile, così che potessero traboccare in lui quando ne avesse avuto bisogno, nei momenti di malo tempo. «Hai capito che è successo, caro Roberto?». Gli si era piantato una specie di chiodo nella gola, la tranquillità con la quale Renato aveva raccontato il suo inferno gli aveva permesso di seguire l’evento come se avesse davanti le immagini di un film. Ma non aveva impedito al suo organo vitale di sobbalzare al pensiero di un ragazzino di nove anni che vede l’assassinio di sua madre e la scomparsa di suo padre in pochi istanti, davanti alla porta di casa. Avrà dovuto zavorrare l’anima, per non volare via anche lui. «Ma cosa mi racconti, Renato?». «Eh, mio caro, ti racconto quello che è stato, è andata così. Ma ero piccolo, e meno male che ero un ragazzino con la testa sulla spalle. Non c’è un carico che non si possa sopportare, amico mio, e i bambini hanno una forza speciale, il futuro li chiama, ogni giorno che viene c’è una sete da placare, e qualcosa di nuovo da imparare. Il movimento delle cose aiuta il cervello. E poi sono stato fortunato, mia zia è stata come una mamma, ’na santa donna». Il ferroviere Renato, che inizia giovane a fare il controllore e poi, piano piano, diventa un impiegato di prima categoria. Il suo orgoglio. Da come si muoveva, e per via di quegli occhi azzurrissimi, Roberto aveva pure scommesso su una vita passata in mare. Lo immaginava vestito da ufficiale di Marina, sul ponte della nave con un fascio di carte nautiche sottobraccio mentre camminava verso la sala comandi col cappello, le mostrine, la camicia con le spalline. Si era sbagliato due volte. Così, con la prospettiva di almeno tre settimane di forzata convivenza, da quel racconto di sangue e dolore ci fu l’abbrivio dell’amicizia e per altre storie, scandita da tutt’altre vicissitudini: il caffè al distributore automatico, la scopa, la passeggiata nel cortile per una sigaretta (anche se Renato aveva smesso di fumare qualche anno prima), le chiacchiere torpide nel primo pomeriggio. Aveva una moglie umbra, Natalina, che aveva conosciuto a Roma, dove si era stabilito per un breve periodo quando aveva una trentina d’anni. Da tempo vivevano a Pavia, dove aveva accettato di trasferirsi per ragioni di carriera. A Napoli ci tornava raramente, ma non mancava mai le vacanze a Positano, suo luogo d’elezione. Quell’anno non ce l’avrebbe fatta, il recupero dall’intervento sarebbe stato faticoso, e Positano è luogo impervio, di scalinate e mare di scoglio, poco adatto alla rieducazione di una protesi dell’anca. Non avrebbe abdicato per una meta di spiagge dozzinali: o Positano, o niente. Il fatto che Roberto provenisse da una stirpe di pasticceri di prevalenza siciliana (ma anche nella sua parte lombarda c’erano tracce di offelleria, come si dice in milanese) procurava a Renato la fregola di mettere a confronto le tradizioni campane e siciliane. Era uno dei loro giochi preferiti, un tormentone al quale non sapevano rinunciare, bastava che in un qualsiasi momento della giornata, di solito quando sopraggiungeva il languore di metà pomeriggio accompagnato dalla noia sottile che si vive negli ospedali, uno dei due accendesse la miccia. «Certo che una bella fetta di cassata...». «Troppo pesante, buona ma troppo pesante, vuoi mettere con una fetta di pastiera? N’altra cosa». «La cassata sarà pure più pesante, ma con lei la papilla gorgheggia, caro il mio Renato, al primo boccone ti conquista». «Eh si, la papilla ti gorgheggia, ma a me la cassata mi pare troppo dolce, squisita, non


Cassata e pastiera

si discute, ma io mi tengo la pastiera. Una volta me la facevo spedire da Scaturchio, per le feste di Pasqua, ma da qualche anno mia moglie la fa pure più buona». «Anche la cassata è un dolce pasquale, stasera dico a mio padre di portarmela, in questa stagione dovrebbe essere ancora in produzione». «Allora io faccio portare la pastiera da Natalina, e facciamo il confronto, e vediamo chi ha ragione». La data fissata era il lunedì seguente. Avevano evitato di organizzare l’evento durante il fine settimana, troppa gente, il match doveva svolgersi con la dovuta tranquillità, volevano cavarsi la voglia senza l’obbligo di dividere la posta con amici e parenti. Certo, entrambi convenivano che si trattava di due giganti della pasticceria mediterranea. La cassata è un dolce di origina araba, e i più ne accreditano il significato lessicale nella definizione di “torta di cacio”. Gli anglosassoni direbbero cheesecake, ma qui stiamo all’Università, mica all’asilo. La pastiera invece ha origini autoctone, lontane e indecifrabili, la leggenda vuole che la sirena Partenope emergesse ogni primavera per salutare le genti del Golfo, ricevendo in dono gli ingredienti che poi gli dèi in persona ebbero il genio di trasformare nella prima pastiera che le voci del passato riportano. Gli ingredienti di base della cassata sono il pan di Spagna, la pasta di mandorle, la ricotta di pecora, la frutta candita, la vaniglia. Quelli della pastiera sono la pasta frolla, il grano cotto, la ricotta di pecora, la frutta candita, l’acqua di fiori d’arancio. Pare che la cassata, come la pastiera, abbia iniziato la sua storia con l’involucro di pasta frolla, ma nel periodo normanno i monaci del convento di Martora si inventarono la pasta reale, detta anche martorana, che la sostituì. Da lì le differenze tra i due dolci diventano decisive, perché nella cassata tutto viene composto a freddo. Torte pasquali, torte di resurrezione. Ne avevano bisogno. Il confronto non spostò di molto le loro convinzioni, ma la pastiera di Natalina era eccellente. Lei, che era nata e cresciuta in Umbria, come spesso accade nei matrimoni meticci, aveva imparato le ricette della tradizione napoletana, spesso superando i suoi maestri, che poi erano le zie e le cugine di Renato. Anche la madre milanese di Roberto aveva appreso un sacco di ricette siciliane, la sua pasta alla Norma, la caponata, non avevano nulla da invidiare alle versioni originali delle zie di Catania. «Eh, vedi che fortuna, questa è una fortuna, caro Robbe’». La fortuna. Bisognerebbe essere tutti come Renato, che a ogni cosa attribuisce un valore nel tempo vivente del sentimento, e chiama la fortuna per un sacco di cose che quasi non si vedono. È un rabdomante di bontà, e non lo sa. Oggi pomeriggio mi dimettono, e non trovo il coraggio di lasciare la poesia sul suo comodino. Non lo trovo, e non so perché. Forse non ho voglia di vederlo commosso, adesso non può muoversi dal letto, mi pare troppo. Potrei chiamarmi vigliacco ma in casi come questo è meglio non sapere, è sempre meglio non sapere.

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Teatro

Il passaporto di Tonolo di Carlo

di

Boccadoro

Il sassofonista veneziano Pietro Tonolo è da molti anni uno dei protagonisti assoluti della scena jazzistica internazionale, molto attivo sia in Europa sia negli Stati Uniti (è stato anche membro della band del compianto Paul Motian) e con un’ampia discografia a suo nome che si è sempre distinta nel tempo per la qualità e l’originalità dei progetti, evitando sistematicamente i luoghi comuni e le banalità che purtroppo affliggono un gran numero di dischi prodotti dai jazzisti nostrani. Questo recente Passport non fa eccezione e riunisce, insieme a Tonolo, ben due batteristi, entrambi grandissimi, Joe Chambers e Jorge Rossy. Il primo non ha certo bisogno di presentazioni, autore di centinaia di incisioni mitiche a fianco di Herbie Hancock, Wayne Shorter, Bobby Hutcherson (l’elenco intero sarebbe troppo lungo), mentre il secondo è uno dei migliori batteristi della generazione più recente, per anni al fianco di Brad Meldhau. Tutti e due suonano vari strumenti; Chambers cesella frasi eleganti al vibrafono e Rossy si dimostra pianista sensibile e fantasioso. Il solidissimo basso di Arnie Somogy, completa il quadro e Tonolo ha così modo di sviluppare assoli di qualità armonica e melodica superlativa, sempre magnificamente strutturati, su partiture di autori molto diversi, da Shorter a George Cables, da Kurt Weill agli stessi componenti del gruppo. Nonostante la ritmica doppia, la musica è tutt’altro che fracassona: atmosfere raffinatissime e spesso rarefatte, grande sensibilità d’ascolto da parte dei musicisti e un ricco ventaglio di idee giocate sul filo di una continua tensione improvvisativa rendono questo album un’autentica gioia per l’ascoltatore. Pietro Tonolo, Passport, Parco della Musica/Egea Mpr, 20 euro

Simona Spaventa

Estate di scontento, quella dei festival di teatro in tempi di tagli spietati alla cultura. E se, mentre scriviamo, già si registra la cancellazione o, nel migliore dei casi, lo slittamento in autunno di Primavera dei Teatri, il festival di Castrovillari, eccellenza e baluardo della scena di ricerca in terra di Calabria, e con la stagione festivaliera alle porte non si hanno ancora notizie certe di altre rassegne storiche, altre realtà resistono e viaggiano, per fortuna, su binari più sicuri. È il caso del Festival delle Colline Torinesi, che per l’edizione numero 17 – dal 5 al 26 giugno fra Torino e dintorni – riflette proprio sulle incertezze nel ricambio generazionale e sul rapporto tra padri e figli in epoca di crisi. Lo fanno Spiro Scimone e Francesco Sframeli, folgorante coppia del teatro siciliano che al festival presenta in prima assoluta Giù, nuovo spettacolo che arriva a tre anni dal precedente Pali, premio Ubu 2009. Un teatro, il loro, di sapore beckettiano per linguaggio e situazioni, amatissimo Oltralpe, enigmatico e surreale, che indaga con umorismo spiazzante sempre in bilico sulla tragedia le inquietudini del nostro tempo. Qui, un Figlio sbuca fuori dal cesso per gridare il proprio malessere a un Papà che cercherà invano di tirarlo fuori e scoprirà che nella fogna ci sono finiti in tanti, sprofondati nel marciume di una società che umilia la dignità e cancella il futuro degli individui. Un passaggio generazionale di cui far tesoro è invece quello da ascoltare nelle parole di Judith Malina, leggendaria attrice e regista del Living Theatre che, a 86 anni, racconta un teatro che era azione militante, tra spettacoli contro la guerra in Vietnam e blitz pacifisti, in The plot is the Revolution dei Motus, altra punta di diamante di un cartellone dove compaiono anche Ricci/Forte, Socìetas Raffaello Sanzio, Saverio La Ruina e giovani emergenti come Muta Imago e Zaches Teatro. Festival delle Colline Torinesi, Torino, dal 5 al 26 giugno

Luigi Angelucci

Musica

Domani

Il gioco delle generazioni


DocumentarIo Cinema

La società degli abissi di Barbara

Sorrentini

Non sono disegni animati le varie specie marine che si vedono in Oceans. Tra pesci, molluschi, mammiferi, anfibi, vertebrati e invertebrati si assiste alla vita subacquea di razze mai viste, che assomigliano talvolta a gormiti, altre a ninfee giganti, oppure a pipistrelli e a bestie dai volti buffi o spaventosi. Questo strabiliante spettacolo, tinteggiato di tutte le gradazioni del blu e dell’argento, è opera di Jacques Perrin e Jacques Cluzaud, con l’accompagnamento musicale più che suggestivo di Bruno Coulais. È la stessa squadra che ha prodotto Il popolo migratore, appostandosi per giorni e giorni, in attesa di vedere passare gli stormi più rari nei cieli. Se possibile, qui deve essere stato ancor più complicato, perché gli autori sono andati alla ricerca delle “società” che abitano gli abissi marini. Doppiato nella versione italiana da Neri Marcorè, il 5 giugno, Giornata mondiale dell’Ambiente, La vita negli oceani sarà il film di chiusura del quindicesimo Festival CinemAmbiente di Torino. Da sempre sensibile all’ecosistema, a partire dal 31 maggio il festival raccoglie, a Torino, un centinaio di pellicole tra film, documentari e cortometraggi in concorso, più i consueti focus tematici, le retrospettive e la sezione Ecokids dedicata ai più piccoli. La sezione Panorama si concentra sul cibo e su come le abitudini alimentari si ripercuotano sull’ambiente. Un’anteprima prestigiosa e difficile da ritrovare in Italia è il documentario The Big Fix di Joshua e Rebecca Tickell, prodotto da Tim Robbins e Peter Fonda, che denuncia i traffici, le connivenze e le bugie che stanno dietro al disastro ambientale provocato da una falla in una pipeline della British Petroleum, al largo del golfo del Messico nel 2010. Come sempre, grande attenzione per il nucleare: questa volta con un documentario italiano, Scorie in libertà, di Gianfranco Pannone, che indaga sulla gestione imprudente delle scorie nucleari prodotte dalla centrale un tempo attiva a Latina. Infine, fra le tante curiosità di questa edizione, va segnalata l’anteprima del film La sete del mondo di Yann Arthus-Bertrand, fotografo e regista specializzato in biodiversità, natura e bellezza terrestre catturata con immagini aeree mozzafiato.

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Festival CinemAmbiente, Torino, dal 31 maggio al 5 giugno

Il tesoro dei Bielutine di

Matteo Scanni

Ely e Nina Bielutine custodiscono una delle più importanti e misteriose collezioni d’arte al mondo. Da trent’anni vivono circondati da gatti e corvi in un appartamento al centro di Mosca, dove invecchiano serenamente discutendo a lume di candela di pittura e della natura dell’uomo, chiusi in un mondo di vagheggiamenti sempre più distanti dalla realtà. Bellezza e decadenza sono tema ricorrente delle meditazioni della coppia. Alle pareti, le tele di Leonardo, Rubens, Velázquez, Tiziano, El Greco e Michelangelo: una raccolta impressionante di opere messe insieme dalla famiglia Bielutine nell’arco di generazioni e completamente sconosciuta al pubblico delle mostre come agli studiosi del Rinascimento. Ely, nato nel 1925 in una famiglia di pittori, scrittori e musicisti di origine italiana, è stato una delle figure chiave dell’arte sovietica, uno dei primi esponenti dell’astrattismo russo. Ma il suo stile, così lontano dal realismo socialista, gli costa presto l’espulsione dal Paese, finché nel 1969 non viene dichiarato nemico dell’Unione Sovietica insieme a Aleksandr Solženicyn. La collezione raccolta nel modesto appartamento sulla Prospettiva Nikitsky è il grido di libertà di un uomo che ha dedicato la vita all’arte ed è stato ricambiato con la persecuzione e la pubblica ammenda. Dopo essere stato presentato nel 2011 alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes ed essere passato senza eccessiva fortuna per una manciata di festival minori, Bielutine, le mystère d’une collection sbarca ora sul web grazie alla coproduzione di Seppia, Arte e l’Express, in una nuova edizione arricchita di contenuti interattivi e approfondimenti sull’incredibile storia della raccolta d’arte Bielutine. Video, fotografie, interviste a curatori d’arte, ma anche un sano lavoro di indagine giornalistica, riportano alla luce un tesoro nascosto che ora, con la morte di Ely, sarà compito dell’umanità tutelare. Bielutine, le mystère d’une collection, di Clément Cogitore, prodotto da Seppia - Cédric Bonin e Pascaline Geoffroy, http://bielutine.arte.tv/fr/


Arte

Design

Anne Marchand [collezione frac des pays de la loire, carquefou, francia]

Laboratorio rivoluzionario di Claudia

Gina Pane, Situation idéale: terre – artiste – ciel, 1969, fotografia a colori fissata su legno dipinto, 51,8 x 68 cm

Al Mart per la body art di Vito

Calabretta

Il Mart, Museo di Arte moderna di Rovereto e Trento, ha un’architettura altezzosa e potenzialmente respingente, nonostante la struttura abbia una forma circolare, come per avvolgere il pubblico. È firmata dallo svizzero Mario Botta e risente, come molti musei progettati ultimamente, della volontà di essere riconoscibile prima che funzionale, riconducibile al segno e al nome del suo “autore” piuttosto che fruibile. Una volta entrati, però, si resta colpiti dalla generosità della proposta. Vi è innanzitutto una collezione importante di arte del Novecento, che viene esposta a rotazione; la programmazione delle mostre, poi, mira a coltivare progetti scientificamente interessanti e a coinvolgere il pubblico. Mostre dedicate a singoli artisti si affiancano ad altre organizzate intorno a temi che valicano i confini del mondo dell’arte (la montagna, il teatro, la Guerra fredda, la parola). In questo periodo sono in corso quattro mostre: una dedicata al modo in cui il personaggio di Alice di Lewis Carroll è stato utilizzato nel mondo delle arti; la seconda al tema del postmodernismo, con opere d’arte, oggetti di design, film e altri materiali; la terza al periodo americano dell’importante pittore italiano Afro Basaldella e poi vi è una grande mostra monografica, la prima, dedicata a Gina Pane, importante esponente della body art. Gina Pane, morta a Parigi nel 1990, ha infatti lasciato un segno molto forte nella storia dell’arte per l’uso che ha fatto del proprio corpo, oggetto di interventi scioccanti, in presenza del pubblico e che oggi vediamo attraverso una serie di documenti fotografici. «La sofferenza fisica non è solo un problema personale ma è un problema di linguaggio. Il corpo diventa l’idea stessa, mentre prima era solo un trasmettitore di idee. C’è tutto un ampio territorio da investigare», diceva l’artista. A Rovereto, questa parte del suo lavoro viene presentata come iscritta in un coerente percorso che indaga il paesaggio, l’azione della persona, la conoscenza di sé e la relazione tra corpo e paesaggio. Vediamo quando Pane sposta alcuni sassi dall’ombra al sole (azione che compieva negli anni Sessanta) o quando, in una fase successiva, ricostruisce, con assemblaggi ermetici, il corpo dei santi della nostra civiltà. Mart, Museo di Arte moderna di Rovereto e Trento, Rovereto, www.mart.tn.it Alice in Wonderland, fino al 3 giugno Postmodernismo Stile e Sovversione 1970-1990, fino al 3 giugno Afro. Il periodo americano, fino all‘8 luglio Gina Pane (1939 - 1990): “È per amore vostro: l‘altro”, fino all‘8 luglio

Barana

L’idea è molto semplice: creare un ponte fra talenti, industria e pubblico. Ad!dict Lab è un laboratorio creativo globale, una piattaforma culturale bottom-up, autogestita, aperta a creativi di tutte le discipline e culture, con lo scopo di mettere in contatto chi ha idee con chi può realizzarle e promuoverle. L’obiettivo è quello di condividere idee con persone che hanno competenze diverse ma utili alla realizzazione del progetto, come spiega l’interpretazione grafica della tavola periodica di Mendeleev. Al posto dei numeri atomici degli elementi, le discipline e le aree alle quali si interessano i Labmember, gli iscritti a questa community che vive di brainstorming. Si va dall’architettura alla musica, passando per social media, sport, televisione, senza dimenticare il quadratino per i tattoo. Un segno grafico forte che evidenzia l’importanza della collaborazione tra le diverse discipline, proprio come i diversi elementi uniti creano il mondo. Le idee si concretizzano sotto diversi formati: dalla stampa (libri Ad!dict e Labfilesmagazines) alle mostre e workshop. Aziende e organizzazioni possono attingere a questi laboratori attraverso una preliminare selezione, realizzata da uno specifico team. Il sito Ad!dict Lab offre diversi pacchetti, tra i quali le sessioni di brainstorming, Creative X RayTM, in cui una selezione di Labmember si incontra per riflettere su un progetto presentato. Tra i più recenti ambiti di ricerca, il Touristlab e il Geobranding per l’industria del turismo; l’Urban Green Lab per rendere più verde o sostenibili le città; l’Advertising lab per nuove formule pubblicitarie e, infine, il Kids Lab che organizza idee per e insieme ai bambini. Una formula che sembra capace di mettere in moto nuove imprenditorialità visto che ci si sono gettati dentro già in 44mila – persone registrate – per oltre diecimila concept caricati sul sito. Ad!Dict Lab, www.addiclab.com


Rete

Il nemico ti ascolta

Libri

di Arturo

Orfani in viaggio di

Alessandra Bonetti

È come essere orfani. Oltre ai soldi, la crisi si è portata via anche le speranze, la leadership e le ideologie per far fronte al futuro. Il primo impulso di chi è stato abbandonato, è tagliare netto con tutte le memorie dell’infanzia, cosa che, per Kate e James, la rutilante coppia de Il mulo di Tony D’Souza, significa dire addio ai party, ai soldi e alla carriera nella godereccia Austin pre-crisi: «La storia della nostra partenza non è tanto diversa da quella che adesso potrebbe raccontare quasi ogni altro americano». Un inverno nelle montagne del Nord California e una nuova opportunità di vita: diventare corrieri della droga. Fra ansie, paure, soldi e adrenalina va in scena il crollo del sogno americano. Ma talvolta, come in una sinistra epifania proustiana, l’orfano torna sul proprio passato. Le ferite si riaprono e cresce la voglia di vendicarsi. E come si vendica uno scrittore? Creando la nemesi del mondo contemporaneo. “Non ci sono macchine, né autobus, né sirene. Nemmeno il ronzio del passaggio di un aeroplano” nel mondo arcaico di Billy e Grace, due fratelli rimasti orfani ed esiliati nel silenzio, fra le pagine del doloroso romanzo di Tom Darling, D’estate, che portano alla radice del dramma di ogni abbandono. Ma c’è un’altra molla che spinge l’orfano a reagire ed è la voglia di andare contro i luoghi comuni. Un venditore di salumi disoccupato cronicamente dedito al suicidio e un undicenne che si considera il più grande genio vivente dopo Hegel: sono loro i protagonisti di Harold, il romanzo demenziale di un autore che ha deciso di non prendersi troppo sul serio e firmarsi Einzlkind, “figlio unico” in tedesco. Ma come spesso accade, è ridendo che si dice la verità; quella del quarantanovenne Harold che, se potesse, abolirebbe il pensare, limitandosi a essere e, all’annuncio del suo licenziamento, chiosa: «Disoccupato. Non è più un peccato, oggigiorno, è più che altro un problema di tempo. O no?». E quella del piccolo Melvin, che si mette alla ricerca del padre che non ha mai conosciuto e si difende dal prossimo con il solo vaccino del disprezzo. “Se Harold potesse, farebbe la magia di trovare un padre per Melvin. Sarebbe la soluzione migliore per entrambi. Ma Harold non è in grado di fare magie”. E forse è meglio così. Tony D’Souza, Il mulo, Isbn, 416 pp., 15,90 euro Tom Darling, D’estate, Fandango, 256 pp., 16 euro Einzlkind, Harold, Nottetempo, 348 pp., 16,50 euro

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Di Corinto

La Electronic Frontier Foundation ha pubblicato ad aprile un rapporto sulla vendita di apparati di censura e sorveglianza ai regimi autoritari da parte di aziende americane ed europee. Software per trascrivere i messaggi di testo dei cellulari, apparati di registrazione delle chiamate vocali, sistemi di intercettazione delle email e delle chiamate via Skype costituiscono una terribile minaccia per i dissidenti che attraverso la tecnologia comunicano e si organizzano. I Paesi che acquistano tali tecnologie attraverso triangolazioni di difficile tracciamento sono gli stessi che Reporter senza frontiere elenca ogni anno tra i “nemici di internet”, come Bahrein, Siria, Iran, Cina, Cuba, per citarne solo alcuni. Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, il 23 aprile, ha emanato un ordine esecutivo in base al quale chiunque fornisca a Iran e Siria tecnologie che possono violare i diritti umani può essere sottoposto a embargo finanziario e vedersi impedito l’ingresso negli Usa. E gli altri Paesi? Prova a occuparsene il Congresso americano. Una sottocommissione della Camera ha infatti proposto il Global Online Freedom Act, per limitare l’esportazione di tecnologie che “servono allo scopo primario” di sorvegliare o censurare i cittadini nei Paesi nemici di internet. La sua discussione però non è nemmeno calendarizzata, al contrario della Cyber Intelligence Sharing and Protection Act, una legge che consente di monitorare il traffico online di tutti gli utenti americani per motivi di sicurezza e che ha ottenuto un binario preferenziale. Gli attivisti hanno chiesto a Obama di porvi il veto. «Chi scambia la sicurezza con la libertà non merita né l’una né l’altra», lo diceva già il presidente statunitense Thomas Jefferson. Limiti, contraddizioni e complessità della democrazia, si dirà. Intanto, per sapere come va a finire, basta controllare lo stato di avanzamento delle leggi sul sito www.govtrack.us che addirittura ne spiega spirito e applicazione. In Italia, di seguire proposte, votazioni ed emendamenti parlamentari se ne occupa www.openparlamento.it. Anche i cittadini possono “sorvegliare” i governanti.


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Fotografare l’innocenza testo e foto

Massimo Grimaldi Si ammassano valigie, si ammassano persone. Attendo l’imbarco ipnotizzato da una vetrata rosso rubino. Maggio 2010. Atterriamo in serata a Port Sudan, capitale dello Stato federato del Red Sea. I suoi abitanti moltiplicati negli ultimi anni. Contadini prostrati dalle siccità, lavoratori a giornata del porto, profughi provenienti dai vari conflitti dell’area. La mia prima immagine della città è il riflesso ambrato di un minareto. La seconda immagine è un terreno pietroso, in leggero dislivello, il lotto assegnato a Emergency. Imperlati di sudore, circondati dalle scolaresche venute ad accoglierci, Emanuele e io incontriamo la comunità nel punto dove sarebbe sorto il Centro pediatrico. Pochi mesi dopo i primi scavi. E Roberto che mi aiuta a scegliere un mattone. O meglio, “il” mattone, quello che avrebbe dovuto rappresentarli tutti. Quello che avrebbe ricordato il cantiere, la trasformazione dell’arido persistere del suolo in un luogo di cura. Si svolta a destra. E sulla destra il recinto ocra che delimita un edificio scolastico. I pali della luce recentemente installati. Poi un lungo rettilineo asfaltato. Tra casupole di mattoni grezzi e capanne accennate. Bastoni infissi nel suolo tendono tele, stracci. Sulla sinistra si rivela alla vista il Centro pediatrico. Un muro di mattoni di corallo, omaggio alla tradizione edile locale. Poi l’alto colonnato e il bambù intrecciato che ne modula la luce. La facciata presenta dei fori circolari di varia grandezza. Non ho chiesto a Raul ragione del loro disegno, mi è piaciuto pensarli come una costellazione. I raggi solari ci passano attraverso generando una miriade di eclissi sul pavimento della sala d’attesa. La vista del Centro che preferisco non è quella frontale che si rivela arrivandoci in auto. Il mio punto di vista preferito si trova di lato, in mezzo alle case che gli sono adiacenti, tra i bambini che gli trotterellano attorno. Mi sembra che il senso dell’architettura si riveli meglio così, vedendola da lontano, condividendola con coloro per i quali si mette al servizio, mostrandola a Saba e

a tutti i miei piccoli amici. Quell’edificio, lì in fondo, ha tre ambulatori, un reparto di degenza con quattordici posti letto, una corsia di terapia subintensiva con quattro posti letto, una farmacia, spazi per gli esami diagnostici e di servizio. Sono stati piantati oleandri, ficus, bouganville, palme e soprattutto i neem dalla crescita portentosa. Come avvenuto per il Salam Centre di Khartoum, anche qui tra qualche anno ci sarà un’oasi. E si sarà realizzata la volontà di Emergency di recuperare, con le sue strutture sanitarie, il significato etimologico della parola ospedale. L’ospedale come luogo ospitale. La cui bellezza non è accessoria, ma già una forma di cura, di sollievo. E questa volta c’è persino qualcosa in più. Un campo da calcio. Un giardino che si apre alla comunità. Un prato che si lascia giocare. Decine di bambini che ci si rotolano sopra, calpestando l’erba per la prima volta. Entro in corsia con timidezza. Non vorrei disturbare. Il soffitto è una successione di voltine. Gradazioni di celesti acquosi, di azzurri marini. Sotto di esso i piccoli pazienti e le loro madri. Facile ricavarne storie. Quella di Nada, per esempio. Ricoverata d’urgenza con le convulsioni. Malaria cerebrale. Non le tremava il corpo, le tremava la testa. Ma già sveglia dal suo stato comatoso alcune ore dopo. Debilitata, ma con un appetito mirabolante. Pronta per tornare a essere un grillo. Il mio reportage sul Centro pediatrico di Emergency a Port Sudan descrive il modo con cui mi ci affeziono. Non sono rapace, non fotografo la sofferenza o la povertà. Cerco di fotografare invece la speranza e l’innocenza, che mi sembrano due attributi della nostalgia. Le mie foto migliori sono quelle che non ho mai scattato. Per rispetto, per pudore, o per pigrizia. Perché spesso, davanti ai genitori in attesa, ho spento la fotocamera. E ho atteso con loro.

U

Patrizia Tocci [courtesy of massimo grimaldi, emergency ngo and maxxi]

La volontà di ripensare la semplice utilità del mio ruolo di artista, in un sistema dell’arte spesso autoreferenziale e vacuo, mi ha portato a collaborare da alcuni anni con Emergency. In diverse occasioni ho proposto a istituzioni pubbliche e collezionisti privati progetti consistenti nel destinare i premi per cui concorrevo al sostegno delle strutture sanitarie di Emergency, che conseguentemente diventavano il soggetto di reportage fotografici che ne documentavano l’attività. In questi progetti cerco di pensare l’etica come una nuova frontiera dell’estetica. E ogni volta che mi trovo davanti a grosse somme di denaro pongo la stessa domanda ai giurati che devono decidere a chi attribuirle: a un qualche catafalco artistico o utilizziamo il denaro per salvare vite umane? In modo analogo, Emergency’s Paediatric Centre in Port Sudan Supported By MAXXI, progetto vincitore del concorso internazionale bandito dal museo MAXXI di Roma, consisteva nel destinare il 92 per cento dei settecentomila euro in palio alla costruzione del Centro pediatrico di Emergency a Port Sudan, in Sudan. Il Centro, che fornisce assistenza pediatrica gratuita ed è dotato di un ambulatorio per la diagnosi delle cardiopatie nei bambini e negli adulti, è stato il soggetto di un mio reportage fotografico in progress che ha documentato tutte le fasi della sua costruzione e l’inizio della sua attività, lo scorso 26 dicembre. Il reportage è mostrato in una videoproiezione serale su una parete esterna del museo, congiungendo idealmente la sua architettura con quella del Centro, l’una nata per mezzo dell’altra. Il centro pediatrico di Port Sudan ha iniziato la sua attività lo scorso 26 dicembre. Nei suoi primi tre mesi di attività sono stati curati 4.755 bambini. (mg)




la posta di E Carissimi, a tutti voi della redazione, grazie. Da più di un anno la prima domenica del mese la dedico tutta alla lettura di E e, come termino l’ultima riga dell’ultima pagina, già non vedo l’ora che passi il mese per avere tra le mani quello nuovo. Credetemi, non scherzo e non esagero. Secondo me E non è un giornale, un mensile, una rivista, ma un manuale di umanità.Ora vi annoierò, ma sento il bisogno di confidarmi con voi. A Natale del 2001 un amico mi ha regalato il libro Pappagalli verdi, l’ho letto tre volte filate e ancora oggi ogni tanto ne leggo qualche pagina. È un libro che in un certo senso fa parte di me.Ho 57 anni, sono moglie e madre, ma soprattutto ho avuto la fortuna di essere figlia di una vittima di quei “pappagalli verdi”. Era il 1945, la guerra era da poco finita e un ragazzino di 13 anni di nome Oscar giocava con gli amici sui campi occupati fino a qualche settimana prima da un accampamento tedesco. A un tratto... boooom... E quel ragazzino perde occhi e braccia. A quel tempo le chiamavano “bombette”. Giorni, settimane, mesi di sofferenze e agonia, ma Oscar riesce a vivere cieco e senza entrambe le braccia. Passano gli anni e una ragazza orfana appena uscita da un collegio, Cesira, incontra Oscar e se ne innamora. «Assomigliava ad Amedeo Nazzari», diceva sempre mamma Cesira. Si sposano, mettono al mondo sette figli, cinque femmine e due maschi. Io sono la primogenita. Ho dunque avuto l’immensa fortuna di essere figlia di quel ragazzino divenuto nonno con un corpo martoriato, ma con una intelligenza, una bontà, una disponibilità e un amore per la vita e per gli altri che lo hanno reso il padre migliore del mondo e un punto di riferimento per la sua famiglia e per tutti quelli che hanno avuto la fortuna di conoscerlo. Con l’aiuto di mamma e di alcuni amici si impegnava per aiutare chi aveva bisogno, la nostra casa era sempre aperta ed era un attimo aggiungere un posto a tavola. È riuscito a farsi ricevere da presidenti del Consiglio e della Repubblica battendosi per i diritti delle vittime civili di guerra. È stato insignito delle onorificenze di Cavaliere, Commendatore e Ufficiale, ma soprattutto è stato un padre e un nonno dolcissimo, un marito amorevole e sensibile. Per farli addormentare cantavo ai miei figli le canzoni che papà cantava a me e alle mie sorelle. Troppi sono i ricordi, un libro non

basterebbe. Nel 1994 un tumore al pancreas l’ha ucciso. Fino all’ultimo il suo sorriso consolava la nostra disperazione. Pensate che per la Befana del 1994 ha fatto in modo, dal letto di morte, di far trovare la calza di dolci ai nipoti che andavano a trovarlo in ospedale. Il giorno 11 febbraio è morto. Aveva compiuto 63 anni il giorno 9. Il tempo non è riuscito a colmare il vuoto lasciato da quell’uomo mite e forte che vedeva con gli occhi del cuore e ci accarezzava con l’intensità del suo amore. Ora vi saluto e vi ringrazio ancora. Con gratitudine e affetto, Lorena Benacchio, Este

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