E il mensile dicembre 2011

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E - IL MENSILE. GIÀ PEACEREPORTER • ANNO V - N°12- DICEMBRE 2011 • EURO 4,00 • PUBBLICAZIONE MENSILE POSTE ITALIANE S.P.A.- SPEDIZIONE IN ABB. POSTALE - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N°46) ART. 1, COMMA 1, LO/MI

In regalo “I fantasmi” di Camilleri

Sanità

La grande truffa E-IL MENSILE

DICEMBRE 2011

Sanità.Bill Emmott: dopo Berlusconi.Colaprico.Islanda & Grecia

DICEMBRE 2011 CON LIBRO EURO 4,00

Bill Emmott: dopo Berlusconi un racconto inedito di Piero Colaprico hanno scritto: Claudio Bisio.Luca Crovi Margherita Dean.Andrea Jacchia.Nicola Sessa Flavio Soriga.Gino Strada hanno fotografato e illustrato: Francesco Acerbis Ale+Ale.Francesco Chiacchio.Elfo.Chema Madoz Eivind H.Natvig.Antonello Silverini.Paolo Verzone


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Era ora. Berlusconi toglie il disturbo, l’imbarazzo, il peso di una presenza sempre più dannosa. Non bisogna ringraziarlo. Avesse avuto un minimo senso di quel che rappresenta (l’Italia) si sarebbe fatto da parte già da qualche mese, risparmiando al Paese stranguglioni assortiti a colpi di spread e default. Non si è fatto da parte perché non è un politico, non lo è mai stato. È un imprenditore sceso in campo per difendere le sue posizioni, le sue aziende, le sue entrate.

Altan [quipos]

l’editoriale di Gianni Mura

era ora, ma ora?


l’editoriale

Abile (la pubblicità è l’anima del commercio, e non solo) a convincere una buona fetta di italiani che avrebbe curato i loro interessi, che non avrebbe messo le mani nelle loro tasche. Non si è fatto da parte perché nella sua visione del mondo Silvio Berlusconi è un generoso, un genio del Bene, è impossibile avercela con lui a meno di non essere magistrati, giornalisti o comunisti, meglio ancora giornalisti comunisti (il 72 per cento del totale, secondo suoi calcoli) che ampliano le iniziative di magistrati comunisti. Non è un crollo repentino il suo, ma un lungo smottamento, ed è un buffo contrappasso che non ci siano comunisti tra quelli che l’hanno portato al passo d’addio. A meno di non considerare comunisti Obama, Merkel, Sarkozy. Sono, semplicemente, governanti e a Cannes hanno ignorato Berlusconi, che s’aggirava con un sorriso stampato in faccia ma non trovava facce sorridenti, solo schiene indifferenti oppure ostili. Trattamento riservato agli infiltrati, ai parvenu, ai seccatori. Finito il tempo delle barzellette, delle corna ai fotografi, dei cucù e di un repertorio da avanspettacolo spacciato per faccia serena della politica. Che non dev’essere seriosa, grave, barbosa, chiosavano i suoi esegeti a gettone, ma leggera, cordiale, piaciona. Più Martufello che Adenauer per modello, embè? Embè, prima o poi i nodi vengono al pettine. La mossa disperata del piazzista consisteva nel negare che in Italia ci fosse crisi: ristoranti affollati, aerei tutti prenotati. Il guaio è che stavolta non ha riso nessuno e finalmente sull’impero berlusconiano il sole è tramontato. Restano indimenticabili frammenti: l’occupazione della Rai e la sua castrazione, la messa al bando delle trasmissioni non allineate al suo verbo, il bacio della mano a Gheddafi e il bombardamento sul medesimo Gheddafi, quintalate di intercettazioni sulla sua attività preferita (ingaggiare escort, o pagare chi le ingaggiava per lui), pericolose vicinanze con malviventi, truffatori e millantatori che si trovavano la strada sgombra in appalti e affarucci da milioni di euro, nomina di ministri assolutamente inadeguati, tagli al sociale e perfino alla benzina per le polizie, ma progetti d’acquisto per nuovi cacciabombardieri. E lasciamo perdere il ponte sullo Stretto e altre amenità come il Patto con gli italiani. Ora che si volta pagina, però, sarà bene controllare che Berlusconi e il berlusconismo non siano arrivati a inquinare le falde. Al di là di tutte le gaffe e le bugie, le arroganze e le cadute di stile, la più grave colpa di Berlusconi è di avere abbassato il livello della politica alla sua statura da aspirante statista, cioè rasoterra, di avere fatto scelte in nome dell’apparire e non dell’essere, di avere appoggiato e condiviso qualsiasi oltraggio alla cultura. Peggio non potrà andare, peggio di così è impossibile. Ma non è automatico che vada molto meglio. La sola cosa positiva, per ora, è che si potrà andare fuori dai confini senza più sentirsi rivolgere la solita domanda: ma voi italiani, come fate a sopportare Berlusconi? Una vergogna in meno, quindi. Un sollievo momentaneo, però. Perché il peso della crisi resta ed è fondamentale ridare dignità e credibilità alla nostra politica. Napolitano ha fatto gli straordinari, adesso tocca agli altri. Quali che siano, opposizione inclusa, non s’illudano di godere di un trattamento di favore. Berlusconi non è caduto per merito loro, ma perché all’ennesimo bluff il resto del mondo ha detto «vedo». I tanti, troppi anni di potere berlusconiano ci hanno resi più attenti e rigorosi, più moralisti (ebbene sì, un’etica della politica è indispensabile) e più sensibili. Dare un’idea di futuro ai giovani e smetterla di togliere alle fasce più disagiate e riverire le più agiate sarebbe già un buon punto di partenza. (gm)


l’intervista

la sua eredità: populismo & debiti Tre domande a Bill Emmott di Nicola Sessa Bill Emmott è stato per molti anni il direttore dell’Economist, ha voluto copertine su Berlusconi che sono rimaste celebri, a cominciare da quella del 30 luglio 2003 che recitava “Why Silvio Berlusconi is unfit to lead Italy” e che vedete in questa pagina. Lo scorso anno ha pubblicato per Rizzoli Forza, Italia. Come ripartire dopo Berlusconi, titolo che appare premonitore mentre si conclude un’era politica durata diciassette anni. Quale eredità lascia al Paese Silvio Berlusconi e quali effetti il berlusconismo avrà sulla nuova stagione della politica italiana? «Berlusconi ha dimostrato che il populismo, cioè governare intercettando i sentimenti della gente sulla base dei sondaggi, è un modello vincente ed è perciò prevedibile che anche altri leader politici perseguiranno questa strada. Il secondo effetto del berlusconismo è un più marcato comportamento egoistico della ‘casta’: quello che voglio dire è che, dopo un’iniziale fase di ritorno all’etica dovuto all’avvento di Mani pulite, il successo di Berlusconi ha rifondato e addirittura allargato il principio secondo cui i politici possano operare essenzialmente per curare i propri affari ed interessi personali più che in nome del dovere pubblico e che, tutto sommato, le pene per la corruzione, o più semplicemente per la cupidigia, sono molto lievi. Ci vorrà molto tempo per uscire da questa logica, semmai se ne uscirà. Il terzo lascito di Berlusconi alla politica italiana è una contrastata polarizzazione delle componenti politiche, rimarcando la divisione degli italiani tra quelli che sono ‘con noi’ e quelli che sono ‘contro di noi’. Questo fenomeno è stato alimentato dalle leggi elettorali che si sono succedute dopo il 1993 – che prevedono un premio di maggioranza – ma anche dal modo di fare politica di Silvio Berlusconi. Quest’effetto può e deve essere spazzato via con il ritorno alla formazione del consenso e alle larghe coalizioni». La fine dell’era Berlusconi è arrivata troppo tardi? «È arrivata più tardi di quanto avrebbe dovuto. Il suo più grande crimine, dal mio punto di vista, è che in oltre nove anni spesi a Palazzo Chigi, Berlusconi non ha fatto nulla per ridurre il debito italiano né per riformare l’economia che avrebbe garantito la crescita. Anche gli altri governi hanno fatto davvero poco in questa direzione, ma almeno hanno provato a fare qualcosa. Adesso è tutto più complicato, ma c’è ancora tempo per farlo». Le opposizioni hanno gli strumenti per rimettere in piedi il sistema politico ed economico dell’Italia? «Non lo so. Non esiste una bacchetta magica e in ogni caso la definizione di partiti di opposizione cambierà (se veramente Berlusconi uscirà dalla scena politica) dal momento che le attuali formazioni politiche sono state costruite principalmente sulla figura di Berlusconi. Molte cose potrebbero mutare adesso. Io credo che un’ampia maggioranza che includa il centro e il centrosinistra potrebbe ottenere il raggiungimento di molti cambiamenti. Ma bisognerà lavorarci per molti anni. Ciò che si può dire è che adesso c’è una nuova opportunità in questa direzione».

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la conversazione

il pozzo è inquinato Dialogo tra Gianni Mura e Gino Strada Whisky? Tè? Champagne? Brindisi coi bicchieri colmi d’acqua? Mi piacerebbe sapere come il dottor Gino Strada ha festeggiato la caduta di Berlusconi. «Nessun brindisi. L’avrei fatto se con Berlusconi fosse finito il berlusconismo, ma ho forti dubbi in merito. Fatte le dovute proporzioni, nella sua caduta c’è qualcosa che ricorda quella di Mussolini. Ma il fascismo non è scomparso con Mussolini. Le cose si riciclano. Le brutte cose in particolare». Tira fuori i dubbi. «Da più di vent’anni hanno inquinato i pozzi con modelli di non valore. Quanto è stata corrotta la nostra società? Quanto possiamo riuscire a essere una comunità, un insieme di persone? Che peso ha nella nostra repubblica la res publica? Se non chiariamo che cosa appartiene a tutti e a ciascuno, e va difeso, non faremo tanta strada. A me sembra finita, o almeno spero lo sia, l’idea che si possa gestire uno Stato come un’azienda. Per me, un punto fermo è che nella cosa pubblica non può entrare l’interesse privato». Un vecchio tasto. «Ma sempre valido. Sulla sanità e sull’istruzione non si deve fare profitto. Ecco perché non ho brindato. Il berlusconismo, ignorante e volgare quanto vuoi, è stato largamente condiviso dalla casta. E adesso? Grande punto interrogativo. Non sono lieto, per usare un eufemismo, di vedere in prima fila nell’opera di ricostruzione alcuni che hanno contribuito a sfasciare l’Italia. A nessuno di loro è venuto in mente di dire: “Esco dalla politica”. Peggio, un gesto di sfrontatezza te lo spacciano per gesto di responsabilità». I soliti delinquenti politici? «Mi viene da ridere. Anni fa usai quest’espressione in una riunione interna della Fiom e fece casino, molti politici s’indignarono. Adesso glielo puoi dire tre volte al giorno e non s’indignano più. Ma il rischio vero è che non s’indignino più nemmeno i cittadini. Una volta si parlava dell’intreccio politica-affari. Oggi sono la stessa cosa, altro che intreccio. Pure, non c’è un articolo della Costituzione che recita: ‘Rubare è lecito, anzi è autorizzato dallo Stato’. Quale imperativo morale può distogliermi dallo scippare la prima vecchietta che passa quando faccendieri e papponi scippano su vasta scala?». Ai posteri l’ardua sentenza. Adesso si parla di numeri, quel che conta è salvare il Paese. «Non salvi l’Italia se hai fatto a pezzi gli italiani. Io non credo a entità impalpabili e invisibili, tipo la crisi e i mercati. Ci sono azioni individuali e collettive che hanno portato a questo disastro e, ripeto, chi ha responsabilità in merito non può candidarsi al risanamento. Non credo, in politica, all’usato sicuro». Prima che tu impartisca l’estrema unzione anche al nuovo che avanza, vorrei tornare ai pozzi inquinati. «Bene, parto da uno dei settori in cui penso di capire qualcosa: la medicina. Quando si comincia a sentir parlare di ‘promozione della malattia’ vuol dire che sono caduti gli argini e aggiungo che in questa abiezione anche i medici hanno fatto la loro parte».


Abiettori di coscienza? «C’è poco da scherzare. In cardiochirurgia, il 20 per cento degli operati, specie i più giovani, non ha alcuna necessità di un intervento operatorio. Ma così va, se i dirigenti sanitari dalla salute della gente devono far uscire utili per l’azienda ospedaliera. Se il paziente diventa utente o cliente». Nello stesso numero su cui uscirà questa chiacchierata pubblichiamo un’inchiesta su come si curano i sani, inducendoli a pensare d’essere malati. «Bene, la leggerò volentieri. È importante far sapere queste cose, tanto più di questi tempi. Molti italiani sono in cassa integrazione, molti altri è come lo fossero. Emergency ha creato in Italia alcuni poliambulatori per i migranti senza diritti, ma ci va anche un 20 per cento abbondante di italiani che non riescono a trovare i soldi per una visita dall’oculista o per rifarsi la dentiera. Una volta si diceva che i buoni esempi devono venire dall’alto. Siccome non ne vedo, dico che la casta, per tornare credibile, deve dare esempi responsabili. Elenco il minimo: ridursi di numero, ridursi gli stipendi, cancellare i benefit. M’è capitato di andare qualche volta al ministero degli Esteri. Ti accomodi in un salottino e c’è uno vestito da pinguino che ti chiede se vuoi un caffè, un secondo che prepara il caffè e un terzo che te lo porta». Fosse tutto qui. «No, c’è pure un buco di bilancio dovuto all’evasione fiscale, mi piacerebbe sapere quanti commercianti e liberi professionisti pagano davvero le tasse. Sbaglio o Berlusconi ha detto che capiva gli evasori? E poi c’è un esercito con più comandanti che comandati, ho letto su Repubblica un paio di settimane fa, e che ci costa cinquantamila euro al minuto. C’è una politica che lascia senza carta le fotocopiatrici dei commissariati e vagheggia l’acquisto di altri cacciabombardieri». E allora? «Allora, una piattaforma accettabile deve partire da un caposaldo: rispetto e difesa della Costituzione. Poi: istruzione e sanità di alto livello, gratis e per tutti. Il che non esclude la presenza di una clinica o una scuola privata. Ci vuoi andare? Paghi. Ma non un euro dal pubblico al privato. La spesa sanitaria privata incide in Italia per il 19 per cento, che diventa 28 per cento in Lombardia e 25 per cento nel Lazio. Poi: riduzione del 90 per cento delle spese militari e ritiro di tutte le nostre truppe in giro per il mondo. Non solo perché la guerra è brutta e disumana, ma anche perché non ce la possiamo permettere. Tanto più se i fondi per il sociale passano da 1.115 milioni del 2001 ai 144 previsti per il 2013». Ultima domanda: c’è qualcosa in frigo per quando tornerà libero Francesco? «Sì, manca solo lui, ma speriamo di rivederlo presto».

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in questo numero 1 dopo Berlusconi Era ora, ma ora? di Gianni Mura

La sua eredità: populismo & debiti tre domande a Bill Emmott di Nicola Sessa

Il pozzo è inquinato conversazione di Gianni Mura con Gino Strada illustrazione di Altan

9 le storie

Compagno manager di Natascia Ronchetti foto di Gaia Levi

Il vino oltre i muri di Beatrice Cassina

Arte in prestito di Roberta Carlini

Addio alle armi di Camilla Minarelli foto di Giada Connestari

40 la classifica

In ginocchio da Tex E voi chi fareste scendere in campo? Parliamo di fumetti, attenzione. E uno che ne sa (e ne possiede a bizzeffe) ha scelto per noi la sua squadra del cuore, completa di panchina e medico sociale di Luca Crovi foto di Adele Lorenzi

56 le cronache

Sacro flop Tra architettura e superstizione, la storia di una crisi. Quella dei pellegrinaggi che hanno per meta San Giovanni Rotondo, terra di padre Pio di Christian Elia foto di Francesco Acerbis

64 il portfolio

di Alessandra Fava

Bianco, nero e surreale Tre aggettivi per l’altra vita degli oggetti ritratti da Chema Madoz e interpretati da Andrea Jacchia come segni di un pianeta preoccupato

18 l’inchiesta

foto di Chema Madoz con un testo di Andrea Jacchia

Terapia da favola di Andrea Satta

L’orto sotto il cavalcavia

Il business dei sani Sei timido? Sei anziano? Attraversi un momento difficile perché hai perso il lavoro? No problem, c’è una terapia per ogni cosa. È la nuova frontiera dell’industria della salute: curare i sani di Roberta Villa illustrazioni di Antonello Silverini

26 il reportage

Risveglio islandese In tanti hanno pensato: “Quindi si può fare”. Si può non pagare il debito, riformare la Costituzione chiedendo ai cittadini, dire no a banchieri e finanzieri. E allora perché da quelle parti si torna ancora in piazza? di Nicola Sessa foto di Eivind H. Natvig, Nicola Sessa, Paolo Verzone

Grecia, a scuola senza libri All’altro capo dell’Europa, dove la crisi morde persino tra i banchi di Margherita Dean foto di Myrto Papadopoulos

80 il reportage

Corsa a ostacoli Il diario dei giorni di Francesco, Paolo e Alice, tre ragazzini cui la disabilità ha dato una marcia in più. Anche per combattere, insieme alle loro famiglie, contro la dura legge dei tagli testo e foto di Luca Galassi

98 il racconto

Un amico a Choman Un agente dei servizi italiani e un uomo di Cosa Nostra. In una Karachi scossa da bombe e attentati, può capitare che si trovino a giocare dalla stessa parte in un pericoloso intrigo. Solo un fantasma sembra saperla molto lunga, forse troppo

110 domani

Arte di Vito Calabretta Libri di Alessandra Bonetti Cinema di Barbara Sorrentini Design di Claudia Barana Documentario di Matteo Scanni Architettura di Raul Pantaleo Musica di Carlo Boccadoro Teatro di Simona Spaventa

116 le pagine

di Emergency

le rubriche 24 24

Spiriti liberi di Giulio Giorello Parola mia di Patrizia Valduga

25 38 52 78 79 92 94 95 96

Lessi di Neri Marcorè Televasioni di Flavio Soriga Mad in Italy di Gianni Mura Polis di Enrico Bertolino Il capitale di Niccolò Mancini .eu di Stefano Squarcina Pìpol di Gino&Michele Decoder di Violetta Bellocchio Un fisico bestiale di Bruno Giorgini

108 Buen vivir di Alfredo Somoza 114 La posta del cuore di Claudio Bisio

118 Per inciso di Gino Strada 120 La posta di E

il nostro osservatorio 36 54

Buone nuove L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro

76 90

Cessate il fuoco Casa dolce casa

in copertina illustrazione di Antonello Silverini

di Piero Colaprico illustrazioni di Francesco Chiacchio

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Ci vediamo in edicola dal 23 dicembre con il numero di gennaio



con noi E - IL MENSILE

Antonello Silverini

DICEMBRE 2011

www.e-ilmensile.it Direttore responsabile Gianni Mura Condirettore Maso Notarianni Art director Federico Mininni Caporedattori Angelo Miotto ◆ Assunta Sarlo Redattori Gabriele Battaglia ◆ Christian Elia ◆ Luca Galassi Alessandro Grandi ◆ Antonio Marafioti ◆ Enrico Piovesana Valentina Redaelli ◆ Nicola Sessa Stella Spinelli ◆ Alberto Tundo Photoeditor Marta Posani ◆ Germana Lavagna Videoeditor Claudia Pozzoli Segreteria di redazione Silvina Grippaldi Hanno collaborato Francesco Acerbis ◆ Ale+Ale ◆ Altan ◆ Attenni ◆ Lorenzo Bagnoli ◆ Claudia Barana Violetta Bellocchio ◆ Enrico Bertolino ◆ Claudio Bisio ◆ Carlo Boccadoro Alessandra Bonetti ◆ Franco Brambilla ◆ Vito Calabretta ◆ Roberta Carlini Casa delle donne per non subire violenza Bologna ◆ Beatrice Cassina ◆ Francesco Chiacchio ◆ Piero Colaprico ◆ Giada Connestari ◆ Luca Crovi ◆ Margherita Dean Elfo ◆ Alessandra Fava ◆ Frederick Florin ◆ Maurizio Galimberti ◆ Carlos Garcia Rawlins ◆Gino&Michele ◆ Giulio Giorello ◆ Bruno Giorgini ◆ Ng Han Guan ◆ Guido Guarnieri ◆ Andrea Jacchia ◆ Gaia Levi ◆ Paolo Lezziero ◆ Adele Lorenzi ◆ Chema Madoz ◆ Niccolò Mancini ◆ Neri Marcorè ◆ Maddalena Masera ◆ Camilla Minarelli Eivind H. Natvig ◆ Annamaria Palo ◆ Raul Pantaleo ◆ Myrto Papadopoulos ◆ GiBi Peluffo ◆ Felix Petruška ◆ Emmanuel Pierrot ◆ rassegna.it ◆ Natascia Ronchetti Sergio Ronchi ◆ Emanuele Rossini ◆ Oscar Sabini ◆ Borislav Sajtinac ◆ Andrea Satta Matteo Scanni ◆ Antonello Silverini ◆ Alfredo Somoza ◆ Flavio Soriga ◆ Barbara Sorrentini ◆ Simona Spaventa ◆ Stefano Squarcina ◆ Gino Strada ◆ Patrizia Valduga ◆ Mattia Velati ◆ Paolo Verzone ◆ Roberta Villa Agenzie fotografiche ed editori Agence Vu ◆ Associated Press ◆ Blob Creative Group ◆ Buenavista Contrasto ◆ Fratelli Alinari ◆ Getty Images ◆ Moment ◆ Quipos ◆ Reuters Roberto Santachiara Literary Agency

E - IL MENSILE già PeaceReporter Redazione e amministrazione via Vida, 11 - 20127 Milano - Tel 02 801534 - Fax 02 26809458 segreteria@e-ilmensile.it Edito da Dieci dicembre Scarl via Vida, 11 - 20127 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07 Presidente Maso Notarianni Amministratore delegato Rosanna Devilla Amministrazione Annalisa Braga Responsabile IT Stanislao Cuzzocrea Concessionaria pubblicità Poster pubblicità & p.r. Srl Sede legale e Direzione commerciale: via A. Bargoni, 8 - 00153 Roma Sede commerciale: viale Gran Sasso, 2 - 20131 Milano Tel 06 68896911 - Fax 06 58179764 - poster@poster-pr.it Stampa Nuovo Istituto Italiano Arti Grafiche Spa via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Distribuzione M-dis Distribuzione Media Spa via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano - Tel 02 25821 - Fax 02 25825306 Distribuzione in libreria: Joo Distribuzione, via F. Argelati, 35 - 20143 Milano Servizio abbonamenti e arretrati Picomax Srl viale Sondrio, 7 - 20124 Milano Tel 02 77428040 - Fax 02 76340836 Arretrati 8 euro Resp. trattamento dati (D. Lgs. 30.06.2003, n.196) Gianni Mura Alle biblioteche carcerarie che ne facciano richiesta verrà attivato un abbonamento omaggio La nostra carta Questo giornale è stampato su carta certificata PEFC

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Roberta Villa

Medico e giornalista scientifico, sei figli, da quando ha messo piede in una redazione non ha più indossato un camice bianco. Appartiene da sempre alla squadra dell’agenzia Zadig e collabora con il Corriere della Sera e altre testate su carta e online. Su queste pagine ha scritto Il business dei sani.

È nato, vive e lavora a Roma. Si diploma in illustrazione all’Istituto europeo di design e inizia la carriera collaborando con numerose agenzie (Saatchi & Saatchi, Publicis). Ha pubblicato, tra gli altri, con la Repubblica, Il Sole 24 Ore, il manifesto, Geo. È autore delle copertine della casa editrice Fanucci dal 2007. Nel 2005 vince il primo premio al Concorso internazionale di illustrazione di Torino, nel 2006 il Premio Zavrel e nel 2007 viene inserito nel Lürzer’s Archive Special 200 Best Illustrators Worldwide. Le sue opere su tela sono esposte alla Venice Design Art Gallery di Venezia. Per noi ha illustrato l’inchiesta di copertina.

Luca Crovi

Critico rock e conduttore radiofonico è redattore alla Sergio Bonelli Editore dove dal 1993 si occupa della collana Almanacchi. Ha scritto sceneggiature a fumetti per i volumi I vizi di Pinketts, Arrivederci, amore, Laggiù nel profondo e Fantômas - Le nuove avventure, misurandosi per l’occasione con personaggi nati dalla fantasia di Andrea G. Pinketts, Massimo Carlotto, Joe R. Lansdale e Marcel Allain e Pierre Souvestre. Qui ha stilato la sua Top 11 del fumetto.

Francesco Acerbis

Francesco Acerbis è nato a Bergamo nel 1969. Dopo gli studi in Filosofia, realizza il suo primo reportage fotografico sui profughi nell’area dei Balcani e un libro sul dopoguerra in Bosnia, La sospensione dell’anima, finalizzato alla raccolta fondi per la chirurgia pediatrica dell’ospedale Kocevo di Sarajevo. Nel 1999 a Milano, insieme ad altri, ha fondato l’agenzia Emblema. Vive a Parigi e le sue fotografie sono pubblicate sulle maggiori testate italiane ed estere. In Puglia ha ritratto i fedeli di padre Pio.

Chema Madoz

Andrea Jacchia

Ha sessant’anni e vive fra Milano e Parigi. Ha scritto su diversi giornali (la Repubblica e Il Sole 24 Ore) e ha lavorato a Diario dal 1996 al 2009. Collabora con Linkiesta.it. È anche disegnatore, in particolare di ritratti immaginari. Suo il testo del portfolio fotografico.

Fotografo, José Maria Rodriguez Madoz è nato nel 1958 a Madrid, città dove nei primi anni Ottanta ha studiato Storia dell’arte all’Universidad Complutense. Per dedicarsi alla fotografia ha abbandonato un lavoro sicuro in banca. Nel 2000 ha vinto il Premio nazionale di fotografia in Spagna. Lavora sempre in analogico e ritrae oggetti in un bianco e nero surreale.

Luca Galassi Christian Elia

Classe 1976, di Bari-Bari. Autore di reportage, di servizi radiofonici, del libro Oltre il muro, storie di comunità divise e del documentario The Empty House. Per PeaceReporter ha raccontato, e racconta, il Medio e il Vicino Oriente, il Nord Africa e i Balcani. Questa volta ha scritto sulla crisi del turismo religioso a San Giovanni Rotondo.

Nicola Sessa

Nato a Salerno nel 1976, dopo un anno di master in Giornalismo allo Iulm di Milano inizia a lavorare per PeaceReporter. Ha realizzato reportage e due documentari selezionati da festival internazionali. È stato in Islanda per capire se e come si può risorgere dopo il fallimento.

Nasce a Pisa nel 1971. Vive in Irlanda, Gran Bretagna, Cile e Grecia. Si laurea in Lettere moderne a Pisa e frequenta la scuola di giornalismo Ifg a Milano. Ha lavorato a Contatto Radio, La Nazione, Il Salvagente, Servizi-Italiani.net. È autore di reportage da Russia, Senegal, Indonesia, Striscia di Gaza e da vari Paesi europei. Vincitore del Premio Baldoni 2006. Ha incontrato tre ragazzi disabili e le loro famiglie.


storia 42 - Luca Bellei

Compagno manager

storia raccolta da

Natascia Ronchetti foto Gaia Levi

Luca Bellei vive a Scandiano, in provincia di Reggio Emilia. L’anno scorso, insieme a 35 compagni di lavoro, ha rilevato l’azienda di cui era dipendente, la Ceramica Optima, ex Magica, che aveva chiesto il concordato preventivo. Formata una cooperativa grazie al sostegno di Legacoop, gli ex dipendenti hanno riaperto lo stabilimento nel giugno di quest’anno. Adesso si chiama Greslab.

Il sonno, a dire il vero, non l’ho ancora perso. Ma sono un po’ preoccupato, questo sì. Il fatto è che siedo da entrambe le parti del tavolo. Operaio e amministratore. Sono un socio lavoratore e faccio il fuochista, il che significa che sono un addetto al forno per la cottura delle piastrelle. Ciclo continuo 24 ore su 24, giorni festivi compresi. Mi alterno con altri quattro colleghi, la temperatura interna raggiunge i 1.200 gradi. Ed è vero che il forno è coibentato, ma in estate non è davvero una passeggiata, il calore che sprigiona ti stordisce, quando smonto crollo esausto nel letto. Poi, però, sono anche un consigliere d’amministrazione. Nel Cda siamo in undici e dobbiamo prendere decisioni difficili, stabilire le strategie imprenditoriali. Adesso per esempio stiamo valutando un investimento importante, cinquecento milioni per dotarci di un impianto per la stampa digitale delle mattonelle. Una fuga in avanti o un passo necessario per crescere? Continuo a chiedermelo. Camminiamo tutti su un filo teso nel vuoto cercando di capire cosa ci riserverà il mercato, tra mille dubbi e indecisioni. Quel che è certo è che non mi sento un manager-operaio. Anzi, mi scappa quasi da ridere. Sono una persona che svolge una mansione all’interno dell’impresa, come il presidente, che una volta faceva il direttore del personale. Spiazzo chiunque mi incontra la prima volta, si aspetta giacca e cravatta e io sono sempre in tuta da lavoro. È dal 1994 che lavoro in questo stabilimento, a Scandiano, nella pianura di Reggio Emilia: un pezzo del glorioso distretto emiliano della ceramica, che adesso è in crisi. Quando sono entrato avevo trentadue anni, oggi ne ho quarantanove. Una vita qua dentro, prima stritolata poi capovolta. Ma sono rimasto in piedi. Ero il dipendente di una società per azioni e oggi scommetto sul futuro. Il coraggio non c’entra, sia chiaro: non

posso fare altro, non ci sono mai stati percorsi alternativi, intorno c’è sempre stato il buio della recessione. Quando l’azienda è saltata per aria avevo già digerito l’amaro boccone della cassa integrazione. Due anni con 750 euro al mese, è difficile campare così, da 170 dipendenti ci eravamo ridotti a sessanta. Adesso sono uno dei ventinove soci della cooperativa che ha rilevato lo stabilimento, dopo quattordici mesi di inattività. Siamo tutti ex dipendenti, ognuno di noi ha investito in questa impresa 14mila euro, la liquidazione in conto capitale della mobilità. Legacoop ci ha dato una mano. Aziende commerciali entrate come soci finanziatori hanno fatto il resto, portando lavoro e capitali. Contento lo sono, se dovessi tornare indietro ripercorrerei lo stesso cammino, sapendo che, per evitare la disoccupazione, altre scelte non sarebbero mai state comunque possibili. E poi ho pensato che insieme ai miei compagni di strada potevo dare un contributo allo sviluppo del territorio. Per dire: noi adesso abbiamo venti dipendenti, una parte dei quali in cassa integrazione, ci sentiamo responsabili. Ce la faremo? Prendo 1.500 euro al mese, abbiamo deciso di tagliarci lo stipendio del 20 per cento per i primi tre anni. E nulla mi viene in tasca per la carica che rivesto nel Cda, non si possono chiedere sacrifici ai compagni di lavoro se non si è disposti a farli. Una volta ero un sindacalista della Cgil, nel pieno delle trattative per rilevare l’azienda mi sentivo quasi a disagio. Adesso, come dire?, sono ancora in una fase di studio. Faccio parte di un’impresa che prevede una produzione di circa un milione di metri quadrati all’anno di piastrelle, con un fatturato di otto milioni di euro, non parliamo di noccioline. Il traguardo è l’utile. Intanto non posso fare altro che cercare di migliorarmi.

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storia 43 - Andrea Bonini

Il vino oltre i muri

storia raccolta e fotografata da

Beatrice Cassina

Sono arrivato in Palestina nel 2008 per lavorare come winemaker alle cantine salesiane Cremisan, che con il Vis (Volontariato internazionale per lo sviluppo) quell’anno aveva iniziato un progetto di ristrutturazione e rilancio. Abbiamo messo in ordine molti aspetti della produzione, raggiungendo ottimi risultati. Cremisan, in attività da 125 anni, ha incontrato problemi, anche sociopolitici. Non ultima la costruzione del muro. (Il muro ha tagliato i terreni dei salesiani in due parti e due ettari abbondanti sono diventati zona militare, inaccessibile e quindi non coltivabile, ndr). Dall’Italia ci sostengono aziende, privati, consulenti come l’enologo Riccardo Cotarella, che è uno dei partner più importanti. Com’è importante la collaborazione con l’Istituto agrario di

San Michele all’Adige, in Trentino. Lì attualmente stanno studiando viticoltura ed enologia due ragazzi palestinesi che in futuro saranno in grado di sostituirci nel lavoro per Cremisan. Le prime belle soddisfazioni le abbiamo avute lo scorso aprile, al Vinitaly di Verona. Molti complimenti dagli appassionati, ma anche un vivo interesse dagli importatori che ci hanno contattato da molti Paesi. Abbiamo fatto assaggiare tutta la gamma dei vini di qualità: due bianchi (Dabouki e Hamdani Jandali) e due rossi (Baladi e Cabernet Sauvignon). Attualmente la produzione è di 220-250mila bottiglie. Nel 2000 erano il doppio e Cremisan era una delle poche aziende vinicole in Medio Oriente. Poi, oltre alla seconda Intifada, è molto cresciuta la produzione


israeliana e il nostro mercato si è fatto più complesso. (Talvolta i vigneti sono sorti nelle colonie in Cisgiordania, un territorio che l’Onu dichiara occupato illegalmente, ndr). Abbiamo comunque un mercato sufficiente per garantire a noi e alla popolazione palestinese che lavora con noi un’attività costante. Acquistiamo le uve da diversi appezzamenti. In parte sono coltivate da noi, in parte da un’altra casa di salesiani e da agricoltori palestinesi, sulle loro terre. Abbiamo piantato vigneti proprio sotto le Colonie per arginarne l’espansione tra Betlemme ed Hebron. (Se i terreni restano incolti per più di tre anni, Israele può confiscarli grazie a un’antica legge ottomana. Messi a coltura si salvano dall’esproprio, ndr). Ora si può fare un paragone: siamo ai livelli di una buona azienda italiana. Per i bianchi usiamo vasche di cemento e serbatoi in acciaio, mentre parte dei rossi è affinata in botti di rovere di Slavonia. C’è anche una piccola produzione di brandy, che matura per ventiventicinque anni e che ho trovato, da subito, perfetta. Al momento esportiamo soprattutto in Germania, Inghilterra e Giappone. Tutti i vini sono frutto di una ricerca molto accurata, la segue il nostro agronomo Ro-

berto Pagliarini. Con il progetto Emergenza puntiamo alla riabilitazione dei terreni che stanno sotto le Colonie. Qui sono state piantate diverse varietà di vite che, ad oggi, risultano sconosciute ai database mondiali. Si tratta di uve che i contadini qui coltivano da sempre, ma nessuno le ha mai classificate e studiate e questa per noi è diventata una grande sfida. Dalla sfida nasce il progetto Ricerca, con l’Università di Hebron che ha una facoltà di agraria che studia viticoltura, ma non enologia, e l’Istituto di San Michele. Abbiamo scoperto trentasei varietà, nel gennaio 2010 ne abbiamo piantate tre e l’anno prossimo avremo la prima produzione. Cremisan si autosostiene ma fornisce anche pane gratis a duecento famiglie e ottiene rette basse per gli studenti palestinesi nelle scuole di Betlemme e Nazareth. Questo vale per la comunità cristiana come per quella musulmana. È bello pensare che in 125 anni Cremisan non ha mai licenziato nessuno e che, tra operai, guardiani, segretarie, una trentina di famiglie è coinvolta nell’attività.

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Andrea Bonini è nato nel 1980 a Pradalunga, in provincia di Bergamo. Dopo il liceo si è dedicato al settore enogastronomico. Trascorso un anno a Ca’ del Bosco, in Franciacorta, è diventato assistente personale di Luigi Veronelli per la realizzazione delle sue guide. Ha seguito il Seminario permanente Luigi Veronelli per la cultura del vino e oggi, a Cremisan, è responsabile delle produzioni enologiche.


storia 44 - Barbara Mantovi

Arte in prestito storia raccolta da

Roberta Carlini

Barbara Mantovi è responsabile del progetto Artoteca di Multiplo – Centro cultura di Cavriago, cittadina di circa diecimila abitanti in provincia di Reggio Emilia. Ha 34 anni, è laureata in Conservazione dei beni culturali e si occupa anche della Scuola di musica, di cinema e teatro e di iniziative culturali del Comune di Cavriago. Nel Multiplo lavorano 14 persone e sono registrati 3.976 utenti. Da gennaio a ottobre di quest’anno sono stati effettuati circa 65mila prestiti tra libri, dvd, riviste, giochi, opere.

Hanno cominciato ad avvicinarsi, molto molto timidamente. A girare, a guardare i quadri, a prenderli in mano. Poi a chiedere qualcosa: «Ma davvero li possiamo prendere in prestito e portare a casa? E se si rovinano, se succede qualcosa?». Sto parlando dei primi utenti dell’Artoteca: una cosa che noi abbiamo deciso di fare qui a Cavriago e che (in questi termini: pubblica e gratuita) non c’è in altre parti d’Italia. Per studiarla, abbiamo girato un po’ l’Europa. La “cosa” è questa: dare l’arte a tutti. Ossia dare i quadri in prestito, come i libri in biblioteca. Permettere a chiunque di portare a casa opere d’arte con la stessa facilità con cui si prende in prestito un libro, un disco, un film. E infatti stiamo dentro un centro culturale pubblico, il Multiplo del Comune di Cavriago, Reggio Emilia. La comunità di Cavriago è importante per capire questo progetto. Parlo della comunità allargata: sono stati infatti dei cavriaghesi al rientro da un gemellaggio all’estero a parlarci di questo servizio. Mentre qui adesso abbiamo le seconde generazioni di mezzo mondo che vanno a scuola e vengono nella nostra biblioteca, ad Argenteuil, alle porte di Parigi, ci sono le terze e le quarte generazioni dei cavriaghesi che sono migrati lì per fuggire al fascismo e per lavorare nelle cave di gesso e altrove. Sono stati alcuni di loro a raccontarci delle esperienze delle artoteche, che lì e in altri posti d’Europa sono molto diffuse. «Perché non lo facciamo anche noi?», ci siamo chiesti. Abbiamo cominciato a lavorare al progetto, chiedendo aiuto e consigli in tutta Italia e soprattutto all’estero: abbiamo visitato diverse médiathèque francesi (Tours, Évreux, Limoges, Poitiers), per confrontarci con i responsabili dei servizi. Sono loro che ci hanno dato alcune dritte: per esempio, consigliandoci di non acquistare le opere, ma

di farcele a nostra volta prestare dagli artisti per sei-otto mesi, in modo da avere anche un ricambio continuo della collezione. Oltre a permetterci di avere sempre nuove opere, questa politica è molto positiva per gli autori, dà loro visibilità e confronto con il pubblico. Dalla Germania invece è giunto un altro consiglio decisivo: quello di essere selettivi, filtrare le proposte. Tutto ciò, per offrire al pubblico opere di qualità e valore: valore di mercato (senza esagerare: le nostre opere hanno una quotazione massima di mille euro) e valore certificato da una commissione di esperti che le sceglie. Insomma, eccoci qua. Adesso abbiamo 150 opere: litografie, acqueforti, xilografie, fotografie d’autore, tavole originali di fumetti... Ogni famiglia può prendere in prestito al massimo due opere, e al massimo per quarantacinque giorni. Le opere sono incorniciate, e nel retro si possono leggere le informazioni essenziali: il nome dell’autore, quello del proprietario, le regole per una buona esposizione. Contrariamente alle aspettative, nei primi giorni in cui l’Artoteca ha cominciato a funzionare, i primi a servirsene non sono stati esperti o appassionati d’arte, ma utenti e persone incuriosite e stimolate dalle opere esposte, che a colpo sicuro si sono diretti subito verso quelle con maggior valore artistico. È stato emozionante vedere le persone circolare tra le creazioni, farsi ripetere due-tre volte le informazioni – «Ma davvero le opere sono assicurate? Stiamo tranquilli?» – e poi andare via con il pacco ben imballato sotto il braccio. Dunque non è lontano dal vero lo slogan che abbiamo scritto sulla brochure: “L’arte è per tutti, è anche per te, qualsiasi sia il tuo stipendio, il tuo lavoro, il tuo titolo di studio”.

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storia 45 - Garrett Dwyer

Addio alle armi storia raccolta da

Camilla Minarelli foto Giada Connestari

Garrett Dwyer, 24 anni, è originario di Bartlett, Nebraska. Decise di arruolarsi nei Marines dopo l’attacco alle Torri gemelle quando ancora frequentava le scuole superiori. E, dopo quattro anni nel corpo militare, ha deciso di tornare nella sua terra d’origine per diventare allevatore.

Quando c’è stato l’attacco alle Torri gemelle ero a scuola. Avevo quattordici anni, ma proprio in quell’istante avevo già preso la mia decisione: avrei servito il mio Paese. La collera dei miei genitori non tardò ad arrivare. Erano assolutamente contrari, forse anche perché sono l’ultimo di quattro figli, l’unico maschio. Ma io ero fermo, risoluto: fresco di diploma, mi sono arruolato nei Marines e sono stato mandato in Iraq. Sono rimasto lì “solo” sei mesi, a cavallo tra il 2006 e il 2007, un periodo sufficiente per capire che quella vita non faceva per me. Ricordo le lunghe ore passate di guardia. Pensavo continuamente a casa, non riuscivo a fare altro. È stato lì che ho iniziato a desiderare di tornare nelle terre dove sono cresciuto, in Nebraska. Così, dopo quattro anni, sono tornato. Qui la natura regna e io posso godere della vista delle colline. Per non parlare del silenzio che mi circonda. Sono un solitario. Amo questo luogo. Quando sono arrivato a casa dei miei genitori pensavo a un nuovo inizio, a una nuova vita, anche se non sapevo come e con quali mezzi ripartire. Ed ecco che, come spesso accade, una coincidenza, un trafiletto letto sul giornale locale, decide al posto tuo. Venni a sapere che l’Università del Nebraska aveva da poco avviato un programma – Combat Boots to Cowboy Boots – il cui obiettivo era assistere i veterani per farli diventare imprenditori agricoli o allevatori. Ecco ciò che faceva per me. Volevo diventare allevatore. Ma perché chi è stato nei Marines dovrebbe voler lavorare in una fattoria? Quasi la metà dei miei commilitoni, e in generale dell’esercito americano, è composto da ragazzi della provincia rurale, alcuni in cerca di emozioni, altri di dimostrare che valgono qualcosa. La disoccupazione è altissima e se non sei ricco il mestiere del soldato è quasi una via obbligata. Una volta rimessi i panni civili,

diventare contadini è una sorta di ritorno alle origini. Questo programma, insieme ad altri che stanno prendendo vita nel Paese, vuole aiutare i veterani a ritrovare una nuova identità, un’identità familiare, che faccia riferimento alla terra dove sei nato. Eppoi la disciplina imparata nel corpo dei Marines aiuta a portare avanti un lavoro che è, molto spesso, duro, fatto di levatacce, assenza di orari e aria aperta (che qui in Nebraska vuol dire, quasi sempre, temperature gelide). I sacrifici non mancano, certo. Il primo anno, quando stai ancora facendo crescere gli animali per poi venderli, non hai entrate. E acquistare la terra è fin troppo costoso, persino in una zona come questa. Ma poi l’ingranaggio si mette in moto. Grazie al programma sono riuscito a ottenere finanziamenti agevolati per acquistare 125 capi di bestiame: è da qui che sono partito. Oggi ne ho circa duecento, ho imparato come si crea un business plan e, motivo di orgoglio in più, posso continuare quella che è l’attività di famiglia da cinque generazioni. Vedi? Qui c’è la targhetta che lo certifica. Non è poco per chi ha messo in pericolo la vita per proteggere la propria terra. Ciò che secondo me fa la differenza, rispetto ad altri programmi di reinserimento, è anche un altro fattore: grazie a questi aiuti diventi proprietario, imprenditore, la terra e gli animali sono tuoi e questo fa sì che te ne prendi cura in modo diverso. Non lavori per qualcun altro, puoi contare solo sulla tua capacità di farcela. Il mio quotidiano è diverso da quello dei miei coetanei “di città”. Il supermercato più vicino è a un’ora e mezza di auto. Mi devo organizzare, certo. Ma è qui che voglio stare, è un’oasi di pace. Ne avevo bisogno.

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storia 46 - Andrea Satta

Terapia da favola Andrea Satta

Cento chilometri al giorno, cinquanta all’andata e cinquanta al ritorno. Da Roma alla provincia, con qualunque tempo, un pendolo eterno. Con una vecchia Mercedes 200 diesel del ’65, con un paio di Clio rosse e azzurre sfondate sui colli, con una Renault 9, un vecchio Maggiolino del ’63, verde acqua marina, comprato a un amico di mio padre che lo stava consegnando allo sfasciacarrozze, con una Fiesta 1100, una Fiat Croma, una Multipla, tutte usate. Qualche volta a cavalcioni su una Vespa rossa, qualche altra perfino in bicicletta, d’estate. Faccio un lavoro bellissimo, un incontro nuovo ogni giorno. Le ragazze e i papà arrivano nel mio ambulatorio con così tante domande che quasi non sanno quale farmi e cosa chiedere. E quei piccoli, che spesso non arrivano a tre chili, fragili e con le manine rampicanti, che ruotano gli sguardi verso la luce. Il paese dove lavoro si chiama Valmontone, era un paese e oramai è praticamente la periferia della metropoli. Nella zona, il 40 per cento delle nascite sono straniere. Così, scrivo in stampatello per loro, oppure scrive Maria che è la mia segretaria, dolce e magnifica sorella, lei lavora con me e ha una bella grafia, così che anche un bambino capisce al volo. Queste campagne sono ormai tutte infrastrutturate: cemento, marciapiedi, svincoli, capannoni industriali, corsie preferenziali, alta velocità, autostrade. Un territorio molto inquinato, tre termovalorizzatori, in arrivo una centrale a turbogas, una grande discarica a pochi chilometri, oltre a tutto quello che vi ho già raccontato. È il quinto sito in ordine di inquinamento in Italia. Allergie in aumento e molte patologie tiroidee nelle famiglie. Ho bambini da tutti e cinque i continenti, da qualche giorno lo posso dire, dato che è arrivato un piccolo della Nuova Zelanda, Isola del Sud. Una volta, la mamma di Mohamed, una ragazza del Marocco, mi disse che lei in otto anni non era proprio riuscita a farsi neppure un’amica: «Le uniche parole le scambio qui da te, mentre aspetto che visiti il mio bambino». Mi domandai a lungo cosa avrei mai potuto fare, se spettasse a me trovare una soluzione. Poi mi sono detto che certo la mia specializzazione è proprio in Pediatria preventiva e sociale e che quindi un’idea non solo potevo, ma dovevo farmela venire. Ci mettemmo con Maria a frugare tra le cartelle dei bambini, le schede su cui dall’inizio annotiamo tutto. Sapete quanti sono i Paesi da cui provengono i nostri piccoli pazienti? Trentacinque. Sì, pazzesco, trentacinque Paesi, dal Perù al Brasile, dal Sudan alla Nigeria, tutto il Maghreb, i Paesi balcanici (Montenegro, Macedonia, Bulgaria, Romania), Uzbekistan, Ucraina, Russia, e poi il Nordeuropa (Norvegia, Finlandia) e Polonia, Svizzera, Belgio, Spagna. Perfino Cina, Pakistan, Palestina, Egitto... Culture, lingue, religioni, abitudini,

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pregiudizi, miserie, necessità, sospetti. Io non scelgo i miei bambini. Io sono un “pediatra di base”. “Di base” vuol dire che sono il primo che una mamma incontra, quello che scegli alla Asl. Io curo i bambini, li seguo e per capire loro devo avere un entratura nel contesto sociale, discreta, atipica, ma una chiave occorre. Io sono quello che sono. Che canto lo sanno tutti, che ho idee poco consuete in un ambito come il nostro anche, che non sono amico delle multinazionali anche è noto. Ma non faccio propaganda a nessuno. Non è facile allora farsi venire un’idea. Tranne che una sera di settembre, quando le vacanze recenti erano già un ricordo, fermo sulla tangenziale, nella pioggia di addio all’estate, pensai alle favole, alle mamme ai bambini e all’ambulatorio.

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Musicista e scrittore, è la voce del gruppo Têtes de Bois. Appassionato di ciclismo, ha pubblicato il libro I Riciclisti (Ediciclo 2009) e, con Sergio Staino, è inviato speciale dell’Unità al Giro d’Italia e al Tour de France. Non tutti sanno che è anche pediatra di base nella periferia romana, esperienza che gli ha ispirato

Ci sarà una volta. Favole e mamme in ambulatorio, una raccolta delle favole raccontate in tutte le lingue dalle mamme che si sono ritrovate in ambulatorio ogni lunedì con i loro bambini. (Infinito edizioni, 12 euro, illustrazioni di Sergio Staino, prefazione di Dario Vergassola e introduzione di Moni Ovadia). I diritti d’autore di questo libro sono destinati al Centro pediatrico di Emergency per i bambini del campo profughi Mayo, in Sudan.


storia 47 - Francesca Bottero

L’orto sotto il cavalcavia Le erbacce non esistono. Semmai ci sono erbe commestibili e non commestibili. Le erbe spontanee proliferano negli orti tradizionali, perché la terra arata tende a ricoprirsi, e sono un indicatore del tipo di terreno. Per esempio l’ortica e la stellaria spuntano nei terreni ricchi di azoto, le ginestre in quelli poveri di sostanze, la margherita in quelli argillosi. Nell’orto sinergico, invece, esce fuori soprattutto quello che piantiamo o quello che deposita il vento. Alla fine tutto raggiunge un suo equilibrio. La mia passione per la campagna è nata per caso. Avevo lasciato una lavanderia industriale perché le esalazioni chimiche mi avevano fatto venire dei polipi in gola e avevo appena chiuso un negozio di musica nel quale lavoravo da otto anni. Allora ho chiesto a mia cugina: «Ricordi che cosa sognavo di fare da piccola?». Lei mi ha risposto: «Coltivare». Così nel 2003, quasi per caso, mi sono iscritta a un corso di agricoltura sinergica ad Asti. È stata una rivoluzione: ho scoperto che non siamo più noi che ariamo, zappiamo, piantiamo, ma che le piante si gestiscono da sole. L’agricoltura sinergica si basa su quattro principi: non arare il terreno ma creare delle aiuole permanenti, strette e lunghe. Secondo, non calpestare la zona di crescita delle piante. Terzo, coprire con una pacciamatura di foglie o paglia che riduce l’erosione, mantiene l’umidità e agevola la decomposizione: pensate che in un centimetro cubo di terra ci sono due miliardi di microrganismi. E, per ultimo, associare le piante: per esempio fave, fagioli, piselli vanno sul culmine dell’aiuola perché sono azotofissatori, ai lati si piantano pomodori e ai bordi aglio, cipolle, porri e piante aromatiche che proteggono la terra dai parassiti. Così, per cinque anni, ho fatto sperimentazioni in una valle nel Ponente di Genova, sopra a Vesima, dove negli anni Cinquanta si coltivavano fragole e verdura che venivano vendute anche a Milano. Seminavo un sacco di cose e tutto nasceva un po’ a caso. Man mano ho imparato a rispettare clima e stagioni. Intanto per mantenermi facevo l’istruttrice di nuoto, lavoravo in pescheria, per un po’ ho fatto anche l’investigatrice privata. Poi è nata l’Associazione Terra!, referente nazionale per gli orti sinergici. Oggi insieme ad altre persone organizziamo laboratori per le scuole e nei quartieri e sviluppiamo progetti di riqualificazione del verde urbano con nonni e genitori. I prodotti dell’orto li vendiamo anche a un mercatino locale, a chilometro zero.

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La cosa più curiosa è che le nostre fasce sono sotto un cavalcavia dell’A10 Genova-Ventimiglia, l’autostrada dei Fiori: è troppo facile costruire una cosa bella in un posto bello. Un giorno, poi, ho scoperto che uno dei fondatori dell’agricoltura sinergica, il giapponese Masanobu Fukuoka, coltivava sotto il viadotto di un’autostrada. Un segno del destino.

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storia raccolta da

Alessandra Fava

Francesca Bottero ha 38 anni e vive a Genova. Prima di scoprire l’agricoltura sinergica, ha lavorato in una lavanderia industriale, in un negozio di dischi, in una pescheria e in un’agenzia di investigazioni private. Oggi è contadina a tempo pieno nei terrazzamenti del Ponente genovese e nei giardini urbani di quartieri popolosi. Per saperne di più: www.terraonlus.it www.agricolturasinergica.it


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Il business dei sani di

Roberta Villa

illustrazioni

Antonello Silverini

«Sogniamo di produrre farmaci per le persone sane». Così, nel suo discorso d’addio, il direttore del colosso farmaceutico Merck, Henry Gadsen. Trent’anni dopo, la missione si può dire compiuta e il business che amplifica il concetto di malattia per alimentare il mercato della salute è l’unico che resiste, e anzi prospera, in questi tempi di crisi economica. Il giro d’affari delle aziende farmaceutiche nel mondo ha superato nel 2010 i 610 miliardi di euro, fatturato a cui quelle italiane contribuiscono con una quota di circa 25 miliardi. La spesa media pro capite di ogni italiano per le medicine è di oltre 300 euro l’anno, ma non è tutto qui, perché il settore dei farmaci concorre per meno del 15 per cento all’intero comparto economico che ruota attorno alla salute. E questo mercato del benessere, dai confini sempre più sfumati, rappresenta ormai il 10 per cento dei consumi in Europa e il 15 per cento negli Stati Uniti. Un business che si nutre soprattutto di marketing. «Nell’industria farmaceutica gli investimenti in questa direzione sono due volte più elevati di quelli destinati alla ricerca», spiega Gianfranco Domenighetti, docente di Comunicazione ed economia sanitaria presso l’Università della Svizzera italiana. «Solo il 2,4 per cento dei farmaci immessi sul mercato dal 1981 al 2008 rappresenta un vero importante progresso terapeutico, mentre l’80 per cento non sono che copie dell’esistente, a eccezione del prezzo, che di regola è triplicato». Eppure, nonostante varie mozioni che anche recentemente stanno smuovendo le acque a livello comunitario, in Europa ancora non è possibile, come Oltreoceano, fare pubblicità sui giornali e in televisione ai farmaci che devono essere prescritti dal medico. Ma la scappatoia c’è, ed è perfino più redditizia. «Invece del prodotto, basta

promuovere la malattia» spiega l’economista svizzero. «Il fenomeno – continua – si chiama disease mongering e consiste nel gonfiare l’importanza di una malattia o, se occorre, inventarsela di sana pianta». In questo modo si può anche fare squadra, perché a trarre vantaggio da un approccio di questo tipo non è più solo una singola azienda, né solo quelle che producono farmaci per una determinata malattia, ma tutta una filiera, che va dai laboratori di analisi alle società scientifiche dei medici specialisti in quel ramo, dalle farmacie ai produttori di kit diagnostici o attrezzature varie. Spesso vengono coinvolte anche associazioni di pazienti, ignare di prestarsi a un’operazione che dietro alla facciata di “sensibilizzazione” nasconde solo interessi economici. Per accendere i riflettori sull’una o l’altra condizione più o meno patologica ci sono le Giornate, le Settimane o i Mesi della prevenzione, che ormai costellano tutto il calendario, martellano dai media, invadono le piazze. Si offre gratuitamente una visita o un esame, e da lì si innesca una catena di accertamenti e cure, da cui tutti traggono vantaggio, tranne, nella maggior parte dei casi, il malato stesso.


Che cosa hanno in comune un bambino timido, una donna incinta e un disoccupato? Sono potenziali e ricercati pazienti di un mercato che è l’unico che prospera, quello della salute. Che mette sul banco delle farmacie nuove copie di vecchi farmaci al triplo del prezzo e gonfia l’idea di malattia in modo da comprendervi tanti e fisiologici aspetti della vita. E così nessuno mai può pensare di stare bene del tutto

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Terapia online Troppa medicina fa male alla salute, non solo al portafoglio o ai bilanci delle Regioni. Ecco perché non basta la prospettiva di risparmiare per giustificare il ricorso a esami medici o trattamenti inutili. I gruppi d’acquisto online come Groupon, Groupalia, Let’s Bonus sfruttano le potenzialità della rete per offrire a prezzi stracciati servizi che molti altrimenti non si potrebbero permettere. «Puoi risparmiare molti soldi su cose che non avresti mai pensato di fare!!!», testimonia Matteo dalla homepage di Groupon, maestro nell’arte di indurre nuovi bisogni. Tutto bene finché si tratta di ristoranti di lusso o manicure, ma qualche perplessità emerge quando l’offerta si estende a esami medici e trattamenti che spesso travalicano la semplice estetica, e non sempre sono esenti da rischi: perché sottoporsi al carico di radiazioni di una panoramica dei denti, per quanto a prezzi stracciati, se non è il dentista a richiederlo? E perché rivolgersi alle strutture convenzionate con il sito, invece che agli ospedali e ai consultori, per effettuare un pap test o l’esame dei nei? La Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e odontoiatri ha denunciato Groupon all’Antitrust per pratica ingannevole e ha inviato una lettera ai Nas in cui si chiede di verificare se “le prestazioni siano rese da personale specializzato, nel rispetto dei limiti di sicurezza e siano erogate in strutture a norma”. Il problema però non è solo questo: “Gli screening possono danneggiare gravemente la salute”, titolava il British Medical Journal già molti anni fa, parafrasando le scritte riportate sui pacchetti delle sigarette. Nonostante quel che si vuol far credere, la salute non si compra e non si svende.

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A caccia di sintomi

«‘Diagnosi precoce’ e ‘prevenzione’ sono parole affascinanti», spiega Marco Bobbio, cardiologo dell’Ospedale Santa Croce e Carle di Cuneo e autore del libro Il malato immaginato, edito da Einaudi. «Quello che però chi promuove queste campagne spesso non dice è che in molti casi questi accertamenti diagnostici non sono abbastanza precisi: al di fuori dei programmi di screening previsti a livello nazionale, di cui sono ben soppesati svantaggi e benefici, tutti questi esami in più rischiano di indurre una falsa rassicurazione che farà trascurare sintomi preoccupanti, o viceversa di creare un allarme cui possono seguire accertamenti o terapie inutili, con tutto il loro carico di effetti collaterali indesiderati». Prima di andare a caccia di una malattia, bisogna essere ben certi di poterla curare in maniera efficace. Le campagne per la diagnosi precoce dell’Alzheimer per esempio hanno questo limite: privano una persona di mesi o anni di vita serena, senza offrirle nessuna speranza di arrestare la demenza che incombe. Che dire poi del mercato dei test genetici offerti senza criterio e consulenza adeguata? 23andMe, il servizio di Google che offre a chiunque su internet l’analisi del proprio Dna, ha appena superato la soglia dei centomila clienti, ciascuno dei quali, con poco meno di cento dollari, ha potuto sapere quanto aumentato o ridotto rispetto alla media è il suo rischio di sviluppare oltre duecento tra malattie come il cancro o l’infarto, disturbi comuni come il mal di schiena o il mal di testa e condizioni come il tipo di cerume che ha nelle orecchie o la sua capacità di discernere i diversi odori. Frugando tra i geni è inevitabile scoprire di essere predisposti in misura maggiore o minore almeno all’una o all’altra malattia. «Lo scopo dichiarato del marketing è di far diventare tutti i consumatori pazienti ‘presintomatici’», spiega Alessandro Delfanti, che sulle pagine del Journal of Science Communication della Sissa di Trieste ha commentato quattro interventi di esperti italiani e internazionali sull’argomento. E d’altra parte è innegabile che tutti siamo “presintomatici”, perché prima o poi svilupperemo senza dubbio qualche sintomo. Anzi, qualche tipo di malessere lo abbiamo già certamente. Chi infatti può dire di vivere “non solo in assenza di malattia ma in uno stato di completo benessere fisico, psicologico e sociale”, come recita la definizione di salute stabilita dall’Organizzazione mondiale della sanità? «Una definizione utopistica, che sicuramente ha contribuito alla cosiddetta ‘medicalizzazione’ della nostra società», sostiene Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano. In Europa, per esempio, quasi quattro persone su dieci sono etichettate come portatrici di un disturbo mentale. «La depressione è una condizione seria che deve essere curata», precisa il noto farmacologo. «Ciò non significa però prescrivere farmaci ogni volta che una persona vive un momento difficile ed è comprensibilmente giù di morale a causa di difficoltà finanziarie, di un grave lutto o della perdita del lavoro». Eppure in molte di queste situazioni la prescrizione è comune ed è anche così, probabilmente, che negli Stati Uniti negli ultimi dieci anni il consumo di antidepressivi è quadruplicato. Il concetto di ciò che è normale o patologico riguarda anche i bambini. Non si considera naturale che

Farmaggedon Mai nella storia dell’umanità la medicina ha potuto garantire una vita media così lunga, eppure mai è stata così diffusa come oggi nei Paesi ricchi la paura di ammalarsi e l’ansia di difendersi dalle malattie. Nessuno oggi può dirsi davvero sano. «Si ha l’impressione che la salute si possa conquistare solo con un perenne stato di malattia», dice Marco Bobbio. «Meglio flagellarsi con medicine, diete, controlli, esercizi e rinunce nella speranza di un beneficio, pur sapendo che solo ‘probabilmente’ i nostri sforzi ridurranno il rischio di incorrere in una malattia e allontaneranno il momento della morte». Clifton Meador, docente all’Università di Nashville, nel Tennessee, qualche anno fa ha provato a immaginare come vivrà “l’ultimo uomo sano sulla terra”, definizione che non a caso è stata scelta come sottotitolo dell’opera teatrale Farmageddon, incentrata su questi temi, che Emergency sta portando in giro per l’Italia: questo esemplare di uomo sano, più unico che raro, sarà completamente impegnato nello svolgere tutta l’attività fisica richiesta per stare bene, nella scelta degli alimenti più sicuri, nel sottoporsi a esami e accertamenti di ogni genere, comprese esplorazioni periodiche di ogni orifizio. In altre parole, rinuncerà a vivere la vita nella speranza di allungarsela un po’.


a quattro anni i bambini di oggi, ingabbiati in ritmi di vita inadatti a loro, possano essere così vivaci da essere ritenuti incontenibili, disattenti, svogliati o incapaci di portare a termine un compito assegnato: secondo le ultime linee guida dell’American Academy of Pediatrics, già a questa età si può diagnosticare la sindrome da iperattività e deficit di attenzione (Adhd) e si dovrebbe rimetterli subito in riga con il metilfenidato o altri derivati dalle anfetamine. La timidezza? Neppure tra gli adolescenti è da sottovalutare: secondo i ricercatori del National Institute of Mental Health, il 12,4 per cento dei teenager americani, che si definiscono timidi, ha in realtà una vera e propria “fobia sociale”. «Nel 2013, con l’introduzione della versione più aggiornata del Dsm, il manuale che cataloga tutti i disturbi mentali, sarà veramente difficile non riconoscersi in almeno una delle condizioni contemplate dall’elenco», ha recentemente denunciato Allen Frances, a capo della commissione che ha redatto l’edizione precedente del testo a cui fanno riferimento gli psichiatri di tutto il mondo.

Sicuro di stare bene?

E se il confine tra sani e malati in ambito psichiatrico può essere considerato labile, uscendo da questo contesto le cose non vanno molto meglio: un adulto su quattro negli Stati Uniti – più di 55 milioni di persone – prende ogni giorno almeno una pillola per la pressione. L’agenzia statunitense per la regolazione dei farmaci, la Food and Drug Administration, ha poi dato ragione a chi ritiene che le statine, i best seller dell’industria farmaceutica mondiale, usate a fiumi per abbassare il colesterolo e prevenire l’infarto, dovrebbero essere date anche a chi il colesterolo alto non ce l’ha, ma per un alto indice di infiammazione nel sangue oppure per il fatto di avere un altro fattore di rischio (per esempio obesità, fumo o pressione alta) potrebbe avere più probabilità degli altri di andare incontro a malattie cardiache. Ormai non c’è modo di sentirsi sani. Una pubblicità martellante ci ripete per esempio che «la cellulite è una malattia», anche se questa condizione, per quanto antiestetica si possa considerare, colpisce in varia misura il 95 per cento delle donne, comprese le più magre. Niente paura, comunque: «Un medicinale può combatterla», conclude lo spot. La medicalizzazione non risparmia nessuna fase della vita, dalla nascita alla morte. Prendiamo per esempio il parto. L’Italia ha il più alto tasso di tagli cesarei d’Euro-

pa, con quasi quattro bambini su dieci che vedono la luce in sala operatoria. Ma il dato cresce ancora di più, in alcune regioni del Sud che hanno la spesa sanitaria più fuori controllo, dove i cesarei, che costano quasi il doppio dei parti naturali, raggiungono il 60 per cento, soprattutto nelle strutture private. Neppure l’invecchiamento è da considerare fisiologico: anzi è al primo posto nell’elenco delle “non malattie” – ma trattate come se lo fossero – stilato dal British Medical Journal qualche anno fa. È così che i normali effetti della menopausa così come la perdita dei capelli, il calo di potenza sessuale nell’uomo o quello del desiderio nella donna, fisiologici con l’età, sono promossi al rango di patologie per le quali sono già pronti trattamenti farmacologici ad hoc. L’Oréal ha annunciato che sta sviluppando un farmaco capace di stimolare i melanociti a produrre pigmenti, per evitare che i capelli diventino bianchi tradendo il passare degli anni. Operazione compiuta, si potrebbe dunque rispondere oggi a Henry Gadsen. Dal punto di vista del marketing, la sua logica è ineccepibile e ha dimostrato di essere vincente: i veri malati sono, per fortuna, una quota ridotta della popolazione, e hanno la malaugurata tendenza a guarire o, nella peggiore delle ipotesi, a

Le variazioni nel tempo dei valori soglia Glicemia (ml/dl)

150

175

Pressione arteriosa (mm HG)

125 150 100 125

1970 1980 1990 2000 2010

1970 1980 1990 2000 2010

Chi decide? I limiti che definiscono le malattie cambiano nel tempo. A stabilirli sono in genere commissioni nominate dalle società scientifiche costituite da esperti e opinion leader che raramente possono dirsi davvero indipendenti dalle aziende che finanziano la loro ricerca. Questi gruppi di lavoro riesaminano periodicamente la letteratura scientifica, in base alla quale, ma talvolta anche sulla spinta di altri interessi, propongono linee guida che possono essere adottate dalle società scientifiche nazionali e talvolta anche da organismi sovranazionali come l’Organizzazione mondiale della sanità.


morire più degli altri. Dovendo scegliere una clientela, meglio puntare su chi sta bene. Basta inventare nuove malattie, fino a poco tempo prima inesistenti, per dare un futuro a farmaci che altrimenti resterebbero senza destinazione; oppure ingigantire disturbi banali o normali circostanze della vita, nell’idea che tutto si possa curare con la medicina. «La fibromialgia, per esempio, è una ‘nuova’ malattia che sembra fatta apposta allo scopo di vendere analgesici», ipotizza Garattini. «Questa idea di curare i sani – precisa – è solo l’ultimo atto di una strategia che inizialmente è partita allargando artificialmente la platea dei malati. Non è un caso che i valori-soglia considerati un tempo normali per la glicemia, il colesterolo o la pressione arteriosa siano stati progressivamente abbassati: per ognuno di questi aggiustamenti, è cresciuto a dismisura il numero di persone cui prescrivere medicinali». Eppure per tutte queste condizioni ribattezzate prediabete, preipertensione, sindrome metabolica, e così via, il miglior rimedio sarebbe una vita più sana, con un’alimentazione più controllata e una maggiore attività fisica. Ma in questo caso a guadagnarci sarebbe solo la salute.

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divieti sommari spiriti liberi di

Giulio Giorello

Abitualmente l’omicidio appare “il più orribile dei crimini”, ma dipende da perché e da chi si uccide: anche lo Stato del Papa ha avuto i suoi boia. Relativismo? Piuttosto, rilevanza del contesto in cui ogni azione, anche quella apparentemente più delittuosa, assume il proprio significato. Non pochi esponenti del Settecento illuminista, interpretando in modo laico l’ingiunzione biblica che “nessuno tocchi Caino”, erano contrari alla pena di morte perfino per uccisori dichiarati: un conto è un assassinio compiuto da un privato, un altro un assassinio di Stato ove era l’istituzione a farsi carico della distruzione di un individuo. I delitti restano delitti, ma è molto peggio se a compiere un crimine è lo Stato o qualsiasi altra entità che dallo Stato tragga legittimazione. L’argomento è di portata generale: per esempio, se dei dimostranti, o presunti tali, si staccano da un corteo per danneggiare proprietà o persone, costoro “sequestrano” alcune libertà primarie dei cittadini; ma, se per rappresaglia l’istituzione vieta qualsiasi manifestazione, essa sequestra in modo ben più grave la libertà di espressione, declassando i cittadini a sudditi. È male fracassare lo sportello di un bancomat; è peggio eliminare la stessa possibilità che le idee circolino insieme ai corpi fisici dei manifestanti in modo che il pubblico sia in grado di scegliere se accettarle o respingerle. Sabato 23 ottobre a Roma ho partecipato a una manifestazione promossa da Società Libera che, in coincidenza con analoghe iniziative a Berlino e a Parigi, denunciava le violazioni dei diritti di individuie minoranze in Paesi come l’Iran teocratico o la Cina “popolare”. Al contrario che nella capitale tedesca o in quella francese, a Roma gli aderenti alla manifestazione non hanno potuto sfilare nelle strade secondo l’itinerario a suo tempo concordato con la Questura: a causa del divieto del sindaco che aboliva marce e cortei in conseguenza di un precedente sabato di disordini. Qualcuno temeva che sotto le tonache dei buddisti tibetani si celasse la tuta nera dei black bloc, o che Società Libera (che apertamente si richiama alla tradizione liberale) avesse abbandonato i testi di Karl Popper per qualche manuale di guerriglia urbana? Si dirà che una norma deve essere uguale per tutti! Ma che i non violenti paghino perché l’istituzione non è stata in precedenza capace di contenere i violenti ricorda quei maestri di scuola che puniscono l’intera classe per colpire un singolo ladruncolo... di merendine. In latino si diceva “summum ius, summa iniuria”: l’applicazione assolutistica del diritto non è giustizia ma negazione di essa, cioè in-giustizia. E avevano colto nel segno gli illuministi – riformisti o rivoluzionari che fossero – quando ricordavano che uno Stato si mostra forte non “moltiplicando i freni”, ma applicando poche buone regole senza far proliferare un groviglio di divieti che come un cancro finirebbe per “snervare” il coraggio di una società libera.

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parola mia di

Patrizia Valduga

i versi che furono È il primo bibliofilo, il primo filologo, il primo editor e ha dettato legge per secoli, ma quello che è arrivato fino a noi non è il Petrarca “gotico (irto, verticale, flamboyant), è un Petrarca orizzontale e melodico, di ricerche armoniche elementari” (Luigi Baldacci). Il luogo comune vuole che Petrarca usi poche parole “elette”, e che Alighieri invece usi tutte le parole. Ma cosa c’è di “eletto” in verbi come “disosso, scarno, smorso, snervo, sbranco, ammorba, cribra, scavezza, scapestra, puntella”, in aggettivi come “spennachiato, sfrenato, insulso, losco, lubrico, rintuzzati”, in sostantivi come “vomer, zappador, fibra, mischia, medolle”, tutte parole, sia ben chiaro, che in Dante non ci sono? In Dante non c’è una “piazza”, un “architetto”, una “cella”, una “gabbia”, un “interstizio”; non c’è né un “vincitore” né una “vincitrice”. Non c’è neanche un’“oliva” (c’è “uliva” come ramo), non c’è neanche un po’ di “orzo”. In Dante non “nevica”, non “rasserena”, non “inalba” e non c’è “bruma”; non c’è niente che “abbarbaglia, annoia, conturba, perturba, disarma, svoglia, imbosca, innesta, instilla”; né c’è niente di “affabile, barbarico, difforme, famelico, fragile, funereo, funesto, inquieto, instabile, mortifero, neghittoso, occidentale, ombroso, ostile, servile, torvo, velenoso, venale, volontario, volubile, zoppo”. A voler continuare, in Dante non ci sono nemmeno “medicare, palpitare, vacillare, ombreggiare, partenza, udienza, disprezzo, eresia, fantasma, germe, ligustri, olmo, monarca, monile, rogo, selce, spiedo”. E insomma, inutilmente, mica Francesco trasforma la “focina” di Dante in “fucina”, “mantaco” in “mantice”, “omor” in “humore”. E allora, chi è il padre della lingua italiana? Usiamo più parole di Dante o di Francesco? A me pare più del secondo. Comunque, credo che dell’odierno italiano non vorrebbe essere considerato padre né l’uno né l’altro di questi due fieri e lontanissimi padri di qualcosa di più grande e più vero.

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era solo un marziano lessi di

Neri Marcorè

illustrazione

Franco Brambilla

You can’t hide della serie Invading the vintage

Esistono figure geometriche nate dall’osservazione della realtà che, di ritorno, aiutano a decodificarla, semplificandola, quando questa si fa troppo complessa: la parabola è una delle più rappresentative, su di essa possono essere tracciati i destini di esistenze umane, imperi, dittature, mode, amori, correnti artistiche. Il ciclo biologico stesso descrive una parabola, pertanto è naturale che, in senso organico o metaforico, questo modello condizioni ogni aspetto della vita. Per verificare l’esattezza di questa legge fisica universale, Ennio Flaiano, impareggiabile giocoliere tra paradossi, aforismi e provocazioni nella sua infinita attività d’autore e pensatore, considera l’eventualità di un fatto immaginario letteralmente straordinario, forse uno dei pochi in grado, quindi, di sottrarsi al movimento parabolico: lo sbarco di un marziano a Roma (“Un marziano a Roma”, in Diario notturno, Adelphi). La città non è scelta a caso, da una parte per via del disincanto e dello spirito cinico che la contraddistinguono, elementi utili per accorciare i tempi del racconto, dall’altra perché simbolo del potere politico, ecclesiastico, mediatico. Per chi non conoscesse la storia, il marziano, di nome Kunt, approda sulla Terra in corrispondenza del galoppatoio di Villa Borghese con il desiderio di vivere tra gli uomini, vedere e conoscere quanto più possibile. Tra chi lo crede il messia iniziatore di un nuovo corso e chi lo sminuisce come qualunquista apocalittico, egli è invitato a partecipare a incontri con giornalisti, intellettuali, esponenti politici, addirittura il papa, che vogliono conoscere le sue teorie. Fiaccato da un’agenda fittissima di impegni inutili, nel giro di qualche mese la sua immagine è inflazionata e la curiosità nei suoi confronti si affievolisce, tanto più che le aspettative in lui riposte sono disattese dalla sua mancanza d’azione. Kunt è diventato ordinario, un individuo privo di autorevolezza non troppo dissimile da un qualsiasi terrestre che si porta appresso le proprie stranezze, qualità e difetti. Solo pochi mesi dopo lo ritroviamo oggetto di scherno di alcuni giovani che, incontrandolo per strada triste e solo, lo spernacchiano: «A’ marzianooo!». In questo nostro meraviglioso quanto curioso Paese, ogni tanto qualche marziano atterra davvero e trova terreno fertile, forse per la nostra facilità di subire il fascino dell’Uomo della Provvidenza, o di colui che vogliamo credere tale. A differenza del racconto di Flaiano, però, i nostri tempi di reazione sono molto più lenti, ci mettiamo anni prima di capire con chi abbiamo a che fare, fino a renderci conto che, addirittura, chi credevamo provenire da Marte avrà fatto al massimo seicento chilometri. Ma poi, a quel punto, una meritata pernacchia non gliela leva nessuno. Magra consolazione? Beh… direi proprio di sì.

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di Nicola

Sessa

foto Eivind H. [moment/blobcg]

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Nicola Sessa Paolo Verzone [vu/blobcg]

Risveglio

Eivind H. Natvig

Il mondo che si indigna guarda all’isola piccola come a un modello possibile: per dire no allo strapotere della finanza, per non pagare il debito creato dai banchieri, per riportare i cittadini al centro della politica, con una nuova Costituzione scritta da loro. E allora perchÊ gli islandesi tornano in piazza?

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islandese


Eivind H. Natvig L’auditorium Harpa di Reykjavik restituisce la migliore fotografia di un Paese avvolto per decenni nel benessere, ma che adesso è fermo in una sorta di bolla temporale dai tratti tutt’altro che rosei. La maestosa struttura di vetro è stata inaugurata nel maggio scorso, due anni e mezzo dopo il crac finanziario che ha messo in ginocchio il Paese. È costata più di 120 milioni di euro, ma metà del progetto – la costruzione di un hotel e appartamenti di lusso – è rimasta sulla carta. I duecento operai sono stati mandati a casa e i macchinari sono immobili, piantati in un’enorme buca di sabbia e fanghiglia nera. Kristin Snaefells, alla guida del suo fuoristrada oversize, è furiosa. Sui suoi grandi occhiali da sole si riflette l’immagine del cubo di vetro: «È vergognoso, uno schiaffo alla miseria. Centinaia di milioni spesi, mentre il Paese sprofonda nella più grande crisi della sua storia». Ha superato i settant’anni ma ha l’energia di una guerriera, un misto tra Patti Smith e la Crudelia De Mon interpretata da Glenn Close. Dovrebbe essere in pensione da un pezzo, ma continua a lavorare perché deve pensare al futuro dei figli e dei nipoti che lo Stato, in questo momento, non è in grado di dare loro. Kristin si dice fortunata: «Sono una dei pochi ad avere un lavoro decente e a potermi permettere un buon tenore di vita». Non è ricca, ma appartiene a quella

“meravigliosa” middle class spazzata via nel giro di una settimana nell’ottobre del 2008. «Non potevo credere ai miei occhi e alle mie orecchie, nessuno ci credeva. Continuavo a ripetermi che non poteva essere vero che questo Paese, fatto di persone che hanno lavorato tutta la vita, era in bancarotta». La voce di Kristin è un cocktail di frustrazione, rabbia, delusione. L’allora primo ministro Geir Haarde – che ora è sotto processo per le sue responsabilità – aveva rassicurato i suoi concittadini: andava tutto bene, non c’era nessun pericolo. Due giorni dopo, alla fine di una riunione durata tutta la notte, Haarde comunicò pubblicamente il disastro finanziario. In sette giorni le tre principali banche islandesi crollarono e, con un effetto domino, seguirono la stessa sorte anche gli istituti di credito più piccoli: una somma equivalente a sette volte il prodotto interno lordo andò in fumo in un soffio. Le banche erano state letteralmente depredate dagli azionisti di riferimento: si è scoperto solo dopo, per esempio, che Thor Bjorgolfsson, proprietario della Landsbanki – la più grande delle tre – era anche il principale debitore dell’istituto di credito e che l’ammontare dei suoi debiti era perfino superiore all’intero patrimonio della banca. Stesso meccanismo per un’altra banca, la Glitnir, il cui maggiore debitore – in misura del 70 per cento del patrimonio – è risultato essere la società controllante


Eivind H. Natvig Baugur. Tutto ciò, conferma il rapporto della Commissione investigativa, non può essere accaduto senza una grave negligenza da parte del governo e della Banca centrale. «Questi ladri hanno lasciato il Paese di notte a bordo dei loro jet privati e continuano a fare la bella vita, mentre in Islanda le famiglie vedono le proprie case battute all’asta una dopo l’altra», ruggisce Kristin. E ha ragione a infuriarsi, tanto più quando è arrivata la notizia che Bjorgolfsson ha acquistato, l’estate scorsa, uno yacht di 90 metri a cento milioni di sterline.

A Revolutionary Man

Sono state queste le premesse che hanno mosso un uomo solo ad accendere la miccia della prima rivoluzione islandese. Hordur Torfason è un artista eclettico molto popolare in Islanda. Ha dedicato quarant’anni della sua vita alla lotta per i diritti umani e, più di una volta, è riuscito a rivoluzionare l’opinione corrente degli islandesi. Nel 1975, quando era all’apice della fama, confessò la sua omosessualità durante un programma televisivo. Fu costretto a lasciare il Paese perché, all’epoca, i gay erano considerati alla stregua dei criminali. A Copenaghen pensò prima al suicidio, poi a come avrebbe potuto aiutare tanti uomini e donne che, come lui, erano costretti a vivere nell’ombra. Nel 1978, tornato in patria, ha fondato la prima associazione per i

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diritti dei gay: oggi l’Islanda ha una legislazione tra le più avanzate, gli omosessuali possono unirsi in matrimonio ed è il primo e unico Paese nel mondo ad avere un primo ministro, Johanna Sigurdardottir, dichiaratamente lesbica. Con queste credenziali l’11 ottobre del 2008 Torfason è andato, da solo, davanti all’Althingi, il parlamento islandese che ha più di mille anni di vita. «Cominciai a chiedere alla gente se fosse consapevole di cosa stesse accadendo nel Paese; li informavo, dicevo loro che avremmo dovuto fare qualcosa», racconta serafico. Da uno che era diventarono dieci, cento, mille. Si organizzarono e solo una settimana dopo, il 18, misero in piedi una grande dimostrazione. «Chiedevamo tre cose molto semplici: le dimissioni del governo e nuove elezioni, le dimissioni del direttivo della Banca centrale, le dimissioni dell’Autorità di supervisione finanziaria». Le manifestazioni si ripetevano puntuali ogni sabato. Poi venne Natale, molte persone scomparirono: «Non credevano più in quello che stavo facendo». Hordur aveva imparato che per vincere le battaglie ci vuole molto tempo. «Mandai una lettera ai giornali e alle televisioni per rivolgermi a tutte quelle persone: ‘Rispetto la vostra volontà di voler festeggiare il Natale con la famiglia e gli amici. Fatelo, ma dopo tornate. Io vi aspetterò qua’». Nel frattempo l’uomo rivoluzionario avviò una protesta


Nicola Sessa ▲ L’auditorium

Harpa di Reykjavik rimasto a metà ▶ La banca Landsbankinn, nata sulle ceneri della Landsbanki

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silenziosa: comprò diciassette candele e le mise in fila davanti al parlamento. Ogni minuto ne accendeva una. Ogni candela rappresentava un anno di governo ininterrotto del centrodestra che aveva asservito il Paese alle più selvagge dottrine del neoliberismo privatizzando il privatizzabile e mettendo in posizione chiave amici dei politici o ex politici. Da grande teatrante si lanciò in un monologo sul valore del silenzio. Fu allora che un poliziotto gli chiese di allontanarsi perché la sua voce stava disturbando i lavori all’interno del palazzo. Il potere si era accorto di lui e una lampadina si accese nella sua testa. Chiese a tutti di portare con sé pentole e padelle: con il frastuono prodotto, la politica si sarebbe accorta che fuori c’era il popolo che non ne poteva più. Per quattro giorni, dal 23 gennaio del 2009, il popolo cominciò a battere, ininterrottamente, su pentole e padelle sfogando tutta la rabbia. La domenica successiva il governo si dimise, il supervisore finanziario si dimise e lo stesso fece, qualche giorno dopo, il direttivo della Banca centrale. «La rivoluzione delle pentole era riuscita nel suo intento e io salutai tutti». Così, come un moderno Marco Aurelio, Hordur Torfason ha abbandonato il palcoscenico della rivoluzione, convinto che gli islandesi potessero continuare da soli il rinnovamento della società. «Pensavamo che fosse finito il nostro incubo», dice Katrin con amarezza. Per la prima volta, il 25 aprile del 2009, un governo di sinistra aveva vinto le elezioni. «Si sperava che ci avrebbero portati fuori da questo casino, che si sarebbero occupati delle famiglie, del

lavoro, di ricostruire un’economia più responsabile», invece hanno avviato un’operazione a tenaglia: da un lato hanno tagliato sul welfare e sui servizi, dall’altro hanno progressivamente alzato le tasse. L’Islanda aveva chiesto aiuto al Fondo monetario internazionale (Fmi) e siglato con esso un accordo programmatico per la ristrutturazione del Paese. Se da un lato gli ispettori dell’Fmi sono soddisfatti del lavoro del governo Sigurdardottir, gli islandesi sono inferociti: lo Stato su “suggerimento” dell’Fmi ha pensato a salvare e rifinanziare il sistema bancario cancellando il 95 per cento dei loro debiti, mentre le famiglie pagano il conto di una crisi provocata da un manipolo di venti o trenta criminali. Chi come Kristin ha comprato una casa accendendo un mutuo di circa centomila euro, si troverà a pagarne almeno centocinquantamila. Ma la maggior parte delle persone non sa dove trovare i soldi.

Costituente a porte aperte

Negli eleganti negozi che si affacciano su Bankastraeti e Laugavegur, le commesse non sembrano molto indaffarate e, tranne qualche turista di fine stagione, è difficile vedere clienti locali che acquistino abbigliamento a prezzi che sono diventati fuori mercato. «Si fa economia», dice quasi mortificata una donna che lavora in una maglieria. «È più facile trovare delle buone occasioni al centro commerciale Kringlan». Di fronte al grande mall, in un edificio di cemento bianco, si trova l’Ufficio del garante dei debitori, l’Umbodsmadur skuldara. Operativo dall’agosto del 2010, si occupa di


Nicola Sessa

2008-2011

aiutare le persone con difficoltà finanziarie. Ci lavorano ottanta persone (il numero dei dipendenti è più che raddoppiato nell’ultimo anno) che assistono i debitori nella rinegoziazione dei mutui o prestando assistenza legale nei casi in cui delle clausole contrattuali possano rivelarsi troppo svantaggiose per il contraente debole. Un’assistenza prioritaria è fornita a coloro che hanno perso il lavoro: in questi casi, l’ufficio riesce a ottenere il “congelamento” dei pagamenti per un periodo di tempo limitato, che potrebbe rivelarsi però risolutivo. La giovanissima Svanborg Sigmarsdottir, addetta alla comunicazione con il pubblico, specifica che l’assistenza è del tutto gratuita. A oggi l’ufficio gestisce 3.800 richieste per la mitigazione del debito, «ma il problema riguarda circa 5.700 persone poiché le coppie presentano domanda congiunta». Inoltre ci sono almeno quattrocento persone che hanno chiesto assistenza legale per controversie con le banche. «Dall’inizio della crisi più di trecento persone hanno perso la casa e molti altri la perderanno negli anni a venire», afferma sicura Svanborg scorrendo un elenco. In molti casi sono quelli dell’ufficio a contattare i debitori più a rischio. «Spesso succede che rifiutino il nostro aiuto; è davvero molto triste quando sentiamo risponderci: “Abbiamo deciso di trasferirci in Norvegia, ci lasciamo tutto alle spalle... questa è la soluzione migliore per noi”. Ecco, questo ha il sapore della sconfitta», sospira. C’è da dire però che la rivoluzione accesa da Torfason ha prodotto molti effetti positivi e ha dato maggior consapevolezza al popolo islandese. Dopo l’11 ottobre del 2008 sono successe molte cose e diverse battaglie sono state vinte. Per due volte il presidente della Repubblica, Olafur Ragnar Grimsson, si è rifiutato di controfirmare gli Icesave Act, leggi che avevano per

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oggetto il rimborso dei depositi bancari della Icesave – una banca online legata alla Landsbanki – a favore di correntisti britannici e olandesi. Grimsson ha ritenuto che erano gli islandesi a dover decidere: in entrambi i referendum del marzo 2010 e dell’aprile 2011, gli islandesi hanno detto “no”, che non avrebbero pagato per i furti perpetrati dai banchieri. La questione non è ancora chiusa viste le pressioni esercitate dal governo britannico e da quello olandese su Reykjavik. Una menzione a parte merita il miracolo democratico che ha dato vita alla proposta di una nuova Costituzione. Thorvaldur Gylfason, professore di Economia all’Università di Reykjavik, è uno dei venticinque membri dell’Assemblea costituente eletta direttamente dal popolo. Tutti erano candidabili, purché non avessero un passato politico alle spalle né una tessera di partito in tasca. Il risultato è stato un gruppo eterogeneo composto di professori e avvocati, ma al loro fianco c’erano anche un pastore e un manager, un contadino e un direttore di teatro, uno studente e un regista. «Io posso essere un esperto di numeri e mercati, ma chi più di un contadino o di un pastore può conoscere la natura e l’ambiente, due risorse preziosissime del nostro Paese», dice Gylfason con orgoglio ed entusiasmo. «Abbiamo lavorato con le porte aperte, chiunque poteva venire a portare il proprio contributo e ogni nostra riunione era trasmessa in diretta sui social network: ognuno, in tempo reale, poteva controllare il nostro lavoro e commentarlo». La proposta della nuova Costituzione, che sarà discussa nella sessione autunnale dal parlamento, è un documento di rara bellezza, 114 articoli che raccontano di una società giusta basata sulla trasparenza, la responsabilità e il diritto a vivere con dignità e nella quale la natura è elevata al piano dei diritti umani. Nel futuro islandese, disegnato dalla Costituzione, il popolo ha una partecipazione e un controllo diretto sull’operato del governo «che non rimanga lettera morta come avviene in altri Paesi democratici che pure hanno delle

Ottobre 2008 Il governo prende il controllo delle tre maggiori banche. Reykjavik chiede aiuto al Fmi che approva un pacchetto di 2,1 miliardi di dollari. Un artista islandese, Hordur Torfason, dà avvio alla “rivoluzione silenziosa”. Gennaio 2009 Il governo si dimette. A ruota seguono il board della Banca centrale e dell’autorità di supervisione finanziaria. Aprile 2009 Dopo 17 anni di centrodestra, una coalizione guidata dalla socialdemocratica Johanna Sigurdardottir vince le elezioni. Febbraio 2010 Disoccupazione al 9 per cento. In Islanda, prima della crisi, il tasso non aveva mai superato l’1 per cento. Marzo 2010 Il referendum boccia l’accordo con Inghilterra e Olanda sul pagamento di quattro miliardi di euro ai correntisti coinvolti nel crac delle banche islandesi. Ottobre 2010 Riprende la protesta contro il governo, accusato di seguire politiche attente solo ai mercati e alla finanza. In molti emigrano verso Norvegia e Danimarca. Venticinque persone che non hanno alcun trascorso in politica, vengono eletti per scrivere una nuova Costituzione. Dicembre 2010 Il governo sigla un nuovo accordo con Inghilterra e Olanda. Aprile 2011 Gli islandesi dicono ancora una volta no. Non intendono pagare i debiti generati dai banchieri. Luglio 2011 Viene presentata in Parlamento la nuova Costituzione che sarà vagliata dai deputati. Agosto 2011 Gli ispettori del Fmi esprimono soddisfazione per le politiche del governo che hanno rispettato il piano di salvataggio. Ottobre 2011 Di nuovo in piazza. Migliaia di persone si riuniscono davanti al parlamento, battendo su bidoni di metallo per contestare la politica di austerity del governo. Si preannuncia un inverno caldo.


bellissime Carte». Ai bambini l’articolo 12 garantisce “il diritto di esprimere le proprie opinioni cui va accordato il giusto riconoscimento tenendo in considerazione l’età e il grado di maturità”. «Soprattutto, questa Costituzione ha gli strumenti per evitare le connessioni tra i politici e gli uomini della finanza che hanno portato alla privatizzazione delle banche e alla distruzione del nostro Paese», dice Gylfason che è un uomo molto stimato e ama l’Islanda. «Abbiamo trovato un accordo immediato e unanime sulla inalienabilità delle risorse naturali, del demanio e del patrimonio culturale. Bisogna accelerare, considerato che già un miliardario cinese si è fatto avanti per comprare trecento chilometri quadrati di terreno per costruirci un resort e campi da golf», conclude.

La seconda rivoluzione

La neve ha fatto la sua prima apparizione sulle cime delle montagne piatte che fronteggiano la capitale islandese a nord, di là dalla baia. «Il tempo sta cambiando e adesso ricomincerà tutto da capo», nulla di profetico nelle parole di Torfason. La prima neve coincide con l’apertura della sessione autunnale del parlamento. Il primo ministro Johanna Sigurdardottir tiene il suo discorso programmatico: nessuna prospettiva di alleggerimento. Si continua sulla strada segnata dal Fmi: sacrifici, tagli, tasse. Dalle prime ore del pomeriggio un gruppo di donne, con guanti e tute da lavoro, scarica da un paio di furgoni una trentina di bidoni di metallo e li dispone in fila davanti alla sede del parlamento. Un uomo corpulento, grosso quanto un armadio, scende da un pickup e, tolto il telo dal rimorchio, distribuisce martelli e tubi d’acciaio. Due poliziotti assistono pigramente alla scena assicurandosi solo che nessuno scavalchi le transenne messe a pochi metri dalla facciata dell’Althingi. Nel frattempo, molta gente affluisce nella piazza in cui troneggia la statua dell’eroe dell’indipendenza islandese Jon Sigurdsson. Ci sono uomini e donne di tutte le età, pescatori, manager in cravatta, insegnanti, bambini, ragazzi, coppie di anziani coniugi che si tengono per mano e anche un vecchietto su una sedia a rotelle che ha portato con sé il pentolino e il cucchiaio di ordinanza, cimelio della prima rivoluzione. Ognuno prende un martello e comincia a picchiare con tutta la forza contro i bidoni. In prima fila, schiacciata contro le transenne c’è Kristin: «Le pentole non servono più, ci vuole qualcosa di più grosso per essere ascoltati e dovranno ascoltarci prima o poi». Kristin indica la nuova leader delle proteste, Asta Hafberg, capelli rossi e uno sguardo fiero che avrebbe potuto tenere testa al vichingo Erik il Rosso. Nel parlamento c’è aria di assedio. Cala il buio, e il primo ministro comincia il suo discorso: fuori, il rumore diventa assordante. Le tende sono abbassate: di tanto in tanto qualcuna si apre e la luce gialla dei vecchi lampadari scontorna qualche testa che fa capolino. Ma è un attimo e si richiudono. I politici hanno paura e a confermarlo sono i tre deputati del Movimento, gli unici a uscire dall’ingresso principale per salutare i rivoluzionari: «Gli altri sono scappati dal tunnel sotterraneo, è stato bellissimo sentirvi da dentro e vedere la paura sui loro volti», dice Thor Saari scoppiando in una risata fragorosa.

Figli, economia e rivoluzione. L’indomani, Asta è rannicchiata in poltrona nella sua casa di Mosfellbaer, un pugno di abitazioni disseminate su una pianura, le ultime dopo Reykjavik e prima dello sconfinato silenzio islandese. È stanca, ma anche molto più tranquilla rispetto alla sera precedente. Solo i bidoni fuori dalla porta di casa, la bandiera e i cartelli anti-potere sparpagliati nell’appartamento tradiscono il lato rivoluzionario di una donna pacata. Il vento d’Islanda dà delle violente spallate alle finestre e alla porta d’ingresso. Colpi feroci e sordi come palle di cannone. «Ho cinque figli... sto chiudendo il mio Mba in economia, ma trovo il tempo per fare anche la rivoluzione», dice tra un tiro di sigaretta e un altro. «Proprio perché ho cinque figli sento il dovere di proteggerli, quando saranno grandi potrò guardarli negli occhi. La sinistra non ci ha aiutati, i sindacati sono dalla parte della politica, la chiesa fa finta di niente. Oggi posso dire con certezza che non è cambiato nulla, è ancora il sistema finanziario a governarci: tutta la legislazione è stata varata solo a favore della finanza a spese delle gente normale che non ha potere per opporsi». La voce di Asta si fa sottile: «Stanno perdendo case e lavoro, molti sopravvivono... le code per ricevere gli aiuti alimentari diventano ogni mese più lunghe: questa si chiama povertà». In giro però si vedono ancora molte macchine di lusso. «Ce le hanno perché non riescono a venderle, non c’è chi le compra e anche i vestiti, vedi le persone ben vestite perché li hanno comprati tre anni fa, adesso nessuno acquista più». E i servizi? Il welfare? «Tutto ridotto ai minimi termini, quest’anno hanno tagliato ancora di più. Ci aspettavamo che il governo di sinistra aiutasse le famiglie e invece hanno salvato le banche. Non hanno fatto altro che prendere le vecchie banche e trasferirle in altre nuove: tutti i prestiti sono stati rivenduti alle nuove banche a metà prezzo, ma queste pretendono da noi l’intero, neanche un po’ di sconto». Asta sa benissimo che protestare senza proporre non serve. «Stiamo studiando, ci siamo divisi in diversi gruppi, abbiamo le idee: dobbiamo rompere questo matrimonio tra finanza e politica, evitare che persone con un passato in banca abbiano un futuro in politica e viceversa. Le idee vengono dalla gente, mai dai governanti o dai politici: anche Marx era una persona normale, no?», ride Asta e quasi si vergogna per il paragone. Torna subito seria: «Il tessuto sociale è spaccato, le famiglie sono spaccate: i mariti, i padri sono costretti a lasciare la famiglia per lavorare all’estero. Questa crisi ha colpito tutti, dai vecchi ai bambini che soffrono ingiustamente. E anche il popolo islandese, che già di per sé non è numeroso, si sta decimando: intere famiglie lasciano il Paese per trasferirsi in Norvegia o Danimarca». Una delle battute più ricorrenti tra gli islandesi è anche diventata un motto della nuova rivoluzione: «L’ultimo che lascia l’isola, spenga la luce».

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Grecia, a scuola senza libri

di Margherita foto

Dean

Myrto Papadopoulos

A Zografou, comune limitrofo a quello di Atene, si trova via Dracma e, in questa strada, una scuola elementare. Zografou è un posto tranquillo, abitato in prevalenza da greci benestanti, e la scuola di via Dracma è una maglia essenziale del tessuto sociale locale. Si tratta di un edificio immerso nel verde, cosa rara in centro; le inferriate alle finestre dell’edificio non danno neanche troppo nell’occhio e la via, isola pedonale, sembra lo scenario ideale in cui ambientare favole di bambini che vanno a scuola giocosi, con cartelle o zaini carichi di libri. Eppure, in questo anno di crisi economica, i testi scolastici non ci sono, le cartelle sono vuote e le spalle dei bambini sono sollevate da un carico che la ministra dell’Istruzione Anna Diamantopoulou considera superfluo. Questo succede in ogni scuola greca. Il ministero sostiene che non è colpa dei tagli all’istruzione pubbli-

ca, bensì della tipografia dello Stato e, intanto, ha fatto avere ai presidi di ogni istituto dei cd con contenuti da stampare, fotocopiare e distribuire agli alunni. «Di volta in volta stabiliamo i capitoli necessari al programma della settimana successiva e ci mettiamo d’accordo, scuola e famiglie, su chi dovrà sostenere le spese per le fotocopie», racconta Ghiorgos Kappìs, il preside delle elementari di via Dracma. È un tipo a cui piace parlare, occuparsi dei problemi del suo comune ma che, soprattutto, ama il suo lavoro. Eppure, quando descrive la scuola greca in questi tempi di crisi, Ghiorgos non riesce a nascondere la rabbia per quella che definisce “la scuola derelitta’’. «Una scuola senza libri non è una scuola. Se veramente volessimo essere moderni, eliminando i libri di carta e affidandoci ai cd, allora ogni alunno dovrebbe avere un pc, a spese del


La fuga dei prof

ministero, naturalmente. Lo dico per ipotesi, perché io credo nei libri e ciò che succede quest’anno rompe una tradizione molto lunga». È nel 1937, infatti, che venne istituito l’organismo pubblico, Oedb, che si occupava della stampa e della distribuzione gratuita di tutti i testi necessari alla scuola primaria e secondaria. Fu una scelta intesa a esonerare le famiglie dal costo dei libri di testo ma ora, a causa della crisi e delle politiche di austerità, l’Oedb è stato smantellato. In seguito alle reazioni scatenatesi, il ministro dell’Istruzione ha fatto qualche passo indietro. Ma Ghiorgos non è convinto: «Credo che sarà un miracolo se, entro Natale, i miei alunni avranno il piacere di schiacciare il naso su un libro fresco di stampa per sentirne l’odore. Insomma, in questo Paese, i bambini sono stati dimenticati dalla politica».

Sono ancora più piccoli gli scolaretti che frequentano una materna comunale a Patissia, nel centro di Atene. Eleni, la mamma di uno dei bimbi, presiede il comitato dei genitori. Ha lo sguardo stanco. Mai avrebbe immaginato che avrebbe avuto tanto da fare: «Le scuole hanno subito una riduzione del 70 per cento su tutti i finanziamenti, il che significa che i soldi bastano a stento per pagare luce, telefono, acqua e riscaldamento. Si aggiunga che la materna, in realtà, è già indebitata, dal momento che non vede un soldo dal dicembre 2010 e noi genitori dobbiamo aiutare come possiamo. C’è da comprare carta, fazzoletti, pennarelli e cartoncini. Ho chiesto ai genitori dei bambini di portare 50 euro: sono passate due settimane e sto ancora aspettando. Sono tempi difficili e 50 euro sono tanti per tutti». A Nea Smirni, comune alla periferia di Atene, la crisi economica non ha ancora inciso in modo evidente. Eppure, anche qui i problemi delle scuole ricordano lo stato di eccezionalità che la Grecia sta vivendo. A settembre, Ghiannis, con la faccia pulita dei suoi sedici anni, ha partecipato all’occupazione del liceo che frequenta: «Non avevamo libri, non li abbiamo tutti neanche adesso e mancano pure cinque professori». Nel 2011, infatti, più di undicimila docenti hanno fatto domanda di prepensionamento: un esodo che ha aggravato i problemi dell’istruzione pubblica greca, mentre gli stipendi di maestri e professori sono stati ridotti per ben cinque volte in diciotto mesi. Katerina, professoressa di francese al liceo per più di trent’anni, racconta il suo addio all’insegnamento: «Quando si sono accorti che a causa dei prepensionamenti si erano creati molti squilibri, mi è arrivata una lettera ministeriale in cui mi si ordinava di andare a insegnare storia alle elementari, cosa inaccettabile, ma sono stata fortunata perché, nel frattempo, avevo maturato il diritto alla pensione. Se non fosse stato per la lettera, sarei rimasta ancora tre anni. Il lavoro mi manca, intendo quello di insegnante di francese al liceo, perché non saprei proprio fare la maestra». Il ministero sembra molto preoccupato che non si perdano ore di lezione e insegnanti, per il bene di un sistema scolastico che pare sempre più inadeguato e incapace di preparare gli studenti che vogliano andare all’università, dove vige il numero chiuso. L’ammissione ai licei, a sua volta, avviene attraverso esami di ammissione. Ghiannis ha le idee molto chiare in proposito: «È come se il sistema scolastico stesso fosse stato pensato e strutturato per un unico scopo: quello di passare gli esami per potersi iscrivere all’università. Eppure la scuola non è sufficiente e io, come tutti, sono costretto a seguire ripetizioni private, se voglio sperare di farcela. Si tratta di una spesa di almeno trecento euro al mese e se si considera che mia sorella studia in provincia e il lavoro di papà sta andando molto male, si può capire facilmente come sia assolutamente necessario che io riesca a entrare in una facoltà ateniese. Ogni volta che ci penso mi agito, anche se mancano quasi due anni agli esami».

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I numeri Nel marzo del 2011, la ministra dell’Istruzione Anna Diamantopoulou ha annunciato il suo programma per la scuola greca. Il risultato sta nel numero dei tagli: 1.933 delle 16mila unità scolastiche sono state accorpate o soppresse; nella sola Atene, sono scomparsi il 19,1 per cento degli istituti. Lo Stato, nel frattempo, continua a non pagare gli affitti di molti edifici scolastici, contraendo un debito che supera i 12 milioni di euro. Gli studenti delle scuole superiori hanno reagito occupando più di seicento licei in tutto il Paese durante l’autunno. In virtù degli ultimi provvedimenti governativi, la retribuzione di un insegnante di prima nomina è ora di 660 euro per arrivare, dopo trentacinque anni di servizio, a 1.400 euro.


Buone nuove a cura di Gabriele

Battaglia

illustrazioni Ale+Ale

10 ottobre, Gran Bretagna

A Dalston, quartiere londinese, il giovane chef Steve Wilson realizza la People’s Kitchen: offre pasti gratuiti ai poveri utilizzando alimenti ancora commestibili e nutrienti ma destinati alla discarica. Sono quelli scaduti per legge, ma ancora del tutto sicuri, “sformati” (e quindi invendibili), oppure utilizzati per i set cinematografici. Così facendo, Steve svolge un’attività sia sociale sia ecologica. «Per realizzare una People’s Kitchen – spiega lo chef – non servono grandi somme di denaro, poiché molte delle cose necessarie sono già intorno a noi. Il nostro gruppo ha scoperto che a Dalston molte persone erano entusiaste dell’idea ed erano disposte a donare tempo, cibo e utensili. Trovo che sia fantastico cucinare insieme ad altre persone, invece di cucinare a casa da soli. Ed è bello utilizzare cibo che altrimenti sarebbe andato sprecato».

10 ottobre, Stati Uniti

La California introduce il Dream Act, legge che consentirà agli immigrati illegali di beneficiare di borse di studio per frequentare l’università. Nel 2010, le sovvenzioni pubbliche hanno permesso a circa 370mila studenti californiani poveri di continuare gli studi, con una media di circa 4.500 dollari a testa. Ora le sovvenzioni si allargano a circa 55mila nuovi potenziali beneficiari: gli immigrati senza documenti, che avranno anche un permesso di soggiorno valido sei anni o i loro figli, cresciuti senza diritti formali.

10 ottobre, Sierra Leone

Si va verso l’abolizione della pena di morte. Il governo di Freetown, su sollecitazione del Consiglio Onu per i diritti umani, accoglie in linea di principio la raccomandazione di istituire una moratoria sulle esecuzioni.

12 ottobre, Stati Uniti

Lo schermo sensibile al tocco di un tablet, tipo l’iPad, come una tastiera Braille. È questo il progetto a cui sta lavorando un’equipe di studiosi che vogliono rendere accessibili ai ciechi gli ultimi prodotti del mercato dei media. I ricercatori di Stanford stanno ideando un vero e proprio ribaltamento della tecnologia touchscreen: «Invece delle dita che cercano i pulsanti, noi abbiamo fatto i pulsanti che cercano le dita», dice uno di loro, Sohan Dharmaraja.

16 ottobre, Canada

Un centenario di origine indiana, Fauja Singh, conclude la maratona di Toronto in circa otto ore. È l’atleta più anziano ad avere mai concluso questa gara e meriterebbe il suo posto nel Guinness dei primati, ma tale onore non gli viene concesso perché non è in grado di esibire un certificato di nascita indiano risalente al 1911. All’iscrizione, Singh aveva esibito un passaporto britannico che riportava “1 aprile 1911” come data di nascita e una lettera di congratulazioni della regina ricevuta in occasione del suo centesimo compleanno.

18 ottobre, Africa meridionale

Circa quattrocentomila contadini poveri di Malawi, Tanzania, Mozambico, Zambia e Zimbabwe hanno negli ultimi anni incrementato la resa dei raccolti utilizzando le cosiddette “piante fertilizzanti”, un metodo del tutto naturale. Queste specie autoctone trasferiscono azoto dall’aria al terreno attraverso le radici e le foglie che cadono e marciscono, ristrutturando così il suolo con nutrienti organici. Il progetto è promosso dal World Agroforestry Centre, che fin dal 1980 ha cominciato a identificare le piante fertilizzanti più adatte a ogni zona. Una di queste è l’acacia che aumenta la resa dei campi coltivati.

20 ottobre, Spagna

Eta, l’organizzazione combattente basca, abbandona la lotta armata. Euskadi Ta Askatasuna (Paese basco e libertà) recapita un comunicato e un video al quotidiano basco Gara, in cui parla di “cessazione definitiva della lotta armata” e chiede un dialogo diretto a Francia e Spagna per “affrontare le conseguenze del conflitto”. Ora la palla passa ai governi.

15 ottobre, Francia

Il Comune di Romainville, alla periferia di Parigi, è il primo in Francia ad adottare la raccolta di rifiuti ad aspirazione automatica. Al posto di cassonetti, sono comparse un centinaio di colonne grigie, collocate due a due: una per la raccolta dell’umido e l’altra per la raccolta differenziata di materiali riciclabili. A due metri di profondità, i rifiuti vengono aspirati da grossi tubi che, a una velocità di settanta chilometri l’ora, li spediscono a un collettore, dove vengono selezionati e spediti alle diverse destinazioni di riciclo.

22 ottobre, India

Centinaia di ragazze indiane il cui nome significa “indesiderata” in Hindi, si ribattezzano in una cerimonia che dovrebbe metterle


al riparo da future discriminazioni. Le giovani, il cui nome era Nakusa o Nakushi, si sono messe in fila per ricevere i certificati e un bouquet di fiori dalle autorità del distretto di Satara, nello Stato di Maharashtra. Alcune hanno scelto, per la nuova vita, nomi delle star di Bollywood, come Aishwarya, o di divinità indù, come Savitri.

23 ottobre, Italia

Da Teramo parte il progetto per salvare l’asino “mammut” di Martina Franca in collaborazione con la Spagna. Originario delle Murge, l’asino è uno dei più grandi e robusti ed è utilizzato per la riproduzione di ottimi muli. Ma la razza è sempre più debole a causa della consanguineità che lega le 120 femmine e i quindici esemplari maschi rimasti. Il dipartimento di Scienze cliniche veterinarie della facoltà di Medicina veterinaria di Teramo ha così imbarcato su un aereo alcune delle femmine e le ha portate all’Università autonoma della Catalogna di Barcellona, “che ha messo a disposizione la materia prima maschile”, come spiega il professore Augusto Carluccio, responsabile del progetto. La scelta di volare in Spagna è dovuta al fatto che gli asini di razza catalana si erano già accoppiati con quelli di Martina Franca ai tempi della dominazione spagnola.

28 ottobre, Russia

Il teatro Bolshoi riapre dopo sei anni di ristrutturazione e un investimento da 700 milioni di dollari. Una serata di gala pone termine a una vicenda che si trascinava dal 2005 condita da polemiche e accuse di corruzione. Il teatro, costruito nel 1776, aveva chiuso in quanto a rischio crollo. Negli anni precedenti aveva già perso le sue caratteristiche di eccellenza a causa del degrado provocato dalla mancanza di fondi. Il 12 novembre, il primo “ospite straniero” è la Scala di Milano: l’orchestra e il coro diretti da Daniel Barenboim eseguono la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi.

1 novembre, Haiti

Per la prima volta nella sua storia, Port au Prince si doterà di un sistema di mutui immobiliari per garantire un alloggio alle famiglie rimaste senza casa a causa del terremoto del 2010. In un Paese dove il 70 per cento della popolazione risulta disoccupata, il piano si propone di beneficiare non solo la ristretta classe media, ma anche le famiglie povere, offrendo micro-mutui a chi ha un reddito inferiore ai 150 dollari al mese. Il piano è finanziato da diversi investitori internazionali, tra cui gli ex presidenti Usa, Bill Clinton e George W. Bush.

3 novembre, Hong Kong

Nell’ex colonia britannica afflitta dalla bolla immobiliare, l’ex immigrata (cinese) Sze Lai-Shan offre un prezioso servizio di consulenza: aiuta i poveri ad accedere agli alloggi popolari o a collocarsi quanto meno in lista d’attesa. Si occupa inoltre di assistere anziani, immigrati, famiglie numerose a basso reddito, ex detenuti, disabili fisici o mentali, aiutandoli a compilare i moduli per i sussidi. Hong Kong è uno dei luoghi del pianeta in cui la disparità tra ricchi e poveri è più accentuata: si calcola che circa il 20 per cento dei suoi abitanti viva sotto la soglia di povertà. «Negli anni Ottanta a Hong Kong c’erano molti poveri – dice Sze – ma esisteva la mobilità sociale e c’era la speranza di migliorare la propria condizione. Oggi la povertà è ancora qui, ma le opportunità per uscirne sono molto inferiori».

8 novembre, Australia

Il Senato approva la legge del governo laburista di Julia Gillard, che istituisce dal prossimo anno una Carbon Tax sulle emissioni, a carico delle cinquecento aziende più inquinanti. L’Australia punta così a ridurre le emissioni del 5 per cento entro il 2020 rispetto ai livelli del 2000, e dell’80 per cento entro il 2050. Come Unione europea e Nuova Zelanda, Canberra ha adottato un sistema nazionale, mentre Stati Uniti e Giappone hanno attuato schemi regionali ridotti. Il primo ministro ha salutato l’approvazione della legge come «una vittoria per i bambini d’Australia e per chi vorrà crearsi una carriera nel settore dell’energia pulita». Netta, invece, l’opposizione dei conservatori e delle compagnie minerarie, che minacciano il taglio di migliaia di posti di lavoro.


di

Flavio Soriga

illustrazione

Borislav Sajtinac

l’oppio degli italiani Una mattina qualunque di pieno autunno, in Italia, su RaiTre c’è un programma che racconta Pier Paolo Pasolini. A proposito del pensiero, così diffuso, che la Rai non produce nulla di interessante, che la tv, tutta, fa schifo. Ci sono Rodotà, Colombo, Maraini che raccontano l’uomo e l’artista Pasolini, e la sua morte. Un programma girato bene, montato bene, non si fanno santini e non si cercano scoop e non si costruiscono tesi roboanti: si racconta, e bene. Poi uno cambia canale e trova un Direttore che illustra la copertina del suo settimanale: Corona e Belen e altre meraviglie. Poi si leggono le prime pagine dei giornali, in questa lunga trasmissione popolare di RaiDue, e che brutto momento, per questo Paese, però poi arriva Magalli e sorride, in fondo tutto si aggiusta, via, l’importante è la salute, i ragazzi sono impetuosi e fanno casino, la borsa è oscura e bisogna risparmiare, ma l’Italia ha tanto sole, in autunno le campagne sono stupende, e io sono qui da tanti anni, quanti?, da sempre!, e come vedete sembro ancora giovane, o almeno in forma, il tempo passa ma non passa, l’importante è la salute. Su Canale 5 c’è “Forum”, e non c’è niente da dire. Su Rete 4 si parla di formaggi, in collegamento da un paesino di montagna, c’è gente normale intorno alle telecamere, i ragazzi salutano con le manine. La televisione rassicura, calma i nervi, mette pace in famiglia: la tv italiana del mattino è perlopiù conservatrice, vecchia, sempre uguale. E lo è perché lo è anche il Paese, o almeno quella sua parte che sta a casa la mattina a guardarsi in questa sorta di specchio catodico. Un giorno, forse, nello schermo magico delle nostre case compariranno anche gli stranieri, che adesso ne sono quasi del tutto assenti, se non per storiacce nere che confermino i pregiudizi più radicati. Un giorno forse vedremo i figli dei migranti marocchini e rumeni e filippini, ragazzi nati e cresciuti qui tra noi, e chissà se cambierà qualcosa, se riusciranno a mettere un po’ di vita in questi esangui lunghissimi programmi, se porteranno un po’ di energia e di novità. O se invece i cuochi tricolore, che imperversano su tutti i canali dalla tarda mattina all’ora del pranzo, con i loro consigli per il soffritto e il ragù, i loro vestiti bianchi impeccabili e la loro posa d’artista, se invece soltanto cominceranno a spiegare i segreti del cous cous e quelli del riso alle mandorle. Perché in fondo, se sono venuti qui da noi, questi qui con la pelle diversa, è perché questo è il Paese con la cucina migliore del mondo, e c’è un sole tanto caldo, e l’importante è la salute, sì, signora mia. (“Ma la televisione ha detto che il nuovo anno/porterà una trasformazione/e tutti quanti stiamo già aspettando/ sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno/ogni Cristo scenderà dalla croce/anche gli uccelli faranno ritorno”. Lucio Dalla, L’anno che verrà, 1979)

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[siae 2011]

televasioni


Montenero - Livorno

lu 26 dicembre - lu 2 gennaio 2012

STArE BENE con se stessi e con gli altri

CAPODANNO SuLLA COSTA ETruSCA

LA rELAZIONE L’espressione di sé e l’incontro con l’altro Invenzioni, storie, racconti, teatro ed emozioni. a cura di Giacomo Volpengo LA CurA DEL COrPO e dello spirito usando rimedi macrobiotici e l’arte della cucina. Acqua, Legno, Fuoco, Terra, Metallo. Passeggiate. a cura di Margherita Buggero LA CuCINA buona, bio e vegana a cura di Luca Camilli sa 24 - lu 26 dic

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ve 23 dic - lu 2 gen Portogallo El camino portuguès a Santiago Camminare Camminare in in piccoli piccoli gruppi gruppi sui sentieri del mondo sui sentieri del mondo

CAPODANNO 2012 e 4 gen ve 30 dicte-Vm l Maira, Piemon ndoasulla neve cammina

2012 CAPODANNO

. . . . . . . inverno 2011 - 2012

POrTOGALLO El camino portuguès a Santiago 23 dic - 2 gen MArOCCO La via per Timbuctù . . . . . . . . . . . . . 26 dic - 6 gen PIEMONTE Val Maira, camminando sulla neve . 30 dic - 4 gen PuGLIA L’alba dei popoli in terra d’Otranto. . . . . . . . . 2 - 7 gen MArOCCO A piedi nudi danzando sulle dune. . . . . .19 - 26 feb LIBIA Tassili: L’Altopiano dei Tuareg . . . . . . . . 29 feb - 11 mar LIGurIA Il sentiero del Barone Rampante . . . . . . . . 9 - 11 mar TOSCANA Da Pisa e Lucca sulle Vie dell’Acqua . . . 16 - 18 mar continua. . . . . .

CAPODANNO 2012 lu 2 Puglia L’albsaa 7degien opoli in terra d’Otranpto

Festa del Camminare 23 - 25 marzo 2012 Vicopisano (PI) Incontri, Escursioni, Musiche, Storie

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11-11-2011 12:47:22


In ginocchio da Tex di Luca

Crovi

foto Adele

Lorenzi

Lui è il primo della lista. L’attaccante di sfondamento di una squadra di fuoriclasse allenata da Flash Gordon e immortalata dall’obiettivo di Valentina. Nel dream team del fumetto giocano anche Batman, Corto Maltese, L’Uomo Ragno e Dylan Dog

Quando Gianni Mura mi ha telefonato chiedendomi se avevo voglia di studiare per lui una speciale Top 11 del fumetto, la mia risposta al telefono è stata subito: «Wow!». Poi lui ha aggiunto con voce tonante: «Ce la fai per questo mese?». E ho risposto: «Augh!». Poi mi sono messo a fare l’elenco dei personaggi e si è accesa sopra la mia testa una nuvoletta: “Mumble, mumble, mumble!”. Ho finito la lista e l’ho stracciata subito: “Strap!”. L’ho riletta: “Sob!”. E adesso che è nelle vostre mani spero non mi rispondiate con un sonoro “Bang, bang!” o con un terribile “Booo!!”. Mi ha subito telefonato infuriata Assunta Sarlo: «Ma non ci hai messo nemmeno una donna!». E io difendendomi (“Rattle! rattle!”) ho cominciato a elogiare Valentina, Petronilla, Mafalda, Blondie, Eva Kant, Clarabella. Poi un mio collega mi ha sollevato per un orecchio e ha tuonato: «E Tintin, Blake & Mortimer, Lupo Alberto, Snoopy, l’Eternauta, Kriminal, il Grande Blek, Paperino, Dago, Blueberry dove li hai sbarcati?». Gli ho risposto che erano tutti insieme sul Nautilus con la Lega degli Straordinari Gentiluomini, Wolverine, Rip Kirby, Cino e Franco, il Principe Valiant, Mandrake, Coccobill, i Puffi, Larry Yuma, Mister No, Mort Cinder e Piccolo Dente. Simpaticamente tutti nella redazione di E hanno così cominciato a fare il loro personale toto fumetto. La cosa mi ha rincuorato, sapendo che il lavo-


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ro che faccio quotidianamente è ancora capace di scatenare entusiasmi e zuffe fra i lettori. Gli undici personaggi dei fumetti che ho scelto mi hanno accompagnato in vario modo in questi anni. E ho adottato l’escamotage di metterne altri sette in panchina, da buone riserve come in un’immaginaria squadra di calcio, tanto per sentirmi un po’ meno colpevole nelle mie esclusioni. Per fare la lista finale e sentirmi rinfrancato sono andato a riguardare le tavole originali di fumetti che Sergio Bonelli ha appeso negli anni nel corridoio della casa editrice dove lavoro da ormai vent’anni. Disegni bellissimi di Pratt, Battaglia, Crepax, Sesar, D’Antonio, Buzzelli, Albertarelli, Buzzati, Stano, Villa, Raymond, Bonvi, Toppi, Jacovitti, Di Gennaro... Questo viaggio nel fumetto è un sentito omaggio proprio a lui: a Sergio che ha sognato, letto e sceneggiato fumetti per tutta la vita. Lui che adesso mi immagino stia sorvolando le nostre teste a bordo di un piccolo Piper, ascoltando jazz e musica brasiliana in compagnia di Mister No, Zagor e Tex. E che sicuramente sta sorridendo pensando alla sua personale Top Comics d’autore.

U


[sergio bonelli editore]

1•Tex Willer Tutta la magia dei fumetti per me è iniziata durante le vacanze al mare di Natale del 1971 quando trovai, abbandonato per strada, un albo stropicciato intitolato Conestoga!. Si trattava del numero 133 della collana dedicata a Tex Willer, il personaggio creato nel 1948 da Gian Luigi Bonelli e Aurelio Galeppini. Da quel momento non ho più abbandonato le avventure del ranger del Texas, avendo persino la fortuna di diventare uno dei redattori che ogni mese si trova a leggere e correggere le pubblicazioni collegate ad “Aquila della Notte”. Nel tempo mi sono spaventato sfogliando albi come Diablero, I fiori della morte, Terrore nella Savana, La valle della paura e sono dovuto arrivare all’età di otto anni per poter affrontare senza incubi le incredibili apparizioni infernali scatenate dal negromante Yama ne I quattro amuleti. Mi sono sempre stupefatto della capacità con cui Gian Luigi Bonelli, romanziere prestato al fumetto, ha saputo mescolare generi diversi come il western, il noir, l’horror e l’avventura, padroneggiandoli tutti con la stessa intensità. Ho viaggiato nelle foreste del Canada disegnate da Giovanni Ticci in Sulle piste del nord, ho esplorato i segreti delle sette cinesi raccontati in Chinatown, Il laccio nero e L’artiglio ha colpito! (disegnati da Guglielmo Letteri). Ho subìto la fascinazione delle storie di predoni arabe evocate in Fantasmi nel deserto e ho affrontato gli incubi carcerari de La cella della morte (episodi entrambi affidati ad Erio Nicolò). Ancora oggi sorrido quando vedo mio figlio Daniele che divora le pagine dei Tex che gli porto a casa. Per lui devono però essere rigorosamente nella nuova versione ricolorata e non in quella in bianco e nero che ho sempre letto io. Ogni tanto mi chiede lumi su Tex, Tiger Jack, Kit Carson, Kit Willer, Mefisto, Yama, Gros-Jean ed El Morisco e io gli offro di parlarne insieme a tavola davanti a una bistecca alta tre dita e a una montagna di patatine fumanti.


lina a Los Angeles e suoi compagni di vita sono il gatto Nardy e il fido maggiordomo Astor. Maximus è uno speciale consulente per poliziotti alle prese con casi insoluti, per gentiluomini ossessionati dai fantasmi, per genitori in cerca di figli scomparsi ecc. Personaggi ossessionati da incubi quotidiani e arcani ai quali il Maestro va incontro con calma e risoluzione perché ha avuto in sorte un dono immenso e terribile che in qualche modo può aiutare queste persone. Riesce infatti a leggere nel futuro semplicemente toccando gli individui e ha capacità medianiche e telepatiche che gli permettono non solo di prevedere gli eventi, ma anche di esplorare certe situazioni passate. Queste doti rendono in qualche modo traumatica la sua esistenza, tanto che, a ogni fine avventura, lo vediamo davvero spossato dagli eventi e ritemprato solo dal fatto di avere potuto in qualche modo aiutare gli altri. E se Mino Milani in questa serie dimostra di essere un incredibile narratore del fantastico, così come negli anni dimostrerà la sua attitudine a essere un modernissimo narratore d’avventure per ragazzi, dal canto suo Aldo Di Gennaro (al quale talora si affiancarono ai disegni Ivo Milazzo e Giancarlo Alessandrini) è bravissimo a mettere in scena in maniera essenziale le atmosfere gotiche di queste storie ambientate fra gli Stati Uniti, le Antille, l’Inghilterra e l’Africa. Sono anni che sogno una ristampa integrale de Il Maestro.

Le top five Gianni Mura Omino (di Altan) Corto Maltese Maus Snoopy Cocco Bill

Maso Notarianni

Calvin (di Bill Watterson) Paperino (quello arrabbiatissimo di Barks) Spike (il fratello desertico di Snoopy) Corto Maltese La Cosa (di Stan Lee e Jack Kirby)

Federico Mininni Pogo (di Walt Kelly) Arzak (di Moebius) Nikopol (di Enki Bilal) Valentina Colombo (di Altan)

Assunta Sarlo

Mafalda (di Quino) Valentina Mela Verde Lucy (di Charles M. Schulz) I frustrati (di Claire Bretécher) Persepolis (di Marjane Satrapi)

www.e-ilmensile.it Scrivete sul sito la vostra classifica

Mimo Milani e Aldo Di Gennaro

Forse se non ci fosse stato Il Maestro, personaggi come Martin Mystère e Dylan Dog avrebbero avuto un altro percorso. È una cosa che mi sono sempre chiesto avendo seguito sul Corriere dei Ragazzi tutta la saga di questo personaggio sceneggiato nel 1974 da Mino Milani e disegnato da Aldo Di Gennaro. Un’ipotesi accreditata anche dal fatto che i papà del Detective dell’Impossibile e dell’Indagatore dell’Incubo (Alfredo Castelli e Tiziano Sclavi) sono stati a lungo compagni di bottega di Milani e Di Gennaro. Sicuramente Maximus (il Maestro) è meno ciarliero di Martin e meno tombeur de femmes di Dylan, ma con loro condivide la stessa passione contagiosa per il mistero. La sua dimora è una villa dislocata su una solitaria col-

[corriere dei ragazzi]

2•Il Maestro


3•Il Commissario Spada In parrocchia ho sempre comprato con regolarità Il Giornalino negli anni in cui si pubblicavano le storie di Capitan Erik, dei Puffi, di Larry Yuma, di Bellocchio e Leccamuffo, del Colonnello Caster’ Bum e Piccolo Dente. Ma devo ammettere che il personaggio che ho prediletto fra quelli proposti su quella testata è sempre stato il Commissario Spada, creato nel 1970 da Gianluigi Gonano (che si firmava profeticamente Joshua o Giobbe) e disegnato mirabilmente da Gianni De Luca. Membro della Criminalpol milanese, Spada è un poliziotto integerrimo, ma ha un passato tormentato che solo a tratti traspare nelle avventure raccontate ai lettori: sua moglie è infatti morta tragicamente lasciandogli in eredità un figlio come Mario. Un giovane quindicenne che spesso litiga con il padre, incapace, secondo lui, di entrare in contatto con il suo mondo. Un ragazzino che, solo a tratti, capisce le responsabilità del lavoro a cui è soggetto suo padre: alle prese quotidianamente con dirottamenti, sequestri di persona, rapine, casi di droga, omicidi. E sarà proprio una storia dedicata agli abusi di stupefacenti e alla contestazione a far reincontrare, e in qualche modo rappacificare, i due. A scandire l’impeccabile sequenza drammaturgica di questa serie sono le complesse inquadrature, simili a fotogrammi cinematografici o quinte teatrali, che vengono dipinte dal disegnatore Gianni De Luca. La sua tecnica narrativa che verrà in seguito imitata e omaggiata da altri grandi autori del noir americano come a esempio Frank Miller. Quando il Commissario Spada debuttò su Il Giornalino erano rari i poliziotti italiani protagonisti sia di gialli che di fumetti. Rimasi a bocca aperta leggendo la sua prima storia in cui lo vediamo subito in copertina mentre si trova sdraiato sul tetto di una Giulia che corre all’impazzata al centro di una città deserta (che io identificai con la Milano di Melchiorre Gioia). Spada indossa un impermeabile e, pur in precario equilibrio, cerca di fermare il guidatore obbligandolo a sterzare. Un criminale il cui volto appare quasi deformato in un teschio.

Jacovitti

4•Zorry Kid Ebbene sì, anch’io ho avuto per anni un Diario Vitt e non me ne sono mai vergognato. Anzi, contemporaneamente mi sono divertito a leggere le buffe storie di Cocco Bill, Pippo, Pertica e Palla, della Signora Carlomagno, Jak Mandolino, Cip l’Arcipoliziotto, ideate e pennellate da Benito Jacovitti. Dovendo scegliere, però, il personaggio più bislacco realizzato da questo grande maestro del fumetto umoristico non ho avuto dubbi nel puntare il dito su Zorry Kid. Nelle storie di questo piccolo eroe mascherato, Jacovitti è riuscito non solo a reinventare l’acrobatico protagonista creato da Johnston McCulley per la rivista All-Story Weekly nel 1919, ma ha saputo anche dissacrare tutte le sue successive apparizioni: da quelle al cinema con Douglas Fairbanks e Tyron Power a quelle televisive con Guy Williams. E così, nel suo consueto frullato grafico a base di lische di pesce, salami, duelli all’arma bianca e affettamenti vari (una delle caratteristiche di tutte le

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sue saghe fumettistiche) Jacovitti ci presenta il giovane Kid Paloma abituato a trasformarsi in Zorry Kid per porre fine alle angherie del governatore Don Pedro Magnapoco. Kid, senza maschera, si muove a suon di flamenco impugnando forsennatamente le nacchere e spasima per la longilinea Alonza Alonza, capace di rieducare tutti a suon di schiaffoni. È buffo assistere alle gag fra il giovane Paloma e l’isterico nonno Alvaron de la Gota (perennemente con il piede fasciato) o vederlo confabulare con il misterioso Fra Caramba, vestito con il suo caratteristico saio. Fra le sue avventure scelgo Zorry Kid all’arrembaggio che riusciva furbescamente a mescolare l’immaginario californiano con quello delle storie piratesche. E se ancora una volta la lingua inventata dai personaggi di Jacovitti (piena di interlocuzioni improbabili) fa sorridere, ancor più geniale è far esprimere con semplici ballon in bianco senza testo un personaggio come Carmelito Batiston, il maggiordomo personale di Zorry Kid. Per non parlare poi di Saratoga, il cavallo sul quale si muove il nostro eroe, un fido destriero che quando non è impegnato al servizio della giustizia torna a fare “il ragioniere a Busto Arsizio”.

Castelli & Tacconi

Ho sempre divorato le avventure dei geni del crimine: da quelle di Diabolik a quelle di Cattivik, senza trascurare quelle di Macchia Nera e Kriminal. Ma c’è un team di ladri che meriterebbe di entrare di rigore nel paradiso degli scassinatori (se esiste). Si tratta degli Aristocratici creati per le pagine del Corriere dei Ragazzi nel 1973 dal vulcanico Alfredo Castelli (che all’epoca si conquistò un posto nel mio cuore anche con le incredibili avventure de L’Ombra). Una colorata superbanda di ladri gentiluomini disegnata alla perfezione da Ferdinando Tacconi e che non rinuncia mai a mettersi in pista per imprese mirabolanti. Abili nell’utilizzare le più sofisticate tecnologie da scasso, acrobatici al punto giusto, gli Aristocratici mettono a segno colpi fantastici e risolvono spesso casi impossibili per la polizia. E si potrebbe tranquillamente ipotizzare che Arsenio Lupin e James Bond siano stati i principali maestri della loro vis rocambolesca. Il loro team è superpittoresco e comprende il Conte (un vero e proprio gentleman inglese che ricorda da vicino l’attore David Niven, ma ha anche attitudini strategiche degne del ladro Dortmunder creato da Donald Westlake), il gigantesco e forzuto irlandese Moose (sosia dell’inventore di gadget Marcello Cividini), lo strampalato genioinventore tedesco Fritz, l’esperto scassinatore italiano, Alvaro, e Jean, l’affascinante nipote del Conte. Curiosamente la maggior parte dei favolosi colpi attuati dagli Aristocratici non serve a rimpinguare il loro personale patrimonio, ma va in beneficenza, escluso il 10 per cento delle spese effettuate per realizzare l’impresa. La verve umoristica e “tuttologica” di Alfredo Castelli è supportata nelle loro avventure (davvero straripanti di trovate e invenzioni) dal disegno geometrico e dinamico di Ferdinando Tacconi.

[Comics101]

5•Gli Aristocratici


Moore - Gibbons / [dc comics]

6•Rorschach – “Watchmen” Quando nel marzo del 2009 mi capitò di assistere all’anteprima del film Watchmen di Zack Snyder, mi ritrovai in una sala gremita di critici che alla fine della proiezione si dichiarò poco contenta dei risultati. Scoprii, chiacchierando con quattro-cinque dei più togati ed agé, che nessuno di loro aveva mai letto in vita sua il fumetto. Qualcuno si azzardò persino a definire la pellicola come “una brutta copia de Gli Incredibili”. In quel momento ho pensato che il mondo dei lettori di fumetti si può dividere in quelli che hanno letto (e adorato come me) Watchmen e quelli che mai, forse, lo leggeranno. È una di quelle storie che mostra quanto maturo possa essere un medium come il fumetto e quanto sia assimilabile alla letteratura con la L maiuscola. Non credevo che si potesse arrivare a destrutturare l’apparentemente granitico mondo dei supereroi così come fecero Alan Moore e Dave Gibbons con la loro opera pubblicata originariamente nel 1986. E non pensavo nemmeno che si potesse fare un apologo così diretto del mondo della Guerra fredda. Un’operazione matematica che Alan Moore compie usando varie tecniche narrative e amplificando la forza evocativa del suo fumetto grazie al ricorso a metatesti e metanarrazioni (appunti di diario, foto, un vero e proprio romanzo scritto da uno dei vigilanti, una parallela graphic novel piratesca). E mentre lo scontro fra le superpotenze internazionali sembra imminente, perché Dottor Manhattan ha deciso di abbandonare improvvisamente il suo ruolo di protettore dell’equilibrio mondiale, un misterioso assassino comincia a eliminare uno a uno tutti i “watchmen” da tempo andati in pensione. Sarà il personaggio di Rorschach a cercare di indagare sulle strane morti in una storia che ha l’impianto di un noir, ma possiede decine e decine di scatole cinesi che rimandano al romanzo d’avventura e alla fantascienza. Tatticamente brillante e imprevedibile, privo di superpoteri, il folle Rorschach cerca di riportare ordine in mezzo alla follia che sta dilaniando il mondo. Lui che è un uomo le cui emozioni si emulsionano sulla maschera che nasconde da tempo il suo volto e che gli permette di avere un’identità meno traumatica di quella reale.

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Neil Adams

Più nero di così si muore. Potrebbe finire qui la mia presentazione di un personaggio come Batman, capace di assumere negli anni davvero tutte le diverse sfaccettature del noir. Già creandolo nel 1939 Bob Kane e Bill Finger gli regalarono un passato da incubo: da bambino assiste inerme alla morte dei suoi genitori, uccisi da un rapinatore davanti ai suoi occhi. E se per tutta la vita cercherà di dare un volto a quell’assassino (gli sceneggiatori successivi hanno ipotizzato che potesse essere il Joker), contemporaneamente il giovane Bruce Wayne deciderà di dedicare tutta la sua esistenza alla lotta contro il crimine. Adotterà per questo un’identità segreta come quella di Batman, l’uomo pipistrello. Un giustiziere che non sembra avere cessato ancora oggi la sua caccia al male. Cupo e misterioso fin dalla sua rappresentazione grafica, è uno dei pochi eroi del fumetto che è sempre stato sul baratro della follia a causa degli eventi che lo hanno trasformato. Violento e oscuro, Batman spesso si comporta in maniera criminale quando deve affidare alla giustizia certi brutti ceffi. La sua modernità lo ha reso perfetto per essere reinterpretato in classici delle graphic novel come Batman: Anno Uno (1987) di David Mazzuchelli e Il ritorno del cavaliere oscuro (1986) di Frank Miller, ma anche The Killing Joke (1988) di Alan Moore e Brian Bolland e Arkham Asylum: Una folle dimora in un folle mondo (1989) di Grant Morrison e Dave McKean (albi che ho in più versioni nella mia biblioteca). Una splendida edizione antologica della Milano Libri mi fece scoprire, oltre all’origine della serie, anche le avventure spettrali di Batman disegnate da Neil Adams. Da allora mi sono sempre lasciato affascinare sia dai nuovi adattamenti a fumetti che hanno riguardato il Cavaliere Oscuro (basterebbe guardare la mia copia spiegazzata di Batman: Black and White), sia da quelli cinematografici di Tim Burton e Christopher Nolan. Mi piacerebbe tanto vedere The Dark Knight di Frank Miller portato sullo schermo da Clint Eastwood.

[dc comics]

7•Batman


Magnus [panini]

8•Lo Sconosciuto Pare che sia stato un viaggio a Marrakech a far nascere in Magnus (alias Roberto Raviola) la prima idea sulla quale sviluppare il personaggio de Lo Sconosciuto da lui pubblicato a partire dal 1975. Una cosa è certa: per caratterizzare il suo eroe, Magnus, chiese una mano (almeno nel primo episodio intitolato Poche ore all’alba) al suo amico Francesco Guccini che, anche di recente, mi ha confermato di essersi molto divertito a partecipare all’evento. Con il corpo segnato da cicatrici, la coscienza sporca e una dannata voglia di vivere, Unknow (ovvero lo Sconosciuto) è un avventuriero senza patria né bandiera. Ex ufficiale della Legione straniera, ha iniziato la sua avventura nell’Indocina francese e ha partecipato a guerre e guerriglie (dove ha imparato innumerevoli tecniche di combattimento e ha anche assistito a terribili torture e sevizie). Unknow è disposto a vendersi da sempre come mercenario al miglior offerente, pur mantenendo una sua ben chiara etica professionale che gli impedisce di abbassarsi al livello dei semplici assassini, dei criminali di strada e dei politicanti. Lo Sconosciuto ha visto talmente tanti posti e tante persone da permettersi di dimenticare per sempre il proprio nome e la propria identità. Per tutti è semplicemente Unknow senza

la “n” finale che vorrebbe la grammatica, perché nessuno ha mai pronunciato quella lettera nelle terre dove si è avventurato. Lucido e spietato nelle sue azioni, Unknow (che mi ha sempre ricordato l’Ulisse Ursini ideato da Giorgio Scerbanenco per il suo Al servizio di chi mi vuole) è individualista e anarchico. Un eroe cinico e disincantato che si muove con coraggio e spavalderia fra un girone infernale e l’altro, riuscendo a sopravvivere a guerriglieri, terroristi, killer professionisti, burocrati e puttane, mostrando sempre un gusto sprezzante per il pericolo: l’unica sensazione che riesca ancora a farlo sentire vivo e che lo faccia sorridere.


[les éditions goscinny - uderzo]

10•Gon

Da una decina d’anni mi diverto a leggere in francese e in inglese alcuni dei fumetti che compro, soprattutto per anticipare le uscite in italiano di autori che amo come Frank Miller, Alan Moore o Christophe Blaine. Le storie di Asterix e Obelix mi è però capitato di leggerle persino in latino quando la mia professoressa del liceo ci portò in classe qualche copia di quella buffa iniziativa editoriale. È stata un’esperienza divertente anche se non ha aggiunto nulla alle mie scarse capacità di traduttore dal latino. In compenso, all’università (dove mi sono laureato in Filosofia antica con specializzazione in Storia antica) i due simpatici eroi galli (ideati nel 1959 da René Goscinny e Albert Uderzo per la rivista Pilote) sono sempre stati presi molto sul serio dai miei insegnanti del mondo classico che hanno sempre sottolineato quanto i loro creatori fossero riusciti a reinventare a modo loro l’antichità, sapendo tradurre in maniera simpatica e irriverente certe storie riportate da Tacito, Plinio, Plutarco e Giulio Cesare. Più che cadere da piccolo come Obelix nella pozione magica (che rende i Galli praticamente invincibili), ho sempre sognato di essere invitato dal druido Panoramix a partecipare a uno dei loro luculliani banchetti a base di cinghiali. Ho sempre trovato esilarante e veritiero il ritratto di Giulio Cesare che ci hanno regalato Goscinny e Uderzo, così come ho trovato altamente erotico quello di Cleopatra. Di volta in volta ho riscoperto il mondo dei legionari, dei gladiatori, degli eroi olimpici facendo la conoscenza di popoli buffi come i Britanni, i Corsi, gli Averni, i Goti, i Normanni, i Belgi. Non ho mai capito come faccia Obelix a scolpire i suoi menhir senza romperli e mi ha sempre stupito la sua abilità nel trasportarli come se non pesassero nulla. Ho sempre sperato che, almeno una volta nella sua vita, Barbe Rouge, assieme ai suoi sconquassati pirati, potesse mettere nel sacco il saputello Asterix senza vedere colare a picco la sua nave.

Si può realizzare un fumetto senza didascalie e senza parole? Si può renderlo pieno d’azione solo usando una corretta scansione narrativa degli eventi? Si può incuriosire il pubblico attraverso un viaggio speciale nel mondo animale? Si può essere scorretti pur scrivendo racconti ecologici? A tutte queste domande retoriche ha risposto con grande stupore un fumetto come Gon realizzato a partire dal 1992 dal disegnatore giapponese Masashi Tanaka. Non sono mai stato un lettore accanito di manga (eccezion fatta per La storia dei tre Adolf e Astro Boy di Osamu Tezuka), ma quando mi capitò a Lucca Comics un albo della testata Gon, edita da Star Comics, restai letteralmente sbalordito leggendo le avventure di questo piccolo e incazzatissimo tirannosauro rex. Non sappiamo come sia sopravvissuto sulla Terra, ma sappiamo che è praticamente onnivoro e capace di ingoiarsi e triturarsi per intero anche un elefante. Ha un profondo rispetto per la natura che lo circonda e dimostra un grande senso materno nei confronti di coniglietti e altri animali domestici. In compenso, Gon dimostra tutta la sua ferocia quando si tratta di difendere il proprio territorio da tigri, leoni e orsi. Non è un caso che Gon sia stato scelto come uno dei protagonisti del videogioco “picchia duro” Tekken 3 nel quale si ipotizza che, in realtà, sia una creatura assemblata dallo scienziato Geppetto Boskonovitch quando lavorava per la Mishima Zaibatsu. Gon è praticamente indistruttibile e così, nel mondo dei games, non può che risultare un avatar vincente. Mi hanno sempre stupefatto le espressioni dei suoi occhi oltre a quelle delle sue mandibole. Però posso assicurarvi che se vedessi un esemplare di Gon in qualche negozio di animali non mi lascerei intenerire accettando di portarlo a casa dai miei figli. Dubito che lui se li mangerebbe, ma non so se sopravviverebbe alla nostra giungla e alle mie quattro belve.

Masashi Tanaka [star comics]

9•Obelix


Ci sono personaggi a fumetti di cui ti innamori per l’epicità delle loro avventure, per la fisicità della loro presenza, per il mistero che nascondono dietro la maschera. Devo ammettere che nessuna di queste è la motivazione che ha reso per me sempre sorprendente leggere le avventure di The Spirit, creato nel 1940 da Will Eisner. È vero che Denny Colt è un uomo che è sopravvissuto alla morte. È vero che è tornato dalla tomba vestendo i panni del vendicatore mascherato The Spirit. È vero che è attorniato da donne affascinanti e allo stesso tempo letali come P’Gell. È persino vero che le sue storie sono dense di personaggi buffi e caraterrizzati in maniera singolare a partire dal negretto, Ebony White, proseguendo per il commissario Dolan e senza dimenticare bad guys come The Octopus e il Dr. Cobra. E se anch’io nei panni di Spirit avrei sempre cercato una scappatoia per non cedere alle avance di Ellen, devo ammettere che, in realtà, quello che mi ha sempre affascinato delle sue avventure è qualcosa di ben più estetico. Ho sempre adorato e studiato le so-

luzioni grafiche adottate da Will Eisner per le pagine di apertura di quel fumetto. Delle incredibili splash pages in cui il titolo e il nome del protagonista cambiano di volta in volta forma e diventano un tutt’uno con la narrazione. Will Eisner non si ripeteva mai nell’uso di queste sue trovate visive che per lui erano un modo accattivante per accompagnare i lettori all’interno del luna park delle sue storie, cambiando sempre il punto di vista grafico. D’altra parte non è casuale che una storia di Will Eisner come Contratto con Dio del 1978 sia considerata il prototipo della graphic novel moderna. Il grande disegnatore e sceneggiatore americano ha sempre saputo giocare sia con le immagini che con le storie e ci ha abituati a una visione nerissima della realtà contemporanea, sapendo far tesoro sia delle sue esperienze di guerra che di quelle dei quartieri ebraici newyorkesi dove visse.

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Art Spiegelman

Will Eisner [kitchen sink press]

11•The Spirit


Tiziano Sclavi [sergio bonelli editore]

Guido Crepax

Hugo Pratt [cong sa]

creato da Tiziano Sclavi), Leonida (l’epico protagonista della battaglia delle Termopili raccontata in 300 di Frank Miller), Corto Maltese (il romantico marinaio dipinto da Hugo Pratt). Nel ruolo di allenatore della squadra scelgo di mettere Flash Gordon, massaggiatore Tarzan, medico Black Jack, presidente della società il Principe Valiant, raccattapalle Cino e Franco e Bibì e Bibò, guardalinee l’Uomo Mascherato e Mandrake, arbitro Wolverine. Unica fotografa accreditata in campo, Valentina, ragazzo che distribuisce bibite sugli spalti, Yellow Kid, capo della tifoseria, Deadpool.

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[marvel characters]

Tra le riserve della mia personale Top Comics ho deciso invece di schierare i seguenti personaggi: Art (il protagonista di Maus, il romanzo grafico con cui Art Spiegelman ha raccontato al mondo la Shoah vissuta dalla sua famiglia), Macchia Nera (il supercriminale incappucciato ideato da Floyd Gottfredson per le avventure in noir di Topolino), Ken Parker (l’antieroe western creato da Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo), Uomo Ragno (il Paperino del mondo dei Supereroi, l’arrampicamuri più complessato e amato d’America), Dylan Dog (Il malinconico Indagatore dell’Incubo

[king features syndicate]

In panchina


la figura del cretino mad in italy di

Gianni Mura

foto Attenni [rai/fratelli alinari]

La sola cosa certa di questa rubrica è che riguarda l’Italia. Se mi chiedono da cosa prendo l’ispirazione rispondo «dipende», che non è una grande risposta, ma non ne ho altre. Dipende da ciclisti che sfrecciano sul marciapiede, da un’ordinanza comunale, dalla diffusa riluttanza a usare la parola “guerra”, ma non a farla e sostenerla. Dipende da qualcosa che leggo sui giornali, che ascolto in tram, o davanti alla tv. Stavolta, dipende dalle ultime righe della succosa intervista di Fabrizio Ravelli a Natalia Aspesi, uscita su E di novembre. Concludeva Natalia: “Ma perché io devo leggere cosa pensa Stracquadanio?”. Siccome pure a me non interessano le opinioni di Stracquadanio, né a lui le mie suppongo, parto da qui per qualche considerazione spicciola. La prima, doverosa, è che il discorso va allargato a tantissimi politici che tutti i giorni hanno qualcosa da dire, sui giornali e in tv. Spesso è la ripetizione di quello che hanno detto il giorno prima, ma non importa. Quasi sempre è lo snocciolamento di una formuletta imparata a memoria e poi fatta circolare fino alla nausea (di chi ascolta). Esemplare il “noi non metteremo le mani nelle tasche degli italiani”, esemplare nella sua volgarità. Da cittadino, ho sempre visto il pagamento delle tasse come un dovere, non come un borseggio. Hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato pace: parafrasando Tacito, hanno fatto un frullato (o uno spezzatino) e l’hanno chiamato completezza dell’informazione. Ogni partito ha le sue correnti, ogni corrente un esponente, ogni esponente un referente, ogni referente un microfono piazzato davanti al naso. Mai visti tanti giornalisti mobilitati per raccogliere il nulla. Battersi il petto tre volte: nostra culpa, nostra culpa, nostra maxima culpa. Attorno a Churchill c’erano meno giornalisti che attorno a Scilipoti, e qualcosa vorrà dire, e quel che dice non suona a favore dei giornalisti. Ossia: possono esserci due-tre giorni all’anno in cui si è obbligati a interpellare Scilipoti, negli altri non è obbligatorio anzi secondo me è pure dannoso. Facendo parlare tutti si fa un blog, non una corretta informazione che prevedeva o prevederebbe (oggi non più) una selezione. La politica ha occupato le televisioni non solo spedendo Minzolini qui e Lei là. L’ha occupata di sé. Quando la politica era più seria, i leader e i loro portavoce-turiferari non parlavano tutti i giorni in tv e sui giornali. Non c’erano proiezioni, né exit-poll (pensate che bello), c’era “Tribuna politica” sulla Rai con Jader Jacobelli moderatore, punto e basta. Non certo solo per questo l’Italia funzionava meglio. La politica era a un livello più alto. Non a caso di questi tempi si parla di teatrino, non di teatro. Il teatro è una cosa seria. Il teatrino è quello dei pupi, delle marionette, dei ventriloqui, di quelli che mostrano il medio teso (e sempre duro, mi raccomando). Di quella compagnia di giro che una volta trovavi solo da Biscardi ma poi la “biscardizzazione” dell’informazione (massimo esponente Santoro) ha preso per i piedi i politici, che probabilmente non aspettavano altro, e li ha tirati verso il basso. Dove, ignorando l’alto o non essendone all’altezza, sguazzano beati. Altro che nani e ballerine, solo i nani sono rimasti e si danno arie da pivot. I nani sui tre canali Rai, sui tre Mediaset, su La7, rimbalzano da Floris a La Rosa, da Annunziata a Gruber, da Paragone a Mannoni, da Lerner a Formigli, da Vespa a Telese, da Piroso a Vinci. Quel che conta è apparire. La soluzione non sta nel telecomando, ma nell’emigrazione. O nella rivoluzione. Dei gusti e delle teste, meglio precisare. Da qualche mese in Italia, Michel Platini ai giornalisti che tutti i giorni gli chiedevano qualcosa, disse: «Ragazzi, io rispetto il vostro lavoro ma penso che, intervistato tutti i giorni, anche Einstein avrebbe fatto la figura del cretino». Aveva capito tutto.

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Un autista di 62 anni, originario di Siracusa, è rimasto schiacciato dalla motrice di un camion guidato da un collega. L’incidente è avvenuto nella zona industriale della città.

10 ottobre, Roma

Un operaio romeno di 35 anni è morto per un trauma facciale dopo esser caduto da una scala mentre stava effettuando lavori di ristrutturazione di un appartamento. L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro è il nostro osservatorio sulle morti bianche. Si tratta di un elenco parziale e incompleto, ricavato da fonti secondarie, degli infortuni mortali avvenuti tra il 10 ottobre e il 4 novembre. A cura di rassegna.it, sito d’informazione su lavoro, politica ed economia sociale, che dal settembre 2010 porta avanti un monitoraggio quotidiano delle vittime.

11 ottobre, Corciano (Pg)

Stava lavorando in un cantiere edile nella frazione di San Mariano. Ha aperto una porta senza protezione, sprovvista di balaustra, ed è precipitato nella tromba dell’ascensore. La vittima è un operaio di 65 anni.

12 ottobre, Siena

Adriano Mezzetti, 56 anni, è caduto dal trattore sbattendo violentemente la testa. È morto all’ospedale di Siena, cinque giorni dopo l’incidente avvenuto nelle campagne di Grosseto.

12 ottobre, Selva dei Molini (Bz)

Un agricoltore di 61 anni, Hubert Aschbacher, è stato travolto da un albero che aveva appena tagliato.

13 ottobre, Brescia

Agostino Dazzi, 35 anni, è rimasto stritolato dal cardano del trattore che stava riparando.

13 ottobre, Como

Stava lavorando in un cantiere di Villa Guardia quando è stato investito da uno schiacciasassi. La vittima è Alessandro Giaquinta, un operaio di 42 anni.

13 ottobre, Novellara (Re)

Elvidio Acito, artigiano di 58 anni, è caduto dall’impalcatura sulla quale si trovava, battendo la testa.

14 ottobre, Roma

Un uomo di 81 anni, titolare di un vivaio, è stato travolto da un cancello staccatosi dopo esser stato urtato da un camioncino in manovra.

15 ottobre, Castelletto Stura (Cn)

È stato colpito dal ramo di un albero mentre lavorava nel suo terreno a Castelletto Stura. La vittima è Gianmario Giraudo, un agricoltore di 54 anni.

17 ottobre, Alassio (Sv)

Giovanni Rava, artigiano di 61 anni, è caduto da un’altezza di tre metri e mezzo. L’incidente si è verificato mentre l’uomo era al lavoro in un cantiere. Rava è morto in ospedale.

17 ottobre, Caraglio (Cn)

Un contadino di 76 anni, Sergio Aime, è rimasto ucciso dal trattore sul quale stava lavorando, prima di perderne il controllo in un tratto in discesa.

17 ottobre, Prezza (Aq)

Mauro Svizzero, agricoltore di 55 anni, è stato schiacciato dal suo trattore. Il mezzo si è ribaltato.

18 ottobre, Salerno

Romeo Matonti, 43 anni, è stato travolto da un camion mentre rimuoveva un segnale stradale nel cantiere dell’A3 Salerno-Reggio Calabria, tra le uscite di Battipaglia e Pontecagnano.

20 ottobre, Roma

Assistente capo della polizia penitenziaria, Salvatore Corrias di 48 anni, è rimasto schiacciato dal cancello di ingresso dell’ospedale Sandro Pertini, presso il quale prestava servizio.

21 ottobre, Coli (Pc)

Un agricoltore di 84 anni, Natale Grassi, era alla guida del suo trattore. Il freno di stazionamento non ha funzionato, quindi una ruota lo ha schiacciato.

13 ottobre, Vezzano sul Crostolo (Re) 21 ottobre, Noale (Ve)

Un agricoltore di 70 anni, Giovanni Canossini, lavorava in un terreno di sua proprietà. È rimasto schiacciato dal tagliaerba che stava aggiustando.

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Giorgio Gatto, operaio di 60 anni, è stato colpito da un pesante pannello di cemento, mentre lavorava in un cantiere nella frazione di Moniego.


fondata sul lavoro Enrico Araspi, 58 anni, stava lavorando in campagna alle fondamenta di un pollaio quando un braccio gli è rimasto incastrato in una trivella. L’uomo è morto appena arrivato al pronto soccorso per arresto cardiocircolatorio provocato dalla forte emorragia.

24 ottobre, Montecchio Emilia (Re)

Un agricoltore di 72 anni, Gianni Barazzoni, è morto schiacciato dal trattore del quale aveva perso il controllo a causa di un malore, finendo in un canale.

25 ottobre, Cologna (Fe)

Andrei Rudenco, autotrasportatore moldavo di 36 anni, stava guidando quando il camion ha toccato i cavi dell’alta tensione. È stato fulminato da una scarica di 15mila volt.

25 ottobre, Scarperia (Fi)

31 ottobre, Lattarico (Cs)

Silvio Vitari, 29 anni, è morto schiacciato dal trattore che stava guidando nel suo terreno.

1 novembre, Montemarano (Av)

È stato colpito alla testa dalla brenna di un escavatore in un cantiere. La vittima, B.F., aveva appena 19 anni.

1 novembre, Monteciccardo (Pu)

Un operaio di 51 anni, originario di Venezia, è morto a causa del ribaltamento del trattore con cui lavorava. Stava installando un impianto fotovoltaico.

2 novembre, Pesaro

Una ruspa ha travolto e ucciso un operaio di 45 anni al lavoro nel cantiere per l’ampliamento dell’A14.

2 novembre, Somma Vesuviana (Na)

Giuseppe Montenera, operaio di 44 anni, è morto schiacciato da un braccio meccanico mentre scaricava un macchinario dal suo camion.

Antonio Annunziata, 63 anni, e Alfonso Peluso, 44, entrambi di Ottaviano, sono morti per il cedimento del pozzo che stavano scavando. I due operai lavoravano in nero.

26 ottobre, Terni

3 novembre, Casalbordino (Ch)

Un operaio polacco di 36 anni, Ryszard Lechowicz, impegnato nelle operazioni di sversamento di materiale di risulta nella discarica della ThyssenKrupp, è stato travolto dal camion e dai fanghi che riversava a causa del cedimento di uno degli appoggi del mezzo.

27 ottobre, Livigno (So)

È rimasto sepolto dai detriti. Così è morto un operaio di 24 anni che stava lavorando al consolidamento di una strada.

27 ottobre, Udine

Kostnos Kostoglou, un camionista greco di 59 anni, era fermo in una piazzola della A23 PalmanovaTarvisio per sostituire una ruota quando il cric del mezzo ha ceduto, provocando lo schiacciamento dell’autotrasportatore.

30 ottobre, Bressanvido (Vi)

Umberto Dal Lago, artigiano di 62 anni, è rimasto folgorato da una scarica elettrica mentre svolgeva lavori di manutenzione in una ditta esterna.

Il trattore che stava guidando si è ribaltato all’improvviso. Domenico Sprecacenere, 86 anni, è morto in ospedale dopo cinque ore di agonia.

3 novembre, Vercelli

È caduto da quattro metri mentre stava lavorando come elettricista nell’inceneritore della città piemontese. Gabriele Follador, 26 anni, è morto in ospedale dopo un ricovero di due settimane.

4 novembre, Ravenna

Giulio Acquarelli, 79 anni, è rimasto schiacciato sotto l’asse di un rimorchio in manovra nella zona industriale di Roncalceci.

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10 ottobre - 4 novembre morti sul lavoro

Maurizio Galimberti

22 ottobre, Calamandrana (At)


Sacro f lop Ci vorrebbe un miracolo per far tornare i fedeli a San Giovanni Rotondo. Padre Pio resta uno dei santi pi첫 popolari, ma i pellegrinaggi sono in calo verticale. I negozi di souvenir e i 166 alberghi soffrono. Tra fede, superstizione, architettura e crisi economica, le ragioni del fallimento di un business molto terreno

di Christian

Elia

foto Francesco [buenavista]

Acerbis



«La colpa, mi creda, è della chiesa nuova. Non ha visto che ha la forma di un ragno? Queste cose in paese le hanno capite tutti e ora ne paghiamo le conseguenze». Anna si appoggia alla specchiera dietro al bancone del suo bar, con le braccia incrociate, nel centro di San Giovanni Rotondo, provincia di Foggia. Dove un santo, san Pio, ha spodestato il precedente. Anche se a chiamarlo san Pio non si è abituato ancora nessuno, perché in fondo resta padre Pio. Come se la beatificazione prima e la santificazione dopo raccontassero un’altra storia e non quella del

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frate di Pietrelcina che visse e operò in questo paesone di 27mila anime, nato attorno al 1100 sui ruderi di una vecchia chiesa e di un battistero, che per la sua forma rotonda finì per dare a San Giovanni il nome attuale. Un paese in cima a mille tornanti, a picco su una vallata senza fine. Una terra di mezzo, tra il cielo e la terra, tra sacro e profano. Perché tutto qui, ma proprio tutto, ruota attorno alla vicenda umana e spirituale di Francesco Forgione, nato nel 1887 e morto nel 1968, icona di una fede stracciona e contadina, passata indenne attraverso una


società che è cambiata. Che continua a vivere di agricoltura, certo, solo che i braccianti di ieri sono i proprietari di oggi. Quelli che mandano i migranti nei campi e i figli a studiare lontano. Per anni padre Pio è stato un’icona molto redditizia. Un flusso continuo di fedeli, un business fatto di mille negozietti e bancarelle, bar e alberghi, ristoranti e tour operator del sacro. «Qui ormai non si vede anima viva, mi creda. Io tra un po’ chiudo e me ne vado da mia figlia, che vive al Nord», racconta Anna, guardando la strada che sale alla

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chiesa nuova. «Hanno rovinato tutto, non ci viene più nessuno». Il crollo del numero dei visitatori è un dato di fatto. Fino al 2002, si contavano fino a otto milioni di pellegrini l’anno. Adesso, bene che vada, non si raggiungono i tre milioni. «Il primo segno è stato quello della campana. Una delle otto campane, quella dedicata a san Michele, a giugno 2005, si è schiantata al suolo», racconta la barista. «Per caso non si è fatto male nessuno. Ma è stato il primo segnale che la chiesa nuova non piace a nessuno. Neanche allo spirito del santo Pio». Una bella grana, visto che il colosso disegnato da Renzo Piano, operativo dal 2004, è costato 36 milioni di euro. Ben settemila posti a sedere, il sagrato antistante l’edificio che può ospitare oltre quarantamila persone. Solo che non ci sono. «Non piace a nessuno, neanche a papa Benedetto XVI. Me l’hanno detto i cappuccini, anche se non si può dire in giro. Quando ha visto la cripta, con tutto quell’oro, si è contrariato. Ormai non celebrano né matrimoni né battesimi. Vogliono tutti andare nella chiesa vecchia».


Come Rimini, ma vuota

L’analisi di Anna è impietosa, ma il paese sembra davvero abbandonato. «Metta pure la macchina in piazza, tanto c’è sempre posto», consiglia un passante. La piazza è quella centrale, cinta da un semicerchio di improbabili negozietti. Dal bavaglino per bambini alle borse da mare, dalla palla di vetro con la neve alle penne con l’effigie di padre Pio. Anche tanto merchandising di papa Wojtyla. «Si vende molto di più», ammette Francesco, uno dei proprietari dei negozi. «Stiamo chiedendo al Comune di fare accordi con il paese natale del papa polacco, Wadowice, per vedere un po’ di gente». L’idea era quella di vederne tanta. Le strutture alberghiere di San Giovanni Rotondo sembrano pensate per Rimini o Riccione. Si contano, secondo i dati ufficiali, non meno di 166 tra alberghi e affittacamere, per un totale potenziale di ottomila posti letto. Guardando il paese si resta storditi dal numero di insegne che garantiscono un tetto che, però, la gente ha smesso di

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chiedere. Come la rabbia di Anna insegna, non va meglio alla pletora di ristoranti, bar, paninerie e via cucinando che costellano le stradine del paese. L’unico punto di San Giovanni Rotondo che sembra travolto dall’attività è la Casa Sollievo della Sofferenza, un ospedale privato inaugurato da padre Pio nel 1956. Un colosso. Quasi mille posti letto, ricavi che superano i 250 milioni di euro, convenzioni milionarie con il Sistema sanitario nazionale. Trenta reparti di degenza medici e chirurgici, cinquanta specialità cliniche con un “catalogo” di circa 4.300 prestazioni diagnostiche e terapeutiche. Il fiore all’occhiello del “sistema padre Pio”. Solo che, di quell’alone spirituale, che voleva curare anche i corpi, oltre alle anime, resta solo un ospedale tra i più grandi d’Italia. Per capirlo basta entrare nella chiesa di Renzo Piano. Non c’è nessuno. Una struttura così grande che fa sembrare il tutto ancora più vuoto. Magari non ha ragione Anna a vederci dell’esoterico, ma di sicuro le folle oce-


▲ La

cripta della chiesa nuova, un tripudio di oro molto poco francescano. Le foto di questo servizio, invece, si riferiscono alla chiesa vecchia di San Giovanni Rotondo, quella molto amata dai fedeli

aniche che da queste parti hanno visto tutti sono uno sbiadito ricordo. Non fa eccezione la cripta, dove nel 2010 le spoglie del santo sono state traslate dalla vecchia chiesa, posta più in basso, nella quale si trovavano dal 1968, anno della morte di padre Pio. Le scale sono deserte, una commessa triste si appoggia alla cassa di un negozio pieno fin all’inverosimile. Il pezzo più caro è una statua di padre Pio, alta circa un metro, che viene via per poco più di mille euro. Il gadget più abbordabile, un rosario di plastica, per un euro e cinquanta. La cripta è una via di mezzo tra la tomba del faraone Tutankhamon e una chiesa bizantina. Tanto di quell’oro da lasciare sgomenti. Lo stanzone ricavato nella nuova chiesa è stato realizzato tutto in oro massiccio, regalato dai fedeli di tutto il mondo negli ultimi vent’anni. Tra le polemiche.

Spiritualità e contabilità

A guidare il fronte degli oppositori della traslazione, all’epoca, fu l’associazione Pro Padre Pio - l’Uomo della Sofferenza, guidata dall’avvocato Pio Masone, nipote del santo. A colpi di carte bollate, l’associazione ha tentato fino all’ultimo di bloccare tutto, ma alla fine ha perso. Anche se non si è arresa. «Aspettiamo la decisione della Corte d’Appello di Bari in merito all’esumazione. Noi vogliamo che venga fatto l’esame del Dna, per dimostrare a tutti che in quel tempio massone, in quel tempio satanico, di padre Pio non c’è

nulla». Non usa giri di parole l’infervorato avvocato Francesco Traversi, dal suo studio legale di Torino che funge anche da sede dell’associazione. «I fedeli non ci vanno più, questo è un dato incontestabile. Perché? Glielo dico io: quello non è un luogo di preghiera, ma una rappresentazione, un luogo d’incontro. Quelli che ci entrano lo fanno solo per curiosità, sentimento umano. Ma senza spiritualità se ne vanno disgustati. E hanno ragione. Le faccio un esempio: san Pio non ha mai voluto che le offerte dei fedeli venissero usate per fini personali. Ricordiamo che rifiutò anche il riscaldamento. Come si poteva immaginare che avrebbe mai e poi mai amato quel luogo?», si chiede l’avvocato. «Anche papa Benedetto XVI non ama quel luogo. Ha preferito celebrare la messa fuori, ma nessuno lo dice. La Chiesa ha troppo bisogno del denaro che ruota attorno a San Giovanni Rotondo. Noi andremo avanti, per restituire ai fedeli una vera dimensione di fede». In effetti la chiesa vecchia è molto più animata di quella nuova. Molta più gente, un clima più familiare. «Spero solo che i frati cappuccini capiscano di aver sbagliato e partano per l’Africa, per ritrovare il vero senso delle loro vite. A San Giovanni Rotondo, ormai, è rimasta solo Tele Radio Padre Pio a raccontare un mondo che non c’è più». Tele Radio Padre Pio, anzi, raddoppia e in homepage sul sito ufficiale annuncia la nascita di Padre Pio Tv, sul digitale terrestre. La dirige Stefano Campanella, che ha anche creato una pagina web personale. “Ho voluto creare questo sito per iniziare un dialogo con quanti hanno conosciuto o ammirano san Pio da Pietrelcina, con quanti ne sono devoti, con quanti hanno bisogno di conoscerlo meglio e con quanti potrebbero aiutarmi a conoscerlo meglio. Ma anche per dialogare con chi è interessato ad approfondire temi relativi alla spiritualità e ai valori cristiani”, si legge nella presentazione. «Le polemiche dell’associazione Pro Padre Pio non hanno alcuna motivazione. Il percorso di fede che è terminato con la traslazione rientra nella più assoluta tradizione della Chiesa. Non c’è nulla, ma proprio nulla di diverso. L’unica differenza, rispetto a molti altri casi, riguarda l’ostilità di questa associazione. È accaduto solo con san Pio. Sul perché ci sia questa ostilità non spetta a me dirlo, non faccio processi alle intenzioni», replica Campanella. «Rispetto al calo delle visite, bisogna stare molto attenti a non fare della disinformazione. I pellegrini hanno raggiunto un numero massimo di circa otto milioni di visitatori nel 2002, nel 2008 e nel 2009, in occasione degli eventi più importanti. Detto questo, non si registra alcun calo in questi anni. Alberghi, bar e ristoranti lavorano meno, non lo nega nessuno, ma questo è legato solo alla crisi economica mondiale. Le persone spendono meno, ma non significa che non vengono in pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo». Crisi finanziaria o crisi di fede? Nella terra di mezzo, tra sacro e profano, il confine è labile. Anna inizia a tirare giù la serranda, anche se è ancora presto, mentre i negozi spengono, uno a uno, le luci. Pregando che domani vada meglio.

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I turisti di Dio Secondo i dati della World Tourism Organization, il comparto del turismo religioso muove più di trecento milioni di persone l’anno, con un giro di affari di oltre 18 miliardi di dollari, di cui 4,5 generati solo dall’Italia. Sono i numeri emersi dall’ultima edizione di Bitrel, la Borsa del turismo religioso, dei pellegrinaggi e dei cammini, promossa dall’assessorato al Mediterraneo, Cultura e Turismo della Regione Puglia, che si è tenuta a Foggia dal 26 al 30 ottobre 2011. Dal 2009 al 2010 gli arrivi di stranieri in Italia sono cresciuti del 10 per cento, con picchi dalla Russia e dalla Polonia. In aumento le presenze in Puglia, in particolare in occasione delle festività sacre, con un incremento del 30 per cento a Bari per San Nicola. Incremento, però, che non ha riguardato il comparto della ristorazione e della ricezione alberghiera di San Giovanni Rotondo.


Bianco, nero e surreale di

Andrea Jacchia

foto

Chema Madoz

Queste foto dello spagnolo Chema Madoz sottostanno docilmente a tre termini introduttivi: bianco, nero, surrealista. In fotografia, diversamente da quanto succede nella vita, il bianco-nero non parla di opposti estremismi, ma lavora su un’infinità di sfumature, o di possibilità. In più, oggi, i fotografi che lo usano in modo esclusivo dicono, senza proclamarlo, che quella scelta mantiene comunque una cavalcata in più. Artistica, espressiva, sotto sotto (ma in realtà sopra sopra) elitaria. E più libera rispetto alla ferocia splendente dei colori. Quando quella tonalità binaria – traslata in concetti come l’ombra, la luce, la penombra, il chiaroscuro eccetera – si accompagna al termine “surrealista”, per esprimere qualcosa di “surreale”, il quadro, o meglio le opere, fanno ancora più strada, complicandola. Quell’aggettivo – surrealista – vive da quasi un secolo e non smette di essere pellegrino: era nato come una corrente in piena, un impasto esplosivo (l’inconscio libero e i suoi figli, i sogni, contro le morali varie, le estetiche, le ragioni), è stato normalizzato in un significato generico (“strano”, per dirla in breve), non è scomparso dalla vita né dall’arte, ma forse chiede un aggiornamento del suo stato. Come un paziente in terapia d’appoggio. Chema Madoz e i suoi “oggetti”, le sue visioni, le sue immagini, gli danno una mano, o un tocco, molto personale. Suggerendogli, ogni tanto, di rappresentare un pianeta preoccupato. O comunque all’erta. Attraverso

naturalmente dei simboli, delle foto “d’arte”. Se uno dei problemi mondiali è l’acqua, ci si può abbacinare di fronte a un bicchiere mezzo pieno e inclinato. Quando c’è in ballo lo stato generale dell’arte e della cultura, un pianoforte a mezza coda con una mazza da baseball piazzata come supporto potrebbe parlare di una deprivazione di ruolo, o di un’invasione. Mentre un occhio sbarrato a forma di caramella fa, insieme, la parte di un ciclope mellifluo e di un piccolo Ulisse terrorizzato (dove Ulisse è “l’umanità”). Il seguito di un libro chiuso di geologia, o di scheletri d’alberi in ombra teatralizzati da un fondale di scritte giapponesi, potrebbero sintetizzare, con molta efficacia e anche bellezza, settant’anni di mondo postatomico (anni in corso). Certo, non mancano le dolcezze del gioco della vita (l’immagine di un dado foderato da uno spartito), ma il sottotesto della terapia per immagini e libere associazioni può parlare attraverso una foto estrema, da day before: un gong dove il piatto è la Luna. Ossia, e forse, come la Terra potrebbe ridursi a furia di rintocchi. Oppure, quali uscite di sicurezza, “lunari”, possiamo ancora sognare, nello stato in cui ci troviamo. Tenacemente surreale.

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Cessate il fuoco a cura di

Lorenzo Bagnoli foto

Ng Han Guan [ap/la presse]

Cessate il fuoco è l’osservatorio mensile delle vittime dei conflitti nel mondo. I dati, che si riferiscono al periodo dall’11 ottobre all’8 novembre, vengono raccolti da organizzazioni umanitarie o da fonti giornalistiche e quindi non potranno essere esaustivi. Le notizie sui conflitti in tempo reale su: www.peacereporter.net

Myanmar

Sedici soldati birmani sono morti in un conflitto a fuoco con i ribelli del Kachin Independence Army (Kia), l’esercito separatista in cui militano i guerriglieri che abitano l’area più a nord del Paese, in maggioranza cristiani. Gli scontri sono avvenuti il 3 novembre nei pressi del villaggio di Ga Ra Yang, poco lontano dal confine con la Cina. La guerra civile nel Nord del Myanmar è cominciata a giugno, quando Yangon ha annunciato la costruzione di una diga sul fiume Irrawaddy, che sarebbe servita a fornire elettricità ai vicini di Pechino. La società civile dello Stato birmano del Kachin si è subito schierata contro il progetto, messo sotto accusa per i disastri ambientali che avrebbe potuto provocare. Il 30 settembre il governo centrale del Paese ha ritirato il progetto, ma le violenze continuano in tutta la regione. La Fides, agenzia stampa dei missionari cattolici, denuncia l’uso di armi chimiche da parte dei militari di Yangon nel corso di questi sei mesi di conflitto. Finora sono più di 30mila i rifugiati che hanno lasciato il Myanmar in cerca di protezione in Thailandia o in Cina.

4.436

vittime

290 104

Messico Colombia


Striscia di Gaza

Sono almeno 18 le vittime di quattro raid aerei israeliani che hanno colpito la Striscia di Gaza tra il 29 e il 30 ottobre. Fonti mediche palestinesi aggiungono che nei bombardamenti sono rimaste ferite altre 15 persone. È l’attacco più violento da quando i due Paesi hanno cominciato lo scambio di prigionieri, iniziato il 18 ottobre con il rilascio di Gilad Shalit, il militare israeliano che dal 2006 era ostaggio di Hamas. L’accordo prevede che Israele liberi altri cinquecento prigionieri palestinesi. La polizia di Tel Aviv accusa Hamas di aver sparato più di venti missili contro il sud di Israele e di avere ucciso un uomo ad Ashkelon, dove altre quattro persone sono rimaste ferite. Secondo il governo israeliano, durante i bombardamenti sono morti solo jihadisti di Hamas. Dopo due giorni di scontri, grazie alla mediazione dell’Egitto, le due parti hanno siglato un temporaneo cessate il fuoco.

307

Iraq Israele Palestina Nord Caucaso Turchia Siria Yemen

18 12 262 475 122 225 539 382 218 11

Libia Somalia Sudan Nigeria Uganda Costa D’Avorio Rep. Dem. Congo

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Filippine

Il 24 ottobre l’esercito filippino ha iniziato a bombardare l’isola di Mindanao, storica roccaforte del Moro Islamic Liberation Front (Milf) e di Abu Sayyaf, i due gruppi islamici separatisti più potenti della regione. L’operazione militare è durata due giorni ed è stata ripetuta la settimana successiva, il 31 ottobre: il bilancio finale è di 26 morti e 20mila sfollati. Manila ha ordinato l’offensiva in risposta a una serie di attacchi in cui avevano perso la vita 35 persone. L’ultima volta che i bombardieri Ov-10 avevano sganciato i loro ordigni su Mindanao, nel 2008, i morti furono quattrocento, ha ricordato il portavoce dell’esercito. La guerriglia nel Sud dell’arcipelago filippino dura da trent’anni e ha lasciato sul campo più di 150mila vittime.

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Afghanistan Pakistan Myanmar India Filippine

Afghanistan

Un’auto della polizia è saltata in aria dopo aver urtato una bomba posizionata dai talebani a bordo di una strada nel distretto di Qadis, nel Sud del Paese. Nell’esplosione sono morti due agenti e una famiglia di otto persone, che si trovava in un’altra automobile a pochi metri dal veicolo andato a fuoco. Altri due poliziotti e un bambino sono rimasti feriti. L’attentato è stato messo a segno l’8 novembre, il secondo giorno dell’Eid al-Adha, la Festa del sacrificio islamica. Il 4 novembre i talebani avevano annunciato punizioni, previste dalla Sharia, contro chi avesse ucciso degli innocenti nei giorni della celebrazione sacra.


polis di

Enrico Bertolino

illustrazione

Felix Petruška

e chiamarlo Pd rom? È stato al governo del Paese per quasi un ventennio, (paradossale e tragica analogia) con qualche piccola interruzione per riposarsi un po’ dalle fatiche notturne e diurne. Ebbene, posso garantirvi che parlare di Berlusconi ormai è diventato difficile. In primis perché non c’è più nulla da dire che risulti più strano, surreale e drammaticamente divertente (a volte ridicolo) di ciò che si è detto da solo. E poi perché dopo varie parodie, satire e attacchi da svariati fronti, c’è il serio pericolo che scatti una strana solidarietà, che poi, nei casi più gravi, rischia di diventare una sorta di beatificazione. I sintomi ci sono, percepibili già dalle frasi della gente che fino a qualche anno fa, riferendosi alle critiche e alla satira che gli venivano rivolte, diceva: «E lasciatelo lavorare...». Oggi, dopo aver visto i filmati e le foto che lo ritraggono stanco e assopito come un carro allegorico di Viareggio fermo dopo il carnevale, la stessa gente dice: «E lasciatelo riposare...». In un clima del genere forse è meglio parlare dell’alternativa, sì ma quale? Sarebbe la sinistra, che è un po’ come l’isola che non c’è: tutti ne parlano nessuno sa dove sia realmente. Una sinistra che non si riconosce più come una volta, forse perché si specchia troppo nelle pozzanghere dimenticandosi che la fuori c’è il mare. Queste continue proposte di primarie, che sono uno strumento democratico eccezionale (gli Stati Uniti ce lo dimostrano da anni) ma che non possono essere indette con la frequenza di un’assemblea condominiale, stanno logorando gli elettori. Ecco l’immagine che più viene in mente parlando della sinistra attuale: un grande condominio, con Bersani che fa l’amministratore, si direbbe dell’intero stabile, ma invece no, in realtà non è così. Sulla scala A c’è Di Pietro che non vuole l’ascensore perché costa troppo e poi lo pagherebbero solo i suoi. Se avesse usato anche lui le scale per farci scendere Scilipoti e De Gregorio a tempo debito, e a sei gradini per volta, forse non saremmo in questa situazione imbarazzante. Sulla scala B c’è Veltroni, che chiede di poter usare la terrazza per riunioni didattico-gastronomico-intellettuali sulla crisi, e che al limite sarebbe anche disponibile per la portineria del partito più che per la segreteria. Infine, sulla Scala C, quella con tutti i muri dipinti e le scritte sull'ascensore incise con le chiavi, c’è Nichi Vendola che chiede ascensore, terrazza e portineria per tutti (vai a spiegargli che non si può avere una portineria per ogni scala e che Veltroni vorrebbe, almeno lì, avere l’esclusiva). Intanto, un piano sotto, chiusi in un box, affittato in nero ovviamente, ci sono Renzi, Civati e la Serracchiani che organizzano il nuovo Pd, che si chiamerà probabilmente Pdd, Partito davvero democratico, e che, ovviamente, per scegliere il suo leader organizzerà l’assemblea di condominio straordinaria (nuove primarie) che se tanto mi dà tanto avrà la stessa frequentazione di quelle vere, ovvero parteciperà tantissima gente, tranne gli inquilini e proprietari delle scale A, B e C. Per cui non si raggiungerà il numero legale e bisognerà riconvocare l’assemblea, così nel frattempo, mentre Bersani è lì a discutere con Veltroni o la Bindi perché Di Pietro fa cadere le briciole sul terrazzo di Vendola e poi arrivano i piccioni e sporcano, fuori succede di tutto. E la gente aspetta di rivedere la sinistra unita, nelle piazze, davanti alle fabbriche, nei mercati. Insomma una sinistra meno statica e stanziale, più nomade e libera. E allora chiamiamolo Pd rom il partito. Chissà che pur mantenendo le stesse persone, itineranti invece che ferme come dei totem, non cominci a cambiare la musica.

E


rischio fallimento il capitale di

Niccolò Mancini

foto Emmanuel [vu/blobcg]

Pierrot

L’ondata di sfiducia abbattutasi nel corso del 2011 sul nostro Paese ha avuto effetti devastanti sui mercati finanziari di tutto il mondo. Esagerazioni? Macché! Del resto avere il terzo debito pubblico del mondo e un Governo che non governa, essendo troppo impegnato a risolvere i problemi del premier, si è tradotto in un attacco senza precedenti al nostro debito pubblico i cui effetti si sono avuti in particolare sul differenziale di rendimento con i titoli statali tedeschi, l’ormai famoso spread, passato dai 122 punti di fine marzo ai quasi cinquecento di novembre. Cinquecento punti di spread, significa dover pagare il 5 per cento d’interesse più dei tedeschi su titoli con la medesima scadenza con conseguente peggioramento dei nostri conti pubblici che già scontano una crescita del Prodotto interno lordo (Pil) vicina allo zero. Le manovre ipotizzate dal Governo nel corso di questa lunga crisi hanno avuto il solo effetto di acuire le tensioni sui mercati poco propensi, a differenza del corpo elettorale italiano, a credere alle favole e ai proclami ad effetto come testimonia la sfiducia che fin dall’estate ha accompagnato le mosse dell'Esecutivo. I mercati non hanno ancora sentito pronunciare l’unica parola che avrebbe consentito di riportare la fiducia sui listini rimettendo in carreggiata i disastrati conti italiani: Patrimoniale, una misura auspicata dai sindacati come dalla Confindustria, dai principali capitani d’azienda come dai più importanti banchieri, Banca d’Italia inclusa. A pagare il prezzo più salato oltre ai nostri titoli di Stato è stata piazza Affari con la Borsa milanese arrivata a perdere quasi la metà del suo valore dai massimi fatti segnare a febbraio, trascinata nel baratro dai titoli bancari a causa del proprio portafoglio investito in larghissima parte proprio in titoli di Stato italiani, il che costringerà buona parte degli istituti di credito tra fine 2011 e inizio 2012 a imponenti aumenti di capitale per rafforzare i propri coefficienti patrimoniali. E proprio al 2012 guardano con timore gli operatori quando l’Italia dovrà rinnovare circa 440 miliardi di obbligazioni statali, un importo che agli attuali livello di tassi, conti e crescita economica, non può essere sopportato dal nostro Paese che, con buona pace degli ottimisti a tutti i costi, sarebbe costretto a dichiarare fallimento.

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Corsa

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a ostacoli testo e foto

Luca Galassi

Francesco, Paolo e Alice vanno a scuola, fanno sport, hanno amici. La disabilità non ha impedito la conquista di una vita quotidiana serena. Accanto a loro però c’è sempre una famiglia che lotta, disposta ad andare persino in tribunale per rivendicare diritti che dovrebbero essere garantiti. Perché l’unica legge sempre applicata ai tempi della crisi è quella dei tagli

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La rincorsa di Francesco comincia alla nascita. La vita lo ha sottratto prematuro alla madre, infilandolo per mesi in un’incubatrice. La malattia gli ha tolto il fiato e indurito gambe e braccia. Poi c’è stata la battaglia dei medici del Niguarda, quella dei suoi familiari, la sua. E la rincorsa è diventata corsa. Sulla carrozzina elettrica oggi è Francesco a lasciare gli altri senza fiato a inseguirlo quando si scoccia di tutto, schiaccia il tasto dell’accelerazione sul joystick del bracciolo e scappa via. Francesco ha sedici anni ed è affetto da tetraplegia spastica. Vive in via Moscova a Milano con papà, mamma, fratello e sorella. La madre Anna ha dovuto lasciare il lavoro nell’azienda di famiglia per accompagnarlo in quella che, tappa dopo tappa, si è rivelata un’avventura di grandi conquiste e di qualche delusione. Come il mancato riconoscimento di alcuni diritti fondamentali, per i quali Anna ha imparato a fare ciò che prima disprezzava: battere i pugni e gridare. Fare la voce grossa per farsi sentire. «Mi chiamavano ‘scusi scusi grazie grazie’ – confessa – perché non sapevo esigere e consideravo ciò che mi era, che ci era dovuto, una ‘gentile concessione’». Dovuta era a Francesco l’integrazione. La rimozione del pregiudizio, del limite, della discriminazione. Se lo Stato italiano ha costruito intorno

ai disabili un paradiso legale, nella realtà i loro diritti vengono continuamente negati. Il disagio della loro condizione è così raddoppiato, e la strada verso l’integrazione lastricata di ostacoli sempre nuovi. Prendiamo la scuola. «La scuola – dice Anna – è uno dei pochi momenti in cui Francesco sta con i coetanei. Ha incontrato spesso incomprensione e indifferenza. A volte solo ignoranza. Ma a scuola, mio figlio riceve anche sicurezze e conferme che io, in confronto, non sarò mai in grado dargli». Negare la scuola è negare la vita: è il motto delle associazioni che si battono per conquistare diritti. La Ledha, la Fish, la Fand tra le maggiori. Tutti acronimi conosciuti ai disabili e alle loro famiglie, ma ignoti ai molti. Come spesso oscure e invisibili sono le vite di chi è affetto da patologie che impongono un quotidiano ricorso agli altri: persone che dovrebbero essere in prima fila perché prime destinatarie di assistenza e soccorso. Invece spesso aiutare è sgradito, sostenere pesa, tendere mani costa fatica. «Finché la malattia o la disabilità non incrociano la

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▲ Francesco

nella palestra dell’Itt Gentileschi a Lampugnano, sede di allenamento del Dream Team. La squadra è allenata da Marco Rasconi, presidente della Ledha (Lega italiana per i diritti delle persone con disabilità) ▲ ▶In classe all’istituto Albe Steiner di Corvetto ▶ Lezione di Photoshop durante l’ora di insegnamenti multimediali ▼ Nelle

pagine successive, Francesco impegnato nella sua attività preferità: seguire l’Inter a San Siro


propria vita, quello in carrozzina è sempre l’altro», si rammarica Anna. Scrittrice di favole e racconti per bambini, ha deciso di avvicinare il mondo incantato e ideale delle sue narrazioni fiabesche a quello della realtà. Quando, lo scorso anno, all’istituto multimediale Albe Steiner del quartiere milanese di Corvetto hanno dimezzato le ore di sostegno a Francesco, Anna ha pensato che fosse arrivato il momento di imporsi e di fare causa all’ufficio scolastico regionale, insieme ad altre sedici famiglie milanesi. Metà ore di sostegno equivalevano a metà scuola per Francesco. Se la scuola è la vita, un disabile senza sostegno impara e vive a metà. Le carte, vittoriose, hanno decretato che la scelta delle amministrazioni scolastiche di ridurre il sostegno “concretava un’illecita discriminazione dei minori, i quali avrebbero visto leso il loro diritto allo studio costituzionalmente garantito, in violazione della disciplina antidiscriminatoria prevista nella legge 67 del 2006”. E le ore di sostegno sono state ripristinate.

Le diciotto ore

I tagli nella scuola italiana sono ciclici. La Finanziaria del 2008 aveva introdotto un limite massimo al numero dei posti di sostegno, escludendo la possibilità di assumere insegnanti in presenza di disabilità grave

(scelte poi giudicate illegittime dalla Corte costituzionale e ritirate). La manovra del 2011 ha decurtato del 38 per cento i fondi per l’autonomia scolastica, oltre a non soddisfare quasi mai le esigenze dei portatori di handicap. Al solito: ci sono le leggi, ma non gli strumenti e i fondi per applicarle. Con le assunzioni in deroga degli insegnanti di sostegno, di volta in volta, ad anno scolastico iniziato i presidi cercano di mettere una toppa alla parsimonia dell’amministrazione scolastica regionale. A volte riescono. Più spesso falliscono. Nella scuola italiana le necessità di un disabile sono valutate da operatori sanitari della Asl e dal personale insegnante (curriculare e di sostegno) in collaborazione con i genitori. L’istituto presenta un Pei (Piano educativo individualizzato) all’ufficio scolastico regionale con le richieste di ore di sostegno ed eventuali ulteriori necessità, come quella di un operatore psicopedagogico (anche detto “educatore”) nei casi di disabilità grave. Quella di Francesco è una disabilità definita grave, con invalidità al cento per cento. L’ufficio scolastico decide di attribuire all’istituto – alle classi dove è presente un disabile – in misura forfettaria, un monte ore di sostegno. Ma è una coperta corta, perché se un preside dà molto a qualcuno, altrettanto deve togliere altrove. Il ricorso di mamma Anna ha dato ciò che a Francesco

Senza barriere Raul Krauthausen per anni ha frequentato gli stessi posti, cioè quelli in cui era certo di non trovare barriere architettoniche. Poi, per allargare il giro, ha iniziato a raccogliere un elenco dei luoghi facilmente accessibili a chi, come lui, vive su una sedia a rotelle. Finché non ha inventato wheelmap.org, un sito sostenuto da Google in cui sono registrati e localizzati su una mappa più di 75mila luoghi di tutto il mondo che non presentano ostacoli per i disabili. Le strutture segnalate sono divise per categorie: cibo, alloggio, shopping, tempo libero, sport. «Solo in Germania esistono un milione e seicentomila disabili. Quindi altrettanti possibili utenti di questo servizio», ha spiegato il trentunenne berlinese al quotidiano Bild. Dall’esperienza del sito è nata anche un’applicazione per iPhone scaricabile gratuitamente da AppStore.


spettava di diritto (ripristino delle diciotto ore di sostegno ed educatore), ma ha tolto ad altri, generando malumori e, in qualche caso, ostilità. Al punto che anche gli altri genitori si sono affidati a un legale, lo stesso della signora Anna, per ottenere le diciotto ore. Si sa come andrà a finire. Negli ultimi anni i ricorsi sono aumentati vertiginosamente. La pubblica amministrazione soccombe nell’80 per cento delle cause presentate al Tar o, da quest’anno, anche al giudice ordinario. Pensiamo al tempo libero di un ragazzo di sedici anni. Può fare ciò che vuole: il suo tempo è, appunto, libero. Il tempo libero di Francesco è invece scandito da altri: può studiare quando la madre ha tempo di affiancarlo; può andare a prendere un gelato se il cugino ha voglia di accompagnarlo; può uscire con gli amici se uno di loro accetta la responsabilità di prendersene cura; può andare in vacanza se anche i genitori ci vanno. La sua famiglia si allarga, e l’affetto risarcisce l’assenza – o la lontananza – delle istituzioni. Chi gli vuol bene diventa tanto più ricco quanto più avaro è il sostegno dello Stato. E i costi a carico della famiglia sono onerosi. La seconda automobile, acquistata e adattata alle necessità della carrozzina, costa 14mila euro; un computer conforme alle sue difficoltà visive e motorie 1.300 euro; i farmaci che, seppur indispensabili, misteriosamente finiscono in fascia C e non sono più mutuabili, mille euro; le visite specialistiche, presso professionisti privati, mille euro; la benzina per l’auto, quando i mezzi pubblici cessano di essere pubblici, trecento euro. Il tempo di Francesco è scandito dalla salute: una volta a settimana in ospedale, la fisioterapia tre volte, quattro o cinque diversi farmaci al giorno. Medici e infermieri sono la sua seconda famiglia. Anche se una volta è successo quello che non si vorrebbe, un luminare di turno che ha chiesto alla mamma: «Ma il ragazzo... capisce?». Il ragazzo, che capiva, ha soprannominato quel luminare “il lampadario”. Francesco capisce, e conosce perfettamente la delicatezza del problema. I suoi sedici anni lo hanno dotato di grande sensibilità, e l’indulgenza è quasi dote naturale. Perdona, se necessario. Anche chi non lo meriterebbe. Quando non è a scuola gioca alla PlayStation, segue le partite dell’Inter a San Siro e frequenta una squadra di hockey su carrozzina, il Dream Team. Lo sport è per

lui metafora di vita. «L’hockey mi ha rigenerato e mi ha fatto capire che bisogna essere pronti a combattere per uno stesso fine», spiega. «In campo lottiamo fino alla morte e, se vediamo che uno non dà il massimo, lo redarguiamo. Bisogna dare il massimo, sia in allenamento che in campo. Perché le partite vanno vinte». Sa già cosa farà da grande: il giornalista sportivo. «Ma di parte, perché sono interista», sogghigna.

Pazza Inter, amala

Mentre Giuseppe e Michele, gli amici del palazzo, lo accompagnano a San Siro, racconta la sua passione: «La gioia più grande è veder vincere l’Inter. Poi vorrei che vincesse anche qualche ragazzo che non riesce a uscire dal tunnel. All’inizio uno pensa: che cavolo ci faccio su una carrozzina? Io lo considero un vantaggio. La vita mi ha dato la possibilità di poter aiutare chi versa nella mia stessa situazione, di potermi divertire con loro nonostante siamo diversi dagli altri. Sono fiero di essere così, e me ne vanto. Come si aiutano gli altri? Standogli vicini nei momenti difficili, sostenendoli, dicendo loro che, anche se gli sembra di aver toccato il fondo, c’è gente che purtroppo sta peggio di noi. Al Niguarda, dove vado a fare le terapie, c’è un alpino che è stato ferito in guerra. È fuori casa da un anno, ma non si lamenta, anzi. Io dico a chi sta male: “È ridotto così ma sorride. Perché tu che stai molto meglio devi essere più triste?”». Esce dall’auto, e la sua corsa verso la vita è inarrestabile. Vede lo stadio illuminato e accelera. Tutti rimangono indietro. Dentro, a bordo campo, incontra l’amico Franco Bomprezzi, portavoce della Ledha e oggi consulente del Comune di Milano sulle politiche per la disabilità. Entrambi interisti sfegatati. Entrambi sfortunati: l’Inter stasera perderà uno a zero. «Ma non importa», mugugna Francesco. «Lo dice anche la canzone: “Pazza Inter, amala”». Nella sua giornata c’è quasi sempre una pausa che, da solo, con la sua forza di volontà, si è cercato: l’intervento in diretta a Radio Milan Inter. «Lì si sente davvero ascoltato», dice la madre. «Esprime le sue opinioni sulla partita della giornata, sfoga la sua rabbia, parla di sé. Lì, in via del tutto eccezionale, la sua disabilità diventa invisibile. Lì è solo con la sua voce e il suo pensiero, finalmente libero dalla gabbia del suo corpo, con tutto il suo ottimismo e la sua determinazione».


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▲▲ Paolo

fa le addizioni con le matite, nella sua cameretta dipinta di azzurro, il colore della Lazio ▲ Di ritorno da scuola, aiuta ad apparecchiare prima del pranzo ▶ Con la sorella Maria Grazia alla finestra della sua stanza da letto

Paolo, «No, invece!»

Dalla collinetta dove sorge l’appartamento di Paolo, a Grottaferrata, provincia di Roma, la piscina dista solo pochi minuti. È una fortuna per lui. Alla fine dei compiti si fa accompagnare in macchina dal padre. Due o tre volte la settimana. O anche quattro, se è prima delle gare. La struttura, gestita da Assohandicap, ospita i ragazzi che partecipano alle competizioni delle Special Olympics, manifestazioni multisportive per atleti con disabilità intellettiva. Paolo ha già vinto parecchie medaglie. «Mi ci voleva proprio», ansima, sfiatato, al termine degli allenamenti. «Ogni volta che nuoto, dopo mi sento meglio. È una necessità alla quale proprio non so rinunciare». È la sua piccola gioia, la piscina, insieme al karaoke e alla Coca-Cola. La sua gioia più grande è

invece la Lazio. La cameretta è tappezzata di azzurro, e il giorno del suo diciottesimo compleanno, in aprile, lo hanno portato a Formello a conoscere i giocatori. Sfodera l’album delle foto mentre snocciola i nomi dei suoi preferiti: «Matuzalém, Ledesma, Hernanes...». E la fidanzata? Viene prima lei o la Lazio? Non risponde, Paolo. Pensa che se Valentina, di due anni più grande, lo sentisse, probabilmente gliene direbbe quattro. La vita di Paolo è serena, spensierata. Ma dietro la sua felicità c’è la battaglia della mamma, Elena. «Molte volte ho trovato un muro di gomma, mi sono rimboccata le maniche, ho pagato avvocati, ho pianto e sofferto. Ma mai ho permesso che indifferenza e corruzione avessero la meglio». Anni fa il vicepreside dell’alberghiero Ugo Tognazzi di Frascati sconsigliò l’iscrizione di Paolo, affetto da sindrome di Down, alla sua scuola usan-


«Provate ad alzarvi in piedi» Intervista a Fulvio Santagostini, presidente della Ledha e medaglia d’oro della Provincia di Milano per l’impegno a favore dei diritti dei disabili Qual è la situazione del welfare alla luce dei tagli, presenti e futuri? «C’è un progressivo smantellamento dello stato sociale. Dal 2008 a oggi è stato tagliato quasi il 90 per cento dei fondi sociali. Il fondo per la non autosufficienza è stato azzerato, il fondo per le politiche sociali è stato molto più che dimezzato, il fondo per la famiglia ha ricevuto sostanziali riduzioni. Una situazione drammatica, cui si aggiungono i tagli agli enti locali, che si riverberano direttamente sull’assistenza ai disabili. Per far cassa si vogliono tagliare gli assegni di accompagnamento e le pensioni di reversibilità. Sarebbe un ulteriore aggravio delle nostre condizioni. Ma la cosa più grave è che alle spalle di tutto questo c’è una cultura ben precisa, che parte dalle dichiarazioni del ministro Giulio Tremonti: nel 2010 disse che l’Italia non può essere competitiva a causa di due milioni e 700mila invalidi». Parlava di falsi invalidi, probabilmente. «Assolutamente no. Parlava di invalidità come condizione non produttiva. C’è un clima sotterraneo, che non emerge, una cultura subdola di intolleranza. E la questione dei falsi invalidi è una farsa. Il cieco che guida non è un falso invalido, ma una truffa bella e buona. Una truffa complessa, però. Come può un cieco guidare? Perché a scoprire i falsi invalidi sono sempre carabinieri o Guardia di finanza, e non l’Inps? Ci sono troppi medici e troppi burocrati compiacenti. La maggioranza dei cosiddetti ‘falsi invalidi’ sono davvero invalidi a cui, dopo le visite di controllo dell’Inps, sono stati decurtati punti percentuali di invalidità: sotto la soglia del 75 per cento i 270 euro di pensione mensili spariscono. Fanno quasi tutti ricorso contro queste ‘revisioni’. In quasi il 70 per cento dei casi, i ricorsi vengono vinti».

do i classici argomenti: disservizi dei mezzi pubblici, massimo quattro ore e mezzo di sostegno, angherie dei compagni di classe, e così via. «La sera dell’incontro, mentre gli servivo la pastasciutta, guardavo Paolo e non sapevo che dire. A togliermi dall’imbarazzo fu mia figlia: “Mamma, com’è andata stamattina?”. “Non bene, forse non c’è posto per tuo fratello”. Mio figlio posò la forchetta, mi guardò e disse: “No, invece!”, battendo il pugno sul tavolo. Non aveva intenzione di rinunciare al suo sogno». Elena ha ottenuto per via legale quello che voleva. O meglio, quello a cui aveva diritto. Ora sta lottando per ottenere il trasporto. Da Grottaferrata a Frascati ci sono più di venti chilometri, e tocca a lei o al marito Romano accompagnare il figlio, ogni mattina. Abituata a combattere, lei stessa è insegnante di sostegno, da

Che cosa chiedete al governo? «Di mettere mano a una revisione dei criteri per l’assegnazione dell’invalidità civile. Rivedere i Liveas e i Lea, i livelli essenziali di assistenza sanitaria e socioassistenziale. Oggi viviamo un accanimento indecente: io ho trentotto anni di paraplegia alle spalle e ho dovuto sottopormi alla visita medica. Ho amici paraplegici e tetraplegici a cui il giovane medico, appena assunto, ha chiesto: “Provate ad alzarvi in piedi”».

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quando aveva diciannove anni. A differenza di molti casi in cui la cattedra di sostegno è una scappatoia per entrare nella scuola e chiedere in seguito il passaggio alla docenza curricolare, Elena è rimasta al sostegno. «Perché è quello per cui ho studiato. Perché è quello che volevo fare. Perché è la mia passione. Anche se la scuola è cambiata, troppo. Oggi deve ancora venire, per noi genitori, un’alternativa seria e tangibile al tribunale. Ma a chi vede noi, che ricorriamo alle carte bollate, come degli aggressori, degli approfittatori, ribatto: non si metta in discussione l’uso del tribunale fino a che la scuola versa agonizzante in questa giungla di tagli. Non lo si faccia mai. Lei non mi conosce abbastanza bene da saperlo, ma glielo dico io: le mie parole escono dal cuore». Le si crede, se tali parole, non solo di madre che ama il proprio figlio, ma di insegnante di sostegno che ama il proprio lavoro, inciampano in un piccolo singhiozzo nel venir pronunciate.

Alice, che classe

Alice non frequenta la scuola delle meraviglie. Ma quella di Pero (Milano), istituto Dante Alighieri, è comunque quella che si dice una scuola modello. Nonostante il giudizio prudente della madre, Anna: «Non c’è una scuola buona o una scuola cattiva. Sono gli insegnanti che fanno la scuola. Ecco, Alice è stata fortunata, ma è anche stata una fortuna indotta. Nel senso che io ho preteso». La ragazzina sfugge alle domande. La sua vivacità la rende elusiva, ed è ardua la canonica intervista. È la madre, quindi, a narrarne la storia. Al momento dell’iscrizione alle elementari, Anna si presentò dal preside dell’istituto Marconi intenzionata a “rompere le palle”, come disinvoltamente spiega: «Mi aspettavo le solite frasi: “Sa, signora, qua è difficile”. E invece...». E invece il preside le dice che per la scuola sarebbe stata una vergogna non offrire ad Alice le stesse opportunità degli altri allievi. Così

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la bambina, che oggi ha tredici anni e una risata contagiosa, comincia il suo cammino. Nella scuola, grazie a un gruppo di genitori intraprendenti e determinati, viene subito istituito il Glh (Gruppo di lavoro sull’handicap), un organismo previsto dalla legge 104/92. Molti istituti sono inadempienti, e tocca proprio ai genitori dei ragazzi disabili accelerarne – e in qualche caso determinarne – la costituzione. Ottimo è stato da subito il rapporto con l’insegnante di sostegno. «Si presentò alla prima riunione – racconta Anna – dicendo: “Sappiate tutti che io non sarò solo l’insegnante di sostegno di Alice. Sarò l’insegnante di tutta la classe”». È stato grazie a questa filosofia che per cinque anni Alice ha vissuto nella classe “delle meraviglie”, dove docenti, studenti e genitori hanno creato quel clima di mutuo rispetto e collaborazione che ha permesso non solo alla bambina, ma anche ai suoi compagni di classe, di crescere insieme, facendo attraverso la scuola la cosiddetta “esperienza di vita”. La scuola di Alice ha vinto il concorso nazionale Le chiavi di scuola, indetto dalla Fish a premio delle buone prassi di inclusione educativa. La Fish (Federazione italiana per il superamento dell’handicap), particolarmente attiva nella critica alle scelte del governo sulle politiche sociali, è l’organizzazione che con più forza sta denunciando i tagli all’assistenza ai disabili. In tre anni – ha stimato l’organizzazione – due manovre finanziarie imporranno riduzioni di risorse per quaranta miliardi, tagli lineari che colpiranno pensioni di invalidità, indennità di accompagnamento, pensioni di reversibilità. Il fondo per le politiche sociali scenderà a 69 milioni nel 2012 e addirittura a 44 nel 2013. Da vicesindaco e assessore ai Servizi educativi al comune di Pero, Luisa Stocchi conosce a menadito i problemi legati al settore sociale. «Da noi però è diverso. La realtà di Pero è sempre stata attenta alla

questione, sin dalla legge 517 del 1977. Perché il territorio ha una cultura dell’accoglienza e della diversità molto forte. Da sempre una grossa fetta del bilancio comunale è stata investita nel sociale. C’era, e c’è, nelle nostre scuole, gente proveniente da fuori, da altri paesini, ma anche da Milano, perché conoscevano questa attenzione particolare alla disabilità».

▲ Alice

scherza durante l’ora di intervallo, nella scuola media Dante Alighieri di Pero ◀▲Paolo e Maria Grazia ◀Una fase degli allenamenti nella piscina di Grottaferrata

Nella più totale normalità

Luisa Stocchi è stata l’insegnante di Alice per cinque anni. La bambina è diventata per i compagni di classe un’occasione di potenziamento non solo emotivo, ma anche cognitivo. Già dalla seconda elementare la classe ha lavorato affinché gli apprendimenti, tradotti, potessero essere compresi anche da tutti quelli che erano rimasti indietro. «È stato questo lavoro che ci ha fatto vincere il concorso Le chiavi di scuola. Per tutta la terza elementare abbiamo lavorato alla scrittura di un libro di esercizi delle vacanze, indirizzato specificatamente ad Alice. Sotto il profilo dell’apprendimento, per i bambini è stato esplosivo. C’è stato un lavoro di mediazione e semplificazione affinché questo apprendimento diventasse accessibile ad altri. Se Alice aveva dei bisogni, non dovevamo più dir loro “aiutala, stalle vicino”, perché era diventato naturale, automatico, spontaneo. È diventata una risorsa talmente importante per la crescita umana e cognitiva dei bambini che i genitori, tutti, hanno chiesto che il percorso fosse proseguito alle medie. Così, la maggior parte dei compagni è rimasta la stessa. Sotto il profilo della crescita, dalle mie elementari sono uscite delle belle persone. Perché hanno imparato a farsi carico non di Alice, ma gli uni degli altri. Nella più totale normalità. Nella più totale solidarietà umana».

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www.e-ilmensile.it Sul nostro sito Pazza Inter, amala, il video diario della giornata di Francesco


Casa dolce casa a cura di Stella

Spinelli

illustrazione

Guido Guarnieri

16 ottobre, Alba Adriatica (Te)

Maria Rosaria Perrone, 51 anni, è morta accoltellata dal marito, William Adamo, 59, sotto gli occhi del figlio. La donna, ferita da almeno otto colpi alla gola, all’addome, alle mani e alle braccia, nonostante un intervento chirurgico effettuato nell’ospedale di Sant’Omero (Teramo), non è sopravvissuta a un’emorragia interna. I due erano separati da oltre un anno, ma l’uomo non aveva mai accettato la decisione. Si sono dati appuntamento per strada e hanno percorso in auto un tratto in compagnia di uno dei loro quattro figli, un ragazzo di 20 anni, autistico. Durante il tragitto è scoppiato un litigio, l’uomo ha fermato l’auto e ha iniziato a colpire la moglie. I carabinieri sono stati avvertiti da alcuni residenti che avevano sentito le urla.

22 ottobre, Colognola (Bg) Casa dolce casa è l’osservatorio mensile sulle donne uccise in Italia da uomini che conoscevano, che hanno amato, di cui si fidavano. Si chiamano femminicidi e rimandano alla relazione di potere tra i generi, che resta tuttora un fattore che ordina la società. I dati pubblicati, vista l’assenza di ricerche ufficiali sul fenomeno, sono raccolti dalla stampa e riguardano il periodo di tempo dall’8 ottobre all’8 novembre. Questo monitoraggio viene effettuato in collaborazione con la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna (www.casadonne.it), associazione impegnata da diversi anni contro la violenza sulle donne, alle quali offre sostegno, ascolto, consulenze e case-rifugio, con una particolare attenzione ai figli minori. Da tempo inoltre la Casa svolge un lavoro di ricerca sul femminicidio dal quale ogni anno deriva un’indagine-quadro sulle donne uccise: nel 2010 sono state 127.

«Ho fatto una cosa brutta, venite a prendermi». È finito in tragedia l’ennesimo litigio fra Romina Acerbis, 28 anni, e il marito, Maurizio Ciccarelli, 48, da cui viveva separata da un po’: lui l’ha strangolata e ha poi chiamato il 113. L’omicidio è avvenuto tra le 15 e le 16.30, l’orario in cui Maurizio poteva allontanarsi da casa, dove stava scontando gli arresti domiciliari per furto. Nel 2010 Romina Acerbis aveva denunciato due volte l’ex marito: una prima volta dopo essere finita in ospedale con alcuni giorni di prognosi, la seconda dopo un altro litigio. Dopo l’ultima denuncia, Maurizio Ciccarelli l’aveva cacciata di casa.

29 ottobre, Caltagirone (Ct)

Un pensionato di 74 anni, Gaetano Belgiorno, durante un violento litigio, ha sparato a sua moglie, Giuseppa Lo Bianco, 67 anni, e si è poi tolto la vita. L’omicidio-suicidio è avvenuto a Caltagirone, a 45 chilometri da Catania. Ad avvisare la polizia sono stati alcuni vicini di casa. La donna è morta poco dopo il ricovero.

30 ottobre, Lamezia Terme (Cz) Adele Bruni, 27 anni, aveva deciso di lasciare il fidanzato, Daniele Gatto, 29, e di concludere una relazione molto travagliata. Lui, però, non gliel’ha permesso: al termine dell’ennesimo litigio l’ha uccisa strangolandola. Ha quindi abbandonato il corpo in un luogo isolato alla periferia di Lamezia Terme e, come se nulla fosse, è andato a casa dei genitori della ragazza, dicendo di non riuscire a rintracciarla. Dopo una serie di giri e di telefonate sul cellulare di Adele, insieme ai genitori è andato al commissariato di Lamezia Terme per denunciarne la scomparsa. Il mattino seguente, è tornato dai poliziotti e ha confessato il delitto, spiegando anche di averla colpita in viso, dopo la morte, sfigurandola.


3 novembre, Milano

È stata sgozzata con un coltello da cucina dall’amante del marito. Patrizia Reguzzoni, 58 anni, casalinga, è stata trovata morta in un parcheggio di Pioltello, nell’hinterland milanese. A ucciderla Vittoria Orlandi, 28 anni, giovane medico. Le due donne si erano incontrate per un chiarimento, ma la discussione è presto diventata una lite molto accesa e la dottoressa ha accoltellato alla gola la moglie del suo amante. L’ha poi trascinata per alcuni metri e l’ha lasciata agonizzante vicino alla sua auto, dove la casalinga è morta in poco tempo. Dopo aver riconosciuto il corpo della moglie, sarebbe stato Marzio Brigatti, medico di 61 anni, a rivelare ai carabinieri la relazione con la collega, la cui auto era stata segnalata da alcuni testimoni che si erano trovati a passare nei pressi del parcheggio. Vittoria Orlandi è stata convocata in caserma e, dopo molte ore di interrogatorio, ha confessato l’omicidio, rivelando di aver gettato il coltello in un cassonetto della spazzatura a Vimodrone.

8 novembre, Genova

Ha ucciso sua moglie e poi ha tentato di togliersi la vita tagliandosi la gola. La donna, Evelina Clonetti, aveva 74 anni, il marito, Fausto Voltolina, ne ha 77. L’uomo è piantonato all’ospedale San Martino. Le sue condizioni sono gravi, ma non è in pericolo. Non si conoscono ancora i motivi del gesto. Li hanno trovati abbracciati sul letto, lei morta con una coltellata alla gola, lui in agonia.

Dopo, il processo e la condanna

«Quaranta minuti da film dell’orrore». Così si è espresso il pubblico ministero durante la ricostruzione della morte di Monica Savio, 36 anni, uccisa il 10 gennaio scorso in un parco pubblico di Arluno (Milano). Roberto Cecchetti, grafico di 29 anni appassionato di kick-boxing, da un anno aveva una relazione con Monica. Quella sera i due hanno litigato per questioni di gelosia e Roberto le si è scagliato contro prendendola a pugni per quaranta minuti, spaccandole il naso e la mandibola. Più volte le ha sbattuto la testa sul terreno e ha quindi cercato di strozzarla, non riuscendoci. Poi è rimasto a guardarla mentre moriva a causa dell’emorragia al naso. I tremendi dettagli di questo omicidio sono stati rivelati dal filmato di una telecamera a circuito chiuso installata nel parco. Roberto Cecchetti è stato ritenuto responsabile di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà. In virtù del rito abbreviato, è stato condannato a trent’anni di reclusione invece che all’ergastolo.

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deficit democratico .eu di

Stefano Squarcina

foto Frederick [getty images]

Florin

«Come osa il popolo greco pretendere di esprimersi con un referendum sui piani di salvataggio finanziario dell’euro? Si limiti a subire la scure fatta di tagli allo stato sociale, privatizzazioni e smantellamento del mercato del lavoro, come deciso da Bruxelles!». È stata paradossale – molto grave sul piano democratico – la reazione isterica delle capitali europee all’annuncio di un possibile referendum in Grecia sui piani di risanamento dell’economica nazionale. Ma la sovranità non apparteneva al popolo? Non è questo il vero principio fondamentale alla base di tutte le Costituzioni dei Paesi europei? La triste vicenda del referendum greco dimostra invece che oggi sono i mercati e le tecnocrazie europee, irresponsabili sul piano della legittimità democratica, a dettare le linee di comportamento ai governi nazionali che esercitano il potere esecutivo su mandato elettivo, diretto o indiretto. Questo la dice lunga sul deficit democratico che caratterizza l’impianto istituzionale dell’Unione europea: la sovranità popolare è stata manipolata in primis dall’ex premier Ghiorgos Papandreou, la cui minaccia di indire un referendum mirava in realtà a esasperare lo psicodramma collettivo sull’euro, unico modo a suo avviso per ottenere la costituzione di un governo di unità nazionale utile solo a spartirsi le responsabilità elettorali future sui piani di austerità imposti da Bruxelles. Eppoi è stata manipolata dall’Unione europea, che ha fatto di tutto per impedire che i diretti interessati potessero esprimersi su una serie di misure imposte dall’alto che ne cambieranno la qualità della vita. Costruzione politica europea e consultazione democratica diretta sono diventati concetti incompatibili, un vero e proprio vulnus democratico. Lo stesso che, al di là delle gravi responsabilità oggettive del governo italiano, ha impregnato stile e contenuti della lettera con la quale la Banca centrale europea ordinava al nostro Paese una serie di misure “prendere o lasciare” che il nostro parlamento deve limitarsi a ratificare. Merkel e Sarkozy adesso propongono una modifica del Trattato di Lisbona per accrescere i poteri di controllo centrale di Bruxelles sugli Stati membri: tra le proposte non vi è traccia di un miglioramento qualitativo della natura democratica dell’Unione. Che deve passare per un aumento dei poteri del Parlamento europeo in materia economica e finanziaria, oggi alquanto deboli, e per una stretta associazione dei parlamenti nazionali sulle scelte di natura strategica dell’Unione, tanto più se riguardano la vita quotidiana dei cittadini europei. Bruxelles, invece, sembra temere l’esercizio della sovranità popolare, mentre un coinvolgimento maggiore dei popoli europei nelle scelte fondamentali compiute dall’Unione è la strada obbligata per ridare senso politico a un’Europa che oggi sembra averlo smarrito.

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IL LASCITO TESTAMENTARIO

una scelta di solidarietà

EMERGENCY

w w w. e m e r g e n c y. i t

Il lascito testamentario è una scelta di solidarietà che permette a EMERGENCY di continuare il suo impegno a favore delle vittime delle guerre, delle mine antiuomo e della povertà. Non è necessario disporre di un grande patrimonio per fare testamento e per offrire, anche in questo modo, il proprio contributo alla costruzione di un futuro di pace, di solidarietà e di rispetto dei diritti umani: un impegno che EMERGENCY farà proprio portando assistenza sanitaria di alto livello e gratuita nei paesi dove opera, un atto di giustizia sociale che troverà la propria ragione nella tua volontà. Per avere maggiori informazioni sulle attività dell’associazione e per conoscere le modalità di destinazione di un lascito a EMERGENCY compila questo coupon e spediscilo via fax allo 02/86316336 o in busta chiusa a EMERGENCY - UFFICIO LASCITI - via Gerolamo Vida 11 — 20127 Milano - T +39 02 881881 — F +39 02 86316336 — email: lasciti@emergency.it NOME

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dittatore, adieu di

Gino&Michele

illustrazione

Elfo

Una vecchia storiella sempre di moda. Siamo nella foresta. Da un po’ di tempo le tartarughe hanno preso il potere. Il dittatore, la Grande Testuggine, ha subito imposto a tutti gli abitanti della foresta i suoi gusti. Il trip del comando gli ha dato alla testa, ormai le sue stravaganze sono all’ordine del giorno. Una mattina si alza e decide di imporre a tutti una gara di barzellette. Ma, essendo un dittatore, ci aggiunge la sua regola, naturalmente crudele: se la storiella non lo farà ridere, chi l’ha raccontata sarà decapitato. La scimmia è il primo coraggioso concorrente. Racconta una storiella su un convento di suore che fa ridere a crepapelle tutti i presenti meno le tartarughe, prima tra tutte la Grande Testuggine. Che la fa decapitare. Poi è la volta del leone, che racconta una barzelletta sugli ubriachi. Ancora, tutti ridono tranne le tartarughe e la Grande Testuggine. Anche il leone perde la testa. Poi arriva l’elefante. Quando il pachiderma è a metà della barzelletta, le tartarughe iniziano a ridere a crepapelle mentre la Grande Testuggine, in preda alle convulsioni, rotolandosi per terra dalle risate grida: «Ah ah ah... quella del convento di suore era bellissima!». *** Stravaganze, diciamo così, di dittatori reali: Yahya Jammeh, despota in Gambia dal 1994, ha proclamato la pena di morte contro l’omosessualità. A tempo perso si occupa di erboristeria. Nel 2007, ha annunciato che poteva curare l’Aids con le erbe. Mortalità infantile in Gambia (sotto i 15 anni): 12 per cento. Mswati III, re/dittatore del piccolo Swaziland (un milione e rotti abitanti), per combattere l’Hiv (un terzo della popolazione è sieropositiva) ha deciso di marchiare indelebilmente i contagiati, di sterilizzarli e di proibire a tutte le donne sotto i cinquant’anni di avere rapporti sessuali per cinque anni. Lui ha una ventina di mogli, impalmate previo rapimento, tra i dodici e i sedici anni. Suo padre, monarca assoluto come lui, ne aveva settanta e mille nipoti. *** Titoli pretesi da Idi Amin, già dittatore dell’Uganda dal 1971 al 1979: “Sua Eccellenza Presidente a vita, Maresciallo di campo, Al Hadji Doctor, Croce della Regina Vittoria, Croce Militare, Signore di tutte le bestie della terra e dei pesci del mare, Conquistatore dell’Impero britannico in Africa in generale e in Uganda in particolare e Re di Scozia”. *** Dittatori contemporanei uccisi o condannati a morte con processi farsa: molti. Ricordiamo per tutti Ceausescu, Saddam Hussein, Gheddafi. *** Dittatori morti liberi (e a volte riveriti) nel loro letto: non pochi, e di alcuni ci siamo dimenticati troppo presto. Per esempio, in Spagna Francisco Franco, è morto al potere (1975) nel suo letto e senza un solo processo, dopo trentasei anni di dittatura incontrastata. I suoi oppositori erano condannati a morte per garrota (chi non lo sa, si vada a vedere che supplizio è). *** Prima o poi tutti i dittatori ci lasciano. Ma checché ne dica il Vangelo, forse tra vendetta e perdono ci sarebbe un bello spazio da riempire... *** “L’ottimista pensa che questo sia il migliore dei mondi possibili; il pessimista sa che è vero”. (Robert Oppenheimer)

K

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pìpol


decoder di

Violetta Bellocchio

il matto è servito

Dopo le prime proiezioni di Taxi Driver alcuni spettatori suggerirono di inserire nel film una scena in cui il protagonista accarezzasse un cane o parlasse della propria mamma. Questo, in teoria, avrebbe reso “più umano” un anti-eroe violento e instabile: l’avrebbe avvicinato al pubblico, mettendo in luce i motivi per cui, in fondo, lui era uno come tanti. Oggi non succederebbe. Per accontare la follia si deve partire da un gesto estremo e il responsabile va portato in scena come un caso eccezionale, isolato e irripetibile. Quando in una chiesa di Viareggio un uomo si strappa gli occhi a mani nude durante la messa, perché una voce gli ha detto di farlo, la prima descrizione del protagonista è la più vera: si tratta di “un quarantenne in cura per problemi psichici”. Non basta. Qualche informazione arriva dalla madre, che ha assistito alla scena: l’uomo abita in Toscana, ma è nato in Scozia; è laureato in Chimica e parla cinque lingue, ma non ha mai trovato lavoro; non solo è rimasto cosciente dopo essersi ferito, ma non gli è sfuggito nemmeno un lamento. E il medico di guardia allarga le braccia: «Mai visto niente di simile – dice – per fare quel che ha fatto ci vuole una forza disumana». Ecco qua, il matto è pronto. Se ogni parte di lui è straordinaria, non serve chiedersi come sia arrivato a questo punto, perché tanto a noi non potrebbe mai capitare; la sua malattia non è contagiosa, quindi non c’è bisogno di dare un finale alla sua storia. Né di seguirlo dopo il ricovero. L’importante è che la quarantena funzioni. Ma se l’uomo di Viareggio avesse accecato un familiare, o un estraneo, la storia sarebbe andata avanti per settimane, con la trasformazione del protagonista nel filo conduttore di una soap opera a tinte nere. Ogni sua parola avrebbe nascosto un sintomo, ogni libro e film preferito su Facebook una traccia del disagio sommerso, come per l’attentatore norvegese dell’isola di Utoya. Tutto, purché si potesse tirare una linea tra lui e noi.

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l'esproprio di New Orleans un fisico bestiale di

Bruno Giorgini

Il Charity Hospital era uno dei più antichi ospedali degli Stati Uniti, fondato nel 1736 a New Orleans da Jean Louis, un navigatore francese. Un grande ospedale pubblico per i poveri e le persone senza assicurazione, sopravvissuto anche all’uragano Katrina che investì la città nel 2005, non ha resistito alle volontà di privatizzazione e alle forze speculative che sono riuscite a chiuderlo, prendendo a pretesto proprio i danni provocati dall’uragano. La storia molto complessa è stata investigata e poi raccontata da Anne Lovell, antropologa (www.metropolitiques.eu), e noi tentiamo qui di riassumerla in pochi punti. Intanto l’utilità, più fortemente: la necessità medica e sociale del Charity Hospital. Più di un quarto della popolazione di New Orleans soffre di malattie croniche legate alla miseria, un tasso molto più alto della media statunitense. Per esempio l’Aids colpisce 21,2 abitanti su centomila, mentre nell’intero Paese la proporzione è di 14 su centomila. Lo stesso vale per la mortalità infantile, e queste cifre aumentano in modo considerevole per gli afroamericani. Inoltre nel corso degli anni il Charity era diventato un luogo di aggregazione e riconoscimento sociale del diritto di ciascuno alle cure mediche. Dopo l’evacuazione del personale durante l’uragano, il generale comandante le truppe di pronto intervento ordina di rimettere in sesto la struttura e, anche con l’aiuto di ingegneri tedeschi nonché di medici e infermieri volontari, vengono riaperti i servizi d’urgenza. Ma poi gli amministratori dell’ospedale, che dipende dalla sezione medica dell’Università statale della Louisiana (Lsu), hanno convinto il governatore dello Stato, Kathleen B. Blanco a chiuderlo. Non solo: hanno tagliato l’elettricità, l’acqua eccetera, impedendo l’accesso all’ospedale e lasciandolo andare in rovina. La chiusura dell’ospedale si è accoppiata al licenziamento di circa tremila operatori sanitari, in specie afroamericani, aumentando la difficoltà della parte più povera e popolare della città. Va detto che la chiusura dell’ospedale si inscrive in una più generale filosofia della ricostruzione volta a espropriare i cittadini poveri, tra cui molti afroamericani, del diritto di abitare nei loro antichi quartieri. Una politica che colpisce i servizi pubblici in tutti i settori: per esempio le scuole pubbliche sono state sostituite dalle cosidette charter schools, scuole gestite da privati con fondi pubblici. La perversione liberista della speculazione immobiliare e della disuguaglianza si concretizza nel progetto di radere al suolo i quartieri popolari per costruire un grande complesso (27 ettari) con un parcheggio e due ospedali, ovviamente impermeabili ai poveri e ai senza-assicurazione. Per fortuna, in questa triste storia nasce nel 2007 un vasto movimento sociale per la riapertura del Charity, difficile è dire oggi con quali possibilità di successo. Certamente quando il matematico René Thom negli anni Sessanta pensò la teoria delle catastrofi, non credeva che sarebbe nato anche un capitalismo del disastro, per di più, almeno a New Orleans, con evidenti caratteristiche “razziali”.

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Un amico a Choman di

Piero Colaprico

illustrazioni

Francesco Chiacchio

Piero Colaprico Nato a Putignano, è arrivato dopo il liceo a Milano, dove diventa inviato di nera e giudiziaria (sarà lui a coniare il termine Tangentopoli) per la Repubblica, occupandosi di storie che influenzano la sua attività di scrittore. È autore di Cene eleganti (Feltrinelli 2011) – un raro esempio italiano di saggio-fiction – di gialli, racconti e romanzi che ambienta sempre a Milano, come La Primavera dei maimorti, scritta con Pietro Valpreda, e Trilogia della città di M (Premio Scerbanenco 2004, ex aequo).

Francesco Chiacchio È nato a Fiesole nel 1981 e vive a Firenze. Ha illustrato libri, dischi, scritto storie a fumetti e disegnato manifesti per il teatro. Nel 2009 i suoi disegni hanno illustrato interamente il numero 114/115 de Lo straniero, rivista fondata e diretta da Goffredo Fofi. Nel 2010 ha partecipato alla IX edizione di Futuro Anteriore, mostra sul presente del fumetto italiano curata da Michele Ginevra ed Emiliano Rabuiti. Collabora con la Repubblica come illustratore per le pagine della cultura di Firenze.

Il bagliore di un altro bell’attentatuni, ma che due palle che mi avevano fatto laggiù, con le loro porcate al plastico. Voi non potete nemmeno immaginarlo. Luce, poi uno due tre quattro. Cinque. E sei. Un botto da far traballare il mondo. Calcolando la velocità del suono, una strage a due chilometri circa da me, roba da sentire i lamenti, voglio dire, e vedere lo scempio. Restai seduto nell’ufficio degli spioni italiani per i quali io e Dino lavoravamo. Una nuvola di polvere gialla invadeva il cielo afoso. Il Dottore, mentre i vetri tremavano ancora, stava finalmente per aprire bocca. Invece si spalancò la porta: «Lyari, è successo là», gli disse il suo affannato e giovane segretario, portando un biglietto. Poi mi scorse, nella penombra dell’ufficio, e capì chi ero. Là dentro tutti sanno tutto, anche se fingono di non sapere mai niente. Nun tiniri amicizia cu li sbirri, ca cci perdi lu vinu e li sicarri. Balbettò delle scuse al capo e sparì, serrando bene la porta. «Lyari», ripeté il funzionario, aggiungendo un’espressione schifata. «Il mio Corleone, rispetto a questi distretti merdosi, sembra bello come Firenze», scherzai e voi sapete quanto mi piaceva scherzare, e scrivere, e leggere, che se fossi nato, che so?, a Milano, oggi potrei fregare il posto a Camilleri. E invece. Il Dottore accennò un sorriso di pura cortesia e continuava a fissarmi. Un ricchione, o come si dice adesso, un bisex. Non è raro che questi agenti segreti lo siano, non è una metafora “ficcare il naso nei cazzi degli altri”. Quando n’ebbe abbastanza di scrutare i lineamenti della mia bocca saracina, arrivò al punto della questione: «Ho letto il tuo rapporto sulla rapina, sul tuo ferimento, la morte del tuo amico e la visita che ti ha fatto il francese. E alla fine m’è sorta spontanea una domanda». «Dica pure, Dottore».

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«Quando stavi in Italia, con il tuo clan di criminali, ti facevi così tanti problemi per ammazzare qualcuno, Saro?». «Mi fa effetto risentire il mio vero nome, qui mi chiamano Abdel. La sua domanda è quella che mi faccio anch’io, e sempre più spesso, e senza darmi risposta, e intanto fugge questo reo tempo...». «Smettila con le cazzate e fammi un po’ di cronaca personale, per favore, che qui bisogna capire», disse. E “per favore” era scandito come un ordine da caserma. Pretendeva l’obbedienza che voi, fratelli, non conoscete. Ma per evitare il carcere ho preso la via dell’esilio. Sa di pane lo sale altrui, troppo spesso ho dovuto dire di sì a questi cornuti. Misi in fila la sequenza delle storie che così tante volte negli ultimi mesi mi avevano occupato il pensiero strategico: «Come sa, Dottore, dopo la rapina finita male e la morte del mio amico, ho cominciato una faticosa rieducazione fisica. La facevo nella piscina dell’hotel. Ho un salvagente per tenere ferme le gambe e due pinne per le mani, come due palette, ha capito? Così sforzo spalle e braccia, e recupero. Ci vuole pazienza. Lei sa com’è fatta una piscina? Con le corsie e tutto, e sul fondo della mia è dipinta una striscia blu». Mi sentii osservato come se fossi una rara specie d’animale. Stavo esagerando e lo sapevo: «Io seguo la striscia blu, nuoto, nuoto, respiro, sento il fresco nei capelli, l’acqua in bocca mista al cloro. Dovrei essere già in forma, invece no, anzi più passano i giorni, più mi cresce qualche cosa nel petto». Lo sguardo del funzionario passava dagli occhi al petto dove avevo portato le mani, avvertendo l’osso del manico del mio coltello da difesa: «Come se il cuore fosse d’ovatta, capisce, Dottore? Più nuoto, più l’ovatta si bagna», aggiunsi con un filo di voce. «E diventa pesante, sempre più pesante, e mi sento trascinare sul fondo, penso che non ce la farò nemmeno a finire la vasca, che annegherò come un bambino. E il cuore mi batte e scappo fuori dall’acqua». «Sarà una crisi di panico, può capitare con il nostro mestiere. Vuoi delle pillole? Qui abbiamo di tutto». «Sarà quello che sarà, ma...». «Parla pure». «Dottore, non voglio passare per matto, cosa che non sono». Il funzionario cercava di stabilire se potesse fidarsi ancora di me. Oppure se dovesse eliminarmi, non certo nel suo ufficio. Nelle conversazioni che hanno a che fare con la vita e la morte, è meglio essere molto convincenti, come sapete. Tornò a fissarmi, silenzioso e cauto, mi ripeté l’invito a confidarmi, finsi di accettarlo. «La rieducazione – ripresi – m’impone di restare in acqua per ritrovare le forze. Ho fatto il possibile, ma un pomeriggio, che ero stanco e forse un po’ giù di corda, ho visto sul fondo della piscina, pace all’anima sua, la faccia di Dino. E ha cominciato a parlarmi». Tenni gli occhi bassi per non leggere il suo scetticismo, sentii a bassa voce un ironico «andiamo bene...». «Era molto reale, Dottore, era più che una visione». «Un mafioso come te che crede ai fantasmi? Via Saro, ma che minchia ti stai inventando...». «Questo è il punto, Dottore. Io non ho mai creduto ai fantasmi e non mi sto inventando niente, glielo giuro. C’era Dino, mi guardava e mi parlava. Come sa, era un uomo della camorra, un napoletano, e io sono un palermitano, della Famiglia della Noce, che stava nel cuore di quel fulminato di Totò Riina, che muoia in galera». Rievocavo con lentezza le antiche questioni: «Ci conosciamo da tempo, i nostri genitori erano in affari al Nord e noi siamo diventati amici sul serio più tardi, nel carcere di Fossano. Tutti e due siamo stati rapinatori di banche da ragazzini, poi siamo passati ad altro...».

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Mi sembrava meno frocescamente indecifrabile del solito, persino interessato alla mia salute. O forse, attento a non basare il suo futuro informativo sulle mie ansie e le mie incertezze, sul mio fantasma nell’acqua. Lasciammo calare un meditativo e assordante silenzio nell’agenzia viaggi e disbrigo pratiche doganali, al quarto piano di un condominio anni Ottanta, l’ufficio di copertura dipinto dello stesso marrone fogna della sua sformata giacca di lino. Filtravano dalla porta le parole di una vecchia canzone italiana, non riuscivo a ricordare chi la cantasse. “Se bruciasse la città lo so lo so tu cercheresti me”. La più futile colonna sonora dell’attentato, la beffa che spesso il Destino fa alla Tragedia. Karachi bruciava da un anno esatto, ed era tutta colpa dei tre maggiori partiti: il Ppp, l’Mqm e l’Awami National Party. Non si mettevano mai d’accordo e le bande dei gangster, con i loro boss collegati ai vari politici ladri e corrotti, si sparavano l’un l’altro senza tregua. Uno schifo. Una merda. Cioè, uno schifo pachistano. Voglio dire che esistono le differenze tra le civiltà. Nostro padre, pace all’anima sua, era stato reggente della Noce ed era stato mandato a Sanremo da giovane, ai bei tempi. Difendeva i soldi e gli affari dei politici democristiani amici, mentre i catanesi proteggevano la cordata dei socialisti milanesi, che volevano papparsi tutto, alla faccia di Cosa Nostra. E in Italia tra i partiti e noialtri ci mettiamo sempre d’accordo, e ci mancherebbe altro: «Ci met-tia-mo d’ac-cor-do». Qui a Karachi no, porca puttana. La regola è la fetenzia che non esistono regole. Il Pakistan ha tre volte la popolazione dell’Italia ed è più indietro di cinquant’anni. E così, da gennaio, in queste strade ci sono stati ottocento morti. Io e Dino avevamo fatto la nostra parte. Era quello che stava dicendo il funzionario: «Tu e Dino in due anni qui ne avete fatte di cotte e di crude. Siamo alle soglie di una rivoluzione che non avviene, come un vulcano che fuma, manda fuoco, e non scoppia mai. Sempre meglio di Kabul, però». «Sì, andavamo forte, sino alla disgrazia di quell’ultima rapina». «Ho qui il tuo rapporto», disse, estraendolo dal primo cassetto della scrivania. “Noi siamo ‘i due mafiosi’, ci chiamano tutti così. Abdel e Zahir, l’Italian consulting. Veniamo pagati da tutti i boss, studiamo i colpi alle banche, agli hotel, ai trafficanti dell’una e dell’altra fazione, e ci teniamo sempre il 5 per cento di tutto”. «Sapevo il 25...», m’interruppe il Dottore. Aveva ragione, ma dovevo dargli torto: «E no, magari. Prendiamo poco per restare vivi, per non fare la fine di chi ci ha preceduto. Cu mangia fa muddichi». «Che cosa hai detto?». «Chi mangia fa le molliche. Le briciole, Dottore, sono importanti. Più briciole ci sono, più gente mangia, più gente mangia, più fa molliche, è così che ci portiamo contatti, indirizzi, impressioni di prima mano, no? Parlo al presente, e invece Dino è morto. Davvero, è come se fossi rimasto fermo al giorno della maledetta rapina alla Lcb». «Calmati, Saro, per favore. Devi prendere anche delle pillole in questo periodo?». «No, Dottore, che c’entrano le pillole? Mi ascolti, per favore, è lei che deve capire. Io e Dino avevamo studiato la Lux City Bank per dieci giorni. Conoscevamo orari e

Un amico a Choman

«Qui in ufficio – s’intromise il funzionario – abbiamo tanti problemi, siamo in periodo d’elezioni. L’hai sentita anche tu l’esplosione». Bevvi un po’ della sua minerale calda come piscio dal bicchiere di plastica e proseguii come se niente fosse: «Sulla striscia blu della piscina, come su un rullo, correva una specie di “chi” eravamo stati noi, io e Dino, in Italia. Le nostre rapine, il carcere, le fughe, i night di Milano, le nostre donne, la sua bellissima fidanzata. Abbiamo ammazzato un po’ di catanesi. E poi, due anni fa, per evitare la galera, su invito del vostro collega di Roma, ci siamo messi a disposizione, e ci avete mandato quaggiù». «Due anni passati in fretta, eh?», scosse la testa, quasi stupito dal tempo che fugge e van con lui le torme delle cure...


Un amico a Choman

situazione. Avevamo corrotto i vigilantes, una dozzina d’idioti. Avrebbero sparato a vuoto, e si sarebbero fatti catturare. Come un cronografo svizzero, tutto a posto. In due minuti siamo usciti con il bottino, un milione e mezzo di dollari, 80 chili d’oro, due valigie di buoni americani del tesoro, e ci saremmo diretti verso l’Iran. Qui, a differenza dell’Italia, si possono usare tutti i tipi d’arma, e li abbiamo usati. Ce la stavamo filando in corteo, pronti ad aprire di nuovo il fuoco, ma lungo la strada...». «Ecco, raccontami», sfogliò il rapporto e trovò il passaggio in un batter d’occhio. Dimostrava di essere preparato: «Ho già letto del drone, sei stato molto efficace, ho fatto avere la tua descrizione agli americani...». Aspettai che finisse il rumore di uno sciame di elicotteri in volo. Non riuscivo a vedere se fossero quelli neri che portavano i militari o quelli arancioni del recupero feriti. Mi venne da massaggiarmi la spalla, toccai di nuovo il manico del coltello che avevo nella tasca interna del mio giubbotto di ecopelle: «Io e Dino – raccontai – eravamo sulla Bmw, tre macchine indietro rispetto al furgone con l’oro; all’improvviso mi sono trovato a testa in giù, capovolto e insanguinato. Un bagliore, un rumore, tutto addosso a me. Il drone americano ha centrato in pieno il furgone, spezzandolo in due, ma l’abbiamo capito dopo». «Fantastici, eh?». «Se non sei tu nel mirino...», risposi. Non fingevo uno choc che ancora provavo, quel botto era la mia ossessione: «Dino, il solito culo, non s’era fatto nulla, nemmeno s’è spettinato. A me invece è entrato qui, nella spalla, un pezzo di pistone grosso così. E me l’hanno tirato fuori all’ospedale di Emergency in Iraq, sei ore di operazione». «A Choman, ho notato il viaggetto. Come mai tu e il socio siete andati proprio in mezzo ai curdi?». «Non potevamo correre rischi di venire identificati in qualche ospedale di Karachi, e lassù c’è tanta brava gente, anche se incazzata con noi italiani. Pare che ai tempi della guerra gli abbiamo venduto dieci milioni di mine». Sbuffò: «Esagerano, sono comunisti. Le nostre mine saranno state al massimo, ma al massimo, due milioni...». «Comunque ci hanno preso, un infermiere curdo era amico di Dino». Il funzionario lesse qualche riga del rapporto: «I napoletani sono più sciolti di voi palermitani». «Già». «E nel tuo rapporto – continuò – ho letto che Dino non era manco ferito, dopo l’attacco del drone. E invece a Choman ci è morto. Ci va per salvare te e muore lui, strana la vita...», disse il Dottore. «Stava con me per ore, tutti i giorni, all’improvviso è sparito... Ho subito pensato a qualche casino e nonostante fossi ancora mezzo scassato, e ogni volta che poggiavo il piede per terra mi veniva da ululare, sono andato a cercarlo. Viveva nella casa di una puttana finita in un carcere religioso, e l’abbiamo trovato sul pavimento. Con addosso un pigiama. Con disegnate delle vespe Piaggio. Stecchito. E questi balordi volevano metterlo nella bara da spedire a Vico Equense, dalla sua bellissima fidanzata, così, con il pigiama, a Dino, uno che quando era giovane faceva cagare sotto i Casalesi». «Non capisco, scusami, Saro, ma proprio non capisco», mi bloccò il funzionario. «La morte, capo», dissi. «Il certificato di morte l’ho visto», equivocò. E siccome rimanevo zitto, e sembravo commosso, cercava di dare un senso alle mie parole. L’avevo finalmente mandato in tilt. «L’ho data, l’ho sfiorata, l’ho vista da vicino, la morte. Ho pianto mia madre e mio padre, i miei amici ammazzati... Ma Dino che muore in pigiama, per un ictus...». «Come si dice, quando capita, capita, eri tu il candidato alla morte, invece tu sei qui a rompere i coglioni, e lui è già marcio».

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«Marcio o non marcio, vedo lui sott’acqua e mi dice: “Saro, la questione è sapere se è questa o non è questa la vita che vuoi. Vuoi vivere tra questi ignoranti che si scannano perché uno parla urdu e uno sinti? Vuoi fare la spia per lo Stato? E mentre lo fai, davvero ti va di organizzare le rapine con altri compari, in questa cazzo di Karachi dove il calore del mar Arabico ti porta il termometro a 50 gradi, dove salta la corrente perché i generatori non ce la fanno? E la gente stesa sul tetto di notte, a prendere il fresco e guardare le stelle e chiavare le ragazze, muore perché un sacco di stronzi sparano in aria e ci sono più proiettili vaganti che zanzare, questo vuoi?”». «E tutto questo te lo dice Dino? Saro, ma vai un po’ a cagare», replicò il funzionario, gelido. Chiuse il mio rapporto con un rumore talmente secco che il segretario s’affacciò un attimo e, visto che eravamo entrambi vivi, arretrò chiedendo scusa. «La tua si chiama paura, si chiama paura irragionevole. O ragionevole, via, avete fatto una brutta vita, ma come la mia, ma io non ho paura», alzò la voce il Dottore. «Non siamo a Poltergeist, non prendermi per il culo». Lasciò passare alcuni carri armati, con i cingoli che avevano bisogno di un bel po’ d’olio: «Tu vorresti tornare in Italia, giusto? Questo è il punto, ho ragione o no? Dopo tutto quello che abbiamo fatto per te e con tutto quello che c’è da fare qui, ti vorresti squagliare». «Non so più che cosa voglio», gli dissi, per prendere tempo. «Hai fatto sino al quarto anno di liceo scientifico, pare che leggi un sacco di libri, e sei uno che ragiona, no?». «Penso di essere intelligente», lo sfidai. «Bravo. Sai perché te la stai facendo sotto? Semplice, come molti mafiosi se non sei coperto dalla famiglia, sei solo un vigliacco. Tu senza Dino non vali un cazzo di niente», disse schifato. Reagii duro: «Non mi manchi di rispetto, Dottore, u rispettu è misuratu, cu lu porta l’havi purtato». «L’hai sentita la bomba? Quanti morti aggiungiamo oggi alle sparatorie tra clan? L’altra notte sono stati trovati ventiquattro cadaveri, alcuni avevano infilati in bocca dei messaggi per il governo e altri per l’opposizione. Gli ospedali non ce la fanno più, questo mese...». La sua falsa pietà era ridicola: «Nessuno, nel mondo, sta arrivando tutto sano alla fine del mese». Perse l’aplomb: «Frega staminchia del resto del mondo, noi siamo qui, qui, noi e ora! Perciò ti chiedo, te la senti di tornare a Lyari anche se non c’è più Dino a pararti le chiappe?». Aveva un accento calabrese sino a quel momento trattenuto. «A Lyari? A fare che cosa?». «Devi trovarci un contatto affidabile con i tuoi amici del Muttahida Qaumi Movement. Solo questo. Non è difficile. Tra un po’ ci sono le elezioni e noi...». Picchiai un pugno sul suo tavolo: «Quel drone mi ha detto che io e Dino non abbiamo solo amici quaggiù, ma anche qualche nemico potente, ’u capisti? Nascosto dove non sappiamo, forse pure nel Mqm. Che ne sappiamo? Che ne sapete?». Gli puntai l’indice sotto il muso: «Il discorso è semplice. A parte noi, voi e la banda che ci ha commissionato il colpo, chi lo sapeva che avremmo attaccato la Lcb, la banca dove stavano i soldi dei boss del quartiere di Lyari?». «È un’insinuazione, Saro?», s’indignò il Dottore. «Quali infami hanno soffiato agli americani la balla che la nostra rapina era stata organizzata dai talebani per finanziare il nuovo Osama bin Laden?». «Il vecchio barbone intanto è in fondo al mare», ghignò. «Ma il drone è finito addosso a me». Un dito di polvere s’era posato sul piccolo davanzale volando dal luogo della strage. Il ritmo delle autoambulanze era diminuito. Nel cielo diventato più fosco non volava un uccello. L’aria condizionata mandava un vento freddo sulla nuca.

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Un amico a Choman

«Dino mi ha dato la risposta. Lo vedo davvero, dal fondo della piscina, che mi parla: “Noi – dice – siamo stati prudenti come sempre, e sinora siamo andati alla grande. Se l’ultimo colpo è andato male, è perché siamo stati traditi. Da chi, Saro, amico mio? Ci muoviamo tra i gangster locali e siamo sotto la copertura dei servizi italiani. Do per certo che non è stata gente di qui a infamarci. A loro siamo utili, molto utili per i piccioli, e sanno che non c’entriamo mai con le loro cazzo di incomprensibili liti. Allo stesso modo siamo utili anche ai servizi italiani”». «Non c’è dubbio, metto la mano sul fuoco su me e sul mio ufficio», disse il funzionario. «Ma tra i poliziotti ci può essere concorrenza. Perciò – mi ha detto Dino, dal fondo della piscina – non avere dubbi. Il primo straniero che ti manderà a chiamare è quello che ci ha voluto togliere di mezzo». Un nuovo corteo di sirene passava a rilento sotto le nostre finestre, dovevano aver trovato sotto le macerie altri feriti. Il traffico e i carri armati stavano paralizzando gli incroci, aspettai che il rumore finisse. Il disco Se bruciasse la città era riemerso, non mancava qualche impiegato ossessivo. Mi toccai il coltello, l’avevo affilato al mattino, e c’era, pronto all’uso. Montai la mia versione: «Di Dino vivo mi sono sempre fidato, perché non fidarmi di Dino morto?». «Dino morto che ti parla, scusa, eh, ma faccio fatica a crederlo. Però l’idea investigativa può essere giusta». «Lo è, lo è, lei sa quello che è accaduto dopo con il francese. Non ho fatto altro che aspettare uno straniero. Uno speciale, non i soliti. E così succede, come le ho scritto nel rapporto. L’altro ieri finisco di nuotare, Dino mi dice di stare attento, che è la giornata giusta...». «La giornata giusta...» «E mentre vado a bere, come sempre, un bicchiere di finto tè, in realtà è una birra ghiacciata, che qui non vogliono far vendere, ma sa com’è...». «Il cameriere cinese», tagliò corto il Dottore. Aveva guardato l’orologio, aveva fretta e io gli stavo facendo perdere tempo. Poteva sbolognarmi via? No, perché aveva bisogno di me, almeno per qualche altra volta, poi mi avrebbe anche eliminato, potendolo. Lasciai trascorrere ancora qualche inutile secondo: «Esatto. Il cinese mi dice che c’è uno che mi cerca e che c’è un suo cugino, uno fidato, che fa da tramite». Presi ancora una piccola pausa di riflessione, come se le parole uscissero a fatica dalla gola: «Lo seguo nella hall, mi trovo accanto un occidentale, il francese biondo e allegro, con gli occhi chiari. Dovrebbero esserci le registrazioni della security dell’hotel». Il funzionario prese nota. «E così me lo tengo stretto, gli offro una cedrata con gin. Parla bene italiano. Mi dice che sa chi sono e che avrebbe anche lui un lavoro per me, molto redditizio. L’ho invitato a salire in camera, e là volevo vendicarmi, dare retta a Dino e... Ma quando me lo sono trovato là, a mia disposizione, anche le gambe mi sono diventate d’ovatta bagnata, come il cuore mentre nuotavo nella piscina». «E in mezzo a tutta quell’ovatta non hai trovato la pistola per uccidere Gerard Maxim», rispose acido il Dottore. «Ma allora voi lo conoscevate». «Ci conosciamo tutti, noialtri occidentali. Ma non sappiamo chi sia realmente il francese, abbiamo solo quel nome che puzza di copertura lontano un chilometro. Era sparito da tempo dal consolato, pensavamo fosse in missione, ma se l’hai visto, dev’essere tornato. Proveremo a cercarlo, dovrebbe essere il figlio di un boss dei marsigliesi, mandato qui a fare il vostro stesso lavoro». «C’è la creme del mondo occidentale, qui». «La creme de la creme. Ma Gerard esattamente che cosa ti aveva proposto?». «Un attentato. Ma gli ho detto che faccio rapine, e basta». «Un attentato forse in un centro di telefonia a Lyari? Quello che è accaduto oggi». Sbarrai gli occhi e il funzionario continuò: «Rispiegami perché non ce l’hai fatta ad ammazzarlo». «Perché Dino non ha voluto», dissi. «Hai avuto paura tu, il tuo amico Dino è morto di ictus un mese fa», protestò lui.


Un amico a Choman

«Quel giorno a Choman ci siamo salutati, lui se n’è andato a dormire e non s’è svegliato più, lo so. Ma io lo vedo sul fondo della piscina». «Se vuoi ti procuriamo uno psichiatra, un esorcista, uno sceneggiatore, quello che vuoi, Saro. Ma domani», disse picchiando il pugno sul tavolo, una dozzina di volte, sempre più nervoso. «Oggi è oggi. Non ti stiamo chiedendo di uccidere chissà chi o di tornare a fare le rapine. Solo – precisò – di andare in quel quartiere di merda. Devi trovarmi un collegamento serio con gli amici tuoi del Mqm. Una cazzata, per uno come te, e se vuoi ti seguiamo, ti proteggiamo noi». La menai un po’ prima di pronunciare un poco convincente sì, va bene, si può provare. «Non farti venire l’idea di scappare e andare a Port Muhammad, dal vostro amico del discount che vi tiene i soldi». La mia faccia diventò di marmo: «Ho trentanove anni, Dottore, ho capito il messaggio». Uscii con la certezza che a Lyari non sarei tornato. Sapete quanto me che se si mettono le bombe, c’è sempre bisogno di parafulmini a cui addossare tutte le colpe. E funzionano bene soltanto i parafulmini morti. Siccome non poteva essere stato il francese a piazzare la bomba, l’autore era ancora in giro. Schiacciai alcuni tasti del mio telefonino e inviai un messaggio: “Partito”. Come previsto, il funzionario e il suo segretario mi stavano seguendo. Topi d’ufficio. E froci. Avevo fatto finta di niente quando m’avevano lanciato sul sedile di dietro della mia Bmw blindata quello che sembrava un piccolo e innocuo pezzo di ferro, in realtà un trasmettitore in grado di segnalare il mio percorso. Quegli strumenti li usavo anch’io, so che non hanno una portata superiore al mezzo chilometro. Lontani, ma non lontanissimi, i due spioni dovevano starmi alle costole. C’è una strada: un rettilineo lunghissimo. Tante volte io e Dino abbiamo studiato il percorso. Passa dietro il magazzino del concessionario della Millat Tractors, è facile nascondersi e passare inosservati, occorre solo procedere, procedere, procedere, finché... Guidavo a 50 chilometri all’ora quando sorrisi, ascoltando il crepitare inconfondibile di un AK-47. Colpi, e colpi, e colpi. Feci marcia indietro e spensi il motore. Mi fermai sotto un palo e scesi. Cercai con lo sguardo: Dino spuntava dal primo piano di un caseggiato in costruzione e alzò una mano. Una Fiat Brava era in pezzi, contro un cumulo di gomme usate. Addio Dottore, addio segretario, erano morti abbracciati, come il generale Dalla Chiesa e la moglie. Pensai a che faccia avevano fatto, accorgendosi che a sparargli addosso era uno che credevano morto. Con noi italiani non si può mai stare tranquilli. Lanciai nell’auto una busta di plastica, con dentro un timer di quelli che usava il francese, per una volta la colpa sarebbe stata data a noi occidentali. Dino mi raggiunse in meno di un minuto, con il fiatone, facendo segno “ok”. Sgommai verso est, mentre sistemava il kalashnikov ancora caldo sotto il sedile. «Ce ne hai messo di tempo, Saro, dobbiamo spicciarci per uscire dalla città prima del coprifuoco». «Ogni cosa vuole il suo tempo», dissi, e scoppiai a ridere, una risata nervosa, che non potevo fermare subito. Anche Dino rideva e insisteva, facendomi ridere ancora di più: «Ma che gli hai raccontato, Saro, la divina commedia?». Finalmente mi calmai: «L’idea di approfittare del mio reale ferimento per mettere in scena la tua falsa morte, lo riconosco, è tua, e ha funzionato alla grande. Ma siccome sono sicuro che la conversazione è stata videoregistrata, m’è venuta l’idea di tirare in mezzo quel francese pirla che abbiamo strangolato dietro la cattedrale». «Sì, dietro San Patrizio...». «Minchiasì, quello scemo, ti ricordi, Dino? Metteva le bombe con i timer ai danni dei nostri amici e ogni domenica pregava Gesù».

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«I 250mila dollari che ci hanno dato per farlo fuori sono stati una manna. Due ore di lavoro, compreso il corpo sparito sotto la pressa dell’immondizia, grande figata». «Il lavoro più redditizio della nostra ditta», confermai. «Ho detto ai servizi che era stato lui a tradirci, così perdono qualche tempo dietro al fantasma. E non è il solo. Sai chi ho detto che mi ha messo sulla pista giusta?». «Non ne ho idea». «La tua faccia da morto. Gli ho detto che ti vedevo sul fondo della piscina e mi parlavi mentre nuotavo». «Hai fatto il pazzo, come noi camorristi, ma a te non ti avranno creduto. Come si fa a parlare con un morto?», chiese calcando l’insopportabile accento napoletano. «Devi ammettere che ha funzionato, Italia aspettaci. La tua fidanzata lo sa?». «È stata lei a pagare in Italia il medico che ha fatto il falso certificato di morte». «Ragazza notevole». «Notevole davvero, Saro, dovresti trovarti anche tu una brava ragazza». «Non fare il geloso, e dimmi, da dove passiamo? Dall’Iran, che è tranquillo, giusto?». «Sì, è più lunga che dall’India, ma al confine ho amici fidati». «E chi hai trovato stavolta?». «Uno di Caserta che fa la security per i petrolieri francesi. Ci porta lui all’aeroporto di Teheran, da lì andiamo a Francoforte, e passiamo dalla Svizzera, per i piccioli». Ne sapevo abbastanza per avere la certezza di salvarmi il culo: «Fatti abbracciare, Dino». «Ah, non vedo l’ora di godermi tutti i soldi che abbia...». Il suo ultimo sguardo, mentre il mio coltello gli sfonda il cuore, e la vita gli sfugge, ricorda quello delle mucche al pascolo: ignaro e pazzo, buio e vigile, ma senza scampo. Quannu ‘u piru è fattu, casca sulu. Nemmeno io avevo scelta, fratelli. Quando uno deve cambiare vita e faccia e Paese non può avere accanto nessun altro, tanto meno un complice, che può diventare un testimone d’accusa. Chi poteva darmi fastidio? Solo lui e i funzionari di collegamento. Lo spione e il segretario sono danni collaterali e Dino era già morto a Choman e sepolto a Vico Equense, perché farlo risorgere? Perché dividere con lui quasi sette milioni di euro? Avrei voluto consolare anche la sua sciantosa, ma capivo da solo che era meglio di no. Non credete che la prudenza sia indispensabile nel nostro ambiente? Erano queste le domande che mi venivano spontanee, nuotando nella piscina dell’albergo, pensando a Dino, al passato, al piano che avevo studiato dopo il mio ferimento, nuotando e riflettendo, nuotando e ragionando e soffrendo per la ferita. Vedere la morte da vicino a volte ti aiuta, ti costringe a guardarti allo specchio. Era la mia faccia che vedevo sul fondo della piscina, e ho ancora il cuore d’ovatta, e le gambe che non spingono come un tempo. «Tu senza Dino non vali un cazzo di niente», aveva detto il funzionario, poco prima di morire ammazzato, e non sbagliava. La caducità di tutte le cose umane e il reo tempo, come scriveva Ugo Foscolo, ti arrivano addosso all’improvviso, che tu sia un impiegato o un killer, che tu sia un politico o che tu sia un mafioso o un prete o un medico. Molte carriere hanno varie soluzioni finali. Dal nostro mestiere, come avrete capito, si può uscire solo con un colpo d’ala. L’ultimo colpo di quello che eri, e che non più sarai.

0 © Piero Colaprico Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency


le buone cure buen vivir di

Alfredo Somoza

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Carlos Garcia Rawlins [reuters/contrasto]

In questi ultimi mesi, il cancro ha colpito due simboli del rinnovamento politico in America Latina: il presidente del Paraguay, il sacerdote Fernando Lugo, e Hugo Chávez, presidente bolivariano del Venezuela. Il primo, dopo un intervento chirurgico in Brasile, è tornato a esercitare pienamente i suoi poteri e a impegnarsi nella vita politica nazionale. Il secondo è stato operato a Cuba e si è sottoposto a quattro cicli di chemioterapia nel suo Paese. Una gestione simile della malattia diventa un segnale politico forte, anche perché dimostra fede nella scienza e nella professionalità dei medici di un altro Stato latinoamericano. Sono contingenze drammatiche che la politica mette sempre in conto, ma la differenza rispetto ad altre situazioni simili del passato è stata la scelta di far conoscere all’opinione pubblica la situazione, di minimizzare la sofferenza e di raccontare in prima persona la lotta che stanno combattendo per sconfiggere i rispettivi tumori. Chávez ha voluto mostrarsi al suo popolo così come le cure lo hanno ridotto, gonfio e senza capelli, ripetendo ogni giorno che bisogna sempre avere speranza e non arrendersi mai. Alcuni giovani militanti del suo partito, per solidarietà, si sono tagliati i capelli a zero e si sono presentati da lui per la foto ricordo. Si può sicuramente dire che il caudillo pop venezuelano riesce a far diventare spettacolo ogni cosa, anche la più terribile delle malattie, eppure anche i suoi più accaniti oppositori hanno dovuto riconoscere la dimensione umana dell’atteggiamento di Chávez. La positività del presidente non è soltanto un grande atto di volontà e di consapevolezza dell’importanza del mandato politico che gli è stato affidato, ma anche un segnale di speranza per tutte le persone che attraversano momenti di sofferenza in Venezuela e in America Latina. Anche il presidente-sacerdote Lugo ha mantenuto un atteggiamento positivo, pur senza i picchi di protagonismo del collega venezuelano. Benché forse i suoi problemi di salute siano più gravi di quelli di Chávez, l’ex vescovo dei contadini è riuscito a trasformare la sua malattia in segnale di speranza, senza arrendersi mai. Fino a qualche anno fa, qualsiasi presidente della regione sarebbe stato curato in una delle grandi cliniche private statunitensi; oggi Lugo a San Paolo e Chávez all’Avana riaffermano, con la loro scelta, che il destino dell’America Latina si gioca “in casa”, perché nel subcontinente in realtà non mancano le competenze né le strutture: a mancare è sempre stata la fiducia. Non è una novità da poco, perché ci racconta come, anche sul piano personale, le distanze tra i Paesi dell’America Latina e il Grande Fratello del Nord siano sempre più marcate.

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Arte

Connubio perfetto di

Vito Calabretta

San Gimignano non è soltanto un paese-mito della storia toscana e della cultura italiana, è anche la sede della Galleria Continua, nata da una Fondazione che promuoveva l’arte nei paesi e nella società, oggi diventata un soggetto importante del sistema dell’arte, con una sede nella regione della Brie, a est di Parigi, e una a Pechino. San Gimignano ci mette i suoi luoghi, paesaggi e scorci suggestivi che la Galleria, sviluppandosi su più aree, sfrutta pienamente. Quella centrale si trova nella vecchia sede di un cinema teatro, del quale usa, adattandolo, ogni spazio, ogni disponibilità esistente, incluso un giardino esterno. La mostra dedicata a Chen Zhen sembra essere ideale per questo ambiente espositivo. Si tratta di un artista importante, sia per il modo in cui lavora, in cui assembla i materiali più diversi e insieme interviene bruciando libri, costruendo forme; sia per il suo mettere in relazione l’azione artistica e la situazione del mondo in cui viviamo. Le opere del grande artista scomparso nel 2000, create allestendo oggetti vari, anche della quotidianità, spesso monumentali, ingombranti, con una presenza scenica importante, dialogano con gli spazi della galleria quasi annullandone la componente decorativa e potenziandone quella scenica. Nelle loro ricchezza, dolcezza, densità, profondità, liricità, sono così forti da imporsi, quasi fossero state concepite proprio per quegli spazi, essendone al contempo del tutto autonome. È una mostra che vale anche un lungo viaggio perché ci consente di apprezzare una dimensione del lavoro artistico estremamente suggestiva e attuale: tutto ciò che vediamo della mostra ha senso lì, a San Gimignano, nella Galleria Continua; di fronte a ogni opera, però, si dischiude un universo poetico, linguistico e filosofico che trasporta il visitatore lontano dal paesino toscano e lo mette di fronte a interrogativi più spinosi: che speranza abbiamo noi in quanto esseri spirituali? Possiamo, attraverso gesti poetici, osare una terapia che dia beneficio a noi e al nostro mondo? Chen Zhen. Le pas silencieux, Galleria Continua, San Gimignano (Si), fino al 28 gennaio 2012

Libri

Domani

L’Islanda nascosta di Alessandra

bonetti

Lo so che non andrebbe fatto, ma la tentazione è quella di partire da un libro che non c’è. In Italia. Lo si può però trovare, in inglese, nella libreria globale di Amazon con il titolo di Dreamland - A Self Help Manual for a Frightened Nation ed è la storia del miraggio islandese. “Nessun Paese al mondo è cresciuto e crollato tanto rapidamente”, spiega l’autore, lo scrittore Andri Snær Magnason, che racconta del patto scellerato fra i governanti dell’isola e le corporation internazionali per lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali. Colpa di un gruppetto di oligarchi che avevano preso a modello i nuovi russi? Non solo, fa intuire Magnason che nel suo manuale di auto-aiuto per un Paese spaventato chiama in causa gli ignavi connazionali. Accartocciato il santino della “terra dei sogni”, l’incontro fra l’Islanda tradizionale e quella contemporanea è al centro di molti romanzi. Arnaldur Indridason, creatore di una saga di ice thriller cui appartiene anche l’ultimo romanzo, Un doppio sospetto, lo indaga con le armi del giallo. Dietro l’assassinio del giovane Runolfur, un trentenne di bell’aspetto e un appartamento arredato con gusto, si staglia l’Islanda pre-crisi, solcata da una grande frattura: da una parte la capitale Reykjavik, con i suoi locali notturni, le palestre e i quartieri residenziali, dall’altra i villaggi dell’entroterra, ostili, gelidi, dai quali i giovani scappano. Anche i personaggi, chiamati tutti solo per nome come fossero i membri di un’unica isolana e isolata famiglia, seguono lo stesso cliché: il nostalgico agente Erlendur, la sua vice Elinborg, detective alle prese con tre figli adolescenti, il rampante Sigurdur che sarà il protagonista del prossimo thriller ambientato nel mondo delle frodi fiscali (Sovortu loft, il titolo originale che – come spiega la traduttrice Silvia Cosimini – è anche il nomignolo con cui viene chiamata la Banca d’Islanda). Un genoma, quello islandese, che Hallgrímur Helgason srotola con ironica irriverenza in Toxic, rocambolesca avventura di un mafioso croato che viene catapultato, suo malgrado, nell’isola che diventa il set smisurato di un film stile Guerre Stellari, dove per leggere ogni nome ci vogliono un paio di minuti, con reginette dei ghiacci dai capelli biondo-burro: “L’Islanda è il paradiso dei criminali. Niente esercito, niente armi, niente omicidi e praticamente niente polizia. Solo fighe da sballo con nomi fuori di testa”. Un popolo di campioni dell’autoillusione: “Lo status symbol più amato è il barbecue. Ho visto isolani spazzar via la neve dal coperchio prima di accenderli”. Una nazione minorenne disposta a fare qualsiasi cosa, anche stressarsi per far in modo che Reykjavik sembri New York. Eppure, in un Paese sempre all’erta, dove ogni anno c’è un terremoto e ogni due un’eruzione vulcanica, alle cadute e alle rinascite si è abituati. Lo racconta con sublime poesia Jón Kalman Stefánsson in Paradiso e Inferno: una storia di mare, di onde gelide e burrasche dove l’amico del giovane protagonista perde la vita. Siamo in un villaggio remoto, senza tempo, al centro c’è un libro, Il paradiso perduto di Milton, che il ragazzo stava leggendo prima di imbarcarsi. La narrazione continua, fra pescatori colti, villaggi fuori dal comune, donne ironiche ed emancipate. A raccontarlo, in prima persona plurale, è un inusuale coro di “noi”. La pluralità di una comunità che è il vero antidoto alla crisi. Andri Snær Magnason, Dreamland - A Self Help Manual for a Frightened Nation, Citizen Press, 20,49 euro, 292 pp. (solo in inglese) Arnaldur Indridason, Un doppio sospetto, Guanda, 18 euro, 316 pp. Hallgrímur Helgason, Toxic, Isbn, 15 euro, 304 pp. Jón Kalman Stefánsson, Paradiso e Inferno, Iperborea, 16 euro, 231 pp.

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Sorrentini

«Non sono cattolico, non sono ateo, non sono musulmano, non sono ebreo. La mia religione sta scritta su un foglio di carta: è la Costituzione degli Stati Uniti d’America». Ecco le parole di una campagna elettorale basata sulla lealtà, sulla parità dei diritti e delle religioni, sull’apertura ai matrimoni gay, sull’abolizione della pena di morte, sulla rinuncia al petrolio per sconfiggere il terrorismo, sulla spartizione delle ricchezze. Il programma elettorale di Mike Morris e la corsa al voto ricordano molto quelli di Barack Obama, quando era candidato per la presidenza degli Stati Uniti. I sondaggi sembrano buoni e l’entusiasmo dello staff del candidato democratico, interpretato da George Clooney nel suo film Le Idi di marzo, è trascinante. Fino a quando entra in campo la stagista e le debolezze umane prendono il sopravvento, regalando al film persino alcune note thriller. Lo dice bene in una scena il portavoce Stephen Myers, ambizioso e pronto a tutto, invaghito della giovane Molly: «Puoi impoverire il Paese, rubare alla nazione, portare il tuo popolo in guerra, legarti ai criminali, ma non puoi andare a letto con la stagista». E il riferimento a cose e persone realmente esistite non è casuale. Da parte sua, George Clooney non ama identificarsi fuori scena nel suo personaggio Mike Morris, governatore dell’Ohio in corsa verso la presidenza del Partito democratico. «Non scenderò in politica, perché mi piace raccontare storie», dice spesso. E non ama nemmeno definire il suo Le Idi di marzo un film politico. Difficile però trovare un’altra definizione, considerando anche che Clooney ci tiene a precisare di essere cresciuto con il cinema impegnato degli anni Settanta, con quei film che ponevano un sacco di domande tentando di smuovere il senso comune del pensiero politico e sociale di una nazione. E anche qui le domande, sempre secondo il regista di Good Night and Good Luck e Confessioni di una mente pericolosa, sono fondamentali, anche più delle risposte. Le Idi di marzo mette in evidenza gli aspetti più cinici della politica, mostra i meccanismi che portano ad accettare compromessi mai contemplati e la facilità con cui si possa diventare vittime di ricatti che rischiano di bruciare un’intera carriera. Non è un tema particolarmente nuovo, al cinema ma non solo, perché la storia ci insegna che “ogni luogo ha il suo scandalo sessuale”. Il film è tratto dall’opera teatrale Farragut North di Beau Willimon ed è interpretato da attori eccellenti come Philip Seymour Hoffman, Paul Giamatti, Marisa Tomei ed Evan Rachel Wood.

Saeed Adyani [courtesy of sony pictures entertainment]

Le Idi di marzo, dal 16 dicembre

Il tempo e le sue forme di

Claudia Barana

Per accedere alla mostra si oltrepassa una grotta sonora, firmata Lorenzo Palmeri, in cui risuonano orologi a cucù, lancette, ritmi. Una soglia che si apre su un ampio mix di lavori: oggetti site-specific, di design, installazioni, opere d’arte, video. Tutto gira intorno al tempo: come misurarlo, come viverlo, quale valore dargli? Si passa dal suono alla vista all’olfatto. La volontà dei curatori Silvana Annicchiarico e Jan van Rossem è quella di stimolare un pensiero sull’attuale “presentificazione”, un processo per cui la memoria diventa sempre più breve e porta alla tendenza ad affermare l’inopportunità del ricordo. Entrambi sottolineano l’odierna debolezza a immaginare il futuro. «In questo quadro di appiattimento del tempo sul presente l’urgenza della mostra – sostengono – è quella di far vedere la multiprospetticità del tempo, il suo incessante lavorio e il suo trascorrere». Non è chiaro se le motivazioni di partenza siano valide, è invece certo che la mostra regali un’esperienza temporale ben ritmata grazie ai molti lavori selezionati e all’allestimento progettato da Patricia Urquiola. La designer spagnola propone tre percorsi: la misurazione, il viaggio e la rappresentazione del tempo. Un procedere suggestivo, capace di far sentire forte il suo passare. Diviene così emblematico O’Clock di Nadine Grenier in cui trecento orologi non sono regolati per segnare l’ora, ma per creare un elemento grafico che due volte al giorno compone la scritta: “Il tempo passa e ogni volta che c’è del tempo passato, c’è qualcosa che si cancella”. I rumori del tempo, le citazioni trascritte sui muri divisori creano una certa ansia che alcuni lavori esposti riescono a ridimensionare come, per esempio, la poetica Malerbe del designer Stefano Baccari: un grande pezzo di strada asfaltata appesa al muro spaccato dall’irrompere di piante spontanee, le malerbe appunto, evoca una natura ribelle capace di far cambiare prospettiva. O’Clock, time design, design time, Triennale di Milano, fino all’8 gennaio 2012

Fabrizio Marchesi

di Barbara

Design

Cinema

Debolezze imperdonabili


Architettura Documentario

Javier Merelo

News da Amsterdam di

Matteo Scanni

Tra le principali rassegne di cinema del reale in circolazione, da un paio d’anni l’International Documentary Film Festival di Amsterdam è diventato un punto di riferimento per chiunque voglia esplorare l’arcipelago dei crossmedia. Dal 16 al 27 novembre, autori a caccia di finanziamenti, o semplicemente del giudizio del pubblico, si sono dati appuntamento al cinema Tuschinski dove, come da tradizione, è stato servito un abbondante menu a base di workshop, proiezioni e pitching. Nato come spazio non competitivo di riflessione all’interno della rassegna, edizione dopo edizione la sezione DocLab si è trasformata in un vero concorso che raccoglie il meglio della produzione mondiale. Diverse tra le opere selezionate sono il risultato di un lavoro di gruppo. La più notevole è The Prism GR2011 (www.theprism.tv), sforzo collettivo di documentazione della crisi greca, che unisce narrazione e giornalismo multimediale. Anche se l’aspetto interattivo è trascurato rispetto all’urgenza del tema, il risultato è un convincente affresco di ventisette storie (filmate lungo un periodo di sedici settimane) che prova a tastare il polso di una nazione prossima al default. I quattordici fotogiornalisti che hanno aderito al progetto di Nikos Katsaounis e Nina Maria Paschalidou scandagliano ambiti mai scontati: le condizioni della comunità musulmana di Atene, la precarietà di quella rom, l’abbandono dei quartieri del centro, il difficile rapporto con la tradizione, il volto dei nuovi imprenditori, la disillusione di un pastore-musicista cretese, le speranze di un insonne girovago e di una crew di bikers metropolitani. Il tutto magnificamente filmato. Via Pan Am (www.viapanam.org) è invece una riflessione sulle migrazioni aggiornata quotidianamente dal fotografo Kadir van Lohuizen, in viaggio dalla Terra del Fuoco (Cile) al Nord dell’Alaska. L’aspetto più interessante di questo blog on the road non sono tanto la struttura di navigazione o i temi affrontati (ogni incontro è buono per ragionare sul tema dello spostamento dei popoli da una terra all’altra), quanto il tentativo, piuttosto riuscito, di portare un webdoc su iTunes, offrendo agli utenti contenuti premium a pagamento. Di tutt’altro genere è Barcode Tv (www.codebarre.tv), documentario interattivo multidevice coprodotto da Arte e National Film Board of Canada, che esplora la nostra relazione con gli oggetti di uso quotidiano. La piattaforma raccoglie cento mini film realizzati da trenta registi chiamati a descrivere come libri, bottiglie, vestiti, auto, cibo, giornali, ombrelli, attrezzi sportivi segnino il rapporto dell’uomo con spazio e tempo. La call to action è decisamente ludica: ai video si accede scannerizzando il codice a barre dell’oggetto che si intende approfondire. Molto divertente. AA.VV., The Prism GR2011 (www.theprism.tv) Via Pan Am di Kadir van Lohuizen (www.viapanam.org) AA.VV., Barcode Tv (www.codebarre.tv)

Ricostruire la pace di

Raul Pantaleo

Vukovar, Croazia, 1991. Da qui è iniziata la carneficina della ex Jugoslavia, fine del sogno europeo di una pace duratura e possibile. Ora, vent’anni dopo, è una città ordinata, vitale, pacifica, europea. Le strade testimoniano di nuovo la grande nobiltà e urbanità di questo luogo, crocevia di popoli e mercanti. Dopo tanti anni, gli edifici crivellati di colpi stanno lentamente lasciando il posto a palazzi con facciate fresche di pittura. Ma, guardando con più attenzione nel retro del palcoscenico della ricostruzione, si riconoscono ancora le tracce della barbarie. In città, mozziconi di edifici disperati, in periferia, villette a schiera, ordinate e linde, intervallate da edifici anneriti e con ancora evidenti i segni dei bombardamenti. Se un intonaco nuovo può attenuare il ricordo, c’è bisogno che resti qualcosa a memoria dell’orrore; per questo motivo, il simbolo della città è ora la torre dell’acqua semidistrutta dalle bombe, testimonianza della violenza, monumento all’assurdo. Mi ritornano in mente le immagini di Vukovar dopo i bombardamenti, le cerco e spesso le ritrovo nei meandri della città che rinasce. In guerra l’architettura è termometro duraturo della barbarie. Distruggerla significa lasciare segni indelebili che solo immensi sforzi potranno cancellare. Dopo, riprende la quotidianità perché è sempre la vita a prevalere ma l’architettura, sgretolata, rimane lì in tutta la sua desolazione. Eppure è proprio quest’ultima, quella buona, che può curare le ferite di un conflitto, dare forza e forma al domani. Tanto è vittima durante la guerra, quanto protagonista nel dopoguerra; nella sua pratica semplicità sa essere terapeutica, aiuta a dimenticare. Un nuovo tetto che protegga, così come un liscio intonaco che profuma di nuovo, parla di futuro, della voglia di vivere, della semplice banalità del costruire. Così è stato a Vukovar, così è in tutte le guerre, così è nella storia dell’umanità. L’architettura sa essere l’evidenza del domani. Veder tornare alla vita questi luoghi, con tutte le fatiche e le contraddizioni di questa terra aspra e turbolenta, dà fiducia e infonde coraggio.

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Boccadoro

Dopo aver pubblicato negli ultimi vent’anni una serie di album contenenti composizioni originali (dischi imperdibili, dato che stiamo parlando di uno dei migliori pianisti e compositori di jazz in Europa e non solo), Antonio Zambrini ha realizzato per l’etichetta Abeat un album di cover dedicato al gruppo dei Procol Harum. Non si pensi però a una qualsiasi forma di contaminazione rockettara oppure a deviazioni stilistiche verso lo scadimento. Zambrini è musicista troppo di classe per non registrare album che siano al di sotto dell’eccellenza, sempre caratterizzati da un rigore stilistico e da una sensibilità del tutto personali. Pianista perfetto tecnicamente ma ancor più musicalmente, la sua intelligenza armonica, il suo impeccabile fraseggio e la capacità di estrarre pepite d’oro dal materiale apparentemente più semplice vengono sottolineate ancora di più dal lavoro di rielaborazione compiuto sugli originali pop/rock. Riarmonizzazioni splendide, argute distorsioni ritmiche, organizzazione formale cartesiana, grande capacità melodica e, come sempre, un senso dello swing che ha pochi paragoni trasformano canzoni innocue come Homburg e A Salty Dog in gioielli jazzistici di gran pregio, dove il pianoforte di Zambrini è sostenuto magnificamente dal contrabbasso di Andrea De Biase e dalla batteria di Jon Scott, collaboratori discreti e sempre molto attenti al sound complessivo. Rispetto ai dischi precedenti, Zambrini sfodera un fraseggio maggiormente ritmico, meno rivolto verso quella dimensione intima così tipica del suo stile. L’ascolto del cd scorre in un lampo, e la versione per piano solo di A Whiter Shade of Pale che conclude il tutto è un autentico colpo da maestro. Antonio Zambrini, Andrea Di Biase, Jon Scott: Songs from the Procol Harum Book (Cd Abeat Abjz 078), 13,90 euro

Priscilla va a Milano di Simona

Spaventa

Dietro lo scintillare di paillettes, lustrini e parrucche esagerate, svelava la violenza sotterranea di una società intollerante e i complessi e le insicurezze nutriti da un’educazione omofobica. Sfrontato e sfavillante, eccentrico eppure ingenuamente ottimista, Priscilla, la regina del deserto conquistò subito Cannes e, nonostante il budget minuscolo, si portò a casa la statuetta degli Oscar per i migliori costumi. Era il 1994 e il film australiano che raccontava il viaggio da Sydney ad Alice Springs, nel cuore provinciale e bigotto dell’Australia, di tre drag queen a bordo di un autobus sgangherato di nome Priscilla – tra incontri, incidenti e un progressivo aprirsi dei cuori a rivelare la loro più o meno sofferta condizione di omosessuali – si avviava a un futuro da cult movie, icona citatissima della cultura gay e del cinema kitsch. Un inno all’insensatezza dei pregiudizi che scorre sulle note di una colonna sonora travolgente, summa della discopop anni Settanta e dintorni, da Gloria Gaynor a Tina Turner, ai Village People, su su fino a Madonna. Naturale, quindi, farne un musical che, dall’Australia dove ha debuttato cinque anni fa (e dove, con un milione di spettatori, è il più visto di sempre), ha conquistato il West End di Londra, Toronto e Broadway. E che ora arriva a Milano, dal 14 dicembre, in versione italiana, con l’ambizione di importare anche da noi il modello anglosassone dei long running show, gli spettacoli a lunga tenitura. Per farlo, la produzione – internazionale, il milanese Mas in società con gli americani, capeggiati dall’attrice Bette Midler – aprirà ad hoc un Priscilla Palace, rinnovando la tensostruttura dell’ex Ciak, alla Fabbrica del Vapore, per farne, per cinque mesi almeno, la “casa” del musical, firmato dal regista del film, Stephan Elliott, qui autore, e dagli stessi costumisti premio Oscar, Tim Chappel e Lizzy Gardiner. Che hanno avuto a disposizione un budget molto più generoso dei cinquemila dollari di allora, promessa di un trionfo di travestimenti (quasi cinquecento), parrucche (una sessantina) e scarpe dai tacchi vertiginosi (150 paia). Perché l’orgoglio queer val bene una zeppa. Priscilla, la regina del deserto, Milano, Priscilla Palace - Teatro Ciak Webank, presso la Fabbrica del Vapore, dal 14 dicembre

Joan Marcus

di Carlo

Teatro

Musica

Deviazioni d’autore


di

Claudio Bisio cuore@e-ilmensile.it

illustrazione

Oscar Sabini

la posta del cuore Caro Claudio, non so se la mia mail sia degna della tua posta, ma oggi mi sento così male dentro il cuore che ho pensato di scriverti. Sono una maestra di 46 anni, adoro il mio lavoro perché adoro i bambini. Cerco di educarli trasmettendo loro i valori in cui mi riconosco: la tolleranza, il dialogo, il rispetto dell’altro... ma, dopo i fatti di ieri, mi sono scoperta razzista e forse anche intollerante e vendicativa. Rientrando da scuola, verso l’una e mezza ho incontrato due loschi figuri (non più di 25 anni, maschi con borse capienti e sicuramente slavi. Da dove arriva questa sicurezza?), lungo le scale che conducono al mio condominio. Ho pensato fossero ladri, poi aprendo la porta blindata con le solite quattro mandate, mi sono sentita in colpa e ho creduto che fosse tutto ok e che mi fossi fatta trascinare dai soliti pregiudizi. Ma è bastato osservare alcuni fogli spostati sulla mia scrivania per capire. Mi sono precipitata in bagno dove c’era il mio cofanetto di gioie ed era vuoto, vuote anche le scatoline che pensavo al sicuro nel mio armadio. Erano gli “ori” della mia vita: orecchini delle nonne, anelli regalati dai miei genitori, i pensieri d’amore della storia con il mio compagno. Svaniti, mi hanno rubato tutto, anche gli argenti. Mi sento svuotata e guardando quelle scatole vuote non riesco a fermare le lacrime. Lo so, sono solo oggetti, ma il valore affettivo che avevano è così grande che mi sembra di aver perso un pezzo del mio cuore. E allora dentro di me sento di odiare quei maledetti che hanno preso le mie cose. Razionalmente so che forse sono dei disperati, sbandati senza lavoro, ma mi sono augurata le peggiori cose per loro, le peggiori sofferenze. Mi sento privata della mia libertà, questi hanno gli strumenti per aprire porte blindate, entrano e invadono la sicurezza della mia casa e la polizia mi è sembrata del tutto impotente. Sono entrati in cinque appartamenti in pieno giorno e, indisturbati, hanno portato a termine i loro furti.

Questa sarà la loro occupazione, questo è il posto che occuperanno nella nostra società. Anche questi fanno parte di coloro che dobbiamo accogliere e integrare? Non li voglio! Devono stare lontani dalla mia casa e dal mio Paese. Ecco hai visto che sono razzista... sì, perché io sono veramente sicura che quei due non erano italiani. Questa mattina ai miei bambini ho detto solo che ero triste perché qualcuno aveva rubato i miei anelli. La rabbia l’ho tenuta dentro, ma la sento ancora e non so se svanirà tanto in fretta. Questo mondo è sempre più arrabbiato, sono troppi i disperati che cercano di sopravvivere illegalmente e troppi quelli che, come me, ingiustamente sono privati della loro libertà. Grazie. Barbara Da buon amante del cinema, mentre leggevo la tua lettera, cara Barbara, mi è venuta in mente una famosa frase pronunciata da Dino Risi, e cioè: “Il razzismo finirà quando si potrà dare dello stronzo a un negro”. Era, ovviamente, una provocazione nel tipico stile cinico di Risi, ma che può farci comunque riflettere. Io per esempio, da buon seguace delle “regole”, di solito non transigo quando vedo un automobilista non rispettarle, fare l’arrogante, non dare precedenze, parcheggiare in seconda fila, eccetera. Mi è capitato anche, però, di accorgermi che alla guida c’era un forestiero, uno con la pelle diversa dalla mia, e di essere indulgente, considerando la lontananza dalla sua terra, magari la non abitudine a vivere in una città caotica come la mia Milano... ma poi, ripensandoci bene, perché? Forse, viceversa, non mi arrabbio (giustamente) quando vedo alcune mie connazionali in minigonna e spalle nude in visita a popoli con usanze sociali e religiose diverse dalle nostre? Dove si sa che la nostra “libertà” di costumi è contraria quanto meno al loro sentire se non addirittura alle loro “regole”? Non è forse razzismo all’incontrario? E allora, tornando al grande Risi, una vera integrazione, che io penso sia ineluttabile oltreché giusta, prevede anche il fatto di considerare lo straniero avente pari diritti e doveri. E tra i doveri c’è anche il non rubare in casa altrui. Per cui non ti vergognare nell’essere arrabbiata. Trattarli davvero alla pari vuol dire non considerare un’aggravante il fatto di parlare un’altra lingua e avere tratti somatici diversi dai nostri, ma neppure un’attenuante. Parafrasando Risi possiamo ben dire a un ladro slavo di essere un ladro, come possiamo dirlo di un bergamasco, di un napoletano o di un cuneese.

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Claudio


L’Adorazione dei pastori San Giuseppe falegname Esposizione straordinaria dal museo del Louvre a Palazzo Marino Milano, Palazzo Marino - Sala Alessi dal 26 novembre 2011 all’8 gennaio 2012 Mostra a cura di Valeria Merlini e Daniela Storti

INGRESSO LIBERO tutti i giorni dalle ore 9.30 alle 19.30 (ultimo ingresso ore 19.00) giovedì e sabato dalle ore 9.30 alle 22.30 (ultimo ingresso ore 22.00) 7 dicembre, chiusura alle ore 14.00 24 e 31 dicembre, chiusura alle ore 18.00

Informazioni al pubblico 24h/24 Numero verde gratuito 800.14.96.17

cultura.eni.com www.comune.milano.it

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aperto i giorni 8 e 25 dicembre 2011 e 1 gennaio 2012

Sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Italiana

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Cartoline da Goderich 2001 Il primo novembre inizia l’intervento di Emergency in Sierra Leone: apre il Centro chirurgico di Goderich, nei sobborghi della capitale Freetown. Nasce come ospedale per il trattamento dei feriti di guerra – la Sierra Leone sta uscendo da un violento conflitto decennale – ma i criteri di ammissione si amplieranno progressivamente per rispondere alle necessità della popolazione.

tro la malnutrizione. Intervenendo ai primi segnali, si possono evitare danni allo sviluppo e assicurare un futuro a questi bambini. Oltre alla fase della cura, a Goderich svolgiamo attività di prevenzione ed educazione igienica e nutrizionale delle famiglie, dando anche consigli alle madri su come associare i cibi disponibili localmente per dare ai figli un’alimentazione il più possibile completa.

2002 Fin dai primi giorni dopo l’apertura arrivano al Centro moltissime richieste di assistenza per neonati e bambini: un segno inequivocabile di quanto sia necessaria la pediatria a Freetown. Per questo, a inizio anno procediamo con il primo ampliamento del Centro avviando l’ambulatorio pediatrico, in cui offriamo cure mediche di base ai bambini sotto i quattordici anni. Come in tutti i Paesi in via di sviluppo, anche in Sierra Leone sono molto diffuse una serie di malattie – come malaria, diarrea, infezioni – che se intercettate e trattate in tempo possono essere curate facilmente, ma che in caso contrario possono degenerare e portare alla morte.

2007 Satu, quattro anni, è arrivata in ospedale affetta dal tetano. La sottoponiamo immediatamente a una terapia per controllare gli spasmi, tenendola sotto un attento monitoraggio medico. Le condizioni di Satu però non migliorano e, a una settimana dal ricovero, subentra una polmonite: sono necessarie tre settimane di cure prima che la febbre scompaia, il respiro torni normale e Satu inizi ad alimentarsi autonomamente, senza sondino. La trasferiamo dalla terapia intensiva alla corsia; dopo la progressiva riduzione dei farmaci, ora può tornare a casa. La mamma ci ringrazia con le parole e con un piccolo cesto di mele, tutto quello che ha. Satu lo fa con un lungo abbraccio.

2004 Il reparto di radiologia è ora dotato di nuove apparecchiature e sistemi di sviluppo delle lastre: un’ulteriore tappa nel consolidamento del Centro come importante realtà nel tessuto di Freetown e dell’intero Paese. Si consolida sempre più anche l’affiatamento del personale – medico e ausiliario, internazionale e locale – che dà vita a una squadra di calcio, l’Emergency Football Club: a Goderich si fa “lavoro di squadra” in tutti i sensi. 2005 A dicembre prende il via il programma di trattamento in endoscopia delle lesioni all’esofago, molto frequenti nei bambini sierraleonesi che spesso scambiano per acqua la soda caustica usata dalle loro madri per fabbricare il sapone. La soda brucia l’esofago, che si cicatrizza chiudendosi su se stesso impedendo l’alimentazione; per ricominciare a mangiare normalmente i pazienti devono essere sottoposti a periodici interventi di dilatazione dell’esofago. 2006 Kona, quattordici mesi e 4,7 chili di peso; Kadiatu, sedici mesi e 5,8 chili. In Sierra Leone il 20 per cento dei bambini sotto i cinque anni è sottopeso. Per questo motivo abbiamo avviato un programma con-

Emanuele Rossini

2008 A febbraio, presso il Centro si svolge la prima missione di screening cardiologico in Sierra Leone, per individuare pazienti che necessitano di un intervento al Centro Salam di Khartoum, aperto nel 2007. Un nostro team visita sessantuno malati segnalati dal ministero della Sanità locale, entusiasta del progetto e molto collaborativo. I diciassette pazienti risultati idonei vengono ricoverati e operati al Salam: il primo, il più urgente, è Joseph Samura, un bambino di sette anni operato per una stenosi polmonare, ossia una malformazione congenita della parte destra del cuore. 2009 Il caso di Giba Bah, una quindicenne coinvolta in un incidente automobilistico che arriva in ospedale con una dislocazione vertebrale, ci mostra ancora una volta l’alto livello di professionalità e autonomia raggiunto dal nostro personale sierraleonese. A Goderich come in tutti gli ospedali di Emergency nel mondo, infatti, non solo curiamo persone ma offriamo formazione – pratica e teorica – al personale locale, per contribuire alla creazione di una classe medica esperta e preparata in Paesi in cui spesso la mancanza di personale specializzato è un problema che si affianca all’assenza di strutture che offrano cure gratuite.

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Mattia Velati

2003 Con l’apertura della corsia di degenza dedicata ai pazienti pediatrici, il Centro di Goderich diventa chirurgico “e pediatrico”; Abdullai – dieci anni e una brutta osteomielite alla gamba – e Sarah – tre anni e una grave ustione al braccio destro – sono tra i primi pazienti a usufruirne. Una seconda nuova corsia ospiterà invece i casi ortopedici.

di


GiBi Peluffo 2010 È di nuovo tempo di crescere: l’importanza del nostro lavoro in Sierra Leone è sempre più evidente, le necessità della popolazione evolvono e aumentano. Per questo decidiamo di ampliare ancora una volta il Centro. Con i fondi raccolti grazie alla campagna di donazioni via sms, stiamo costruendo un nuovo blocco operatorio da tre sale che sostituirà quello attuale, una guest house per ospitare i parenti e gli accompagnatori dei pazienti che vengono da lontano, un nuovo blocco dedicato alle aree di servizio. Anche altre aree verranno coinvolte dai lavori, così come l’ingresso e l’accoglienza: il nuovo Centro sarà più funzionale e ci permetterà di gestire in maniera più efficiente l’arrivo, la cura e la degenza dei pazienti. Coscienti del nostro ruolo fondamentale per la sanità della Sierra Leone, abbiamo programmato i lavori – iniziati in autunno – in modo da non interrompere il regolare svolgimento dell’attività sanitaria. 2011 Primo novembre. Stiamo festeggiando i dieci anni dall’apertura, con lo staff attuale e passato, i pazienti e gli ex pazienti, le autorità locali. Non possiamo fare a meno di pensare a quanta strada abbiamo fatto: oggi il Centro chirurgico e pediatrico di Goderich è una struttura fondamentale non solo per la capitale Freetown, ma per l’intero Paese. Vediamo arrivare pazienti da ogni parte della Sierra Leone e continueremo ad accoglierli e a curarli, gratis e bene, fino a che ci sarà bisogno di noi.

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per inciso di

Gino Strada

sanità per azioni «Saresti disposto a fare il ministro della Sanità?». «No». «Perché?». «Per tanti motivi, tra gli altri perché mi sostituireste entro due giorni, avendo un’idea di medicina incompatibile con la vostra». Sono convinto che il lavoro del medico (e di chi decide le politiche sanitarie) non possa essere fatto in modo irresponsabile, perché ha a che fare con la vita e il benessere di altri esseri umani. In una società davvero civile, i medici sono coloro che si occupano della salute di tutti (non a caso una volta c’era il ministro della Sanità pubblica), come gli insegnanti si occupano dell’istruzione di tutti. In altre parole, lo sviluppo e la pratica della scienza medica sono, per loro natura prima ancora che per disposizioni di legge, patrimonio dell’umanità, appartengono a tutti e a ciascuno di noi. Sono cioè pubbliche, e nessuno Stato o governo ha il diritto di renderle private. Introdurre il profitto, o “il mercato” se si preferisce, nella pratica della medicina è semplicemente un crimine contro la società, perché la trasforma in luogo di inciviltà e di speculazione sulle sofferenze dei nostri simili (e nostre). Le “aziende ospedaliere” sono una bestemmia, un degrado di civiltà frutto di una casta politica moralmente corrotta e socialmente irresponsabile. «Se accettassi di fare il ministro, il mio programma sarebbe molto semplice: non un euro del danaro pubblico deve finire nelle tasche della ‘medicina privata’, di chi specula sulla nostra salute». «Ma che discorso è? Vuoi far fallire il sistema sanitario?». Una sanità pubblica di qualità (e quella italiana lo è stata per lungo tempo, più per la dedizione di tantissimi infermieri, tecnici, e di qualche medico, che per le politiche sanitarie dei governi) richiede soldi, che vengono dalle nostre tasse di cittadini, dei cittadini che sono malati e di quelli sani che potrebbero avere domani bisogno di cure. E come fanno a bastare quei soldi, se almeno il 30 per cento viene sottratto per finire nelle tasche degli sciacalli della salute? Potrebbero i cittadini riappropriarsi di quella enorme massa di danaro – parliamo di decine di miliardi di euro ogni anno in Italia – perché sia usata per la salute pubblica? «Basterebbe non fare più, né rinnovare, alcuna “convenzione” tra pubblico e privato». La convenzione. Che si dovrebbe invece chiamare “il trucco”, grazie al quale i soldi scappano. Non più convenzioni con ospedali e cliniche, laboratori, servizi privati. Chi vuole investire nella medicina privata deve essere libero di farlo, a condizione che rispetti le regole e la deontologia medica. Ma deve farlo contando sulle proprie forze, e a proprio rischio, non a rischio zero perché il profitto è garantito dai fondi sottratti alla sanità pubblica. Recuperare quel danaro consentirebbe entro breve tempo di aumentare lo stipendio del personale infermieristico e dei servizi, di rinnovare le strutture e le tecnologie, di razionalizzare le risorse sanitarie sul territorio, di garantire e stimolare l’aggiornamento professionale del personale sanitario, di dare sostegno alla ricerca e molto di più. Lo Stato si deve occupare della sanità pubblica. Se la sanità privata è un competitor (“la concorrenza” mi sembra un termine più adatto e veritiero), perché foraggiarla? Chi è quel coglione di imprenditore che regalerebbe un terzo del patrimonio al suo diretto concorrente? Purtroppo, da una ventina di anni o giù di lì, la logica del “privato” e del “profitto” è penetrata profondamente nel sistema sanitario pubblico. Governi di tutti i colori hanno contribuito a far prosperare l’industria della salute a danno della salute dei cittadini. Delinquenti politici e criminali socialmente pericolosi. Oltre alle risorse bisogna allora recuperare anche un’antica passione che la casta politica ha fatto e sta facendo di tutto per sopprimere: la voglia di fare bene il proprio lavoro, perché è utile a tutti ed è interesse comune che venga fatto bene. Io sarei felice di fare il medico in un ospedale di cui i cittadini (non gli “utenti”) siano contenti e orgogliosi. Non mi sentirei a posto a fare il medico in una “azienda”: non serve, anzi impedisce di lavorare. Perché per fare bene la medicina ho bisogno di un ospedale, cioè di un luogo ospitale, dove anche nei momenti difficili ciascuno si senta un po’ in famiglia, o almeno non da solo. Dove ogni paziente si senta una persona, che viene curata “in scienza e coscienza”, non in base alle necessità del “fatturato” e alle strategie dei manager. «Vabbè, ci si sente. Ciao». «Ciao». La conversazione è realmente avvenuta.

C


Nel maggio 2008 Emergency ha organizzato a Venezia il primo seminario internazionale Costruire Medicina in Africa. Principi e Strategie. In quella occasione, alla presenza di numerose autorità sanitarie dei Paesi africani, venne presentato il Manifesto riportato qui sotto. A oggi il Manifesto è stato sottoscritto dai ministeri della Sanità di Ciad, Egitto, Eritrea, Etiopia, Gibuti, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Ruanda, Sierra Leone, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Uganda.

Il Manifesto di Emergency per una Medicina fondata sui Diritti Umani In accordo con lo spirito e i principi della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani nella quale si afferma che: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti» (art. 1) «Ogni individuo ha il diritto… alle cure mediche» (art. 25) «Il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo» (Preambolo) Dichiariamo il “Diritto alle cure mediche” come un diritto fondamentale e inalienabile appartenente a ciascun membro della famiglia umana. Chiediamo quindi la creazione di sistemi sanitari e progetti dedicati esclusivamente a preservare, allungare e migliorare la vita dei pazienti e basarsi sui seguenti principi: Uguaglianza Ogni essere umano ha diritto a essere curato a prescindere dalla condizione economica e sociale, dal sesso, dall’etnia, dalla lingua, dalla religione e dalle opinioni. Le migliori cure rese possibili dal progresso e dalla scienza medica devono essere fornite equamente e senza discriminazioni a tutti i pazienti. Qualità Sistemi sanitari di alta qualità devono essere basati sui bisogni di tutti ed essere adeguati ai progressi della scienza medica. Non possono essere orientati, strutturati o determinati dai gruppi di potere né dalle aziende coinvolte nell’industria della salute. Responsabilità Sociale I governi devono considerare come prioritari la salute e il benessere dei propri cittadini, e destinare a questo fine le risorse umane ed economiche necessarie. I Servizi forniti dai sistemi sanitari nazionali e i progetti umanitari in campo sanitario devono essere gratuiti e accessibili a tutti. In qualità di Autorità Sanitarie e Organizzazioni Umanitarie Riconosciamo sistemi sanitari e progetti basati sui principi di EQS (Equality, Quality, Social Responsibility – Uguaglianza, Qualità, Responsabilità sociale) come rispettosi dei diritti umani, adatti a favorire lo sviluppo della scienza medica ed efficaci nel promuovere la salute, rafforzando e generando risorse umane, scientifiche e materiali. Ci impegniamo a realizzare e sviluppare politiche, sistemi sanitari e progetti basati sui principi EQS. A cooperare tra di noi per identificare bisogni comuni nel settore sanitario e programmare progetti congiunti. Facciamo appello alle altre Autorità sanitarie e alle organizzazioni umanitarie perché firmino questo Manifesto e si uniscano a noi nel promuovere una medicina basata sui principi EQS. Ai donatori e alla comunità internazionale perché sostengano, finanzino e partecipino alla progettazione e alla realizzazione di programmi basati sui principi EQS.


la posta di E Tutti i giornali hanno uno spazio destinato ai messaggi dei lettori e da questo numero E si mette in regola. Non abbiamo commesso l’errore più diffuso (pubblicare messaggi sul primo numero, ma chi li scrive e in base a che?), anzi abbiamo aspettato fino a ora per avere un quadro più vasto delle vostre impressioni. Abbiamo ricevuto molti più elogi che critiche. Grazie per entrambe le cose. Questo spazio resterà aperto anche nei prossimi mesi, contiamo sulla vostra collaborazione per migliorare ancora il nostro giornale, nostro nel senso di noi che lo facciamo e di voi che lo acquistate, o siete abbonati, o ne parlate agli amici. Una breve risposta alle critiche, che riguardano essenzialmente due aspetti: la stampa di testi in negativo (bianco su nero) e le pagine pubblicitarie. Del primo aspetto abbiamo già cominciato a tener conto, del secondo posso dire che tutti i giornali, nessuno escluso, hanno bisogno delle pagine pubblicitarie. Aggiungo che E si è dotato di un Comitato etico che per ogni inserzionista decide se sia il caso di accettarlo oppure no. È composto da sette persone. A parità di voto vale doppio quello di Cecilia Strada, presidente di Emergency. (gm)

Non so se in momenti tanto drammatici sia giusto mandare questa osservazione. Ma sento il bisogno di dire la mia riconoscenza per una rivista davvero bella: è nuova, è vera, è provocatoria, è di carta. Vi seguirò, come sempre. Anna Rita Guaitoli La rivista mi sembra molto bella, tuttavia ho trovato dei problemi nella lettura, sono un po’ daltonico forse, e delle volte le foto con sopra le parole mi danno problemi nella lettura. Inoltre nell’articolo “Dieci anni di guerra sporca” (primo numero di E, ndr) Enrico Piovesana scrive: “Si moltiplicano le formazioni paramilitari locali che operano al servizio delle forze americane seminando terrore e anarchia (...)”. Io, che sono anarchico e pacifista, mi sento offeso da questo accostamento. Anarchia e terrore non sono sinonimi. L’anarchia non vuol dire caos, ma semplicemente avere un ordine diverso, condiviso, partecipato ed equo. Spero di non trovare in futuro in questa rivista accostamenti del genere. Giosuè Anastasi Aria fresca, finalmente. Ottima rivista: per grafica, ma soprattutto per contenuti. Fuori dai soliti salotti (Espresso, Repubblica e compagnia bella). Auguro che possiate aver seguito tra i più giovani.

Grazie per aiutarci ad avere una visione del mondo normale. Graziano Colotti Finalmente ho trovato un giornale che mi appassiona, mi interessa e mi stimola. È scritto molto bene, chiaro, semplice e molto discorsivo. Le fotografie sono strabilianti anche quando parlano di disperazione e degrado. Finalmente un giornale che informa, ma soprattutto forma.Vi auguro di andare sempre meglio, ma ancora di più spero che questo giornale possa creare un’opinione pubblica tesa a cambiare, almeno un po’, questa nostra triste società. Ho letto che utilizzate carta certificata. Molto bene, ma non è meglio usarne di riciclata? Alessandro Spanò

illustrazione

Ale+Ale

Vi odio, perché le foto dei bambini vietnamiti continuano a ossessionarmi, giorno e notte, in particolare quello che non ha occhi e sembra sforzarsi di sorridere. Mi sono chiesto se può piangere e alla fine ho pianto io: per lui, per gli altri, per tutti quelli che continuano a morire di guerra in tempo di pace. Ma quale pace? Vi odio e vi voglio più bene, per aver fatto una scelta difficile e coraggiosa: documentare la realtà, atroce, senza censurarla. Andate avanti così. Ci sarà sempre qualcuno che dice: «Io non lo sapevo». Ma meno di prima. Carlo Ledda Ieri ero in treno e come al solito avevo comperato il numero di E (quello di novembre). Ho iniziato a sfogliarlo e a leggerlo soffermandomi, come faccio spesso, prima sugli articoli che mi intrigano di più per poi tornare con calma a leggere più o meno tutto il resto. Dopo essermi gustata la bella intervista a Natalia Aspesi mi sono immersa nell’articolo relativo all’Agent Orange: contenuto molto interessante, immagini terribili. E poi, pagina 61: un ragazzino, mostruoso, dolcissimo, un colpo al cuore. Pietà, tenerezza, rabbia, brividi, lacrime agli occhi per quello che gli uomini possono fare agli uomini. E amore, tanto amore.Grata a tutti quelli che non ci permettono mai di dimenticare, ho già raccontato e mostrato a tutte le persone possibili queste pagine. Lorena

Enrico Salve! Bello il vostro giornale, ma avrei un favore da chiedervi: potreste evitare le pagine stampate in bianco su fondo nero o grigio? Per chi non è più giovanissimo e non ha una vista perfetta è una tortura leggerle! Buon lavoro. Rita Olla

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Ted Conover

LE STRADE DELL’UOMO VIAGGI NEL MONDO D’ASFALTO

Ogni strada racconta cconta una storia di lotta: per il profi rofitto, per la vittoria in battaglia, ttaglia, per la scoperta e l’avventura, entura, per la sopravvivenza e lo sviluppo, luppo, o semplicemente per la vita.

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