E il mensile gennaio 2012

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E - IL MENSILE. GIÀ PEACEREPORTER • ANNO VI - N°1- GENNAIO 2012 • EURO 4,00 • PUBBLICAZIONE MENSILE POSTE ITALIANE S.P.A.- SPEDIZIONE IN ABB. POSTALE - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N°46) ART. 1, COMMA 1, LO/MI

Frane.Petizioni.Shirin Ebadi.2011-2012:ricordando e aspettando GENNAIO 2012

Conciati per le feste E-IL MENSILE GENNAIO 2012 • EURO 4,00

Italia la terra tradita Cina le voci inascoltate hanno scritto: Carlotta Comparetti Christian Elia.Luciano Del Sette Jenner Meletti.Alessio Torino Laura Trombetta Panigadi.Patrizia Valduga hanno fotografato e illustrato: Lynsey Addario.Franco Brambilla Dino Fracchia.Guido Guarnieri.Ron Haviv ˘ Christopher Morris.Felix Petruska


IL

SETTIMANALE

DI SATIRA, NON SOLO SATIRA MA ANCHE SATIRA CON: Boscarol, Caviglia, Ciaci El Kinder, Jacopo Fo, Jiga Melik, Lilin, Liberatore, Makkox, Palomba, Pasquini, Perini, Scòzzari, Spataro, Spinoza, Staino... Gli adesivi e i poster del Male e tanto altro ancora!!!

Vauro e Vincino di

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e inoltre: DA IN ON I4 SU RA

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In seconda serata dopo il film (alle 22.50 circa) e in replica tutte le domeniche alle 18. Personaggi e interpreti:

Clio e suo marito.

Un vero cabaret con le musiche di:

Vincino, Vauro, Nuele, Boscarol, Spataro... Disegni di giovani autori sconosciuti.


l’editoriale

Antonello Silverini

auguri Italia Siamo conciati per le feste. La grande illusione lascia il posto a una grande delusione, per non dire amarezza, per non dire rabbia. Hai voglia a dire che l’Italia deve tirarsi fuori dal fango, quello reale delle frane e delle alluvioni e quello di una politica collusa, arraffona e incapace. Il governo Monti si sperava desse un segnale vero di diversità, di discontinuità. Di diverso ci sono gli atteggiamenti, i toni. Siamo passati dal Bagaglino a Eschilo, dalla farsa scollacciata al dramma. La sostanza non cambia, è un film visto e rivisto fin troppe volte. La stangata colpisce i soliti e risparmia i soliti. Non c’era bisogno di un esercito di bocconiani, austeri per quanto ridanciani erano i predecessori, per varare una manovra del genere, di cui tutto si può dire, ma non che sia equa. Nemmeno la foglia di fico di una “patrimonialina” per indorare la pillola a quelli che in un giorno si son visti allungare di cinque anni l’età della pensione, a quelli che per la prima casa stanno pagando il mutuo, a quelli che continuano a farsi domande: perché non ci s’impegna contro i grandi evasori? Perché i sacrifici li devono fare solo quelli che li stanno facendo da un sacco di tempo e già faticano ad arrivare alla fine del mese? Perché, in un momento di estrema gravità, non si tagliano spese militari che non si capisce bene a che cosa servono? Perché non si rinuncia all’acquisto di 121 cacciabombardieri F 135, costo complessivo 18 miliardi di euro? Il ministro degli Esteri, Giulio Terzi, ha confermato la presenza militare dell’Italia in Afghanistan scrivendo una lettera a Repubblica che termina così: “Il nostro impegno sarà certamente oneroso. Ma i costi di un disimpegno sarebbero senz’altro maggiori per la nostra sicurezza. Non possiamo permetterci di disperdere quanto di positivo – ed è molto – costruito in questi anni”. Già su quest’affermazione si potrebbe discutere a lungo. La nostra sicurezza, se il ministro permette, la garantirebbero meglio poliziotti e carabinieri dotati di fondi per la fotocopiatrice e il pieno di benzina. Noi di E siamo contro la guerra per motivi umanitari, ma è anche giusto chiedersi, in termini strettamente economici, se possiamo permetterci certe spese, conciati come siamo. Siamo conciati per le feste, queste e le prossime, perché questo governo toglie le castagne dal fuoco a quell’altro, quello che parla di sospensione della democrazia, quello garrulo e sfrontato, come se l’enorme aumento della spesa pubblica fosse colpa di qualcun altro e non sua. Quello che, grazie anche all’iniqua manovra del governo Monti, vincerà quasi certamente le prossime elezioni. Ecco perché siamo conciati per le feste. La nostra copertina, volutamente scarna e povera, è intonata alla situazione e alle prospettive. Auguri, Italia, ché tra lacrime e sangue (sempre degli stessi versatori e donatori) possa infilarsi qualche sorriso. In questo numero riviviamo i fatti salienti del 2011 con la formula del portfolio e vediamo, parlando con un geologo di fama, come può l’Italia uscire dal fango, quello delle alluvioni, della terra tradita. Segnalo anche il viaggio in treno di Meletti in un pezzetto d’Emilia che sembra un caleidoscopio, da tante cose ci sono dentro, e che Jenner racconta in modo leggero e profondo, da “impressionista” dell’informazione qual è. E, ancora, il racconto di Alessio Torino, scrittore che ha ottenuto molto successo con il suo primo romanzo (Tetano). Guardiamo oltre i confini con un’intervista sull’Iran a Shirin Ebadi, andando a curiosare alle Svalbard e raccontando un lato poco noto della Cina: quello dei petitioner, ossia dei cittadini che, spesso partendo da lontane campagne, vanno a Pechino per presentare una protesta ufficiale contro i torti subiti. Tra un contadino che s’è visto rubare la terra e il funzionario corrotto che gliel’ha rubata il Potere saprà sempre chi salvare, ma questa consapevolezza non arresta l’ondata dei petitioner. Alcune cose che ci riguardano da molto vicino e ci inorgogliscono. Le foto di Michael Marten sulle maree, che abbiamo pubblicato in agosto, sono state premiate agli importanti Lens Culture International Exposure Awards 2011. E il nostro Christian Elia ha vinto il premio che ricorda Enzo Baldoni per il servizio sulla Primavera araba vista con gli occhi delle donne e pubblicato sul primo numero di E. Questa la motivazione: “Per aver ricostruito compiutamente la dinamica mediterranea della primavera 2011, contribuendo a posizionare il suo mensile come una rivista rilevante nel dibattito geo-politico internazionale”. E infine il regalo che ci siamo fatti per l’inizio dell’anno: il nuovo sito www.eilmensile.it che trovate già online, che tiene il filo rosso dell’esperienza giornalistica di Peacereporter coniugandolo con un legame ancora più stretto con il giornale che state leggendo. Gianni Mura


in questo numero 5 le storie

Dopo la fabbrica, nulla di Maurizio Pagliassotti

Una ricercata in jeans di Carlotta Comparetti

La saggezza dell’asino di Cora Ranci

Finché non torno di Noemi Deledda foto di Joseph Eid

Il corpo delle donne di Hernán Buzzella

12 il punto

La terra tradita Il 60 per cento del suolo del nostro Paese è a rischio: non ci vuole un indovino per pensare che altre alluvioni e altre vittime seguiranno a quelle di Genova e Barcellona Pozzo di Gotto. L’intervista al geologo Mario Tozzi di Luciano Del Sette foto di Diego Mayon, Carlo Gianferro e Giorgio Lotti

Secoli di tragedie annunciate a cura di Antonio Marafioti

20 l’incontro

L’Iran che vorrei Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace, racconta la sua lotta per i diritti umani e il suo prezzo: aver sacrificato gli affetti familiari di Christian Elia foto di Luca d’Agostino

30 le cronache

Maledetta Uno bianca Una ferita che non si chiude, una delle storie più drammatiche tra quelle che hanno insanguinato le nostre strade e avvelenato una città. Parlano il magistrato che indagò sui fratelli Savi, il poliziotto che li arrestò e le vittime che non dimenticano di Natascia Ronchetti

40 il viaggio

Il treno dei pioppi Sali a Brescello, dove Peppone e don Camillo si guardano statuari, e vai: tra pioppi, nebbie, portici, quadri naïf e osterie. E incontri le memorie dei Nomadi, il tempio Sikh più grande d’Europa e un sindaco che spiega che, in Canada, fanno la corsa a iscrivere i bambini alle scuole multiculturali di Jenner Meletti foto di Dino Fracchia

48 il reportage

104 domani

di Laura Trombetta Panigadi foto di Susetta Bozzi

109 sul campo

Voci inascoltate Chi in Cina pensa di aver subito un torto può inoltrare una petizione al governo centrale. Ma le proteste di donne e uomini che arrivano a Pechino restano perlopiù senza risposta. E qualcuno, per farsi sentire, compie gesti eclatanti

56 il fumetto

Giovanni Falcone 23 maggio 1992: la strage di Capaci mette fine alla parabola umana e professionale del magistrato simbolo della lotta alla mafia. Con lui perdono la vita la moglie e gli agenti di scorta scritto e disegnato da Giacomo Bendotti

64 il portfolio

#2011 Le immagini e le nostre parole chiave per l’anno che se ne va: le moltitudini, il cambiamento, i volontari, le cadute, la causa, la scelta

Teatro di Simona Spaventa Rete di Arturo di Corinto Documentario di Matteo Scanni Cinema di Barbara Sorrentini Arte di Vito Calabretta Musica di Carlo Boccadoro Libri di Alessandra Bonetti Design di Claudia Barana

Scommessa italiana L’impegno di Emergency nei poliambulatori da Nord a Sud. Con la storia di Fatah, il responsabile del Centro di Palermo di Emanuele Rossini e Alessandro Grandi foto di Adele Lorenzi

le rubriche 38

Un fisico bestiale di Bruno Giorgini

38

Parola mia di Patrizia Valduga

foto di Giovanni Cocco, Ron Haviv, Ashley Gilbertson, Christopher Morris, Stefano De Luigi, Giuseppe Fanizza, Donald Weber, Seamus Murphy, Eric Bouvet, Lynsey Addario

39 Polis di Enrico Bertolino 54 Televasioni di Flavio Soriga 55 Decoder di Violetta Bellocchio 62 Mad in Italy di Gianni Mura 78 Spiriti liberi di Giulio Giorello 79 Buen vivir di Alfredo Somoza 80 .eu di Stefano Squarcina 81 Il capitale di Niccolò Mancini 90 Pìpol di Gino&Michele 102 La posta di E 103 La posta del cuore

82 il reportage

112

Risiko artico L’arcipelago delle Svalbard appartiene alla Norvegia e, in base a un trattato del 1920, accoglie senza visto chi arriva. È lì che oggi si gioca tra diversi Paesi una sfida che ha per posta il petrolio, il gas e le nuove vie d’acqua

di Claudio Bisio

Per inciso di Gino Strada

il nostro osservatorio 28 36

Buone nuove L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro

88 Casa dolce casa 100 Cessate il fuoco

testo e foto di Gabriele Battaglia

92 il racconto

Lettera di una mosca a un accademico illustre E se ci volesse un insetto per sussurrare all’orecchio di un sapiente la verità silenziosa e umanissima di un figlio? A dispetto di editoriali dotti e ortodossie marxiste, mentre sta arrivando ancora una volta il Natale di Alessio Torino illustrazioni di Ale+Ale

Ci vediamo in edicola dal 25 gennaio con il numero di febbraio

in copertina illustrazione di Guido Guarnieri



con noi E - IL MENSILE GENNAIO 2012

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Luciano Del Sette Giornalista, vive e lavora a Roma. Scrive per il manifesto e per il suo settimanale Alias. È autore e conduttore di programmi per RadioTre Rai. Per noi ha intervistato il geologo Mario Tozzi.

Lynsey Addario

Franco Brambilla

Gabriele Battaglia

Laura Trombetta Panigadi

Nata negli Stati Uniti nel 1973, vive a Nuova Delhi come fotogiornalista freelance. Ha iniziato nel 1996 con il Buenos Aires Herald. Da allora ha collaborato con Associated Press, The New York Times, National Geographic e Time, girando il mondo e documentando i conflitti in Afghanistan, Iraq, Darfur, Libano e Congo. Ha ricevuto numerosi premi, tra cui la MacArthur Fellowship, 2009. Insieme ad altri colleghi del NYT, ha vinto il Pulitzer 2009 con il servizio Talibanistan. È una delle firme del nostro portfolio fotografico.

Nato nel 1967 a Milano, diplomato allo Ied. Dal ‘98 al ‘05 collabora all’inserto economico del Corriere della Sera. Nel ‘98 insieme a P. Longo e G. Spazio fonda l’Airstudio, riferimento delle maggiori case editrici per la progettazione grafica e l’illustrazione. Collabora con le più famose collane di fantascienza. Ha vinto il premio Best Artist agli European Awards, Eurocon Fiuggi 2009 e il Premio Italia, Milano Delos Days 2011. Per esorcizzare l’arrivo del 2012, ha immaginato tante diverse “fini del mondo”.

Natascia Ronchetti Giornalista freelance, vive e lavora a Bologna, la città (per lei) più bella d’Italia, nonostante tutto. Scrive per Il Venerdì di Repubblica, L’Espresso e Il Sole 24 Ore, dopo essersi occupata per molti anni, all’Unità, di cronaca giudiziaria e politica, e dopo aver collaborato con Diario. Ha scritto Maledetta Uno bianca.

Milanese e milanista, nato nel 1966, ha iniziato come web-giornalista. Convinto che l’Oriente sia il migliore punto d’osservazione sul mondo contemporaneo, cerca di raccontare la Cina e gli altri Paesi del Far East. Ha all’attivo reportage e mostre fotografiche su vari media. Risiko artico è il suo reportage dal Circolo polare.

Bruno Giorgini

È ricercatore in Fisica teorica all’Università di Bologna e all’Istituto nazionale di fisica nucleare. Dopo una gioventù di stravizi rivoluzionari, ha studiato i buchi neri e il cosmo in undici dimensioni, indi è sceso con i piedi sulla terra, fondando il Laboratorio di fisica della città. Ha lavorato all’estero, a Parigi e Marsiglia in particolare. Oltre alle pubblicazioni scientifiche, scrive anche di varia umanità: il suo ultimo libro è I due arcobaleni. Viaggio di un fisico teorico nella costellazione del cancro, Aracne Editrice. Ha scritto per Lotta Continua ed è direttore responsabile di Radio Popolare. Per E cura la rubrica Un fisico bestiale e, in questo numero, riflette sulla vita e sulla morte.

Milanese, ha studiato cinese a Pechino all’inizio degli anni Ottanta, quando la Cina non era per niente vicina e da allora non l’ha mai lasciata. Si occupa principalmente di progetti editoriali e legati al fotogiornalismo; ha lavorato sui set cinesi dell’Ultimo imperatore di Bertolucci, su quelli di Gianni Amelio e di altri film e documentari. Ha trascorso lunghi periodi in Tibet, dove ha collaborato con la Ong Asia per progetti di cooperazione a favore delle popolazioni tibetane. Qui ha dato voce ai cinesi che chiedono giustizia.

Dino Fracchia

È nato a Milano nel 1950, nel quartiere Ticinese. Inizia a fotografare professionalmente nel 1975 e da allora ne ha fatta di strada; con tutti i mezzi di trasporto, anche quelli più improbabili, molto spesso anche a piedi. Ha incontrato tantissime persone, visto moltissimi luoghi, belli ma anche brutti, scattato e pubblicato un sacco di foto. Quando è stanco, se può, va al mare. Questa volta ha preso il treno da Brescello a Suzzara, da Guastalla a Novellara.

Jenner Meletti

È nato a Fossoli di Carpi (Mo) nel 1948. Nel 1973 è entrato nella redazione dell’Unità. Inviato dal 1983. Dal 1999 è a Repubblica. Gli piace raccontare le “piccole” storie perché non ci sono storie piccole. Come quella del treno dei pioppi.


storia 48 - Rosanna Nardi

Dopo la fabbrica, nulla

storia raccolta da

Maurizio Pagliassotti

Rosanna Nardi è nata a Villar Perosa, sessanta chilometri da Torino. Tra i suoi concittadini, la famiglia Agnelli. Ha 41 anni ed è single. Attualmente fa diversi lavori, tutti precari, che le occupano l’intera settimana. Nel tempo libero studia per completare la formazione come operatrice socio sanitaria.

Io vorrei che queste parole fossero lette da tutti coloro che hanno un posto fisso. Voglio dirvi una cosa: non siate degli schiavi, non buttate via la vostra dignità. Non sono i padroni, i sindacati per finta, le banche o il governo a distruggere la vita di chi lavora. Siamo noi stessi a farlo. Perché in questi anni di lotta io ho visto i miei colleghi fregarsene di quelli come me, correre in soccorso del padrone per poi avere i soldi certi a fine mese per comprarsi il cellulare nuovo. E dato che anche io sono stata fissa come voi, con un posto sicuro che più sicuro non si poteva, posso dirvi che potete nascondervi sotto l’ala di chi volete, potete scodinzolare dietro il capufficio quanto vi pare, ma prenderanno anche voi. È il 2009 e nelle linee della fabbrica dove facevo l’operaia, la Stabilus di Villar Perosa, a pochi chilometri da Torino, piomba la notizia che verremo messi in mobilità, cioè licenziati in tronco. La decisione, presa da chissà chi negli Stati Uniti, riguarda tutti. Penso che a difendermi c’è lo Statuto dei lavoratori, perché in fabbrica lavoriamo in settanta. Penso che abbiamo un sindacato forte e non la spunteranno tanto facilmente. Ma la Fiom e gli altri sindacati dormono e accettano le offerte del padrone americano. Decido così di difendermi da sola. Mi accampo fuori dalla fabbrica con una tenda e inizio uno sciopero della fame a oltranza. La notte diluvia, fa freddo, mi sembra di fare una pazzia ma non posso più tornare indietro. È una questione di dignità.

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Sono accampata nel parcheggio, dentro una tenda. Per terra ho messo due bancali e dormo dentro un sacco a pelo. Scrivo un po’ di cartelloni e li espongo lungo la strada statale. Sono convinta che i colleghi capiranno la gravità della mia situazione e mi aspetto che siano solidali con me. Ma gli unici che lo fanno sono i carabinieri del paese che la notte vengono a controllare se sono morta assiderata. Mi portano coperte e perfino una stufetta per scaldarmi, sono umani e questo mi commuove. I colleghi operai, oltre a non farsi vivi, mi guardano male perché il mio comportamento mette a rischio la buona uscita di poche migliaia di euro che ci è stata promessa nel caso in cui dovessimo accettare di autolicenziarci tutti. Resisto senza cibo per oltre due settimane, sempre nel parcheggio. Intorno a me si forma un gruppetto di solidarietà che la notte mi tiene compagnia e così nasce un piccolo presidio. Finalmente qualche collega arriva, ma si possono contare sulle dita di una mano. Intanto i sindacati, tranne quelli di base, accettano tutto. Ma io non mollo, perché so che cosa ci aspetta. Faccio anche causa alla ditta perché non posso firmare una lettera che certifica il falso. Perderò la mia battaglia, ma su quel pezzo di carta la mia firma non ce la metto. Le forze mi abbandonano, dopo venti giorni mollo la presa. Sono sconfitta dalla solitudine, dalla divisione tra lavoratori, da imprenditori che non ho mai visto in volto. Inizia il dopo. E il dopo è un deserto. Seguo un corso professionale per diventare Oss, operatore socio sanitario, e trovo quasi subito lavoro. È un mestiere durissimo che comunque svolgo con piacere. Purtroppo anche lì si abbatte la crisi e così provo a tornare in fabbrica. Attraverso le agenzie interinali passo da uno stabilimento all’altro. Perennemente sotto ricatto, ridotta a chiedere il permesso per andare in bagno, uno solo per sessanta tra operai e operaie. Ma io sono una lavoratrice che non molla e arrivo a fare anche venti ore di straordinario a settimana. I capi però non sono mai contenti e, se un sabato esco all’orario normale, il lunedì ricevo la telefonata dell’agenzia interinale che si lamenta e velatamente minaccia. Mentre salto da un posto all’altro, incontro i mie ex colleghi della Stabilus che mi davano della pazza quando tentavo con le unghie di difendere il mio e il loro lavoro. Ora sono nelle mie stesse condizioni, nessuno ha un lavoro decente. Mai come oggi posso dire a chi si trova davanti alla scelta di un po’ di denaro in cambio del licenziamento: non accettate. Lottate per tenere in vita la vostra fabbrica, perché dopo non c’è più nulla.

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storia 49 - Cheery Zahau

Una ricercata in jeans

storia raccolta da

Carlotta Comparetti

I miei jeans preferiti sono diventati i jeans per la giungla. Quelli che indosso ogni volta che torno a casa, in Birmania. Per me è questo il nome del Paese da cui sono fuggita quando avevo undici anni e dove oggi, a poco più di trenta, sono ricercata dal governo. Ogni ritorno per me è un viaggio illegale, clandestino, che dura interi giorni di cammino lungo i sentieri che dal Nordest dell’India conducono ai villaggi del Chin State, una regione isolata dalle montagne della Birmania nordoccidentale. La terra in cui sono nata. Mi chiamo Cheery Zahau e ho perso il conto delle volte che ho attraversato quel confine rischioso, tra violenza e speranza. Ho perso il conto delle notti trascorse nella giungla, di quelle notti illuminate soltanto dalla luna, con il sangue che gela a ogni fruscio. Giorni e notti con la paura di incontrare i soldati governativi, disseminati in tutto il territorio delle periferie etniche, ormai completamente militarizzato; e ancora di più con la paura di imbattermi in bestie altrettanto feroci e selvagge che difendono il loro habitat con le armi che stavolta ha dato loro la natura: zanne, artigli e aculei velenosi. Ogni volta, il mio viaggio è un’avventura dal finale incerto ma anche l’unica via possibile. Per il governo del mio Paese sono una dissidente, “una minaccia all’unità nazionale”, hanno scritto nel giornale ufficiale The New Light of Myanmar. Mi accusano di attentare all’unità che è stata imposta nel 1962 con un colpo di Stato militare e che, da allora, i generali difendono con le armi. Un’unità costata al mio Paese cinquant’anni di isolamento internazionale e di diritti umani negati, venti milioni di poverissimi, duemila prigionieri politici e centinaia di migliaia di profughi. Beh, forse, allora hanno ragione, sono una dissidente. E lo rimarrò finché la Birmania sarà un Paese in prigione. Ero poco più che una bambina quando lasciai il villaggio Chin di Hakha per raggiungere mia madre, mio padre e due sorelle che prima di me avevano attraversato il

confine stabilendosi in India, nel Mizoram, un angolo di mondo che a quel tempo per noi sembrava più sicuro. Scappavamo dalle persecuzioni che il Tatmadaw, l’esercito governativo birmano, riserva alle minoranze etniche nel tentativo di cancellarne identità e radici. I soldati piombano nei villaggi, già affamati da un’agricoltura di sussistenza, e fanno razzia di tutto: il poco cibo, il denaro, la manodopera. Impiegano gli uomini come bestie da soma per far caricare loro provviste e munizioni. Li obbligano a lavorare per la costruzione di strade o di nuove postazioni militari. Ai soldati non importa che questi, nel frattempo, interromperanno le attività da cui ogni giorno dipende il sostentamento delle loro famiglie, né gli importa se sono giovani, vecchi o malati. Non andranno via prima di aver depredato le risorse naturali e le persone, spingendosi perfino a uccidere in una ottusa caccia alle “spie” della democrazia. È una guerra silenziosa quella che si consuma ormai da decenni nelle periferie etniche birmane, casa di oltre un terzo della popolazione. A subire gli abusi sono soprattutto le donne, bersaglio facile laddove la violenza sessuale viene usata come strumento di tortura e sottomissione di una comunità intera. Donne di tutte le età, strette tra la violenza degli stupri e il peso della vergogna, terrorizzate e umiliate fino a soffocarne la voce. Le voci. Quelle che dieci anni fa sono diventate il senso della mia missione e il coraggio dei miei viaggi clandestini. Tutto è iniziato nel 2003, avevo poco più di vent’anni. Per la prima volta avrei incontrato le vittime del crimine più subdolo che una donna possa subire. Ricordo che era un inverno gelido, più freddo degli altri. E ricordo la sofferenza nei loro volti. Il dolore e la rabbia fino a provarli sulla mia pelle e sentirmi impotente, incapace di continuare ad ascoltare e trascrivere quelle storie atroci. Furono le parole di una donna Chin a ridarmi la forza. Un po’ della sua, forse. Una vecchia signora dallo sguardo materno e tratti induriti dalla vita. Nella lingua dei


Cheery Zahau è nata l’8 maggio 1981 nel villaggio Min Hla della regione etnica Chin, in Birmania. A 17 anni è fuggita con la famiglia in India. Oggi vive in Thailandia ed è un’attivista per i diritti umani e la democrazia in Birmania. Coordinatrice della Ong Women’s League of Chinland, ha portato la causa dei Chin davanti alle più autorevoli istituzioni internazionali, da New York a Ginevra.

Chin mi esortava a non fermarmi. «Non devi farlo solo per noi», mi disse. «Non siamo le sole. Se tu non parli, molte altre donne soffriranno». Quelle parole, che non dimenticherò mai, mi hanno assegnato un compito cui non posso né voglio sottrarmi. Da allora raccolgo le testimonianze delle donne cui è stato negato il diritto di parlare. Racconti di violenza che io stessa avrei potuto subire se non fossi stata così fortunata da riuscire a scappare. Per questo oggi la mia libertà deve servire anche a loro e la mia voce deve essere abbastanza forte da rompere un silenzio durato troppo a lungo. Per questo tornerò, invisibilmente, tutte le volte

che la mia comunità avrà bisogno del poco che posso portare con me. Scorte di riso, medicinali, qualche vestito e una gran fede. Tornerò sempre perché il contatto con la mia gente conta più di ogni propaganda e perché non si sentano dimenticati. Tornerò perché quella terra violata e saccheggiata sotto lo sguardo distratto del resto del mondo, un tempo, era casa mia.

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storia 50 - Roberto Cortelli

La saggezza dell'asino

storia raccolta da

Cora Ranci

Roberto Cortelli è nato a Bologna nel 1982. Per anni ha alternato la vita da studente universitario (una laurea in Storia e una in Geografia) all’attività di guida ambientale sull’Appennino modenese, dove, insieme ad altri, gestisce la fattoria didattica Asineria di Gombola. Roberto si occupa di escursioni e trekking, ma anche di educazione ambientale, organizzando laboratori per bambini e seminari di conoscenza dell’asinope ra dulti.

All’inizio, di solito, la cosa più difficile è accettare che un animale non si faccia comandare da noi. Sì, perché quando condividi la strada con un asino ti devi rassegnare: i ritmi li stabilisce lui, e non solo quelli. Sarà lui a decidere quando fermarsi e quando ripartire. Se il passaggio per un certo ponte, per esempio, non è gradito, non c'è verso: probabilmente, si sarà costretti a trovare un percorso alternativo. Quando, dieci anni fa, quasi per caso, ho iniziato a lavorare nell’Asineria di Gombola, sull’Appennino modenese, sono rimasto affascinato dallo stile con cui questi animali affrontano la vita, e da quello che succede a noi uomini quando entriamo in contatto con loro. E così ho deciso che da lavoretto estivo durante gli studi in Storia contemporanea a Bologna, quella di guida ambientale poteva e doveva diventare la mia attività principale. Ora lavoro a tempo pieno per un’azienda agricola multifunzionale, che ha deciso di puntare tutto sugli asini. Siamo anche fattoria didattica aperta a tutti, dove adulti e bambini possono entrare liberamente e conoscere questi animali. Da noi vengono scuole, famiglie, cooperative sociali. Accompagno chi lo desidera in trekking di più giorni attraverso l’Appennino tosco-emiliano. Gli

asini diventano compagni di viaggio, carichi del nostro bagaglio. È l’esperienza più bella. È un camminare lento, fatto di pause. Pian piano, si entra in sintonia con l’animale. L’asino non è come il cavallo: non lo si può domare, perché non teme l’uomo. Da lui non si può pretendere ciò che si vuole, nemmeno con la violenza: si otterrebbero solo rabbia e frustrazione. L’asino ci costringe a elaborare una strategia diversa. Perché non è vero che ci ignora, chiuso nella sua testardaggine. Dall’asino possiamo ottenere grandi soddisfazioni se solo accettiamo di comprendere i suoi bisogni. Per esempio, il suo fermarsi lungo il sentiero, continuamente, per mangiare l’erba e le foglie, non è ingordigia di cibo. Attraverso la bocca gli asini fanno esperienza del mondo che li circonda. Dobbiamo capirlo e lasciargli il tempo di familiarizzare con il luogo in cui si trovano, senza perdere la pazienza. Dobbiamo cercare di trovare un equilibrio tra le esigenze sue e le nostre: è questo che ci insegna l’asino. E trovo che sia una grande lezione di umiltà. Siamo abituati a sentir paragonare al somaro qualcuno dotato di poca intelligenza. Come se fosse da stupidi non mollare su qualcosa che si ritiene importante, non cedere di fronte al ricatto della forza. Dobbiamo essere più umili per capire che avere poco cervello è ben altra cosa. Faccio l’asinaro – suscitando a volte grasse risate tra gli amici a Bologna – perché voglio diffondere la conoscenza di questo animale. Credo che attraverso l’asino, in definitiva, si arrivi a conoscere una parte di noi stessi, del nostro carattere. Soprattutto, credo che quello che faccio abbia un valore particolare nel momento storico in cui ci è capitato di vivere. Insegnare, ai più piccoli, ma non solo, che nulla ci è dovuto e che per avere qualcosa bisogna saper ascoltare ed essere pazienti, è importante oggi, quando tutto è dispersivo, eccessivo, vistoso, finto. Fuga dalla realtà? Direi, piuttosto, fuga da questa realtà. L’asino è un po’ come una macchina del tempo: ci riporta ai ritmi dell’epoca moderna. Ci impone di abbandonare la frenesia e di toglierci i paraorecchie. Tutto questo, a chi viene a Gombola, non lo insegno io, ma gli asini. Ai bambini con cui lavoro non faccio il panegirico dell’asino: per loro sarebbe noioso, e probabilmente anche inutile. Lascio che ognuno colga liberamente dall’esperienza ciò che può. Io stesso credo di avere ancora molto da imparare da questi animali.

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storia 51 - Ziad

Finché non torno storia raccolta da

Noemi Deledda foto Joseph Eid [afp/getty images]

Ziad oggi ha 30 anni. Attivista in un’organizzazione di sinistra che in Siria chiedeva riforme politiche e libertà, viene arrestato a 25 anni perché accusato di “atti sovversivi contro il regime di Bashar al-Assad”. Dopo cinque anni passati nella prigione di Saydaniyya insieme a prigionieri affiliati ad al Qaeda e ad altri gruppi dell’islam radicale, Ziad viene scarcerato lo scorso aprile quando mancano due anni alla fine della sua condanna.

Il giorno in cui Bashar al-Assad ha deciso, sotto la pressione dei manifestanti e a mia insaputa, di rilasciare alcuni prigionieri politici in Siria, io, attivista di un’organizzazione di sinistra, ho potuto riabbracciare mia madre dopo cinque anni e mezzo di prigione. Mentre il popolo si riversava nelle strade scandendo slogan contro il regime, a trent’anni sono tornato un uomo libero dopo aver firmato un documento di lealtà a vita al regime di Assad. Non dimenticherò mai il momento in cui un ufficiale nel corridoio della prigione ha gridato anche il mio nome. Non lo dimenticherò mai perché, essendo stato testimone dei bombardamenti sulla prigione di Saydanayya nel 2008, non avrei mai e poi mai pensato che sarei uscito vivo da quella cella. Mezzo litro di acqua al mese per farmi la doccia, lunghi black out elettrici, un materassino ogni tre detenuti, un cucchiaio di yogurt, due uova da conservare per una settimana intera, qualche patata e un po’ di semola. A volte siamo stati costretti a bere acqua piovana, perché i rubinetti dell’acqua potabile venivano aperti solo due ore a settimana in un bagno da condividere almeno con venti persone. Quando manca il necessario ci si ingegna: un mio compagno di cella, un ingegnere appunto, è riuscito a raccogliere in un canale la pioggia che si era accumulata sul tetto. Solo così non siamo morti assetati. La vittoria è durata poco però, perché dopo un mese i militari, scoperto il trucco, sono andati sul tetto a contaminare l’acqua. Ma hanno fatto anche di peggio: spesso entravano in cella obbligandoci a restare in slip al freddo e ci picchiavano senza che noi avessimo fatto niente. Gli unici giornali ammessi in carcere erano quelli siriani. Non sapevamo niente della partenza di Ben Alì ma

ricordo che il giorno in cui Mubarak è caduto il giornale Tshirin titolava: “Il collaboratore americano è caduto”. Abbiamo saputo delle manifestazioni nel nostro Paese quando i poliziotti ci hanno distribuito delle radio. Uscito di prigione all’una di notte non ho avuto neanche il coraggio di telefonare a mia madre, avevo il timore che non fosse più in vita. Guardavo Damasco con gli occhi increduli di un bambino di provincia che per la prima volta vede una metropoli. Damasco sembrava un’altra città. C’erano delle autostrade che prima non esistevano, centri commerciali immensi e nuovi negozi ovunque. Mi sono diretto alla stazione dei bus per raggiungere la mia città, Hama, ma non ho trovato nessuno disposto ad accompagnarmi a cifre ragionevoli a causa del coprifuoco. L'hanno sfidato mio padre e i miei fratelli per potermi riportare a casa dopo che un mio amico li aveva informati della mia liberazione. I momenti passati in famiglia sono durati poco, un attimo per uno come me che li aveva sognati per anni. Dopo alcuni mesi la polizia ha bussato alla porta di casa incrociando di nuovo gli occhi di mia madre, questa volta stanchi ma non increduli. Dopo diversi giorni di fuga ho pensato che era arrivato il momento di abbandonare la Siria. L’ho fatto per mia madre. Sapevo che se questa volta mi avessero preso lei non mi avrebbe mai più rivisto se non nel giorno del mio funerale. Ora vivo qui in Libano rinchiuso in una stanza. Una nuova prigione, sì, ma stavolta a cinque stelle. Aspetto che un giorno il mio popolo possa regalarmi un biglietto Beirut-Damasco, di sola andata.

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storia 52 - Estela Díaz

Il corpo delle donne storia raccolta da

Hernán Buzzella

Estela Díaz è un’attivista che lotta da vent’anni per i diritti delle donne in Argentina, avendo fatto un lungo percorso nel sindacato. Dal 2005 è la leader della Campagna nazionale per il diritto all’aborto legale, sicuro e gratuito, sostenuta da trecento organizzazioni di tutto il Paese. Tra il 2003 e il 2006 è stata segretaria del Centro dei lavoratori argentini e ora coordina il Centro studi per le donne che lavorano in Argentina. È nata 48 anni fa e vive a La Plata, a sessanta chilometri da Buenos Aires. È sposata e ha due figli.

“Il nostro corpo, la nostra decisione”. Questo è lo slogan. Non mi sono mai trovata davanti al dilemma se abortire oppure no, ma la mia lotta non è per me (anche se ripensandoci, in parte lo è). È una lotta sociale per tutte le donne. Solo ciascuna di noi può sapere se è pronta a mettere al mondo un bambino, e non vogliamo più essere giudicate o additate se decidiamo che quel momento non è ancora arrivato. Chi mi dice cosa devo fare? La legge me lo dice? È così datata – ha più di novant’anni – che nel nostro Paese non dovrebbe nemmeno più esistere. La Chiesa me lo dice? È così preoccupata nel difendere le vite che verranno che si dimentica di prendersi cura di quelle già al mondo. Non voglio che si intromettano. Voglio che, se una donna argentina sceglie di interrompere la sua gravidanza, lo possa fare in condizioni dignitose e sicure. Con il nostro movimento, la Campaña nacional por el derecho al aborto legal, seguro y gratuito, lottiamo dal 2005 per l’abrogazione di questa legge vecchia e per l’approvazione di una nuova che permetta l’interruzione volontaria di gravidanza entro le prime dodici settimane. Il dibattito è sempre stato tenuto sotto silenzio perché la parola stessa “aborto” era un tabù. È ora di mettere fine a questa ingiustizia. In Argentina recentemente è stato fatto un incoraggiante passo in avanti: per la prima volta un progetto di legge sull’aborto è stato discusso in parlamento. Dal ritorno della democrazia, nel 1983, ne erano stati presentati più di settanta, ma non erano mai arrivati in aula. So che l’iter sarà lento e ostacolato dalle continue pressioni di chi si oppone al cambiamento, ma io confido che il 2012 sarà l’anno della svolta. Nel mondo più del 60 per cento delle donne possono scegliere se abortire oppure no. In America Latina, l’aborto è legale soltanto a Cuba, in Costa Rica e a Città del Messico, nel resto di quest’ultimo Paese è illegale. Nel mio Paese si praticano 450mila aborti clandestini

all’anno, quasi più di 1.200 al giorno. Non si può guardare dall’altra parte e far finta di niente. Io lotto da anni per portare il dibattito, prima nella società e poi nelle istituzioni. La nostra organizzazione ha iniziato a lavorare nelle strade e nelle case per poi proseguire nelle università, nelle organizzazioni sociali, sui mezzi di informazione e in parlamento. Siamo presenti con banchetti informativi e di raccolta firme in piazze, fiere, festival, manifestazioni culturali. Organizziamo dibattiti, seminari a livello internazionale, mostre di foto, proiezioni di film e video, presentiamo libri, promuoviamo incontri in aziende, comunità e scuole. Quest’anno sono stata anche conduttrice del programma “Esas mujeres” (Quelle donne) in onda sulla radio dell’Università di La Plata. Non posso dimenticare i tanti momenti che ho condiviso con le donne delle favelas, dalle quali ho imparato molto. Tenevo laboratori di formazione sulla sessualità e la violenza, promossi dalle associazioni comunitarie. Il mio percorso personale e politico è stato segnato dalle donne che sono state e, tuttora sono, le mie maestre di vita. Potrei raccontare migliaia di storie di sopravvivenza quotidiana. Una che ancora mi commuove è la storia di una ragazza, vittima degli abusi sessuali del suo compagno, da cui ebbe una figlia che ora ha dodici anni. Era rimasta incinta dopo essere stata violentata ripetutamente da lui, voleva abortire ma non poté farlo. Sapeva in cuor suo, e traspariva dal suo viso pieno di dolore e dalla sua voce, che non avrebbe mai potuto accoglierla. Sentiva che portarla in questo mondo sarebbe stata un’ingiustizia per entrambe. Ecco, non m’interessa quanto tempo ci vorrà, ma so che le prossime generazioni si conquisteranno la libertà di scegliere. L’Argentina sarà un posto più giusto per noi donne e per i nostri figli.

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La terra tradita di

Luciano Del Sette

foto

Diego Mayon


Nude cifre. Il 60 per cento del suolo del nostro Paese è a rischio: non ci vuole un indovino per pensare che altre alluvioni e altre vittime seguiranno. Lo scorso anno quindici regioni su venti hanno chiesto lo stato di calamità naturale: allora è la regola, mica un’emergenza. La Finanziaria del 2012 ha destinato 500 milioni di euro, peraltro spariti, per il risanamento: solo per Genova ne servirebbero 400. Ogni due o tre secondi, in Italia, spunta un metro quadrato in più di cemento. Ogni anno consumiamo una percentuale di territorio venti volte superiore rispetto all’Inghilterra. Nude cifre, quelle messe in fila qui dal geologo Mario Tozzi. Che è pessimista ma non può permetterselo: «Occorre ‘rinaturalizzare’ il territorio, occorre più coraggio. E devono averlo gli amministratori. Senza paura di perdere il consenso»


In via dei Volsci, qualche numero dopo l’ex sede di quel Collettivo che ci riporta agli anni Settanta e all’Autonomia operaia, ha il suo studio un combattente assai pacifico, ma non per questo meno agguerrito. Le sue battaglie le conduce attraverso trasmissioni radiofoniche e televisive, articoli, libri, interventi nelle vesti di opinionista. Molti lo conoscono per aver raccontato il nostro Pianeta, piccozza in spalla, nella trasmissione “Gaia”, RaiTre; gli aficionados di “Linea Notte”, il tg di mezzanotte, sempre su RaiTre, ne ascoltano pareri e polemiche quando l’Italia, storia anche recentissima, viene travolta da terremoti, alluvioni, frane. Lui è Mario Tozzi, forse il più famoso tra i nostri geologi. E-ilmensile lo ha cercato per ascoltare una voce autorevole fuori dal coro. Una voce capace di provare a sciogliere, senza peli sulla lingua e con obiettività, i tanti interrogativi che nascono di fronte a grandi tragedie come quelle dell’Irpinia e dell’Aquila, di Sarno e della Liguria, della Toscana e del Messinese. La sua nuova trasmissione su La7 ha un titolo molto eloquente, “Allarme Italia”. È un allarme che risuona ogni volta che la nostra penisola si trova a fare conti disastrosi con le calamità naturali. Cause e colpe. Parliamo subito di questo. «In Italia il rischio naturale è molto elevato. Ne abbiamo avuto rappresentazione plastica all’Aquila: un terremoto di magnitudo scarsa, appena poco sopra i sei gradi della scala Richter, ha portato trecento morti e una distruzione che in un altro Paese non sarebbe mai avvenuta. In un Paese moderno ci sarebbe stato qualche cornicione crollato, ma forse nemmeno quello. All’Aquila abbiamo avuto dimostrazione di quanto siamo ancora fragili rispetto ai terremoti. Abbiamo costruito male; oppure c’è stato malaffare e malversazione sulle costruzioni. Il terremoto non ti ammazza, se costruisci bene. Lo fa la casa che ti crolla in testa. E non dimentichiamoci la scuola di San Giuliano di Puglia che ha sepolto tanti bambini; il terremoto in Umbria e nelle Marche, alla fine degli anni Novanta, e quello dell’Irpinia nel 1980. In ciascuno di questi casi, alla base c’è stata la speculazione. I Borboni a Messina, prima del terremoto del 1908, costruivano bene e imponevano norme severe. Poi si è iniziato ad andare eternamente in deroga. Ed è questo che fa la differenza rispetto a un sisma. Lo stesso discorso vale per il rischio di eruzione dei vulcani, il Vesuvio in particolare. Lì si consente di tirare su case fin quasi dentro il cratere, in una zona assolutamente da evitare. Sul Vesuvio non è neppure questione di costruire secondo le regole. Contro le nubi ardenti, vere e proprie bombe che prima o poi il vulcano farà esplodere, non c’è abitazione che tenga». Dalla terra e dal fuoco, all’incubo dell’acqua e del fango di fiumi e torrenti. «Oltre il 60 per cento del territorio nazionale è a rischio di frane e alluvioni. Nell’ultimo mezzo secolo, questo rischio, anziché diminuire come numero di eventi, è aumentato. Un po’ è dipeso dal cambiamento delle piogge. Sono divenute anche loro bombe, ma idriche; alluvioni improvvise che in poche ore scatenano la stessa acqua che un tempo cadeva in cinque o sei mesi. In più, l’Italia è un Paese geologicamente giovane, molto attivo, e quindi le frane

sono un fatto naturale. Ma qui finiscono i fattori e i parametri della natura, e cominciano quelli degli uomini. Sappiamo ormai da un ventennio che le piogge sono cambiate, eppure nessuno presta molta fede agli allarmi. Al contrario, chi amministra localmente tende a minimizzare. Perché ciò comporterebbe prendersi delle responsabilità: evacuare posti precisi, spostare le autovetture, fermare le attività produttive, chiudere le scuole. Tutte cose che gli amministratori locali non hanno voglia di fare e alle quali si aggiunge ciò che non fanno normalmente: manutenzione del territorio, delocalizzazione graduale delle costruzioni pericolose, maggior libertà ai fiumi. La responsabilità più grave di questi eventi va ricondotta alla mancanza di una pianificazione territoriale che tenga conto del rischio naturale. Le zone pericolose sono sempre le stesse. Posso già dire che il prossimo autunno o la prossima primavera la Liguria finirà sott’acqua, che ci saranno morti in Campania e in Calabria».

“Posso già dire che la Liguria finirà ancora s ott’acqua, che ci saranno ancora morti in Campania e in Calabria ”


Lei parlava, poco prima, della necessità di restituire ai fiumi la loro libertà. «Le zone pericolose di cui parlavo prima, lo sono diventate perché si è lasciato che la gente costruisse e vivesse dentro l’alveo dei fiumi. Se la pioggia cade, e oggi ne cade moltissima tutta insieme, non è più libera di infiltrasi nel sottosuolo. Dunque, il sottosuolo non funziona più come una spugna. L’acqua, a causa dell’asfalto e del cemento, rimane in superficie, riversandosi in un fiume commisurato per contenerne assai di meno. Oltre a ciò, si è costruito dentro gli alvei. E allora il fiume non può fare altro che portarsi via le case. È successo, continuerà a succedere. Si tratta di fare un passo indietro, lasciando i fiumi liberi di esondare prima dei centri abitati, di avere lo spazio per respirare. Ma anche quel territorio è occupato da insediamenti. Ed ecco che il problema si moltiplica. In alcune città – a Genova lo abbiamo visto, ma anche a Bologna, e soprattutto a Napoli e Palermo – i fiumi scorrono sottoterra, sono stati ‘tombinati’ per

costruirci sopra. Proprio perché scorrono sottoterra, non è possibile una loro manutenzione, non si può sgomberarli dai detriti. Così un giorno esploderanno. Tornando ai corsi d’acqua visibili, il fiume Vara, esondato a Borghetto, nel 1857 era largo 820 metri. Nel 2011, quando c’è stata l’alluvione, la larghezza del suo letto si era ridotta a 150 metri. Tutto il resto, che apparteneva al fiume, se l’erano mangiato gli uomini. E il fiume se lo è ripreso. Stesso discorso vale per il Magra. Nel 1959 si è costruito un argine ad Aulla. Un argine dell’acqua del fiume in quel momento, non del letto. Si è costruito dentro il letto, e quando l’argine è saltato con l’alluvione, le abitazioni sono state spazzate via. Siamo un Paese di montagna che fa finta di essere un Paese di pianura, pensiamo di vivere secondo altre regole. Siamo il Paese con il suolo più costruito al mondo».

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In queste pagine il servizio di Diego Mayon sull’alluvione che ha colpito la Lunigiana e le Cinque Terre il 25 ottobre 2011

www.eilmensile.it

Sul nostro sito La terra tradita, l’intervista a Mario Tozzi


“Nella Finanziaria del 2012 erano previsti circa 500 milioni di euro, peraltro spariti. Basterebbero solo a mettere in sicurezza Genova”

Cosa significa, questo, tradotto in cifre? «Il consumo di suolo in Italia, se ci mettiamo l’abusivismo difficile da quantificare esattamente, le nuove costruzioni, l’asfalto, le deforestazioni, gli incendi, è intorno ai duecentomila ettari l’anno. Ogni due/tre secondi c’è un metro quadro di cemento in più. Prendendo come raffronto il Regno Unito, là gli ettari annuali ammontano a dieci/quindicimila. L’Italia è troppo fragile per poter sostenere un consumo di suolo così devastante; per sopportare questa bulimia costruttiva, che include anche opere inutili come il ponte sullo Stretto». Capacità di prevedere, gestire, intervenire. Protezione civile, governo centrale, governi locali. A tragedie avvenute, le polemiche e la rabbia si scatenano puntualmente. «La Protezione civile, nel soccorso, funziona bene. Dopo il terremoto in Irpinia del 1980, ha avuto uno

sviluppo moderno. A volte si è occupata di cose che non le erano proprie (ride), ma il suo mestiere lo sa fare, ha ottenuto finanziamenti abbondanti, ha, dietro le spalle, una robusta ricerca. Per quel che riguarda la prevenzione, invece, il governo centrale non destina alla difesa del suolo quello che dovrebbe. Basti pensare alla Finanziaria del 2012, nella quale erano previsti circa 500 milioni di euro, peraltro spariti. Solo per mettere in sicurezza Genova ci vorrebbero tre o quattrocento milioni. Gli amministratori locali non spendono nella manutenzione del territorio, o lo fanno molto raramente, perché con questa scelta non guadagnano i consensi che arrivano invece dal rilascio delle licenze edilizie. Le licenze sono anche fonti economiche, insieme ai piani casa e ai condoni. Vengono colte come occasioni di sviluppo, ma in realtà contribuiscono al degrado del territorio. Il condono edilizio non dovrebbe mai essere concesso,


Che cosa non si fa è chiaro. Che cosa si potrebbe fare? «Occorre ‘rinaturalizzare’ il territorio sul medio e lungo periodo. Questo comporta un investimento di decine e decine di miliardi che nessuno è disposto a fare. Colpevolmente. Poiché sarebbe un’ottima occasione per creare posti di lavoro. Gli Stati Uniti, dopo la crisi del ’29, lanciarono il New Deal attraverso le grandi opere pubbliche, rimettendo in sesto il territorio. Noi potremmo fare lo stesso, con meno cemento di allora e molta ingegneria naturalistica. Purtroppo procediamo in ordine sparso, senza pianificazione paesistica, con i piani casa che aumentano le cubature. Tutte cose inammissibili in un Paese a rischio qual è il nostro». Come immagina il futuro, per quanto riguarda il discorso fatto sin qui: immerso in un buio pessimista, o illuminato da qualche ottimismo? «Tenderei a essere pessimista, ne ho viste troppe in tema di catastrofi e consumo del territorio. Se si ragiona, molti elementi di ottimismo non esistono. È anche vero, però, che non ci si può più permettere il lusso di essere pessimisti. Altrimenti si smette di lavorare per uscire fuori dall’attuale stato delle cose. Mi illudo,

Carlo Gianferro

tanto più nei luoghi a rischio. Lo stesso vale per gli ampliamenti dei piani casa. Aggiungo: la protezione del territorio fatta con l’ingegneria naturalistica non porta consensi perché è di per sé ‘invisibile’. Un ponte, o una casa, se lo ricordano tutti. Detto questo, una parte di responsabilità va data anche ai cittadini. La prima pietra dell’abusivismo, a volte, sono proprio i cittadini a posarla, con la complicità della mancanza di controlli. Se mi metto nei panni di uno che ha costruito aspettando i permessi, ha speso dei soldi per costruire bene, e si ritrova come vicino un altro che quei permessi non li aspetta, che spende la metà, e poi viene equiparato grazie a un condono, io sarei piuttosto incazzato. Anche per questo motivo, non si può convenire con chi chiede sempre lo stato di calamità naturale. Nell’ultimo anno, lo hanno fatto, per dissesto idrogeologico, quindici regioni. Nel momento in cui gran parte del territorio avanza puntualmente questa richiesta non si tratta più di una calamità, ma evidentemente di una ‘regola’. Inoltre, la possibilità di ricevere dei soldi extra fa venir meno il principio secondo cui un euro speso in prevenzione ne vale cinque in emergenza. Che porta con sé l’ulteriore vantaggio di risparmiare denaro pubblico».

quindi, che ci sia ancora una possibilità. E questa possibilità deve essere impugnata da amministratori armati di maggior coraggio. Il politico locale ragiona nei termini dei cinque anni del suo mandato e di un’eventuale riconferma. La memoria dell’uomo, così, è troppo corta rispetto a quella degli eventi del pianeta. Oppure occorre dare credito alle organizzazioni di base – molti sindaci ne fanno parte – che vedono nell’ambiente un campo da difendere. Forse la risposta è tutta nel famoso Glocal: avere coscienza e conoscenza del quadro globale rispetto alle varie problematiche della terra, agendo localmente per difendere il proprio giardino di casa».

o

Mario Tozzi Dopo la laurea in Scienze geologiche, prende il dottorato di ricerca in Scienze della Terra e diventa ricercatore del Cnr. Dal 1996 è divulgatore in materia scientifica, conducendo varie trasmissioni su RaiTre: “Geo & Geo”, “King Kong”, e, per quasi dieci anni, “Gaia”. Il passaggio a La7 lo vede al timone de “La Gaia Scienza”, e del nuovo programma “Allarme Italia”. Su RadioDue, è la voce del settimanale “Tellus”, in onda il sabato. Autore di diversi saggi sull’ambiente e sulla natura, è editorialista del quotidiano La Stampa e collabora con alcuni periodici.


le vittime, 34, anche danni inestimabili al patrimonio artistico della città. Lo stesso giorno in Triveneto, 18 persone persero la vita in seguito all’esondazione dell’Adige, del BrentaBacchiglione, del Piave, del Livenza e del Tagliamento. Alla fine del 1968, il 2 novembre, toccò al Piemonte: 72 morti, 58 nella sola Valstrona. Quarantuno anni fa, il 7 ottobre 1970, la tragedia colpì per la prima volta Genova: l’alluvione causata dalla caduta di oltre 900 mm d’acqua in 24 ore, uccise 44 persone. Sette anni dopo, il 7 ottobre 1977, i nubifragi di Piemonte e Val d’Aosta fecero 15 vittime. Durante l’estate del 1987, il 18 luglio, in Valtellina l’esondazione dell’Adda causò 53 morti. Il 15 novembre 1991 a Campi Bisenzio, Firenze, morì una persona. L’alluvione di Savona del 22 settembre dell’anno seguente costò la vita a tre persone. Nello stesso 1992 toccò di nuovo a Genova: il 27 settembre due persone morirono dopo l’esondazione dei torrenti Bisagno e Sturla. Solo un anno dopo, 23 settembre 1993, il capoluogo ligure finì di nuovo sui giornali in seguito all’esondazione dei torrenti Varenna e Leira: due morti e tre dispersi. Di settanta morti fu, invece, il bollettino dell’alluvione in Piemonte del 5 novembre 1994: il fiume Tanaro e una parte del Po esondarono dopo tre giorni di pioggia e la caduta di 600 mm di acqua in tre giorni. Nel 1995, il 13 marzo, la Sicilia orientale – Acireale, Giarre, Riposto e Mascali – fu colpita da forti mareggiate e dalla piena dei torrenti, che provocarono undici vittime. Qualche mese dopo, il 12 settembre, un’alluvione in Lombardia causò la morte di una persona. Nel 1996, due alluvioni sconvolsero la Versilia (19 giugno) e Crotone (14 ottobre): in Toscana morirono tredici persone, in Calabria sei. L’ultima tragedia del secolo scorso è quella che ha colpito Sarno e Quindici il 5 maggio 1998: il dissesto idrogeologico del monte Pizzo d’Alvano fu tra le cause della morte di 159 persone. Nicolò Zangirolami

Subito dopo le alluvioni che hanno colpito Genova, Barcellona Pozzo di Gotto, Merì e Saponara e causato la morte di nove persone, si è di nuovo scomodata la formula della “tragedia annunciata”. In realtà, oltre ogni considerazione di circostanza, l’Italia è il Paese in cui drammi del genere si sono puntualmente verificati nel corso dei secoli. Il 17 ottobre 589 una mancata manutenzione dei fiumi, insieme all’aumento delle piogge, provocò disastri strutturali in varie parti della penisola che oggi corrispondono a Veneto, Liguria e Lazio. Da quella data a oggi più 3.500 persone hanno perso la vita in alluvioni e inondazioni. È però negli ultimi sessant’anni che il numero delle vittime ha assunto proporzioni impressionanti: 1.464. Il 15 ottobre 1951, in 67 comuni calabresi morirono settanta persone in seguito a un’alluvione provocata dalla caduta di 1.770 millimetri di pioggia in quattro giorni. Meno di un mese dopo, l’8 novembre, la popolazione di Tavernerio, Como, fu messa in ginocchio dall’esondazione del fiume Cosia che era stato ostruito da un costone montagnoso distaccatosi dopo una pioggia di 120 mm in 24 ore. Le vittime accertate furono 15. L’annus horribilis in quanto ad alluvioni, il 1951, si chiuse solo pochi giorni dopo, il 14 novembre, quando nel Polesine persero la vita 84 persone in seguito allo straripamento del Po. Il 1953 è ricordato per l’alluvione in Val Trebbia, il 19 settembre, in cui morirono dieci persone; e quella a Reggio Calabria in cui la piena della fiumara del Valanidi causò la morte di 51 persone. L’anno seguente, il 25 ottobre 1954, a Salerno si registrò la più grossa alluvione del dopoguerra, la caduta di 500 mm di pioggia in meno di 24 ore causò la piena dei torrenti e la morte di 318 persone. Nel 1959 le piogge torrenziali colpirono prima Ancona, il 5 settembre, e poi il Metaponto, il 23 novembre. Le vittime furono rispettivamente dieci e undici. Il 1966, a tre anni dal disastro del Vajont, un’alluvione di portata straordinaria colpì Firenze il 4 novembre, provocando oltre

Giorgio Lotti

Secoli di tragedie annunciate

▲ Immagini dell’alluvione di Firenze del 1966

Sotto da sinistra a destra: l’alluvione di Sarno del 5 maggio 1998; lo straripamento del fiume Frassine a Prà di Botte, presso Saletto, Padova, del novembre 2010; il disastro che ha colpito il Messinese nell’ottobre del 2009.


I numeri del dissesto idrogeologico 68,9 per cento

la quota di comuni (5.581) in aree classificate a potenziale rischio idrogeologico più alto

7,1 per cento

la parte di superficie nazionale a potenziale rischio idrogeologico più alto

100 per cento

la quota di comuni a rischio potenziale più alto in Calabria, Umbria e Valle d’Aosta

11 per cento

la quota di comuni a rischio potenziale più alto in Sardegna

6,8 per cento

la parte di territorio nazionale interessato da fenomeni franosi

43 miliardi di euro

necessari per mettere in sicurezza il territorio italiano (27 al Centro-Nord, 13 al Sud, 3 per gli interventi di recupero delle coste)

10.000 vittime

Saya[lapresse]

Il 9 settembre 2000 nell’alluvione di Soverato, Calabria, persero la vita 13 persone dopo una pioggia di 441 millimetri in 24 ore. Il 13 ottobre dello stesso anno, lo straripamento del Po portò, in Piemonte, alla morte di 23 persone. Sempre nel 2000, dal 6 al 23 novembre, nella Riviera di Ponente, su Imperia e Savona, un’alluvione causò la morte di sette persone. Tre anni dopo, il 29 agosto 2003, in provincia di Udine morirono in seguito a un nubifragio due persone. Altre due rimasero vittime nell’alluvione che colpì Carrara il 23 settembre dello stesso anno. Nel 2008 due alluvioni colpirono Villar Pellice (Torino) il 29 maggio e Capoterra (Cagliari) il 22 ottobre, uccidendo rispettivamente quattro e cinque persone. Nell’estate del 2009, il 18 luglio, un’alluvione nel bellunese causò la morte di due persone. Il primo ottobre dello stesso anno, acqua e fango si riversarono su Giampilieri Superiore, Altolia e Briga Superiore nel comune di Scaletta Zanclea, Messina: una serie di colate detritiche raggiunse i centri abitati uccidendo 36 per-

sone. Il 9 settembre del 2010 ad Atrani, Salerno, una persona morì dopo l’esondazione del torrente Dragone. Un mese dopo, il 4 ottobre, a Genova Sestri Ponente, Varazze e Cogoleto le piogge alluvionali e il dissesto idrogeologico provocarono l’esondazione dei torrenti e una vittima. Il giorno dopo, 5 ottobre, un violento nubifragio a Prato causò tre vittime. Il 2010 si è chiuso con l’alluvione di Vicenza e della bassa padovana, il primo novembre, in cui sono morte tre persone. Solo nel 2011, infine, sono morte 26 persone durante diverse alluvioni: cinque in quella che ha colpito le Marche il 3 marzo e 12 in quella che si è abbattuta in Val di Vara, nelle Cinque Terre e in Lunigiana il 25 ottobre. A queste vittime si aggiungono le nove dello scorso novembre in Liguria e Sicilia: quelle di una “tragedia annunciata”. (antonio marafioti)

E

feriti o dispersi in Italia, tra il 1900 e oggi, a causa del dissesto idrogeologico

350.000

senza tetto e sfollati, tra il 1900 e oggi, a causa del dissesto idrogeologico

8 miliardi di euro

l’ammontare dei danni per alluvioni in Italia dal 1998 (anno della tragedia di Sarno) a oggi

480.000

i fenomeni franosi verificatisi in Italia tra il 1900 e oggi dati Legambiente 09/05/2010

La potenza della pioggia

Semplice pioggia o nubifragio? Lo si evince considerando i millimetri di pioggia che cadono in un’ora e che vengono misurati dai pluviometri. Ogni millimetro di pioggia raccolto dallo strumento in 60 minuti, corrisponde a un litro d’acqua che si riversa su un metro quadrato di suolo. Dall’intensità della pioggia dipende la classificazione del fenomeno atmosferico: Pioviggine (< 1 mm ogni ora) Pioggia debole (1-2 mm/h) Pioggia moderata (2-6 mm/h) Pioggia forte (> 6 mm/h) Rovescio (> 10 mm/h ma limitato nella durata) Nubifragio (> 30 mm/h)


Conversazione con Shirin Ebadi di

Christian Elia

foto Luca d’Agostino [phocus agency]

L’Iran che vorrei



Shirin Ebadi non dice mai nulla senza motivarlo. Con determinazione, come una toga che ti rimane addosso anche quando in un’aula di tribunale non ti fanno entrare più. Anche quando il diritto diventa arbitrio, quando il potere non vuole che esistano voci fuori dal coro. Shirin Ebadi cammina al fianco delle sue certezze, scolpite nei diritti umani e nella storia dell’umanità. Diritti così preziosi da diventare persino più importanti degli affetti privati, rimasti a vivere in Iran. “In Iran le persone non hanno smesso di lottare, di sognare, di immaginare un cambiamento. Non dovete pensarlo neanche per un momento”

Il tempo, quando si parla dell’Iran, sembra iniziare con la Rivoluzione Islamica, nel 1979. Come racconterebbe oggi il Paese in cui è nata e in cui lei era presidente di una sezione del tribunale di Teheran? «L’Iran è un Paese profondamente diverso, cambiato. Ma non solo per quello che immaginate tutti. Per iniziare va detto che all’epoca la popolazione era di circa trenta milioni di persone, mentre adesso siamo passati a settanta milioni. In un arco di tempo limitato, questo fattore non è meno rivoluzionario di quello politico. Allora si viveva un periodo di prosperità economica e una discreta libertà individuale. Portare il velo era una scelta personale. Nonostante ciò, quello che mancava era un’effettiva libertà politica, eravamo come bambini sotto la tutela dagli Stati Uniti, dai quali dipendevamo totalmente. Il simbolo di questa dipendenza è il colpo di Stato del 1953, deciso e pianificato a Washington, che depose il primo ministro Mohammad Mossadeq, un eroe nazionale per tutti noi. Dopo, la gente voleva la rivoluzione, sognava di riprendersi la propria dignità, affrancando il Paese da quella dipendenza per cambiare quell’ordine politico. Desideravamo una libertà politica che si sarebbe raggiunta solo attraverso la rottura del legame con gli Stati Uniti. Dopo la Rivoluzione, nel 1979, questo legame si è spezzato, ma è stato subito sostituito da un altro rapporto di dipendenza: quello con la Cina. Sul piano delle libertà personali, invece, abbiamo fatto un passo indietro, perdendone gran parte. Le donne, per esempio, da quel momento hanno dovuto indossare il velo: non portarlo è diventato un reato punito con sessanta frustate e con il carcere. Anche avere un’antenna parabolica è ritenuto un delitto. Non è questo l’Iran che sognavamo». Il mondo islamico cambia come mai prima. Egitto, Libia, Tunisia, ma anche Yemen, Siria e altri. Secondo molti è stata proprio l’insurrezione iraniana del 2009, dopo le elezioni, a fornire un modello di lotta a tanti giovani arabi. Dov’è finito quel movimento? «L’Iran è stato il primo Paese a protestare, ma il governo ha reagito con una repressione incisiva che ha rimesso a tacere la popolazione. La gente ha quindi

smesso di scendere in piazza perché si era rassegnata a quei metodi, non perché non credesse più nel bisogno di un cambiamento radicale. Gli arresti, le torture, le vittime hanno imposto un modello di violenza che ha ottenuto i suoi risultati. Le persone non hanno smesso di lottare, di sognare, di immaginare un cambiamento. Non dovete pensarlo neanche per un momento. Ma non è facile tenere salde le fila, non è facile sfuggire ai controlli e alla repressione che colpiscono nel cuo-


re delle famiglie, dei legami. È accaduto anche a me. Quando sono iniziati i moti, nel 2009, ero in Spagna per lavoro. In Iran hanno fermato mio marito e mia sorella, e hanno attaccato i miei collaboratori. Non avevo alcun ruolo in quell’insurrezione, se non simbolico.

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Potete immaginare la mia preoccupazione, la mia tensione. Ho scelto di vivere a Londra, per sfuggire a questa rete di controllo. Amo mio marito, amo mia sorella, ma più di tutto amo i diritti umani. La mia è stata una scelta costosa ma necessaria. Posso solo immaginare quante iraniane e quanti iraniani si siano sentiti in difficoltà di fronte a questa scelta. Tanti ne hanno fatta una differente. Non mi sento di giudicarli».

“Amo mio marito, amo mia sorella, ma più di tutto amo i diritti umani”



Mentre sembra come inabissato il movimento di protesta contro il governo, ecco che all’interno dell’establishment si intravedono crepe importanti. Alcuni osservatori hanno iniziato a scrivere che in Iran è in atto una sorta di lotta al vertice, tra l’Ayatollah Supremo, Alì Khamenei, e il Presidente della Repubblica, Mahmoud Ahmadinejad. Che cosa ne pensa? «Penso che sia vero. Ed è un passaggio epocale. In Iran si stanno giocando contemporaneamente tre sfide su fronti diversi. Da un lato c’è il rapporto tra la popolazione e il governo. Gli esiti di questo conflitto si sono visti appunto con le manifestazioni e le repressioni del 2009. In secondo luogo c’è il contrasto, duro come non mai, tra l’opposizione politica, i cosiddetti riformisti, e i radicali-conservatori. Oggi come oggi all’ex presidente Mohammad Khatami è stato anche negato il permesso di uscire dal Paese per tenere delle conferenze. Il confronto tra Khamenei e Ahmadinejad è la terza sfida, che in realtà si gioca sul fronte del potere. Questi due politici non hanno alcuna intenzione di confrontarsi sul piano del benessere del popolo, ma solo su quello del potere. Chi dimostra di avere più potere la spunterà. Ma sarà una lotta dura, molto dura. Soprattutto per il popolo iraniano». Cosa risponde a coloro che ritengono un intervento esterno, anche militare, l’unica opzione possibile per mutare gli equilibri sui quali si regge il governo degli Ayatollah? «Credo che qualsiasi intervento esterno, ancor più se militare, non possa che peggiorare la condizione della gente. Basta vedere che cosa è successo in Iraq e in Afghanistan. Non ero assolutamente d’accordo nemmeno con la guerra in Libia. Non serve a nulla e peggiora la situazione. Per l’Iran vale lo stesso discorso». Nella cosiddetta “primavera araba” il ruolo delle donne è stato fondamentale. Accadrà lo stesso anche in Iran? «È importante sottolineare che in Iran la condizione femminile non è mai stata pesante come nei Paesi della nostra area geografica. Penso all’Arabia Saudita. Le donne iraniane hanno un’ottima preparazione: costituiscono il 65 per cento degli iscritti all’università. Ottennero il diritto al suffragio nel 1963, prima ancora che in Svizzera, dove cominciarono a votare solamente nel 1971. Attualmente il nostro ministro della Sanità è una donna. Conservatrice. Quello di cui ci lamentiamo sono le leggi contro le donne che il governo ha varato, ma non c’è occasione che le iraniane perdano per manifestare tutta la loro disapprovazione. E nel 2009 le donne per le strade erano davvero tante. Non a caso il simbolo di quella lotta è la povera Neda, uccisa dal fuoco della polizia durante le manifestazioni. È netta la percezione che il governo stia anzitutto ostacolando il mondo femminile, ma è altrettanto netta la forza con la quale le donne si oppongono a questo soffocamento». Le nuove generazioni, nel mondo arabo e islamico, si allontanano sempre di più dai vertici politici. In molti casi, si avvicinano alla religione. Come giudica quanto sta accadendo? «Quello che posso dire è che tento di capire. Tento di mettermi nei panni di una giovane donna e comprendere che cosa ci sia dietro la sua religiosità e le

motivazioni che la spingono a portare il velo. Quella donna non ha solo lottato per cacciare un dittatore al potere, come in Egitto, ma anche per gridare la sua reazione all’occidentalizzazione culturale che quello stesso dittatore aveva portato nel Paese, grazie agli appoggi e al sostegno del mondo occidentale. Durante il governo Nasser il suo Paese era occupato dagli israeliani, sostenuti dagli Stati Uniti e dall’Occidente intero, che poi hanno aiutato lo stesso Mubarak a salire al potere. Con la rivoluzione e la sua cacciata, il nemico non è scomparso del tutto perché l’Occidente è comunque corresponsabile della politica egiziana degli ultimi decenni. Il velo per quella donna è un simbolo di opposizione e di sfida all’Occidente. Tuttavia questa reazione potrebbe non durare a lungo, perché il mondo occidentale ha sostenuto con tutte le forze le rivoluzioni arabe. Se ciò non fosse accaduto il panorama sarebbe peggiore. In ogni caso il problema non è la religione, ma quello che essa vela, ovvero il rapporto-scontro con l’Occidente». Il velo, l’Occidente. Sono anni difficili, dall’inizio della guerra al terrorismo fino alla “fine del multiculturalismo” denunciato anche da autorevoli uomini e donne della politica europea. Hanno ragione? «Se il modello del multiculturalismo occidentale ha fallito è perché, evidentemente, non c’erano nemmeno le basi per realizzare una convivenza. È molto probabile che non si sia mai raggiunto un rapporto di vicinanza e “mutua comprensione” tale da poter permettere una multiculturalità. Chi si occupa delle attività più umili in Occidente? Chi vive nei sobborghi e nelle aree urbane più povere? Gli immigrati, non certo i cittadini europei. I genitori hanno paura che a scuola i loro figli siedano accanto a bambini che portano un cognome arabo. La legge formalmente non è discriminatoria, ma lo è il comportamento e lo sguardo sprezzante delle persone nei confronti dello straniero. In Norvegia, per esempio, il massacro del 22 luglio è il sintomo di una mancata corretta convivenza. È la dimostrazione che il progetto risulta impossibile quando nel cuore delle persone alberga solo l’avversione verso l’altro. Il multiculturalismo è morto nella sua forma in vitro, ma vive ogni giorno, in ogni vicolo europeo e di tutto il mondo. Da quello bisogna ripartire. Perché stare assieme, tutti diversi, non è una scelta».

B L’incontro con Shirin Ebadi è avvenuto al festival musicale Rototom Sunsplash, a Benicassim, in Spagna, grazie agli organizzatori che da tempo affiancano ai concerti una serie di incontri di riflessione e dibattito. www.rototomsunsplash.com

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Dai diritti civili al premio Nobel Shirin Ebadi nasce ad Hamadan, nell’Iran nordoccidentale, il 21 giugno 1947 da una famiglia di giuristi della quale segue le orme, diventando lei stessa avvocato. Una carriera fulminante la sua, in magistratura, che la vede nel 1979 diventare presidente di una sezione di un tribunale di Teheran. Nel 1979 in Iran scoppia la Rivoluzione. L’applicazione rigida della legge islamica comporta, per l’avvocato Ebadi, l’obbligo di dimissioni dalla sua carica che non poteva essere occupata da una donna. Fino al 1992, quando le venne concesso di aprire uno studio legale. Da anni si occupa di diritti umani. Nel 1994 ha fondato la Society for Protecting the Child’s Rights e ha difeso decine di persone dalle accuse del regime. Il 10 dicembre 2003 le viene conferito il Premio Nobel per la pace, prima iraniana e prima donna musulmana a ottenere questo riconoscimento. Il suo appoggio ai riformisti, nel 2009, le è valso il bando dal Paese. Adesso vive a Londra, ma non smette di battersi per i diritti umani.

“È netta la percezione che il governo stia anzitutto ostacolando il mondo femminile, ma è altrettanto netta la forza con la quale le donne si oppongono a questo soffocamento”


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10 novembre, Europa

Benefici della crisi. Per il secondo anno consecutivo, le emissioni di Co2 dovute ai trasporti sono calate nell’Unione europea. Il settore continua a contribuire per un buon 24 per cento alle emissioni di gas serra in Europa, ma la conferma del calo potrebbe costituire una vera e propria inversione di tendenza, secondo Jacqueline McGlade, direttore della European Environment Agency. Un’opportunità da cogliere al volo: «L’Europa deve convincersi che possedere un’automobile non è necessario – dice McGlade – dato che la gente diventa economicamente meno sicura, il car sharing può rivelarsi un’ottima opzione».

15 novembre, Sud Sudan

L’esercito del Sud Sudan libera 53 bambini soldato che erano stati utilizzati per combattere i ribelli del South Sudan Liberation Army (Ssla). Hanno tutti tra i 13 e i 17 anni. La quarta divisione dell’Spla (Sudan People’s Liberation Army) consegna i ragazzi ai funzionari del South Sudan Disarmament Demobilization and Reintegration Programme (Ssddr) che, precedentemente, aveva condannato il loro arruolamento forzoso. I bambini soldato sono stati ampiamente utilizzati nei vent’anni di guerra civile tra il Sud e il Nord del Sudan.

15 novembre, Norvegia

Una mela al giorno toglie il medico di torno. Ma il kiwi fa meglio. Una ricerca norvegese ha infatti rivelato che consumare kiwi tre volte al giorno riduce la pressione arteriosa più della canonica mela. La buona notizia è amplificata dal fatto che l’Italia è il maggior produttore mondiale di kiwi.

16 novembre, Italia

Il Consiglio di Stato dichiara illegittima la cosiddetta “emergenza nomadi” che, dal 2008, consente sgomberi forzati e altre violazioni dei diritti umani in diverse regioni italiane: Lazio, Campania, Lombardia, Piemonte e Veneto.

17 novembre, Israele

Un salto fuori dall’estinzione. Il Discoglossus nigriventer, o “rana di Hula”, di cui si erano perse le tracce da mezzo secolo e che era stato dichiarato ufficialmente estinto nel 1996, è ricomparso nel Nord di Israele, suo unico habitat. A memoria umana, ne erano finora stati trovati solo cinque esemplari, quattro negli anni Quaranta e uno negli anni Cinquanta. In seguito, il prosciugamento delle paludi dell’area, per sconfiggere la malaria e rendere le terre arabili, aveva fatto sparire le rane e temere la loro totale estinzione. Finora ne è stato rinvenuto un solo esemplare, immediatamente messo sotto protezione. La rana di Hula è contraddistinta da un ventre nero chiazzato di bianco e una varietà di colori che va dall’ocra alla ruggine, fino al verde oliva, al grigio e al nero.

21 novembre, mondo

I nuovi casi di positività all’Hiv e le morti per Aids continuano a calare. Inoltre le cure raggiungono ormai il 50 per cento dei soggetti interessati, nonostante si registri ovunque un calo dei finanziamenti. Lo dichiara un rapporto Unaids, programma delle Nazioni Unite per coordinare l’azione globale contro l’Aids.

21 novembre, Europa

La Commissione europea propone una legge che vieti lo shark finning – la pratica di catturare squali, tagliare loro la pinna dorsale e rigettarli in mare vivi – in tutte le acque del continente e per tutti i natanti appartenenti all’Unione europea. Nel solo 2009, i pescatori europei hanno pescato squali e razze nelle acque di tutto il mondo per oltre 110mila tonnellate, ponendo l’Unione al secondo posto, dopo l’India, nella classifica globale della caccia a queste specie. Spagna, Francia, Portogallo e Gran Bretagna rappresentano oltre il 90 per cento del totale, con la sola Spagna ben oltre il 50 per cento. La Cina è il maggiore importatore di pinne di squalo, ingrediente fondamentale per l’omonima zuppa, e l’Ue è il suo principale fornitore. Una pinna può costare fino a mille euro. In Europa, un terzo delle specie di squalo è a rischio estinzione.

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22 novembre, Cina

Un numero di cinesi equivalente all’intera popolazione francese è uscito dalla povertà nel giro di un decennio. Lo rivela il libro


bianco Nuovo progresso nello sviluppo della riduzione della povertà nella Cina rurale, pubblicato dall’Ufficio informazioni del Consiglio di Stato. Nell’immenso Paese, il problema della povertà è strettamente collegato a quello del rapporto città-campagne e al tentativo di rendere “armoniosa”, senza squilibri regionali, la crescita economica a doppia cifra degli ultimi anni. Secondo il white paper, la popolazione rurale in difficoltà è passata da 94,22 milioni a fine 2000, a 26,88 milioni alla fine del 2010. In percentuale, si è scesi dal 10,2 per cento del 2000 al 2,8 del 2010. Il governo cinese definisce “gente povera” coloro che guadagnano meno di 1.274 yuan (circa 150 euro) l’anno. Quota alzata nel 2010: prima era “povero” chi guadagnava 865 yuan (poco più di 100 euro) l’anno. In parallelo è sceso di cinque punti percentuali anche l’analfabetismo che, ora, è al 7 per cento. Se l’intera “Francia” è stata sottratta alla povertà, è tuttavia lo stesso libro bianco a riconoscere che “gli attuali 26,88 milioni di persone povere cinesi sono uguali a tutta la popolazione del Texas, il secondo più grande Stato degli Usa in base alle dimensioni della popolazione”. La lotta alla povertà resta dunque una priorità nazionale.

29 novembre, Mozambico

Un particolare tipo di patata dolce potrebbe salvare molte vite umane in Mozambico, dove la popolazione è afflitta da una forte deficienza di vitamina A. Secondo uno studio triennale dell’International Food Policy Research Institute (Ifpri), la cosiddetta “patata dolce arancione” contiene un’alta percentuale di beta-carotene e può fornire alla gente il necessario apporto vitaminico quotidiano. La deficienza di tale sostanza può causare cecità infantile e, nelle donne in gravidanza, aumenta il rischio di mortalità da parto. In Mozambico, si stima che circa 2,3 milioni di bambini sotto i cinque anni di età soffrano di carenza di vitamina A.

necessaria alle comunità locali, che potranno disporre di aree da mettere a coltura e da utilizzare per lo sviluppo». In particolare, i terreni ripuliti dalle mine saranno destinati ad agricoltura, allevamento, alla costruzione di infrastrutture e di una diga. E soprattutto, i ragazzi potranno andare a scuola senza correre rischi.

6 dicembre, Italia

Milano, da gennaio mezzi pubblici gratis per disoccupati, cassintegrati e giovani precari. La giunta stanzia 500mila euro per abbonamenti destinati alle fasce deboli della popolazione. Il provvedimento entra in vigore dal 1 gennaio 2012.

6 dicembre, Germania

L’Spd (partito socialdemocratico tedesco) dichiara che, se tornerà al governo, tasserà maggiormente i redditi più alti. Anzi, questo dovrebbe essere il punto qualificante del programma politico in vista delle elezioni del 2013. Se la coalizione di centrosinistra vincerà, i tedeschi che rientrano nella fascia di reddito più elevata saranno tassati al 49 per cento, contro il 42 attuale. Da notare che era stato proprio l’ultimo governo Spd-Verdi a ridurre l’aliquota. Al contempo, non passa la proposta dell’ala sinistra del partito di istituire una “tassa sui ricchi” che comporterebbe un ulteriore 3 per cento per i redditi sopra i 125mila euro.

2 dicembre, Burundi

Uno dei Paesi più poveri e densamente abitati del pianeta viene ufficialmente dichiarato “libero” dalle mine antiuomo. Lo sminamento, che fa seguito a una guerra civile decennale, è stato effettuato con la collaborazione della charity bitannica Mag (Mines Advisory Group), già vincitrice del Premio Nobel per la pace e finanziata dal ministero degli Esteri svizzero. Fino al 2010 non si poteva ancora procedere al disinnesco delle mine nella zona nord occidentale del Paese poiché i combattimenti erano ancora in corso. Oggi, la responsabile locale del Mag, Julie Claveau, dichiara: «Con il completamento dello sminamento, si potrà fare buon uso della terra così

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Gianni Schicchi [giacominofoto/fotogramma]

di

Maledetta

Natascia Ronchetti

Tra le storie che rifiutano il passato remoto, che continuano a far male anche a molti anni di distanza e dopo che la giustizia ha fatto, come si dice, il suo corso, questa ha un posto d’onore. Perché erano poliziotti a trucidare colleghi e giovani senegalesi e a tornare a mettere la divisa la mattina dopo; perché ci sono voluti anni di veleni e ipotesi dietrologiche e una città intera, Bologna, a chiedere giustizia; perché qualcuno, magistrato o poliziotto, si è visto cambiare radicalmente la sceneggiatura della propria vita. E ora lo racconta, dopo molto silenzio e a qualche giorno dall’anniversario della strage del Pilastro


Uno bianca


Parla il magistrato

Daniele Paci, il magistrato riminese che li ha catturati, dice che la storia della banda della Uno bianca è anche una storia squallida di denaro. «Nessuno riesce a rassegnarsi all’idea che fossero poliziotti e che abbiano ucciso ventiquattro persone per soldi. Alberto era in servizio a Ferrara e ne aveva bisogno per andare a trovare la fidanzata che stava in Romagna, Roberto doveva pagare il mutuo, Fabio aveva perso il lavoro di carrozziere». Il conto: due miliardi di lire in più di sette anni, spartiti con gli altri poliziotti complici, Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti, Luca Vallicelli, una catena di omicidi, centodue feriti, dal 19 giugno del 1987 al 21 ottobre del 1994, e, in questa scia di sangue, l’eccidio al quartiere Pilastro di Bologna. Erano tre giovani carabinieri, vennero uccisi il 4 gennaio di ormai ventuno anni fa: i Savi temevano un controllo, li massacrarono. Daniele Paci è uno che lesina le dichiarazioni. Avrebbe voluto fare il ragioniere. Poi la mafia ammazzò Pio La Torre, era il 1982, e lui, un passato nella Fgci, scelse la magistratura. È dal 1994 che tace, ha concesso poche e scarne parole un anno fa a Giovanni Minoli, poi di nuovo il silenzio. Troppi orrori ma anche troppi veleni e una feroce guerra tra procure: quella di Bologna che inseguiva l’ombra di servizi segreti deviati, quella di Rimini, la sua, che affossava l’ipotesi di un terzo livello. «Dietro la Uno bianca – dice Paci – si nascondeva solo una catena di errori. Per ogni singolo omicidio che commettevano c’era una spiegazione, i Savi non potevano accettare di essere riconosciuti e ubbidivano a una logica forte: dovevano mettersi al riparo da ogni sospetto e uccidevano, per non lasciare testimoni. Costruire terzi livelli è facilissimo, soprattutto per una certa cultura dietrologica di sinistra. Se ci fossero davvero stati, forse anche per me sarebbe stato meglio. Ma alle spalle dei Savi non c’era nessuno. Per questo ho combattuto in ogni modo l’idea del mistero, non volevo lasciare zone d’ombra».

[studio fn giacominofoto/fotogramma]

Ada Di Campi siede insieme al marito a un tavolo del bar della stazione ferroviaria di Rimini, lo sferragliare dei treni e i ricordi la costringono a interrompersi più volte. Poi soffia fuori ciò che più le brucia: «Questa è una storia che non si chiuderà mai», dice. Aveva ventidue anni, agente di polizia fresca di arruolamento, brindisina dirottata al commissariato riminese con molte aspettative e altrettanti desideri, quando i fratelli Savi le piantarono otto pallottole in corpo. Era il 3 ottobre del 1987, qualche proiettile vive ancora con lei, zoppica un po’, dopo molte operazioni e un interminabile peregrinare tra psichiatri e psicologi per «vincere la paura di continuare ad avere paura», per ingoiare il rospo del tradimento che le sta ancora lì, come un groppo in gola. Sono trascorsi ventiquattro anni, lei allora indagava su un tentativo di estorsione nei confronti di un concessionario riminese da parte di Fabio, il “lungo” della banda della Uno bianca e i suoi due fratelli poliziotti, Roberto, il più vecchio, freddo e schivo, e Alberto, il più piccolo, quello che Ada incrociava nei corridoi del commissariato. Al processo gli ha sputato in faccia. «Per forza ci sono voluti anni per scoprirli, erano poliziotti come me», dice Ada. «Quando ho saputo che erano colleghi sono andata fuori di testa, è stato come se mi avesse tradito mia madre. Pensare che si alzavano ogni mattina, indossavano la divisa e poi facevano rapine, uccidevano... Mi hanno devastato l’esistenza».


Zakaria Zubeidi

Dei delitti e delle pene La prima rapina commessa dalla banda della Uno bianca risale al 19 giugno del 1987, quando inizia la fase dei colpi ai caselli autostradali, tra Romagna, Pesaro, Bologna. Ad agire, inizialmente, sono solo i tre fratelli Savi, Roberto, Fabio e Alberto, che successivamente coinvolgeranno altri poliziotti: Marino Occhipinti, Pietro Gugliotta e Luca Vallicelli. Il primo triplice tentato omicidio è del 3 ottobre dello stesso anno, quando in un conflitto a fuoco con la polizia di Rimini, che sta indagando su un tentativo di estorsione ai danni di un concessionario da parte dei tre fratelli, restano feriti gravemente due agenti. Il gruppo alza il tiro nel gennaio del 1988: tenta una rapina a una coop di Rimini, uccide una guardia giurata e ferisce altre sei persone. Con una escalation di colpi, 103 in otto anni fino al 21 ottobre del 1994, poche settimane prima della cattura,

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Gaetano Amici [giacominofoto/fotogramma]

Fabio e Roberto Savi durante il processo

Così dalla sua indagine sono arrivati duecento riscontri alle confessioni dei Savi, rovesciati uno dietro l’altro davanti ai giudici della Corte d’Assise. Quella di Bologna era presieduta da Libero Mancuso, che ha indagato anche sulla strage di Bologna, «ed è difficile – dice Paci – fregare uno che ha lavorato sui servizi deviati».

All’inizio, quando Eva Mikula, fidanzata di Fabio, li evocò, Paci convocò Luciano Baglioni e Pietro Costanza, i due poliziotti riminesi che avevano individuato i Savi, chiese loro se dovevano riferire tutto ai superiori, cominciò a telefonare impaurito dalle cabine telefoniche, temendo di essere intercettato. Nessuno si fidava più di nessuno. La pista dei servizi deviati svanì rapidamente, tutte bugie quelle raccontate da Fabio alla compagna, solo per giustificare il possesso di armi, conclusione sulla quale i giudici apposero poi il sigillo. La fiducia tornò intermittente, prudente e guardinga. Ma in alcuni casi non è più tornata.

La fiducia perduta

Libero Mancuso: la lezione non è servita «Sette anni di crimini impuniti, indagini sbagliate, accertamenti omessi per miopia e incapacità». Libero Mancuso, ex giudice, era il presidente della Corte d’Assise di Bologna che ha giudicato i fratelli Savi e i loro complici. «C’era una forte pressione della collettività che chiedeva di trovare i colpevoli di delitti così efferati», ricorda oggi. «Questo ha portato a bypassare la qualità delle indagini, con due pezzi della magistratura schierati, ognuno con la propria tesi». Criminalità organizzata, servizi segreti... «Tutte fantasie che vanno bene per uno scrittore», dice Mancuso, che è stato assessore nella giunta di Sergio Cofferati e rammenta quando anche l’ex segretario della Cgil diceva ai bolognesi che era necessario ancora fare chiarezza, che mancavano i mandanti. «Presunzione», attacca. «Dietro ai Savi c’è sempre stata solo una cultura deviata frutto di una ideologia reazionaria, dell’assenza di valori, della smania di accaparramento di denaro. Erano solo poliziotti criminali cresciuti con un padre fascista, violento e sopraffattorio». Ma la lezione non è affatto servita, sostiene Mancuso, che oggi fa l’avvocato. Né alla magistratura «che talvolta continua a commettere errori, piegandosi alle regole della ragione di Stato, abdicando all’obbligo di un controllo rigoroso dei fatti e delle prove, con una caduta della giurisdizione che costituisce un grave e serio pericolo per i cittadini». Né alla polizia, «basti pensare al massacro di persone innocenti, nel 2001, al G8 di Genova, con i responsabili che invece di essere cacciati sono stati promossi». Difficile archiviare tutto, ancora di più dopo una relazione sulla questura di Bologna, «quella di Achille Serra, che è stata solo una raccolta di pettegolezzi, tanto che non l’ammettemmo nemmeno al processo. Poi è arrivato un questore, Francesco Cirillo, che ha cercato la riconciliazione con la città. E in quel momento ha avuto anche qualche successo. Ma di fronte a lutti così gravi è difficile sanare le ferite».

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Costanza, per esempio, siciliano di Lampedusa, 35 anni in polizia, oggi da due in pensione, uno che ha sempre seguito una sola, semplice regola nelle investigazioni («Allontanare le coincidenze che emergono, quando si ripetono andare avanti nelle indagini»), la fiducia non l’ha recuperata più. «Tutto ciò in cui avevo sempre creduto mi è crollato addosso. Ho avuto paura, io e Luciano siamo stati abbandonati dal ministero, la solitudine mi si è infilata sotto la pelle. Non mi fidavo più della magistratura, della polizia. Anche per questo sono andato in pensione prima. Quando un gioco si rompe non lo puoi più utilizzare, nemmeno se tenti di ricomporre i pezzi. Mi sono imbattuto nei Savi e hanno deviato il corso della mia vita». Anche la vita di Paci è cambiata. Per molti anni ha voltato le spalle, amareggiato, alla magistratura inquirente, si è seppellito a Pesaro a fare il giudice, è tornato in una Procura, quella di Palermo, solo pochi mesi fa. Avrebbe voluto gettare la spugna quando il Csm aprì un procedimento disciplinare contro di lui, per aver comunicato tardivamente alla Procura di Bologna che una sua conoscente – un’infermiera che frequentava la casa dei Savi – aveva visto un’arma sotto il letto di Fabio. Senza saperlo Paci era già sulla pista giusta, anche se in quel momento valutò debole l’indizio, poiché il “lungo” di armi ne possedeva ben cinque. E difatti, dopo solo undici mesi dalla costituzione di un pool investigativo, mise le mani sui tre fratelli, mentre a Bologna indagavano da sette anni e nel frattempo avevano mandato a processo, basandosi su testimonianze che si erano poi rivelate false, camorristi e malavitosi di quartiere. «Io alla fine mi sono ritrovato con un ammonimento, e ancora mi brucia», ammette Paci, che all’epoca aveva solo due anni e mezzo di servizio alle spalle. «Eppure nessuno era stato capace di prenderli». Il fatto è che alla ricostruzione di come il “lungo” sia stato individuato hanno sempre creduto in pochi, persino Gianni De Gennaro ha seminato dubbi a man bassa tra i famigliari delle vittime. Storia nota al ministero, storia di vendette, rancori e sfregi indelebili. Baglioni e Costanza avevano stampata nella testa l’unica immagine di Fabio, un fotogramma estratto dal filmato di una rapina; appostati davanti a una banca, possibile obiettivo, avevano notato un’auto che li aveva insospettiti, l’avevano seguita fino a Torriana, alle spalle di Rimini, poi avevano fatto bingo all’anagrafe, dopo aver chiesto una fotografia del proprietario della vettura. Versione troppo strampalata, dice Paci, per dubitare che non fosse vera, per ipotizzare la copertura di una soffiata: «Gli altri inseguivano ipotesi fantasiose, noi seguivamo


la banda prende di mira banche, uffici postali, distributori di benzina, facendo ricorso anche a esplosivo e uccidendo in tutto 24 persone. Il gruppo si muove sempre tra il capoluogo emiliano, Rimini, Ravenna, Forlì, Cesena, Pesaro. Proprio a Bologna assalta anche un’armeria (2 morti) per procurarsi armi che i Savi si divertiranno a usare contro tre immigrati senegalesi, uccidendone due. Il 4 gennaio del 1991, i tre fratelli incrociano un’auto dei carabinieri, nel quartiere Pilastro di Bologna. A bordo ci sono tre giovani militari, i Savi, temendo un controllo, li uccidono. Il processo a carico dei membri della banda è stato suddiviso in tre tronconi, a Bologna, Rimini e Pesaro. I tre fratelli e Marino Occhipinti sono stati condannati all’ergastolo.

la pista delle armi. Se rendi tutto più complicato credi di essere più intelligente. Ma come diceva Enrico Berlinguer è più difficile parlare facile».

Veleni e bugie

La verità forse sta nel fatto, come dice Costanza, che «gli altri ragionavano in grande e noi ragionavamo in piccolo. Quando sono andato a testimoniare al processo sembravo io l’accusato, non mi sono mai sentito così mortificato, e intanto Roberto mi guardava con un sorrisino stampato sulla faccia. In quegli undici mesi avevamo sempre lavorato su due ipotesi. Pensavamo che la banda fosse costituita da appartenenti agli apparati dello Stato, per come agivano: addestrati. Ma anche che fossero persone annoiate dalla vita, che cercavano adrenalina uccidendo. Non si spiegava altrimenti la sequenza di una rapina da trecento milioni un giorno e l’assalto a un distributore per pochi spiccioli il giorno dopo». Quando alla Questura di Bologna piombò da Rimini l’ordine di perquisizione della casa di Roberto, i poliziotti non volevano eseguirlo. I Savi avevano già beffato tutti. Alberto, chiamato a indagare sulle prime rapine ai caselli autostradali, Roberto con tanto di encomio: dopo la rapina a una tabaccheria di Bologna e l’esecuzione, due colpi alla testa, di un testimone (Primo Zecchi), aveva chiesto di sconfinare dalla propria zona di servizio per cercare l’auto rubata e ovviamente l’aveva ritrovata. Nemmeno l’identikit tracciato da un testimone dopo l’assalto a un’armeria di Bologna (due morti) per procurarsi armi, aveva scalfito le certezze della polizia. Eppure era il ritratto di Roberto, che dopo l’assalto era stato spedito lì a fare servizio d’ordine. Per uccidere utilizzava come gli altri pallottole in uso alle forze dell’ordine, i carabinieri avevano fatto indagini interne, la polizia mai. Arrivò il prefetto Achille Serra, dopo, a rovistare la Questura. Un’isola di clientele e di indagini bloccate da rivalità, scrisse nella sua relazione, dove raccolse anche molte, forse troppe, chiacchiere da corridoio. In viale Lenin, a Bologna, c’è un monumento dedicato alle vittime, fra pochi giorni si commemorerà l’eccidio del Pilastro. Il direttivo dell’associazione dei famigliari delle vittime si riunisce due volte all’anno nella casa di via Varthema della vedova di Primo Zecchi, Rosanna. Al processo, quando entrava il questore, tutti loro si alzavano e si allontanavano. I tre fratelli Savi e Marino Occhipinti sono stati condannati all’ergastolo, 28 anni di carcere, tre in isolamento: il massimo. «Oggi ci siamo un po’ riavvicinati alla polizia però la ferita non si rimargina», dice Rosanna. Il dolore si è attenuato, ma tutti affondano ancora in un pantano di rabbia. Quando si profila un permesso premio, uno spostamento da un carcere all’altro, come l’ultimo, che ha consentito a Fabio Savi di avvicinarsi alla moglie, votano per alzata di mano. E all’unanimità dicono no a qualsiasi forma di clemenza e perdono. «C’era chi non aveva i soldi per pagare il funerale, vedove con figli piccoli senza un lavoro. Il risarcimento, circa centocinquanta milioni di lire a testa, ci è servito in parte per pagare gli avvocati, in parte per tirare avanti. Fra qualche anno i Savi saranno fuori, noi resteremo vittime per sempre».

v

Per Pietro Gugliotta, che non ha partecipato alle azioni omicide, sono scattati 18 anni di carcere. Grazie all’indulto e alla legge Gozzini, ha finito di scontarli nel 2008, quando è stato scarcerato. Luca Vallicelli, agente di polizia stradale a Cesena e componente minore del gruppo (ha partecipato alle prime rapine, che si sono concluse senza omicidi, per poi defilarsi), ha patteggiato una pena a tre anni e otto mesi. Roberto Savi, Marino Occhipinti e Pietro Gugliotta erano in servizio alla Questura di Bologna. Alberto Savi, dopo un periodo alla Questura di Ferrara, era stato spostato al commissariato di Rimini.

Si ringraziano L’Europeo, il Corriere della Sera e la Repubblica per la collaborazione


L’Italia è una Repubblica a cura di

8 novembre, Livorno

Angelo Bernardini, autotrasportatore di 57 anni, residente a Foligno, è morto mentre caricava cellulosa sul suo camion nel porto di Livorno. Secondo i primi accertamenti, sarebbe caduto dal pianale del mezzo.

9 novembre, Catania

Un elicottero del 118, decollato dall’ospedale di Caltanissetta, si è schiantato su una collina, nei pressi di Ramacca, all’interno di un parco eolico, probabilmente a causa della scarsa visibilità. Nell’incidente è rimasto ucciso il copilota Sergio Torre, 43 anni.

L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro è il nostro osservatorio sulle morti bianche. Si tratta di un elenco parziale e incompleto, ricavato da fonti secondarie, degli infortuni mortali avvenuti tra l’8 e il 28 novembre. A cura di rassegna.it, sito d’informazione su lavoro, politica ed economia sociale, che dal settembre 2010 porta avanti un monitoraggio quotidiano delle vittime.

9 novembre, Marsciano (Pg)

16 novembre, Cerda (Pa)

Un operaio dell’Amap (ex municipalizzata che gestisce la rete degli acquedotti di Palermo), Antonio Cinquemani, è stato investito da un getto d’acqua fuoriuscito da un tubo, a una pressione di oltre venti atmosfere. L’uomo, 47 anni, è stato sbalzato a una decina di metri.

16 novembre, Torano (Ms)

Enrico Mauceri, 32 anni, cavatore di marmo di 32 anni, è morto folgorato da una scarica elettrica nel bacino di Torano. Mauceri si trovava nei pressi di una cabina, all’interno di una cava.

16 novembre, Morano Calabro (Cs)

Il muletto sul quale stava lavorando si è ribaltato. Così ha perso la vita un operaio romeno di 27 anni, al lavoro in un’azienda agricola di Papiano Scalo, frazione di Marsciano.

Stava guidando un carrello elevatore per trasportare materiale, quando il mezzo si è ribaltato. Così ha perso la vita Fabio Bruno, 27 anni. Il ragazzo era al lavoro in uno dei cantieri della A3, la Salerno-Reggio Calabria, nel tratto fra Marano e Campotenese.

10 novembre, Sasso Marconi (Bo)

16 novembre, Roma

Alfredo Gasperini, 49 anni, viene travolto dall’albero che stava tagliando, all’interno di un terreno privato.

11 novembre, Oggebbio (Vb)

George Zaarja, operaio romeno di 36 anni, era al lavoro in un cantiere stradale a Ponte Galeria, una paratia metallica di circa sei quintali si è staccata dall’alto e lo ha schiacciato, probabilmente per un errore di manovra di un mezzo in superficie.

Un giardiniere di 41 anni, Fabio Zanni, muore per le ferite riportate in un incidente avvenuto nove giorni prima. L’uomo, un giardiniere, era caduto da un tetto sul quale stava installando piante ornamentali.

17 novembre, Pieve d’Alpago (Bl)

12 novembre, Casazza (Bg)

18 novembre, Narni (Tr)

Emilio Moroni, operaio di Urgnano, stava costruendo una casa di riposo per anziani. Un cassone di calcestruzzo si è staccato dalla gru, schiacciandolo. Aveva 62 anni.

13 novembre, Milano

Un operaio di 41 anni stava lavorando nella tromba di un ascensore quando è caduto da un’altezza di circa tre metri.

15 novembre, Trapani

Salvatore Amoroso, agricoltore di 76 anni, è morto schiacciato dal suo trattore. Stava raccogliendo olive nelle campagne di Trapani.

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Stava tagliando alberi nella sua proprietà quando un tronco lo ha travolto. Così è morto Tiziano Daltin, cofondatore dell’associazione Trevisani nel mondo.

Un operaio albanese di 25 anni è precipitato da un’altezza di circa dieci metri mentre effettuava lavori sul tetto di un capannone a Ponte Aia.

18 novembre, Tortoreto (Te)

Mario Zarroli, 77 anni, stava lavorando nei campi a Tortoreto Alto. Durante una manovra con il trattore, è finito sotto la fresa del mezzo.

19 novembre, Marina di Ginosa (Ta) Agricoltore di 55 anni, Giuseppe Leccese è stato travolto dal suo stesso trattore nelle campagne di Marina di Ginosa.

20 novembre, Fuessa (Ud)

Sergio Adami, contadino di 39 anni, è stato schiacciato dal suo trattore.

21 novembre, Foggia

Un carico di zucchero gli è caduto addosso a causa dell’inceppamento del nastro trasportatore. La vittima è Marcello Cassinese, operaio di 43 anni.


fondata sul lavoro 21 novembre, Rottofreno (Pc)

23 novembre, Venezia

21 novembre, Catania

24 novembre, Armeno (No)

Salvatore Ficili, 42 anni, autista per la Ragusa Latte, è finito in una scarpata col suo tir, probabilmente nel tentativo di evitare l’impatto con un’altra vettura. L’incidente è avvenuto lungo la tangenziale di Catania.

21 novembre, Spoleto (Pg)

Un commerciante di legname di 47 anni, Renzo Fratter, stava riparando la ruota di un camion quando il pneumatico gli è esploso a pochi centimetri dal viso.

Simone Zenoni, 32 anni, stava lavorando su un impianto fotovoltaico quando è caduto dall’impalcatura, precipitando da un’altezza di circa dieci metri.

25 novembre, Lallio (Bg)

Un operaio di 48 anni è precipitato dall’impalcatura sulla quale stava lavorando.

Faceva il turno di notte alla cartiera Cama. L’esplosione di una caldaia dello stabilimento lo ha investito. Così è morto Rosario Spampinato, 50 anni.

21 novembre, Benevento

25 novembre, Oristano

22 novembre, Supino (Fr)

25 novembre, Roma

Bonaventura Scanniello, 50 anni, era stato ricoverato il 17 novembre dopo una caduta dalla scala, nel centro commerciale in cui montava un cartellone pubblicitario. È morto dopo quattro giorni d’agonia.

È scivolato dal tetto del capannone che stava riparando, cadendo da un’altezza di dieci metri. La vittima è un operaio romeno di 28 anni.

22 novembre, Soriano nel Cimino (Vt) Giuseppe Delle Monache, operaio di 58 anni, è rimasto schiacciato da due lastre di peperino, la pietra locale, pesanti alcuni quintali.

22 novembre, Como

Bruno Bellocco, artigiano di 56 anni, stava posando dei tubi all’interno di una buca di un paio di metri, a Montano Lucino. Il terreno ha ceduto e l’uomo è stato travolto da terra e pietre.

22 novembre, Duino-Aurisina (Ts)

Riparava un’escavatrice in una cava di marmo di Aurisina, quando uno sperone di roccia si è staccato e lo ha centrato. La vittima è un operaio di 59 anni.

22 novembre, Ovada (Al)

Claudio Ferrando, 42 anni, è stato colpito da un blocco di ghisa nello stabilimento della Om, l’azienda in cui lavorava.

23 novembre, Cuneo

L’operaio Silvano Giordano, 35 anni, stava lavorando nei pressi di Borgo San Dalmazzo. È rimasto schiacciato tra due pale telescopiche in fase di assemblaggio.

Maria Cristina Allegretti, 36 anni, lavorava come commessa in un negozio di detersivi sfusi. È rimasta schiacciata da un distributore automatico all’interno dell’esercizio.

L’operaio romeno Ioan Tohanean, 53 anni, era al lavoro in un cantiere della zona Anagnina. I pannelli che accatastava gli sono caduti addosso, schiacciandolo.

28 novembre, Avezzano (Aq)

Berardo Massaro, 50 anni, si trovava vicino a una valvola del sistema di alimentazione della cartiera in cui lavorava, quando è stato investito da un getto di aria calda di oltre 200 gradi.

28 novembre, Oristano

È rimasto folgorato mentre raccoglieva olive: la sua scala ha toccato i fili della corrente elettrica. La vittima è Antonello Ledda, 49 anni.

28 novembre, San Cipriano (Bs)

Un agricoltore di 69 anni, Vincenzo Zamboni, ha perso il controllo del suo trattore, finendo in una scarpata di tre metri.

28 novembre, Vicoforte Mondovì (Cn) Carlo Tomatis, pensionato di 69 anni, è morto cadendo da un’altezza di quattro metri mentre lavorava nella casa in costruzione del figlio.

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8 novembre - 28 novembre morti sul lavoro

Maurizio Galimberti

Gheorghe Barbuta, romeno di 38 anni, lavorava come operaio in un cantiere di Rottofreno. È caduto da un’altezza di tre metri per il cedimento di una delle protezioni.


un fisico bestiale di

Bruno Giorgini

la guerra di Merkel il senso del terno parola mia di

Si incrociano due linee d’azione economico politica. Una opera per l’egemonia tedesca in Europa, un’Europa prussiano bismarckiana e/o asburgico ungarica, sperando che non compaia all’orizzonte la peggiore, quella nazista. L’altra si dà da fare per abbattere l’euro, da sempre inviso ai potenti circoli di Wall Street, specie quelli legati al Partito repubblicano statunitense, a petrolieri, mercanti d’armi e speculatori finanziari, ma con propaggini ovunque, Germania compresa, dove in molti vorrebbero il ritorno del marco: un marco capace di asservire il Centro Europa (le ex democrazie popolari) e di impoverire il Sud, i popoli mediterranei della dolce vita, succhiandone risorse e mano d’opera a buon mercato. Ricordate i nostri migranti verso le baracche tedesche? Si chiama guerra monetaria. Merkel per amore o per forza, per poca intelligenza o per troppa, ha fin qui assecondato entrambi i disegni. Dal ritardo assurdo di intervento solidale verso la Grecia fino al rifiuto di mettere in campo la Bce come autentica Banca centrale che batte moneta, emette titoli, gli eurobond, e interviene sui mercati contro le speculazioni antieuropee, ogni sua iniziativa e presa di posizione ha favorito le due linee che dicevo. Merkel è anche laureata in Fisica, tra il 1980 e il 1990 ha pubblicato alcuni lavori scientifici di chimica fisica e nel 1998, già ministro dell’Ambiente, un articolo su Science, “The Role of Science in Sustainable Development”. Senza azzardare alcun giudizio di valore sui risultati tecnici, la ricercatrice Merkel, e la ministra dell’Ambiente, non manifesta la percezione degli effetti non lineari, quando cioè piccole cause possono avere grandi effetti, e grandi cause essere la classica montagna che partorisce il topolino. È fuori dal suo orizzonte la farfalla che battendo le ali in Brasile provoca un uragano in Texas, così nell’affrontare il problema ecologico l’intera fisica della complessità sembra esserle del tutto sconosciuta. Né tantomeno pare essere al corrente delle statistiche del non equilibrio o delle moderne teorie sulle fratture, che raccontano come una piccola, sottilissima faglia iniziale possa diventare un abisso da cui si viene ingoiati con effetti catastrofici. Per lei i sistemi sono tutti e sempre all’equilibrio, e se qualcosa li allontana dallo stato di equilibrio, in questo caso di bilancio, vanno forzati finché non ci tornano. A rischio di romperli. Come l’Europa e l’euro.

C

Patrizia Valduga

Ci sono delle frasi fatte che hanno perso giorno dopo giorno il loro significato: cerchiamo di ridarglielo, per giustizia, e per rispetto di noi stessi. “Essere un terno al lotto” significa essere una cosa rara, straordinaria, eccezionale e molto fortunata. “Vincere un terno al lotto”, oltre che fare una vincita considerevole, significa trarre grandi vantaggi da un improvviso evento fortunato e insperato. Oggi si dice “è un terno al lotto” per dire è un azzardo, un rischio, una cosa che non si sa come va a finire. Sentenzia la giornalista del telegiornale: “Mettersi in viaggio è un terno al lotto”. “Non si sentiva volare una mosca” è la frase più insensata che si possa dire, perché, ammesso che la mosca ci sia e che stia volando, potrebbe essere in mezzo a un enorme frastuono. La frase corretta che nessuno ricorda più è “si sarebbe sentita volare una mosca”: questa è bella e dà senso. “Ne vale la pena” significa compensare una fatica, un sacrificio, una sofferenza, una pena appunto. Con questa frase si usa chiudere una serie di elogi, come a garanzia della validità di qualcosa, libro, film, o spettacolo. Ma se un libro, un film, uno spettacolo valgono qualcosa, non può essere in nessun modo una pena la loro lettura o visione; può essere soltanto una gioia. In questa forma di elogio la pena resta lì, come una specie di intruso, a evocare fatica e sofferenza che, in barba a quel che dice, chi sta elogiando sembra aver provato. Il verso di Dante “ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi” lo sento citato quasi sempre scorretto, riaggiustato secondo il senso moderno di quelle parole: “fa tremare le vene nei polsi” o “fa tremare le vene dei polsi”. Mentre si crede di fare sfoggio della propria intimità con il sommo poeta, si autocertifica la propria ignoranza dello stesso: i “polsi” di Dante non sono i nostri polsi, sono le arterie, che infatti pulsano.

Z

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la borsa vuota

polis di

Enrico Bertolino

foto Paolo [emblema]

Poce

Il 2011 si appresta a lasciarci e, visti la crisi, la recessione, l’inquinamento ambientale che ci ha lasciato, non se ne abbia a male se non lo rimpiangeremo poi così tanto, per ora. E sì, perché alla fine dei conti si pone sempre il quesito storico e anche un po’ scaramantico: il prossimo anno sarà migliore di questo? A giudicare dalle Cassandre che negli ultimi mesi hanno predetto catastrofi economiche e politiche, non solo a livello italiano ma addirittura europeo e mondiale, le previsioni non sono di quelle che ti fan venir voglia di stappare una bottiglia. L’inflazione, la recessione, lo spread e l’eurozona. Tutti termini che fino a luglio scorso potevi sentire camminando nei corridoi di un ministero o in una banca, mentre oggi sono argomento di discussione nelle macellerie o nei bar. Al supermercato, in coda, ci si informa non sul prezzo del Grana Padano – che se esiste vuol dire che esiste anche la Padania (questa non è mia, ma del senatore della Lega Buonanno) – o sul fatto che la cassa 10 chiude sempre quando vi mettete in coda voi, ma sulla chiusura della Borsa di Tokyo e sull’apertura di Wall Street. La cosa che mi ha colpito di più, comunque, non è stato questo florilegio di notizie negative e previsioni catastrofiche inanellate dai notiziari, dai giornali e dai media in generale, bensì il fatto che alcuni eventi, veramente drammatici e preoccupanti, siano stati relegati nelle pagine interne dei giornali o persino ignorate dai tg e dall’informazione in generale. Per esempio, riporto pari pari il titolo di una notizia comparsa su la Repubblica del 2 dicembre 2011, che veniva dopo le dichiarazioni di Scilipoti (nemmeno avessi detto Mandela o il Dalai Lama): “Creato il virus che può uccidere la metà della popolazione mondiale”. Una pagina dopo eccone un’altra: “I danni dei cambiamenti climatici. In 10 anni 710mila vittime e 14mila catastrofi”. E queste sarebbero notizie minori che non meritano la prima pagina, lasciata invece alle dichiarazioni della Merkel e di Sarkozy (Hänsel&Merkel) e alle polemiche di Alfano con Monti, alle dichiarazioni di Berlusconi che, come le piaghe della Bibbia, minaccia di ritornare (a volte ritornano, ma a volte anche no)? Forse saranno anche pronte ed efficaci le misure del governo tecnico per arginare la crisi e salvare l’euro e il Paese dalla bancarotta, ma sicuramente il metro di valutazione non va bene. Perché è inutile discutere delle pensioni da qui ai prossimi vent’anni se poi arrivano le pandemie che dimezzano la popolazione mondiale o catastrofi naturali che danno una mano a raggiungere l’obiettivo. Qui, piuttosto che allungare il periodo contributivo, sembra che si stia facendo di tutto per accorciare la vita delle persone, soprattutto di quelle a cui della Borsa e dello spread nun je ne pò frega’ dde meno, perché l’unica borsa che hanno è quella della spesa ed è drammaticamente vuota anche quella e, a differenza di quella in Piazza Affari, di rimbalzi positivi non ce ne sono: quando cadono le braccia – per usare un eufemismo – non rimbalzano più ma rotolano via, senza speranza.

P


Il treno dei

di Jenner

Meletti

foto Dino [buenavista]

Fracchia

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pioppi

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Fa un poco impressione la stazione senza facce e senza voci. Un filo di nebbia, un cartello che avverte i viaggiatori: “I biglietti si acquistano al minibar o alla tabaccheria Russotto”. Una corsa in centro, con due euro puoi partire da Brescello e arrivare a Suzzara, oppure scendere a Guastalla e ripartire per Novellara. Un viaggio a fianco dell’argine destro del Po, sul treno dei pioppeti, sul treno che ti riporta negli anni Cinquanta e anche molto più indietro. Ma senza che tu te ne accorga, ti manda anche dall’altra parte del mondo. Un occhio di sole e nel silenzio della stazione senza voci e senza facce – nessun ferroviere, nessuna biglietteria, nessun fischietto di capostazione con il berretto rosso – il clang clang del passaggio a livello che si chiude annuncia l’arrivo del convoglio. Il treno però ancora non si vede. Si fa presto a raccontare una stazione vuota. I gabinetti “Uomo” e “Donna” chiusi con i lucchetti, qualche scritta sui muri: “Basta clandestini”, “Più alberi, meno terroni. Così si respira”. Drin drin di un campanello, una luce illumina una scritta: “Arrivi da Parma”. Il treno è verde, con un baffo tricolore. Ti senti già dentro il “Mondo piccolo” di Giovanni Guareschi. Partiva da qui, il treno a vapore che portava don Camillo verso l’esilio della montagna. Aveva rotto una panca in testa ai comunisti, all’osteria, e il vescovo lo aveva punito. Pioppi e campagna, campagna e pioppi. Peppone e don Camillo ci sono ancora, in piazza a Brescello. Il primo davanti al municipio, il prete davanti alla chiesa. Due statue che si guardano da lontano, non più in cagnesco. E in chiesa, nella prima cappella a sinistra, c’è il Cristo parlante che era solo “strumento di scena”, usato nei cinque film della Cineriz. «È stato benedetto, è diventato un Cristo vero», racconta Vittorio Gianelli, il sagrestano che era già qui quando sessant’anni fa si girò il primo film. «Ci sono i preti che arrivano in pullman con i loro fedeli per dire messa nella chiesa di don Camillo, c’è chi domanda dove sia la sua tomba». Pace fatta, fra il sindaco e il prete. Nel santino che si distribuisce in chiesa, sotto il Cristo e accanto a don Camillo, c’è anche Peppone, con il cappello in mano. Due musei con cinquantamila visitatori l’anno, ristoranti, hotel e grandi parcheggi per i pullman dei tedeschi che nei musei guardano i film in italiano, ma ridono lo stesso perché tanto li sanno a memoria. Pioppi nudi e verdissimi campi di grano. Sulla terra che ancora aspetta le semine della primavera, aironi alti come bambini. Il treno parte da don Camillo e compagnia, attraversa le terre di Antonio Ligabue e Cesare Zavattini, svolta a Suzzara e arriva a Novellara alla tomba di Augusto Daolio dei Nomadi, “il John Lennon della Bassa”. Ma basta osservare bene, dai finestrini del treno a diesel, per vedere i primi segni di un mondo lontano. Se nelle case vecchie ci sono le parabole per la tv satellitare, ci sono anche uomini e donne con abiti sgargianti, ci sono bambini che rincorrono anatre e galline e che salutano il treno che passa. Bimbi e genitori di tutti i colori del mondo. Anche nella stazione di Gualtieri c’è solo silenzio. Vecchi vagoni merci, di legno ormai fradicio, su un binario morto. Qualcuno si è fatto l’orto a fianco della sala d’aspetto, ci sono ancora cavoli e rosmarino. C’è un recinto con due cani da caccia. Antonio Ligabue, il


più grande pittore naïf, è ormai solo nel ricordo dei più anziani. «Quando ero piccola e come tutte le bimbe ero cattiva – ci raccontava Ginetta Scoppini, cuoca sulla nave Stradivari – anch’io prendevo in giro il pittore matto. E lui mi inseguiva con la sua motocicletta Guzzi, in piazza a Gualtieri. Io scappavo dentro un portone». “Antonio Ligabue. Zurigo 1899, Gualtieri 1965”, recita la scritta sulla sua tomba, nel cimitero comunale dove alcune vedove entrano direttamente in bicicletta. Ci sono la sua maschera mortuaria e un piccolo mazzo di fiori di plastica. Un grande stendardo, nella bellissima piazza Bentivoglio, annuncia il Museo Ligabue. Gianluca Torelli, funzionario del Comune che dà anima e corpo per tenere viva la memoria degli uomini e delle pietre della sua terra, si scusa: «Siamo aperti solo il sabato e la domenica. E abbiamo solo due opere di Ligabue: un autoritratto e un gorilla. Un tempo i privati ci prestavano i loro quadri, ma adesso le assicurazioni costano troppo e così non ci possiamo più permettere i prestiti. Un tempo i visitatori erano tanti, si potevano pagare i custodi».

«A Brescello sono stati più bravi a fare business, per don Camillo. Gualtieri è bellissima, ma la gente arriva solo quando in piazza fai una selezione di Miss Italia o la Sagra dei ciccioli». Ma non tutto è perduto, in questo paese in riva all’argine. Se entri all’osteria della Merla, alla sera, puoi sentire suonare e cantare Wander Simonazzi, classe


1922, e Ferdinando Barbieri, quindici anni in meno. Nomi d’arte Pinon e Fernando, mandolino e chitarra. Ti guardano in faccia e poi decidono se cantare Bella ciao o Il ragazzo della via Gluck. Profumi di lambrusco (in queste campagne è tornata l’uva fogarina, che è tanto bello andarla a vendemmiar ma è ancora meglio in un bicchiere di osteria) e profumi di anarchia. Una saletta della Merla è stata dedicata a Luigi Veronelli, gastronomo, scrittore, anarchico. «Io, da piccolo – racconta Giuseppe Caleffi, che guida la Merla assieme alla sua compagna Gilda – andavo alla colonia anarchica di Forte dei Marmi. Nessuna separazione fra bimbi e bimbe, nessuna divisa, niente alzabandiera e la domenica niente messa. L’anarchia in cucina? Proviamo a resistere. La tavolata alla quale si mangia tutti assieme io la vedo come una resistenza all’individualismo, ma se voglio lavorare devo mettere anche i tavoli per singoli o coppie. Anarchia è lotta alla globalizzazione, anche a quella del gusto e dei sapori. Qui preparo la trippa, la sigulada (frittata con cipolle), la psola, un fritto di piccoli pesci di fiume. Un tempo, quando il Po era il Po, chi non aveva da mangiare andava a prendersi la cena nel fiume. Faccio una gara di erbazzoni, la torta con verdure della campagna reggiana. E la cosa bella è che a questa gara partecipano – e vincono – le anziane signore che sono al ricovero dei vecchi». Bottiglie e tanti libri, sugli scaffali. Ci sono anche le Ricette anarchiche, con strozzapreti con magro di agnello, cotechino emiliano con fagioli zapatisti. A Boretto una signora indiana dice ai due figli di pulirsi le scarpe, prima di salire sul treno. Nel piazzale c’è ancora una grossa cisterna, che dava da bere alle locomotive a vapore. Ancora pioppeti e poi salici, noci e querce. A Guastalla la stazione è “presidiata”. Ci sono i ferrovieri, che però stanno chiusi in ufficio e sembra non vogliano contatto alcuno con quelli che adesso sono chiamati clienti. “Per informazioni chiedere ai punti vendita o telefonare al numero verde 800.198.637”. C’è anche il bar, in stazione, e il caffè costa un euro e dieci, come in galleria a Milano. Una camminata verso piazza Mazzini e già in corso Garibaldi torni indietro di un secolo e mezzo. Là in alto – «Così i carrettieri la vedevano da lontano» – c’è l’insegna de La Fratellanza, osteria che dal 22 settembre 1893 fu sede della Società di mutuo soccorso degli operai artieri di Guastalla. “La società – annuncia un documento appeso al muro – ha per base l’Unione e la Fratellanza, per scopo il benessere morale e materiale degli operai”. Parlò di questa Fratellanza anche l’International Herald Tribune, quando nel 2000 l’Istituto pubblico di assistenza e beneficenza di Guastalla mise in vendita l’osteria e il palazzo di corso Garibaldi. Ora proprietà e gestione sono private, ma resta la grande sala dove ti sembra di sentire ancora il rumore delle briscole calate sui tavoli di legno. Monica Ascari, la cuoca, e Franco Buoli, il cameriere, dicono però che il cibo è rimasto quello di un tempo. Cappelletti, gnocchi con soffritto, bigoli con il sugo del brasato, cotechino. Un quadro naïf di Ugo Toniato è pieno di scritte. “A la Fratelansa in cumpagnia as bev e as magna in alegria”. “A la Fratelansa na tfa mai mal la panza”. Uomini in giacca e cravatta, donne che parlano di chi è rimasto


Nelle pagine precedenti, immagini di Brescello ◀ Boretto e l’argine del Po, piazza Bentivoglio a Gualtieri e l’insegna de La Fratellanza a Guastalla ▲ L’interno dell’osteria della Merla a Gualtieri

Nelle pagine seguenti Novellara: il mercato, piazza Unità d’Italia e la tomba di Augusto Daolio

in ufficio. I “carrettieri” di oggi guidano grossi tir, parcheggiano accanto alla tangenziale e mangiano nelle trattorie-pizzerie, “prezzo fisso euro 12, solo pranzo”. Sai che il Po è lì, dietro l’argine, ma non lo vedi mai. A Luzzara la camminata è lunga per arrivare dalla stazione al fiume. Sembra di entrare in una cattedrale di pioppi.

Ai tempi di Cesare Zavattini, “andare a Po” con una ragazza voleva dire farci l’amore. Adesso i vecchi – ci sono anche quelli accompagnati dalle badanti – vanno a guardare l’acqua e a cercare i ricordi. C’è anche un monumento al fiume, con tanto di stemma comunale: “Om ad Po. A s’ag nas, fioi dal Po”. Uomo del Po. Ci si nasce, figli del Po. “Non so voi – scriveva Cesare Zavattini – ma io sogno

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un paese dove buongiorno vuol dire buongiorno”. Ci si saluta ancora, in paese e nella strada che porta all’acqua. Ma il Museo nazionale arti naïves Cesare Zavattini, nell’ex convento agostiniano, apre solo il sabato e la domenica, e da sei anni non viene più assegnato il premio nazionale per pittori naïf. I quadri che non vincevano il premio venivano esposti in un luogo davvero speciale: i pioppi in prima fila sul Po, ad altezza giusta per evitare le piene e i ladri. Per evitare i danni delle intemperie, i quadri di Barilon, Andrea Sazzola e Ivonne Merli qualche mese fa sono stati staccati dagli alberi e portati al museo: ma sono buttati a terra, sotto il portico. Suzzara è una stazione importante, cinque binari, quadri elettrici, la biglietteria aperta cinque giorni al mese. Trovi coincidenze per Modena e Verona. C’è pure la macchinetta per le fototessere, sala d’attesa aperta dalle 5 e 40 alle 21 e 40. Attorno alla stazione e nella piazza dedicata a Garibaldi cominci a vedere quell’“altro mondo” appena intravisto dai finestrini del treno. Indiani Sikh fanno gruppo davanti alla chiesa dedicata a Maria Immacolata, le badanti dell’Est sono nello slargo dedicato a Lino Boselli, gli anziani del paese stanno attorno alla fontana. Poi, piano piano, tutti si mescolano. Le badanti per cercare un altro anziano da curare, i giovani Sikh per parlare con i vecchi che sono padroni delle stalle e delle terre in cui lavorano. Un solo vagone, che è anche motrice: tutto qui, il treno


Guastalla-Novellara. Ma durante il breve viaggio, su un prato, vedi anche le cicogne. Lepri che sembrano rincorrere il treno, fagiani che al passaggio del mini convoglio non si spostano di un metro. Sul muro rosso della stazione di Novellara una targa informa che qui siamo a “metri 28,36 sul livello del mare” ma non è esposto nemmeno un orario dei treni. Un viale dritto come una schioppettata e arrivi alla Rocca dei Gonzaga, museo e municipio. Parli con il sindaco Raul Daoli, quarantun’anni, e scopri di essere arrivato davvero in un “altro mondo”. Non solo perché qui gli uomini e le donne arrivati da lontano sono il 16 per cento della popolazione (nelle prime classi elementari i bimbi figli di stranieri sono il 36 per cento) e perché c’è una mescolanza di cinquanta popoli diversi. Primi i cinesi, poi gli indiani Sikh, i pakistani, i marocchini, i turchi. Sei in un altro mondo perché il sindaco – che collabora anche con il progetto Programma Italia di Emergency – dice che per lavorare a una vera integrazione «dobbiamo immaginarci come coltivatori che pazientemente, e non senza difficoltà, provvedono ai propri campi, ben sapendo che il frutto del loro lavoro si vedrà con il tempo». Quattordicimila abitanti, e ci sono il tempio Sikh più grande d’Europa, la moschea, la chiesa ortodossa, la sala del Regno dei testimoni di Geova. «Ora anche gli indù chiedono un loro spazio. Vedremo cosa possiamo fare». Si organizza il Festival delle Culture Uguali-Diversi, si lavora al progetto Nessuno è escluso, ogni anno si pubblica il Ricettario Mondopentola, con l’insalata mimosa dell’Ucraina, il piyaz turco, il biryani del Pakistan, il dolce di marmo marocchino. «Le polemiche con chi vorrebbe cacciare gli stranieri? Bisogna ribaltare la frittata. Noi abbiamo studiato e vogliamo applicare il ‘sistema Toronto’. In alcune scuole della città canadese si è capito che le diversità linguistiche sono una risorsa e si invitano i genitori a iscrivere lì i figli così in pochi anni imparano quattro lingue. Questa è anche la nostra proposta. Per il resto, non ci sono problemi insormontabili».

«Qui si lavora assieme, nelle fabbriche e in campagna, e i bambini italiani o di un altro colore vanno a scuola assieme. Anche nei condomini c’è mescolanza e non ci sono ghetti». «Integrazione non è solo risposta a chi chiede casa e lavoro. È studiare assieme quale possa essere il futuro». Anche il 40 per cento dei soci della Coop Cila – 880 ettari in proprietà, 1.400 vacche e 130mila quintali di latte ogni anno per il parmigiano – sono di origine straniera. «In prima fila – dice il presidente Graziano Salsi – ci sono gli indiani Sikh, bravissimi con i nostri animali e anche a guidare i camion». Turbanti colorati in piazza Unità d’Italia. «Vada a vedere – dice il sindaco Daoli – la tomba del nostro Augusto. A me ricorda quella di Jim Morrison che visitai a Parigi,


al cimitero Père-Lachaise, in gita scolastica in terza liceo». La tomba del fondatore dei Nomadi è in terra, sotto un albero. Cento targhe, cento biglietti, e poi sigarette, bicchieri di vino, fiori. “Ci hai fatto capire il vero significato della vita”; “Il tempo distrugge ogni cosa, solo Augusto per noi rimane immortale”. Targhe e fogli firmati da chi è arrivato da Barletta, Ginevra, Taranto, Zurigo, Leverano. Anche quest’anno ci sarà, a metà febbraio, il Nomadi incontro. Di solito arrivano in diecimila, quest’anno saranno di più, perché si ricordano i vent’anni dalla morte. “Io vagabondo che son io/vagabondo che non sono altro. Poi, una notte di settembre me ne andai...”. C’è una panchina, accanto alla tomba di Augusto. Ci sono panchine in tutto il cimitero. Per fermarsi. Per pensare al vagabondo Augusto e a tutti i vagabondi che per fame di pane e di futuro sono arrivati qui da cinquanta Paesi diversi. Ma il treno non aspetta. Lo vedi arrivare da Guastalla, grigio con bande rosse, dietro i filari di un pioppeto.

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di Laura

Trombetta Panigadi

foto Susetta Bozzi [parallelozero]


Voci inascoltate Vengono a Pechino da ogni parte della Cina per chiedere giustizia. Con i loro cartelli e le fotografie dei propri cari percorrono migliaia di chilometri per attrarre l’attenzione del governo. Sono i petitioner, uomini e donne che denunciano verità nascoste. E che, pur di farsi sentire, arrivano a compiere gesti eclatanti

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Primo luglio 2011, il Partito comunista cinese celebra in pompa magna il novantesimo anniversario della sua fondazione. A Pechino, la piazza Tian’anmen, cuore storico e politico dell’intera Cina, è decorata in maniera grandiosa, come sempre per le ricorrenze importanti. Al centro dell’immensa piazza, circondata da un’aiuola di fiori, su un piedistallo con la scritta “1921-2011”, svetta imponente sulla folla una gigantesca falce e martello gialla su tondo rosso. Anch’io quel giorno, come innumerevoli altre volte nel corso dei miei tanti anni trascorsi in Cina, sono in piazza Tian’anmen, a vedere le decorazioni, a cercare di percepire l’atmosfera dell’anniversario, a fare qualche foto. È una giornata tipica dell’estate pechinese, caldo umido e una cappa di afa. Improvvisamente ho la sensazione di avere qualcuno molto vicino e qualche secondo dopo vedo che dal mio braccio nudo scende molto sangue. Un taglio netto, profondo, fatto con una lametta, scoprirò poi. La mia prima reazione è di spavento e smarrimento poi, dopo un tempo che mi sembra interminabile, la donna cinese che mi ha ferito mi si inginocchia davanti e dispiega davanti a sé un telo bianco sul quale sono scritti degli ideogrammi che nel panico della situazione non riesco a leggere. È un attimo, immediatamente dopo arriva la polizia, la carica su un furgone e la porta via. Solo allora capisco che probabilmente è una petitioner, una postulante, e che sul telo c’è scritta la sua rivendicazione. Per attirare l’attenzione su di sé aveva fatto ricorso a metodi estremi, come aggredire una occidentale in piazza Tian’anmen, ben sapendo che sarebbe stata arrestata immediatamente. La piazza è infatti costantemente controllata da poliziotti in divisa e in borghese, e lo è ancora di più nei giorni sensibili. Un atto come questo verso una straniera è un fatto rarissimo in Cina, per di più avvenuto sulla piazza simbolo del Paese, in un giorno speciale come l’anniversario della nascita del Partito. Un segno della disperazione della donna pronta a tutto pur di far conoscere la sua causa, una perdita d’immagine per la polizia che non ha saputo evitare un’azione del genere nel giorno delle celebrazioni. I poliziotti, visibilmente nervosi e agitati per la situazione imprevista che si è creata, iniziano a occuparsi anche di me: ambulanza, ospedale, poi un interminabile e dettagliatissimo verbale, che a tratti sembra più un interrogatorio. Momenti surreali su chi paga le spese mediche, perché in Cina il pronto soccorso è a pagamento, poi a sera tardi finalmente a casa, esausta e dolorante. Della donna ho poi saputo che veniva dalla provincia dello Hunan, più di mille chilometri a sud di Pechino e che, secondo quello che sono riuscita a carpire dalla reticente polizia, riteneva la società ingiusta verso di lei. Alla mia domanda su cosa che c’era scritto sul telo bianco, silenzio totale. L’argomento petitioner è ancora molto sensibile e non se parla volentieri, ma chi sono? Vengono da ogni angolo della Cina, sono cittadini comuni, molti sono contadini, nella maggior parte dei casi poveri o quantomeno non abbienti, hanno subìto un’ingiustizia o un sopruso nel proprio luogo d’origine e portano le loro lamentele e le loro richieste di giustizia in forma di petizione al governo centrale a Pechino.

Un’antica usanza dell’Impero

Il sistema delle petizioni ha una lunga storia ed esisteva già al tempo della Cina imperiale, con un ufficio predisposto alla corte dell’imperatore per ricevere le lamentele dei suoi sudditi. Un sistema che era stato pensato anche per poter controllare il comportamento e la rettitudine dei funzionari imperiali delle province lontane, distanti migliaia di chilometri dalla corte. Questa tradizione è stata adottata in seguito anche dal governo della Repubblica Popolare e, a Pechino, c’è un ufficio apposito che dovrebbe ricevere le petizioni dei cittadini. In teoria questo sistema dovrebbe aiutare il cittadino che ritiene di aver subìto un’ingiustizia e che non riesce a risolvere il suo problema a livello locale, ma una volta arrivati nella capitale, i petitioner aspettano mesi e mesi, alcuni anche anni, per avere una risposta da parte delle autorità del governo centrale che non arriva quasi mai. Secondo fonti di organizzazioni umanitarie, nel 2004 sono state 10 milioni le petizioni arrivate sul tavolo dell’Ufficio centrale ma soltanto lo 0,2 per cento è stato ascoltato. Sono casi di espropri irregolari di terra ai contadini, demolizioni di case senza adeguato indennizzo, condanne di presunti innocenti e tante altre storie tremende di soprusi di ogni genere. Le zone rurali della provincia cinese sono ancora arretrate e povere, e la popolazione è esasperata dall’arroganza dei funzionari locali spesso corrotti e prepotenti. Essendo nella maggior parte dei casi gli stessi dirigenti dei governi locali responsabili dell’ingiustizia, è praticamente impossibile che colui che ha subìto il torto possa essere ascoltato dai tribunali locali legati a doppio filo con il governo.

▲(Nella

pagina precedente) «Mi chiamo Luo Mingzhen, ho cinquant’anni e vengo da Chongqing.

Ho dato alla luce due gemelli che mi sono stati sottratti subito dopo il parto. Sono stati quelli dell’ufficio per il controllo delle nascite con la complicità dell’ospedale. Loro continuano a dire che non sono mai stata incinta, ma questi esami medici e queste ecografie documentano la mia gravidanza. Oggi danno forza alla mia petizione».

▶ «Il mio nome è Wang Yulin, ma non ha tanta importanza. Non come la libertà dei miei due figli, incarcerati ingiustamente per un crimine che non hanno mai commesso. Sono arrivata a Pechino dalla provincia del Guangxi con questo cartello:

I miei due figli sono stati condannati ma sono innocenti! Aiuto! Er Tang Township Government, Xiangshan District, Guilin City, Guangxi Province».

▶«Io

sono Yin Yin Jinxian e ho quarantaquattro anni. È la venticinquesima volta che da Hangzhou vengo a Pechino per chiedere giustizia al governo. Mio figlio, che ha appena compiuto quindici anni, si chiama Chen Suli. Il capo del partito della mia città lo ha venduto a una famiglia nella provincia dell’Anhui. Era il mio unico figlio, ma, dal momento che mio marito aveva già un altro figlio da un precedente matrimonio, ci hanno accusati di aver infranto la legge sul figlio unico. Quando ero incinta di otto mesi il capo del Partito mi ha chiesto di abortire. Sono scappata e ho partorito nel villaggio dei miei genitori, lasciando con loro il mio bambino. Dopo due anni sono tornata a riprenderlo e a nasconderlo finché non ha iniziato ad andare a scuola. L’hanno scoperto e preso con la forza. Prima l’hanno messo in un orfanotrofio e dopo venduto a una famiglia. Il capo del Partito e gli amministratori dell’orfanotrofio si sono divisi il guadagno.

Questa è la mia petizione: Nessuno può trattare con i gangster. Aiuto. Hangzhou, Zhejiang Province».

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«Vedete il ragazzo in questa foto?

È mio figlio. O meglio, è il suo corpo senza vita dopo che qualcuno l’ha brutalmente assassinato. Sono Niu Chunyang e sono venuta a Pechino per chiedere al governo che venga aperta un’indagine ufficiale che faccia luce sui fatti e permetta di arrestare i colpevoli».

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Pedinati, intimiditi e picchiati

Secondo un rapporto di Human Rights Watch, migliaia di cinesi che avevano presentato petizioni agli uffici dei governi locali non solo sono stati completamente ignorati nelle loro richieste, ma hanno poi subìto intimidazioni, sono stati picchiati, imprigionati e, a volte, spediti in ospedali psichiatrici. Per questa ragione andare a far sentire la propria voce a Pechino sembra essere, per migliaia di persone, l’unica via per ottenere qualcosa. Purtroppo non è così, per tutto il sistema di relazioni che lega fra di loro i funzionari dell’amministrazione pubblica cinese, è difficile che Pechino abbia voglia di indagare a fondo. Inoltre, i petitioner sono spesso seguiti, nel loro lungo viaggio fino a Pechino, da poliziotti privati assoldati dai governi del loro luogo di provenienza con lo scopo di riportarli a casa e impedire loro, in maniera brutale, di presentare le rimostranze al governo centrale. Metterebbero in cattiva luce i dirigenti locali che potrebbero essere poi penalizzati nella loro carriera. Questa polizia privata arriva persino a rinchiudere i petitioner in quelle che vengono chiamate “prigioni nere”, luoghi di detenzione illegali nella periferia di Pechino dai quali riescono a uscire solo pagando delle mazzette e rinunciando a presentare la petizione. Insomma, l’intero sistema delle petizioni nella pratica non funziona e, sebbene il governo cinese nel 2009 abbia ammesso la necessità di riforme, la situazione generale non sembra, per il momento, migliorare molto.


Le promesse di “nonno Wen”

Nel gennaio scorso per la prima volta il primo ministro Wen Jiabao ha incontrato una delegazione di petitioner, si è interessato ai loro casi e ha promesso grandi cambiamenti. Bisognerà vedere se si tratta solo di un gesto populista del “nonno Wen”, come viene chiamato qua, o se ci saranno effettivi miglioramenti. Un coraggioso regista indipendente cinese, Zhao Liang, ha filmato per oltre dieci anni i petitioner che vivevano accampati in tende e baracche in condizioni estremamente precarie vicino alla stazione sud di Pechino. Una bidonville urbana, il Petition Village, da poco demolita. Dal 1996 fino alla vigilia delle Olimpiadi del 2008, Zhao Liang ha seguito nel tempo varie persone, tutte ostinate a ottenere giustizia nonostante si scontrino con un sistema di abusi di potere, di ostracismo e di indifferenza. Il risultato è un toccante e straordinario documentario Petition: The Court of the Complainants, che mostra una realtà drammatica, un’altra faccia di questo Paese avviato a diventare una super potenza mondiale.

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▲«Il carattere sulla mia bandana è lo ‘yuan’ che significa ‘ingiustizia’. La mia storia è raccontata dalle frasi scritte sul lenzuolo che vesto:

La legge è stata intrappolata nella terra. Gli ufficiali corrotti sono stati protetti. La persona che ha denunciato il crimine è stata uccisa. Una madre di oltre settant’anni. Nel 1997 mio figlio morì in un albergo dopo che era stato ‘protetto’ per 316 giorni. Il suo corpo è stato cremato dalla polizia senza il consenso della famiglia. Le autorità della città di Huang shi, nella provincia dell’Hubei, hanno detto che mio figlio si è suicidato a causa del suo crimine, ma ci hanno dato 44mila yuan per tenere la bocca chiusa. Il giornale della sera Wu Han ha rivelato chi sono i dirigenti corrotti, ma loro hanno negato ogni accusa. Sono stata a Pechino per anni per fare una petizione, ma nessuno si occupa del mio caso. Ho dormito sotto i ponti, al freddo e affamata. Grande Partito comunista! Avete genitori, moglie e figli? Capite la giustizia e la morale?».


televasioni di

Flavio Soriga

illustrazione

Borislav Sajtinac

il palinsesto di tutti C’è uno spot australiano che si può vedere su YouTube, e che bisognerebbe guardare, tutti, spettatori della tv italiana e suoi dirigenti; uno spot che invita a mettere fine alla discriminazione contro chi vuole sposarsi e non può; un video bellissimo, emozionante, girato alla grande; un video senza parole e dunque totalmente privo di retorica o lirismo da quattro soldi; un video che chiunque si sia innamorato, almeno una volta, nella vita, non può che sentire forte e vero; un video che racconta la normalità possibile, e reale, delle persone che amano qualcuno dello stesso sesso; un video australiano per la regolarizzazione dei matrimoni gay. Si può credere che sposarsi sia inutile o fuori tempo, ma vietare a qualcuno di farlo è negare un diritto, pretendere di poter decidere il destino altrui. Che il 2012 sia un anno decente, per l’Italia, il primo senza il peggior Governo delle discriminazioni della storia di questo Paese sempre piuttosto all’avanguardia, nel discriminare e compatire la diversità; il Governo dove i deputati della maggioranza maledicevano le pop star libertine, i Ministri se la prendevano con gli spot Ikea, il capo del Governo diceva che è meglio andare con le prostitute che essere gay, e via delirando. Che la televisione di questo Paese racconti almeno un po’, in questo nuovo anno, che si impegni a farlo, provi a farlo, la normalità difficile, accidentata, faticosa e dolorante di chi ama un’altra persona con tutto se stesso, con generosità e pazienza, trasporto e fantasia, ma sente di dover nascondere questo amore perché non è quello che la gente considera normale. Che non si vedano più i loschi figuri televisivi con i sorrisetti sprezzanti, disposti a tollerare i gay e le lesbiche purché stiano buoni, non si mostrino troppo in giro e mai abbracciati o mano nella mano, perché via, ci sono i bambini in giro. Che il 2012 sia un anno accettabile, almeno, per chi tira avanti schivando battutacce e curiosità morbose, che il 2012 sia un buon anno per chi è innamorato e non si vergogna del suo amore e non è disposto a farlo in nessun caso. Che la televisione provi a raccontare anche questi, di amori, e trovi un minuto in qualche angolo di palinsesto per mandare in onda questo spot australiano, che dice un milione di cose senza nemmeno una parola. Auguri agli sposi, quelli normali e quelli speciali, auguri. (“Ricorderò e comunque anche se non vorrai/Ti sposerò perché non te l’ ho detto mai/Come fa male cercare, trovarti poco dopo/E nell’ ansia che ti perdo ti scatterò una foto…/Ti scatterò una foto…”. Tiziano Ferro)

[siae 2011]

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Kashfi Halford

decoder di

Violetta Bellocchio

un volto tra la folla Alcuni tra i più efficaci cattivi della fiction sono tali perché proteggono la loro identità. Portano una maschera, al massimo scoprono un po’ gli occhi o le mani. Non parlano. Sotto il travestimento potrebbe esserci un padre, una figlia, un amico. L’ambiguità è la chiave di tutto. Quando si arriva alla cronaca, però, la cosa si complica. Le motivazioni di chi scende in piazza a volto coperto vanno indagate (chi sono queste persone? Da dove vengono?), e c’è bisogno di isolare qualche uomo o donna che diventi un simbolo. Ma la storia rischia di afflosciarsi troppo presto se dai una vera faccia al nemico. Allora, pur di non rinunciare al fascino della folla arrabbiata, si cercano altre soluzioni. Le rivolte di Londra dello scorso agosto hanno trasformato in un’eroina Pauline Pearce, la signora filmata mentre affrontava i saccheggiatori in piena notte con totale sprezzo del pericolo: ecco la parte “sana” della città, l’anello debole solo in apparenza (è una donna sola, cammina appoggiandosi a un bastone) che al momento giusto dimostra il suo valore (Pearce è nera, e accusa i rioter di sprecare energia anziché protestare in modo costruttivo). Per la manifestazione degli indignati a Roma invece ha vinto la strada del cattivo per un giorno: Fabrizio Filippi, il ragazzo che aveva lanciato un estintore contro la polizia, identificato grazie al tatuaggio che non aveva nascosto. Un dilettante allo sbaraglio pronto a essere issato sul trono di “giovane fuori controllo”. Nel frattempo, a New York, chi seguiva le vicende di Occupy Wall Street perdeva la testa davanti al poliziotto in borghese Rick Lee, che indossava vestiti più adatti al commesso di un negozio di dischi, e che poi, in un’intervista, dichiarava cauta simpatia per la protesta. Ribattezzato Hipster Cop, è diventato un fenomeno online e un perfetto campione di ambiguità. Troppo figo per essere un rappresentante della legge, ma anche troppo sbirro per cambiare lato della barricata, come farebbe un eroe da romanzo.

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Giovanni Falcone testo e illustrazioni

Giacomo Bendotti a cura di BeccoGiallo

Giudice, magistrato, simbolo nazionale della lotta contro la mafia, Giovanni Falcone è stato - con Paolo Borsellino - il rappresentante di punta del pool antimafia che negli anni Ottanta ha indagato sulla criminalità organizzata. A lui si devono la collaborazione con la giustizia del boss Tommaso Buscetta e lo storico maxiprocesso a Cosa Nostra, finito con più di trecento condanne. Dopo aver subìto minacce e delegittimazioni pubbliche, e dopo essere scampato all’attentato dell’Addaura, Giovanni Falcone è stato assassinato il 23 maggio 1992, insieme alla moglie e agli uomini della scorta, nell’attentato di Capaci.







il vizionario

mad in italy di

Gianni Mura

illustrazione

Elfo

Gino e Michele, su mia garbata richiesta, hanno rispolverato il mitico Puttanone. Li ringrazio e, a mia volta, rispolvero un vecchio gioco, che chiamerò Vizionario, ossia dizionario rivisto da chi ha il vizio di giocare con le parole e in genere è single o senza figli, altrimenti giocherebbe con la prole. Potrei anche chiamarlo Vaccabolario, perché si finisce per buttare tutto in vacca, cioè sul ridere, ma Vizionario è meno greve. Si tratta di prendere una parola e darle un altro significato, o di modificarla appena appena. Pur sapendo che oggi tutto è elettronico, avviso che si può anche giocare in gruppo: uno, dotato di vocabolario, sceglie le parole, gli altri creano una definizione che poi viene votata. Vince chi scrive quella più spiritosa, più surreale o più succinta. Due esempi, che ricordo benissimo, della prima volta che giocai, in casa del mio amico Stefano, autunno 1972. “Mortito” è un’antica pietanza a base di carne cotta nel vino. Applausi a chi scrisse: un po’ morto. “Salvummeffacche”, versione plebea dal latino, sta invece per l’implorazione salvum me fac, a chiedere l’approdo a un luogo sicuro. Vinse Paola, mia moglie, con una definizione più lunga: invocazione di un parroco della Val Venosta di fronte all’incendio delle malghe. Mortito e salvummeffacche non figurano sullo Zingarelli che ho tra le mani, e anche questo è un segno dei tempi. E adesso, via.

ABBOCCAMENTO

AGONISTA

ABBORRACCIARE

ALAMARO

ABBRACIARE

ALATO

ABIEZIONE

ALBOGATTO

brevissimo percorso lavoro da ciclisti gregari abbracciare senza slancio (di coscienza) brutta cosa

ACQUISTARE

avere la residenza ad Acqui

ACROSTICO

componimento di difficile comprensione

ADDESTRARSI

pescatore di agoni un mollusco a Firenze di fianco cfr Fritz the Cat, Mio Mao, Felix, Silvestro

ALIMENTIRE

truccare o taroccare cibi

ALIQUOTE

riferimento alla proprietà di compagnie aeree

spostarsi politicamente a destra (anche xenofoba)

ALISSO

ADDOPARSI

ALIENATORE

drogarsi in coda

ADESSO

a lui, gli

AD INTERIM

pianta di profondità tecnico che vende la squadra o se ne gioca le simpatie

ALPEGGIO

non c’è mai fine, si sa

temporaneamente, nella squadra di Moratti

ALTA FEDELTÀ

AD MAIORA

ALTALENA

non senso Mai oppure ora? Decidetevi

ADOXA

pianta che cresce nei sondaggi

AFFE´

un espresso a Firenze

6262

cfr Nozze d’argento, Nozze d’oro forte impegno

ALTROPARLANTE ventriloquo

AMAREGGIATA mare mosso


AMMALIARSI

piacersi anche da malati

AMMAMMOLARSI

diventare viola

Per gli amici degli animali e per dimostrare che non mi sono fermato alla A di Ancona:

CANALETTO

ANACRONISMO

cuccia

ANADRAMMA

abbaiare

cronaca scritta da analfabeti

CANDIRE

tragedia con le parti così mescolate che non si capisce nulla

CANESTRO

ANATREMA

CANFORA

scomunica di palmipede

ANAVOLUTO

figura retorica cui scientemente si fa ricorso

ANCHEGGIARE

illuminazioni di Fido cani non ammessi nel locale, in Veneto

CERBOTTANA

cerva di facili costumi sui monti siciliani

eccedere nell’uso di “anche” Nel Veltroni, “maancheggiare”

CERVICE

ANCORESSA

COCCOBRILLO

sempre lei

sostituto di cervo coccodrillo alcolizzato

ANESTETICO brutto

ANIMOMETRO

misuratore di coraggio

ANFIPODI

granchi dell’altra parte del mondo

ANNOTTARE

prender nota a Gavoi

ANTECEDERE

vendere un armadio

Di stagione:

SCIOPERANTE

che lavora nel mondo dello sci

SOSPENSIONE

allarme per chi non lavora più

U

ANTICOLLERICO

medicinale che combatte l’ira

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Giovanni Cocco [vii mentor program]

#2011 Ogni scelta è arbitraria, ciascuna, è chiaro, contiene in sé il germe di molte altre possibili. In queste pagine la nostra, riguardando all’indietro l’anno che si chiude. Queste parole chiave si accompagnano ad alcune immagini che, in maggioranza, hanno per autori i fotografi dell’agenzia VII


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Le moltitudini Ron Haviv [vii]

#R-evoluzioni

La chiamano primavera araba, ma per quanto possa diventare ostinata, un’etichetta non basta. È troppo poco per questo vento impetuoso, che ha travolto in meno di un anno regimi trentennali in Tunisia, Egitto e Libia. Ha costretto a farsi da parte il presidente Saleh, in Yemen, ha cinto d’assedio Assad in Siria, ha obbligato l’emiro del Bahrein a scusarsi pubblicamente per le violenze dei suoi sgherri. Altro che primavera, con le sue brezze leggere. Questo è un ciclone, tanto forte quanto inatteso. Che non si è ancora fermato. E di fronte a tutto ciò, ancora una volta, mancano gli strumenti. I partiti islamisti vincono in Marocco, Tunisia e con ogni probabilità in Egitto. La Libia cerca un futuro, i Paesi del Golfo Persico si attrezzano per concessioni mai sognate in passato. Si scrive, si racconta, si immagina un mondo che dall’altra parte del Mediterraneo non conosciamo per davvero, tentando di fermare una tempesta con il retino per le farfalle. Cui restano impigliate le vite di coloro ai quali abbiamo, per anni, chiesto un moto di libertà, salvo chiuderci a doppia mandata dentro i nostri vecchi confini quando migliaia di giovani e vecchi, donne e bambini chiedono una possibilità. Un anno intenso, come la luce di una stella che muore, troppo veloce per non lasciare zone d’ombra. L’unica certezza è che non basterà una primavera per contenere tutto questo. (christian elia)

#L’isola

È un’isola. Un’isola mentale, a rifletterci. Quella in cui confiniamo, per non esserne troppo disturbati noi qui, il pensiero di un movimento incessante, mai finito, che appartiene alla storia umana: andare, staccarsi, migrare. Toccare un’altra terra, potersi inventare un futuro sotto un cielo che si immagina diverso, portandosi dietro quello che ci ha visti bambini. Sui moli di Lampedusa (nella pagina precedente), l’isola che accoglie e respinge, che ora mostra di capire quel moto e ora lo rifiuta violentemente, tante facce di giovani: quelli che ce l’hanno fatta, almeno in via provvisoria. Il “mare nostro”, il “mare di mezzo”, racconta Fortress Europe, dal 1988 ha inghiottito le vite di almeno 17.856 persone. Nell’anno che ci lascia, e solo fino al 27 settembre, hanno perso la vita in 2.049 e probabilmente questo numero non li contiene tutti. Nella bellissima favola di Aki Kaurismäki Miracolo a Le Havre, che racconta di un ragazzino africano il quale, appunto, vuole toccare un’altra terra e trova dei complici insospettati e insospettabili – persino un ispettore di polizia – uno dei personaggi dice: «Nel Mediterraneo ci sono più documenti d’identità che pesci». (assunta sarlo)


Ashley Gilbertson [vii]

#Indignarsi

“Non dovrebbero essere i popoli a temere i loro governanti, ma i governanti a temere i loro popoli”, diceva l’eroe sovversivo, protagonista del film V per Vendetta da dietro la sua maschera, divenuta icona globale del movimento degli indignati. «Non siamo di sinistra né di destra. Siamo quelli che stanno in basso e ce l’abbiamo con chi sta in alto». Gli indignati europei e i loro equivalenti americani del movimento Occupy sono “popolo” che si ribella ai soprusi e alle ingiustizie della casta della politica e della finanza. Sono il 99 per cento che rifiuta il dominio di quell’1 per cento che siede nei parlamenti (senza rappresentare più nessuno) e nei consigli d’amministrazione di banche e multinazionali (accaparrando ricchezza a spese della collettività). Cittadini che, sentendosi ridotti a sudditi, insorgono contro la nuova nobiltà che domina l’oligarchia partitocratica e plutocratica nella quale è degenerata la democrazia rappresentativa. Cittadini che, ritenendo violato il “contratto sociale” democratico, esercitano il loro diritto di resistenza contro un potere giudicato illegittimo, riappropriandosi della sovranità e chiedendo una democrazia “reale” e partecipativa. (enrico piovesana)


Le dimissioni di Silvio Berlusconi, trascinato a fondo dalla pressione dei mercati, dalle perdite di Mediaset e dallo sgretolarsi di un culto che è stato egemone per diciassette anni. Ma non dalle opposizioni. L’arcobaleno che ha accompagnato le vittorie elettorali che hanno come simbolo Milano, Napoli e Cagliari, e anticipato quella nei quesiti referendari (l’acqua è di tutti). Il 2011 ha sancito i due opposti per la politica. Uccisa dal “basso Impero” e costretta a consegnarsi ai diktat dell’Europa oligarchica. Rinata nelle pratiche di condivisione nella stagione referendaria e del voto amministrativo, che ha visto germogliare il seme lanciato dieci anni fa nel Genova Social Forum. Parole chiave: dicono “social”, ma più ancora “partecipazione” e “territorio”. Nel passaggio dall’anno vecchio a quello nuovo rimane un quesito: com’è possibile coniugare in maniera feconda il concetto partecipativo dentro le regole strette di una democrazia rappresentativa? A pochi mesi dalla conquista di fortini considerati inespugnabili, il difficile rebus, o dilemma, non è sciolto. Sta nelle scelte, quindi nei fatti, la capacità di dire se l’arcobaleno sia solo un effetto ottico. Bello, ma evanescente. In chiave nazionale ed europea il quesito è ancora più radicale: riguarda partiti e società civile. C’è la capacità di tornare a esprimere politica, sempre che reggano l’impalcatura nazionale ed europea? La crisi globale, le quotidiane esigenze di città costruite in nodi di reti che si formano e si mischiano, l’infrastruttura della vecchia politica che si oppone al vento in maniera ostinata. Saranno coraggiosi i capitani? (angelo miotto)

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Stefano De Luigi [vii]

Christopher Morris [vii]

Il cambiamento

#Effetto arcobaleno



I volontari Giuseppe Fanizza

#Si chiamava Sandro Usai

Donald Weber [vii]

Con la medaglia d’oro consegnata alla vedova di Sandro Usai, una breve frase di Napolitano: «È poco». «Lo so», dice lei. E vengono in mente le ultime righe della Ballata dell’eroe di Fabrizio De Andrè: “Ma lei che lo amava aspettava il ritorno/ di un soldato vivo, di un eroe morto che ne farà/se accanto nel letto le è rimasta la gloria/di una medaglia alla memoria”. Sandro Usai non era un soldato ed è pure difficile stabilire il suo lavoro perché ne faceva tanti. Prima bagnino, poi barista al mattino e la sera cameriere in un ristorante. Nel pomeriggio coltivava l’orto. Ed era volontario della Protezione civile. A Monterosso il rischio più temuto è l’incendio, ma Usai se l’è portato via un fiume d’acqua e fango. Aveva appena salvato due persone. Lo hanno ritrovato in mare, a Punta Mesco, cinque giorni dopo. Veniva dal mare di Arbus; anche lì c’è un piccolo paradiso, Piscinas, ma il lavoro no. Dodici anni nelle Cinque Terre, il dialetto ligure parlato con accento sardo. Il giorno del finimondo, Usai si prepara per uscire. Stivali, incerata. «Ma non vedi che tempo? Aspetta un po’», gli dice Elena, la moglie. «C’è bisogno», risponde lui. La sola cosa che lei ottiene è che lui lasci a casa l’orologio, così non si sporca. Il resto è dolore, ma anche speranza. Finché ci sono persone come Sandro Usai e i tantissimi volontari sui più disparati versanti, la speranza non muore. (gianni mura)

#I vecchi di Fukushima

Da chi ha aperto un ricovero per le migliaia di animali abbandonati dopo lo tsunami agli universitari che, aiutando gli altri, acquistano crediti per gli esami; fino allo scultore Seiju Okame che ha creato la statua di legno di una donna, con stivali di gomma e pala in mano: il monumento volontario al volontario. Le cronache giapponesi anche recenti sono piene di storie edificanti sul risveglio della solidarietà post Fukushima. La notizia che ha colpito di più l’Occidente è quella comparsa un po’ ovunque a maggio: il settantaduenne Yasuteru Yamada, già ingegnere, ha fondato il Corpo dei veterani capaci, tutti pensionati con competenze tecnico-scientifiche come lui e disposti a ripulire la zona della centrale nucleare al posto di lavoratori più giovani: «Ho ancora fra i tredici e i quindici anni da vivere. Anche se vengo esposto alle radiazioni, il cancro ci mette tra i venti e i trent’anni a svilupparsi. E poi noi vecchi abbiamo meno probabilità di prenderlo». È questo, il tema della responsabilità generazionale, il lato più interessante del disastro giapponese. Yamada e quelli della sua età hanno goduto del boom economico del Giappone e hanno accettato quella rimozione del ricordo atomico che ha reso possibile la scelta del nucleare, proprio quello, per rinascere. Ora è tempo di ripagare. (gabriele battaglia)

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Le cadute Seamus Murphy [vii]

#Senza Osama

Eric Bouvet [vii network]

L’uccisione in Pakistan dello sceicco Osama bin Laden è stata un evento mediatico di portata planetaria come prima lo era stato solo la notizia dell’attacco alle Torri Gemelle. Ma stavolta non ci sono immagini destinate a entrare nella storia e nella coscienza collettiva, come per la morte di Saddam e, in seguito, per quella di Gheddafi. La decisione della Casa Bianca di non mostrare immagini del defunto leader di al Qaeda – le cui apparizioni da vivo, spesso contraffatte, sono servite a tenere viva per dieci anni la minaccia terroristica – ha suscitato polemiche e dubbi sulla versione ufficiale fornita da Washington. Autorevoli fonti d’intelligence, anche occidentali, sostenevano da anni che il presunto stratega degli attentati dell’11 settembre fosse in realtà deceduto per gravi problemi di salute alla fine del 2001, mentre fuggiva dai bombardamenti dei B-52 sull’Afghanistan. La parabola di Osama bin Laden è terminata nella stessa nebbia di sospetti che ha avvolto tutta la sua storia e in particolare il suo ruolo negli attentati del 2001. Il 2 maggio si sono sbarazzati del suo cadavere, gettandolo in pasto ai pescecani dell’oceano Indiano. (e.p.)

#L’ombra di Gheddafi

Una vita, due scatti. Muammar Gheddafi, il Colonnello, ha chiuso un potere quarantennale, visionario e volubile, in due immagini: quella del 1969, quando tutto il mondo conobbe l’affascinante ufficiale, leader del golpe che rovesciò la monarchia in Libia, e il grottesco satrapo insanguinato nelle mani dei ribelli. Due fermi immagine, che diventano uno specchio. Che riflette il rapporto, pieno di ombre, che il mondo ha tenuto e ha dovuto tenere con l’uomo che sedeva su un oceano di petrolio. La fascinazione degli esordi, con il suo socialismo panarabo, l’isolamento internazionale e le bombe in giro per il mondo, la redenzione del post 11 settembre, il panafricanismo dell’ultima stagione. In quei due fotogrammi, c’è una storia. Quella del potere, che guarda sempre il presente con le lenti della realpolitik. Una storia, la nostra storia. (c.e.)

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La causa [fotogramma]

#La bandiera di Vittorio

Lynsey Addario [vii]

Porta una bandiera palestinese, stringendola con i pugni, nelle acque sotto assedio di una terra desolata. È racchiuso in un’immagine il senso della missione di Vittorio Arrigoni. Approdo ultimo, in un mondo senza più ideali, di un’esistenza, nella Striscia di Gaza si è compiuta la sua biografia di idealista. La Palestina è stata la terra eletta a patria. I suoi connazionali sono stati contadini e pescatori, che Vittorio ha difeso con il corpo dalla crudeltà e dall’abuso, nelle decine di azioni di “interposizione” pacifica tra loro e l’esercito israeliano. Vittorio è stato rapito da alcuni giovani estremisti la sera del 13 aprile 2011, mentre usciva da una palestra di Gaza City. La notte del 15 aprile, gli stessi fanatici lo hanno ucciso legandogli al collo un nastro di plastica. Scudo umano sulle ambulanze durante l’operazione Piombo fuso, ciò che Vittorio lascia alle generazioni in cerca di esempi non è eroismo, né martirio. È la vita nuda, vissuta in obbedienza a una vocazione. Quella di difendere i diritti violati. Di far conoscere la guerra e l’apartheid. Di raccontare e documentare l’ingiustizia, affinché nessuno possa mai dire: non c’ero, non sapevo. (luca galassi)

#Terra di Palestina

Tra Stato e popolo, nazione e identità. La Palestina, da sempre, è chiusa dentro un equivoco. Esiste, ma nessuno possiede una carta bollata che lo confermi. Esiste negli occhi di chi l’ha vista, nelle pagine di chi l’ha raccontata, nelle tende dei profughi che l’hanno persa. Esiste nelle vite occupate di milioni di persone, tra Gaza e la Cisgiordania. Dopo sessant’anni di solitudine, la Palestina ha deciso di provarci, presentando alle Nazioni unite una richiesta formale di riconoscimento il 23 settembre 2011. Da dire che, a oggi, sono molte di più le nazioni che riconoscono la Palestina rispetto a quelle che hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo. Ma non sono le nazioni giuste. Un’impresa disperata, per alcuni. Un’azione rimandata per troppo tempo, per altri. Che l’indipendenza arrivi o meno, nessuno potrà fare più finta che la Palestina non esista. (c.e.)

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Ci sono morti che illuminano la vita. Quella di Lucio Magri mi pare una di queste. La definirei un “suicidio ethico”. Spiego perché giocando liberamente con l’etimologia. Mi piace pensare che la parola “politica” derivi dall’unione del sostantivo greco polis (la città, il centro della democrazia greca) non già col verbo oikeo (io governo), ma col sostantivo ethos (usanza, costume ma anche luogo in cui si dimora); e che pertanto non indichi solo l’arte di governare la città ma soprattutto quella di renderla un luogo in cui dimorare. Un posto vivibile, insomma. Ma quando la città, il mondo non è per me più abitabile, quando la mia politica non ha più luogo né corso nel mondo, anche la vita si esaurisce dentro di me e il suicidio si presenta come la soluzione insieme “pubblica” e privata. Un po’ quello che successe a Socrate. Rimanendo nell’età classica, viene in mente il racconto del Fedone platonico: “Dì un po’, Fedone, eri tu vicino a Socrate, il giorno in cui bevve il veleno nel carcere, o ne hai sentito parlare da altri?”. Socrate è stato condannato a morte dalla città perché ritenuto corruttore di giovani, e invece di sottrarsi alla pena – cosa che potrebbe agevolmente fare – decide di bere la cicuta e, nelle ore precedenti, si riunisce con gli amici e i discepoli, discutendo della sua morte e, quindi, della sua vita. Anche Magri decide di morire e ne discute a lungo con gli amici. Loro tentano di distoglierlo dal suo proposito, proprio come i discepoli di Socrate, senza che né gli uni né gli altri ci riescano. Una delle argomentazioni socratiche è che lui, il filosofo, appartiene alla città e se questa lo condanna, non può sottrarsi: se lo facesse, tradirebbe l’intera sua vita. In qualche modo, Socrate ci dice che la sua scelta di bere la cicuta è il proseguimento e il compimento della sua vita. Ne è una parte. Anche Magri è sempre appartenuto alla città, alla polis. Anche lui, credo, ha pensato la propria morte come il proseguimento e il compimento della sua vita, interamente dedicata alla politica. Si può obiettare che Magri non è stato condannato a morte dalla comunità, che anzi lo ha addirittura eletto onorevole. Non so, forse la città non lo ha condannato esplicitamente, ma certamente non lo ha accolto nel suo seno. A un certo punto lo ha rigettato, cioè ha respinto le sue idee quasi non fossero mai esistite e mai più potessero esistere. C’è però un altro particolare, solo apparentemente secondario, che accomuna forse ancora di più le due parabole: il modo in cui entrambi hanno affrontato la morte in relazione a chi continua a vivere. Dice Valentino Parlato che il suo amico e compagno Lucio scelse il suicidio assistito per avere «una morte pulita», senza corpi sfracellati al suolo o ritrovati riversi tra lenzuola scomposte, particolare che indica attenzione, cura e delicatezza per coloro che del cadavere poi devono farsi carico. Sentite Socrate: “È il momento per me di dirigermi in bagno, perché pare che sia meglio bere il veleno dopo essersi lavato, per non dare il fastidio alle donne di lavare un cadavere”. Passiamo ora dalla filosofia alla biologia, nello specifico alla vita e alla morte delle cellule. Queste possono morire in due modi. La necrosi è il primo. In questo meccanismo, le cellule colpite si gonfiano fino a esplodere, liberando all’esterno gli enzimi che attaccano la membrana delle cellule vicine, facendole esplodere a loro volta e provocando lesioni che si propagano, producendo infiammazione, i cosiddetti fenomeni flogistici; insomma, un processo catastrofico che può ledere profondamente l’intero organo e la sua funzionalità. Poi c’è l’apoptosi. La cellula attiva il suo suicidio e lo gestisce con cura. Condensa e frammenta il suo nucleo, tagliando in piccoli pezzi il materiale genetico. Nello stesso tempo, anche il corpo cellulare si condensa, frammentandosi nei corpi apoptotici, mentre la membrana esterna si modifica, sembra che bolla, ma rimanendo intatta, cioè impedendo la fuoriuscita degli enzimi che contiene. Questa morte, questo suicidio assistito cellulare non comporta lesioni né infiammazioni. Ma c’è di più. Mentre muore, la cellula si rivolge e parla a quelle che la circondano, usando due linguaggi: uno è quello delle cellule viventi, l’altro è specifico della cellula morente. Cioè: nel suicidio/apoptosi, la morte cellulare può essere accompagnata da un discorso, dall’emissione di segnali e messaggi ai propri vicini, un trasferimento di conoscenza che può portare alla creazione di nuove cellule o indurre trasformazioni e mutazioni in quelle vecchie. Il suicidio cellulare, l’apoptosi, diventa morte creatrice. Se pensiamo a Magri che, con l’idea del suicidio già in testa, scrive Il sarto di Ulm per raccontare il comunismo italiano, la sua ascesa e la sua caduta, e quindi parla a lungo con gli amici, le cellule a lui più vicine, cercando di ridurre i traumi dovuti alla sua morte, ecco che l’analogia prende consistenza. Infine, è certo che il suo percorso dalla vita alla morte sia stato molto più doloroso e difficile di quanto sembri nella mia descrizione; ma qui si entra in una intimità che sappiamo esistere, ma credo vada lasciata indenne, intatta, senza ipotesi o considerazioni. Nessuna. (bruno giorgini) Ps: Chi volesse approfondire i meccanismi della morte cellulare, può leggere J. C. Ameisen - La Sculpture du Vivant - Le Suicide cellulaire ou la Mort créatrice, Editions du Seuil, 1999. Per la morte del comunismo, L. Magri, Il sarto di Ulm. Una possibile storia del Pci, Il Saggiatore, 2009.

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[de bellis/fotogramma]

La scelta

#Un suicidio ethico



spiriti liberi di

Giulio Giorello

che vita vorresti? “E perché sei virtuoso tu, speri che spariscano pizze e birra?”, dice Ser Tobia nella Dodicesima notte di William Shakespeare (“cakes and ale”, nell’originale). È vero che siamo in un momento di crisi pressoché in tutta Europa, ma per questo non vogliamo dimenticare che lo spirito della festa è anche quello della rivendicazione dei propri diritti (onore a James Hillman, scomparso l’ottobre scorso, il quale ha mostrato come il revel, ovvero la baldoria più sfrenata, è l’altra faccia del rebel, cioè della ribellione più rigorosa e più appassionata). La Dodicesima notte non è altro che la Notte dell’Epifania, l’occasione in cui i re magi portano al Gesù bambino, oro, incenso e mirra (e chissà che cosa ci combinavano quei “poco raccomandabili” immigrati dall’Oriente!); ma era anche la notte durante la quale nell’Inghilterra elisabettiana, i giovani eleggevano il Lord of Misrule, ossia il sovrano della sovversione delle regole che, seppur in modo effimero, indicava che era possibile mettere “il Mondo a testa in giù”. Sapranno fare qualcosa del genere i ragazzi che non vogliono rinunciare a birra e pizza alle Colonne di San Lorenzo della mia Milano, o in qualsiasi altra piazza d’Italia? In attesa che qualche sociologo ci spieghi se l’insofferenza di questo “popolo della notte” sia frutto di consumismo impenitente o di insubordinazione puramente generazionale, ricordiamo che nel mezzo dell’arco temporale che va dal Natale all’Epifania è stato ufficialmente collocato l’inizio dell’anno nuovo. È l’occasione in cui ancora si vendono “almanacchi e lunari nuovi”, come ben sappiamo da una delle Operette morali di Giacomo Leopardi. “Oh che altra vita vorreste rifare? La vita c’ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro?”, chiede il Passeggere del Dialogo leopardiano, visto che anche i politici non se la passano tanto felicemente e “il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male”. Nulla di nuovo sotto la Luna. Anche oggi (2012) possiamo divertirci a immaginare il piacere delle sorprese “della vita che non si conosce ancora”. Leopardi colpiva nel segno; ma il suo pessimismo non impediva, anzi favoriva, la denuncia coraggiosa dei guai della propria epoca. E noi? Non abbiano il diritto, non a sperare in, bensì a lottare per un mondo con meno oppressi e oppressori, con maggiore equità e meno privilegi, con maggior comprensione e meno ostilità per chi viene da regioni diverse per geografia e cultura. Tanto per fare un esempio, il diritto di respingere una pretesa modernizzazione imposta dall’alto (e con i manganelli) a chi ha le sue ragioni per dire di no, come avviene pressoché ogni anno con le genti della Val di Susa. Le quali non sopportano il faraonico “progresso” di un’Alta Velocità sulla quale l’Economist, che non è esattamente un foglio “anarco-insurrezionalista”, nutre perplessità (mentre una buona infrastruttura giova a tutti, una “cattiva” – e comunque imposta a forza – può “deragliare dalla finanza pubblica come dalle ambizioni di sviluppo di un Paese”, 3 settembre 2011). Dunque, buon anno ai “ribelli contro la Tav”. Lor signori no pasarán.

C 2012 il calendario illustrazioni di

Franco Brambilla Illustrando la collana Urania da una decina di anni, mi sono imbattuto molte volte nel dover illustrare la fine del mondo: guerra atomica, virus o asteroide che fosse, ogni immagine doveva essere forte, coerente con il testo, drammatica e diversa dalle precedenti. Per esorcizzare l’arrivo del tanto temuto anno 2012 mi sono divertito a realizzare una serie di “fini” del mondo da raccogliere in un ipotetico calendario. L’occasione è troppo ghiotta e potrebbe anche essere l’ultima.

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.eu di

Stefano Squarcina

invertiamo la rotta Addio 2011, non ti rimpiangeremo! Sei stato l’annus horribilis dell’Unione europea: ne hai fatto tremare le fondamenta, ne hai sconquassato la stabilità finanziaria, economica e sociale, hai riportato in superficie una crisi i cui esiti rimangono ancora incerti e drammatici, hai sventrato la vita di milioni di persone falciando posti di lavoro, diritti, sogni e opportunità. Nel 2012 dobbiamo aprire in Europa una fase del tutto nuova: quella sin qui sperimentata, fatta esclusivamente di tagli indiscriminati allo stato sociale, ai servizi pubblici o alle politiche di sostegno della crescita, sta inevitabilmente annientando i destini economici e sociali dei popoli europei. L’idea che solo l’imposizione di politiche nazionali ispirate a rigore e austerità possa risollevare un’Europa mai così acciaccata è profondamente sbagliata, nonché antieconomica sul piano dei risultati. Il 2012 sia l’anno in cui valorizziamo la dimensione solidale delle politiche dell’Unione, l’unica in grado di consolidare e salvare il progetto d’integrazione europea. Anche perché non tutto è perduto. È necessario che l’Unione prenda nel 2012 almeno tre decisioni politiche fondamentali di medio-lungo periodo, costruendo alleanze che mettano in un angolo, se necessario, l’ostilità della Germania: 1) autorizzare la Banca centrale europea (Bce) a garantire pienamente per le quote di debito pubblico spazzatura dei Paesi in difficoltà, continuando nell’acquisto di quote massicce di debito degli Stati più esposti, nonostante i limiti formali del suo statuto; 2) accordarsi rapidamente sull’emissione di Eurobond, titoli di Stato europei garantiti dalla Bce, per trovare le risorse necessarie al rilancio dell’economia, a partire dalle timide proposte della Commissione europea presentate nel novembre scorso e che rimangono, per il momento, nel cassetto; 3) più generalmente, modificandone lo statuto, dare alla Bce una struttura politica e decisionale simile a quella della Federal Reserve americana o della Banca d’Inghilterra per permetterle di intervenire a sostegno delle economie reali degli Stati membri Ue, invece di fissarsi sempre e solo sul controllo dell’inflazione. Attraverso gli Eurobond si tratta di far prevalere l’idea che l’Unione è uno spazio solidale sul piano politico, economico, sociale e finanziario, che si esce da questa maledetta crisi solo se si recupera lo spirito europeista dei padri fondatori dell’Unione, che sulle ceneri della guerra hanno saputo trovare storici spazi d’intesa. La moderna dittatura dei mercati e della speculazione va sconfitta con la cooperazione e la solidarietà intra-Ue, altrimenti gli egoismi economici nazionali e la cecità politica dei governi, soprattutto di Francia e Germania, ci porteranno alla catastrofe sociale. Questa è la vera scommessa del 2012.

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buen vivir di

Alfredo Somoza

la sfida continua Il 2011 per l’America Latina si chiude senza soprassalti economici e questo, in tempi di crisi globale, non è poco. Sono stati leggermente rivisti al ribasso gli indici di crescita, comunque tutti positivi, e la situazione finanziaria del subcontinente è solida. Questo dato macroeconomico è il frutto delle politiche ormai decennali di diversificazione del commercio estero, dopo la rottura della storica dipendenza dai soli mercati occidentali, e della crescita del mercato interno e intra regionale, potenziati dal nuovo clima di collaborazione tra i Paesi che si sono raggruppati nelle diverse alleanze regionali (Mercosur, Unasur, Alba). Probabilmente, in passato questi dati, da soli, non avrebbero inciso sulle condizioni di vita della gente ma, partendo dalla ritrovata solidità economica, sono state scelte politiche sociali che hanno portato alla ridistribuzione del reddito, favorendo l’uscita dalla povertà di milioni di persone e tenendo alti i livelli occupazionali. L’America Latina in passato ha dimostrato che era possibile coniugare liberismo e dittatura; oggi insegna che si possono unire crescita economica e ridistribuzione della ricchezza. Una lezione imparata a caro prezzo, ma che diventa la stella polare in materia economica per tutta la regione. La brasiliana Dilma Roussef e l’argentina Cristina Kirchner, all’ultimo G20 di Cannes, ai loro colleghi europei – venuti al vertice anche per chiedere l’aiuto dei Paesi emergenti – hanno ricordato che «dalla crisi non si esce massacrando i lavoratori e dimezzando i diritti». La chiave della crescita latinoamericana degli ultimi anni è stata infatti l’esatto contrario dei dettami neoliberisti, e per questo, con i diritti e il potere d’acquisto dei lavoratori è aumentata anche l’appetibilità di questi mercati, che hanno attirato soprattutto investimenti produttivi. Il 2012 si apre quindi in un clima sereno, anche se ovviamente non sono da escludere colpi di coda della crisi europeo-statunitense. Sarà un anno senza grandi appuntamenti elettorali – ad eccezione delle presidenziali nel martoriato Messico – e, nelle intenzioni dei maggiori leader del continente, un anno lungo il quale approfondire i reciproci legami economici e quelli con le altre aree emergenti del mondo, Asia in testa. Per la società civile latinoamericana resta la sfida di spronare continuamente i governi, perché l’agenda dell’inclusione sociale venga costantemente rilanciata verso l’obiettivo, ancora lontano, di eliminare la povertà estrema, riconquistare spazi di legalità sottraendoli al narcotraffico e alla violenza, ridurre la corruzione, riconoscere diritti a minoranze etniche e di genere. Un’agenda ricca e complessa, alla quale i movimenti dell’America Latina non intendono rinunciare, ma che diventa fattibile solo se la partecipazione dei cittadini rimarrà alta come in questi ultimi anni, nei quali un intero continente è passato dall’orrore alla speranza.

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il capitale di

Niccolò Mancini

salvi per un pelo Questa è la sintesi brutale di un anno, il 2011, che avrebbe potuto passare alla storia come l’anno del default italiano, sulla scia della vera e propria fuga dai titoli del nostro debito pubblico, con conseguente innalzamento dei rendimenti ben oltre il 7 per cento, soglia indicata da molti economisti come limite alla sostenibilità del nostro stock di debito. E proprio gli oltre 1.900 miliardi di titoli di Stato in circolazione, ai quali si è sommata la progressiva perdita di credibilità del governo guidato da Silvio Berlusconi, hanno fatto del nostro Paese l’obiettivo prediletto della speculazione che, attaccando l’Italia, ha messo in discussione la sopravvivenza stessa dell’euro. Ad alimentare ulteriormente l’incertezza, hanno anche contribuito le discutibili scelte dei leader dei due principali Paesi del continente, Germania e Francia, che prima hanno lasciato peggiorare la situazione della Grecia, diventata nel corso del 2011 addirittura esplosiva, e poi non hanno saputo contrastare l’azione speculativa dei mercati finanziari, arroccandosi – in particolare Angela Merkel – su posizioni di estrema rigidità che hanno provocato danni ingenti a banche e aziende dei loro stessi Paesi, come sta a testimoniare il salvataggio in extremis di Commerzbank, seconda banca tedesca. Conseguenza della pressione dei mercati, sono stati il cambio di governo in Italia, con l’insediamento di un esecutivo tecnico guidato da Mario Monti, e le elezioni in Spagna, che hanno chiaramente allentato la pressione sui titoli di Stato dei due Paesi e sul differenziale di rendimento (spread) nei confronti dei “titoli guida” tedeschi, arrivato nelle fasi più acute della crisi a oltre il 5,5 per cento. In particolare i mercati, per quanto riguarda l’Italia, hanno atteso la presentazione della manovra da parte del governo Monti per dare il loro assenso alle misure proposte, come testimoniato dal rally scatenatosi sui Cct, Btp e Bot, che nelle prime settimane di dicembre hanno registrato dei progressi notevoli, con il rendimento dei titoli a dieci anni (quello su cui si misura lo spread con la Germania e che si traduce in oneri da pagare da parte dello Stato) precipitato di oltre il 2,5 per cento. Inutile dire che i mercati non sono stati a disquisire sull’equità della manovra mentre, per quanto riguarda i numeri, questi parlano di un oggettivo recupero di credibilità del nostro Paese che secondo alcuni analisti, dovrebbe proseguire anche nel 2012.

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testo e foto

Gabriele Battaglia

Risiko

Isole Svalbard, arcipelago a sovranità norvegese e luogo più accogliente del Pianeta, grazie a un trattato del 1920 che attira gente da tutto il mondo. Con lo scioglimento dei ghiacci questo territorio sarà sempre più strategico per il controllo di petrolio, gas, banchi di pesca e nuove vie d’acqua attraverso il Circolo polare. La partita tra diversi Stati è già cominciata

«Scendi dalla macchina – dice Stefano – vai in quel prato». Fatti tre passi, quattro uccelletti si alzano dal manto erboso, scendono in picchiata come Stuka della Luftwaffe e inducono alla precipitosa ritirata in auto. Sono sterne. Abbiamo invaso il terreno in cui depongono le uova. Forse saremmo anche noi così suscettibili se, per riprodurci, facessimo due volte l’anno 20mila chilometri volando dal Polo Nord al Polo Sud e ritorno. Una quindicina di metri più in là, in un tipico acquitrino provocato durante il disgelo dall’impermeabilità del permafrost, alcuni edredoni si coalizzano per respingere l’assalto di un gabbiano glauco, carnivoro, ai loro nidi. Sono anatre piuttosto larghe e schiacciate, da cui si ricava un piumino pregiato e totalmente ecologico: le piume sono quelle delle femmine e si raccolgono dai nidi una volta abbandonati. A fianco c’è un canile autogestito – non dai cani, ma dai loro padroni – dove i quattro groenlandesi di Stefano sembrano voler sfondare le reti metalliche dalla gioia quando ci vedono arrivare.

Sono più grossi degli husky, meno veloci a tirare la slitta, ma più forti e resistenti. «Dopo dodici ore di viaggio – dice lui – trovano ancora la forza di azzuffarsi un po’ a fine giornata». Su tutto domina un cartello stradale che inquieta un po’. È triangolare, con la sagoma di un orso polare e la scritta “Gjelder hele Svalbard”. In tutte le Svalbard. Attenzione al predatore alfa dell’arcipelago. Ultima vittima, il 5 agosto scorso. Horatio Chapple, 17 anni, è stato dilaniato nella sua tenda mentre partecipava a un campo avventura con altri giovani britannici. Qui si va in giro con il fucile a tracolla. Isole Svalbard, tra il settantaseiesimo e l’ottantunesimo parallelo. Natura maestosa, complessa, selvaggia. Una prima sorpresa per chi immagina il paesaggio oltre il

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artico

Circolo polare artico come una sola, enorme, landa desolata, fredda nei colori oltre che nel clima. Animali migratori, tutti. In questo pezzo di Norvegia che Norvegia non è, anche la presenza umana è articolata e migrante. Ed è la seconda sorpresa. In un arcipelago grande come Belgio e Olanda, in cui la notte artica dura da ottobre a febbraio, vive gente che arriva da ogni dove. Il motivo è che le Svalbard sono il luogo più accogliente del mondo, anche più di quella Norvegia contro la cui capacità di inclusione a luglio si è scatenata la rabbia razzista di Anders Behring Breivik. Tutto dipende da un trattato del 1920, forse l’ultimo ancora in vita tra quelli che costituirono la Pace di Versailles, al termine della Prima guerra mondiale. Si chiama Trattato di Spitsbergen, antico nome dell’arcipelago e attuale dell’isola maggiore. Stabilì, in buona sostanza, che la sovranità sulle Svalbard fosse norvegese ma che tutti i Paesi sottoscrittori – a oggi oltre quaranta, Italia compresa – potessero liberamente accedervi per ragioni scientifiche o commerciali. La Russia, allora Urss e rivale della Nor-

vegia, in quegli anni era in altre faccende affaccendata: la comunità internazionale ignorò le proteste di Mosca, che avrebbe voluto per le isole lo status di Terra nullius. Il trattato sanciva anche che l’arcipelago fosse smilitarizzato. La Norvegia avrebbe avuto il diritto di raccogliervi tasse solo per mantenere le isole. Oggi, il carico fiscale è del 15,8 per cento sul lordo. Di fatto, l’arcipelago è un paradiso fiscale sia per le imprese sia per i lavoratori. Longyearbyen è il capoluogo: duemila abitanti scarsi, di cui almeno quattrocento stranieri, in fondo all’Adventfjorden. A loro disposizione, università, casa della cultura, museo, centro commerciale, supermercato, bar, ristoranti. L’impressione è che la Norvegia faccia di tutto per attirarvi gente. Eppure il gioco non vale la candela. Il capoluogo prende il nome da John Munroe Longyear, lo statunitense che nel 1905 con la Arctic Coal Company impiantò in questa valle l’industria carbonifera. Si accorse ben presto che i profitti erano uguali a zero e nel 1916 vendette il lotto alla norvegese Store Norske. Oggi, tutte le miniere, tranne una, sono archeologia industriale.

www.eilmensile.it Sul nostro sito la gallery fotografica del reportage dalle isole Svalbard


Gente polare

Stefano Poli è qui da diciassette anni per una scelta di vita. Fa la guida e il tour operator, ma ha messo in piedi anche un museo – lo Spitsbergen Airship Museum – che meriterebbe maggiore attenzione da parte di istituzioni e sponsor di casa nostra. Illustra le grandi imprese dei dirigibili italiani di inizio Novecento, l’epopea del “Norge” e poi dell’ “Italia” di Umberto Nobile. Insieme ai reperti originali, inediti, c’è tanto orgoglio patrio, la riscoperta della presenza italiana nell’Artico attraverso la storia e la scienza. C’è però chi è sulle isole per un motivo assai più prosaico: alle Svalbard, senza problemi di visto, puoi guadagnare in un giorno quanto nel tuo Paese porti a casa in un mese. Lek è una donna di cinquant’anni, è qui da dieci. Viene da un villaggio vicino a Bangkok. Sua figlia Apinya di anni ne ha ventisei ed è a Longyearbyen da sei mesi. Volto tondo e un po’ smarrito, sta seguendo il corso gratuito di norvegese riservato agli stranieri. Voleva congiungersi alla madre già due anni fa, ma aveva resistito poco. È tornata in Thailandia, si è laureata, è entrata per qualche tempo in un monastero buddhista e poi ha deciso di riprovare con l’Artico. Ora aiuta la madre che fa la donna delle pulizie. O meglio, l’imprenditrice di se stessa. Sullo Svalbardposten, Lek pubblica periodicamente un annuncio in cui offre, oltre al lavoro domestico, servizio catering di cucina thai e sedute di massaggi. «Quella thai è la cucina tipica delle Svalbard», scherza Stefano, ma neanche troppo. I thailandesi sono la terza comunità dell’arcipelago, dopo norvegesi e russi-ucraini: una cinquantina di persone. La prima donna è arrivata al seguito di un ex minatore norvegese che era andato a svernare in Oriente. Poi il flusso è continuato. C’era addirittura una signora che truffava i connazionali, ignari che a Spitsbergen ci si arriva senza visto. Lei si offriva di sbrigare le inesistenti pratiche per l’immigrazione, li ospitava alla bell’e meglio, quantificava i suoi servigi in 40mila corone e poi li metteva al lavoro nella propria ditta di pulizie affinché la ripagassero. Pare che il business sia ancora in corso.

Lek si è emancipata, adesso lavora in proprio. Rassetta le stanze occupate dai turisti e se questi lasciano qualcosa in frigo, tanto meglio. Così, da formichina coscienziosa, ha già fatto costruire due ville in Thailandia: una per sé e una per la sorella. Un giorno ci tornerà. «Non vedo l’ora di andare in pensione», dice. Fa le pulizie anche Lena, 44 anni, ucraina alta e bella. Nel sabato “sera” di Longyearbyen – in estate 24 ore di luce – esce per locali con la figlia Daria. È capitata alle Svalbard con un norvegese che poi ha avuto un’ischemia ed è sparito dalla circolazione. Lei è qui, accumula, poi si vedrà. Oltre al menu thai, la cucina tipica delle Svalbard prevede il kebab. Due fratelli iraniani hanno aperto un negozietto di fianco al centro commerciale, aperto ventiquattr’ore su ventiquattro. Fino a poco tempo fa avevano un concorrente: un altro iraniano che lavorava al supermercato Coop e, quando smontava, andava in giro con il suo furgone rosso, con un orso dipinto sul portellone che lui apriva di fronte ai locali per vendere il kebab. Il negozio ambulante si chiamava Kebab Orso Rosso. Adesso non lo fa più, per colpa di uno dei paradossi del Trattato di Spitsbergen. Quest’uomo ha un figlio sul continente, a Tromsø. Ma visto che la Norvegia, a differenza delle Svalbard, fa parte dell’area Schengen, lui, iraniano, avrebbe bisogno di un visto per andare a trovarlo. Ha sempre preferito fare avantiindietro clandestinamente, in barca. L’ultima volta però è stato fermato e, dato che per ragioni umanitarie non potevano rispedirlo in Iran, è stato arrestato. Adesso è in galera a Tromsø. Andreja, 48 anni, croata, ha un bel viso affilato e un passato in Italia come badante per malati d’Alzheimer.

▲ Longyearbyen,

la vecchia teleferica che trasportava il carbone al porto ▲ ▶Murale in stile sovietico sulla facciata del centro culturale di Barentsburg ▶ Muratori tagiki a Barentsburg


Non ne parla volentieri: «La Croazia, dopo la fine della guerra, è diventata un brutto posto. Non c’è rispetto per chi lavora, comandano le mafie e riesce solo chi prende vie traverse». In Italia, invece, «ci sono troppi stranieri, troppa criminalità». Ha letto un articolo sulle Svalbard in cui si diceva che qui si prendono anche tremila euro al mese, ha mollato i vecchietti e si è precipitata oltre il Circolo polare. Adesso è qui da due anni e mezzo e con il suo lavoro mantiene se stessa e una figlia venticinquenne, Tamara, che studia negli Stati Uniti. Già, il lavoro: «Dormo due o tre ore a notte», serve ai tavoli del bar nell’ostello locale, poi fa le pulizie per il comune di Longyearbyen: alla centrale termica, al porto, alla scuola e in alcuni appartamenti che l’amministrazione affitta ai turisti. Oggi cerca di convincere soprattutto se stessa che i soldi non sono tutto: «Volevo un’isola e la natura. Non so ancora cosa farò in futuro, per ora sono qui». Sono tutti qui “per ora”. Accumulano. Poi si vedrà.

Il fattore russo

Il motivo per cui la Norvegia ha sempre cercato di attirare da queste parti genti e investimenti è il “fattore russo”. La neonata Unione sovietica, esclusa dal trattato del 1920, rientrò dalla finestra nel 1924 quando accettò la sovranità norvegese sulle isole in cambio del riconoscimento da parte di Oslo della propria esistenza. Dato il particolare status delle Svalbard, ne approfittò immediatamente e, unica nazione oltre alla Norvegia, cominciò ad acquistare miniere nell’arcipelago. Lo strumento fu un’azienda di Stato, l’Artikugol, fondata nel 1931, che ripristinò immediatamente il vecchio insediamento minerario di Grumant, non lontano da Longyearbyen. Nel 1932 rilevò l’intero lotto di Barentsburg dai precedenti proprietari olandesi, mentre nel 1927 aveva già acquistato dagli svedesi quello di Pyramiden, che sarebbe entrato in attività solo nel dopoguerra. Grumant, Barentsburg e Pyramiden divennero di fatto enclave sovietiche in territorio norvegese; ed è così che Norvegia e Russia vanno a braccetto nell’arcipelago

da quasi un secolo. Non solo. Fino alla dissoluzione dell’Urss, i sovietici erano qui molto più numerosi dei norvegesi: circa 2.500 persone impiegate nelle miniere dell’Artikugol, solo 650 in quelle della Store Norske. E tra i minatori in pensione, c’è ancora chi ricorda che le guardie sovietiche andavano in giro con l’elicottero, quelle norvegesi con le slitte trainate dai cani. I rapporti tra le due comunità erano circospetti ma cordiali, anche se ogni tanto, forte della propria sovranità, qualche norvegese andava a ficcare il naso nelle zone russe. In tal caso, l’atteggiamento dei sovietici è ben sintetizzato dal rapporto che nel 1949 il locale segretario del Partito fece al comitato centrale: “Cerchiamo di non ricevere ‘ospiti’ con diversi pretesti, ma quando è proprio necessario, li accogliamo piuttosto bene: li nutriamo, li ubriachiamo fradici, gli impediamo ogni rapporto con i lavoratori e cerchiamo di spedirli via piuttosto in fretta”. D’altra parte le ansie norvegesi sono ben riassunte da quanto il primo ministro Einar Gerhardsen disse nel 1948 ai pari grado di Svezia e Danimarca: «I russi hanno un gran numero di lavoratori alle Svalbard, e sappiamo bene che non c’è molta differenza tra la tuta d’operaio e la divisa da soldato». La necessità di garantirsi la presenza più estesa possibile, indusse la Norvegia a fare incetta di Treaty-Land, di tutti quei lotti cioè che già appartenevano a privati prima del Trattato di Spitsbergen e che erano perciò sottratti alla sua sovranità. Li pagò a peso d’oro e ad approfittarne, non è una barzelletta, fu una compagnia scozzese: nel 1952, la Scottish Spitsbergen Syndacate vendette alla Norvegia i propri terreni totalmente improduttivi per 500mila corone. Oggi a Barentsburg ci sono solo 400 abitanti e la miniera è quasi ferma. Quanto a Pyramiden, è una ghost town abbandonata alla fine degli anni Novanta, meta di turisti che vogliono farsi fotografare sotto “la statua di Lenin più a nord del mondo”. Idem per Grumant, poche case in rovina su una scogliera verdissima. Tre giovani lavoratori sui vent’anni, dai tratti asiatici, rientrano a Barentsburg da Kapp Heer, dove c’è l’eliporto che serve l’insediamento russo. Si spostano sul cassone della ruspa. Sono tagiki. «Siamo muratori. Ristrutturiamo gli alloggi dei minatori. Lavoriamo qui per sei mesi, dieci ore al giorno. Poi torniamo a casa. Qui fatichiamo, là riposiamo. Si guadagna bene, tre, quattro volte quanto prenderemmo in Tagikistan. A Barentsburg ci sono soprattutto ucraini e russi, poi gli armeni, noi tagiki e anche un uzbeko. L’unico problema – ridono – è che non ci sono donne». In realtà ci sono. Lena, l’ucraina che serve al bar dell’Hotel Barentsburg, è qui da vent’anni: famosa anche a Longyearbyen perché «non sorride mai», serve pietanze indecifrabili ma gustose. L’albergo restituisce l’atmosfera tipica della Russia sovietica, quell’aria dimessa che un tempo ritrovavi dall’Amur alle Svalbard, dal Mar Nero allo stretto di Bering. Lo raccontano i gradini delle scale decorati con una mesta striscia di vernice neanche dritta, gli arredi di legno che farebbero schifo a qualsiasi mobiliere brianzolo, le tovaglie beige ricamate con fantasie floreali tono su tono, la carta da parati di una bruttezza a suo modo ricercata. Intorno, cavi elettrici a vista, fiori di plastica, tappeti sporchi, termosifoni di ghisa massiccia, due corna di cervo appese al muro, lampadari scoperchiati, copridivano disfatti, vetri decorati con lo


Tutti alle Svalbard «Gas, petrolio, pesce, risorse minerali e perfino l’energia eolica. Non so se chiamarla ‘corsa all’Artico’, ma che tutta quell’area interessi parecchio è una certezza». Øyvind Paasche, geologo, esperto di mutamento climatico, direttore del Bergen Marine Research Cluster, vicepresidente del UArctic Research Office di Arkhangelsk e collaboratore del sito OpenDemocracy, non ha dubbi: qualcosa, dalle parti del Polo Nord, si sta muovendo. E anche velocemente. «Tutti gli otto Stati che compongono il Consiglio Artico (Canada, Russia, Norvegia, Danimarca, Islanda, Usa, Svezia e Finlandia) hanno elaborato strategie per ottenere i propri scopi. Gli ultimi a pubblicare un documento in merito sono state la Svezia a maggio e la Danimarca a settembre. All’interno dei singoli Stati ci sono poi le imprese che, a loro volta, hanno piani specifici, non necessariamente in linea con quelli nazionali. Questo complica lo scenario». «In questa corsa, le Svalbard hanno una posizione strategica. Lì, potenzialmente, si possono costruire porti di grandi dimensioni per i trasporti attraverso il Polo Nord. Questo cambierebbe il ruolo dell’arcipelago, attualmente importante soprattutto come centro di ricerca scientifica, attività che rafforza soprattutto la posizione della Norvegia, che vi ha pure insediato un’università e che ha sempre spinto in questa direzione. Ma adesso tutti hanno installazioni scientifiche alle Svalbard: nell’insediamento di Ny-Ålesund ci sono anche i cinesi, per esempio». «A questo punto è fondamentale comprendere quanto la Norvegia abbia intenzione di proteggere le isole. Ci vogliono dei limiti sia per la navigazione sia per il numero di turisti ammessi nell’arcipelago. Il punto è la gestione delle Svalbard dal punto di vista della sostenibilità e della protezione ambientale. Il Consiglio Artico deve affrontare al più presto questo tema perché quell’ecosistema sta cambiando così velocemente che è difficile capire da che parte cominciare: dal patrimonio ittico, dallo scioglimento dei ghiacci, dai cambiamenti meteorologici? La scienza politica è molto lenta a comprendere l’evoluzione dell’Artico, che è una sfida per tutti. Gli otto Stati artici fanno cartello e tendono a escludere gli altri, ma è fondamentale che anche l’Unione europea e la Cina riescano a interagire».

stemma dell’Artikugol (un orso che sovrasta una falce e un martello). Intanto la radio trasmette canzoni folk russe e fuori la camminata ciondolante dei minatori sembra un po’ rassegnata. Dal socialismo al capitalismo sono sempre qui a prendere freddo. Viktor ha quarant’anni e qualcosa: «Sono russo di famiglia ucraina, nato in Crimea. Sto qui dagli anni Ottanta, il caldo della Crimea non me lo ricordo più. Non è male, la paga è buona». Sorride beato mostrando una femmina di edredone che cova sul ciglio della strada. All’eliporto, sull’hangar ridipinto di recente, falce e martello fanno ancora bella mostra di sé. In tempi di Guerra fredda qui atterravano grandi elicotteri sovietici e il personale era in gran parte militare: armati fino ai denti ma in segreto, dato lo status smilitarizzato dell’arcipelago. Oggi, l’impressione è che da queste parti la Russia punti sul rilancio turistico più che sulle miniere, da sempre in passivo. Sembra voler dire: con la nostra macchina del tempo puoi ancora vedere un pezzo intatto di vecchia Unione sovietica. Pyramiden. Dimitri, giovane guida di San Pietroburgo

▶ ▲ Radar

sulle montagne alle spalle della Adventdalen la seconda statua di Lenin più a nord del mondo. La prima è a Pyramiden ▼Barentsburg,


indica i lavori in corso: «Bisogna mettere il posto in sicurezza». Per che cosa? «Per il turismo, forse anche per qualche installazione scientifica. Qui stavano i maiali e là si coltivava la verdura per la comunità, grazie a un sistema di tubi sotterranei che riscaldava il permafrost. In quel palazzo stavano le donne nubili, in quell’altro i maschi celibi, laggiù le famiglie. E infatti regnava il caos. Anche perché i bambini giocavano spesso all’interno delle case per via del freddo». Masha, una giovane insegnante di Mosca dagli occhi blu, qui in un viaggio della memoria, guarda la ghost town: «È triste. Tanta energia, tanti soldi, tanta gente, tutto per niente». Suo nonno faceva il minatore in Siberia «come molti di quelli che arrivavano alle Svalbard, cercando un po’ di fortuna e convinti di spostare un po’ più a nord la frontiera del socialismo». Anche suo padre era tra questi: era capitano di una nave e sognava di trasferirsi qui. Nelle sue manovre d’avvicinamento al sogno, passò un giorno per Mosca e incontrò la madre di Masha. L’amore lo arenò e gli fece dimenticare le Svalbard.

La corsa all’Artico

Come mai ancora oggi Oslo e Mosca, a fronte della gestione in perdita delle attività economiche delle Svalbard, continuano a buttare soldi nell’arcipelago? La risposta è semplice: per esserci. È stata definita “la corsa all’Artico”, la posta in gioco non sono più banchi di aringhe e posizioni strategiche per governare il passaggio delle flotte. Il mare di Barents sovrasta, secondo gli esperti, 300 milioni di tonnellate di petrolio e, tra greggio e gas, almeno un quinto dei giacimenti ancora inutilizzati del pianeta. Con il global warming e lo scioglimento dei ghiacci tutto questo diventa a portata di mano. La norvegese Statoil – a maggioranza pubblica – ha di recente avanzato rivendicazioni alla commissione delle Nazioni unite che definisce i limiti delle acque territoriali, per poter trivellare senza concorrenti il fondale marino. D’altra parte, Mosca si fa sempre più assertiva nella sua politica artica. Le Svalbard non sono così lontane dal porto di Murmansk, il migliore punto di partenza della Sevmorput, la rotta a Nordest che abbatte i tempi di percorrenza tra Atlantico e Pacifico lungo le coste settentrionali russe. Le Svalbard, sono lambite dalla corrente del Golfo, il che le rende relativamente calde. Sono il limite settentrionale della sopravvivenza umana, come dimostrano anche le genti di mezzo mondo che ci vanno a vivere. Sono richiamate dal governo norvegese, secondo quel principio di effective occupation che ha sempre regolato le terre di nessuno dei ghiacci polari: chi prima arriva, si insedia, commercia, scava, occupa, meglio alloggia. Poi ci pensano i trattati a ratificare l’esistente. La Norvegia, fin da inizio Novecento, ha cercato di arrivare prima della Russia, sfruttando gli inciampi storici del grande contendente: prima, le imprese aviatorie di Amundsen per mettere la bandierina sui ghiacci mentre

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l’impero dei Romanov boccheggiava; poi il Trattato di Spitsbergen all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre e in piena guerra civile tra rossi e bianchi; infine, l’accelerazione della colonizzazione soft delle Svalbard attraverso il turismo e la ricerca scientifica al posto dell’attività mineraria, durante il crollo dell’impero sovietico negli anni Novanta. Per tutelarsi, ecco l’ombrello Nato dal 1949. Oggi, la Norvegia progressista sfrutta la propria sovranità e ci aggiunge una vocazione verde: tranne i lotti già acquisiti, praticamente tutte le Svalbard sono state dichiarate riserva naturale già nel 1973 e nessuno può più costruirvi o aprire attività minerarie o industriali. Situazione congelata, chi c’è, c’è. Il Cremlino, di rimando, moltiplica gli investimenti nei suoi insediamenti e, in tutto l’Artico, alterna piccole provocazioni a gesti simbolici: dal 2007, la bandiera russa sventola – o per meglio dire, fluttua – sul fondo del mare, nel punto esatto in cui si ritiene ci sia il Polo Nord geografico: quella bandiera sembra voler dire “il vertice del globo è nostro”. E i pescherecci che arrivano da Murmansk entrano spesso in quelle acque che la Norvegia considera propria Exclusive Economic Zone (Eez), fino a 200 miglia marine dalle coste delle Svalbard. Niente affatto, sostengono i russi, per i quali anche lì vale il Trattato di Spitsbergen, e cioè che tutti ci possono andare. La scenetta si ripete con notevole frequenza: motovedette norvegesi fermano un natante russo, fanno un verbale, il capitano non lo firma perché non riconosce la giurisdizione di Oslo su quel tratto di mare. Allora la guardia costiera rispedisce “fuori” il peschereccio, tutti protestano, ma si guardano ben dal passare alle vie di fatto. Nessuno vuole esasperare i toni di un conflitto latente. Per ora. È una questione solo russo-norvegese? No: francesi, spagnoli, danesi, britannici, islandesi, tutti e da sempre vogliono pescare nel mare di Barents. L’incidente più grave accadde nel 1994, protagonista l’Hagangur, un peschereccio che rifiutò l’ispezione della guardia costiera norvegese prendendola a fucilate. Di rimando, la motovedetta di Oslo sparò due granate che colpirono la poppa della barca. Era un peschereccio russo? Neanche per sogno: islandese. Che le Svalbard siano appetitose per mare e per terra lo dimostrano anche le mosse di altri contendenti. La fibra ottica sottomarina che collega la Norvegia all’arcipelago è stata tirata per 1.400 chilometri dalla statunitense Tyco Telecommunications ed è oggi gestita dalla norvegese Telenor. Finanziata in buona parte dalla Nasa, trasmette oggi i dati che arrivano dai satelliti che orbitano sul Polo per conto della stessa agenzia spaziale, nonché per i dipartimenti del Commercio e, soprattutto, della Difesa, di Washington (oltre che per il governo norvegese). Una joint-venture che fa comodo a tutti. «Pensa se qualcuno volesse farci un attentato», commenta Stefano, guardando l’altopiano dove sono piazzati i ricevitori dei segnali che giungono dallo spazio. In effetti, a delimitare il passaggio verso le installazioni, su una stradina che si inerpica, c’è solo una sbarra che si può sollevare: nessuna recinzione nell’immensità dei prati. L’estrema vulnerabilità rivela un’innocenza che forse già non esiste più.

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Casa dolce casa a cura di Stella

Spinelli

7 novembre, Scandicci (Fi)

Si è tolto la vita gettandosi da un viadotto nel tratto illustrazione Guido Guarnieri fiorentino dell’autostrada A1, dopo aver ucciso l’anziana madre. Emilio Lombardini, ingegnere in pensione di 63 anni, ha soffocato la mamma novantenne, Annamaria Fantappiè, che viveva a casa del figlio e della nuora ed era affetta da una grave forma del morbo di Alzheimer. È stata proprio la sua malattia, diventata un peso insopportabile per tutti, per scriverci: a far maturare nell’uomo la disperata decisione. casadolcecasa@e-ilmensile.it A dare l’allarme è stata la moglie di Lombardini. Era uscita per andare a trovare la figlia, che abita poco lontano, ma senza portarsi dietro le chiavi di casa. Quando è rientrata ha suonato più volte il campanello senza però ricevere risposta e ha chiamato i vigili del fuoco, che hanno scoperto il corpo esanime dell’anziana nel salotto. In poco tempo hanno ricostruito il quadro, ricollegando la tragedia al suicidio avvenuto poco prima sull’autostrada. Il gesto di Emilio Lombardini appare inspiegabile per chi lo conosceva. «Era una persona tranquilla», racconta un vicino di casa. «Non si lamentava mai della situazione o di dover accudire l’anziana madre».

8 novembre, Genova Casa dolce casa è l’osservatorio mensile sulle donne uccise in Italia da uomini che conoscevano, che hanno amato, di cui si fidavano. Si chiamano femminicidi e rimandano alla relazione di potere tra i generi, che resta tuttora un fattore che ordina la società. I dati pubblicati, vista l’assenza di ricerche ufficiali sul fenomeno, sono raccolti dalla stampa e riguardano il periodo di tempo dal 7 novembre al 2 dicembre. Questo monitoraggio viene effettuato in collaborazione con la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna (www.casadonne.it), associazione impegnata da diversi anni contro la violenza sulle donne, alle quali offre sostegno, ascolto, consulenze e case-rifugio, con una particolare attenzione ai figli minori. Da tempo inoltre la Casa svolge un lavoro di ricerca sul femminicidio dal quale ogni anno deriva un’indagine-quadro sulle donne uccise: da gennaio al 2 dicembre 2011 sono state 93.

Fausto Voltolina, 77 anni, ha ucciso a coltellate la moglie, Evelina Clonetti di 74 anni, e poi ha tentato il suicidio, tagliandosi la gola. Ma si è salvato. Davanti al gip, ha ammesso di aver voluto porre fine alla vita sua e della moglie, perché entrambi malati. Il suo più grande cruccio, ha detto, è quello di non essere riuscito a farla finita.

9 novembre, Porto di Legnago (Vr) Era troppo ansiosa e lo assillava affinché prendesse tutte le medicine necessarie per curarsi: per questo lui l’ha uccisa a coltellate. Nardino Biscuola, 77 anni, ha colpito una decina di volte la sua compagna, Carlina De Tomi, 65; quindi ha chiamato il 112, confessando il delitto ai carabinieri. La coppia viveva insieme dallo scorso marzo nell’appartamento del figlio della donna, rimasta vedova da qualche anno. Tutti li descrivono come una coppia unita. Dopo il delitto, Nardino ha scritto un biglietto al figlio di Carlina: “Tua mamma mi ha avvelenato, ma io l’ho accoltellata e così siamo pari”.

14 novembre, Samarate (Va)

Marianna Ricciardi, 35 anni, sposata e madre di una bambina, è stata uccisa a colpi di sedia da Domenico Cascino, 42, che, dopo aver tentato di depistare le indagini, ha confessato il delitto. I due si erano

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conosciuti all’Aloisianum, comunità religiosa dove lei lavorava per una cooperativa e lui, senza casa né lavoro e sotto processo per aver aggredito nel 2009 la fidanzata di allora, risiedeva come ospite in cambio di lavoretti. Nella sua versione, l’omicida ha parlato di una relazione fra i due che Marianna voleva troncare. Le amiche di sempre della giovane sono certe nell’affermare che Domenico abbia equivocato le attenzioni di Marianna la quale, per innata bontà d’animo «non ha voluto isolare nell’ambiente di lavoro, e nella vita, quell’uomo che, fraintendendo la sua amicizia, l’ha uccisa». Il 14 novembre si è presentato a casa di Marianna per bere un caffè e in venti minuti l’ha massacrata, prima colpendola con oggetti contundenti e poi finendola con una sedia. Dopo aver commesso il delitto, si è lavato nel bagno della stessa abitazione in cui Marianna viveva col marito e con la figlia di sette anni; quindi è fuggito, abbandonando i vestiti in un cassonetto della Caritas, per fare ritorno all’Aloisianum di Gallarate.

15 novembre, Oppido Mamertina (Rc)

Giovanni Frisina, bracciante di 42 anni, ha colpito con venticinque coltellate la sorella Rita, 52, nella casa dove i due convivevano. Dopo il delitto, l’assassino si è recato al commissariato di polizia di Palmi e ha raccontato l’accaduto. Secondo quanto emerso dai primi accertamenti, la donna soffriva di depressione e i rapporti fra i due si erano da tempo deteriorati, tanto che i litigi erano ormai quotidiani.

19 novembre, Brescello (Re)

Mohamed El Ayani, 39 anni, ha ucciso a colpi di martello sua moglie Rachida Radi, 35, madre delle sue due figlie. «Voleva lasciarmi», ha spiegato agli inquirenti. «Aveva anche una grande voglia di integrarsi», spiega il sindaco della cittadina. Per arrotondare, faceva lavoretti per la parrocchia, dove si era fatta molte amicizie. Mohamed, che è arrivato in Italia nel ’95, ha invece pochi amici e nessuna frequentazione; viene descritto come un uomo «schivo, silenzioso, incapace di fronteggiare la voglia di autonomia della moglie e della figlia più grande». A testimoniare che la vita di Rachida con il marito era ormai «diventata un inferno», sono proprio i volontari di un’associazione cattolica che le erano molto vicini. «Spesso lui alzava le mani: lei non l’ha mai denunciato, ma l’estate


scorsa, approfittando di un viaggio in Marocco, aveva avviato le pratiche per la separazione», raccontano. La tragedia si è consumata in casa, davanti alla figlia piccola, di quattro anni. Quella di undici era a scuola.

19 novembre, Bologna

Augusta Alvelo, di origine dominicana, aveva 50 anni e da quattro frequentava Loris Castelli, artigiano di 45 anni residente a Castel Guelfo. Al culmine di un litigio, lui l’ha uccisa, colpendola più volte al petto con un coltello a serramanico. Tutto è accaduto nella camera da letto della casa in cui la donna abitava con i due figli, un ragazzo e una ragazza, entrambi maggiorenni. Prima di tentare il suicidio, colpendosi al cuore con la stessa lama, Castelli ha chiamato il 118. L’uomo è stato ricoverato in gravi condizioni all’ospedale Maggiore.

21 novembre, Castiglioncello (Li)

Maurizio Sacchini, 53 anni, ha ucciso sua madre, Giuliana Massei, 79, e poi si è suicidato. Secondo i primi rilievi di polizia e carabinieri, l’uomo avrebbe sparato con un fucile e con la stessa arma si sarebbe ucciso. Maurizio, hanno detto i parenti, era di umore pessimo, senza lavoro da due anni e sempre più isolato. Giuliana, invece, aveva comportamenti insoliti e ogni giorno si dimostrava più bisognosa di cure e attenzioni.

Un anno dopo

«Tutto sommato non è andata male». Lo aveva detto commentando la sentenza che lo condannava a vent’anni per triplice omicidio: quello della ex moglie, di una vicina di casa e di un agricoltore. Omar Bianchera li aveva uccisi tutti in poche ore, il 25 aprile 2010, nel Mantovano, impugnando il suo fucile a pompa. Pochi giorni prima di quella tragica mattinata, il tribunale lo aveva condannato a pagare trentamila euro all’ex moglie, Daniela Gardoni, per il possesso della casa. Una decisione arrivata nel mezzo di fallimenti economici e personali che lo hanno spinto prima a uccidere Daniela, poi a regolare i conti con altre persone con cui era in lite: la vicina di casa Maria Bianchera, 71 anni, omonima ma non parente, e l’agricoltore Walter Platter, ucciso davanti alla moglie e ai bimbi di due e sei anni. In verità, Omar l’aveva giurata al padre di Walter, Luigi, ma quel giorno la vittima designata non era a casa e Bianchera aveva finito per vendicarsi con la persona sbagliata. Da allora era dietro le sbarre dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia: una perizia gli aveva diagnosticato una forma di schizofrenia e riconosciuto la seminfermità mentale. L’uomo era in cura con psicofarmaci antidepressivi. Il 12 novembre si è impiccato senza lasciare lettere né messaggi. Da pochi giorni aveva appreso di avere evitato l’ergastolo.


di

Gino&Michele

illustrazione Gianni Allegra

ma dov’è finito Già, che fine ha fatto il Puttanone? La domanda ce l’ha girata il direttore di questo giornale, Gianni Mura, durante una pausa pranzo pochi giorni fa. Oddio, visto la durata del break, verrebbe da pensare che in redazione ci siano delle pause lavoro tra un pasto e l’altro, ma non era questo il tema. Gianni, sia detto per i più giovani, si riferiva a un nostro particolarmente ispirato pezzo uscito nel 1989 su Cuore, il foglio satirico di Michele Serra. Di cosa parlasse il pezzo è inutile precisarlo perché va da sé. Piuttosto, se vogliamo riprendere in considerazione l’argomento, sarebbe opportuno richiamarlo a chi ne conserva vaga memoria e, parimenti, consentire di leggerlo a coloro che non ne hanno avuto occasione. Quindi, prima di vedere eventualmente dove e come è finito il Puttanone con la sua esimia famiglia, ripubblichiamo qui di seguito quanto uscito allora su Cuore… *** Abbiamo volutamente lasciato che le acque si calmassero. Volevamo riflettere con serenità. Così è stato, dunque non c’è traccia di emotività o di superficialità nella nostra presa di posizione. Il punto è questo: siamo favorevoli alla pena di morte. Non generalizzata, intendiamoci. Però la signora bionda e altera con la pelliccia di leopardo e il barboncino bianco seduta sulla jeep Cherokee Limited T.D. 4x4 verde targata MI 7M0644 che tutti i giorni tra le 12.30 e le 13 parcheggia in seconda fila in viale Majno a Milano davanti all’Istituto Orsoline San Carlo, costringendo chiunque passi di lì ad almeno cinque minuti di coda supplementare e gratuita (sei giorni la settimana per dieci mesi all’anno, da settembre a giugno), ebbene lei deve morire. Non abbiamo niente contro questa signora, non sappiamo neppure come si chiami (noi del giro, che abbiamo la fortuna di passare ogni giorno tra le 12.30 e le 13 in viale Majno, la chiamiamo simpaticamente “il Puttanone”, ma dubitiamo sia il suo vero nome), dunque non si tratta di un fatto personale. Tuttavia deve morire. Deve morire e basta. Riflettendoci meglio e per non essere fraintesi, non vogliamo dire che noi auguriamo la morte alla bionda e altera signora. Noi, più semplicemente, vorremmo procurargliela, passandole sopra con la sua invereconda Cherokee Limited T.D. 4x4, per poi infilare pure la marcia indietro, perché nello specchietto ci sembrava che il barboncino bianco desse ancora segni di vita. Questo nonostante il nostro amore per gli animali che è enorme. Ma a quei livelli anche le bestie non possono essere completamente innocenti. Che poi, se al suono della campanella dalle Orsoline uscissero dodici bambini biondi e festanti e prendessero posto sulla Cherokee, baciando la madre e prendendo a calci in culo il barboncino (se non lo avete visto mica potete capire), allora pazienza, si potrebbe chiudere un occhio: una jeep per tredici persone e un cane è quasi un risparmio in termini di spazio. Il fatto è, ma lo immaginate già, che sulla Cherokee 4x4 sale una pischella bionda di 18-20 chili che, ci si consenta il termine, occupa sì e no il posto di una scorreggetta. Oltre tutto, non per fare i seguaci del Lombroso, ma, a giudicare dall’espressione, la piccola ebete per finire il liceo di anni ce ne mette sette, non cinque come tutti i cristiani, con tutto quel che segue in termini di code. Per la verità questa minuscola figlia del Puttanone (ma, l’abbiamo detto, non siamo sicuri sia il suo vero nome) ci sta procurando delle lacerazioni. Al nostro interno il dibattito è serrato: «Bisogna giustiziare anche lei o no?». Il Fronte del “sì” non accetta mediazioni: «Basta chiudere gli occhi per vedersela fra vent’anni parcheggiata in viale Majno in seconda fila con un lussuoso, enorme Camion T.D. che aspetta un bambino biondo, il piccolissimo figlio della figlia di un grandissimo Puttanone (chiamiamola così e non se ne parli più). Meglio dunque non correre rischi». Il Fronte del “no” invece cerca di prendere tempo: «Non si elimina una creatura per un sospetto». E poi, per dirla tutta, forse qualche attenuante ce l’ha anche la signora bionda e altera. Magari abita in campagna e la jeep per lei è una necessità. Un beatissimo cazzo: il Puttanone abita in via Maggiolini 1, esattamente 480 metri appena dall’Istituto Orsoline San Carlo di viale Majno. L’abbiamo seguita e di madonne non ce ne sono. Per questo devono morire tutti: madre, figlia, nipoti, cane, marito e amante (una che si chiama così volete che non ce l’abbia?). Adesso scusate ma dobbiamo andare. È giovedì, sono le 12.47, siamo in viale Majno e stiamo per districarci. Un ultimo sforzo, la freccia a sinistra, un’occhiata se quello dietro ci fa inserire, una frenatina perché l’idraulico sulla R4 rossa che ci sta davanti si sporge verso la signora bionda e altera per urlarle:

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[getty images]

pìpol


il Puttanone? «Spostati Troione!» (l’idraulico è la prima volta che passa di qui, non la conosce ancora per nome) e poi via a consegnare il pezzo a favore della pena di morte. Pezzo che probabilmente domani, rileggendolo, ci vergogneremo di avere scritto, quindi i garantisti possono pure fare a meno di inviarci una copia di Dei delitti e delle pene. E poi, diciamocelo francamente, ai tempi del Beccaria mica c’erano le Cherokee Limited T.D. 4x4. *** Questo dunque era il Puttanone. Ma oggi? Pare brutto francamente occuparsi di un’attempata signora, per giunta con quei trascorsi. Più interessante semmai potrebbe essere immaginare il percorso della figliola, che oggi sarebbe intorno alla trentina. Questo compito però vorremmo lasciarlo a voi. Prendendo spunto da quanto accaduto in occasione dell’elezione del sindaco di Milano, quando Pisapia divenne il protagonista assoluto del web (ricordate? “Marinella non scivolò nel fiume a primavera. La spinse Pisapia!”, oppure: “Pisapia ha reso l’area del quadrato costruito sull’ipotenusa differente dalla somma dei quadrati costruiti sui cateti”), vorremmo ricevere le vostre ipotesi su chi è e che fa oggi la Figlia del Puttanone. Scrivete i vostri commenti, collegandovi a: http://www.eilmensile.it/2011/12/01/puttanone/ Intanto abbiamo provato a lanciare il concorso in ufficio. In dieci minuti abbiamo raccolto le seguenti ipotesi: La Figlia del Puttanone dopo le Orsoline si è diplomata e laureata. Oggi fa l’igienista dentale. La Figlia del Puttanone non ha visto i Soliti Idioti. Odia il cinema d’autore. La foto sul passaporto della Figlia del Puttanone gliel’ha fatta Fabrizio Corona. La Figlia del Puttanone ha affittato due locali all’Olgettina, dove ha piazzato la sede del movimento Silvio for Residence. La Figlia del Puttanone è stata in India e ha chiesto di visitare la tomba di uno dei suoi miti giovanili: padre Teresa di Calcutta. A voi e buon divertimento.

K


Lettera mosca accademico illustre di una

di

a un

Alessio Torino

illustrazioni Ale+Ale

Alessio Torino È docente di Letteratura latina all’Università di Urbino, città nella quale è nato nel 1975. Ha esordito nella narrativa nel 2010, con Undici decimi, edito da Italic, vincitore del Premio Bagutta Opera Prima e del Premio Frontino 2010 (ex aequo). Il suo ultimo romanzo è Tetano (minimum fax, 2011).

Ale+Ale Nome d’arte di Alessandro Lecis e Alessandra Panzeri, illustratori che mescolano vecchi ritagli di giornale e disegni dall’ambientazione fantastica, in opere vagamente surreali. Hanno pubblicato su quotidiani come la Repubblica e Il Sole 24 Ore, riviste quali Rolling Stone, Elle, GQ e illustrato libri delle principali case editrici italiane, ricevendo premi e riconoscimenti in Italia ed Europa.

Illustre Professore, spero che Lei potrà perdonare l’insolenza di chi si permette di scriverle, due volte colpevole perché conscio di quanto la impegnino i suoi studi e della propria nullità. A disturbarla con queste righe è una mosca, e tale da Lei deve essere ritenuta. Tanto più grande è il disagio per il tempo che la mia lettera le ruberà, perché so quanto sia vera la sua fama di lavoratore instancabile. Le confesserò di essermi spesso posata sulle finestre della sua villetta urbinate. Lei è seduto nello studio. La fronte è segnata dalle rughe di sempre. Le rughe sono bene in vista perché la sua fronte è spaziosa (la calvizie è cominciata intorno ai venti, ma Lei non se ne è mai curato, sembrerebbe che non se ne sia neppure accorto). Le rughe del pensiero si riflettono sullo schermo del computer, quello schermo che è rimasto vicino al suo viso per più ore di quanto non abbia potuto sua moglie. Lei, Professore, vive nello studio dalle sette alle dodici e trenta, e dalle quattordici e trenta fin verso le diciannove. «Verso le diciannove» è l’unico accenno vago nei suoi ritmi da compositore puntuale e infaticabile. Il computer infatti può essere spento in anticipo se le tempie mandano lievi segnali di dolore o se le palpebre bruciano. Ma chi potrebbe farle una colpa di questa libertà minima? Sarebbe un po’ come rimproverare al sole, dopo tutte le sue fatiche nucleari, di non tramontare mai alla stessa ora. La mia stima per la sua fermezza è infinita. Ronzavo tra i suoi assistenti quando imparai, illustre Professore, che Lei non gradiva gli auguri sotto Natale:

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«Buongiorno, Professore». «Buongiorno». «La chiamavo per farLe gli auguri». «Ah. E che festività ci sarebbe in corso?». «...» «Qui a casa mia, mi pare di vedere, è un giorno come un altro. Da lei, invece, che succede?». E con queste parole era come se Lei tornasse in cattedra, una cattedra ancora più eminente di quella di Storia delle dottrine politiche da cui fa lezione, una cattedra assordante che avesse come uditorio solo quel goffo leccaculo. Ora che il 25 dicembre si avvicina, ho svolazzato in casa sua per trovare un segno del Natale. Nello studio era fatica sprecata: me lo hanno detto subito la statuetta di Atena, la scrivania di mogano rossiccio, il computer e gli scaffali dove, oltre all’opera completa di Marx ed Engels, trovano posto i suoi numerosi scritti. Niente nel corridoio. Niente nella camera matrimoniale. Niente in camera di Ivan. Sono entrato in sala, ma ho trovato soltanto altri libri e un tavolo di cristallo il cui scintillio per un attimo mi ha illuso. Poi via nel ripostiglio, sicuro che saltasse fuori un bue o un asinello della sua infanzia, o un pupo di Napoli, conservato – come direbbe Lei – quale oggetto di interesse folklorico. Ma niente. Ho scoperto così quanto Lei creda a ciò che disse a suo figlio quando aveva quattro anni. Si era sentito chiedere da Ivan perché nelle case degli altri ci fosse quell’albero tutto lucine e colori: «Perché gli altri, Ivan, credono alle bugie a buon mercato cui noi non crediamo». Per trovare un segno di Dio, sono dovuta volare in cucina, dietro un’anta della credenza, dove profumava un panettone candito. Che tempra invidiabile, illustre Professore. Ora Lei è impegnato a scrivere un editoriale sul terrorismo. Saprà meglio di chiunque altro far sentire persino l’odore del tritolo nella metro di Madrid e di Londra, del fumo tortuoso delle Torri Gemelle, ma, pur nel rispetto delle migliaia di morti, avrà il coraggio di puntare il dito contro l’Occidente. Abbiamo seminato noi l’odio in Afghanistan, sin dai tempi in cui quella terra si chiamava Battriana, noi figli di Alessandro Magno, noi conquistatori, noi capitalisti... Continuerà così dalle sette in poi, ignorando allo stesso modo sua moglie e il telefono. Questa è sempre stata la sua vita. O meglio, questa era la sua vita fino a un mese fa. Già. Perché ora non è più così scontato ignorare il telefono. Al mattino, quando l’apparecchio squilla, Lei rimane immobile. Sua moglie alza la cornetta in sala. Una vostra abitudine: risponde sempre Rosa, valutando se sia il caso di interromperla o meno. Ora Lei fissa la maniglia: “Non ti abbassare”. Da ottobre, sono già due volte che il preside l’ha chiamata. La prima è stata per la demolizione del water durante l’ora di religione. Ivan è esentato da quella che Lei definisce “ora di oppio pubblico” e, per regolamento, passa quei cinquanta minuti in compagnia del bidello. Il bidello che mangia di gusto il panino alla mortadella. Che fa rivelazioni sulla vita sessuale dei professori. Che scende in palestra e lascia che Ivan tiri a canestro, abitudine che gli è valsa una certa abilità nel tiro da tre. Ecco come è andato distrutto il bagno. Ivan entra, fa la pipì, si riallaccia la cinta. A quel punto dovrebbe far scorrere il chiavistello della porta, invece si blocca. Ripensa a quanto è successo di primo mattino, sul bus, alla biondina dai capelli sottili che si toglie le cuffie dell’iPod e gli chiede: «Che ore sono?». «Le se-se-se-se-se-sette e mezza». Un calcio al coperchio del water, il coperchio si spezza, un altro calcio, il coperchio salta. La tazza di ceramica è durissima: “È una troia! Troia!”. Anche coi talloni: “Troia!”. E quando il bidello butta giù la porta, Ivan ha spaccato tutto. Seconda chiamata. Quel banco contro la lavagna: una storia di pochi attimi. Qualche spiritello malvagio aveva fatto colare il piombo fuso sulle labbra di Ivan senza che lui se ne accorgesse. Lo ha scoperto quando la prof d’inglese lo ha interrogato sul paradigma del verbo “to swing”. Ivan lo sapeva, ma contro il piombo solidificato

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Finora la balbuzie era l’unico segno di stranezza in Ivan. Lei non ha mai dato peso a questo “inconveniente”. È infatti sicuro che Ivan sceglierà una professione in cui la balbuzie non sarà di intralcio. Non lo ha certo educato per diventare un cantante rock o per commentare le partite di calcio alla televisione. Non ha tolto l’antenna dal tetto perché imparasse a parlare come quei ragazzi “coi cappellini da scemi e l’anello al naso”. Studierà e “si applicherà” in qualcosa di serio. Lei non esclude che possa tentare la carriera universitaria. Per Lei, illustre Professore, essere balbuzienti è un po’ come essere calvi o miopi, un difetto di natura che la società civile può e deve ignorare. Cosa provi nel suo cuore quando sente balbettare Ivan, questo una mosca non può saperlo. A giudicare dalle sue reazioni, è molto peggio quando il ragazzo pronuncia certe parole inglesi che le ricordano “il terrificante e insulso linguaggio dei nostri mezzi d’informazione colonizzati”. Ma due mesi fa Ivan si è seduto a tavola e ha detto: «Voglio una batteria». «Cioè?». «Per Na-Na-Natale». «Ma perché non una chitarra classica?», Lei ha risposto. «Sì – ha aggiunto Rosa – tra qualche anno ci suonerai Segovia». Ivan si è alzato. Avete sentito il portone aprirsi. Dieci minuti dopo è tornato. Ha cominciato a mangiare la minestra. Aveva le nocche sbucciate, il sangue gli colava sui polsi. Non avete avuto il coraggio di dire nulla. Io ho visto la quercia dietro casa, ha ancora i segni dei pugni sul tronco. Con un’occhiata, Lei e sua moglie vi siete intesi sul fatto che appena Ivan se ne andrà in camera, chiederete aiuto a uno psicologo. «Per Na-Na-Na-Na-tale», ripete lui, appoggiando il cucchiaio sul piatto e alzandosi. So che non aprirà subito la mia lettera. Aspetterà il momento della boccata di ossigeno in giardino. Una sua abitudine di metà mattina. Allora si alzerà dalla scrivania. Farà scorrere la porta a vetri. La nebbia fitta che impedisce la vista oltre la siepe le entrerà nei polmoni. Richiusa la porta alle spalle, rimarrà a guardare i rami dei ciliegi che sembrano tratti di inchiostro, il pino piantato alla nascita di Ivan che luccica di umidità. Questo verde intenso delle colline urbinati le farà pensare, come sempre, alla casa dov’è nato. A dicembre, in quella cascina delle Murge, la bocca del camino fumava delle carni del maiale appena fatte, le gocce di grasso che friggevano sui tizzoni. Quanta strada, da quella casa sperduta a questa cittadella col suo giro di mura ancora intatte dai tempi dei Montefeltro. Una volta sua madre le aveva indicato la vostra capra. «Guardala, Saverio – le aveva detto – guardala negli occhi». Gli occhi della bestia erano due biglie di vetro. «Nella vita devi imparare a essere testardo, a badare al tuo, a non perderti per strada». Quella donna con la quinta elementare che, a furia di controllarla nei compiti, aveva imparato qualche parola di latino. L’ammirazione che ha per lei cresce nel tempo. L’ha persino perdonata di averla battezzata col nome del santo del paese. Come avrebbe fatto senza di lei? Tornato

Lettera di una mosca a un accademico illustre

non c’è gran partita. La professoressa si era alzata e aveva scritto col gessetto stridente “swing, swang, sw...”. È allora che Ivan era scattato in piedi, il banco sopra la testa. «Come vogliamo fare?», le aveva chiesto il preside, la formula più diplomatica che fosse riuscito a inventarsi. Il preside provava soggezione di fronte allo sguardo di chi firma editoriali che fanno notizia in tutta Italia, di chi partecipa a “Porta a Porta” e ad altri talk show televisivi, invitato proprio in quanto noto per non possedere un televisore. Non avrà mai il coraggio di dirle: «Suo figlio Ivan ha problemi seri». «Gli dia la possibilità di rifarsi», ha detto al preside, di fronte alle rovine del water. «Gli dia la possibilità di... smentirsi», ha detto poi, in presenza della professoressa di inglese che ancora tremava. Un altro disastro e Lei sa che non potrà impedire che suo figlio venga cacciato da scuola o, peggio ancora, schedato come anormale, costretto a seguire delle sedute di igiene mentale. Ma, per fortuna, da quell’episodio del banco, la maniglia dello studio è sempre rimasta in orizzontale. Suo figlio è lì sulla sua sedia, in qualche maniera accettabile. Al telefono sarà un cretino – Lei suppone – che fa gli auguri a Rosa. E la sua tastiera riprende il ticchettio, suono costante e senza lacune, come il suo pensiero.


Lettera di una mosca a un accademico illustre

a casa dal primo giorno di liceo, era scoppiato a piangere. Il benvenuto di uno di quei figli di papà era stato: «Quanto puzzi di terra». Ma sua madre era tornata con Lei sotto la pensilina, aveva aspettato la corriera per Bari, l’aveva spinta sul predellino... Eccola, ora, al centro di un ferro di cavallo di teste rivolte alla sua persona: ci sono giovani studenti in kefiah, studentesse appassionate, tutti in attesa del suo prossimo editoriale. Senza sua madre, altro che Aula del Parnaso della Facoltà di Lettere e filosofia, senza sua madre sarebbe diventato uno dei tanti studenti sballati, finiti a darsi arie da artisti maledetti sotto qualche portico di una città universitaria, magari proprio Urbino. Ma poi la chiesa di San Saverio svanirà, svanirà la capra, la cascina, sua madre. Di nuovo suo figlio. Si chiederà, Professore, come sia potuto accadere che Ivan si ritrovi a spaccare la scuola. A sognare una batteria. Cos’è, poi, una batteria? Patapùm, patapùm. Lui che non ha mai chiesto quelle “scarpe cucite da mani di schiavi”, lui che non si è mai lamentato dell’assenza della televisione, lui che va al cinema a guardare l’edizione restaurata di Spartacus mentre i coetanei bramano Batman. Quindi aprirà la lettera... Lei si chiede come possa suo figlio desiderare una batteria. Glielo racconto io, ero lì, nella palestra dove si svolgeva una festa di istituto, una delle tante delle medie Paolo Volponi, che però ha cambiato la vita di Ivan e potrebbe cambiare anche la sua. Ivan ha un passo sgraziato come di chi è consapevole della propria camminata. L’aria disinvolta di un trattore in mezzo all’autostrada. Quelle mani in tasca. Quello sguardo che non sa dove fermarsi. Quelle labbra troppo rosse. Qualcuno gli ride dietro, ma vorrei vederlo, il simpaticone, come ne uscirebbe lui, dopo aver portato sulle spalle ben quattordici natali marxisti. Vorrei vedere chiunque. Ivan abbassa gli occhi. Io gli volo intorno alla testa descrivendo una specie di aureola. «Dovresti alzarli, quegli occhi, Ivan – gli grido, nel mio alfabeto disperato che conosce solo la zeta – e andare fiero di te stesso». Dovresti camminare a testa alta, come un soldato in parata. Atena ha portato i doni della mente a tuo padre, lascia che lui la onori. A te un altro Dio ha lasciato un pesantissimo masso da spingere, il masso dell’umanità. Va’ fiero delle tue lacrime nascoste, così calde, che ti colano sulle labbra mentre scruti allo specchio la tua bocca ribelle. È già tanto se riesci a spingere quel masso dal portone di casa alla fermata del bus. È già tanto se non ti aggiri ingobbito come un uomo delle caverne. Nessuno può sapere l’orrore che hai provato, quando lo psicologo ti ha detto, indicando i bonghi sul tavolino: «Suonali pure, se ti fanno star bene». I tuoi genitori lo pagano e lui, come professionista, è tenuto a fare tutto questo. Non potrebbe riceverti ogni settimana solo per dirti la verità, magari dopo una pacca sulla spalla, e cioè che «ragazzo, tu non parli perché l’umanità è inesprimibile». C’è un capannello intorno ai quattro che suonano: voce, chitarra, basso, batteria. La pelle della grancassa fa pulsare la scritta “Pearl”. Lui vorrebbe appoggiarci l’orecchio. Chiude gli occhi. Ma a un tratto il suono si interrompe, il batterista sta andando da qualche parte con una ragazza. «Cercasi batterista», dice il cantante, con la faccia da schiaffi di molti cantanti. «Chi ha le palle?». Il chitarrista prende le bacchette dal rullante, le mostra al pubblico, incontra gli occhi di Ivan. Che sia un disegno della provvidenza a spingerlo, o una catena di eventi nel caos, o che siano quegli stessi occhi a chiederglielo da profondità terribili, il chitarrista gli lancia le bacchette. Ivan passa accanto al bassista senza guardarlo in faccia. Si siede sullo sgabello. Non ha mai suonato una batteria. Pensa ai bonghi dello psicologo, ha voglia di ridere, di piangere. Se soltanto potesse esplodere. Ecco il basso che inizia un pezzo capitalistico. La chitarra una scala pentatonica blues demente. Tocca a lui: gli altri lo stanno guardando. Va. Piede destro sul pedale. A tempo. Bacchetta sul charleston. A tempo. Altra bacchetta sul rullante. A tempo. Entra la voce. Sono loro che fanno tremare

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le vetrate della palestra. Le vetrate e tutto quello che può tremare, il pavimento, i muri, i ferri dei canestri. Il gruppo è al centro di tutto. Il gruppo è il Big Bang. E il suo piede destro lo comanda. Finché il pezzo non finisce e sfocia negli applausi. Il chitarrista si mette il plettro fra i denti, gli stringe la mano. Il cantante gli chiede: «Da quanto tempo suoni?». Il ritorno del batterista lo salva dalla prima sillaba inceppata. Ivan gli lascia lo sgabello, lo sgabello e quel regno di piatti e tamburi sfalsati. Non resta ad ascoltarli. Sta già pensando che la sera a cena... Una volta letta questa lettera, Illustrissimo, avrà due possibilità. O stracciarla e rimettersi al computer oppure staccare tutto e uscire di casa. Il negozio con quell’insegna che le pugnala lo stomaco è a venti minuti di macchina. La gente che entra ed esce da lì l’ha sempre considerata una indistinta tribù di selvaggi, eppure io la vedo, in mezzo a quei ragazzi coi cappellini da scemi e l’anello al naso; sì, la vedo, e – se si sbrigherà – Ivan, tornando da scuola, troverà sul letto i cataloghi di varie marche di batterie. I suoi occhi la guarderebbero come non l’hanno mai guardata: guarde-

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Un amico a Choman rebbero un Saverio che si trova nel profondo, anche lui intrappolato, a suo modo, come le parole dietro i denti di Ivan. E tra qualche giorno potreste andare insieme allo stesso Muzik World, tornare con la macchina stipata dei vari pezzi. Cosa proverà, accanto a suo figlio, attorniato dal bronzo del crash e del ride, con l’asta del charleston messa di traverso e i tom contro il gomito? Si immagini il momento in cui scaricherete la grancassa dai sedili posteriori e, sempre insieme, la porterete di peso fino al garage. Non proverà gioia più grande. Ripensi alla capra, a quel suo occhio all’apparenza inespressivo, ma così semplice e vero. Con quell’occhio dovrà guardare il mondo al termine di questa lettera e passare in rassegna il suo studio. Si accorgerà che il coraggio delle sue idee è ben misera cosa, rispetto alla decisione di alzarsi, uscire e guidare fino al negozio di musica. Lasci fumare per un istante le Torri Gemelle, le lamiere di Londra e Madrid e pensi al suo stesso sangue che scorre, alla cieca come il sangue di tutti, nelle vene di suo figlio. Rispettosamente, una mosca

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Cessate il fuoco

a cura di

Lorenzo Bagnoli foto Poller [zuma/kikapress]

Cessate il fuoco è l’osservatorio mensile delle vittime dei conflitti nel mondo. I dati, che si riferiscono al periodo dal 9 novembre al 3 dicembre, vengono raccolti da organizzazioni umanitarie o da fonti giornalistiche e quindi non potranno essere esaustivi. Le notizie sui conflitti in tempo reale su: www.eilmensile.it

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Messico Colombia

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Egitto Libia Nigeria Senegal Rep. Dem. Congo

Siria

Il bilancio della guerra civile siriana ha raggiunto quota quattromila. Così affermano le stime dell’Onu diffuse agli inizi di dicembre. Sabato 3, in tutto il Paese sono morte 25 persone, soprattutto ex disertori che hanno abbandonato i lealisti di Bashar al-Assad per entrare nel Free Syrian Army, l’esercito degli insorti. L’epicentro degli scontri è stata la cittadina di Idlib, dove hanno perso la vita 16 persone, di cui tre erano civili. Intorno alla città di Homs, quartier generale dei ribelli, ci sono state sei vittime.

Senegal

Il 22 novembre undici operai senegalesi sono stati uccisi da cinque guerriglieri indipendentisti del Movimento delle forze democratiche della Casamance (Mfdc). Le vittime, che lavoravano in una segheria, sono state freddate nella foresta della cittadina di Diagnon, 35 chilometri a sud del capoluogo della regione Ziguinchor. Il giorno prima, la squadriglia paramilitare aveva messo a ferro e fuoco il villaggio di Kaour, poco lontano dal luogo della strage. L’unico sopravvissuto, Ansoumana Dramé, è riuscito a fuggire nella foresta. Dagli anni Ottanta in Senegal è in corso un conflitto che vede l’esercito regolare di Dakar opporsi agli indipendentisti del Mfdc. Nella regione Ziguinchor, a differenza del resto del Paese, la maggioranza della popolazione è di etnia Jola.

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3.433 237

vittime

Iraq Israele Palestina Nord Caucaso Turchia Siria

5 19

13 514

467 597 120 40 37

Afghanistan Pakistan Birmania India Filippine

146 2 317 15 344

Yemen Bahrein Somalia Etiopia Sudan Bahrein

Il Bahrein torna a infiammarsi. Il 22 novembre un uomo, Abdulnabi Kadhem, è morto dopo essere stato urtato da una volante della polizia che sfrecciava ad alta velocità per le vie della capitale Manama. Il giorno seguente, durante il suo funerale, alcuni manifestanti sono venuti a contatto con le forze dell’ordine. Lacrimogeni, molotov, sassaiole: la capitale del regno di Hamad bin Isa Al Khalifa si è trasformata in un campo di battaglia. Intanto in Parlamento, la Commissione d’inchiesta guidata dal funzionario egiziano Mahmoud Cherif Bassiouni dichiarava che, dopo le agitazioni di febbraio e marzo, le forze dell’ordine hanno ucciso undici manifestanti e hanno arrestato 2.929 persone, di cui settecento si trovano ancora dietro le sbarre. Il monarca ha affermato che arresterà i funzionari che non hanno rispettato i diritti umani. Troppo poco per la folla assiepata fuori dal palazzo, che continuava a gridare: «Siete degli assassini».

Iraq

Il primo dicembre al mercato di Khalis, 80 chilometri da Baghdad, un’autobomba è esplosa uccidendo dieci persone. Altri 25 feriti sono stati trasportati d’urgenza all’ospedale cittadino. Nello stesso giorno a Buhriz, nel Nord dell’Iraq, un commando di terroristi ha fatto irruzione nelle case di tre ex miliziani del Sahwa, un gruppo armato sunnita che ha collaborato con l’esercito contro al Qaeda. Il bilancio del blitz è stato di otto morti e cinque feriti. Nel frattempo, il vicepresidente statunitense Joe Biden celebrava la fine della missione americana in Iraq alla presenza del premier Nuri al-Maliki. «Grazie a voi e al lavoro fatto da quelli di voi in uniforme – ha detto Biden – possiamo metter fine a questa guerra».


la posta di E Caro Bisio, so di essere completamente fuori luogo nella rubrica della posta del cuore, ma non so come altrimenti raggiungere la redazione di E per esprimere la mia ferma contrarietà, anzi francamente il disgusto, alla pubblicazione delle fotografie di pag. 61-65 del numero di novembre. Considerare l’esposizione impudica del dolore e della sofferenza un valido fine per il raggiungimento del consenso ai nostri ideali ci pone disgustosamente alla pari di chi usa esibire culi e tette per il raggiungimento del suo. Personalmente ne provo vergogna. Giorgio Truzzi volontario Emergency gruppo Milano zona 9 Questa è per ora la sola lettera di dissenso, per usare un eufemismo, che ha provocato il nostro dossier sul Vietnam (E di novembre). Ce l’ha girata Bisio, ovviamente. Non è così difficile, però, raggiungere la nostra redazione. In apertura di giornale c’è tutto quello che serve: email, numero di telefono e di fax. Sarebbe facile e comodo dire che se c’è una sola voce contraria, e più numerose sono quelle favorevoli, abbiamo la coscienza a posto. Ma è una strada che non intendo imboccare. Credevo di essere stato chiaro esponendo, in apertura del dossier, i dubbi che avevamo avuto e le reazioni che rischiavamo di suscitare. Ecco quella di un volontario milanese di Emergency, che si dice disgustato non una ma due volte dalla pubblicazione di alcune foto. E, bontà sua, ci mette sullo stesso piano degli specialisti in culi e tette (per vendere, ovviamente). Questo mi sembra alquanto ingeneroso, e comunque gli specialisti in culi e tette li sbattono in copertina perché all’interno la loro funzione cala. E veniamo all’esposizione impudica del dolore e della sofferenza. Anche dopo aver letto questa lettera ripubblicherei quelle foto, che raccontano la realtà. Ossia quella di una guerra che non finisce mai, perché a più di trent’anni dalla sua illusoria fine continuano a nascere bambini deformi o con lesioni cerebrali. Io nelle foto di Senigalliesi ho visto molta pietas e aggiungo che non sono state “rubate” in casa o per strada, ma scattate in un ospedale che si prende cura dei ricoverati. Anch’io provo molto disgusto, ma per chi ha provocato questi drammi e non per chi li documenta. Esistevano altri modi di trattare questo argomento? Sì, ignorarlo. Oppure edulcorarlo, censurarlo, mettere strisce nere sulla faccia di quelle vittime innocenti, mascherarle. Quest’ultima scelta, secondo me, equivaleva a mascherare l’orrore della guerra, di una guerra ormai dimenticata perché altre sono in corso, e delle sue conseguenze sulle persone. Ogni foto, ogni titolo, ogni frase di questo (e di tutti i giornali) è esposizione, perché pubblicare significa rendere pubblico. Importante è che non sia esibizione. Sull’impudicizia e conseguente vergogna, infine, non vedo la prima e non provo la seconda. E nemmeno, aggiungo, credo di aver sporcato gli ideali di Emergency. Se fosse così, l’editore (che è Emergency) me l’avrebbe già contestato e io avrei già tolto il disturbo. (gm)

Carissimi, il nostro giornale è davvero bello e sta ancora migliorando. Dico “nostro” perché è davvero raro identificarsi pienamente in una rivista, nella sua linea editoriale, nel modo di impaginarla, di scansionare gli articoli, di corredarli di fotografie. È la “mia” rivista perché ora, anche grazie a essa, faccio parte anch’io, e finalmente, della famiglia di Emergency. Ne avevo l’intenzione da tempo, la rivista ha accelerato questa mia decisione. Gente semplice, concreta e seria. Persone come piacciono a me, un’associazione nella quale le decisioni sono prese davvero in modo democratico, obiettivi ben chiari e riconoscibili, la sensazione di potersi fidare. È forse quello che manca di più alla mia generazione, che si è vista crollare addosso poco alla volta tutto ciò in cui ha creduto. Un abbraccio, Massimo Campus neo militante del gruppo di Santena (To)

Desidero ringraziarvi per tutto quello che state facendo, siete un esempio per tanti organi di informazione illeggibili e inguardabili. Grazie, grazie e ancora grazie di cuore. Questa è informazione. Federico

102 C

illustrazione

Ale+Ale

per scriverci: redazione@e-ilmensile.it


la posta del cuore I miei coinquilini lo chiamavano “l’uomo di pane” tanto era mite. “Com’è sensibile”, dicevano, “com’è gentile”. Rileggo i miei diari: per me parlare con lui era come entrare in un giardino pieno di alberi mai visti, e di quiete, e di aria... Poi, però, ho sposato un altro. Cioè: ho sposato lui, che nel giro di un paio d’anni è diventato Mr. Hyde. Ha cominciato ad arrabbiarsi quando era preso con il computer. Poi perché ero uscita di casa senza soldi. Poi perché sostenevo un’opinione diversa dalla sua e mi ostinavo a non cambiare idea. Poi perché “eccetera”. C’era sempre qualche cosa di sbagliato in quello che facevo. E lo sbaglio pareva gravissimo. Piano piano mi sono trovata a svolgere le mie giornate come dei compiti in classe. Non riuscivo più a ridere di cuore e, quando uscivo di casa, mi accorgevo di parlare come pensavo che avrebbe parlato lui. Ce ne sono tanti di uomini così, ora lo so, li riconosco: il vicino di casa che insulta la moglie sulle scale, il collega che tratta male la sua ragazza per un nonnulla. E ce ne sono tante di donne che pensano di aver trovato l’amore e più tardi sono invece costrette a lottare per non scomparire, per non farsi mangiare. Mi sembra che la mia vita sia stata una bellissima trappola. Per arrivare qui. Per passare questi giorni da incubo in cui lui non parla, non mi guarda neanche più, e poi a un certo punto attacca. E poi si scusa (o anche no, ma chi se ne importa) e per un poco torna com’era tanto tempo fa. Ed è questa la parte più dolorosa, vederlo lì sorridente, come in una vecchia foto, e sapere che non c’è miracolo umano e divino che me lo riporterà indietro. Prima leggevo ogni tanto, tra le notizie, che qualcuno aveva ucciso la moglie, perseguitato e ucciso la fidanzata, e mi sembravano atti incredibili, frutto della follia. Io vorrei che si potesse scrivere, e far conoscere a tanti, non solo come finisce, ma anche da dove inizia il femminicidio, le sue radici sociali, la sua accettazione più o meno consapevole da parte di tante culture nel mondo. Sono certa che ci sono tante donne, (anche con un livello di istruzione OTTIMO, perché NON C’ENTRA) che passano anni a chiedersi come mai la loro storia non funziona, e non sanno di essere vittime di abuso. Sarebbe una grande conquista se ad alcune di queste donne sorgesse il dubbio di non essere LORO il problema. Se cominciassero, con un po’ di coraggio, a documentarsi. Ci vuole, il coraggio, perché l’abuso psicologico e la violenza sono realtà dolorose da affrontare. Ma sapere è potere. E per tante di noi è riprendere in mano la propria vita. Forse, in qualche caso, salvarla. Io tra qualche giorno scapperò di casa con il mio bambino. Sono stata fortunata perché mi sono trovata ad avere gli strumenti per leggere la realtà in cui ero costretta a vivere. Non so come andrà a finire, ma mi sento, se non ancora VIVA, almeno un po’ meno uccisa di prima. Alessandra

di

Claudio Bisio

illustrazione

Ghisao

pers crivere: cuore@e-ilmensile.it

Anzitutto una domanda: ma quanti sono gli “uomini di pane” che si rivelano poi essere orchi o poco meno? Sotto il tetto coniugale quanti soprusi, violenze, magari anche solo verbali, si consumano? Temo più di quanti noi si pensi. Proprio perché l’omertà la fa da padrona, per vergogna, per ignoranza, per paura di ritorsioni. Ho letto più volte la lettera di Alessandra, per capire quanto potesse essere utile (o meno) pubblicarla. Perché non c’è una denuncia circostanziata, non descrive un reale abuso o violenza. Descrive la sua vita con un ossimoro: “bellissima trappola”, si è ritrovata a “svolgere le sue giornate come compiti in classe” e ha dovuto “lottare per non scomparire”. Ecco, questo mi è sembrato interessante leggere e far leggere: la “lotta” quotidiana che la vita ci propone, che non sempre è contro il maschio che abbiamo sposato (o la femmina) ma spesso è contro noi stessi, contro la solitudine, alla ricerca di un “senso” che non sempre si trova. Mi ha molto impressionato, nelle settimane scorse, la notizia del suicidio assistito di Lucio Magri, persona che io ho sempre ritenuto tra le più lucide nel mondo politico e intellettuale nostrano. Anche la sua vita è stata una lotta: contro la banalità, l’omologazione, la stupidità e alla fine forse anche contro la solitudine, la tristezza, la disillusione. Ora Alessandra (se ha mantenuto la sua promessa) sarà già scappata con il suo bambino. Mi piace pensarla rasserenata, felice, non necessariamente appagata e rilassata. E, perché no, pure suo marito, che la trattava male e poi le chiedeva scusa (a volte sì, a volte no) mi piace pensarlo più maturo (mi auguro dispiaciuto per l’assenza di moglie e figlio) ma meno inconsapevole del male che stava facendo. Mi immagino due persone vive o, come ha scritto Alessandra, “meno uccise di prima”. E la lotta continua...

I

103


Rete

di

Dubito ergo sum di

Simona Spaventa

Con passione sempre più vibrante, Ottavia Piccolo si fa portavoce di un teatro “civile”, che dà voce a personaggi coraggiosi, e reali. Come Anna Politkovskaja – la giornalista russa uccisa nell’ottobre del 2006 per le sue inchieste sugli orrori commessi dal Cremlino in Cecenia – al centro del suo monologo Donna non rieducabile, tre stagioni di tournée e successi che dimostrano come il teatro che fa ragionare sul presente sia una necessità. Compagno di quell’avventura era Stefano Massini, giovane talento della nostra drammaturgia, che ha scritto per lei anche il copione del nuovo spettacolo, L’arte del dubbio, regia di Sergio Fantoni, al debutto il 20 gennaio al Teatro Sanzio di Urbino. Operazione intrigante e complicata, perché non si tratta della rielaborazione per la scena di un romanzo ma di un saggio, l’omonimo libro del magistrato-scrittore Gianrico Carofiglio, una sorta di manuale per addetti ai lavori sul processo e l’arte dell’interrogatorio e del controinterrogatorio. «Ne è nato un soggetto teatrale curioso – racconta l’attrice, in scena con Vittorio Viviani – serio ma non serioso. Una commedia che attinge a interrogatori veri, di mafiosi come di piccoli truffatori, per un gioco teatrale che indaga la manomissione delle parole, che ormai sono diventate lo strumento con cui il potere manipola le coscienze». Da Adamo ed Eva all’omicidio di don Peppino Diana, il prete anticamorra, fino al processo ThyssenKrupp, le parole insinuano il dubbio, screditano i giusti, ribaltano la verità. «Noi lo facciamo vedere in una commedia anche divertente, che lancia allo spettatore un messaggio chiaro. Perché solo se siamo totalmente attenti, il dubbio diventa il nostro faro e può essere un’arma positiva. Dobbiamo imparare a mettere in discussione tutto quanto, soprattutto il potere. Solo così saremo in grado di non farci fregare». L’arte del dubbio, di Stefano Massini, con Ottavia Piccolo, regia di Sergio Fantoni Teatro Sanzio, Urbino dal 20 gennaio Teatro Vittorio Emanuele, Messina dall’1 al 5 febbraio Teatro Duse, Genova dal 15 al 19 febbraio Teatro Carcano, Milano dal 29 febbraio

Arturo di Corinto

Wikipedia è la più grande enciclopedia online al mondo. È libera e gratuita e, per questo, oggetto continuo di controversie e critiche, soprattutto da parte dell’establishment culturale tradizionale, il cui ruolo è stato terremotato dalla sua diffusione planetaria. Scritta ogni giorno, dal 15 gennaio 2001, da migliaia di volontari in tutto il mondo, oggi è realizzata in 282 lingue diverse. Due i punti di forza: il software di pubblicazione, un software wiki (da cui il sito prende il nome) che consente a tutti di creare nuove voci e di editare quelle già pubblicate, e le sue licenze virali – la Gnu Free Documentation License e la Creative Commons – che consentono di fare qualsiasi uso del sapere in essa incorporato, a patto di attribuirne la paternità a Wikipedia stessa e di non cambiare la licenza con cui quel sapere è stato reso accessibile. Considerata la migliore del mondo nel settore scientifico, soprattutto per quanto concerne copyright, telecomunicazioni e crittografia, Wikipedia è considerata superiore alla Enciclopedia Britannica grazie al carattere partecipativo di un sistema di revisione basato su versioni successive, sempre online, dello stesso lemma. Una delle critiche di cui è oggetto è che, come sta facendo in questo periodo, chiede delle donazioni, pur avendo un esercizio finanziario in positivo. Questi trasferimenti, a opera delle sezioni nazionali della Wikimedia Foundation, ritenuta poco trasparente nello svolgere questa attività, vengono discussi nell’Assemblea generale che pubblica il budget e i conti annuali. Chiarito che la trasparenza è la regola e che le donazioni servono a pagare l’hardware, la banda e lo staff tecnico, sul tappeto resta un’altra domanda: un “servizio pubblico” come Wikipedia che rende accessibile a tutti e gratuitamente il tesoro della conoscenza, ha diritto o no a finanziamenti diretti da parte dello Stato? È vero, c’é la crisi e ogni governo deve essere estremamenre oculato. Ma allora non sarebbe il caso di rivedere i contributi pubblici all’editoria, di cui, in Italia, beneficiano testate che sono assai meno note, usate e citate di Wikipedia? www.wikipedia.org

Mike E. Perez

Teatro

Domani

I conti di Wikipedia


di Matteo

Scanni

“Resilience” – determinazione, forza d’animo – è una parola che nel linguaggio corrente ha assunto nuovi significati dopo gli attentati a New York del 2001. La collocazione dei fatti in una prospettiva storica e lo sforzo di elaborazione del lutto compiuto da un intero popolo ne hanno ridefinito l’uso, trasformando un sostantivo in aggettivo che descrive un comportamento collettivo, un fiero e dolente understatement. Per il decimo anniversario dell’11 settembre, Time Magazine ha fatto le cose in grande, affidando al photoeditor Kira Pollack (già responsabile del blog “Lens” sul New York Times) e al fotografo di staff Marc Grob il compito di riannodare in un’unica tela digitale i ricordi dei sopravvissuti al crollo delle Torri Gemelle. Il risultato è Beyond 9/11, una mappa della memoria composta da quaranta tasselli, che includono il racconto dell’ex presidente George W. Bush, dell’anchorman Tom Brokaw, del generale David Petraeus e di alcuni eroici volontari, testimoni dell’orrore di Ground Zero. Tutti gli intervistati rispondono alla stessa domanda: dove ti trovavi l’11 settembre 2001? Quel che colpisce, guardando gli splendidi ritratti in bianco e nero di Grob, è l’intensità della narrazione collettiva, la loro capacità evocativa. I contenuti, riorganizzati in un grande wall navigabile in quattro direzioni, hanno la forza tragica del coro greco. www.time.com/time/beyond911

Premiato come miglior web documentario all’ultima edizione dell’International Documentary Film Festival di Amsterdam, Insitu è invece una piattaforma interattiva creata da Providences e prodotta da Arte per raccontare l’evoluzione degli spazi urbani. Partendo dall’assunto che solo l’arte può restituire un significato autentico al nostro vivere nelle metropoli, Antoine Viviani intreccia le storie di architetti, attivisti e artisti impegnati a soccorrere l’anima moribonda e indifferente delle nostre città. Quel che ne esce è un curioso saggio di antropologia visuale, un inno laico che racconta, con poesia e sguardo cinematografico, le densità di un territorio malamente antropizzato. I protagonisti dei diciannove capitoli sono invisibili rivoluzionari: un architetto che si sforza di migliorare la circolazione del traffico nel quartiere della Défense; una vecchia signora che combatte i neonazisti scollando adesivi dai muri di Anversa; un suonatore di campane alla testa di un coro con banda; una coppia di danzatori nella metropolitana di Parigi; uno scrittore esploratore urbano; supereroi e graffitari. Tutto in Insitu è ricondotto al gesto artistico. Alcuni frammenti hanno rimandi cinematografici dichiarati. Così Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders ispira il capitolo del violoncellista che dedica una suite ai passanti e la relativa funzione che permette di leggere i pensieri delle persone cliccando il pallino rosso sulle loro teste. La narrazione ha un doppio binario di accesso: documentario lineare classico da 88 minuti per il circuito festivaliero e versione crossmediale per il web. Ma anche un blog partecipato e una mappa interattiva che tiene nota delle testimonianze e delle segnalazioni dei navigatori. Piccola nota sull’autore, non ancora trentenne. Dopo essersi fatto le ossa ai Take Away Show della Blogotheque (http://en.blogotheque.net), Antoine Viviani ha prodotto e diretto la web serie di culto Fugues, che fa suonare musicisti classici nei luoghi pubblici più insoliti. Insitu è il suo primo vero lavoro da regista, un progetto costato due anni di fatica e duecentomila euro. http://insitu.arte.tv

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Cinema

Documentario

Eroi metropolitani Donne contro la guerra di

Barbara Sorrentini

Donne cristiane e donne musulmane marciano insieme sul sentiero sterrato di un villaggio sperduto tra le montagne. Vanno incontro ai loro cari, caduti in guerra. Qualcuno è sepolto sotto l’area di un fazzoletto di terra grezza, altri non sono mai stati ritrovati. Le donne camminano vicine, uguali nel loro ciondolare addolorato, senza badare a chi siano rivolte le loro preghiere. Il nuovo film di Nadine Labaki, Where Do We Go Now?, si svolge ai margini di una guerra, senza dire quale, perché il conflitto tra due fedi diverse è un tema universale. Ma la regista è libanese, e dopo Caramel, che mostrava una città che riemergeva dalle ferite delle bombe, qui il pensiero ritorna inevitabilmente ai conflitti più recenti esplosi nel suo Paese. Eppure lo sguardo di Labaki non perde l’ironia, ritagliandosi anche dei momenti musicali in cui le protagoniste cantano i pensieri più intimi e segreti. Secondo la regista la sua «è una storia sul come evitare una guerra. Non si può vivere in Libano senza sentire addosso questa minaccia, che determina tutto quello che facciamo. Una volta mi sono chiesta cosa può fare una madre per evitare che il proprio figlio vada a far la guerra. È possibile che questo problema lo sentano solo le donne? E da lì sono partita con il desiderio di affrontare in un film l’ossessione materna di proteggere i propri figli». Donne dunque. Donne determinate a salvare il loro villaggio; donne convinte che le differenze religiose non valgano una guerra; donne che tentano di salvare quel poco di umanità rimasta intorno a loro. Nel film è un’amicizia tra donne a cambiare le cose. Vicine di casa di diversa cultura e religione; gli uomini nel villaggio si guardano in cagnesco mentre le mogli e le sorelle architettano scherzi e trovate originali per riavvicinarsi e stabilire un contatto positivo. A dispetto degli uomini che non capiscono come una metà del villaggio, pur aderendo a riti differenti, cerchi la pace e lo scambio. Where Do We Go Now?, di Nadine Labaki, dal 20 gennaio


Musica

I mille colori di Jarrett

Arte

[courtesy of strozzina]

di Carlo

Politica in forma di Vito

Calabretta

Nei locali del Centro culturale Strozzina di Palazzo Strozzi, a Firenze, si riflette sulla democrazia attraverso l’arte, su “come possiamo declinare i principi della democrazia in un momento in cui la loro validità sembra essere messa in discussione”. Vale la pena vedere declinata la democrazia nell’arte contemporanea? L’arte ha titolo e merito per farlo? Visitando la mostra Declining Democracy, che affronta il secondo quesito, viene da rispondere affermativamente. L’arte riflette ciò che succede nella vita; ammirando quadri, sculture in bronzo o installazioni multimediali sapremo di trovarci di fronte a una rappresentazione della realtà. Ma, nell’esplicitare la relazione tra le due, come in questo caso, bisogna esser certi non solo di evidenziare il nesso ma anche di trasformarlo in un prodotto formalmente dotato di senso. La mostra fiorentina fornisce alcuni esempi di questa volontà (talvolta sembra più una velleità) di trasformazione di un problema, di una questione, in un prodotto compiuto. Ma è un percorso difficile e tortuoso. Non riesce all’artista polacco Artur Zmijewski, presente con un’opera che ha un approccio documentaristico: alcuni video raccontano momenti di vita sociale come funerali, partite di calcio, proteste popolari. Il risultato è sfilacciato e il concetto di democrazia rimane opaco, fumoso, come il suo nesso con l’opera che pure dovrebbe evocarlo. Nel caso del lavoro di Francis Alÿs, invece, il risultato è più convincente. Nel suo video racconta come un gruppo di persone riesce a modificare un frammento del paesaggio, con un’azione tanto inutile sul piano sociale quanto compiuta sul piano formale. In cinquecento spostano della sabbia. L’artista che li ha incitati a farlo documenta il loro sforzo e ci dice che, grazie alla volontà collettiva, si può, con molta fatica, fare niente per niente, cioè un’azione inutile per non ottenere alcuno scopo. Estrapolato dal contesto sociale in cui tutto ciò si verifica e analizzato nell’ambito formale dell’opera d’arte, l’episodio documentato in When Faith Moves Mountains fa così riflettere su aspetti della costruzione del consenso, del suo utilizzo e della responsabilità di chi mette in atto la procedura. Declining Democracy, Strozzina, Centro culturale di Palazzo Strozzi, Firenze fino al 22 gennaio www.strozzina.org/declining-democracy/

Boccadoro

Ogni recital pianistico di Keith Jarrett è differente dai precedenti e a suo modo unico. Nonostante il passare degli anni, il musicista americano appare instancabile nel suo cercare costantemente nuove idee. A seconda dei periodi, queste maratone al pianoforte riflettono gli svariati interessi del musicista: dalle esplorazioni del minimalismo e dell’atonalità (Sun Bear Concerts) alla passione per la scrittura di Bach (Paris Concert), passando per le escursioni diatoniche del Köln Concert e per gli spinosi percorsi fradici di alcool di Dark Intervals. Negli ultimi anni Jarrett ha alternato monolitici concerti di due ore senza interruzione, spesso di non facile ascolto (Radiance), a serate maggiormente distese e caratterizzate dalla sintesi. Questo recentissimo (doppio) album live, registrato a Rio de Janeiro davanti a un pubblico entusiasta e intitolato semplicemente Rio, appartiene alla seconda categoria, anche se si apre con una parte decisamente spigolosa e poco conciliante (forse per scoraggiare quegli ascoltatori superficiali che pretendono di giudicare un disco dai trenta secondi di preascolto su iTunes). Passato questo inizio sapientemente politonale, però, l’album si rivela come uno dei più amabili e immediatamente fruibili di tutta l’intera discografia jarrettiana. Sono brevi vignette dai mille sapori. Si passa dal blues alle suggestioni sudamericane, dalla ballata struggente a pirotecniche dimostrazioni di virtuosismo pianistico. Stavolta Jarrett non cerca di unire, in una gigantesca architettura formale, le mille idee che gli attraversano la mente durante il concerto, ma getta sul tavolo verde tante fiches coloratissime e, appena cambia idea, s’interrompe e passa ad altro. Naturalmente il tutto è sempre filtrato da una superiore intelligenza musicale e da una creatività che sembra davvero non conoscere soste. Keith Jarrett, Rio (ECM), euro 24,00

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Bonetti

E se la buttassimo in poesia? In lirica, la quotidianità precaria, disillusa, che tira a campare e la cui memoria è legata ai jingle delle pubblicità, ha un qualcosa di sublime. I pm10 (le polveri sottili) diventano “nuvole da asporto che straziano gravide di smog viadotti e African bar”; l’incrocio di periferia – con le sue cinque direttrici, i quattordici semafori e la segnaletica cubista – una sorta di allunaggio da festeggiare con i Kinder Délice. Maudit dell’Italia 2012 è Francesco Targhetta, trent’anni, una laurea, un dottorato e una storia semplice da raccontare: la sua. Che è quella della generazione dei trentenni, ingombri di cultura e sgombri di futuro. In una Padova “topaia”, tra appartamenti condivisi e spritz macchiati di led al bar dell’angolo, ucraini e moldavi che hanno svalutato anche i sassi e puttane che delocalizzano in Romania, si muove un gruppo di ragazzi, in uno slalom tra aule universitarie, baroni, quiz televisivi, bar, coinquilini e call center. C’è anche chi fugge pensando “al dottorato come momentanea soluzione, prolungando gli anni di formazione”. Un rap contemporaneo che, come certa musica, è fatta dei soliti accordi ma non assomiglia a nient’altro: “Il solito pensiero di ritorno: di nuovo appartamenti condivisi con le pareti in cartongesso, di nuovo l’avanzo di anni che tornano solo nel conto del tonno e dei barattoli di pesto, ma uno impara a viverci lo stesso, mica è un’impresa, è solo molto peggio di quanto ci avevano promesso”. Facciamo allora un passo indietro: Italia, anni Settanta. Mentre i padri dei vari Targhetta costruivano (o demolivano) il futuro dei loro figli nelle villette a schiera con giardino dell’industrioso Nordest, a Milano, in via Icaro 15, si viveva un grande fermento. Lo stabile viene messo in vendita e gli inquilini hanno la possibilità di acquistare il loro appartamento – due locali, cucina e servizi – a un prezzo agevolato. Gli inquilini diventano “condomini”. Gelosie, ripicche, piccole vendette. Ma una cosa li unisce: il ceto sociale. Nasce la piccola borghesia, gli acquisti a rate, le vacanze in riviera. E chi non ne fa parte come la misteriosa Amelia Lynd, che dà il titolo al romanzo di Nicola Gardini, viene guardato con sospetto. Ma basta guardare altrove per vedere un altro Paese. È l’estate 1978, al Cremlino c’è Breznev, tra Egitto e Israele ci sono timidi segnali di distensione, e fra le strade di Roma si aggirano strane creature: sono gli ebrei sovietici che, fuggiti dalle crepe della “Cortina di ferro” verso Il mondo libero, si ritrovano parcheggiati in Italia in attesa del visto per l’America. Un circo russo di cui David Bezmozgis, considerato dal New York Times l’erede di Philip Roth, coglie tic, silenzi, ingenuità e furberie in un Paese che sta sempre sullo sfondo, evanescente, quasi un limbo. Da cui forse è ora di uscire per entrare nell’età adulta. Francesco Targhetta, Perciò veniamo bene nelle foto, Isbn Edizioni, 160 pp., 15 euro Nicola Gardini, Le parole perdute di Amelia Lynd, Feltrinelli, 240 pp., 16 euro David Bezmozgis, Il mondo libero, Guanda, 350 pp., 18 euro

Oggetti da adottare di Claudia

Barana

Immaginate un menu ricco di oggetti, in una pagina web. Scorrete con il mouse e poi cliccate a caso: una scatola di metallo, i contorni azzurri e arancio, su sfondo nero. Sotto il pellicano c’è la nota marca di penne. Una scatola Pelikan del 1924. Tornate indietro, puntate e cliccate, ancora a caso: c’è un bambolotto. Si chiama Messemännchen, il commesso viaggiatore, simbolo e icona di Lipsia; come testa ha un piccolo mappamondo con sopra un cappello e in una mano la valigetta di chi gira per fiere. Se gli oggetti sono liberi, li potete adottare, versando una quota al museo che li custodisce. Das Museum der Dinge (il Museo delle Cose) ha la sua sede a Berlino; ogni mese elegge un oggetto alfiere di un pezzo di storia del Paese. Per vederlo, basta cliccare su “Ding des Monats” (la cosa del mese). Una teiera in argento, tamburata; una scatola di metallo per custodire cartine e tabacco dei primi del Novecento. Il museo non è solo un semplice di luogo di conservazione e i pezzi esposti smentiscono l’accezione del termine “museale”, che per una cattiva abitudine un tempo veniva usato per riferirsi a qualcosa di fermo, polveroso e spesso sotto teca. Qui l’idea principale non è quella di osservare ma piuttosto di prendersi cura di oggetti che sono anche importanti testimonianze delle evoluzioni sociali. Si scopre così un simbolico microcosmo fatto di piccole cose. Oggetti di design, ma anche anonimi, con un forte potere evocativo. Ciascuno con la sua dignità, dalla piccola bambola di plastica all’oggetto più prezioso. Chi ne adotta uno, se vuole può comparire nelle pubbliche liste del museo, con una targhetta vera o nel sito web. E magari conoscere e inserirsi in una cerchia di amatori dell’oggetto. Come il signor Grunbein, che si sta prendendo cura della Lanterna Magica, oppure il signor Thadeusz, che invece si dedica – con tanto di guanti bianchi – a un antico e particolare telefono. www.museumderdinge.de

Armin Herrmann [werkbundarchiv – museum der dinge]

di Alessandra

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POSTE ITALIANE

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Italia la terra tradita Cina le vociate inascolt retti Carlotta Compa hanno scritto: Luciano Del Sette Christian Elia. essio Torino ia Valduga Jenner Meletti.Al Panigadi.Patriz Laura Trombetta rafato e illustrato: hanno fotog Brambilla anco io.Fr Ron Haviv Lindsey Addar uido Guarnieri. ˘ ska Dino Fracchia.G s.Felix Petru Christopher Morri

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Scommessa italiana Marghera

Via Varè numero 6. L’edificio bianco e rosso, un ex centro di salute mentale della Asl, ospita oggi il Poliambulatorio di Emergency, che il 2 dicembre scorso ha festeggiato il primo anno di attività. A Marghera come a Palermo, i nostri mediatori culturali aiutano i pazienti per tutte le pratiche amministrative legate alla sanità, per la prenotazione di esami e visite specialistiche presso le strutture pubbliche e per l’ottenimento dei codici Stp (Straniero temporaneamente presente) ed Eni (Europeo non iscritto) necessari per accedere al Servizio sanitario nazionale. La maggior parte dei pazienti che riceviamo sono stranieri, principalmente extracomunitari, ma uno su cinque è italiano. È il riflesso di una situazione di graduale, ma inesorabile, impoverimento di persone che, perdendo il lavoro, perdono tutto, come il primo paziente che abbiamo curato, un uomo italiano senza fissa dimora con un grave problema ai denti.

Ambulatori mobili

Manduria, le campagne della Capitanata, Siracusa e Cassibile, Boreano. Lo scorso aprile i nostri due ambulatori mobili hanno percorso il Sud Italia per portare assistenza sanitaria nelle aree agricole, nei campi nomadi, nei campi profughi. I nostri medici hanno incontrato persone che lavoravano e vivevano in condizioni inumane. Siamo stati in un campo che ospitava profughi del conflitto libico e abbiamo lavorato nelle campagne pugliesi, siciliane e della Basilicata per offrire cure ai braccianti sfruttati per la raccolta dei pomodori: migranti che lavorano senza sosta per due euro l’ora, curvi sotto il sole per tutto il giorno, e che alla sera dormono in baracche isolate, senza acqua corrente né alcun tipo di servizio. Li abbiamo curati e, quando è stato necessario, li abbiamo accompagnati nelle strutture pubbliche per chiedere insieme a loro che i loro diritti fossero rispettati.

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di

Emanuele Rossini

foto Adele

Lorenzi


Palermo

Quando Emergency è stata fondata, nel 1994, volevamo portare aiuto a chi soffriva le conseguenze della guerra e della povertà. Per questa ragione abbiamo aperto ospedali in Afghanistan, in Cambogia, in Iraq, in Sierra Leone, in Sudan. Paesi dove non esistevano altre possibilità di essere curati bene e gratuitamente. Qualche anno dopo abbiamo toccato con mano la necessità di intervenire anche in Italia: razzismo, povertà e scarsa conoscenza dei propri diritti, impediscono l’accesso alle cure a fasce sempre più ampie della popolazione. Nel 2006 abbiamo aperto a Palermo il nostro primo Poliambulatorio, dove offriamo gratuitamente servizi di medicina generale, ginecologia e ostetricia, odontoiatria, cardiologia, infettivologia, oculistica, pediatria, psicologia e psichiatria, radiologia e senologia. In questi cinque anni abbiamo visitato persone provenienti da settantuno Paesi; molte fanno ormai riferimento al Poliambulatorio per qualsiasi problema di salute che si trovano a dover affrontare, a volte anche solo per avere un consiglio di persone competenti e fidate.

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È un segno della fiducia che abbiamo saputo conquistare con il nostro lavoro e, al tempo stesso, un indicatore delle difficoltà che molti migranti, soprattutto se irregolari, incontrano nel rivolgersi alle strutture pubbliche. A volte sono spaventati dalle pratiche necessarie per ottenere l’iscrizione al Servizio sanitario nazionale: la scarsa conoscenza della lingua e la difficoltà a orientarsi negli uffici pubblici sono ostacoli che non tutti sono in grado di superare. Spesso, invece, hanno paura di essere denunciati, come è successo a H., una nostra paziente liberiana senza permesso di soggiorno. Una domenica la figlia si è fatta male cadendo dalle scale: H. ha preferito portare la figlia al Poliambulatorio il lunedì successivo perché temeva di poter essere denunciata dai medici dell’ospedale. Fortunatamente la bambina non aveva niente di serio, ma quanti migranti rinunciano a farsi curare quando ne hanno bisogno per paura?

U


Il viaggio di Abdulfatah storia raccolta da

Alessandro Grandi foto Adele

Lorenzi

Muhammad Abdulfatah è nato a Robe, Etiopia, il primo gennaio 1982. Dopo aver lasciato il suo Paese è approdato in Italia nell’ottobre del 2003 sbarcando sulle coste di Lampedusa. Per Emergency ha lavorato come mediatore nel Poliambulatorio di Palermo fino all'anno scorso. Dall'inizio del 2011 è diventato coordinatore della struttura definita lo scorso novembre dall'eurodeputata svedese, Cecilia Wikstrom, «un esempio da trasmettere in tutta Europa dove non ci sono strutture analoghe. Sono persone che si prendono cura dei più bisognosi e che vanno incontro alle esigenze dei profughi».

Quando nove anni fa ho lasciato l’Etiopia per venire in Italia, non avevo la benché minima idea di come fosse fatto questo Paese. E in tutta onestà non avevo nessuna intenzione di fermarmi qui. Avrei voluto arrivarci, certo, ma solo come meta di passaggio per poi andare verso la Gran Bretagna, dove la politica dell’integrazione per i rifugiati è molto più moderna e civile di quella italiana. Per me, che conoscevo anche l’inglese, era il Paese ideale. Poi, però, una volta arrivato in Italia ho scoperto che non si possono presentare più richieste d’asilo in più Paesi. Sono sbarcato sulle spiagge di Lampedusa e in sostanza sono stato costretto a chiedere asilo da voi anche se le politiche in merito all’immigrazione sembrano sempre affrontate in maniera superficiale e non concrete. Ma credo anche che sia il contesto sociale in generale a non essere pronto ad affrontare il discorso “immigrazione”. Non appena mi sono reso conto di avercela fatta, di essere in Europa, mi sono immediatamente dato da fare per riprendere il corso di studi che avevo interrotto ma anche qui ci sono state delle difficoltà burocratiche. I titoli di studio etiopi non sono validi in questo Paese e quindi mi sono dovuto rimettere a studiare. Scuole medie, superiori e infine il corso universitario. E prima un corso di alfabetizzazione, un corso particolarmente importante che aiuta l’immigrato a imparare una lingua nuova, l’italiano, non conosciuta internazionalmente e, soprattutto, non facile. Terminati questi passaggi mi sono iscritto a un corso di formazione nella speranza di trovare quanto prima un’occupazione. Diventare mediatore culturale non è stata una scelta meditata. Mai mi sarei immaginato di arrivare in Italia e occuparmi di immigrazione, proprio io che sono un immigrato. Ma credo di aver fatto una buona scelta e i motivi sono tanti. Uno su tutti la mia conoscenza dell’argomento. È una materia che conosco, l’ho vissuta in prima persona. Ho fatto quel viaggio in mare e conosco bene il peggio che dà. Anche io sono stato un rifugiato.

Di conseguenza lavorare con queste persone che hanno passato quel che io conosco bene, mi piace. L’ho capito dopo, prima non mi sarei immaginato la ricchezza che poteva offrire questo lavoro. Al Poliambulatorio di Emergency a Palermo sono entrato in qualità di mediatore culturale. Il mio compito non era solo quello di raccontare agli immigrati che hanno vissuto il viaggio in mare, ciò che mi è successo, quali sono state le mie esperienze. Ho avuto per diverso tempo il compito d’indirizzare queste persone. Dare loro consigli utili, che io all’inizio della mia esperienza italiana non ho avuto. Per esempio, quando arrivi in un Paese nuovo, dove non conosci nessuno, nemmeno la lingua, non sai a chi rivolgerti per le necessità più banali. Non sai chi ti può dare le informazioni corrette per proseguire al meglio l’iter della tua domanda d’asilo. E non sai nemmeno con chi confidarti e parlare un po’ dei tuoi problemi. Credo sia importantissimo avere a disposizione una figura che ti possa indicare la giusta strada. Che ti possa dare anche un minimo di informazione legale. Ecco, il mediatore culturale fondamentalmente ha questo compito. Oggi mi sono iscritto all’università, anche se il corso di laurea che ho scelto è considerato semplice. Ma ci voglio provare. È una delle cose che volevo fare qui in Italia e adesso ce la sto facendo. Ma non è stato facile perché le politiche d’integrazione italiane, come ho già detto, non permettono nell’immediato di fare scelte giuste. Quella di avvicinarmi a Emergency è stata fondamentale per la mia vita. Il Poliambulatorio è diventato la mia seconda casa. Un posto che ha dato un senso alla mia vita lontano dall’Etiopia. Ho imparato a conoscerlo così bene che dopo aver interrotto l’attività di mediatore, mi hanno assegnato al coordinamento dell’intera struttura.

C


[lapresse]

per inciso di

Gino Strada

San Raffaele: offro un euro Nel 2007, quando un collaboratore afgano venne sequestrato e tenuto in isolamento dai servizi segreti per tre mesi, Emergency decise per protesta di lasciare temporaneamente l’Afghanistan, chiudendo tutti gli ospedali e i centri sanitari. In quella occasione don Verzé, proprio lui, dichiarò che il San Raffaele era pronto a subentrare nella gestione dell’ospedale di Emergency a Kabul. Disse pure – e la cosa finì sui giornali – che la richiesta gli era pervenuta dalla cooperazione italiana, cioè dal ministero degli Esteri. In realtà fu lui a chiederlo per iscritto alla cooperazione – abbiamo ancora fotocopia della lettera, e anche quella finì sui giornali – a condizione ovviamente che i soldi ce li mettesse il ministero, non certo il povero prete umanitario. Nel 2011 il San Raffaele ha un buco valutato almeno 1,5 miliardi di euro. Ora la magistratura sta indagando a tutto tondo, dalle prescrizioni alle fatture che hanno portato per anni soldi a valanga nelle tasche del “don” e dei suoi soci. E sarà la magistratura a dire dove è sparita, come per miracolo, quella enorme massa di danaro. Esportata in Brasile? Sperperata per acquistare supercar (rigorosamente di colore nero, una parcheggiata davanti all’ufficio del “don”) o per costruire le oscenità urbanistiche visibili a tutti davanti all’ospedale? Chi lo sa? Il lavoro per gli inquirenti sarà lungo e difficile. Questa volta vorrei fare io a don Verzé una proposta a nome di Emergency. In assoluta trasparenza: partecipiamo all’asta per il San Raffaele. E offriamo un euro. Per un euro, se il ministero della Sanità acquistasse quel luogo e mettesse a disposizione i fondi che reputa indispensabili per garantirne il funzionamento (un budget e un bilancio pubblici, da aggiornare su internet), Emergency si impegna a dare ai cittadini un servizio di alta qualità, di totale gratuità, in un ambiente pulito e accogliente. Già alla fine del primo anno, il ministero e la Regione Lombardia si accorgerebbero di aver risparmiato soldi, tanti soldi. I cittadini sarebbero contenti del loro ospedale e si accorgerebbero di non aver pagato nulla, assolutamente nulla. La collettività risparmia e risparmia anche l’individuo, ci guadagnano tutti: un miracolo che sarebbe un gioco da ragazzi per gente capace e onesta. Come è capace e onesta Emergency, come lo sono tanti lavoratori del San Raffaele. La proposta è fatta: Emergency offre un euro per il San Raffaele.

C


Dal 1994 abbiamo curato oltre 4 milioni di persone vittime della guerra e della povertĂ

SOS EMERGENCY aiutaci a non smettere chiama il numero verde 800.394.394 www.emergency.it

EMERGENCY


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