E il mensile marzo 2012

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E - IL MENSILE. GIÀ PEACEREPORTER • ANNO VI - N°3- MARZO 2012 • EURO 4,00 • PUBBLICAZIONE MENSILE POSTE ITALIANE S.P.A.- SPEDIZIONE IN ABB. POSTALE - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N°46) ART. 1, COMMA 1, LO/MI

Armi.Violenza domestica e religioni.Brasile & Cina. Michela Murgia MARZO 2012

Dossier

Italia armata E-IL MENSILE MARZO 2012 • EURO 4,00

Don Ciotti prete di strada Michela Murgia Tra Stato e No Tav Sport dell’altro mondo hanno scritto:Carlo D’Amicis.Luca Galassi.Till Neuburg Simone Pieranni.Enrico Piovesana.Fabrizio Ravelli.Gabriella Saba.Federica Sasso hanno fotografato e illustrato: Diana Bagnoli.Francesco Cito.Fausto Giaccone Tomasz Gudzowaty.Felix Petrusˇka.Laila Pozzo.Patrick Zachmann


dal 29 marzo al 1 aprile 2012

incontri, libri, mostre, musica, teatro, cinema e gastronomia Carmine ABATE, David ABULAFIA, Marco AIME, Marc AUGÉ, Maurice AYMARD, Michel BALARD, Alessandro BARBERO, David BIDUSSA, Grazia BIORCI, Robin BLACKBURN, Laura BOLDRINI, Paolo BORGNA, Marco BUTTINO, Lucio CARACCIOLO, Luca CAVALLI SFORZA, Gustavo CORNI, Fernando J. DEVOTO, Bernd FAULENBACH, Marcello FLORES, Anna FOA, Goffredo FOFI, Emilio FRANZINA, Donna GABACCIA, Beppe GAMBETTA, Amara LAKHOUS, Marina LEWYCKA, Massimo LIVI BACCI, Uliano LUCAS, Alberto MANGUEL, David MEGHNAGI, Massimo MONTANARI, Peter OSTROUSHKO, Telmo PIEVANI, Adriano PROSPERI, Raoul PUPO, Donald SASSOON, Alexian SPINELLI, Salvatore VECA, Michel WIEVIORKA, Catherine WITHOL DE WENDEN

www.lastoriainpiazza.it

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Popoli in movimento

a GENOVA, Palazzo Ducale

06/02/2012 16.49.12


l’editoriale

Stavamo pensando in redazione all’editoriale di questo numero, ed è arrivato un pezzo di Michela Murgia che sulla base delle ultime vicende No Tav ragiona sul rapporto tra autorità e autoritarismi. Rapporto che ci sta molto a cuore perché è abbastanza simile a quello che c’è tra pace e guerra. Le cediamo – molto volentieri – il nostro spazio.

L’estate scorsa lo Stato – non il governo, ma proprio lo Stato – ha permesso che in Val di Susa si celebrasse a suon di manganelli il rito funebre della propria autorità. Il primo errore è stato credere che si potesse rubricare come cronaca locale la protesta della gente del movimento No Tav, in prevalenza giovani, anziani e famiglie che con i loro sindaci quel giorno marciavano in pace contro le ruspe. Il secondo errore è la modalità violenta con cui le forze dell’ordine hanno scelto di relazionarsi con quel dissenso, segnando una svolta definitiva nei rapporti tra le istituzioni governative e le proteste popolari in Italia, questa e anche tutte le altre. Il terzo errore si è compiuto nelle passate settimane, quando le conseguenze di quei fatti sono proseguite fino all’arresto di 23 attivisti del movimento, con capi di imputazione che vanno dalla violenza alla resistenza a pubblico ufficiale. Si tratta di un atto giudiziario che, al di là delle appurabili responsabilità personali, è stato interpretato dalla popolazione resistente della Val di Susa come una risposta formale delle istituzioni all’intero movimento No Tav, che suona inequivocabilmente così: «Badate che, se si arriva allo scontro definitivo, noi abbiamo i mezzi per imporci e voi non avete quelli per opporvi senza rinunciare alla legalità». Questo messaggio ha trasformato la lotta dei No Tav in una battaglia simbolica che interessa tutte le forme di resistenza popolare che in Italia stanno agendo in forma organizzata contro decisioni statali ritenute lesive per i territori e chi li abita. I manganelli in Val di Susa hanno reso chiaro che non è più possibile ignorare la frattura tra la volontà dello Stato e le volontà della popolazione, non fosse altro perché – dagli studenti alle partite Iva, dai forconi siciliani ai pastori sardi – quella frattura sta portando in strada sempre più persone, sebbene con diversa fondatezza, chiarezza e talvolta anche legittimità. La questione della Val di Susa in questo scenario magmatico ha le caratteristiche di un paradigma perché è il solo caso in cui la violenza è emersa forzatamente dopo anni di resistenza pacifica, ma sempre inflessibile. I No Tav non possono rinunciare alla legalità per far valere le proprie ragioni, perché significherebbe perdere quell’autorevolezza etica che sin dall’inizio ha smosso il consenso popolare intorno alle ragioni del movimento, facendo sorgere solidarietà anche da molto oltre i confini territoriali del futuribile tracciato ferroviario dell’alta velocità. La forza dei No Tav sta tutta dentro a un paradosso: nei sistemi democratici il tipo di autorevolezza sociale di cui il movimento dispone dovrebbe in realtà essere un patrimonio morale dello Stato, in quanto incarnazione strutturale dell’autorità collettiva; ma cosa può succedere quando quel deposito di consenso tacito comincia ad appartenere proprio a chi contesta le decisioni dello Stato? L’esercizio di quell’autorità funziona solo se è retto da una relazione di reciproco riconoscimento tra due soggetti con ruoli chiari: questa è la base della pace sociale ed è per questo che gli atti di autorità per loro stessa natura non dovrebbero incontrare alcuna opposizione da parte di coloro ai quali sono diretti. Dato per buono il fatto che in una democrazia c’è sempre la possibilità teorica di opporsi, deve esistere da parte della popolazione la rinuncia cosciente e volontaria a servirsene: è solo questa rinuncia che consente allo Stato di essere normativo e in questa dialettica l’uso della forza non solo non è previsto, ma è proprio escluso, perché contraddittorio. Quando uno Stato deve usare la forza contro i suoi stessi cittadini – come è accaduto con le proteste popolari No Tav – significa che questo meccanismo è andato in frantumi. Mandare le forze dell’ordine in tenuta antisommossa a manganellare chi esprime il suo dissenso non è un esercizio di autorità, ma l’ammissione pubblica di averla definitivamente perduta insieme al diritto di pretenderla. I fatti della Val di Susa segnano uno spartiacque proprio perché rivelano con chiarezza come in questo Paese il patto di riconoscimento reciproco tra il diritto dello Stato a imporsi e la rinuncia delle popolazioni a opporsi sia venuto meno in maniera clamorosa, insinuando in un numero sempre maggiore di persone la certezza che la difesa del bene comune non possa passare, né ora né mai più, dalle mani che stringono il manico di un manganello. Michela Murgia

Massimo Di Nonno [buenavista]

Tav, il patto tradito


in questo numero 5 le storie

Lezioni islamiche di Lorenzo Bagnoli

Ci metto la faccia di Andrea Caccìa foto di Filippo Molinari

Riprendere la vita di Camilla Mastellari

Sul tatami di Dudu di Elisa Cozzarini

Aspettando Muhammed di Sara Chiodaroli

12 il dossier

Le lobby delle armi Chi pensa e argomenta che armarsi è giusto. Chi si compra un mitra e spiega perché. Chi, in nostro nome, decide che abbiamo bisogno di fregate e aerei da combattimento. Ecco chi sono tutti coloro che compongono l’Italia armata foto di Francesco Cito

Gli estremisti della libertà di Valentino Necco

Io e il mio Kalashnikov di Gabriele Battaglia

Italia, Texas di Luca Galassi

Fregate in arrivo di Enrico Piovesana

30 l’incontro

Prete di lotta e di governo Nasce in montagna, cresce in una baracca, si fa prete e se la vede con prostitute, tossicodipendenti e detenuti. E poi, con Libera, Luigi Ciotti continua a sfidare le mafie di Fabrizio Ravelli foto di Laila Pozzo

38 le cronache

Davanti a Dio Mettete in una stanza un rabbino, un prete, un imam. Argomento: la violenza domestica e il ruolo delle comunità religiose, troppo spesso silenti in nome della difesa della famiglia. Accade a New York di Federica Sasso foto di Diana Bagnoli

48 il fumetto

Antonio Gramsci Insieme a Pasolini è l’intellettuale italiano più citato al mondo. Ma in patria è stato un soggetto scomodo scritto da Elettra Stamboulis disegnato da Gianluca Costantini

56 il portfolio

Corpi dell’altro mondo C’è lo sport della parte ricca del pianeta: fatica e sudore, ma con le scarpe giuste e in mondovisione. E poi c’è questo: povero, duro, in bianco e nero foto di Tomasz Gudzowaty con un testo di Gianni Mura

76 il reportage

Questione di classe È il ceto medio il protagonista. In due Paesi, Cina e Brasile, che hanno in comune un Pil che galoppa. Ma se a Brasilia la nuova classe C spende e spande, a Wenzhou i piccoli imprenditori tremano Il sogno di Brasilia

104 domani

Teatro di Simona Spaventa Cinema di Barbara Sorrentini Architettura di Raul Pantaleo Rete di Arturo Di Corinto Arte di Vito Calabretta Documentario di Matteo Scanni Design di Claudia Barana Libri di Alessandra Bonetti

110 sul campo

Obiettivo Vittoria Le storie raccolte dal Poliambulatorio mobile di Emergency in Sicilia di Alessandro Bertani

le rubriche 28 Grill di Till Neuburg 29 Buen vivir di Alfredo Somoza 36 Spiriti liberi di Giulio Giorello 37 .eu di Stefano Squarcina 44 Televasioni di Flavio Soriga 45 Decoder di Violetta Bellocchio 45 Il capitale di Niccolò Mancini 54 Mad in Italy di Gianni Mura 72 Un fisico bestiale di Bruno Giorgini

di Gabriele Battaglia e Simone Pieranni

72 Parola mia di Patrizia Valduga 73 Polis di Enrico Bertolino 94 Pìpol di Gino&Michele 95 La posta di E 108 La posta del cuore

foto di Patrick Zachmann

di Claudio Bisio

112

Per inciso di Gino Strada

di Gabriella Saba e Claudio M. Valentinetti

La paura di Wenzhou

86 il viaggio

Memorie di fabbrica Vi ricordate la Singer? Troneggiava in molte case, qualcuno la copriva con il centrino. Parte dalla torre della fabbrica, a Torino,il viaggio nei luoghi che sono stati dell’industria di Luciano Del Sette foto di Fausto Giaccone

il nostro osservatorio 26 46 74

Buone nuove Casa dolce casa L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro

92

Cessate il fuoco

96 il racconto

Il verso dell’uomo A Tre Punti i cacciatori avevano mani di fango e nomi da bestia. Alce, Toro, Agnello. La prima volta che chiesi a mio padre il permesso di uccidere un animale avevo dieci anni di Carlo D’Amicis illustrazioni di Felix Petruška

Ci vediamo in edicola dal 24 marzo con il numero di aprile

in copertina illustrazione di Nana Bianca



con noi E - IL MENSILE MARZO 2012

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Francesco Cito Valentino Necco

Vive e lavora a Milano, dove è nato nel 1969. Ricercatore e giornalista, ha collaborato con varie testate, tra cui Altreconomia, Il Sole24 Ore, Il Mondo e Diario. Ha vissuto in Spagna e Portogallo, ha pubblicato reportage da Marocco, Bosnia, Ucraina, ma anche da luoghi più estremi e dimenticati come la periferia milanese. Su questo numero ci spiega chi sono, che cosa pensano e come si muovono gli anarcocapitalisti italiani.

Nato a Napoli nel 1949, inizia l’attività di fotoreporter a Londra. Nel 1980 si reca clandestinamente in Afghanistan, nel 1983 è sul fronte libanese. Si è occupato in particolare di Palestina e Medio Oriente. Vince due volte il World Press Photo e diversi altri premi. Le sue foto illustrano il dossier Le lobby delle armi.

Resp. trattamento dati (D. Lgs. 30.06.2003, n.196) Gianni Mura Alle biblioteche carcerarie che ne facciano richiesta verrà attivato un abbonamento omaggio La nostra carta Questo giornale è stampato su carta certificata PEFC

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Nato nel 1971, si è laureato in Legge all’Università di Varsavia. Ha esordito con la fotografia naturalistica, poi si è indirizzato verso il reportage sociale, infine verso la fotografia sportiva. Ha pubblicato su Max Magazine, L’Equipe, The Guardian, Forbes, Newsweek, Time e Photo. Ha vinto diversi premi internazionali, tra cui World Press Photo, Picture of the Year e Nppa Best of Photojournalism. Il suo prossimo libro, Beyond the Body, sarà pubblicato a giugno da Jovis Verlag, Berlino. Per noi ha firmato il portfolio.

Federica Sasso

Diana Bagnoli

È nata a Torino nel 1982. A Barcellona studia e diventa fotografa. Nel 2009 vince il primo premio di Orvieto fotografia nella categoria reportage e viene nominata fotografa dell’anno. Viaggia e pubblica i suoi lavori su diverse testate. Attualmente vive tra Torino e New York, dove ha ritratto sheikh, rabbini, sikh e pastori all’Interfaith Center.

Ligure, ma anche un po’ milanese. Giornalista. Ha scritto per Diario e ha collaborato ai video realizzati da Luben Production. Ora vive a Brooklyn, ha lavorato per il programma radiofonico “America24” e come ricercatrice per documentari. A Manhattan ha incontrato i leader religiosi che partecipano ai corsi contro la violenza domestica.

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Tomasz Gudzowaty

Gabriele Battaglia Milanese e milanista, nato nel 1966, ha iniziato come web-giornalista. Convinto che l’Oriente sia il migliore punto d’osservazione sul mondo contemporaneo, cerca di raccontare la Cina e gli altri Paesi del Far East. Da Wenzhou, insieme a Simone Pieranni, ci racconta l’altra faccia dell’economia cinese: la crisi delle piccole e medie imprese.

Fabrizio Ravelli

Laila Pozzo

Nata a Milano, laureata in Architettura, ha ascoltato, visto e vissuto la sua passione totale per la fotografia alla corte dei re e delle regine (Douglas Kirkland, Sarah Moon, Joyce Tenneson). Oggi gira il mondo inseguendo storie ed emozioni da descrivere. Questa volta è stata a Torino per fotografare don Luigi Ciotti.

Scrive per la Repubblica da una trentina d’anni. Ha fatto cronaca giudiziaria a tempo pieno per otto anni. Poi l’inviato, scegliendo di non specializzarsi, così era molto più vario e divertente il panorama dei fatti e delle persone. Ha scritto per lo più di cronaca italiana, ma anche (malvolentieri) di politica. E poi occasionalmente di esteri, comprese tre guerre: ex Jugoslavia, Kosovo, Iraq. Gli piacciono le storie della gente, e i dubbi più che le certezze. Nella sede di Libera a Torino ha intervistato don Luigi Ciotti.

Gabriella Saba

Sarda, giornalista freelance, vive tra Cagliari, Milano e Santiago del Cile. Specializzata in America Latina, collabora con riviste italiane e straniere. Qui, con Claudio Valentinetti, ha scritto Il sogno di Brasilia, un viaggio nella Nuova classe media, nata negli anni di Lula.


storia 58 - Samh Aly Aly El Meligey

Lezioni islamiche

storia raccolta e fotografata da

Lorenzo Bagnoli

Samh Aly Aly El Meligey, classe 1979, è un milanese di origine egiziana che lavora come impiegato amministrativo in una società privata. Padre di due bambini di 7 e 4 anni, dal 2004 frequenta un corso di Teologia islamica per corrispondenza.

“Di’: In verità la mia orazione e il mio rito, la mia vita e la mia morte appartengono ad Allah Signore dei mondi”. Questo versetto del Corano significa che tutto quello che un musulmano fa, è per amore di Dio. Ecco cosa più apprezzo dell’islam: non è solo una religione, ma uno stile di vita. Ho 33 anni e sono nato in Italia da una famiglia di origini egiziane. Non mi piace essere definito “un ragazzo G2”. Mi suona come un’etichetta e a me i marchi non piacciono. Sono solo un cittadino italiano che ha deciso di approfondire lo studio della religione per diventare un uomo migliore. Per questo studio Teologia islamica per corrispondenza in un’università francese, l’Institut européen des sciences humaines, e sostengo gli esami presso il Centro islamico di Brescia. In Italia l’islam è una religione ancora giovane: i convertiti faticano a trovare testi tradotti che spieghino il Corano, così come maestri che conoscano esattamente sia la cultura islamica sia quella italiana. Ho pensato di poter contribuire al bene della società facendo filtro tra i due mondi, mettendoli in relazione tra loro: una sorta di mediazione culturale. Dopo gli anni della scuola dell’obbligo passati per la maggior parte in Egitto, ho studiato Informatica alla Statale di Milano mentre lavoravo per mantenermi: da magazziniere a operatore museale, da informatico a impiegato di direzione in un’azienda, la mia attuale occupazione. Con il passare degli anni, però, mi sono accorto che l'informatica non era ciò che mi interessava veramente e ho deciso di interrompere il percorso accademico e di iscrivermi al corso di Teologia islamica in Francia. Ma l’islam non si impara solo sui libri. Io sto accumulando esperienza ascoltando lezioni di studiosi nelle moschee di Milano, spiegando la storia del profeta agli italiani convertiti, partecipando alla consulta interculturale del Comune di Pioltello, facendo volontariato presso grandi associazioni come Islamic Relief, intervenendo nelle giornate dedicate al dialogo tra religioni. A guardar bene, è un po’ come l’informatica: non serve un titolo di studio per capire di computer. Basta qualcuno

che t’insegni le basi della programmazione, un po’ di curiosità e di esperienza sul campo. Così è per l’islam: non devi essere per forza un intellettuale. Servono le basi teoriche e la voglia di darsi da fare per la comunità. Ogni ruolo acquisito in un centro islamico, è frutto del lavoro tra le persone. Le guide, che siano spirituali o politiche, diventano tali quando chi partecipa alla vita comunitaria ti chiama in questo modo, senza nessuna elezione. In futuro mi piacerebbe fare politica, anche se non è un’attività che al momento suscita molte simpatie. Io la considero uno strumento per aiutare gli altri nei problemi di tutti i giorni. Anche senza poltrone, stando semplicemente in mezzo agli altri. Finora i musulmani vengono interpellati dai media solo per i casi di cronaca nera, per il ruolo delle donne nella società o per la questione del velo. Mai, invece, per sapere come affronterebbero la disoccupazione, la crisi economica o altri problemi che affliggono tutti. Dell’islam si continua ad avere paura. I regimi dittatoriali del Nordafrica hanno usato l’islamofobia per giustificare la loro presenza. «Se ce ne andiamo noi arrivano gli estremisti», dicevano. Sono molto orgoglioso di avere amici egiziani che hanno partecipato alla rivoluzione di piazza Tahrir. Fra loro, alcuni fanno parte dei Fratelli musulmani, ma quest’informazione, in Italia, spaventa. Ti bolla subito come un estremista. E a chi crede a questa propaganda antislamica, dico solo di venire a vedere cosa accade in moschea, di assistere alle preghiere e ai riti della comunità. Troveranno risposta a tutte le loro ansie e capiranno che non hanno nulla da temere.

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storia 59 - Afgani a Ravenna

Ci metto la faccia storia raccolta da

Andrea Caccìa foto Filippo Molinari

Ogni tanto mi guardo in questo specchio. Senza parlare e capire la lingua mi sento come un bambino o come un matto. Per chi capisce la lingua e le regole, per chi capisce come si vive qui, è diverso. Io vengo da lontano e sto imparando a capire. A volte vorrei essere un’altra persona, un europeo e non avere tanti problemi. Ho sognato di avere un’altra faccia e un’altra testa e che nessuno mi faceva problemi, e io capivo tutti. Come al mio Paese. E invece ho sempre la solita faccia. Vengo da Maidan Wardak, abitavo in un paese. È un posto bello, ci sono tante montagne, è molto verde. Non è tutta pianura come qui, e ci sono tanti alberi da frutta. Mele, mandorle, pere, uva, pesche, noci... È molto diverso da qui. Non c’è la luce elettrica. Non c’è gas. Per cucinare usiamo la legna, facciamo il fuoco. Quando è buio andiamo a dormire. Abbiamo delle lampade a olio, che al massimo durano due ore. Tutte le famiglie ne hanno una. Solo pochi hanno un generatore. Di notte per strada non c’è mai la luce, è sempre buio. C’è solo la luce dei fari di qualche macchina, se passa. Al mio paese, in Afghanistan, facevo il muratore: costruivo case. È un bel lavoro, è utile e dà soddisfazione perché quando finisci vedi cosa hai fatto, vedi che la

gente ci va a vivere dentro. Anche dopo anni quando passi davanti a una casa che hai costruito, sei contento. Io guardavo da fuori se vedevo qualcuno. Guardavo il cortile o gli animali, i bambini. Se nel frattempo era cambiato qualcosa. Ho fatto anche il piastrellista, ma quello è stato in Iran, dove ho vissuto per due anni. Quando si lavora si sta bene, io ogni tanto cucinavo anche. Mi piaceva cucinare per tutti. Ma in Iran non sono potuto stare. Non danno i documenti come qui. Quando non ti vogliono più fanno una retata e riportano tutti indietro, in Afghanistan. Perdi la tua famiglia e poi devi trovare il modo di ritrovarla. Non sai come stanno. E poi c’è tanta gente in carcere. Allora ho deciso di venire in Europa. Nel mio Paese non potevo tornare, ce ne siamo andati tutti tranne mio padre. Nella mia città c’era un maestro, il mio maestro. Era un talebano. Quando sono arrivati gli americani è scomparso. È tornato dopo tanto tempo e mi ha chiesto di andare via con lui. Mi ha chiesto di andare con lui per... non so come si dica qua Jihad. Gli ho detto di no, abbiamo litigato. Abbiamo fatto a botte e se n’è andato, ma poi è tornato dopo tre mesi. È venuto con tanti uomini. Avevano i Kalashnikov. Hanno


detto a mio padre di andare con loro, ma lui non voleva. Hanno parlato per strada. C’era gente, c’era tanto silenzio ma non sentivo. Si sono messi d’accordo: lui sarebbe andato purché lasciassero in pace noi, la sua famiglia. Se n’è andato in fretta, prima di andarsene ha detto a mia madre che restare era troppo pericoloso, che dovevamo andarcene in Iran. È per questo che me ne sono andato, ma poi sono ripartito. A piedi sono andato in Turchia, ogni tanto in macchina, e poi in Grecia. Eravamo in dodici, abbiamo camminato per un mese seguendo una guida. È stato difficile, mi viene da piangere a parlarne. In Grecia sono rimasto un anno, aspettavo di poter venire in Italia, ma sono stato rispedito in Turchia. Poi sono riuscito a ritornare in Grecia e dopo due mesi sono arrivato in Italia, da Patrasso. Ero nascosto sotto un camion. Hanno controllato tre volte che non ci fosse nessuno. Pensavo che mi avessero visto, ero sicuro, mi hanno illuminato e poi se ne sono andati. Il camion è salito dentro una nave. Sono arrivato dall’altra parte del mare. Quando il camion è ripartito, sono sceso a un semaforo e sono andato dalla Polizia. Mi hanno mandato in un centro vicino ad Ancona. In Turchia e in Grecia è stato molto difficile. Per tre mesi ho mangiato tutti i giorni solo un pezzo di pane. Altri giorni ho mangiato solo sempre lenticchie bollite, senza sale e senza niente. Non ho mangiato mai un pasto completo. Alle tre di notte, quando arrivavano i controlli, mi svegliavo all’improvviso. Ci prendevano

le impronte digitali. In Grecia non c’erano i campi, i centri di accoglienza. Ti danno la carta rossa per sei mesi. Dopo questi sei mesi te la strappano e ti rimandano in Turchia. Qui sto bene, diciamo. Potrei stare meglio, ma per ora sto così. Adesso non lavoro, non ho niente, non faccio nemmeno un corso. Come passo le giornate? Dipende: sto in giro con gli altri, andiamo a vedere il mare qui vicino, stiamo in città oppure a casa. Facciamo le nostre serate. Il tempo passa comunque, anche se dormi il tempo passa. Non trovo lavoro, devo trovare un lavoro e andarmene: qui mi tengono per qualche mese, ma poi devo lasciare questa casa. C’è tanta crisi, me lo ripetono tutti, è difficile trovare lavoro. In questa casa viviamo in otto, io sono in stanza con un altro ragazzo. Mangiamo insieme, siamo lontani dalla città, siamo qui isolati. Qualcuno ha trovato lavoro, per la stagione al mare in uno stabilimento. C’è un africano che parte la mattina presto per vendere per strada fazzoletti, calzini o altro. Torna la sera tardi, ogni tanto gli fanno una multa. Qualcun altro rimane qui nella casa, buttato a letto ad aspettare.

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Il progetto “La mia faccia” è nato dall'incontro con alcuni giovani afgani, arrivati in Italia dopo lunghi viaggi e difficoltà. Andrea Caccìa e Filippo Molinari hanno provato a legare le storie di vita così dure a volti famosi, sovrapporre al senso di disagio e impotenza i visi di persone baciate dal successo, come cantanti o figure storiche. Il progetto ha vinto l’edizione 2010/2011 di R.A.M. Concorso per giovani artisti di Ravenna. Questi scatti verranno esposti al Royal Horseguards di Londra.


storia 60 - Manjulaben Shankarlal Raval

Riprendere la vita Camilla Mastellari

Manjulaben Shankarlal Raval è nata il 2 giugno del 1970 in India, dove oggi vive con la sua famiglia. Madre di una figlia femmina, è fiera della cultura del suo Paese e della libertà di cui gode come donna. Dopo aver svolto per molti anni lavori dequalificanti, oggi è una videogiornalista e produce documentari in una cooperativa di donne lavoratrici autonome legata all’associazione Self Employed Women’s Association.

Secondo una leggenda indiana, un’aquila perse una piuma accanto a una donna e questa, contemplandola, imparò il segreto del volo. Sono nata e cresciuta a Sarangpur, nel distretto di Ahmedabad. Mio papà si guadagna da vivere guidando gli autobus. La mamma trasportando tutto il giorno pesanti carichi sulla testa. È una head loader, come la chiamano qui. Quando ero piccola guardarla fare avanti e indietro, dentro e fuori il Pankuva Kapad Bazar della città mi riempiva di stupore. Pensavo: come può la sua bella testa nera e lucida non spaccarsi sotto il peso di carichi così ingombranti? Poi, crescendo, la testa è diventata dura anche a me. Per molto tempo anch’io ho trasportato voluminosi fardelli sul mio capo. Dev’essere per questo che dicono che abbia un carattere forte e testardo. Ero la figlia maggiore di una famiglia proletaria di cinque figli, quindi ho potuto frequentare la scuola soltanto fino alle medie. Mi sarebbe piaciuto studiare di più, ma l’istruzione è una cosa per figli unici e ricchi. Il mio compito era quello di prendermi cura dei più piccoli di casa. Nonostante questo limite, sono contenta di chi sono diventata. Oggi lavoro in una cooperativa giornalistica che si chiama Video Sewa e produco filmati sul mio Paese, destinati alla mia gente. Siamo tutte donne e giriamo i villaggi e le province per catturare ciò che di interessante passa davanti ai nostri occhi. Quando ho conosciuto Sewa, nel 1993, non credevo di avere i titoli per farne parte: eravamo ottantacinque a fare domanda per un posto e tutte le altre ottantaquattro candidate erano più istruite di me. Ma l’associazione è nata proprio con l’obiettivo di dar voce a quelle donne che, povere e senza mezzi, voce non hanno. Dopo sei mesi ho iniziato a filmare. Prima di allora non sapevo nemmeno cosa fosse una telecamera. Oggi produciamo una ventina di documentari all’anno. I nostri filmati insegnano alle mamme senza istruzione cose utili: quando è necessario vaccinarsi o come si partecipa a un censimento. Altri simulano lo svolgimento di un processo per preparare le donne a difendersi in tribunale. Talvolta i nostri video consentono alle persone della strada di aprire un canale di comunicazione diretto con le autorità cittadine. Un gruppo di venditori ambulanti ha

usato Video Sewa per chiedere ascolto ai vertici locali. I nostri documentari più belli sono stati presentati ai festival nazionali, alcuni sono stati visti perfino all’estero. Confidiamo che i nostri messaggi raggiungano politici e attivisti che possano sposare la causa delle donne lavoratrici autonome. Grazie a Sewa sono una donna indipendente, ho migliorato il mio status sociale. Ho persino una mia scrivania, non è fantastico? Anche se la mia famiglia è orgogliosa dei miei risultati, le difficoltà non mancano. Mi sono sposata all’interno di una comunità musulmana chiusa che non vede di buon occhio la mia professione. Mi guardano e pensano: come è possibile che una donna sia in grado di realizzare un documentario? Allora io mostro loro come si cambia una pellicola o come si monta un girato. È dura dover dimostrare sempre qualcosa, ma alla fine quello che conta è vedere la diffidenza cedere il passo alla fiducia. La fiducia può aprire molte strade. Mi piacerebbe che ci dessero un canale televisivo per trasmettere tutto il giorno i nostri video. E poi vorrei produrre un film sul diritto all’istruzione. Ma il mio desiderio più grande è che mia figlia possa studiare l’inglese e diventare capace di reggersi sulle sue gambe. Perché la testa deve essere lasciata libera di volare in alto.

Z

[courtesy of sewa academy]

storia raccolta da


storia 61 - Edoardo Muzzin

Sul tatami di Dudu Quando fai judo hai sempre di fronte un’altra persona, che combatte e cade a terra cento volte per te, perché da solo non puoi né imparare né migliorare: è il principio jita kyoei, che significa “tutti insieme per progredire”. Appena ho messo piede sul primo tatami, a diciotto anni, mi sono trovato in sintonia con questa visione dello sport e della vita. Poi ho iniziato anche a insegnare judo, ed è stata la seconda folgorazione. Nel 1979 ho fondato a Pordenone la polisportiva Villanova, insieme ad alcuni amici, e da subito la regola è stata aprire le porte a tutti, a chi può pagare la retta mensile e a chi non può. Insomma, a chi ha i schei e a chi no. All’inizio, per autofinanziarci, giravamo per la città a raccogliere cartoni da riciclare e rivendere pur di portare avanti il judo nel quartiere di Villanova. Negli anni siamo cresciuti, la polisportiva ha quattrocento iscritti, ma lo spirito è rimasto lo stesso. Oggi, con la crisi che rende i poveri sempre più poveri ed emarginati, a non poter pagare le rette sono soprattutto le famiglie immigrate. Quindi è naturale che accogliamo a braccia aperte i ragazzini africani, albanesi, macedoni, cinesi e così via, come facciamo con i figli di tanti genitori italiani in difficoltà, disoccupati o in cassa integrazione. Non mi ricordo nemmeno da dove vengono, per me i ragazzi sono ragazzi, non si potrà mica distinguere tra uno e l’altro. E poi ormai è un dato di fatto: i figli degli stranieri sono tra noi, è nostro dovere farli sentire parte di questa società. È anche per questo che collaboriamo con i servizi sociali del Comune per l’inserimento dei bambini e ragazzi immigrati appena arrivati in Italia con ricongiungimento familiare. Non è mica così complicato, anzi, all’inizio sono disorientati, ma nel giro di quindici giorni i piccoli stranieri, perlomeno nel judo, sono come gli altri.

È più difficile interagire con le loro famiglie, ma questo vale anche per gli italiani, perché i genitori hanno vite sempre più frenetiche ed è difficile fermarsi un attimo e dialogare, immaginare insieme un futuro per i loro figli. Io sono nato in Francia 56 anni fa, da genitori emigrati. Ho fatto la prima elementare là e mi chiamavano Dudu, diminutivo di Edoardo, un soprannome che mi porto ancora addosso, con fierezza. Siamo tornati in Italia quando avevo solo sette anni, ma quel periodo mi ha segnato: ho dovuto imparare fin da piccolo che ogni cosa nella vita va conquistata con le unghie e con i denti. Inoltre sono ipovedente dalla nascita, sarà per questo insieme di cose che mi riesce facile mettermi dalla parte dei più deboli. A ripensarci, sono diventato maestro di judo proprio per questa mia propensione all’impegno nel sociale, anche se è successo quasi per caso. Avevo poco più di vent’anni e tutt’altro per la testa, quando ho accettato l’invito di don Romano Zovatto a dare il mio contributo per il quartiere di case popolari di Villanova, dove, negli anni Settanta, non c’era nulla, nemmeno la chiesa. Don Romano è l’unico prete con cui vado d’accordo, perché è uno che sa mettersi davvero al servizio della gente. Dovevamo fare qualcosa per animare una periferia che rischiava di diventare un ghetto, con molti immigrati dal Sud Italia e tante famiglie ai margini. Io ero solo cintura marrone, ma il judo era quello che sapevo fare meglio, così è cominciata l’avventura del maestro Dudu. Quella sfida l’abbiamo vinta, ma la marginalità esiste ancora, con nuovi volti e storie che arrivano da tutto il mondo, oltre che da casa nostra. E noi continuiamo a lottare.

T

storia raccolta e fotografata da

Elisa Cozzarini

Edoardo Muzzin, detto Dudu, è maestro di judo e fondatore della polisportiva Villanova di Pordenone (palazen.org). È nato in Francia nel 1956.


storia 62 - Sameh Lassoued

Aspettando Muhammed storia raccolta da

Sara Chiodaroli

Sameh Lassoued ha 43 anni e vive a Tunisi. Divorziata da 19 anni, è mamma di Muhammed Alì, 20 anni, imbarcatosi il 29 marzo 2011 dal porto di Sfax insieme ad altri connazionali per Lampedusa. Da quel giorno non ha più saputo niente di lui. Sono circa 1.800 le persone partite per l’Italia tra marzo e aprile che a oggi risultano scomparse. Da mesi le associazioni italiane Le venticinqueundici (leventicinqueundici.noblogs.org) e Pontes (www.pontes.it) portano avanti una campagna (www.petizionionline.it) per richiedere ai ministeri dell’Interno italiano e tunisino l’avvio della ricerca dei dispersi con l’ausilio dei database delle impronte digitali.

Ho due figli maschi: Seif Eddine di 23 anni e Muhammed Alì di 20, ma ne aveva ancora 19 quando è partito. Da allora sto aspettando sue notizie e da mesi con altre madri stiamo chiedendo ai governi italiano e tunisino di occuparsi dei nostri ragazzi dispersi. Ormai qui a Tunisi si parla di 1.800 persone scomparse. Fino a qualche ora prima dell’imbarco, Muhammed Alì non mi aveva mai parlato della sua idea di partire per Lampedusa. Quel giorno è venuto da me, mi ha detto che voleva andare via e mi ha chiesto i soldi. Gli ho risposto che non avevo quella cifra, ma in fondo era solo un modo per scoraggiarlo. Gli mancavano 500 dinari per arrivare ai mille di cui aveva bisogno. Pensavo di essere stata furba e che non sarebbe riuscito a trovarli. Invece se li era fatti prestare da un’amica e da una conoscente di famiglia. Dopo la rivoluzione in Tunisia, mio figlio è rimasto colpito dalle immagini dei ragazzi arrivati a Lampedusa trasmesse dai telegiornali. Da quando ha saputo che molti ce l’avevano fatta, lui come tantissimi altri giovani, ha deciso di andare via. La sera della partenza gli ho fatto compagnia finché non è arrivato il taxi per il porto. Gli avevo preparato la borsa da viaggio con i suoi vestiti scegliendo i colori che amava di più. Lui mi aveva parlato di una barca di pescatori grande e robusta, pronta per il mare, mica di una bagnarola come quelle che si vedono in televisione. Credo che neanche mio figlio si rendesse conto del pericolo. Mentre era in mare ho ricevuto una sua chiamata: mi ha detto che erano partiti un’ora prima e mi ha chiesto di chiamarlo all’una del giorno dopo, l’ho fatto, ma nessuno mi ha mai risposto. Muhammed Alì faceva l’animatore in un hotel di lusso ad Hammamet. Era contento del suo lavoro, ma non guadagnava molto. Tutto sommato, però, poteva vivere tranquillo e aiutava economicamente anche me. Qualche tempo prima aveva conosciuto una ragazza italiana di Venezia. Dopo qualche giorno dalla partenza per Lampedusa, le ho telefonato, sperando che fosse lei

la ragione del suo viaggio improvviso. Ma mi sbagliavo. «E che cosa ci viene a fare in Italia?», mi ha risposto. Quelle fredde parole mi fanno ancora male. Lei non lo voleva più; ciò significava che mio figlio non era partito nemmeno per amore. Adesso con tutte le mamme che come me non hanno notizie dei loro figli, sono alla ricerca di risposte dalle nostre istituzioni. È molto difficile: ho visto madri perdere il controllo, io stessa, quando ci incontriamo, mi metto a piangere e spesso, ciascuna chiusa nel proprio dolore, non riusciamo a comunicare. A dirla tutta, poi, io non mi fidavo prima e non mi fido nemmeno ora dei nostri politici: solo parole, tante parole. Da quando abbiamo iniziato a muoverci con il nostro appello, niente è cambiato. I nostri figli continuano a essere dispersi. Ma ora vogliamo sapere la verità. Puoi immaginare che cosa significa per una madre non sapere se il proprio figlio ha da mangiare o se ha freddo? Sono dubbi che ti fanno morire giorno dopo giorno. Io ho perso dieci chili in nove mesi da quando mi trovo in questa situazione. Chiedo a tutti gli italiani e allo Stato italiano un gesto di umanità verso chi da un anno sta soffrendo senza sapere niente. Abbiamo manifestato davanti al ministero degli Interni tunisino e all’ambasciata italiana, ma nessuna risposta. Credo che a questo punto ci sia un problema politico tra Italia e Tunisia. Se non sono morti, se non sono vivi, allora dove sono? Se fossero in Italia in un centro di identificazione avrebbero potuto chiamare le loro famiglie. Quindi dove sono? Ho un’ultima domanda da farvi. I cittadini italiani ed europei sono sempre i benvenuti da noi per le loro vacanze. Perché quando siamo noi a volere raggiungere i vostri Paesi, non solo non ne abbiamo il diritto, ma siamo costretti a rischiare la nostra vita? Per chiunque basterebbe acquistare un semplice biglietto aereo. Per noi il prezzo da pagare è molto più alto.

Q



Un potente e semisconosciuto think tank che inneggia al secondo emendamento della Costituzione americana. Quelli che sparano per passione e si sentono un po’ perseguitati, proprio mentre il Parlamento riduce i controlli sui cittadini armati. La Difesa che conferma l’acquisto degli aerei F-35 e spende cinque miliardi di euro per dieci navi da guerra di ultima generazione. Succede tutto in Italia

foto Emzzzzz [ezzzzzzma]

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Le lobby delle armi foto Francesco

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Cito


Italia armata

Gli estremisti della libertà di

Valentino Necco

Antonio Martino, Nicola Rossi, Oscar Giannino. Vi dicono niente questi nomi? Fanno parte di un gruppo trasversale che spinge per il diritto incondizionato alla difesa personale. Anarcocapitalisti, si potrebbero definire. Ultraliberisti in economia, firmano editoriali, insegnano all’università e fanno pressione attraverso il loro centro studi. Parole d’ordine: niente regole né tasse, privatizzare tutto. E vinca il più forte «Armi? Non ne ho mai avute. Ma difendo il diritto di possederne e la libertà di circolare armati». Una laurea in Agraria, sposato con una figlia, Giorgio Fidenato è un friulano schietto e amichevole. Difficile immaginarlo come un texano con il Winchester sempre carico. Eppure a sentirlo parlare qualche dubbio potrebbe venire: «La proprietà privata è sacra e ciascuno ha il diritto di difenderla, anche con le armi». Fidenato è un libertario duro e puro. E con i libertari americani condivide quest’idea: una società armata è una società libera e una società libera non può che essere una società armata. Tradotto: sì alle armi in mano a tutti i liberi cittadini, per difendere la proprietà privata dalle aggressioni altrui, no alle armi in mano allo Stato. Non a caso tra i nemici della proprietà privata, e quindi della libertà, Fidenato mette al primo posto lo Stato. Tanto da essersi lanciato in una battaglia così donchisciottesca da risultare quasi simpatica. Dal primo gennaio del 2009 questo imprenditore di Pordenone (gestisce una società di consulenza agricola) ha deciso di versare ai propri dipendenti l’intero stipendio, al lordo delle trattenute di legge. Fidenato si è rifiutato, in sostanza, di esercitare la funzione di “sostituto d’imposta”, che lo costringe a trattenere tasse e contributi previdenziali per conto dello Stato. La sua sfida al fisco è una purissima questione di principio. Non è solo il fastidio dell’imprenditore per le tasse che decurtano i profitti: è opposizione radicale e senza compromessi contro un’entità percepita come parassitaria e criminale per sua stessa natura. Oltre che imprenditore, Fidenato è presidente del Movimento libertario, uno dei pianeti della piccola galassia degli ultraliberisti italiani. Ultraliberisti, iperliberisti: così li chiamano i critici. È un’etichetta che loro tutto sommato non rifiutano, anche se preferiscono quella di libertari, traduzione dall’inglese libertarian. Fuori dal

mondo anglosassone, però, il termine “libertario” è spesso associato a orientamenti politico-culturali progressisti e di sinistra. Non sia mai. Ecco allora la definizione di anarcocapitalisti, una sorta di ossimoro che a dire il vero rischia di generare ancora più confusione. Anarchici, perché rifiutano il potere dello Stato in quanto frutto di un’imposizione violenta; capitalisti, perché considerano sacra la proprietà privata e il libero mercato come l’espressione più alta della civiltà umana.

Politicamente inclassificabili

In fondo, rispetto alla grande corrente del pensiero unico liberista, si tratta solo di uno sparuto gruppo di eterodossi. A volte, però, certi estremismi hanno, per così dire, il pregio di portare alle estreme conseguenze alcune premesse ideologiche rendendone chiare le implicazioni ultime. Inoltre, sebbene ancora virtualmente sconosciuti, gli ultraliberisti stanno poco alla volta conquistando spazi significativi nelle università, nei media e nelle istituzioni. Questi “estremisti della libertà”, come talvolta amano definirsi, non sono giovani fricchettoni nascosti in qualche centro sociale, ma scrivono sulla Stampa e sul Sole24 Ore, vengono intervistati al telegiornale, interagiscono con la politica. Hanno, insomma, un’influenza crescente sull’opinione pubblica. Non saranno gli “intellettuali organici” del liberismo, ma forse rappresentano qualcosa di più interessante: una spia che segnala una tendenza. L’ala intransigente del liberismo sfugge in parte alle classificazioni politiche. La coerenza con cui rifiuta qualsiasi proibizionismo la porta su posizioni ben distanti dalla destra conservatrice in tema di aborto, eutanasia, consumo di droghe, morale sessuale. L’assoluto antistatalismo la rende refrattaria alle cosiddette missioni di pace e a tutte le spese militari. Al contempo, la libera circolazione delle armi è considerata un


diritto indiscutibile. Negli Stati Uniti l’espressione più attuale di questa posizione, che combina pacifismo isolazionista e celebrazione degli eserciti privati, è quella di Ron Paul, il libertario che ha deciso di partecipare alle primarie repubblicane del 2012, dopo averci già provato nel 1988 e nel 2008. Da noi, a dire il vero gli anarcocapitalisti, quanto più hanno guadagnato visibilità pubblica, tanto più hanno evitato di esporsi su temi molto controversi come il commercio delle armi, che pure è uno dei loro cavalli di battaglia, preferendo impegnarsi soprattutto su temi economici, per esempio battendosi contro il referendum sull’acqua pubblica.

Il think tank italiano

In Italia la centrale del pensiero ultraliberista è l’Istituto Bruno Leoni (IBL). Questo centro studi intitolato

al giurista Bruno Leoni non esaurisce di certo tutto l’universo iperliberista italiano, ma ne è sicuramente il centro propulsore e il principale riferimento. Fondato nel 2003 a Torino (ora c’è una sede anche a Milano), l’IBL è modellato sull’esempio dei think tank americani: produce analisi delle politiche pubbliche e idee per influenzarle. Quali, lo dice chiaramente il motto dell’istituto: “Idee per il libero mercato”. Angelo Panebianco sul Corriere della Sera lo ha descritto come “un istituto che si è consacrato alla missione di diffondere analisi e studi rigorosi ispirati ai principi del liberalismo economico, a tenere alzata la bandiera del libero mercato e l’idea che solo con più concorrenza, meno Stato e più libertà di intraprendere si possano curare i mali del Paese”. Più spiccio Giancarlo Perna del Giornale, che lo definisce “il tempio del liberismo più integralista”. Pre-

In queste pagine festeggiamenti di Pasqua in Sardegna


Italia armata

sidente onorario è Sergio Ricossa, il noto economista torinese che in vecchiaia, insoddisfatto del liberalismo classico, ha deciso di trasformarsi in libertario. Il presidente è invece, dal maggio del 2011, Nicola Rossi, senatore del Pd passato (sempre da maggio 2011) al gruppo misto. Unanimemente considerato come un politico serio e onesto, estraneo alle logiche dei partiti, Rossi (conosciuto un tempo come “l’economista di D’Alema”) ha lasciato il Pd perché incapace, a suo dire, di abbandonare la propria matrice socialdemocratica. Sua, nel 2006, la proposta per permettere di trasformare le università in fondazioni, che gli è valsa l’accusa di volerle privatizzare. Rossi ha votato a favore delle missioni militari in Afghanistan e del rifinanziamento delle missioni all’estero. Lo ha fatto sia da deputato Pd ma anche da membro del gruppo misto: si presume per convinzione, quindi, e non solo per disciplina di partito. Una scelta in apparente contrasto con le posizioni dei suoi colleghi libertari, compreso quel Ron Paul del quale, non più di qualche settimana fa, ha pubblicamente tessuto le lodi. Il milanese Alberto Mingardi, socio fondatore e direttore generale, è la vera anima del think tank liberista. A dispetto di una vaga aria da nerd appena uscito dal college, Mingardi è uno spirito brillante e la sua storia quella di un enfant prodige. Nato nel 1981, è ancora adolescente quando viene folgorato dalle idee liberiste (a quanto pare proprio grazie alla lettura di Ricossa sul Giornale). A diciotto anni ha già pubblicato otto libri. Nulla di memorabile, per carità, ma pur sempre molto per un ragazzino, e quanto basta per avviarlo a una carriera di commentatore che oggi vanta collaborazioni con Wall Street Journal, Washington Post, International Herald Tribune, Financial Times e, in Italia, con Libero, Il Sole24 Ore, Il Riformista. Una delle pubblicazioni più recenti lo vede coautore assieme a Ettore Gotti Tedeschi, direttore dello Ior (la banca del Vaticano), di un volumetto dal titolo significativo: Spiriti animali. La concorrenza giusta. Edito dall’Università Bocconi con prefazione dell’allora amministratore delegato di Unicredit, Alessandro Profumo, il libro sposa una tesi forte e al tempo stesso semplicissima: meglio lasciar fare al mercato, sempre e comunque. Fosse per loro, sarebbe da privatizzare tutto, compresi polizia, esercito, scuole, ospedali e tribunali.

Ecologia di mercato

Gli altri due fondatori dell’IBL sono Carlo Lottieri e Carlo Stagnaro. Il primo è il vero intellettuale del gruppo. Professore di Filosofia del diritto, dirige il dipartimento di Teoria politica dell’IBL. Il secondo è un giovane ingegnere ambientale di Sestri Levante

che coordina le attività di ricerca dell’istituto. Membro del comitato scientifico del Festival dell’energia, della Fondazione Umberto Veronesi e del Corso di alta formazione in Energy Finance del Politecnico di Milano, è specializzato in economia dell’energia e dei servizi pubblici, temi sui quali ha pubblicato articoli su diversi giornali e riviste. Stagnaro fa parte della schiera degli ottimisti che non credono alle profezie di sventura in tema di ambiente: condivide la teoria dell’economista americano Julian Simon, che nega l’esistenza di limiti allo sviluppo sul presupposto che storicamente la creatività dell’uomo ha sempre trovato soluzioni per infrangerli. Inquinamento, cambiamenti climatici, politiche energetiche, accesso all’acqua: inutile dire che la ricetta per trovare le soluzioni adatte è sempre la stessa, lasciar fare al mercato. Su questo i libertari, bisogna darne atto, dimostrano onestà intellettuale: non dissimulano e, a differenza di altri, hanno coraggio di sostenere apertamente che l’ambiente non è un bene comune. Privatizziamo il chiaro di luna è il titolo eloquente di un breve saggio di Lottieri sulle “ragioni dell’ecologia di mercato”. Mentre i difensori del no al referendum sull’acqua cercavano di convincere l’elettorato che la legge liberalizzava i servizi senza affatto privatizzare l’acqua, Lottieri difendeva proprio questa possibilità ipotizzando di iniziare un vero processo di privatizzazione. Tra le pubblicazioni di Stagnaro merita invece una citazione il pamphlet pro-gun dall’inequivocabile titolo Io sparo che me la cavo. Tra i membri del consiglio direttivo di IBL, in qualità di senior fellow, spicca il nome di Oscar Giannino. Giannino è un volto noto: conduttore radiofonico e televisivo, è stato vicedirettore del Riformista e di Finanza&Mercati, e poi direttore dell’inserto economico del Libero di Feltri. Nel 2009 ha aperto, in collaborazione con l’IBL, Chicago-blog.it, un sito di analisi politica ed economica il cui titolo è un esplicito omaggio alla scuola di Chicago, centro di irradiazione del neoliberismo contemporaneo. Come Stagnaro, anche Giannino non crede agli allarmi ecologisti: a poche ore dal disastro di Fukushima, un suo editoriale celebrava la sicurezza del nucleare e si scagliava contro la “crassa ignoranza tecnologica” di chi non lo voleva in Italia. Anche Giannino si è speso a favore della libertà di porto d’armi, elogiando (sul Riformista) la legge del 2006 con cui il governo di centrodestra riformò in senso meno restrittivo la disciplina della legittima difesa. “Per noi libertari la proprietà è sacra al pari della vita”, scriveva. “Da libertario plaudo alla difesa di una proprietà equiparata alla vita”. In occasione dei referendum sull’acqua e sui servizi pubblici, Giannino è stato presidente di Acqualiberatutti, uno dei comitati per il no.


Il mito americano

Un altro politico vicino agli ultraliberisti è Antonio Martino. L’homepage del suo blog personale lo ritrae accanto a Margaret Thatcher. Economista, è stato ministro degli Esteri nel primo governo Berlusconi (1994) e della Difesa dal 2001 al 2006. Martino, uno dei pochi notabili del Pdl (ha la tessera n. 2 di Forza Italia) estranei al sottobosco affaristico dell’ex premier, proviene da una famiglia nobiliare siciliana. Si può dire sia figlio d’arte: suo nonno fu più volte sindaco di Messina; suo padre, deputato del Partito liberale dal 1948 al 1967, fu più volte ministro nei governi a guida democristiana. Evidentemente l’esaltazione dell’iniziativa privata e l’insistente richiamo alla riduzione del ruolo statale

può convivere con una tradizione familiare di appartenenza all’odiata casta dei politici (e alla conseguente remunerazione con denaro pubblico). Il passaggio di Martino dal ministero della Difesa, iniziato con le infauste giornate di Genova, fu segnato dai tragici eventi dell’11 settembre, che coinvolsero l’Italia nell’operazione Enduring Freedom in Afghanistan e, due anni più tardi, nell’invasione dell’Iraq. Ancora oggi non è del tutto chiarito il ruolo del Sismi, e dello stesso ministro, nel mistero dei falsi dossier sull’uranio nigerino venduto a Saddam Hussein, che servirono a George W. Bush e al suo vice Dick Cheney per incrinare le resistenze dell’opinione pubblica europea all’entrata in guerra. La connivenza con l’espressione più brutale del Levia-


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tano statale (al di là dei complotti orditi dai governi, il tanto ammirato Bush impose ai contribuenti americani centinaia di miliardi di dollari per spese militari) non fu sufficiente agli amici libertari per rinnegare Martino. Che invece scatenò grande entusiasmo quando nel 2002, sempre da ministro della Difesa, si schierò a favore di una legislazione più permissiva in materia di difesa personale. Martino prese a esempio il secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che garantisce ai cittadini la possibilità di portare armi. «Sfidando il senso comune dei benpensanti, devo dire che sono perfettamente d’accordo», disse del secondo emendamento. «Quando sono state introdotte queste restrizioni – dichiarò a proposito dei divieti vigenti in Italia – io non ho visto file alle questure di mafiosi che consegnavano la lupara o di terroristi che consegnavano il Kalashnikov. Ho visto ufficiali in pensione che consegnavano la pistola d’ordinanza. Noi abbiamo disarmato quelli che obbediscono alla legge e, di fatto, abbiamo finito con il lasciare armati quelli che non obbediscono alle leggi». Eccolo, il secondo emendamento: “Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una ben organizzata milizia, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto”. Negli Stati Uniti l’interpretazione del dettato costituzionale è controversa, ma quella prevalente vi legge il diritto di portare armi per ogni privato cittadino e non solo per le forze armate e di polizia (i repubblicani sono i custodi più gelosi di questa visione). Per i liberisti alla Giannino i padri costituenti americani sono venerati quasi religiosamente, il mito del popolo in armi che trasforma la rivolta fiscale in secessione è vivissimo e tutti i governi che limitano il possesso delle armi sono totalitari. Sul fatto che i fucili in mano ai coloni americani servissero anche a tenere in piedi un sistema schiavistico, gli anarcocapitalisti tendono a glissare. Silenzio anche sul genocidio dei nativi americani: costretti a toccare l’argomento, rispondono invariabilmente che esso è da attribuire all’esercito federale (cattivo) molto più che ai coloni armati (buoni).

Capitalismo selvaggio

Una lettura ideologica della realtà e della storia che diventa lampante di fronte alla crisi. Se il sistema capitalistico fa acqua, è perché non è abbastanza capitalistico. Se il miracolo non avviene, è perché non si è pregato abbastanza. Di fronte allo tsunami finanziario che sta mettendo in ginocchio mezzo mondo, la soluzione libertaria è per certi versi quella tipica degli estremismi politici o religiosi: una versione più pura del capitalismo esistente, i cui difetti sono tutti, indistintamen-

te, da attribuire all’interferenza della mano pubblica. In tempi di generale ostilità contro le banche, certe sbrigative ricette libertarie contro la crisi rischiano di affascinare: «La moneta non si stampa. Noi siamo per il ritorno al gold standard, cioè alla convertibilità in oro della moneta», racconta il presidente del Movimento libertario. «La crisi è causata da un connubio pernicioso tra grande finanza e politica, le Banche centrali vanno chiuse. Inoltre, è provato il nesso tra lo sviluppo delle Banche centrali e l’economia di guerra». A seminare qualche dubbio ci pensa Paolo Leon, il noto economista di scuola keynesiana che bolla come assolutamente improponibile il ritorno all’oro: «È una discussione vecchia già quasi un secolo, il ritorno alla convertibilità è già stato tentato dall’Inghilterra negli anni Venti con risultati fallimentari. Quanto alle banche – continua Leon – i libertari dovrebbero sapere che se crollano loro crolla tutto. Di sicuro quel che fingono di non sapere è che il disastro è cominciato con Reagan e Thatcher, che loro tanto amano, quando le banche hanno abbandonato la loro funzione di servizio pubblico e sono diventate a tutti gli effetti imprese private». Secondo Leon, il limite dei libertari è quello di non riconoscere che esistono elementi oggettivi che rendono la società divisa: «C’è chi sta bene e c’è chi soffre, ma a loro non importa niente. Esiste solo l’individuo in competizione con gli altri individui. Chi perde è responsabile della propria sconfitta: da questo punto di vista i libertari sono letteralmente dei duri di cuore». Da qui l’incapacità di comprendere, per esempio, quanto la sanità pubblica sia “un presidio di libertà”. Giorgio Fidenato, in qualità di presidente del Movimento libertario, si ribella all’etichetta di egoista senza cuore: «Noi libertari siamo gente del popolo, degli squattrinati: non difendiamo gli interessi dei ricchi contro quelli dei poveri, ma quelli dei produttori contro quelli dei parassiti». C’è da credergli. Però, tra Sergio Marchionne e Giorgio Cremaschi, i libertari elogiano il primo per l’attacco agli accordi sindacali e irridono il secondo come “parassita della peggior specie” in quanto sindacalista. C’è da credergli anche quando dice di riconoscersi nei valori della solidarietà e dell’aiuto ai più deboli. Però bolla come inaccettabili e illiberali, senza alcun distinguo, tanto le spese per i bombardamenti in Afghanistan quanto il programma di copertura sanitaria pubblica di Obama. «Non si possono tagliare le spese militari senza tagliare quelle dello Stato sociale», assicura Fidenato. Ecco, su questo, forse, si fa un po’ più di fatica a credergli.

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storia raccolta da

Gabriele Battaglia

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Io e il mio Kalashnikov

Ho 33 anni. Possiedo una pistola CZ di fabbricazione ceca, molto precisa e apprezzata dai tiratori per il tirassegno; un fucile a canna liscia calibro 12, a pallettoni, analogo a quelli che si usano per la caccia; un fucile a canna rigata, simile a un AK-47, il famoso fucile d’assalto russo, il Kalashnikov. Uso tutti e tre per il tiro sportivo. Ho sempre avuto questa passione. A cinque anni leggevo già riviste di armi, a diciotto sono andato in Svizzera, dove il tirassegno è sport nazionale praticato da tanti giovanissimi e dove ci sono circa ventimila poligoni privati e pubblici. Un amico mi ha portato a sparare e da lì, non ho più smesso. Tornato in Italia, ho provato a fare lo stesso, ma mi sono trovato davanti a un muro di burocrazia. Con il mio porto d’armi per tiro sportivo non posso girare armato, bensì “trasportare” un’arma. Bisogna distinguere tra il vero e proprio “porto” e la licenza per il “trasporto”: il primo consente di avere un’arma pronta all’uso; la seconda, cioè la mia, permette di avere un’arma scarica e smontata nel bagagliaio della macchina. Posso utilizzarla solo entro la linea

di tiro di un poligono, fuori devo tenerla chiusa in una valigetta. Ogni volta che ci scappa il morto, sui giornali parte la campagna contro “il porto d’armi facile”. Inviterei uno di questi giornalisti a farselo, il porto d’armi, per poi raccontarmi quanto è stato facile. Per averlo, devi presentare carta d’identità, codice fiscale, l’attestazione che tu non abbia precedenti penali, un certificato medico per la pratica del tirassegno e, a discrezione delle questure, l’esito di una visita alla Asl. Ti presenti al poligono dove ti fanno un corso di base che ti insegna come si usa un’arma in sicurezza. Poi fai una prova di tiro con cinquanta colpi e devi metterne un certo numero a bersaglio. Quindi vai in Questura o dai carabinieri, aspetti un po’ e ti arriva il patentino che dura sei anni, durante i quali puoi “trasportare” un numero di armi nei limiti consentiti dalla legge. Dopo devi rifare tutto. In pratica, ti fai tutta questa trafila inutile, spendi una discreta somma tra documenti e bolli, ma di fatto non c’è mai un esame accurato per accertare le


Italia armata

tue condizioni di salute mentale. Il porto d’armi per difesa personale invece non lo danno praticamente a nessuno, se non alle forze dell’ordine, ai portavalori, alle guardie giurate. Non l’hanno dato a gente minacciata dalla ’ndrangheta, perché è una scelta a discrezione della Questura. La legge dice solo che devi farne richiesta adducendo “giustificato motivo”, senza specificare quale. Il risultato è che alcune non lo concedono neanche a chi deve trasportare valori, dicendogli di rivolgersi a un portavalori. Lo scopo è quello di scoraggiare attraverso la burocrazia. Secondo me invece ai civili si dovrebbe concedere il porto d’armi per difesa personale se vivono in zone pericolose: una villa isolata o un quartiere “brutto”. Certo, se uno vive sopra la stazione dei carabinieri, allora no. È una questione di razionalità che c’è in tanti Paesi, da noi la pruderie e il buonismo creano degli ostacoli assurdi. La legge italiana è un po’ troppo persecutoria verso chi usa le armi per difesa personale. Qui vicino, un vedovo si è tenuto in casa la badante della moglie defunta: le si era affezionato e lei, una straniera, fa le pulizie in casa. Lui ha una pistola. L’ex fidanzato della ragazza, straniero anche lui, si presenta più volte ubriaco a minacciare sia lei sia il vedovo. Viene denunciato, i carabinieri lo portano qualche volta al comando per smaltire la sbornia e il giorno dopo quello è di nuovo fuori. Un giorno, lui si presenta sotto casa e comincia a sfasciare le macchine parcheggiate. Un vicino, settanta e rotti anni, scende per fermarlo e lui lo riempie di botte, lo sbatte per terra e comincia a prenderlo a calci in faccia. Il vedovo scende e gli spara. Viene arrestato con l’accusa di tentato omicidio. Vi sembra una cosa corretta? Non c’era altro modo per fermare quel tipo. Io non mi sento di biasimarlo. Se qualcuno aggredisce un anziano o sta cercando di stuprare una donna, e l’unico modo per farlo desistere è sparargli, io sparo. Chi sta subendo quella violenza ha meno colpa di chi si prende una pallottola. Il problema è che in Italia non c’è cultura delle armi, per cui si pensa che meno armi significhi più sicurezza, ma non è così. In California la legge è ancora più restrittiva di quella italiana, eppure Los Angeles è la città con il maggior numero di omicidi per arma da fuoco. Perché? Perché ovviamente i criminali hanno armi non registrate. L’arma legalmente detenuta non va ad alimentare la criminalità. Credo sia normale che uno non si senta troppo tranquillo se sa che il vicino di casa tiene un fucile a pompa e tre pistole nell’armadio. Ma inviterei a riflettere sul fatto che, se uno è fuori di testa, anche

un martello diventa un’arma, come la strage di Erba insegna, oppure un piccone o un’automobile. L’automobile non fa paura perché è parte del nostro quotidiano. Io ora vivo con la mia ragazza e prima con un amico. Entrambi si sono abituati alle mie armi senza problemi, perché sono entrate nel loro quotidiano. L’arma, in sé, è un utensile. Se un utensile è pericoloso, devi sapere come si usa, altrimenti lo lasci dov’è e non lo tocchi. Sicuramente se ci sono in giro più armi, capitano anche più incidenti. Ma è una mera questione statistica. Anche se ci sono in giro più automobili capitano più incidenti. Dicevo che in Italia manca una cultura delle armi. I corsi sono ridicoli. Al poligono ho visto “professionisti” che non sapevano da che parte cominciare. Era la seconda volta che sparavo in vita mia, c’erano due poliziotti e sette guardie giurate, il risultato migliore nel tirassegno è stato il mio. Prendiamo il caso Spaccarotella [il poliziotto che uccise il tifoso laziale Gabriele Sandri in un autogrill, ndr]: ma uno può tirare fuori un’arma in una situazione del genere? Era uno squilibrato ed era anche un poliziotto. E che dire del caso di Firenze? Gianluca Casseri ammazza due senegalesi con una 357 magnum Smith&Wesson detenuta legalmente. Lì il problema non è la “pistola facile”, ma il sistema che non funziona. Perché nessuno, prima di concedergli quel patentino per il tiro sportivo, si è premurato di controllare la sua salute mentale e le sue frequentazioni di estrema destra? C’è poi la questione dei corsi. Negli Stati Uniti ti fanno un corso di quaranta ore in cui non ti insegnano solo come usare un’arma, ma anche quando, se la usi per difesa abitativa. So che non mi servirà al 99,9 per cento, ma in caso di difesa abitativa io userei la pistola, non i due fucili che sono troppo lunghi e al chiuso rischiano di assordarti e accecarti. So però benissimo che, prima di usarla, dovrei starmene chiuso in camera da letto, chiamare la polizia, e urlare: «Sono armato, ho chiamato la polizia, andatevene». Solo se i malintenzionati non desistono, posso sparare. Ma se uno mi ruba il televisore, non posso sparargli nella schiena. Il punto è che, in Italia, questo non te lo dice nessuno. Testimonianza di Andrea F., agente di commercio milanese che vive in Veneto.

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di

Luca Galassi

Italia, Texas Nell’ultimo giorno di vita del governo Berlusconi il Parlamento ha cancellato il Catalogo nazionale delle armi. Era una forma di controllo sulla detenzione di pistole e fucili a uso “civile”. Per i produttori si tratta di «una lungaggine in meno» che farà bene a un mercato già molto florido L’11 novembre 2011, poche settimane prima della rapina finita nel sangue a Torpignattara e della follia omicida di metà dicembre a Roma, il Parlamento ha cancellato il

Catalogo nazionale delle armi comuni da sparo. La decisione non modifica la normativa per il porto, l’acquisto e la detenzione di armi, ma elimina la funzione preven-


Italia armata

tiva e di controllo che il catalogo svolgeva sulla detenzione di armi da parte di privati. Questo conteneva infatti la descrizione dell’arma e del calibro, del produttore e del detentore, era aggiornato annualmente e poneva un discrimine preciso tra armi comuni e armi militari. Secondo alcuni il provvedimento, diventato esecutivo dal primo gennaio 2012, è un primo passo verso l’americanizzazione dell’Italia, con una liberalizzazione selvaggia ormai alle porte. È opinione comune (?) che l’articolo introdotto nella Legge di stabilità che ha rimosso con un colpo di penna l’articolo 7 della legge 18 aprile 1975 contenente le “norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi”, sia stato un regalo di Berlusconi alla Lega. Già il 27 luglio 2011, il leghista Federico Bricolo aveva cercato di infilare nel provvedimento sulle missioni all’estero un emendamento, poi ritirato, per cancellare il detestato catalogo. Contro quest’ultimo, da decenni, si batte la lobby – principalmente lombarda – dei produttori di armamenti. “La misura – scrive l’Anpam, Associazione nazionale produttori armi e munizioni, in riferimento all’abrogazione – avrà l’unico effetto di rimuovere un costo che gravava sui soli produttori italiani, particolarmente svantaggiati dalle lungaggini del procedimento di catalogazione per il lancio dei nuovi prodotti, ed è destinata a incrementare la competitività dell’Italia in un settore che, nonostante la crisi, rimane di eccellenza”. Un’esultanza prevista, quella dei produttori. Ne spiega il perché Carlo Tombola, coordinatore scientifico dell’Osservatorio permanente armi leggere: «Era da tempo che la lobby armiera puntava a modificare la legge. L’hanno ottenuto l’ultimo giorno del governo Berlusconi. Che cosa si rischia? Una diminuzione dei controlli tecnici delle armi in circolazione. Non lo dico io, ma funzionari di polizia ed ex magistrati come Felice Casson, che in Senato dichiarò che con questa spinta verso una deregolamentazione, e senza nuove forme di controllo, a essere favorita sarà anche la criminalità organizzata. Quando si portano in giro armi da guerra, si ha una disciplina giuridica completamente diversa rispetto al possesso di un fucile da caccia. Senza il catalogo sarà molto più difficile fare tale distinzione». Secondo il segretario dell’Associazione nazionale funzionari di polizia, Enzo Letizia, «è scandaloso che i lobbisti e gli affaristi del mondo delle armi abbiano approfittato del gravissimo momento di difficoltà del Paese per ottenere dal Parlamento in via speditiva ciò che il Parlamento aveva loro già negato. Gli italiani sanno bene che certi personaggi, collegati a politici della loro stessa risma, non si fanno scrupolo della sicurezza collettiva e dei costi di certe misure pur di continuare ad ingrassare i loro portafogli».

Il settore delle armi leggere in Italia è assai fiorente: 2.264 imprese, 11.358 addetti, 612.408 armi, 902 milioni di munizioni. Le esportazioni, come descritto nel Rapporto dell’Archivio Disarmo, non conoscono crisi. Nel biennio 2009-2010 l’Italia ha esportato complessivamente oltre un miliardo di euro (1.024.275.398) in armi leggere a uso civile, precisamente 471.368.727 nel 2009 e 552.906.626 nel 2010, con un rilevante aumento di circa il 10 per cento rispetto al biennio precedente. In particolare, tra il 2009 e il 2010 la crescita si attesta attorno al 17 per cento. Altri dati, contenuti nel libro Armi da fuoco. Tendenze e contraddizioni italiane, scritto da Massimo Tettamanti per ScriptaWeb e pubblicato nell’agosto 2011, rendono noto, per la prima volta in maniera organica, il rovescio della medaglia. Trentaquattromila privati in Italia posseggono il porto d’armi. Le guardie giurate sono 50mila, i permessi per uso sportivo (tiro a volo o tiro a segno) 178mila, e circa 800mila sono i cacciatori con licenza per abilitazione all’esercizio venatorio. Non esistono dati precisi, se non per il 2008, per le armi regolarmente detenute, che con licenza di collezione possono arrivare fino a nove a testa. In quell’anno l’Eurispes stimava in dieci milioni le armi legali e 4,8 milioni le persone che detenevano un’arma da fuoco. Sempre secondo il libro di Tettamanti, il 43,2 per cento dei femminicidi è stato commesso con un fucile da caccia. L’unica statistica aggiornata del numero di omicidi commessi nel nostro Paese con arma da fuoco (con tanto di nome della vittima e località) risale al 2010, ed è stata pubblicata dal sito www.delittiimperfetti.com. Sono 222, il 44,6 per cento del totale. L’80,6 per cento è stato commesso con armi da fuoco non denunciate.

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di

Enrico Piovesana

Fregate in arrivo Non solo aerei F-35. L’Italia ha stanziato più di cinque miliardi di euro per dieci modernissime navi militari. Un ottimo affare per Finmeccanica e una garanzia per gli operai di Fincantieri. Con l’eterno paradosso che anche i sindacati, come antidoto alla crisi, difendono la scelta del riarmo

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La corsa italiana al riarmo e all’ammodernamento del proprio arsenale bellico non riguarda solo il comparto aeronautico. Oltre agli ormai famosi 131 bombardieri F-35 e alla seconda tranche di caccia Eurofighter, l’Italia si sta dotando, tra l’altro, di dieci navi da guerra supertecnologiche da 5 miliardi 680 milioni di euro. Per i cittadini italiani tartassati da tagli e tasse anticrisi queste spese rimangono un incomprensibile spreco di denaro pubblico, ma per la Difesa e gli ammiragli della Marina militare, il programma italofrancese per la costruzione delle nuove Fregate europee multi-missione

(Fremm), avviato nel 2004 dall’allora ministro della Difesa berlusconiano Antonio Martino, rappresenta, oggi come ieri, una spesa irrinunciabile, necessaria per sostituire le vecchie fregate anni Settanta classe Maestrale e i pattugliatori classe Soldati degli anni Ottanta. «Un progetto dall’alto significato strategico e tecnologico – commentava all’epoca Martino – che permetterà alla Marina militare italiana di acquisire navi di nuova concezione e dall’elevata flessibilità, con cui continuare a far fronte ai sempre più pressanti impegni operativi. Un programma che rafforzerà e potenzierà le conoscen-


Italia armata

ze e le capacità produttive nel campo delle tecnologie avanzate della cantieristica navale italiana, che conta nel settore migliaia di addetti». Per i boiardi dell’industria bellica italiana è l’ennesimo grande affare garantito dalla manna del finanziamento pubblico. Le Fremm sono costruite da Orizzonti Sistemi Navali: società controllata al 51 per cento da Fincantieri, quindi dal ministero dell’Economia, e al 49 per cento dalla Selex Sistemi Integrati di Finmeccanica, fino allo scorso dicembre guidata da Marina Grossi, moglie del patron del gruppo, Pierfrancesco Guarguaglini. Per gli uomini politici originari dello Spezzino il programma Fremm rappresenta un prezioso strumento di consenso all’interno del loro bacino elettorale territoriale: in palio ci sono i voti dei millecinquecento operai degli stabilimenti Fincantieri di Riva Trigoso e Muggiano, dove le fregate vengono costruite, e dei loro famigliari. Non è un caso che l’ex senatore Ds e sottosegretario prodiano alla Difesa Lorenzo Forcieri sia sempre stato uno strenuo sostenitore del programma Fremm. Per le maestranze dei due cantieri navali del Levante ligure queste commesse militari significano infatti la certezza di mantenere il posto di lavoro almeno per qualche anno, a differenza dei loro colleghi dei cantieri civili di Sestri Ponente. Un dato di fatto, quest’ultimo, che in tempi di crisi accentua il paradosso, certo non nuovo, del sostegno sindacale alle spese militari.

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Quando nel giugno 2010 l’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa annunciò il taglio del programma Fremm, da dieci a sei fregate, la Fiom parlò di “dichiarazioni molto preoccupanti” e le Rsu dei cantieri liguri commentarono: «Da più parti è invocata la necessità di crescita economica. La scelta di non costruire le restanti quattro fregate del progetto italofrancese Fremm va nella direzione opposta. Ciò significa l’ennesimo colpo alla Fincantieri e ai suoi lavoratori. Contrariamente alle sue dichiarazioni, il governo dimostra di non essere in grado di rispettare gli impegni presi con i partner europei. La conferma del finanziamento è fondamentale per il rinnovo della flotta della Marina militare, per mantenere integra la credibilità del nostro Paese nel rispetto degli accordi presi in ambito internazionale e, inoltre, per avere un carico di lavoro che renda possibile il futuro della divisione militare». «In assenza di un programma di riconversione civile dell’industria militare, che noi sosteniamo da sempre – spiega oggi a E Alessandro Pagano, coordinatore nazionale Fiom-Cgil per la cantieristica – sarebbe surreale essere disponibili a far saltare migliaia di posti di lavoro. Finché ci sono attività produttive militari che danno occupazione, non possiamo non occuparci delle persone che sono dentro questi meccanismi. Poi uno se vuole ci può vedere una contraddizione, figlia della complessità del mondo e delle relazioni sindacali». La riduzione del programma Fremm annunciata da La Russa aveva fatto emergere un’altra contraddizione, riguardante la reale indispensabilità di questo costoso programma militare. Nonostante il Capo di Stato


maggiore della Marina, ammiraglio Bruno Branciforte, continuasse a ribadire l’assoluta necessità di dotarsi di dieci fregate di modernissima concezione, il luciferino ministro della Difesa aveva candidamente dichiarato che le quattro fregate cui l’Italia, almeno per il momento, rinunciava «magari non sono indispensabili, ma può essere indispensabile costruirle per venderle ad altri Paesi». All’epoca era in corso una trattativa con il Brasile, che si è arenata in seguito al caso Battisti. Insomma: più che una reale esigenza di difesa nazionale, le Fremm sono un ottimo affare per Finmeccanica. Un affare miliardario cui Guarguaglini non voleva rinunciare, a prescindere dalla nazionalità del committente, come dimostra il suo attivismo all’epoca per non far sfumare la commessa brasiliana a vantaggio dell’industria bellica francese. Le intercettazioni telefoniche disposte dalla magistratura napoletana nell’ambito dell’inchiesta su Finmeccanica testimoniarono i contatti avvenuti in quel periodo tra l’uomo di Finmeccanica in Brasile, Walter Tarantelli, e il nostro ambasciatore, Gherardo La Francesca, e successivamente, sempre in merito alla stessa vicenda, tra il direttore commerciale di Finmeccanica, Paolo Pozzessere, e il faccendiere Valter Lavitola. «A oggi la commessa della Difesa per quelle quattro fregate rimane sospesa – spiega ancora Pagano – e verrà eventualmente rivalutata solo dopo il 2013, compatibilmente con le risorse finanziarie disponibili: così sta scritto nell’ultimo piano industriale presentato da Fincantieri. Ma a noi in questo momento preoccupa di più la sorte della parte del programma che invece è ufficialmente confermata, visto che delle sei fregate commissio-

nate ce ne sono ancora due in attesa di finanziamento, e su questo c’è ancora molta poca chiarezza». Dopo il varo della prima nave, la Carlo Bergamini, lo scorso 16 luglio, attualmente sono infatti in cantiere solo altre tre fregate: la Virginio Fasan, quasi ultimata, la Carlo Margottini e la Luigi Rizzo, il cui varo è previsto rispettivamente per il 2013 e il 2015. La quinta e la sesta fregata del programma rimangono per ora sulla carta, senza nemmeno un nome. Il carico di lavoro per i due cantieri militari di Riva Trigoso e Muggiano è comunque garantito, oltre che dalle Fremm, da altre importanti commesse, tra cui spiccano i due nuovi sommergibili U-212 per la Marina militare (mezzo miliardo l’uno, consegna prevista per il 20152016), una nave da assalto anfibio per la Marina militare algerina e due pattugliatori stealth per gli Emirati Arabi. «Fincantieri ha annunciato esuberi strutturali anche su Riva Trigoso e Muggiano, 130 operai ciascuno, ma oggettivamente – conclude Pagano – questi due cantieri, rispetto ad altri, come Sestri Ponente, hanno una prospettiva più rosea in virtù della loro dipendenza dalle spese militari, che si contraggono meno di quelle civili in quanto meno soggette all’andamento dal mercato». Generali e politici, industriali e sindacati: tutti d’accordo nel considerare le spese militari come antidoto alla crisi economica. Una teoria non nuova ma, come la storia insegna, foriera di mali ben peggiori.

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Immagini tratte da www.marina.difesa.it


Buone nuove a cura di Gabriele illustrazioni

Battaglia

Valentina Russello

5 gennaio, Svezia

Dopo due anni di battaglie, le autorità svedesi riconoscono il file sharing come religione legale. La Chiesa missionaria Kopimista si affianca quindi agli altri culti decisamente più tradizionali. Resta un paradosso: scaricare e scambiare file sul web continua a essere illegale per la legge del Paese. La legalizzazione dei “kopimisti” – che credono nella sacralità dell’informazione e nella copiatura come sacramento – non è stata però semplice: lo Stato svedese aveva infatti respinto la domanda due volte, l’ultima nell’estate dello scorso anno.

9 gennaio, Stati Uniti

L’amministrazione Obama vieta le miniere d’uranio attorno al Grand Canyon per i prossimi vent’anni. Circa mezzo milione di ettari saranno preservati, per la gioia dei conservazionisti e la rabbia delle associazioni di industriali che bollano

la decisione come “distruttrice di posti di lavoro”. Ma preservare il Grand Canyon è vantaggioso anche economicamente: il turismo in quell’area genera infatti 687 milioni di dollari di profitti l’anno per oltre dodicimila posti di lavoro a tempo pieno.

11 gennaio, Stati Uniti

Un moderato uso di marijuana non danneggia i polmoni. Lo stabilisce una ricerca dell’Università dell’Alabama, che ha analizzato i dati provenienti da fumatori abituali per un arco di tempo che va dal 1985 al 2006. Secondo lo studio, il fumo prodotto da una canna non è più dannoso di quello delle comuni sigarette. Ma in compenso, chi fuma marijuana tende a farlo con meno frequenza rispetto ai tabagisti abituali.

12 gennaio, Gran Bretagna

Scoperta una nuova molecola che potrebbe raffreddare il pianeta. Resta da capire se potrà essere utile per combattere il global warming. I ricercatori delle Università di Manchester e Bristol e dei Sandia National Laboratories statunitensi, hanno scoperto i cosiddetti Biradicals Criegee, utilizzando una fonte luminosa cento milioni di volte più forte del sole. La molecola è in grado di convertire le sostanze inquinanti, come biossido di azoto e biossido di zolfo, in composti che formano nubi, contribuendo così a proteggere la terra dal sole.

12 gennaio, Myanmar

Cessate il fuoco tra governo e ribelli Karen dopo 62 anni. L’accordo tra le autorità dell’ex Birmania e i ribelli dell’Unione nazionale Karen (Knu) è stato siglato a Hpa-an, la capitale dello Stato orientale di Karen, durante una riunione tra una delegazione governativa e un gruppo di dirigenti del Knu. Un esponente del movimento Karen si è espresso con cautela sul prosieguo dei colloqui: «Non ci hanno chiesto di deporre le armi e questa volta abbiamo deciso di dargli fiducia. Ma i combattimenti durano da sessant’anni e non basta una riunione a mettervi fine».

12 gennaio, India

L’India festeggia un anno trascorso senza nessun nuovo caso di poliomielite. L’ultimo riguardava una bambina di due anni, nell’Est del Paese, ed era stato rilevato il 13 gennaio 2011. Un anno intero senza nuovi casi significa che l’India non sarà più classificata come polioendemica


dall’Organizzazione mondiale della sanità, categoria a cui invece continuano ad appartenere tre Paesi: Afghanistan, Pakistan e Nigeria. Solo due anni fa, nel 2010, erano stati 741 gli indiani che si erano ammalati di poliomielite, quasi la metà dei casi al mondo in quell’anno. Il massiccio programma di sradicamento della poliomielite ha visto milioni di operatori sanitari raggiungere i luoghi più remoti del Paese, andare di villaggio in villaggio, per vaccinare più di 170 milioni di bambini ogni anno.

intensità in un vasto tratto di oceano che comprende alcuni degli habitat marini biologicamente più ricchi negli Stati Uniti”, si legge nell’azione legale presentata da una coalizione di gruppi ambientalisti guidata da Earthjustice. Lo scopo della causa è di limitare le operazioni navali, durante i periodi di caccia o di riproduzione delle balene, in un’area di mare che va dalla California ai confini del Canada.

18 gennaio, Europa

Il Comune di Milano apre gli asili ai bambini figli di immigrati irregolari. Uguali diritti per tutti, dal nido alla materna. La vicesindaca con delega all’Istruzione, Maria Grazia Guida, spiega la decisione citando la Costituzione: «Abbiamo aperto a tutti perché l’articolo 31 ci richiama alla tutela dell’infanzia e l’articolo 34 alla garanzia del diritto allo studio».

Patate Ogm addio. Basf – la multinazionale chimica tedesca famosa per le audiocassette di un tempo (ve le ricordate?) – rende nota la propria intenzione di rinunciare allo studio e alla commercializzazione di prodotti Ogm destinati alle nazioni europee, dato che, in base alle statistiche, due cittadini su tre sarebbero contrari all’introduzione di nuovi prodotti geneticamente modificati. Addio quindi alla patata Amflora, una varietà geneticamente modificata che veniva coltivata in alcuni Paesi del Nordeuropa. Autorizzata dalla Ue nel marzo del 2010, era destinata a utilizzi industriali e all’alimentazione del bestiame, ma entrava comunque nella catena alimentare dei consumatori.

2 febbraio, Italia

18 gennaio, Ecuador

La povertà in Ecuador è diminuita di sei punti percentuali. Dal 33 per cento del 2010, è scesa al 28,6 per cento, con 651mila persone che in un anno sono riuscite ad allontanarsi dalla soglia di povertà. Lo rivelano l’Istituto di statistica e la Segreteria della pianificazione, che identificano in 72 dollari pro capite al mese la soglia minima. Sotto questo limite si è poveri, come 167mila (su nove milioni e mezzo) abitanti delle città e circa la metà della popolazione rurale (2,48 milioni su 4,88).

25 gennaio, Sud Sudan

Il governo sta progettando di costruire una banca nazionale del sangue che conterrà più di cento litri di plasma. È un progetto indispensabile nel Paese più “nuovo” del mondo, afflitto da statistiche sanitarie tra le peggiori al mondo. Nel frattempo, medici di Harvard hanno istituito una “banca virtuale del sangue” costituita da un database di donatori volontari che potrebbero, per il momento, sopperire alla mancanza di sangue.

27 gennaio, Stati Uniti

Gruppi ambientalisti fanno causa al governo statunitense: la Us Navy ha compiuto manovre al largo della West Coast con l’utilizzo di sonar che potrebbero disturbare o addirittura uccidere alcune specie marine, tra cui le orche e le balenottere azzurre. “Nell’ambito delle esercitazioni, la Marina ha ripetutamente trasmesso onde sonore ad alta

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il mantra della crescita grill di

Till Neuburg

Immaginando uno scanzonato trio cabarettistico formato dal cardinale Bagnasco, dalla Binetti e da Giobbe Covatta, verrebbe spontaneo parafrasare la Genesi 9.1: “Crescete e complicatevi”. Oggi non c’è opinionista, sindacalista, economista o biblista del Vaticano e della Bocconi, che nei convegni e nei convenevoli dei toksciò non reciti con fare compulsivo il nuovo rosario della confraternita neocon: «Crescita crescita crescita». Lo ripetono alzando lo sguardo verso il regno dei grattacieli di Wall Street, di Formigoni e di Kuala Lumpur, come quando a noi ci scappa di inviare una mail al destinatario sbagliato: «Cazzo cazzo cazzo». La crescita è il mantra del meteo economico. Nei dizionari, la parola “crescita” è associata alla luna, al lievito, all’erba del vicino, ai teenager, ai peli superflui e al Pil, quest’ultimo non necessariamente attaccato con il vinavil. Invece, il fatidico Prodotto interno lordo dei nostri salumieri dell’economia che sbagliano il peso rigorosamente all’insù («Signora, lascio?»), è appiccicoso come la nota colla. Una volta spalmata nell’aula magnamagna delle facoltà di Economia, del Parlamento e delle redazioni, non la stacchi più. Il Pil è un millechiodi al quale puoi appendere qualsiasi cosa: benessere, istruzione, occupazione, democrazia, ricchezza, libertà. Sbirciando nei monocoli dei guardoni nel futuro, il potenziale della crescita è infinito. È un universo che si espande, come succede per le stock option, il gratta e vinci, le tette delle veline. Basta non intralciare lo sviluppo naturale e caricaturale del mercato. A sistemare quello, ci pensa sempre la vita o la Borsa. La legge del fuorilegge mimetizzato, non è nata nelle praterie di Arcore o di Saxa Rubra. Ci avevano già pensato, esattamente vent’anni fa, i nostri disonorevoli e senatur, quando la pistola più sottile del Nordovest, Giuliano Amato, gli aveva estorto una manovra finanziaria di 93mila miliardi di lire, ufficialmente per ridurre il debito pubblico (esattamente come si usa oggi). In realtà, dopo quell’assalto, la diligenza è allegramente tornata a galoppare: dai 232 milioni di allora ai 1.905 milioni di euro alla fine del mondo degli Incas e degli incapaci. Nella natura e nella vita reale, la crescita è una fase che si esaurisce con la maggiore età. Poi ti organizzi, metti a posto, ti guardi in giro. Regoli le forze, le risorse, le energie. Una volta che sei adulto, la crescita è solo un souvenir. Il World Economic Forum confronta annualmente i fattori che favoriscono la concorrenzialità. Nel suo ultimo “Global Competitiveness Report 2011/12”, ecco come si posiziona la patria di Pinocchio, di Giuseppe De Rita e di Totò: in una graduatoria che si riferisce a 142 nazioni, il nostro sistema scolastico brilla per una prestigiosa ottantottesima posizione, per quanto riguarda la salvaguardia dei diritti dei piccoli azionisti siamo al centododicesimo posto, in tema di trasparenza sugli atti del governo siamo al centotrentacinquesimo livello e per ciò che concerne la fiducia che i cittadini nutrono nei confronti dei politici, ci vediamo catapultati al centoventisettesimo gradino. Questo massimo storico nel petting tra maxima lidership e cittadini, non l’abbiamo conquistato solo perché in poche happy hour siamo passati dall’obbrobrio alla sobrietà, dal perizoma al loden, ma prima di tutto perché la materia prima della crescenza e del crescione è rientrata prepotentemente nel menu dei tecnici che smanettano in blazer. Finalmente siamo tornati all’età della pietra filosofale che nei millenni ci ha regalato Pegaso, gli unicorni, i centauri, i trionfi di Ribot, di Tornese, del Cavallino rampante e del Crazy Horse. Campa cavallo che l’illusione cresce.

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di

Alfredo Somoza

Libretto vademecum per emigranti italiani verso il Brasile, Emigranti, leggete questi cenni prima di partire, Edizioni della Provincia di San Paolo, 1886

eldorado carioca Correva l’anno 1888 e il Brasile aboliva la schiavitù. Era l’ultimo Paese americano a chiudere un capitolo vergognoso della storia del continente durato più di quattro secoli. Improvvisamente le campagne si svuotarono, gli impianti per la spremitura della canna da zucchero rimasero senza braccia, le piante di caffè senza cure. Gli ex schiavi fuggirono dai luoghi dove avevano conosciuto solo fame e frustate per accalcarsi nelle città. Il Brasile di fine Ottocento doveva dunque risolvere il problema della manodopera rurale. La soluzione abitava in Italia, più precisamente in Veneto, dove gli agenti del governo carioca trovarono un popolo mansueto e disposto a tutto per fuggire dalla fame. Furono un milione e mezzo gli italiani che nei successivi quarant’anni arrivarono in Brasile. Un esodo biblico, si direbbe oggi. Solo a partire dal 1970 il saldo migratorio italiano è diventato positivo. Fino a quel momento, a partire dall’inizio del secolo, l’Italia era stata terra di emigranti. Ora si era trasformata in una potenza economica, mentre molti degli Stati che un secolo prima avevano ospitato europei in fuga erano diventati a loro volta luoghi dai quali si scappava, per motivi politici o economici. Altro giro di ruota, e negli anni Duemila i Paesi emergenti cominciano a conquistare un ruolo da protagonisti sulla scena globale. Nel 2011, dopo la Cina, il Brasile entra nel gruppo delle prime potenze mondiali superando il Pil di Italia e Regno Unito. La potenza sudamericana è un Paese in piena crescita: ha da poco ottenuto un upgrade da Standard & Poor’s e ha un bisogno urgente di figure professionali specializzate. Per questa ragione il governo della presidentessa Dilma Roussef sta mettendo a punto una legge che faciliterà l’immigrazione e che dovrebbe consentire a quattrocentomila professionisti stranieri altamente qualificati, preferibilmente europei disoccupati, di lavorare nelle imprese brasiliane. Nel primo semestre 2011, il numero di immigrati approdati nel gigante sudamericano è cresciuto del 52,4 per cento; il motore di ricerca lavoro Monster conta ottantamila curricula di professionisti europei che si rivolgono al mercato brasiliano. Per quanto riguarda l’Italia, a spingere molti a guardare nuovamente verso l’America Latina sono la crisi economica e le scarse prospettive di impiego. Certo, oggi non è facile pensare di tornare a navigare le vecchie rotte dell’emigrazione; eppure la veloce industrializzazione di zone fino a ieri poverissime (come il Pernambuco, dove la Fiat sta aprendo la sua quarta fabbrica brasiliana) genera una domanda di manodopera qualificata e di tecnici di alto livello che in quelle terre non è disponibile, mentre in Italia la stessa manodopera viene lasciata per strada dalle aziende in crisi. Se gli italiani torneranno davvero a emigrare in Brasile, si ripeterà un ciclo storico che sembrava chiuso per sempre. La crisi economica che sta riscrivendo il nostro futuro si prepara a regalarci un’altra grande sorpresa.

[fototeca storica nazionale ando gilardi]

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Conversazione con don Ciotti di

Fabrizio Ravelli

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Laila Pozzo

Prete di lotta e di governo Le origini cadorine, la povertĂ , l’infanzia in una baracca di Torino e quel Natale in cui fondò il Gruppo Abele. La storia di un sacerdote che ha fatto della strada la sua parrocchia e del sostegno a tossicodipendenti e prostitute il suo Vangelo. Oggi, con Libera, continua a battersi a viso aperto contro le mafie


“Mi ricordo l’impatto traumatico con la città di Torino perché mio padre aveva trovato lavoro, ma non aveva trovato casa. E quindi la nostra casa è stata la baracca del cantiere del Politecnico di Torino”

Don Luigi Ciotti è uno di quei preti lottatori che non mollano mai, che trovi per strada e non in sacrestia, che dà del tu a tutti (anche nel primo incontro con l’avvocato Agnelli, che non fece una piega). Il Gruppo Abele lo conoscono tutti. La sua vita, un po’ meno. Si incontrano una maestra nervosa, un medico disperato, un vescovo coraggioso e tanti altri. Conta molto che Ciotti sia un montanaro. Montanaro veneto, no? «Sì, sono nato a Pieve di Cadore nel ’45, ed emigrato in Piemonte con mio padre, mia madre e le mie sorelle per la ragione che nel dopoguerra spinse migliaia e migliaia di persone ad andare a cercare altrove la dignità di lavoro, la speranza». E te ne sei andato a cinque anni. «Mi ricordo l’impatto traumatico con la città di Torino perché mio padre aveva trovato lavoro, ma non aveva trovato casa. E quindi la nostra casa è stata la baracca del cantiere del Politecnico di Torino. Mio padre lavorava nell’impresa che ha costruito la parte più vecchia. Quegli anni hanno segnato la mia vita insieme con la baracca, il cantiere, le facili etichette che la gente ti mette perché tu vivi dietro uno steccato. Un pensiero sempre sbrigativo, che generalizza, e che tuttora resta una delle ferite aperte. Mio padre era muratore, poi è diventato capocantier e capomastro». A Torino da immigrato che viveva in una baracca. «Sì, la baracca del cantiere. Dignitosa. Una delle cose che ricorderò sempre come un avvenimento è di quando, una volta all’anno, andavamo a comprare la carta da zucchero, quella blu: poi con le asticelle di legno che papà tagliava dalle assi, la attaccavamo al soffitto. Era festa, festa in famiglia. Certo, il gabinetto era una baracca all’esterno. Però ho alcuni ricordi belli della mia infanzia. Il padrino della cresima che ho fatto nella parrocchia lì vicino era il gruista, Paolo il gruista. Eri un po’ coccolato dagli operai. Poi venne la drammatica sera, credo fosse proprio un tornado che buttò giù i 42 metri della Mole Antonelliana, fece saltare tutti i tetti della Grandi Motori e ci portò via gran parte della baracca. Ricordo la mia mamma che ci teneva stretti, un po’ disperata. Volò via un pezzo di tetto e il gabinetto lì vicino, che era fatto di assi». E com’eri tu, bambino della baracca? «L’altro ricordo è quello legato alla mia esperienza scolastica in prima elementare. Io dovevo andare a scuola in quel territorio, nella zona ricca di Torino. E avvenne un fatto che mi ha segnato molto. Questa scuola, la Michele Coppino, aveva un regolamento: tutti con il grembiule. Mia madre andò dalla maestra a dire che non era in grado di comprare il grembiule e il fiocco per me, perché aveva dovuto comprarlo alle mie sorelle e non c’erano soldi. Quindi disse: “Per un mese manderò mio figlio a scuola senza il grembiule”. Sai, tu puoi essere povero ma dignitoso, la dignità di andare a dire: “Guardi, non ce la faccio”. Quindi io mi son trovato a essere diverso, dentro una scuola dove tutti avevano questo benedetto grembiule e questo fiocco interminabile e tutti che ti chiedevano come mai tu non avevi il grembiule. Tu ti senti diverso, ti senti etichettato,

ti senti giudicato. Al punto che quando qualcuno mi chiedeva dove abitavo, io non dicevo che abitavo dietro quello steccato, ma in un palazzo». Finisce che il diverso si ribella. «Dopo venti giorni di prima elementare, e io che già mi sentivo diverso e in difficoltà, la maestra è arrivata a scuola quel giorno nervosa, magari aveva litigato col marito. E mentre in fondo alla classe i miei compagni ridevano e scherzavano, lei non se l’è presa con loro, ma se l’è presa con me, che ero il più vulnerabile, il più visibile, mi aveva anche messo al primo banco. E io devo averle detto: “Ma che cosa vuoi, non c’entro niente”. Lei chissà cosa ha capito e le è scappata un’espressione che per me è stata una ferita: “Ma cosa vuoi tu, montanaro?”, detto quasi con disprezzo. I miei compagni tutti a ridere e quindi mi sentivo ancora più umiliato da quella affermazione. Allora io ho tirato fuori il calamaio dal banco, uno di quei vecchi banchi di scuola, e gliel’ho tirato. L’ho colpita in pieno. Espulso subito dalla scuola, dopo venti giorni. Portato a casa da un bidello. Io non l’ho mai più incontrato, ma mi ricordo quella mano che mi portava a casa, e piangevo perché sapevo di avere sbagliato e che mi aspettava una punizione; e mia madre me la diede, sonora. Anche se anni dopo mi disse: “Luigi, io lo sapevo che tu avevi difeso la nostra dignità, però non si fa a questo modo”. Il vero problema venne quando i miei compagni uscirono di scuola alle 12.30 – io ero già espulso – e avevano qualcosa di nuovo da raccontare ai genitori o alla cameriera. Lo sai mamma, cosa è successo oggi a scuola? Dimmi, cicci. Un nostro compagno ha tirato il calamaio alla maestra. Ah, povera maestra. E come si chiama quel compagno? Ciotti. Guai se ti vedo con quel compagno. Sono diventato il compagno cattivo». Montanaro e ribelle. «Meno male che frequentavo la parrocchia. Andavo lì, eravamo un gruppetto, nella parrocchia di questo quartiere molto ricco di Torino. L’altro episodio che mi ha segnato è successivo: dopo le medie sono andato a scuola per prendere il diploma di radiotecnico e lì è avvenuto l’incontro con un signore su una panchina. Un disperato che mi aveva colpito, perché io passando con il tram lo vedevo sempre lì a leggere libri, sottolineando con una matita rossa e blu. Avevo diciassette anni, con gli entusiasmi e le fantasie di quell’età. Un giorno sono sceso dal tram, sono andato lì e gli ho detto: “Vuole che vada a prenderle un caffè?”. E lui niente. Torno alla carica: “Vuole un tè?”. Lui zitto. Penso, sarà sordo, ma mi accorgo che non lo è. Era un medico, amato e stimato dalla gente, e una vicenda drammatica nella sua vita l’aveva portato su quella panchina. Era andato ubriaco in sala operatoria e aveva provocato la morte di una donna, la moglie di un amico. Poi era uscito di testa, stava male. Però studiava ed era curioso. Dalla panchina vedeva dei ragazzi al bar di fronte che entravano e uscivano – allora non c’era l’eroina – prendevano delle anfetamine, ci bevevano dei superalcolici e sballavano, facevano la bomba. Un giorno, quando alla fine nasce un rapporto fra me e lui, anche

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se stentato, mi dice: “Vedi, dovresti fare qualcosa per quei ragazzi”. Lui era un uomo disperato e sofferente, sarebbe morto di lì a pochi mesi. E io mi sono detto: questo incontro non sarà un incontro qualsiasi. Mi ha indicato una strada. Anche questo episodio ha lasciato un graffio nella mia vita». E poi? «Poi sono andato a vivere da solo. Ho fatto un gruppetto. Poi è nato il Gruppo Abele, che a Natale ha compiuto 45 anni. In seminario sarei andato dopo, avevo già il Gruppo Abele, avevo una storia dietro. Avevamo cominciato ad andare sui treni, dove dormivano i disperati senza casa: i treni arrivavano caldi. Ho pensato, caspita io incontro questa gente fuori, facciamo delle cose insieme, non li lascio soli. A volte la mattina eravamo così stanchi che il treno partiva e ci trovavamo a Chivasso. Passavano i controllori, te la davi a gambe. Perché sai, se parli a tavolino non capisci questi mondi. Lì nasce la storia del Gruppo Abele, nasce sulla strada, il lavoro nel carcere Ferrante Aporti, la casa di rieducazione del Buon Pastore. Le prime comunità in alternativa a quelle strutture. Una storia che è cresciuta e che non è Luigi Ciotti, è ‘un noi’: ho fatto questo perché l’ho fatto con altri. Io difendo questo noi, vuol dire che non è opera di navigatori solitari. E poi, quando sono stato ordinato sacerdote dal cardinale Michele Pellegrino, grande vescovo che si faceva chiamare padre, in una chiesa zeppa di mondo di strada, alla fine di quella

celebrazione non volava una mosca, lui guardò tutti questi ragazzi e disse: “Luigi è nato con voi, è cresciuto con voi e io ve lo lascio. Però affido anche a lui una parrocchia e gli do come parrocchia la strada”». Michele Pellegrino, insigne grecista, vescovo coraggioso e innovatore. «Lui veniva da noi. Ai nostri campi in montagna. Venne una volta e c’erano tutte le ragazze del mondo della prostituzione. Lui ascoltò e poi mi disse: “Quando hai una sera libera vieni a cena da me, tu mi hai aperto una finestra e io voglio capire di più questo mondo”. Non giudicava, non semplificava, voleva capire. Un anno dopo è andato a celebrare il Natale con le prostitute del centro storico di Torino. Uno che non si è mai tirato indietro. È stato lui a prendere posizione quando il quotidiano La Stampa fece la grande campagna per ripulire la città dalle prostitute. La redazione si spaccò in due, per quella iniziativa di legge popolare. E lui fece quell’omelia nella notte di Natale, nel duomo di Torino, partendo dal Vangelo di Giovanni, e pose delle domande sulle cause, non solo sulle donne costrette a prostituirsi ma anche sui clienti, sulla prevenzione. Tu immagina un cardinale che fa questa omelia nel duomo, e si mette contro il quotidiano della città che raccoglieva firme. Pensa che venne Gina Lollobrigida con l’aereo per mettere la firma, e Claudio Villa, il reuccio

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“Avevamo cominciato ad andare sui treni, dove dormivano i disperati senza casa: i treni arrivavano caldi. A volte la mattina eravamo così stanchi che il treno partiva e ci trovavamo a Chivasso”


Dal seminario a Narcomafie Don Luigi Ciotti è nato il 10 settembre 1945 a Pieve di Cadore (Belluno). Nel 1965 crea, a Torino, il Gruppo Abele che fra le sue prime attività si occupa di assistenza educativa negli istituti di pena minorili e crea comunità per adolescenti alternative al carcere. Terminati gli studi presso il seminario di Rivoli, viene ordinato sacerdote nel novembre del 1972 dal cardinale Michele Pellegrino, che come parrocchia gli affida la strada. Nel 1973, il Gruppo inaugura il Centro droga, che ha come scopo primario quello di accogliere e ascoltare i giovani tossicodipendenti. Il progetto, il primo di questo genere in Italia, sviluppa anche proposte per affrontare il disagio sociale legato alle nuove droghe, all’alcol e al gioco d’azzardo. Negli anni Novanta l’impegno di don Ciotti si allarga al contrasto alla criminalità organizzata. Dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio del 1992, fonda il mensile Narcomafie e, nel marzo del 1995, il coordinamento di Libera, oggi punto di riferimento per oltre 1.600 realtà nazionali e internazionali. Nel 1996 Libera promuove la raccolta di oltre un milione di firme per l’approvazione della legge sull’uso sociale dei beni confiscati, e nel 2010 una seconda grande campagna nazionale contro la corruzione.

della canzone italiana. E poi la tenda di Porta Nuova, era il 1973, ti faccio vedere le foto con lui: disadattati e delinquenti non si nasce, ma si diventa. Abbiamo preso posizione contro le carceri per minorenni, perché fossero solo l’extrema ratio e si cercassero soluzioni diverse. Il Gruppo Abele cominciò un lavoro dentro le carceri, siamo andati dentro a vivere». Dentro le carceri? «Sì, a Roma al ministero c’era un direttore dell’Ufficio quarto, Umberto Radaelli, che ebbe l’intuizione e ci portò dentro. E dodici di noi hanno vissuto in carcere: in Italia fu la prima grande esperienza di condivisione e di progetto dentro il carcere dei minorenni, qui al Ferrante Aporti. Poi a Roma qualcuno si agitò, fu costruita ad arte tutta una cosa per bloccare questa sperimentazione. Noi uscimmo facendo una denuncia – Pellegrino era presente – e con accuse false fummo messi sotto inchiesta insieme al direttore Antonio Salvatore, che fu sospeso. Noi uscimmo, ma dieci anni dopo quello diventò il grande progetto Ferrante Aporti. Una volta dimostrata la falsità delle accuse, Salvatore fu promosso, andò al Beccaria di Milano e ne divenne il grande direttore. Ma la sua storia cominciò qui, con quell’atto di coraggio che abbiamo condiviso, con lui e con Umberto Radaelli». Un passo indietro. Quando già c’era il Gruppo Abele sei andato in seminario. «Sì, sono andato in seminario qui a Rivoli, uscivo ed entravo. Il cardinale Pellegrino capì che era un servizio per i poveri, per gli ultimi, per quelle fasce dimenticate. Il Gruppo Abele fu il primo in Italia ad aprire un Centro droga sulla strada, trovando un gruppo di magistrati che avevano capito che la legge era un mostro giuridico. Noi ci siamo autodenunciati per aprire il Centro droga. La legge stabiliva che tu dovevi denunciare e le strade erano due: o il carcere o l’ospedale psichiatrico. Noi abbiamo aperto in via Giuseppe Verdi a Torino, giorno e notte, e arrivava un sacco di gente anche per essere accudita, per mangiare e per dormire. Davamo i primi supporti in una città che negava l’esistenza di quel problema, che diceva fosse poca cosa. In due anni arrivarono quattromila persone, perché non c’era nulla, quindi si aggrappavano dove trovavano dei riferimenti. Da quel momento la città comincia a prendere coscienza, noi cominciamo a fare la battaglia politica per una legge diversa, che sfocerà nello sciopero della fame del 1975 in piazza Solferino, che porterà il Parlamento italiano a far la legge con la quale nascono i Sert, i servizi. Pellegrino sarà presente in tutti questi momenti». A un certo punto hai cominciato a occuparti di terroristi che stavano in galera. «Da me venne una figura stupenda, padre David Turoldo. E mi disse: “Dobbiamo fare qualche cosa per dare una mano a sbrogliare questa situazione, nel rispetto della legalità”. Così ho accolto diversi di loro, alcuni sono ancora qui, a una condizione: che si mettessero in gioco, che lavorassero. Che ci fosse, nel rispetto dei percorsi della giustizia, un cambiamento dentro le persone. Il paradosso, se così si può dire, è che in questo settore lavorava come volontario il procuratore della Repubblica Gian Carlo Caselli. Coordinava un gruppo

e si trovava a lavorare con quelli che aveva mandato in galera. Cose che sono successe in questo Gruppo Abele. Come il fatto che oggi accompagniamo in grande silenzio storie di testimoni di giustizia, nella lotta alla criminalità e alle mafie». E poi nella tua vita entra la mafia. «È stata una serie di tappe. A Torino è nato il coordinamento delle comunità di accoglienza. Poi quando scoppia il problema Aids nasce la Lila, la Lega per la lotta all’Aids, e io sono stato il primo presidente. Dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, mi sono chiesto: noi continuiamo a dare una mano ai giovani vittime delle dipendenze, alle ragazze sfruttate dalla prostituzione, ma chi guadagna dietro a questi? E ti dici: continuiamo a stare sulla strada, a lavorare all’accoglienza, però il problema della mafia attraversa tutto il nostro Paese. E quindi nasce Libera, per mettere insieme tante esperienze, per creare un fermento sociale. Ci chiediamo: che cosa bisogna portare via a questi signori, ai mafiosi? Il denaro, i beni. Era il sogno di Pio La Torre, ma lo hanno ammazzato quattro mesi prima che si facesse la legge. Però quella confisca dei beni mafiosi che non parlava ancora di uso sociale non funzionava, così abbiamo raccolto un milione di firme per una legge ad hoc. E oggi ci sono più di quattrocento associazioni in Italia che gestiscono questi beni e li utilizzano. Cooperative che sono partite autofinanziandosi, tirando la cinghia, andando a cercare i soldi da sole. Una storia meravigliosa nata dal basso, dalla gente stufa di essere mortificata. La vendita dei beni mafiosi può esistere, ma dev’essere l’eccezione, non un dogma. Ho sentito delle proposte: vendiamoli tutti e diamo il ricavato allo Stato. No, perché è uno schiaffo per il mafioso vedere i giovani che arrivano sulla tua terra, quella terra con cui hai gestito il tuo potere, la tua forza. E che sia uno schiaffo si vede dagli attentati. Quest’estate ci hanno fatto fuori 35 ettari di campi di grano. Hanno bruciato olivi secolari in terra di Calabria. Distrutto impianti in provincia di Latina. Tagliate le pompe dell’acqua in un altro territorio. Eppure si è andati avanti, non s’è mai fatto un passo indietro, s’è dato lavoro a tanti giovani. Oggi qualcuno vorrebbe impossessarsene, tutti i giorni leggiamo di confische di denaro che non si sa dove finisca. Secondo me quel denaro liquido deve servire per i testimoni di giustizia e per il risarcimento alle vittime di mafia». Poi succedono cose come la spedizione punitiva contro un campo rom e ti cadono le braccia. «Sì, io l’ho detto, sono stato lì. Mi sono stancato di sentir parlare di emergenze in questo Paese. Queste non sono emergenze, sono percorsi che si sono consolidati nel tempo. E se c’è uno sgombero da fare nel nostro Paese è lo sgombero dei pregiudizi, dell’ignoranza, della non conoscenza. Quello dei rom è un popolo che ha voglia di vivere, un popolo gioioso, un popolo poetico. Che dev’essere aiutato a poter vivere in condizioni di legalità. Questi vivono la terra di nessuno. Non si può parlare di emergenza. Io mi arrabbio quando si scopre con un misto di sorpresa e di vergogna che la miseria, la segregazione, la discriminazione, la violenza sono un problema anche nostro. Qui a Torino è avvenuta un’aggressione razzista, spiace doverlo dire, una vendetta. Ci


sono belle esperienze concrete che dimostrano come l’accoglienza e le regole possano mettersi insieme. Qui a Settimo, come a Reggio Calabria per la raccolta dei rifiuti. Noi ne abbiamo assunti alcuni: vai a rubare il rame e allora vieni qui a lavorare il rame. Si guadagnano la pagnotta in maniera onesta». Che vita fai, ti tocca correre di qua e di là come una trottola? «Abbastanza. Ma vivo qua nel gruppo, in questa ex fabbrica. La mia vita è qui: stare con la gente è per me la cosa più importante. Si è creata una rete di comunità, il lavoro di strada, il drop-in, il settore culturale, la casa editrice, la rivista Narcomafie, un centro di documentazione e ricerca, la sede dell’università della strada per la formazione degli operatori. Qui c’è tutto il lavoro per le vie di uscita che facciamo per la tratta e la prostituzione, le ragazze vengono nascoste in luoghi protetti, perché quelli le cercano, e poi vengono reinserite nella società. Per me l’accoglienza è fondamentale, se viene meno il faccia a faccia con le persone perdi la vita. Poi c’è Libera».

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Un’ultima cosa. In questo Paese si parla del volontariato, straordinario e meritevole, come di un alibi per chi non fa niente. Non ti manda in bestia? «Lo dico da sempre, mi auguro che ci sia meno solidarietà e più giustizia. Non verrà mai meno l’attenzione agli altri, l’accoglienza, la relazione. Però non possiamo diventare quelli delegati a occuparsi dei poveri e degli ultimi. Noi continueremo a farlo, perché non abbiamo mai chiuso la porta in faccia a nessuno. Ma in questo Paese, oggi, il sociale è mortificato: chiudono cooperative, chiudono associazioni. E si dimentica che la solidarietà è indivisibile dalla giustizia, non si deve dare per carità quello che spetta alla gente per giustizia. Guai se diventiamo il tappabuchi. Abbiamo anche il dovere della denuncia seria e documentata, il dovere di chiedere conto alla politica. E se è lontana dalla strada, dai problemi della gente, dalla sua fatica, allora la politica è lontana dalla politica. C’è un problema di democrazia nel nostro Paese, è una democrazia pallida che non ha senso di responsabilità».

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“C’è un problema di democrazia nel nostro Paese, è una democrazia pallida che non ha senso di responsabilità”


spiriti liberi di

Giulio Giorello

fiori avvelenati Smantellare i “pregiudizi violenti” è frase che colpisce negli scritti di Antonio Rotondò, grande figura intellettuale europea, che si era dedicato alla storia della libertà di coscienza. Due volumi a proposito de La Centralità del dubbio, progetto al quale aveva lavorato prima della morte, nel 2007, escono presso Leo S. Olschki (Firenze) a cura di Camilla Hermanin e Luisa Simonutti, e grazie all’aiuto della sua compagna Miriam Michelini. Si tratta di un insieme di contributi di rigorosi specialisti; eppure, la ricognizione che i vari saggi compiono circa le letture più spregiudicate della Bibbia, l’influenza delle correnti ebraiche, la definizione di una concezione laica dello Stato, l’emergere del cosiddetto irenismo (oggi diremmo pacifismo), l’interesse crescente per le civiltà extraeuropee, riguarda le pieghe della nostra stessa esistenza, se vogliamo continuare a essere cittadine e cittadini di una società libera. Il filo rosso dei vari saggi è l’abbinamento del ragionevole dubbio esercitato contro tutte le autorità che si pretendono infallibili e il rispetto della diversità (anzitutto di religione, ma anche di genere, lingua, cultura); l’atteggiamento critico, la tolleranza, l’apertura all’altro sono state conquiste di civiltà, ma come tutte le conquiste sono suscettibili di andar perdute. Erasmo nel Cinquecento e Spinoza un secolo dopo dovevano difendere questi doni della mente contro le varie forme di totalitarismo religioso. Basta scorrere la cronaca – dalla repressione dei dissidenti a Cuba alla spietata caccia ai cristiani in Nigeria – per rendersi conto che oggi i pericoli non sono da meno. Infine, le manifestazioni di tenace antisemitismo o all’ostentato disprezzo contro l’islam mostrano che anche da noi la malapianta dell’intolleranza produce fiori avvelenati. In Europa (e anche in Italia) gente che si pretende “di fede” si è scagliata contro la rappresentazione di Sul concetto di volto nel Figlio di Dio di Romeo Castellucci (mentre scrivo queste righe, è in cartellone al teatro Parenti di Milano). Si può osservare che questo tipo di ostracismo culturale non uccide fisicamente; tuttavia, tende ad assassinare la libertà di espressione e si tratta comunque del medesimo “seme della violenza” che altrove sparge sangue. Bisogna ribattere alto e forte a certi sedicenti “soldati di Cristo” che Gesù non ha affatto bisogno di “militi” come loro; che il dubbio come metodo manda in pezzi ogni umano monopolio della verità; che siamo sempre più consapevoli che il fanatismo da noi non degenera ai livelli di altre parti del mondo solo perché ci teniamo care le conquiste del pensiero laico e illuminista. Dovrebbero dirlo, in particolare, quei cattolici seri a cui sta a cuore la libertà della loro (e dell’altrui) scelta di vita. Diversamente, non potrebbero i “miscredenti” della più varia specie fare proprio il giudizio di Machiavelli, per cui è la religione cristiana ad aver guastato le antiche virtù e ad aver diffuso discordia in Europa? Saremmo tentati di concludere: Dio non voglia!

C

Antonello da Messina, Salvator mundi, olio su pannello, 1465


.eu di

Stefano Squarcina

foto Giuseppe [contrasto]

Gerbasi

recessione indotta In recessione, ecco dove ci hanno portato le politiche di austerità dell’Unione europea contro la crisi. Per il 2012, il Fondo monetario internazionale parla chiaro: -0,5 per cento di crescita per tutta l’Eurozona, addirittura un -2,2 per cento per l’Italia, -1,7 per cento in Spagna, zero in Francia. Significativo è il caso della Germania: dovrà accontentarsi di un +0,7 per cento dopo lo strepitoso 3 per cento del 2011, sempre che tutto vada per il verso giusto. Questa recessione è il risultato delle scelte economiche e finanziarie autolesioniste dei leader europei, fondate su una governance fatta solo di austerità sociale e rigore ideologico di bilancio. Tra il 2008 e il 2011 hanno saputo trovare 4 miliardi 600 milioni di euro – dati del presidente José Manuel Barroso – per stabilizzare il sistema bancario europeo, ma non hanno trovato un euro per strategie di crescita industriale sostenibile e di rilancio dell’occupazione. Gli ultimi dati Eurostat parlano di 23 milioni di disoccupati nell’Unione europea: 17 milioni nell’Eurozona pari al massimo storico del 10,3 per cento della popolazione attiva, dato che schizza al 22 per cento per i giovani sotto i 25 anni (Italia, 30 per cento). L’Europa soffoca sotto l’austerità che si è autoimposta e si sviluppa attorno a una grande menzogna economica, ovvero che la crisi è causata dal debito pubblico e dal costo del lavoro. Con la conseguenza che viene smontato pezzo per pezzo lo stato sociale europeo e promossa a oltranza la precarizzazione del mondo del lavoro in tutte le sue dimensioni. Non contenti, i leader europei, trascinati dalla Germania, si sono imbarcati ora in una nuova avventura, quella del “Trattato sulla governance rafforzata”, che renderà ancora più severa la disciplina di bilancio e di fatto avocherà a Bruxelles i poteri d’indirizzo generale delle politiche economiche dei singoli Stati membri. Siamo alla vigilia del trionfo dell’Europa della contabilità e della ragioneria di Stato su quella della crescita e dell’occupazione. L’Unione deve darsi invece un ambizioso progetto di sviluppo economico, la soluzione passa per la Banca centrale europea: la Commissione deve accelerare il suo progetto di creazione di eurobond, nonostante la Germania; dev’essere cambiato lo statuto della Bce per darle poteri di sostegno all’economia europea, associandola al finanziamento di progetti industriali europei; vanno intensificate le sue “misure d’intervento non ordinarie” di prestiti a basso costo agli istituti di credito, che siano vincolati al sostegno dell’economia reale. È l’intero progetto politico europeo a essere in fibrillazione. Per consolidarlo bisogna puntare sulla solidarietà politica ed economica interna all’Unione, l’esatto opposto di ciò che propone Angela Merkel. Adesso sembra averlo capito anche Nicolas Sarkozy, dopo che la Francia ha perso la sua tripla A. Ma è forse troppo tardi, caro presidente, non a caso la danno per sicuro sconfitto alle presidenziali di maggio. Chissà che se ne accorga presto anche il popolo tedesco.

K


di Federica foto Diana [luz]

Sasso

Bagnoli

Davanti a Dio Dentro le comunità religiose si preferisce lasciar correre o minimizzare, in nome dell’unità della famiglia o dello spirito di sacrificio. Eppure, a New York (e non solo) la violenza domestica è la prima causa di morte per le donne. Dopo anni di tensioni tra i leader delle varie confessioni e chi si occupa dei diritti delle donne, Sally MacNichol ha pensato che si dovesse spiegare a sheikh, rabbini, pastori e sikh come bisogna comportarsi davanti agli abusi. Ed è nato il primo corso rivolto a loro

C’è un gran silenzio nella stanza. Giù sulla Ventinovesima strada, undici piani più in basso, impera il frastuono di New York, ma qui si sta con gli occhi chiusi, raccolti in preghiera, fino a quando Sally fa vibrare la campanella tibetana che segna l’inizio dei lavori. Per quasi due mesi, ogni mercoledì pomeriggio, questo piccolo rito si è compiuto nella sede di Connect, l’unica organizzazione antiviolenza che in città lavora concentrandosi sulla prevenzione. «La nostra missione è riuscire a far cessare ogni forma di violenza aiutando le persone a modificare i comportamenti e il modo di pensare». Sally MacNichol è la direttrice dei programmi, ma soprattutto è la mente e il cuore di Connect Faith, l’iniziativa interreligiosa pensata per fornire alle guide spirituali gli strumenti necessari ad affrontare i casi di violenza domestica all’interno delle comunità. Per sei settimane Sally ha guidato gli incontri del secondo ciclo di formazione organizzato insieme all’Interfaith Center di New York. Sheikh musulmani, predicatrici di chiese cristiane di Harlem, sikh, ebrei, rifugiate africane e jamaicane, si sono ritrovati qui per ascoltare come si riconoscono i sintomi dell’abuso all’interno di una coppia, scardinare gli stereotipi più diffusi sulla violenza contro le donne, imparare che cosa si fa e che cosa non si dice in una situazione di emergenza.

Sembra che a New York – e non solo qui – il posto meno sicuro per una donna sia proprio la sua casa. Secondo i dati divulgati ad agosto dalla Sezione di giustizia criminale (State Division of Criminal Justice Services), il 44 per cento delle donne uccise nello Stato di New York nel 2010 è morta per mano del partner o di un famigliare. «La violenza all’interno delle mura domestiche è uno dei problemi principali di questa città. Proprio per questo abbiamo deciso di organizzare un corso di formazione per i responsabili delle comunità religiose, che possono svolgere un ruolo cruciale dal punto di vista della prevenzione e aiutare le donne a uscire da situazioni pericolose», racconta MacNichol. Parlare di violenza è cosa complessa, l’argomento è sfaccettato ma, soprattutto, si scontra con un elemento radicato in profondità nella teologia delle tre religioni monoteistiche: l’idea che la sofferenza della donna includa un elemento salvifico. «Nessun religioso vuole veder soffrire le donne, ma quando c’è una situazione di conflitto da risolvere per prima cosa si considera l’unità

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«Sono felice che così tanti uomini abbiano partecipato al corso di formazione e che in generale siano sempre di più quelli che riflettono sulla propria mascolinità. Secondo la nostra cultura si è veri uomini se si è in grado di controllare un’altra persona. Ma questo atteggiamento si rivela molto doloroso anche per gli uomini stessi». Sally MacNichol, direttrice dei programmi dell’organizzazione no profit Connect e ideatrice dei corsi per i leader religiosi.

della famiglia o si cerca di evitare situazioni imbarazzanti per il marito. Il fatto che la donna stia male non è mai una questione primaria», continua Sally. Anche se la storia insegna che le religioni non hanno aiutato il genere femminile a smarcarsi da una posizione di sottomissione, i dati indicano che le vittime di abusi preferirebbero rivolgersi a una guida spirituale piuttosto che a un assistente sociale. Nel 2003 Connect ha realizzato un sondaggio e su cinquecento donne intervistate quasi l’80 per cento ha risposto che preferirebbe chiedere aiuto a una figura religiosa. Ma quando le donne lo fanno, spesso i problemi aumentano.

Torna a casa, da tuo marito

«Alcuni religiosi guidano le loro comunità da decenni senza capire che questo è un problema enorme». Anushavan Margaryan lavora per l’Interfaith Center di New York ed è l’alter ego di MacNichol nell’organizzazione del corso per guide spirituali. «Moltissimi hanno paura di affrontare l’argomento, prima di tutto perché non lo conoscono e non sanno come comportarsi, e poi perché vogliono mantenere un’immagine fintamente perfetta della loro Chiesa». La definizione

di violenza adottata da Connect e dall’Interfaith Center è gandhiana: se imponi la tua volontà su quella di un altro, quello è un abuso. «Ma per le guide religiose è una cosa normalissima imporre la propria volontà su quella dei singoli, e questa – conclude Anushavan – è la ragione principale per cui non riconoscono la violenza quando si presenta». Gli incontri del mercoledì nascono dagli oltre vent’anni di esperienza di Sally MacNichol, che ha una storia intensa di lavoro con le vittime di abusi e un dottorato in teologia ottenuto allo Union Theological Seminary di New York. «Mentre studiavo teologia ho capito molte cose sulle dinamiche di genere, la società e la mia stessa vita. Il mio matrimonio è finito e ho deciso che il lavoro con le donne sarebbe stato il mio ministero. Era il 1984 e allora c’era ancora moltissima tensione fra le associazioni per i diritti delle donne e le comunità religiose. Gli attivisti non si fidavano dei religiosi perché

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avevano sentito troppe storie (che ancora si ripetono) in cui i pastori dicevano alle vittime cose come “torna a casa e prega, sii una moglie migliore”. Tutto quel tipo di distorsioni teologiche che non aiutano nessuno e mantengono le vittime in una situazione pericolosa. Dall’altro lato si stava sviluppando la teologia femminista, e c’era un gran dibattito sul fatto che la teologia classica favorisse la violenza e la discriminazione nei confronti delle donne». In questo clima di sfiducia reciproca Sally ha cominciato a lavorare per creare una sinergia fra le associazioni in difesa delle vittime di abusi e le comunità religiose, coinvolgendo chiese, sinagoghe e moschee. La strada è stata in salita fino a pochi anni fa, quando qualcosa si è sbloccato e nel 2004 Sally ha fondato la Tavola rotonda interreligiosa che da allora si riunisce una volta al mese per discutere le dinamiche spirituali e teologiche che favoriscono o possono combattere la violenza sulle donne. «Credo che molti religiosi non si rendano conto che la violenza di genere è una vera epidemia, e soprattutto che si tratta di una strategia manipolatoria messa in atto per controllare la vita dell’altro. Le tattiche utilizzate da parte di chi abusa sono complesse, non esiste solo la violenza fisica

o sessuale, ma anche quella spirituale, psicologica». Potenzialmente i leader spirituali sono figure chiave per la sicurezza delle donne. La loro autorevolezza può esser più forte di quella della legge e il pulpito offre un’audience di centinaia di persone a settimana. Che sappiano come gestire una situazione di rischio o che decidano di sminuirla, la gente si affida a loro, soprattutto all’interno delle comunità di immigrati dove la distanza culturale o l’ostacolo della lingua fanno sentire le donne in difficoltà ancora più isolate. Ma per Connect il leader non è solo chi guida le celebrazioni: chiunque sia rispettato e riconosciuto come punto di riferimento rientra nella definizione. Nomi Teutsch ha 23 anni e arriva da Philadelphia: «Mio padre è un rabbino e io sono cresciuta in una comunità progressista e attiva in cui tutti sono molto coinvolti nelle battaglie per i diritti umani». Grazie a una borsa di studio della Tony Blair Faith Foundation ora lavora per l’associazione newyorkese United Sikhs e ha frequentato il corso di Connect assieme a Hansdeep Singh, avvocato esperto in diritti umani e legale dell’associazione nata per difendere e far conoscere il sikhismo. «Non mi piace ammetterlo,

«Se i leader religiosi chiarissero che l’interpretazione dei testi utilizzati per opprimere le donne è stata forzata, un gesto simile avrebbe un impatto enorme. Sarebbe un messaggio chiaro per chi vuole continuare a servirsene. Sarebbe come dire “non c’è nessun fondamento in quello che state dicendo”». Hansdeep Singh, nato a Teheran, di origine indiana, è il legale di United Sikhs. «Il fatto che persone con origini e priorità molto diverse si siano riunite per capire come affrontare la violenza domestica dà l’idea dell’urgenza e dell’universalità di questo problema». Nomi Teutsch, 23 anni, proviene da un ambiente ebraico progressista.


Per Stefania Stefania Noce aveva 24 anni, un’intelligenza brillante, una passione speciale per i diritti delle persone, a cominciare da quelli delle donne. Era una militante, una giovane femminista, era vicina a Emergency. Quando lo scorso anno, alle Ciminiere di Catania, è stato presentato questo giornale lei c’era, insieme al suo amico Franco. Abbiamo parlato di lei il mese scorso, purtroppo nella rubrica Casa dolce casa che ogni mese dedichiamo alle donne uccise spesso nel luogo che dovrebbe essere il più sicuro e il più affettuoso e da chi è o è stato il loro compagno. Anche per Stefania è andata così: il suo ex fidanzato l’ha uccisa, alla fine dell’anno passato a Licodia Eubea, e con lei ha perso la vita il nonno che ha tentato di difenderla. Il 26 gennaio scorso Stefania è stata ricordata a Catania, la città dove studiava, viveva, faceva politica. In contemporanea, in tante città d’Italia, sono state accese fiaccole e luci, per illuminare un fenomeno, quello della violenza contro le donne, che troppo spesso viene rubricato nel capitolo della follia individuale, o del delitto “passionale”, mentre è una grande questione pubblica che ha a che fare con la cultura e con i ruoli del maschile e del femminile. Il suo amico Franco Barbuto ci ha raccontato, di Stefania, altre cose: che si era allarmata quando aveva letto l’Sos di Emergency, che considerava tra le cose “più belle di questa Italia decadente” e che, insieme, avevano deciso di organizzare una raccolta di fondi. È stata fatta, nessuno avrebbe potuto immaginarlo, proprio in occasione del saluto a Stefania. Franco ci ha anche chiesto di dedicare “a lei che era una ragazza speciale qualcosa di femminile”. La nostra risposta è in queste pagine. (as)

ma prima di frequentare il corso pensavo alla violenza domestica solo come una serie di episodi tremendi. Mi chiedevo, “ma se è così orribile perché le donne non se ne vanno?” Ho capito che, al di là delle botte, c’è un vero schema di controllo e manipolazione che blocca le donne e rende quasi impossibile andarsene», spiega Nomi. Per Hansdeep il training dovrebbe esser proposto a tutti i religiosi, per mettere a fuoco la violenza dal punto di vista legale, psicologico e del pronto intervento. «Non sono a mio agio con la definizione di ‘leader’, ma penso che la responsabilità che abbiamo come membri di una comunità religiosa sia anche quella di affermare che la violenza sulle donne è un tema legato ai diritti umani. Relegarla nel campo delle questioni domestiche ci fa sentire tutti estranei, come fossimo spettatori di qualcosa che non ci riguarda».

La religione ferisce e guarisce

I corsi di formazione per guide spirituali hanno iniziato a diffondersi negli Stati Uniti dopo che George W. Bush ha creato un ufficio per le Iniziative comunitarie

«I leader spirituali hanno bisogno di essere rieducati per prendersi cura davvero dei problemi che affliggono la società. Soprattutto qui, negli Stati Uniti, spesso i religiosi non conoscono la complessità della realtà che li circonda e non sono preparati ad aiutare le persone». Sheikh Qasim Muhammad è legato al Seminario islamico di New York. Ha lavorato come consulente per l’orientamento professionale nelle scuole superiori ed è sheikh presso la Hussainiya Madrasa.


religiose presso la Casa Bianca. L’idea probabilmente era quella di foraggiare l’associazionismo della destra cristiana che rappresentava la sua base elettorale, ma il risultato è stato quello di alimentare un dibattito pubblico sull’importanza di un intervento in campo sociale da parte delle comunità legate a una fede. Per quanto riguarda la violenza sulle donne oggi sono attive organizzazioni come Jewish Women International a Washington o la Black Church and Domestic Violence Institute di Atlanta. Ma a New York Connect Faith è l’unica iniziativa che lavora per unire la professionalità degli operatori con la dimensione spirituale delle chiese. «Penso che affrontare la violenza domestica dal punto di vista interreligioso sia una strategia molto efficace. La violenza che c’è nelle Chiese non è visibile, ma è lì, e ci sono moltissime persone che soffrono all’interno delle comunità religiose, anche a causa dell’uso che i pastori fanno delle scritture». Allison Mahon è un’al-

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tra dei leader che hanno frequentato il corso. Dopo esser sopravvissuta a una relazione molto violenta, oggi Allison è la moglie di un pastore pentecostale e gestisce l’associazione Beautiful Me, con cui si prende cura delle vittime di abuso. «La religione può ferire le donne a morte, ma può anche essere uno strumento di guarigione molto potente». E le reazioni delle donne che sopravvivono di solito sono due. C’è chi volta le spalle a Dio e chi invece abbandona l’immagine patriarcale dell’Onnipotente che ci propongono le religioni, riscoprendo una nuova dimensione interiore. «Quando credi che Dio sia la Chiesa o il pastore che ti ha ripetuto di essere una brava moglie e sopportare tutto, allora è difficile trovare la forza di lasciare un contesto che ci imprigiona», spiega Sally. «La libertà spirituale è importantissima per uscire da situazioni di abuso e l’esperienza mi dice che la guarigione spirituale è l’approdo al quale le persone devono arrivare per ricominciare a vivere dopo una sofferenza così grande».

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«Quando si è vittime di violenza da parte di persone vicine a noi l’anima subisce uno choc, e questo influenza la mente. Il trauma delle donne che subiscono violenza dai propri compagni è simile a quello dei reduci di guerra, perché si impara a comportarsi come soldati, studiando strategie per sopravvivere al nemico. Io uso le Scritture per lavorare sul piano spirituale, mentre con le creme e l’aromaterapia agevolo la guarigione della mente e del corpo». Allison Mahon è la moglie di un pastore pentecostale. Insieme danno assistenza a donne e famiglie.


televasioni di

Flavio Soriga

illustrazione

Borislav Sajtinac

purché se ne parli È che questo Paese sembra non cambiare mai, nelle sue corruzioni e disfunzioni, e la tv, certe volte, la guardi e dici «Ma ancora?», e scuoti la testa e pensi che l’unica cosa buona è che comunque la tv ne parli, di disastri e camorre e speculatori e cialtroni, senza che si stanchi chi la fa né chi la guarda, e magari sembrerà che non serva a niente, perché la nostra attenzione è concentrata sull’oggi e vede le disgrazie dell’oggi, ma in fondo serve, eccome. Guardi Riccardo Jacona, le sue inchieste su Rai3, i suoi inviati pronti, attenti, accurati, i loro reportage sulle peggiori realtà di questo Paese, guardi “Presa Diretta” e hai come la tentazione di pensare (anche se sai che non è vero, che è molto nella bravura dei giornalisti) che è troppo facile, fare inchiesta in Italia, che in questo posto basta dare un colpo di pala e salta fuori il malaffare. Poi guardi un vecchio filosofo intervistato da un vecchio conduttore, ricordi che quel filosofo era già un brillante filosofo da studio tv quando tu eri ancora al liceo, e passavi le notti davanti al Costanzo Show o a programmi simili, e già ti intristisce un po’ questo, e il suo viso incanutito e rugoso, e poi senti questo vecchio filosofo dire che un tempo sì, che c’era rispetto per la disciplina e per le gerarchie, per i ruoli, e allora le cose erano migliori, e vorresti gridargli che non è vero, che non era meglio quando le donne si coprivano di più e i matti stavano in manicomio e le maestre potevano picchiare gli alunni. Non era meglio per niente, è solo che lui è invecchiato e quando si invecchia è sempre dolce pensare al tempo passato, e lo si pensa migliore anche se non lo era, e invece l’oggi, pieno com’è di corruzione e disfunzione, va raccontato cercando di pensare a un possibile domani migliore, senza paragonarlo al ricordo, perché questo è un esercizio della vecchiaia, un difetto creato in noi dal passare del tempo, ma bisognerebbe cercare di correggerlo, e mettere nella bilancia le cose buone dell’oggi, i viaggi che ci sono concessi, la quantità di cose che sappiamo e più in fretta, e se non è obbligatorio che queste cose ci rendano tutti migliori, sono occasioni in più, e molti le metteranno a frutto, tra i giovani di oggi, tra i telespettatori delle inchieste della tv, e chissà quanti buoni politici e magistrati ci saranno tra vent’anni, per fortuna, e giornalisti capaci che ancora avranno voglia di indagare e indignarsi.

[siae 2012]

(“Mia madre sfogliava Novella 2000/ Ed io ai suoi piedi leggevo Prévert/ Avevo dieci anni ma pensavo già alle donne/ E chiuso nel mio bagno amavo Edwige Fenech/ A scuola i ragazzi giocavano a calcio/ Ed io sul muretto citavo Verlaine/ Avevo 16 anni e pensavo solo al sesso/ Poi vidi le sue labbra e me ne innamorai”, Brunori Sas, Italian Dandy)

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decoder di

Violetta Bellocchio

è caduta la regina Pietra angolare dei romanzi rosa fin dai tempi di Angelica la Marchesa degli Angeli, e degli ultimi trent’anni di televisione ovunque, la formula “le persone famose sono belle ma infelici” è destinata a non passare di moda troppo presto. Anzi, mai. Funziona anche nella cronaca, perché da un lato obbedisce a una morale da fiaba vecchio stile (meglio volare basso/accontentati di quello che già hai), dall’altro si può adattare a qualsiasi definizione (o livello) di celebrità. Ma per essere certi che la storia raggiunga il grande pubblico c’è un solo tipo di protagonista su cui puntare: la Regina Caduta. La Regina, in Italia, è Laura Antonelli, eroina popolare del cinema anni Settanta e bersaglio di una sfortuna sia interminabile sia facile da organizzare intorno ai tre elementi-chiave della formula. La prima cosa che deve sparire è la bellezza materiale, meglio se non per un semplice,“naturale” processo di invecchiamento: e Antonelli si sottopose a un intervento di chirurgia estetica che quasi la sfigurò. Poi devono sparire il prestigio, l’intoccabilità; e Antonelli finì in carcere con l’accusa di spaccio di cocaina. Poi arriva l’isolamento: amici e uomini scomparsi nel nulla, di figli non ne ha avuti. Conclusione: oggi la diva è triste e povera a Ladispoli. Unica compagnia, la badante. Passa il giorno a pregare. Come lei, molte ex “ragazze da sogno” si sono ritirate a vita privata, non si sa quanto serenamente. Però su di loro qualcosa da raccontare ci sarebbe: hanno una famiglia, un nuovo lavoro. Invece, una volta all’anno, è la storia di Antonelli che torna sui quotidiani. E funziona, ogni anno, perché la sua situazione nel frattempo non è cambiata. Lei vive nella stessa città, nelle stesse condizioni economiche, senza grandi ritorni all’orizzonte. Se poi ogni articolo può essere accostato alle immagini di quando la protagonista era giovane e attraente, e farcito di considerazioni sulla crudeltà del “mondo dello spettacolo’’, tanto meglio. Siamo tutti felici.

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il capitale di

Niccolò Mancini

foto Todd Davidson [getty images]

diamoci una regolata Accantonate le paure legate allo spread e le tensioni sui tassi d’interesse fuori controllo, possiamo ricominciare a parlare di mercati e delle regole che li governano. Le ultime aste di titoli a breve scadenza hanno evidenziato rendimenti poco superiori al 2 per cento sui dodici mesi e addirittura inferiori sui Bot a sei mesi. Si può infatti immaginare che sia interesse di tutti, o quasi, disinnescare l’Armageddon costituito da prodotti derivati e strutturati che nell’ultimo decennio ha ripetutamente portato il mondo sull’orlo del crash con conseguenze drammatiche per l’economia. Limitare l’impatto della finanza sui mercati e sulle economie sempre più globalizzati (si pensi alla crescente “occidentalizzazione” della Borsa cinese che proprio recentemente ha introdotto la possibilità di vendere allo scoperto) con l’approvazione di regole più severe, è quanto viene chiesto a gran voce da molti economisti e finanzieri, consci dei danni che la politica del laissez-faire ha provocato e che sono stati solo parzialmente limitati dall’intervento congiunto delle principali banche centrali mondiali. Tra le regole più suggestive e moralizzanti ipotizzate, c’è certamente la Tobin Tax, una tassa di pochi centesimi su tutte le operazioni finanziarie che potrebbe portare a un gettito annuo di circa 57 miliardi di euro. Mica male, in teoria, perché nella realtà una tassazione di questo tipo, limitata ai Paesi dell’Unione europea, non farebbe altro che “spostare” gli scambi su intermediari non comunitari. Gli stessi investitori europei potrebbero preferire acquistare e vendere utilizzando broker esterni all’Ue, bypassando così l’odiata tassa mentre qualche istituzione finanziaria troverebbe conveniente spostare la propria sede fuori dal Vecchio continente innescando una fuga di capitali con conseguenti forti impatti sulle economie. Insomma, la strada verso un mercato meno speculativo che torni al suo ruolo di raccolta di capitali per aziende, istituzioni e Stati, meno condizionato dai derivati e dai giudizi a orologeria delle agenzie di rating e appare ancora lunga e tortuosa. In più, questo percorso non può prescindere da un accordo politico tra i principali governi del G20, compresi quelli di Stati Uniti e Gran Bretagna, per i quali la quota di Prodotto interno lordo generato dalla finanza è vicina o superiore al 10 per cento.

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Casa dolce casa a cura di Stella

Spinelli

5 gennaio, Putignano (Ba)

Antonella Riotino, studentessa di 21 anni, è stata Guido Guarnieri strangolata e gettata in un burrone dal suo fidanzato, Antonio Giannandrea, poco più che maggiorenne. Di lei non si avevano più notizie dal 4 gennaio. Il giorno seguente i suoi genitori, allarmati, sono andati dai carabinieri di Putignano per denunciarne la scomparsa. I primi sospetti si sono concentrati su Giannandrea che, portato in caserma e interrogato per scriverci: casadolcecasa@e-ilmensile.it per ore, ha confessato il delitto. illustrazione

10 gennaio, Atripalda (Av)

Ha svuotato l’intero caricatore della sua calibro 7,65 sulla moglie e poi ha confessato. Michele Luigi Naccarelli, operaio di 47 anni, ha ucciso così Fabiola Speranza, 45 anni, dalla quale ha avuto tre figli. La tragedia si è consumata al termine dell’ennesimo litigio della coppia.

12 gennaio, Trapani

Casa dolce casa è l’osservatorio mensile sulle donne uccise in Italia da uomini che conoscevano, che hanno amato, di cui si fidavano. Si chiamano femminicidi e rimandano alla relazione di potere tra i generi, che resta tuttora un fattore che ordina la società. I dati pubblicati, vista l’assenza di ricerche ufficiali sul fenomeno, sono raccolti dalla stampa e riguardano il periodo di tempo dall’1 al 31 gennaio 2012. Questo monitoraggio viene effettuato in collaborazione con la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna (www.casadonne.it), associazione impegnata da diversi anni contro la violenza sulle donne, alle quali offre sostegno, ascolto, consulenze e case-rifugio, con una particolare attenzione ai figli minori. Da tempo inoltre la Casa svolge un lavoro di ricerca sul femminicidio dal quale ogni anno deriva un’indagine-quadro sulle donne uccise: nel 2011 sono state 97.

Gli aveva ripetutamente detto che la loro storia era finita, ma Pietro Fiorentino, 40 anni, non ascoltava e si presentava ogni giorno, spesso ubriaco, dalla moglie, Stefania Mighali, 40 anni. Così ha fatto il 12 gennaio quando è arrivato furibondo, si è fatto aprire la porta e, oltre la donna, ha sterminato la sua la famiglia: la figlia di otto anni, Daniela, la suocera, Nunzia Rintinella, 78 anni, e il cognato disabile, Hanz, di 50 anni. Dopo il massacro, Fiorentino ha dato fuoco all’appartamento e si è gettato dal quinto piano morendo sul colpo.

13 gennaio, Monza

Sharna Abdul Gafur, bengalese di 18 anni, è stata strangolata nell’appartamento dello zio dove viveva dopo essere stata costretta a lasciare il suo Paese perché promessa a un uomo che non voleva. L’unico sospettato è un venticinquenne, suo connazionale, con il quale aveva una relazione. In base ai tabulati telefonici gli inquirenti pensano che il ragazzo sia stata l’ultima persona ad aver avuto contatti con la vittima. Dal giorno dell’omicidio il giovane è sparito.

14 gennaio, Civitanova (Mc)

Maurizio Foresi, 55 anni, ha ucciso la moglie Grazyna Tarkowska, 46 anni di origine polacca, con dieci colpi di pistola. Poi ha confessato il delitto alla figlia Milena, studentessa di 19 anni, in casa al momento della tragedia. Non era la prima volta che Grazyna subiva violenze da parte del marito. La settimana prima di Natale, l’uomo era stato perfino sottoposto a un accertamento sanitario obbligatorio in seguito a un’aggressione particolarmente violenta. I vicini raccontano che in quell’occasione avrebbe colpito la moglie con un bastone lesionandole il cranio.


14 gennaio, Marano di Napoli (Na) Enza Cappuccio, 33 anni, cieca e madre di sei figli, è stata uccisa dal marito, Salvatore Giuliano, anche lui di 33 anni, durante una lite. La tragedia è avvenuta quando Salvatore, rientrando a casa ubriaco, ha iniziato a discutere con Enza, prima di picchiarla. I medici dell’ospedale Cardarelli di Napoli – dove la donna è stata trasportata dallo stesso Giuliano con l’aiuto della sorella e di un amico – hanno rilevato sul collo della vittima segni di strangolamento. Secondo i carabinieri, Giuliano avrebbe voluto occultare il cadavere, ma ha dovuto cambiare i suoi piani, inscenando una rapina, dopo che i vicini di casa si erano accorti di quanto stava accadendo.

14 gennaio, Scicli (Rg)

Un uomo di 41 anni, Massimo La Terra, ha ucciso la moglie di 38, Rosetta Trovato, strangolandola e scaraventandola dalle scale, davanti agli occhi della figlia quindicenne. L’omicida ha poi chiamato il 118. La Terra era già stato arrestato tre anni fa per avere picchiato il padre. Il delitto sarebbe stato commesso al termine di un litigio scaturito dal fatto che l’uomo avesse una relazione extraconiugale e avesse intenzione di lasciare la moglie.

24 gennaio, Mandas (Ca)

Mara Carta aveva da qualche tempo riaccolto in casa il figlio schizofrenico che la picchiava da anni. Proprio lui, Ivan Putzu, 33 anni, l’ha uccisa dopo che lei gli aveva negato dei soldi. Il ragazzo ha impugnato una roncola e si è avventato contro la donna. Poi ha tentato il suicidio.

26 gennaio, Porto Potenza Picena (Mc)

Andreea Christina Marin, romena, aveva soltanto 23 anni. Lavorava in un nightclub come ballerina ed è qui che ha conosciuto il suo assassino. Sandro Carelli, 57 anni, aveva perso la testa per lei. La ricopriva di denaro e regali, cercando di conquistarla, finché non ha deciso di ucciderla, perché non corrisposto. L’uomo è stato aiutato dal figlio Valentino e da due amici, Sebastian Capparucci e Silvio Germanà, entrambi ventiseienni, ai quali sono stati promessi 1.500 euro per compiere il delitto. I quattro hanno atteso la donna al portone di casa sua, l’hanno portata in spiaggia, le hanno messo un sacchetto di plastica in testa e le hanno frantumato il capo con delle mazze. Poi hanno occultato il corpo sotto la sabbia.

Cinque anni dopo

La Corte di Cassazione ha confermato l’ergastolo per Roberto Spaccino, il camionista di Marsciano (Perugia) condannato per l’omicidio della moglie Barbara Cicioni, incinta all’ottavo mese e già madre di due figli piccoli. Il dramma si consumò nella notte tra il 24 e il 25 maggio 2007.

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Antonio Gramsci testo Elettra

Stamboulis

illustrazioni

Gianluca Costantini a cura di BeccoGiallo

Insieme a Pasolini, Gramsci è l’intellettuale italiano del Novecento più studiato e citato nel mondo. Eppure, la sua vicenda politica e personale lo ha bandito proprio nel nostro Paese, rendendolo un soggetto scomodo, emarginato. Tratto dall’omonimo testo teatrale di Davide Daolmi, Cena con Gramsci, segue in presa diretta le avventure di un giovane studente italiano, interlocutore di due personaggi fantastici e allucinatori, capaci di trasformare una storia di ordinaria vita universitaria in un tuffo nelle radici e nel senso delle parole di Gramsci.







il vizionario Avviso ai lettori: il direttore, spalleggiato dal caporedattore, ormai ci ha preso gusto. Non c’è modo di fermarlo, a meno che non si decida di abbatterlo (e non siamo ancora a questo punto). Se non volete una quarta puntata, organizzate una raccolta di firme.

mad in italy APOLLOGETICA di

Gianni Mura

illustrazioni

Elfo

difesa di uomini belli

APPANNARE

coprire di panna

APPIO

cappio a Firenze

APPUNTATO

graduato di cui s’è presa nota

APRIORISMO

assenza di priori

ARACHIDE

senza spina dorsale

ASCRITTO

Chiusura con i nostri amici animali:

GALLO CEDRONE

pennuto agrumato

LAMA

quadrupede affilato

ORSO

animale consapevole

OTARDA

volatile stupidino

PAVONE

uccello che fa volentieri la coda

RATTO

orale

topo molto veloce (cfr Speedy Gonzales)

BABBEO

SGOMBRO

genitore stupido

CELATA

visiera nascosta

DIGESTIVO

amaro per stagioni calde

FEBBRAIO

istitutore con la temperatura alta

GUERRAFFONDAI pacifisti

SINOSSI

indecisione prolungata

SOSPIRO

morte consapevole

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pesce ripulito

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Il matrimonio, l’arrivo di un figlio, la laurea, una ricorrenza importante: sono tante le occasioni da festeggiare con parenti e amici che possono trasformarsi in gesti di solidarietà .

Su lietieventi.emergency.it puoi trovare biglietti, partecipazioni, candele, bomboniere e liste nozze solidali per la tua festa e contribuire ad aiutare le vittime della guerra e della povertĂ .

I fondi raccolti con questa iniziativa saranno devoluti al Centro SALAM di cardiochirurgia di Khartoum in Sudan.

Info e ordini

T +39 02 863161 - F +39 02 93661925 bomboniere.solidali@emergency.it

EMERGENCY

lietieventi.emergency.it


foto Tomasz [luz]

Gudzowaty

testo Gianni

Mura

Corpi

dell’altro mondo Donne sul ring Nel 1994 la prima riunione di boxe femminile in India sollevò molte proteste. La maggior parte degli induisti lo considerava uno sport degradante per le donne. Il Kerala, lo Stato indiano più dinamico e con il minor tasso di analfabetismo, fu l’unica eccezione. Un piccolo gruppo di atlete decise di passare dal basket o dalla pallavolo al pugilato. Dal 2001 la palestra vicino allo stadio Lal Bahadur di Kollam è diventata un centro di riferimento per le aspiranti donne pugile. Quasi tutte le atlete della nazionale hanno cominciato lì. Anche se la boxe femminile non è ancora riconosciuta come disciplina olimpica, è uno dei pochi sport in cui l’India eccelle a livello internazionale.

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Grazia e sudore Prima considerazione: è uno sport dell’altro mondo. Non è solo la lontananza dalle nostre abitudini, forse non è nemmeno giusto parlare di sport. È il corpo, l’uso del corpo, la sofferenza e la grazia del corpo. I piccolissimi ginnasti, le girandole umane, la sconciante fatica del nuoto sincronizzato che per regolamento bisogna cancellare a colpi di sorriso, i sollevatori di pesi che stanno allo sport professionistico come i minatori agli astronauti. Uno sport talmente povero, il sollevamento pesi, e giudicato così poco attraente sotto il profilo spettacolare che ogni tanto si sente parlare di una sua esclusione dal programma olimpico. Già: le Olimpiadi, i campionati del mondo, chissà se ci arriveranno mai questi atleti, in erba e maturi, dell’altro mondo. In senso geografico, ma soprattutto economico. Siamo abituati, dai nostri mezzi d’informazione, a considerare sport e spettacolo come gemelli siamesi che è meglio non separare. Perché uno spettacolo merita di essere visto e quindi di essere pagato. Qui comincia la distinzione non tanto tra dilettantismo e professionismo ma tra sportivi ricchi e sportivi poveri. Un ciclista dilettante olandese può star meglio di un marciatore professionista messicano. Poveri ma fieri sono gli sportivi che vediamo in queste pagine. A guardare con più attenzione, sono quasi sempre assenti gli attrezzi. È il corpo a essere attrezzo, motore. È la macchina umana. Lo sport moderno, riassumeva Gianni Brera, l’hanno inventato i nobili, i ricchi. Poi hanno scoperto che si faceva fatica e l’hanno lasciato ai poveri, come veicolo di promozione sociale. In effetti, andando negli archivi, si trovano corse ciclistiche superiori ai 600 km, incontri di boxe senza limiti di round, insomma gare che privilegiavano la resistenza e la forza. Impensabile che partecipassero lavoratori gravati da orari e lavori massacranti, penalizzati da un’alimentazione inadeguata. Molti miti sportivi, anche in Italia, sono nati dalla fame e dalla scelta di uno sport, sia pure molto faticoso, che rendesse più che fare il fornaio (Dorando Pietri), lo stuccatore (Alfredo Binda), il contadino (Fausto Coppi). Lo sport, come la zucca-carrozza di Cenerentola, poteva cambiare la vita, oltre che il conto in banca. Si parla di un periodo lontano. Ci sono lavori che i giovani non hanno più voglia di fare, si sente dire in giro. Ci sono anche sport che i giovani non vogliono più fare. Nel periodo lontano, c’era poco da scegliere. Il ring e i pedali erano sbocchi quasi obbligati. Oggi no, oggi non solo nelle grandi città ci sono palestre, piscine, campi da tennis, da basket, da pallavolo. Oggi un ragazzo può scegliere la scherma, il golf, un’arte marziale, uno sport di squadra (aiuta a socializzare, dice lo psicologo). Oggi uno degli sport più diffusi è giocare alla PlayStation, con relativa obesità anticipata. Obeso è anche il bambino giapponese fotografato a fianco del padre, che non ha nemmeno un volto. Ha una stazza, indispensabile per il sumo, e ne è fiero. Nel figlio, condannato a essere come suo padre, si legge la

stessa fierezza, ma resa un po’ più fragile dai dubbi (ce la farò?). Mi accorgo di guardare queste foto come il frequentatore di musei a pagamento guarderebbe dei graffiti sulle pareti di una grotta. Il bianco e nero non ammette alternative. Il nero di questo servizio è che molti dei ritratti giovanili possono uscire, da adulti, e andare ad abitare le foto di Salgado: i dannati, i dimenticati. Gli occhi più disperati sono quelli della donna pugile del Kerala, lo Stato indiano più di manica larga nei confronti dello sport al femminile. Per i piccoli cinesi che eseguono la spaccata o stanno appesi a una trave infissa nel muro lo sport è una via di mezzo tra scuola e lavoro. L’addestramento è durissimo e da qualche parte si può arrivare. Il distretto di Wuqiao, nella provincia di Hebei, è considerato la culla dell’arte acrobatica. Dei 270mila abitanti circa ventimila sono impiegati in compagnie circensi e scuole acrobatiche. Il bianco di questo servizio è nell’immaginazione e nella resistenza. L’immaginazione è parente di quella che avevamo, da piccoli, costruendo il Tour de France sui grandi mucchi di sabbia vicino alle case in costruzione. Questo è il Tourmalet, quello il Galibier, e ogni biglia di terracotta aveva un nome: Coppi, Bobet, Koblet, Bahamontes, Gaul. La resistenza è giocare a golf in uno slum, in una favela, e al tempo stesso uscirne, immaginando un green impeccabile, un caddy che non c’è, una coppa o un premio che chissà quando ci saranno, se mai ci saranno. È essere piantati, impantanati in una realtà e inseguirne un’altra, ipotetica quanto si vuole, quello che conta è non sentirsi esclusi. In questo senso lo sport è democratico: lo possono praticare alti e bassi, grassi e magri, uomini e donne, vecchi e giovani. Competitivo e non competitivo, da soli o in compagnia, per soldi o per divertimento, per gioco o sul serio. Basta smetterla con la citazione “mens sana in corpore sano”, quando è chiaro che ci possono essere menti bacate in corpi sanissimi e cervelli magnifici in corpi brutti o malati. Allo sport appartiene il Kalaripayattu, considerata la più antica tra le arti marziali, pure originaria del Kerala, con i suoi guerrieri volanti. Quanto allo yoga, è più vicino alla religione, pratica ascetica e meditativa, ma non lontanissimo dallo sport, perché è indispensabile il controllo del corpo. L’unico vincitore (esaltato, contratto, piegato, dolente) al fondo di questo portfolio che ha due chiavi di lettura.

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Sfida verticale Il Kalaripayattu è l’arte marziale più antica che si conosca. È nata nei templi induisti dello Stato del Kerala, dotati di una speciale stanza di allenamento, chiamata Kalari. Nei secoli i maestri hanno studiato i segreti del corpo, sia per curare malesseri e ferite sia per conoscere le zone vulnerabili che, una volta colpite, possono uccidere l’avversario. L’aspetto del Kalaripayattu che più colpisce è l’incredibile agilità dei corpi. Ogni duello è uno spettacolo di tempismo perfetto e coreografie che sembrano sfidare la gravità. Non stupisce quindi che nei Kalari contemporanei si allenino schermitori e danzatori Kathakali.


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Spiriti elevati

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Esistono molte interpretazioni dello yoga. Nella tradizione religiosa vedica, è considerato un cammino che porta all’illuminazione spirituale attraverso l’allenamento fisico e l’armonia con il proprio corpo e la natura. È anche una forma di ginnastica ed è spesso usato come terapia. Di solito lo yoga, le cui radici indiane risalgono a duemila anni fa, non è associato allo sport, dato che non prevede nessun tipo di competizione. Ogni tre anni in India pellegrini, maestri spirituali e yogi si ritrovano per la festa indù Kumbh Mela. È il più grande raduno di persone al mondo. Il dio Nataraja, una delle manifestazioni di Shiva, è il patrono dell’evento. I partecipanti vengono divisi per fasce d’età e si esibiscono singolarmente, a coppie o in gruppo. L’aspetto tecnico non oscura mai quello spirituale. Questo contribuisce a tenere vivo nei praticanti di yoga l’insegnamento degli antichi maestri indù, che pensavano la felicità come un traguardo raggiungibile da ciascun essere umano.


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Sognando il circo

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Nel distretto di Wuqiao, Nordest della Cina, l’arte acrobatica, che risale al V secolo d.C., è un modo di vivere, ma per molti è anche la principale fonte di reddito. Se in passato la professione acrobatica ha goduto di scarso successo, ora i circhi cinesi sono considerati meraviglie internazionali. Le scuole private sono particolarmente rigorose. La giornata comincia alle 5.30 del mattino con un allenamento prima di colazione. Gli studenti si riscaldano camminando sulle mani o reggendosi sulla testa per poi passare a esercizi piĂš difficili. Ogni movimento deve essere ripetuto centinaia di volte. Dopo quattro anni di scuola, gli acrobati possono accedere alle compagnie di circo locali, ma solo i migliori saranno accettati alla prestigiosa Scuola circense di Wuqiao, i cui diplomati si preparano a carriere molto promettenti.


La cavalcata dei bambini

Di padre in figlio

La corsa dei cavalli è uno degli eventi del Naadam, un festival mongolo che risale ai tempi di Gengis Khan. Più recentemente si tiene ogni anno, a luglio, per ricordare la Rivoluzione. Si dice che in Mongolia si impari a cavalcare prima ancora che a camminare. E, non a caso, i fantini del Naadam sono bambini di cinque anni o poco più. Le corse possono essere molto pericolose, con centinaia di cavalli che galoppano nella steppa anche per trenta chilometri di fila.

Venerato come l’unico vero sport giapponese, ma esclusivo e avvolto in antichi rituali sempre meno comprensibili alle generazioni più giovani, il sumo agonistico sta cercando un difficile equilibrio fra tradizione ed esigenze moderne. La comunità sumo conta circa ottocento atleti, chiamati Rikishi, che vivono e si allenano divisi in 52 gruppi. I lottatori al top arrivano a guadagnare molto e sono considerati celebrità, ma tutti gli altri fanno una vita austera, quasi monastica.

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Il golf degli ultimi Il golf è comunemente considerato uno sport da ricchi, e di fatto lo è, ma la sua versione moderna ed elitaria è soltanto l’evoluzione di un semplice gioco di campagna. Per giocare sono sufficienti un bastone con un’estremità ricurva e delle palline. Qualsiasi spazio aperto potenzialmente può diventare un campo. In questo senso, il golf può essere praticato da chiunque lo desideri. Alcuni ragazzi indiani che vivono in uno slum – qualcuno lavorava già come caddy in un club della zona – hanno cominciato a giocare a golf proprio così. Troppo poveri per permettersi mazze e palle professionali, hanno forgiato delle barre di ferro e comprato palline di plastica al negozio di giocattoli. Per il resto, seguono le regole tradizionali.

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Ballerine acquatiche Il nuoto sincronizzato, un tempo conosciuto come balletto acquatico, si è molto evoluto rispetto alle sue umili origini fino a diventare sport olimpico nel 1984. È una disciplina tipicamente femminile, per quanto esistano anche competizioni maschili. Il suo aspetto di sport gentile e pieno di grazia potrebbe trarre in inganno: richiede carisma, precisione motoria, forza, flessibilità e, soprattutto, resistenza aerobica. Le nuotatrici professioniste si allenano per cinque ore al giorno. La nazionale ucraina, allenata da Svetlana Saidova, è considerata una delle migliori squadre al mondo.

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L’ultimo lottatore

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Molte culture hanno tramandato le proprie lotte rituali per la guida di una comunità. Nello Stato indiano del Karnataka si chiamano Nada Kusti. Il quartier generale di questo sport si trova tuttora nella capitale, Mysore, dove i Maharaja organizzano tornei ogni anno in occasione della festività religiosa del Dasara. In passato erano le guardie di corte a scontrarsi per intrattenere i reali. I lottatori si allenano in palestre, conosciute come Garadi, con bastoni di legno e mazze di diverse misure e sollevando pesi di pietra. La popolarità del Nada Kusti è in grande calo in questa fase di modernizzazione. Ormai a Mysore rimangono solo tre Garadi aperti, gli altri sono stati trasformati in palestre e fitness club. Senza i finanziamenti pubblici e privati, questa tradizione sarebbe forse già scomparsa.


un fisico bestiale di

Bruno Giorgini

il caos e la città la regola qual’è? parola mia di

I mercanti di denaro impazzano contro i popoli e i loro diritti, cercando di farne tabula rasa. Tensioni e guerre si rinfocolano, sebbene Obama riduca il bilancio militare. La crisi economico-finanziaria dilaga, l’Europa ne è l’epicentro, e nessuno sembra sapere come contrastarla. S’accompagna alla crisi la risorgente paura delle pesti, l’Aids a cui ormai siamo abituati cede il passo all’aviaria, fino a ora molto letale e poco contagiosa, ma nei laboratori d’Europa e d’America gli scienziati hanno indotto una mutazione del virus talché possa propagarsi da mammifero a mammifero, in linea di principio da essere umano a essere umano, per via aerosol, cioè con le correnti d’aria, starnutendo e/o tossendo. Intanto altri genetisti e tecnobiologi raccontano che per manipolazione genetica tra qualche decina d’anni la vita umana potrà arrivare a centocinquanta anni (150), per cui si andrà in pensione dopo il primo secolo di vita, rimanendo bambini e adolescenti disoccupati fino a cinquanta. Incombe il cambiamento climatico con accluso effetto serra, nello scenario di città sommerse dall’acqua, con grandi glaciazioni qua e grandi desertificazioni là, e carestie e miseria e fame. Già New Orleans è stata quasi spazzata via da un tornado, mentre Genova è finita sott’acqua per piogge torrentizie, la Romagna comincia a essere senz’acqua, assieme a molte regioni francesi. In Africa la desertificazione marcia a passi da gigante. Arriva anche la fine del petrolio, e delle fonti energetiche assimilate, ma le centrali nucleari dopo Fukushima sono infrequentabili, e la crisi energetica sta dietro l’angolo poiché, al ritmo attuale di sviluppo, le energie alternative sono lungi dall’essere in grado di supplire alla scarsità di combustibili fossili in tempo breve. Per non dire della scarsità di molte materie prime. È un intrico caotico che sembra avviluppare l’intero globo terracqueo in tutte le sue dimensioni, natura e società, politica e pace, anima e corpo, strangolando la vita della città. La domanda è: come si fa a trovare/costruire una nuova possibile vita? Arrivederci al prossimo mese.

C

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Patrizia Valduga

Con questa mania che hanno adesso i giornalisti di fare i glottologi, mi sono accorta che commetto un errore da matita blu, e che lo commetto da almeno cinquant’anni: scrivo “qual’è”, con tanto di apostrofo, invece di “qual è”. Ho consultato le mie vecchie grammatiche (Il governo delle parole di Fernando Palazzi, che conservo dai tempi delle medie, e La grammatica italiana di Salvatore Battaglia e Vincenzo Pernicone, nella ristampa del 1980): non bisogna mettercelo, quell’apostrofo, perché c’è un troncamento, non un’elisione. Il troncamento si ha davanti a una parola che comincia con consonante (tal destino, tal compagnia), e però resta un troncamento anche davanti a una parola che comincia per vocale (tal uomo, tal anima). Io che considero il rispetto della lingua una specie di responsabilità morale, e che cito spesso come primo comandamento per chi scrive questa frase di Tommaso Landolfi: “O usare la lingua come Dio comanda, o trovarsi un altro mezzo”, perché ho sempre messo l’apostrofo? Forse perché detesto molti troncamenti, come “siam”, “son”, “popol”, “caval”, “abbiam”, che mi suonano arcaici, ridicoli, imbarazzanti; e perché “qual” e “tal” mi fanno particolarmente schifo, e non li userei mai, né in versi, né in prosa, né in traduzione; e perché, detestando il troncamento, ho voluto considerare “quale” suscettibile di elisione, e non sarebbe poi neanche tanto sbagliato, dal momento che l’elisione si ha davanti a una parola che comincia per vocale per evitare la cacofonia (“quell’anima” e non “quella anima”, “l’età” e non “la età”); e perché senza l’apostrofo mi pare che l’accento cada tutto su “qual”, che gli dia una solennità che meritano solo i versi (si pensi al manzoniano “Qual masso, che dal vertice/Di lunga erta montana”), mentre con l’apostrofo l’accento sembra cadere su “è”, come se restasse una traccia, un ricordo della “e” troncata, o elisa che sia. Così continuerò a metterlo, l’apostrofo: a questo punto spero di potermelo permettere.

Z


polis di

Enrico Bertolino

illustrazione Mauro

Biani

la falla nello Stivale Va bene, della nave Concordia (mai battesimo più infelice) si è parlato tanto. Va bene, è passato del tempo. Ma la forza della metafora rimane: una nave incagliata, vittime e dispersi, un Paese arenato. E all’origine le stesse colpe: incoscienza, irresponsabilità, mancanza di organizzazione e di spirito di squadra. Incoscienza per una manovra azzardata e non necessaria, irresponsabilità perché il capitano si dilegua appena capisce cosa ha combinato, perché tanti sottovalutano l’impatto con lo scoglio, mancanza di organizzazione nel coordinare lo sbarco, mancanza di spirito di squadra perché molti ufficiali (non tutti) lasciano il capitano con il cerino in mano, che poi è un cero di Gubbio, bello grosso. Così, eseguito “l’inchino”, la nave resta in ginocchio, non si rialza più, affonda lentamente e il capitano è l’unico capro espiatorio (ma non è detto, la situazione ha già subìto qualche cambiamento). La sovrapposizione della Concordia con l’Italia è lampante. Ritroviamo l’incoscienza di un Paese che, da anni ormai, vive al di sopra delle proprie possibilità, con un governo che, fino a poche settimane dalla crisi vera, tendeva a minimizzare tutto, sventolando solidità in modo spavaldo, scontrandosi alla Camera e al Senato su argomenti fondamentali quali la diaria dei parlamentari e le autorizzazioni a procedere contro deputati e senatori indagati. Ritroviamo l’irresponsabilità nella gestione dei rapporti con l’Europa e gli altri Paesi: ci si è dedicati più a parlar male degli altri (Spagna e Grecia) che a riconoscere i nostri problemi. Che non erano pochi, da quel che poi s’è visto. Gravi falle nel sistema organizzativo che hanno permesso alle caste (numerosissime, neanche le cito) di condizionare per anni, dal 2006 a oggi, per l’esattezza, decisioni che, prese per tempo, forse ci avrebbero evitato di finire nella situazione scomodissima in cui siamo. Ritroviamo la mancanza di spirito di squadra. Non quello retorico di cui si nutrono i partiti nei loro congressi: bandiere che sventolano, tesserati che applaudono, ma era più credibile la claque dell’avanspettacolo. Non di quello parlo, ma dello spirito vero, che porta le persone ad agire insieme, pur non condividendo in pieno metodi e idee, a fare sforzi e sacrifici comuni per raggiungere un obiettivo. Uno spirito che non manca a Onlus, Ong e semplici associazioni di volontari che si basano su forte presa di coscienza individuale e azioni congiunte. Visto com’è ridotta l’Italia, strano che nessuno abbia ancora proposto di devolverle il 5 per mille.

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L’Italia è una Repubblica a cura di

5 gennaio, Roccaforte Mondovì (To) 12 gennaio, San Cipriano Giuseppe Bertolino, operaio di 49 anni Picentino (Sa) è rimasto incastrato sotto un macchinario per la trasformazione di materie plastiche, presso l’azienda dove lavorava.

Giovanni Citro, 56 anni, lavorava in un cantiere per la costruzione di un capannone industriale quando il braccio della gru lo ha colpito alla testa.

5 gennaio, Seregno (Mb)

13 gennaio, Milano

Michael Rendina, 26 anni, era impiegato in un’officina meccanica. Stava sollevando un autocarro con il carrello elevatore, ma quest’ultimo ha ceduto e il mezzo lo ha schiacciato.

8 gennaio, Cuglieri (Or) L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro è il nostro osservatorio sulle morti bianche. Si tratta di un elenco parziale e incompleto, ricavato da fonti secondarie, degli infortuni mortali avvenuti tra il 5 gennaio e il 2 febbraio. A cura di rassegna.it, sito d’informazione su lavoro, politica ed economia sociale, che dal settembre 2010 porta avanti un monitoraggio quotidiano delle vittime. Secondo l’Osservatorio indipendente di Bologna morti sul lavoro, nel 2011 si sono registrati circa 1.170 incidenti mortali. Si tratta di una cifra provvisoria cui l’Osservatorio è arrivato prendendo in esame non solo le morti sul lavoro in senso stretto, ma anche quelle avvenute in itinere, cioè per strada, di lavoratori che utilizzano un mezzo di trasporto per raggiungere e tornare dal luogo d’impiego o spostarsi per lavoro, le morti in nero e quelle dei militari impegnati in missioni all’estero.

Stava lavando un’autobotte nel cortile della caserma dei pompieri di Cuglieri, quando improvvisamente questa ha iniziato a muoversi. Il vigile del fuoco volontario Luca Pinna, di 38 anni, nel tentativo di fermarlo è rimasto investito dal mezzo.

10 gennaio, Suno (No)

Salvatore Spataro, artigiano di 46 anni, era al lavoro in un cantiere a Suno. È precipitato da un’altezza di circa tre metri.

11 gennaio, Livorno

Un peschereccio affonda al largo della costa livornese. Le vittime sono due pescatori: Silverio Curcio di 64 anni e il figlio Davide di 36, ritrovato dopo tre giorni di ricerche.

11 gennaio, Collesalvetti (Li)

Elettricista di 42 anni, Massimo Guidetti è morto per un attacco di cuore mentre era in palestra. Un mese prima, sul lavoro, era stato colpito da una forte scarica elettrica. Poche ore prima di morire, si era sottoposto a un check up in seguito al quale il medico gli aveva detto di poter tornare a una vita normale, dopo la lunga convalescenza.

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Niccolò Savarino, vigile urbano di 42 anni, stava effettuando controlli per lavoro nel quartiere Bovisa. È stato investito da un Suv che poi si è dato alla fuga.

13 gennaio, Zandobbio (Bg)

L’escavatore che stava guidando è caduto in una scarpata, forse per una manovra sbagliata. La vittima è Giuseppe Tebaldi di 85 anni, proprietario di un’azienda di marmi e graniti.

13 gennaio, Isola del Giglio (Gr)

Nel naufragio della nave Costa Concordia ci sono tre vittime sul lavoro accertate, tre membri dell’equipaggio: Sandor Feher (violinista ungherese di 38 anni), Thomas Alberto Costilla Mendosa (addetto alle pulizie) e Erika Soriamolina Fani (25 anni, cameriera), entrambi peruviani. Altri due lavoratori in servizio risultano dispersi: si tratta di Giuseppe Girolamo (musicista di 30 anni) e Russel Terence Rebello (indiano).

14 gennaio, Genova

Alessandro Raima era in servizio come agente del reparto Mobile. Mentre tornava in caserma è rimasto coinvolto in un incidente stradale. Aveva 23 anni.

16 gennaio, Pavull0 (Mo)

Agricoltore di 31 anni, Andrea Ricci è stato schiacciato da una rotoballa caduta sul trattore che stava guidando, in località Gaiano di Pavullo.


fondata sul lavoro Paolo Tardelli, operaio di 42 anni, era al lavoro nel cantiere dell’autostrada A4 all’altezza di Meolo. Era impegnato nella riparazione di una trivella, quando l’attrezzo, staccatosi dalla ruspa al quale era stato assicurato, gli è caduto addosso.

17 gennaio, Macerata Feltria (Pu)

Un agricoltore di 62 anni stava lavorando nella sua proprietà. Il trattore si è rovesciato a causa del terreno ghiacciato e lo ha schiacciato.

18 gennaio, Susegana (Tv)

23 gennaio, Calcio (Bg)

Lavorava nel cantiere dell’autostrada Brebemi all’altezza di Calcio, quando è stato travolto da un blocco di cemento staccatosi da una gru. La vittima è Sherbet Bashmeta, operaio albanese di 48 anni.

24 gennaio, Nerviano (Mi)

Operaio di 49 anni, Mario Lamera lavorava alla ristrutturazione della facciata di un condominio. È precipitato da un’altezza di circa 15 metri.

25 gennaio, La Valle (Bz)

Danilo Dall’Armi, 51 anni, agricoltore, guidava il trattore in un terreno a Susegana quando il mezzo agricolo si è improvvisamente ribaltato.

Massimo Foladori, 33 anni, è stato travolto dalla balla di fieno, pesante diversi quintali, che stava caricando sul camion. È successo in Alta Badia, località La Valle.

18 gennaio, Licata (Ag)

26 gennaio, Torino

21 gennaio, Pordenone

27 gennaio, Isola d’Elba (Li)

Operaio di 52 anni, Giuseppe Scrimali è caduto dal tetto di un magazzino sul quale eseguiva lavori di riparazione.

Alex Santarossa, operaio di 31 anni, mentre potava alberi in località Porcia. Ha urtato i fili dell’alta tensione ed è rimasto folgorato.

21 gennaio, Gallese (Fr)

Stava salendo sul trattore quando è scivolato, finendo su una fresatrice che lo ha dilaniato. L’agricoltore si chiamava Paolo Venturini, 73 anni, ed era al lavoro nel terreno di un parente.

21 gennaio, Visilù (Bs)

Ferdinando Agosti, impresario edile di 72 anni, stava tagliando la legna in un bosco quando è stato colpito alla schiena da un tronco.

È caduto dal tetto del ristorante che stava ristrutturando. Alessandro Paglia, 31 anni, è morto per le gravi ferite riportate.

Filippo Francolini, operaio di 49 anni, aveva finito il turno e stava tornando a casa a bordo di un mini escavatore. Nella discesa dal santuario Madonna del Monte il mezzo si è ribaltato e lo ha schiacciato.

30 gennaio, Arcugnano (Vi)

Potava gli alberi di un terreno quando è caduto a terra da un’altezza di tre metri. La vittima è Antonio Trentin, 56 anni.

2 febbraio, Policoro (Mt)

Un uomo di 77 anni stava riparando il braccio di un vecchio muletto in magazzino quando è stato improvvisamente colpito da una pala meccanica.

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5 gennaio - 2 febbraio morti sul lavoro

Maurizio Galimberti

17 gennaio, Meolo (Ve)


Questione

Luis Celso [agencia estado/zuma/kika]


In comune Brasile e Cina hanno un Pil che galoppa. Merito di un unico grande protagonista: il ceto medio. Chi sono i “nuovi ricchi” creati dalle politiche sociali dell’ex presidente Lula? E perché invece il miracolo economico mostra le prime ma profonde crepe proprio fra i piccoli imprenditori della Repubblica Popolare?

di classe


Il sogno di Brasilia di

Gabriella Saba

e Claudio

M. Valentinetti

È al centro di un’infinità di studi sociologici, preda ambita degli esperti di marketing, oggetto del desiderio di imprenditori e gestori di negozi. È la Nuova classe media, composta da milioni di ex poveri che hanno fatto il loro ingresso nel mercato e comprano quasi compulsivamente. Per dimostrare di avercela fatta Marinês Alves ha 36 anni e una storia che sta diventando comune in Brasile. Nata in una famiglia povera nello Stato di Tocantins (una delle zone più sottosviluppate del Paese), è approdata a Brasilia dieci anni fa e da tre gestisce un piccolo salone di bellezza che le frutta poco meno di quattromila reais mensili al netto delle spese: circa duemila dollari che le permettono un tenore di vita più che decente. E infatti ha affittato una casa in un quartiere dignitoso e si è comprata una Ford Ka, un televisore da 29 pollici, un lettore Dvd, un frigorifero di marca e tre cellulari, oltre a una sterminata collezione di scarpe. «Sono la mia passione», sorride dall’alto di un paio di tacchi vertiginosi, che slanciano la figuretta biondo platino fasciata da un tubino nero vagamente esistenzialista. Da un punto di vista statistico, Marinês è una dei 31 milioni di brasiliani che nell’ultimo decennio sono andati a rimpolpare le fila della classe media, facendola lievitare al 53,8 per cento della popolazione complessiva, dal 38,6 per cento che era prima (per contro, la percentuale dei brasiliani sotto la soglia di povertà è precipitata dal 40 al 24 per cento). Un esercito di quasi cento milioni di persone che rappresentano il vero fenomeno degli ultimi anni in Brasile, la faccia più evidente del boom economico. I sociologi l’hanno ribattezzata “Classe C” per differenziarla da quella tradizionale, conservatrice e inerte e basata su un senso di classe che si tramanda di padre in figlio. Per gli emergenti, il cammino è invece l’opposto. Nati in povertà, lottano controcorrente per smarcarsi dalle classi di origine e accedere al mondo dorato di chi ha stipendi da mille a quattromila reais per famiglia: una cifra che, nel migliore dei casi, permette loro di assicurarsi un’esistenza gradevole e molti status symbol che prima erano un sogno. «Perfino nelle favelas vivono oggi famiglie di classe media», ci spiega Pedro Simon, senatore del Partido do Movimento Democrático Brasileiro e capo della commissiome contro la corruzione nominata dalla presidentessa Dilma Rousseff. Piccolo e segaligno, una corona di capelli candidi intorno alla faccia carismatica, Simon dichiara di appartenere alla classe media tradizionale, ma non nasconde la sua ammirazione per questa nuova Classe C, volitiva e la-

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voratrice e con una gran voglia di crescere e di migliorare. Strano fenomeno, in effetti, questo che il politico e professore universitario Claudio Lembo ha definito semplicisticamente “nient’altro che il solito darwinismo sociale” e che rappresenta invece un miscuglio insolito di edonismo e pervicacia, di consumismo compulsivo e progettualità. Su cento brasiliani della Ncm (Nuova classe media, ndr), trenta dichiarano di volersi comprare la casa a breve termine, mentre moltissimi hanno già un’auto (ne girano sette milioni soltanto nella città di São Paulo) e la maggior parte aspira a mandare i figli nelle scuole private, dato che quelle pubbliche non garantiscono un’istruzione decente.

Problema di status

Tutti hanno un televisore, il 90 per cento possiede un cellulare, più della metà un computer e il 30 per cento dispone di una connessione a banda larga. Negli ultimi anni hanno speso una valanga di denaro che si traduce in un aumento dei consumi, passati dal 25,8 per cento al 44,3 per cento. «La situazione è migliorata parecchio», ci dice João Batista, dipendente comunale che incontriamo in una strada di Brasilia insieme ai due figli ventenni. «Ci sono più soldi, gli stipendi sono più alti e anche l’accesso al credito è più facile. A me però non interessa spendere in auto nuove o in cene fuori, ma in tecnologia. Voglio che i miei figli abbiano il meglio al riguardo». La nuova classe media ha molte facce e non tutte somigliano a quella di João Batista. «Ho due persone di servizio che appartengono ormai alla Classe C e che hanno le stesse cose che mi compro io, probabilmente più moderne», racconta ridendo Yeda, consulente presso il Senato, originaria di Manaus, ma a São Paulo da molti anni. «Parlo di cellulari, di elettrodomestici e altri accessori». Nell’elegante centro commerciale Park Shopping, nella capitale, molti gestori ammettono in effetti che la clientela è cambiata parecchio negli ultimi anni. «La percentuale di clienti di Classe C è ormai considerevole», ci indottrina una sinuosa Angélica Pessoa, direttore trentenne dai lunghi capelli scuri che dichiara con orgoglio di essere griffata Calvin Klein fino alle mutandine. «I clienti di Classe C sono diversi dagli altri perché sono più timidi e non discutono i prezzi, né chiedono sconti come quelli delle classi più alte. Pagano cash e comprano senza fiatare anche i prodotti più costosi come i jeans Premium da 600 reais». E in un noto emporio di elettrodomestici di Rio, il diretto-


Alfredo Caliz [panos/luz] re di nome Divino, presbiteriano molto professionale, spiega che i clienti di Classe C si riconoscono subito. «Sono i più incerti, ma esigono la tecnologia più avanzata: frigoriferi di ultima generazione, tv grandi a cristalli liquidi e a Led. Arrivano con due cellulari e vogliono comprarne un terzo. È evidente che si tratta di un problema di status. Pagano a rate con carta di credito (il 61 per cento della nuova classe ne possiede almeno una, ndr), e in genere non sono informati, a differenza dei clienti di classe A e B che sanno già tutto e hanno esigenze molto chiare».

Identità complessa

La comparsa sul mercato della Nuova classe media è stata così imponente che il governo le ha destinato un progetto di sviluppo appositamente varato e tre noti pubblicitari hanno fondato un’agenzia, la Data Popular, che si occupa esclusivamente di Ncm e ha realizzato tutti gli studi più autorevoli sul tema. «La Ncm brasiliana ha assimilato una parte di quella vecchia, che veniva definita soprattutto in base all’istruzione ed era costituita in gran parte da dipendenti pubblici», spiega Wanderson Flávio Cunha, dell’ufficio stampa


dell’agenzia. «Un altro settore di quella classe ha seguito invece la tendenza alla crescita del Paese ed è finita nelle élite, e cioè nelle classi A e B. La caratteristica della Nuova classe media rispetto alla vecchia è che viene determinata esclusivamente attraverso la rendita». Va da sé che i saggi sull’argomento si sprecano. Il più controcorrente lo ha scritto Jessé Souza, professore della Facoltà di Sociologia dell’Universidade Federal de Juiz de Fora. S’intitola Os Batalhadores Brasileiros e porta avanti una tesi inusuale: quella per cui la cosiddetta Ncm sarebbe in realtà una nuova classe sociale, mai vista prima e con caratteristiche precise: autocontrollo, disciplina e capacità prospettiva. Secondo Souza, la nuova Classe C non è altro che una sorta di supporto tipico del capitalismo: lavoratori particolarmente agguerriti disposti a sottomettersi a qualunque sacrificio pur di salire nella scala sociale. “Da qualunque parte si inclini questa nuova e vibrante classe di lottatori brasiliani – afferma Souza – da questa inclinazione dipenderà anche lo sviluppo politico ed economico brasiliano del futuro”. Ovviamente, la maggior parte degli esercenti fa di tutto per conquistare questa importante fetta di mercato. Uno dei tanti esempi sono i notissimi Magazine Luiza, di São Paulo, un tempo icona delle fasce sociali più basse. Da qualche anno stanno adattando i loro prodotti alla nuova classe, tanto che le vetrine dei loro negozi hanno acquisito un look decisamente elegante. Molti stilisti e designer hanno inoltre iniziato a realizzare linee apposite per i clienti della Ncm, che di recente hanno cominciato a fare acquisti anche su internet. Ma chi sono, esattamente, i clienti di Classe C? Secondo gli studi di Data Popular, si tratta in gran parte di domestici, venditori, lavoratori delle costruzioni civili, assistenti amministrativi e, nel caso dei più giovani, di operatori di telemarketing. La maggior parte vive nei centri urbani, ma non sono affatto rari i casi di Classe C che prospera nello sperduto Nordest, o nelle immense campagne in cui sono partiti da una posizione di estrema povertà per diventare, a prezzo di grandi sacrifici, venditori in proprio e gestori di piccole attività con una relativa sicurezza economica e sogni fulgidi per i propri figli. Gli studi più accreditati li definiscono politicamente cinici, individualisti e pragmatici, ma ci deve essere una dose inconsapevole di progressismo nella nuova classe visto che, al suo interno, il numero dei neri è aumentato dal 36 al 44 per cento, quello delle donne che lavorano dal 48 al 56,5 e la Ncm conta tra le sue fila la più alta percentuale di giovani rispetto agli altri strati sociali.

Merito di Lula

«Molto di questo si deve a Lula», ammette Walter, venditore in proprio nella regione del Planalto, che precisa però di non averlo votato perché «i politici sono tutti corrotti». Il vasto piano di protezione sociale avviato dall’ex presidente ha infatti mosso l’economia dal basso, facilitando lo spostamento di denaro e

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incrementando la mobilità sociale. La famosa misura della Bolsa Família ha avuto il merito di attivare la circolazione dei soldi, immettendo nel mercato la bellezza di undici miliardi di reais (pari a 4,8 miliardi di euro) per aiutare i più poveri. E anche ottenere un credito è diventato più semplice, anche per chi non ha un lavoro fisso. I lavoratori con carteira assinada – quelli, cioè, che non lavorano “in nero” – sono d’altronde oggi quasi il 50 per cento, e questo garantisce tranquillità economica e quindi maggiori garanzie per il creditore. Infine, c’è stato l’aumento del salario minimo e del credito agevolato per le piccole e medie imprese. A Marinês Lula piace, e ammette invece di averlo votato entrambe le volte. Lo deve alle sue misure, scherza, se riuscirà a comprarsi una casa. La casa che sogna Marinês è un piccolo appartamento nel nuovo quartiere popolare di Mangueiral: decine di palazzine in mezzo al nulla, molto lontane dalle rarefatte costruzioni di Oscar Niemeyer, sormontate da un buffo architrave e con le facciate dipinte di verdino e rosa. La crescita della Classe C ha fatto decollare il mercato edilizio tanto che la Fiesp, una sorta di Confindustria dello Stato di São Paulo, ha annunciato per il prossimo decennio la costruzione di 25 milioni di case, principalmente destinate alla Classe C, a cui è diretto in gran parte il gigantesco piano governativo di crediti a bassissimi interessi di Minha Casa Minha Vida. I quartieri della classe media sono per esempio la gigantesca zona Leste, a São Paulo, che era in origine il feudo di tribù indigene e occupa oggi una superficie di quasi 300 chilometri quadrati. Dicono che tra i paradisi della Classe C c’è l’avenida 25 de Março, a São Paulo: un magazzino dietro l’altro zeppo di finte griffe come Vuitton e Nike, un gigantesco suq sovraffollato, in chiave sudamericana. Ma non è vero, o almeno non del tutto. Ci vanno anche parecchie persone della Classe A e B, che comprano le griffe false per indossarle insieme a quelle vere.

Un nuovo lusso: i viaggi

I clienti di classe A e B e della vecchia classe media non sono affatto contenti che tutta questa gente di ceto inferiore abbia di colpo invaso i suoi spazi. La lamentela che gira come un mantra è che le file agli aeroporti sono diventate estenuanti, per non parlare dei cinema. Moltissimi brasiliani della Classe C hanno cominciato a viaggiare e il pacchetto volo+soggiorno è diventato una delle spese voluttuarie più praticate. Non sempre si tratta di un problema di status. All’aeroporto di Montevideo, Francisca, 53 anni, spiega che viaggia per accrescere la sua cultura. «Sono stata una settimana a Buenos Aires e, guardi, non ho comprato niente. Ho preferito girare per i musei». Lavora come coordinatrice pedagogica di una scuola tecnica di São Paulo e sta viaggiando con la sorella. «La nostra famiglia era molto povera, poi io sono diventata di Classe C e mia sorella di classe B. Lei fa il magistrato. Io ho sempre votato Lula che ha fatto tanto per il Paese, ma mia sorella no». Francisca è una signora distinta e veste con sobrietà. Non assomiglia affatto allo stereotipo della persona di Classe C, che nell’iconografia generale è ordinaria e sguaiata. Secondo gli studi di Data Popular, una buona fetta della classe media tradizionale vorrebbe infatti che in


Francesco Stelitano [luz] certi locali l’accesso alle persone mal vestite venisse vietato. Ma molti tra gli stessi gestori non sono d’accordo. Maurizio Longobardi vive da tredici anni a São Paulo dove ha, al momento, quattro locali che fanno tendenza ed è un sostenitore entusiasta del nuovo fenomeno. «Sono il futuro del Paese, sono il fenomeno più dirompente. Nei miei locali stanno cominciando a vedersi adesso, ma mi aspetto che arrivi presto la marea». In mezzo a tanto entusiasmo, c’è anche chi grida all’abbaglio. Per alcuni analisti la nuova classe è ancora troppo fragile e avrebbe bisogno di migliori piani di protezione sociale, e riviste autorevoli come America Economia avvertono del pericolo che i nuovi arrivati tornino nella povertà se la crisi economica globale si abbatterà anche sul Brasile, la cui previsione di crescita

per il prossimo anno è di appena il 3 per cento, meno della metà di quella del 2011. Anche l’indebitamento privato potrebbe essere un problema, dato che è salito dai 2.400 reais al mese ai 3.700 attuali. Per il momento, il governo di Dilma Rousseff avverte tra le righe di non dar retta ai cattivi auspici e ha lanciato un pacchetto natalizio che ha abbassato fino al 20 per cento i prezzi di molti prodotti, per esempio riducendo drasticamente le tasse sugli elettrodomestici. La gente ne ha approfittato. Gli acquisti sono lievitati e la “vibrante” nuova classe media ne è in gran parte responsabile.

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La paura di Wenzhou di

Gabriele Battaglia e Simone Pieranni

foto Patrick

Zachmann [magnum photos/contrasto]

Era il traino del made in China, oggi è diventata l’emblema della crisi finanziaria. Gli imprenditori strozzati dai debiti chiudono le loro aziende ma non vogliono raccontare le loro disavventure. Gli usurai fanno affari d’oro e il governo è costretto a pensare nuove liberalizzazioni: quelle sui crediti ai privati «Se avessi idea di dove scappano, andrei a prenderli io stesso, ma non sappiamo come acchiapparli, potrebbero essere ovunque. Quanto a me, sono così sotto stress che non riesco a trovare il tempo per andare in clinica a far controllare le mie mani gonfie». Zhou De Wen è il presidente della locale associazione delle piccole imprese, ma il suo biglietto da visita rivela almeno una dozzina di altre cariche, secondo il costume dei potenti cinesi. È un uomo del Partito. Siamo a Wenzhou, nella provincia più industriosa della Cina, lo Zhejiang. È qui che la crisi ha morso più duramente. La piccola industria votata all’export, la spina dorsale del boom cinese, ha l’acqua alla gola. Gli imprenditori chiudono dall’oggi al domani, alla lettera: scappano e lasciano gli operai senza salario. La tensione è stata mantenuta sotto traccia finché, a fine ottobre, migliaia di persone sono scese in piazza a Huzhou, sempre nello Zhejiang, assaltando uffici pubblici e incendiando automobili, per protesta contro l’aumento delle tasse locali. È stata una rivolta dell’esasperazione diversa dalle migliaia di “incidenti” provocati dai contadini vessati dalle requisizioni di terre. Qui, si è verificata un’alleanza inedita di produttori: piccoli imprenditori e le loro maestranze che, insieme, assediano i luoghi del potere dopo la classica goccia che fa traboccare il vaso.

La crisi c’è, tutti zitti

«Non voglio parlare, penso che potrebbe danneggiare il mio business». «Non sono a Wenzhou, non so quando tornerò». Diversi tentativi, risposte simili, un solo risultato: niente da fare. Nessuno degli imprenditori di Wenzhou vuole parlare. Il tema è troppo sensibile dal punto di vista politico, può attirare solo guai. Un giornalista canadese ha scambiato quattro chiacchiere con un “imprenditore”: «Ha voluto che ci incontrassimo nell’atrio del mio hotel, non mi ha detto nulla che non sapessi già e non mi ha portato nella sua fabbrichetta». Alla pizzeria italiana, il coproprietario cinese ci dice che in città tutti lo sanno: «Gli imprenditori scappano, se la filano con la cassa». Lo dice con espressione divertita. Possiamo parlarne? Cambia espressione e se ne va. Un nuovo tentativo, via telefono, dalle parti di Zhongshan, la città del

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Guangdong che porta il nome di Sun Zhongshan, il fondatore della Cina moderna da noi noto come Sun Yat-sen. Niente. «Ne ho parlato in macchina con un paio di imprenditori – riporta il contatto – non sono disponibili neanche a un’intervista scritta, non vogliono esporsi». Paradossi cinesi. Le autorità parlano della crisi, accettano che emerga, e chi la subisce tiene la bocca cucita. Non è censura dunque, è un’abitudine. Il problema non è solo il contenuto, cioè quello che il giornalista più o meno in buona fede potrebbe scrivere. Il punto è che se le parole dell’intervistato saranno inserite in un contesto “negativo”, magari un giornale che “parla male di”, lui perderà la faccia. E forse anche il business. E poi, che bisogno c’è di raccontare? Il cinese “della strada” non sente in genere la nostra stessa urgenza morale di far sapere al giornalista la propria verità o il proprio parere. In fondo, il giornalismo è un prodotto occidentale, quel lavoro che “fa le pulci” e che alimentando di continuo la discussione è necessario alla sopravvivenza della democrazia. Niente di tutto ciò nella tradizione cinese. L’intellettuale e il funzionario politico sono la stessa persona, incarnano il potere, lo rappresentano, ne garantiscono la continuità. Al limite c’è sempre il distacco a sostituire la ribellione: confuciano di giorno e daoista di notte. Non è necessaria la “verità”, assume valore solo in funzione delle conseguenze che produce. «Perché dovrei? Chi mi obbliga?». Così, il piccolo imprenditore in crisi di Wenzhou si rifiuta di incontrare il reporter. Ma il funzionario della stessa città, Zhou De Wen, spiffera tutto sulla crisi in corso: ha considerato i pro e i contro e sa che se vuole riforme più liberali deve premere sul potere anche attraverso i media. Parla senza freni: «Quasi tutte le imprese di Wenzhou hanno avuto problemi: tra quelle fallite, quelle che hanno fermato la produzione e quelle che l’hanno ridotta della metà, si arriva al 20 per cento del totale. Io avevo previsto questa crisi già a gennaio 2011, ma allora il governo non prese nessuna misura». La sua è la voce di un Sud operoso che si trova improvvisamente in braghe di tela. Parla a nuora (il giornalista straniero) perché suocera intenda: la suocera è Pechino, la capitale del potere politico. Da lì devono arrivare le risposte: «Si parla solo di Wenzhou, ma le stesse cose succedono anche altrove – a Xiamen e Guangzhou – però tutti gli occhi sono puntati su di noi». Si sta giocando molto, il signor Zhou, forse tutto. E ha le mani gonfie e tutt’altro che una bella cera.


I “padroncini” in ginocchio

Anche se la Cina non è poi così “vicina”, alcuni luoghi apparentemente remoti del Paese sono più prossimi alle nostre vite di quanto si possa credere. Se si dice Zhejiang, Wenzhou, basterebbe entrare in un bar di via Paolo Sarpi a Milano, o in uno dei tanti negozietti di piazza Vittorio a Roma, e chiedere ai cinesi che si incontrano da dove vengono. Risponderanno «Zhejiang» e molti di loro specificheranno «Wenzhou». Non solo: potete scommettere che, controllando l’etichetta o le istruzioni di un qualsiasi vestito o giocattolo made in China, scoprirete che la provenienza è Zhejiang. E in molti casi, specificamente Wenzhou. È la regione dei “padroncini”: se i cinesi sono noti per il loro spirito imprenditoriale, i wenzhounesi in particolare, sono i più imprenditori tra i cinesi. Capacità di adattamento, spirito d’iniziativa, tenacia, contatti giusti. È in questa regione che si è sviluppato il movimento delle piccole e medie imprese che ha inondato l’Occidente di prodotti e che ha visto nascere quella moderna classe imprenditoriale divenuta il perno attorno al quale si è sviluppata l’economia cinese. E, in un circolo virtuoso, gli imprenditori si sono a loro volta fatti ceto medio che spende e consuma, dando un ulteriore impulso al mercato interno. Wenzhou, nel recente sviluppo economico del Dragone, è considerato uno dei modelli di crescita più solidi: unico nel suo genere, perché basato su quella che Hu Shuli, nota giornalista indipendente cinese, ha chiamato “imprenditoria privata guidata”, ovvero formata da nuclei familiari che gestiscono attività concentrandosi sulla produzione di beni di consumo,

per lo più di necessità quotidiana (i piccoli prodotti per i grandi mercati), con il beneplacito dello Stato, che controlla i flussi di capitale, di forza lavoro e di tecnologia. Dopo la prima licenza concessa nel 1980 Wenzhou ha costruito il suo successo. E a differenza del Guangdong, la regione cinese che da sola produce un quarto delle esportazioni del Paese, non è mai dipesa da investimenti esteri, o dal sostegno di banche cinesi.Poi, improvvisamente lo Zhejiang, e Wenzhou in particolare, sono entrati in un vortice mediatico causato da quella crisi che ha messo in ginocchio molti dei “padroncini”. Una rapida notorietà, frutto di mesi di sofferenza, fino all’outing del South China Morning Post, quotidiano di Hong Kong, che il 4 ottobre scorso ha pubblicato un articolo sulla crisi delle piccole e medie imprese nel Sud cinese: il mondo scopre lo Zhejiang. Un rapporto della banca d’affari britannica Barclays, segnala almeno diciannove fallimenti aziendali di medie dimensioni a Wenzhou. «Queste – scriveva il quotidiano di Hong Kong – rappresenterebbero solo una piccola frazione delle 3.993 aziende della città sud-orientale nota per il suo spirito imprenditoriale. Il mercato è stato interessato da altri fallimenti, che potrebbero segnare l’inizio di una crisi del credito tra piccole e medie imprese».

Due scelte: fallire o fuggire

Il problema è fondamentalmente di liquidità. Quando i piccoli imprenditori si sono trovati a corto di soldi, il sistema bancario, pubblico, si è scoperto improvvisamente inefficiente. Il meccanismo è semplice e al


Prestiti illegali Gli abitanti della provincia dello Zhejiang sono 54 milioni. Si stima che due milioni di persone provenienti da quell’area vivano all’estero. Wenzhou è la città più popolata della provincia con un milione e 164 mila abitanti. Secondo gli analisti di Ihs Global Insight, nel 2010 il capitale wenzhounese controllava 800 miliardi di yuan (circa 157 miliardi di dollari), ovvero il 2 per cento del Prodotto interno lordo della Cina. Uno studio della banca d’investimento Barclays Capital dell’ottobre 2011 riporta che dal gennaio precedente i media locali avevano segnalato 19 fallimenti di piccole e medie imprese a Wenzhou. In tal caso, si tratterebbe solo di una piccola percentuale sulle 3.993 piccole e medie industrie presenti sul territorio. Ma i dati ufficiali sembrano in contraddizione con l’allarme lanciato dalle stesse autorità cinesi e con i numeri che riguardano il “credito ombra”. Nel 2011 i prestiti “informali” avrebbero raggiunto la quota di 110 miliardi di yuan (circa 13 miliardi di euro). Secondo il China Securities Journal, che ha ripreso un rapporto della Banca centrale, a luglio 2011 nel capoluogo dello Zhejiang circa l’89 per cento delle famiglie e il 60 per cento delle società erano coinvolte nel sistema di prestiti “informali” con tassi d’interesse che in media si aggiravano sul 25 per cento all’anno. Fino alla fine di settembre 2011, si sono registrati almeno 38 casi di attività illegali legate al prestito privato in città, per un totale di circa 3,6 miliardi di yuan, con 39 sospetti arrestati dalle autorità. A ottobre, il numero dei sospetti sarebbe diminuito del 37 per cento e il denaro in gioco del 40 per cento rispetto al mese precedente.

tempo stesso perverso. Io, banchiere di Stato, sono tenuto a concedere prestiti a te, manager di un’azienda di Stato, perché abbiamo lo stesso padrone; se poi il tuo baraccone va male, sarai tu a dover rispondere al potere politico, fatti tuoi. Se invece io, banchiere di Stato, presto soldi a te, imprenditore privato, sono io a essere responsabile di fronte al potere politico; se tu fallisci, mi chiederanno perché ti ho concesso un prestito e potrei essere accusato di corruzione e finire male. I forzieri in cui si accumulano le risorse frutto dell’attivo commerciale cinese, si aprono così sia per i campioni nazionali che comprano asset strategici in giro per il mondo sia per i baracconi improduttivi, ma politicamente protetti. Di sicuro non per i piccoli imprenditori privati in difficoltà. Loro quindi si sono rivolti al mercato ombra, illegale: altri uomini d’affari, magari solo più scaltri o fortunati, che prestano denaro a tassi da strozzinaggio. Privati che applicano interessi che vanno dal 20 al 180 per cento. Così, quando gli imprenditori hanno capito che mai sarebbero riusciti a pagare il debito, non hanno avuto che due scelte: farla finita o sparire dalla circolazione. «Non sono sorpresa di vedere che le piccole e medie imprese stiano sballando – ha detto Yao Wei, la capo economista di Société Générale Asia, al South China Morning Post – il fatto che siano disposte a prendere in prestito denaro a così alti tassi di interesse significa che sono alla disperata ricerca di liquidi». Secondo Hu Shuli, fondatrice e direttrice del magazine economico Caixin, «la recente ondata di crolli ha reso evidente il tallone d’Achille del modello di Wenzhou. La tempesta è iniziata quando le nuove politiche bancarie nazionali, volte a raffreddare il mercato immobiliare, hanno prodotto un’improvvisa carenza di credito. Il settore privato di Wenzhou, cui da tempo mancava il sostegno delle istituzioni finanziarie di proprietà statale, ha dovuto ricorrere a finanziamenti privati. I risultati sono stati estremamente gravi per gli elevati costi di finanziamento e di rischio. A Wenzhou l’economia è incentrata soprattutto sul settore manifatturiero, che si basa sull’imitazione più che sull’innovazione. E l’innovazione non si ottiene se non si ha credito». «Anche a me piacciono i soldi – dice ancora il signor Zhou – ma io al sistema finanziario privato non mi sono mai appoggiato perché avevo previsto come sarebbe andata a finire». Non è stato così per Hu Fulin, che piccolo imprenditore certo non è: boss della più grande fabbrica d’occhiali cinesi, la Zhejiang Center Group, è scappato negli Stati Uniti il 20 settembre, lasciando un miliardo e mezzo di yuan in debiti (circa 185 milioni di euro), tra banche e creditori privati. Venti giorni dopo è ritornato in patria perché il governo gli ha promesso di contribuire alla ristrutturazione del debito. Feng Xingyuan è vicedirettore dell’Unirule Institute of Economics e membro dell’Accademia cinese degli studi sociali. Se gli si domanda quale insegnamento trarre dalla lezione di Wenzhou, mette da parte tutte le precauzioni politiche e diventa insolitamente assertivo: «Le proteste sono tipiche di un sistema che ha alcuni problemi. Uno di questi è la presenza dello Stato nei settori più fruttuosi dell’economia. Non c’è soluzione: lo Stato deve lasciare spazio all’imprenditoria privata». Sembra una risposta

perfetta per il ceto imprenditoriale di Wenzhou: con le proprie forze ha contribuito allo sviluppo cinese. Dalla politica non aspetta aiuti, ma neanche i bastoni tra le ruote per opera del Partito comunista.

Tutto nelle mani del Partito

In questa storia, il Partito è il grande convitato di pietra. La crisi dello Zhejiang aiuta infatti a definire meglio i contorni della sfida politica che terrà impegnato l’establishment cinese nei prossimi mesi. Il 2012 si chiuderà con il grande rimpasto ai vertici. Con il congresso del Comitato centrale, probabilmente a novembre, cambieranno infatti sette dei nove membri che siedono nel comitato permanente del Politburo, di fatto la stanza dei bottoni del potere cinese: Xi Jinping è pronto a sostituire Hu Jintao come presidente della Repubblica e segretario del Partito; Li Keqiang dovrebbe subentrare al premier Wen Jiabao. Queste sono le previsioni “semicerte” di un cambio apparentemente pacifico che nasconde però molte insidie e conflitti. Le carte in tavola potrebbero cambiare ancora. Non si tratta di Partito comunista contro democratici, o pseudo tali, e neanche (solo) di Partito contro popolazioni locali che si oppongono ai funzionari corrotti. Si tratta di una battaglia di sistema: se da un lato c’è chi ancora sostiene uno sviluppo controlla-

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to interamente dallo Stato, dall’altro c’è un ceto di imprenditori che chiede spazio, cercando di capire a quale sponda politica – sempre all’interno del Partito – appoggiarsi. Dalle nostre parti diremmo che gli statalisti si scontrano con i liberisti: il primato della politica, rappresentato dai “pechinesi”, si contrappone alle pulsioni del mercato incarnate dal ceto medio di Shanghai, Wenzhou, Xiamen, Guangzhou, il grande Sud. Ma i giochi sono complicati da molte altre variabili e soprattutto devono restare dietro le quinte, per non destabilizzare la Cina. In questo quadro, la rivolta di Huzhou, quell’alleanza inedita di produttori, è uno dei tanti “scontri interni” che il Partito vuole evitare.

Una luce sui “crediti ombra”

«Il premier Wen Jiabao mi ha concesso un grande riconoscimento – continua Zhou De Wen: sono entrato nella cerchia di quelli che possono dargli dei suggerimenti. Gli ho detto che il modello finanziario è vecchio, di tipo sovietico, non più adatto alle imprese. Quindi, visto che c’è un enorme numero di prestiti ombra, la soluzione è di legalizzarli, creando delle misure di controllo che tutelino tutti. Viaggiando all’estero, ho visto che da voi si possono avere soldi dal mercato azionario e che circa il 70 per cento dei finanziamenti non arriva dalle banche. Per cui anche da noi si tratta di riformare il sistema di finanziamento delle piccole e medie imprese. All’inizio non ascoltavano, adesso invece sembrano molto interessati alle mie proposte». Si chiama liberalizzazione del credito. A metà dello scorso novembre le agenzie battono una notizia che in Occidente passa quasi inosservata, ma

che rappresenta una vera rivoluzione: a Wenzhou parte un progetto pilota. Il governo locale deve creare un centinaio di agenzie di microfinanza, da due a quattro fondi d’investimento privati e un registro delle agenzie finanziarie “per trasformare la città in un centro di distribuzione del capitale privato”, scrive Global Times, la versione “pop”, in lingua inglese, del Quotidiano del Popolo. Di fatto, si tratta della legalizzazione del “credito ombra”. Altre norme, che calano direttamente dal Consiglio di Stato cinese (leggi “governo”), prevedono la riduzione delle tasse e l’allentamento della stretta sul credito bancario. A inizio 2012 circolano indiscrezioni su nuove misure che avrebbero portata non solo locale, bensì globale. La Cina, si dice, aprirà alle vendite allo scoperto (short selling, in inglese) quella pratica speculativa che consente di “scommettere”, guadagnare, non solo sul rialzo dei mercati, ma anche sui ribassi. In pratica, servono a far circolare più denaro oltre Muraglia attirando anche i capitali stranieri. Forse il potere cinese è convinto di poter controllare la bestia, la speculazione finanziaria, che proprio ora sta tirando il collo all’Europa grazie alle stesse pratiche cui la Cina strizza l’occhio. Oppure, semplicemente, il Partito comunista non è il monolite a cui pensiamo noi occidentali, bensì un contenitore nel quale ultraliberisti e ultrastatalisti si scontrano dietro le quinte ma con uno scopo comune: conservare il consenso di quel ceto medio che è la spina dorsale della nuova Cina.

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www.eilmensile.it Sul nostro sito la crisi di Wenzhou in video


di

Luciano Del Sette

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Fausto Giaccone

Una vecchia torre arrugginita, quella della Singer, svetta come una bandiera sulla periferia torinese e sul suo passato operaio. Un viaggio, lungo trent’anni, fra i luoghi che hanno fatto la storia dell’industria italiana e che oggi ricordano solo in pochi


Memorie di fabbrica Stava nascosta dentro un mobiletto basso, in legno, sorretto da zampe corte di ferro scuro. Al centro del mobiletto, un pannello. Lo ribaltavi e lei compariva, come in un gioco di prestigio. Nera, affusolata, un marchio impresso a lettere dorate: Singer, sinonimo, negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, di macchina per cucire. Davanti a una Singer, prodotto e nome di una multinazionale americana, sarte per professione e sarte per necessità familiari cucivano abiti, facevano orli, rammendavano, seguendo il ritmo del pedale che regolava la velocità dell’ago. Anche in Italia. Anche nella Torino degli emigranti scesi dai treni con in testa il sogno del posto in fabbrica. La fabbrica dei sogni si chiamava Fiat. Prima Lingotto, poi Mirafiori. Sull’onda forte di quella immigrazione, nell’area di Torino sud, al confine con Nichelino e Moncalieri, ettari ed ettari di prati e campi furono seppelliti dal cemento dei condomini operai dell’immobiliare Gabetti. Le distanze si annullarono, diventando semplici indicazioni topografiche. A nord della capitale sabauda, le cose andavano diversamente. Se ti mettevi in auto e guidavi verso Borgaro e Caselle, i chilometri scorrevano tra coltivazioni e cascine. Leinì, qualche migliaio di abitanti, era soltanto un paesone agricolo. Ma su quel paesone, aguzzati dai segnali ormai evidenti del boom economico, si punta-

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rono gli occhi industriali della Singer. Niente macchine per cucire, ma frigoriferi e lavatrici da assemblare lungo le linee di produzione di “elettrodomestici bianchi” che la Fiat aveva venduto agli americani. Su un’area di quarantamila metri quadri sorse un complesso industriale fatto di capannoni per il montaggio, un lungo e basso fabbricato adibito a mensa e una palazzina di uffici. Dominava il tutto una torre serbatoio con il marchio dell’azienda. Fu l’inizio di una storia operaia che si concluse nel 1978, passando attraverso esperienze di lotta sindacale, di solidarietà, di idee ancora oggi uniche. Erano scivolate nell’oblio, le ha riportate alla luce il docufilm (termine orribile, ma si dice così) Radio Singer del regista piemontese Pietro Balla. Per riviverle, quelle esperienze, bisogna compiere un viaggio di periferia che poco concede all’estetica e molto alla possibilità di riflettere. Il Lingotto rappresenta un significativo punto di partenza. Entrateci dentro, al di là degli spazi espositivi. Troverete una multisala cinematografica a undici schermi, un centro commerciale abnorme, un hotel pluristellato, un ristorante affacciato su quella che era la pista di collaudo delle auto, la pinacoteca della famiglia Agnelli. L’archistar Renzo Piano ha firmato un recupero costato milioni di euro. Solo le immense e originarie strutture in ferro e acciaio ricordano i rumori assordanti, la fatica, il freddo e il caldo insostenibili delle “catene” quando al Lingotto si facevano automobili. Così, con questa immagine, siete pronti a partire per Leinì. La tangenziale nord annuncia subito che tutto è cambiato, da un bel po’. Mezzo secolo fa potevi pensare a Caselle e a Borgaro come mete di una scampagnata. Oggi non ti accorgi neppure di aver lasciato Torino, se non ci fossero i cartelli stradali a segnalarlo. Dei campi rimangono fazzoletti dietro condomini e villette costruiti con scarsa creatività dai geometri. Le cascine sono mura abbandonate per sempre, altre sono state adibite a depositi, altre ancora trasformate in ristoranti “tipici” o locali da ballo per il sabato sera della gioventù del circondario. Passi in mezzo a non luoghi senza una piazza, affacciati sulle due corsie della strada trafficata; scanditi da insegne di pettinatrici e negozi di abbigliamento, minimarket, fast food, centri commerciali, bar Sport e dell’Angolo (quale?). Ogni tanto la pianura e l’orizzonte si aprono. E allora immagini il mare di Genova e di Savona, che si raggiunge prendendo l’autostrada. Ecco Leinì, Torino è a meno di mezz’ora. Ecco la Singer, cui arrivi soltanto chiedendo a qualcuno dove sia, anzi dove fosse. C’è un’archeologia, identificata dall’aggettivo “industriale”, che tutela e recupera gli edifici storici del lavoro in Italia. La Singer è rimasta tale e quale, con l’eccezione di alcuni muri abbattuti all’interno dell’area. Anche la torre sopravvive. Il suo serbatoio, senza l’insegna, porta le ferite della ruggine. La Singer è anonima, poco meno che brutta. Eppure andrebbe consegnata all’archeologia industriale per la memoria di ciò che ha rappresentato. Quando, mezzo secolo fa, la fabbrica spalancò le sue porte, la prospettiva di un’occupazione diversa dalla Fiat suonava particolarmente allettante. Non servivano operai specializzati per montare frigoriferi e lavatrici. Nel giro di pochi anni, gli abitanti di Leinì toccarono quota undicimila. Duemila e duecento superavano ogni giorno i cancelli della Singer, chiamati all’assunzione addirittura da manifesti affissi nei comuni vicini. Erano in buona


Il narratore della normalità «Sono nato in campagna, a Poirino, un paese nella provincia di Torino. La mia famiglia lavorava nei campi. Era naturale, per me, scegliere di schierarmi dalla parte dei più deboli. L’ho fatto prima con l’impegno politico, e poi con il mio lavoro parallelo di sceneggiatore e regista di cinema. Parallelo, visto che continuo a fare anche il ferroviere». Risponde così Pietro Balla, 55 anni, quando gli chiedi perché, nella sua ormai lunga filmografia, le storie di vita e di lavoro operaie siano protagoniste molto presenti. Che significato ha, oggi, realizzare un documentario che racconta il lavoro, i suoi problemi, le sue lotte? Suona persino un po’ anacronistico, quasi fuori luogo. «Oggi il mondo intorno a noi è molto complesso da capire. Si confonde in un tutto che è spettacolo, a cominciare dalla politica. Le storie, le narrazioni, comprese quelle di tanti giornali, rispondono più ai criteri di marketing che alla realtà. Per questo, quando trovo storie vere, e ce ne sono poche, mi appassiono e cerco di farle emergere. Roberto Saviano racconta fatti gravi e drammatici, che sono sotto gli occhi di tutti e che lui spiega, approfondisce, denuncia. Io mi definirei più un narratore della normalità, di ciò che è stato dimenticato. Faccio un esempio. Quando nel 2007 abbiamo iniziato il documentario Operai, sembrava che sugli operai non ci fosse più niente da dire, che fossero addirittura scomparsi. E invece è venuta alla luce una dimensione fatta di storie che riguardano ancora tutti noi». Nel 2008, al Festival di Venezia, hai presentato ThyssenKrupp Blues. Thyssen, il nome della fabbrica di Torino dove sette lavoratori, il 6 dicembre 2007, sono morti in un incendio. Cinema ed etica. Non hai avuto timore di speculare su una tragedia? «Il film non lo avrei mai fatto se non avessi cominciato a occuparmi della Thyssen mesi e mesi prima. La storia di Carlo Marrapodi, l’operaio protagonista, parte da lontano, è il filo conduttore di una lotta per il posto di lavoro, la descrizione del mondo e del modo di fare politica di un ragazzo meridionale che vive in una grande città. La tragedia nel film rimane sempre sullo sfondo, seppure uno sfondo importantissimo». Radio Singer è il tuo ultimo lavoro, uscito nel 2009. L’invenzione narrativa (l’amore tra Maddalena, l’operaia che trasmette dai microfoni della radio della fabbrica, e Piero, la voce narrante; la data della chiusura della Singer che coincide con il corteo di operai e studenti durante il quale viene dato fuoco al bar Angelo Azzurro causando la morte di un ragazzo) si innesta sui fatti, le voci, le immagini reali di quegli anni. Che significato personale e professionale ha per te questo docufilm, ammesso che la definizione ti stia bene? «Sì, docufilm ci può stare. Anche se detesto un po’ queste categorie create dai palinsesti televisivi. Radio Singer è un passaggio logico nel mio lavoro. Un pezzo di strada non cercato. Mi è piaciuto tantissimo mischiare finzione e realtà. Ci sono momenti in cui il livello della prima è altissimo, e altri in cui altissimo è il livello della seconda. Molta gente mi ha chiesto, e continua a chiedermi, quanto ci sia di autentico e quanto di inventato nel film. E nessuno è ancora riuscito a scoprirlo».

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In queste pagine il reportage fotografico sui quartieri operai di Leinì e Torino


Cinematografia in tuta blu Fitta la filmografia, tra lungometraggi e documentari, che racconta emigrazioni, lotte, periferie operaie dentro la realtà di Torino. Nel 1963, Mario Monicelli gira I compagni, ambientato in una fabbrica di fine Ottocento. Per protestare contro l’ennesimo incidente sul lavoro, gli operai decidono di suonare la sirena di fine turno con un’ora di anticipo. Sarà l’inizio di uno scontro ben più profondo con i padroni, nel quale giocherà un ruolo centrale il professor Sinigaglia. Dieci anni dopo, Ettore Scola racconta in Trevico-Torino: viaggio nel Fiat-Nam, l’amara esperienza del giovane Fortunato Santospirito, arrivato dalla provincia di Avellino per trovare un posto alla Fiat. Gianni Serra firma con La ragazza di via Millelire (1980) una storia che divise pubblico e critica. Betty, 14 anni, figlia di operai meridionali, vive a Mirafiori Sud. Violentata nel corso di uno stupro collettivo organizzato dal fidanzato, decide di vendicarsi. Giovanni (Enrico Lo Verso) e Pietro (Francesco Giuffrida) sono i protagonisti di Così ridevano, di Gianni Amelio, 1998. Sei giornate nell’arco di sette anni, dal 1958 al 1964, descrivono il rapporto tra due fratelli siciliani nella Torino della prima ondata di immigrazione. È del 2007 Signorinaeffe, di Wilma Labate. Emma, figlia di una famiglia operaia meridionale, è impiegata alla Fiat e sta per sposare Silvio, un dirigente dell’azienda. Siamo nel settembre 1980, quando, di fronte all’annuncio di 15mila licenziamenti, gli operai iniziano uno sciopero lungo 35 giorni. Nel corso di quello sciopero, Emma vive con l’operaio Sergio una breve storia d’amore che imprimerà un brusco cambiamento alla sua vita. Notevole anche per qualità la produzione di cortometraggi e documentari. Scioperi a Torino,1962, di Carla e Paolo Gobetti, testimonia uno sciopero nello stabilimento Lancia di Borgo San Paolo, “anticamera” di quella protesta fuori dai binari politici e sindacali che culminerà nell’Autunno caldo del ’69. Tutto era Fiat, 1999, regia di Mimmo Calopresti, miscela finzione e documenti reali. Quattro operai al tavolo di un’osteria ricordano la grande e ormai lontana stagione delle lotte, che un compagno di fabbrica, impazzito, rifiuta di considerare finita. L’uomo gira per Torino gridando slogan e battendo su un tamburo. Alberto Signetto, classe 1954, italoargentino, ha firmato i cinque bellissimi minuti di Weltgenie (1988), video-poesia tratta da Turin di Gottfried Benn e dedicata alla follia di Nietzsche a Torino. Una carrellata indietro percorre lo stabilimento Fiat del Lingotto, ormai in disuso e non ancora trasformato in centro commerciale. E sempre Signetto, con CivicoGarrone73. Sad Song for a Building (2004) viaggia con la macchina da presa tra i quartieri sorti negli anni Sessanta a Torino con l’arrivo degli immigrati, che si trasformarono rapidamente in luoghi di degrado. Il film documenta l’abbattimento di un palazzo di Mirafiori Sud, ricostruendo in parallelo, con varie testimonianze, la vita delle famiglie e l’epopea dell’immigrazione. La sezione “Razza operaia”, appuntamento fisso nell’ambito di Piemonte Movie, festival dedicato ai cortometraggi, ha reso omaggio quest’anno a Giacomo Ferrante, regista di 45 anni il cui lavoro presta da sempre grande attenzione alle periferie sabaude, e in particolare alla Falchera, dove Ferrante è cresciuto. Il suo Real Falchera Football Club (1991) ha ricevuto numerosi riconoscimenti. Altri titoli, Uomo della Pietra (1992), Alzabarriera (1996), Barriera d’Italia. Torino pop (2000), Senza FIATo? (collettivo, 2002), Cassa da vivo. Gli espropriati (2003).

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parte meridionali, ma la presenza dei veneti rappresentava una quota molto significativa. Sugli elettrodomestici, il marchio della multinazionale non compariva mai. Al suo posto, quelli della San Giorgio, della Philips, della Zanussi. Nel film di Pietro Balla, le voci dell’epoca raccontano una vita tutto sommato felice nonostante l’avversione piemontese nei confronti dei “terroni”. Poi arriva il 9 agosto 1975. Gli americani hanno fiutato da tempo il vento della crisi economica, la domanda di frigoriferi e lavatrici è in netta discesa. Che fare? Licenziare, ovviamente. Con una lettera recapitata proprio nel bel mezzo delle ferie estive. Chiudere e svendere, magari con il contentino di qualche posto garantito dalla nuova proprietà. Cominciano mille e più giorni di lotta che entreranno a far parte della storia operaia italiana. I lavoratori si riuniscono in assemblea permanente. Dormono, mangiano, discutono, trascorrono le feste comandate, dentro la fabbrica. E dalla fabbrica escono in corteo, attraversando i campi per andare a Torino, Milano, Roma. Portano lì le voci della loro rabbia, le uniscono a quelle di una rabbia collettiva che crescerà sempre più forte e avrà i suoi interpreti folli nell’Autonomia e nelle Brigate rosse. Anche sui muri della Singer comparirà la stella a cinque punte, e tra gli operai circolerà il fondato sospetto che qualcuno appartenga alle Br. Il 29 novembre 1975 nasce un’altra voce. Viaggia sulle frequenze Fm 93 e 103, si annuncia a chi la ascolta con il nome di Radio Singer, una tra le prime radio libere italiane nate dopo la riforma che ha tolto alla Rai il monopolio dell’etere. L’antenna è sul tetto della parrocchia di Leinì, con la complicità del parroco. Il suo raggio di diffusione copre una decina di chilometri, ma la fama della radio arriva ben oltre. Radio Singer racconta l’occupazione, dialoga con tanti ascoltatori che non sono operai; manda la musica degli Area, di Pierangelo Bertoli, di Joan Baez, di Bob Dylan, della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Sono anni, quelli della Singer in assemblea permanente, dove la parola solidarietà ha un significato ben preciso. E gli artisti che portano un nome famoso la esprimono con la loro presenza, senza pretendere alcun compenso. Così, nella piccola Leinì che sta perdendo ogni speranza nel futuro, danno spettacolo Dario Fo e Franca Rame, Milva, Fabrizio De Andrè, Ciccio Busacca, Ivan Della Mea. Gli IntiIllimani esuli dal Cile, dopo il loro concerto dipingono a tinte sudamericane un muro nel recinto della fabbrica, che la nuova proprietà ha pensato bene di abbattere. Uno spettacolo di strada del Living Theatre attraversa per alcuni giorni le strade del paese, tra lo stupore e il divertimento della gente per quei “capelloni” geniali e incomprensibili. L’avventura umana e sindacale finisce nel 1978, con la chiusura e la vendita della fabbrica alla famiglia De Benedetti. Guerrino Babbini, ex operaio, ha dedicato alla Singer molte pagine del suo libro Quando la fede e la lotta sono di classe, edizioni n.d.r. Abita a Leinì. Gli chiedi se il nome Singer abbia ancora un significato da queste parti, e lui ti risponde: «Lo ricordano soltanto i vecchi come me». La memoria della modernità è sempre troppo corta. Al viaggiatore spetta un compito preciso: trovarla e restituirla. Non importa se nel posto più bello del mondo, oppure a Leinì.

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Cessate il fuoco a cura di

Lorenzo Bagnoli

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Messico Colombia Cessate il fuoco è l’osservatorio mensile delle vittime dei conflitti nel mondo. I dati, che si riferiscono al periodo dal 4 gennaio al 3 febbraio, vengono raccolti da organizzazioni umanitarie o da fonti giornalistiche e quindi non potranno essere esaustivi. Le notizie sui conflitti in tempo reale su: www.eilmensile.it

81 1 32 340 65 301 5 2 45 162 4 54

Egitto Algeria Libia Somalia Etiopia Nigeria Uganda Senegal Rep. Dem. Congo Sudan Costa d’Avorio Mali

Il 24 gennaio Hamad Ismail è diventato il nuovo governatore dello Stato del Darfur meridionale. Da Khartoum, il presidente dell’esecutivo centrale sudanese, Omar al Bashir, ha infatti deciso di destituire il suo predecessore Abdel Hamid Kasha e spostarlo nella neonata provincia dell’Est Darfur. A Nyala, capitale del Sud Darfur, il passaggio di testimone è stato accolto dagli studenti universitari e liceali con tre giorni di manifestazioni. I giovani hanno sfilato per le strade intonando canti che inneggiavano al reintegro del vecchio governatore. Per tutta risposta le autorità di Khartoum hanno ordinato di sedare le proteste con la violenza: almeno tre manifestanti sono stati uccisi dalla polizia. Il neogovernatore Ismail ha cercato di tranquillizzare la popolazione: «Sono solo un servitore dello Stato», ha detto ai giornalisti. «Non voglio fare del male a nessuno».

[reuters/contrasto]

Sudan

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4.331 447

Iraq Israele Palestina Nord Caucaso Turchia Siria

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Yemen Bahrein

vittime

412 531 45 88 41

Afghanistan Pakistan Myanmar India Filippine

Myanmar

Il 26 gennaio la regione settentrionale di Shen è stata teatro di nuovi scontri tra l’esercito indipendentista del Kachin (Kia) e le forze armate di Rangoon. Secondo fonti dei ribelli, nella battaglia sono morti almeno dieci soldati dell’esercito regolare. I ribelli hanno affermato di avere sotto controllo le aree di Namtu, Kutkai, Mandong e Nam Hkam insieme a un altro gruppo di combattenti antiregime: la milizia Kuktai del comandante U Hkun Myat.

Iraq

Sono più di trecento le vittime della guerriglia irachena da quando, il 18 dicembre, le truppe statunitensi hanno lasciato Baghdad. I morti sono soprattutto pellegrini sciiti e membri delle truppe armate irachene. Il 26 gennaio almeno 17 persone sono morte in seguito ad attentati terroristici compiuti in tutto il Paese. Di questi, raccontano fonti mediche e delle forze dell’ordine, almeno dieci sono cadaveri provenienti da Hamia, 50 chilometri a sud della capitale. Intorno all’una di notte, una bomba è esplosa nelle vicinanze delle abitazioni di due fratelli poliziotti, uccidendoli insieme a quattro donne e due bambini. A Kirkuk, cinque poliziotti sono rimasti feriti dall’esplosione di una motobomba. Nell’attacco sono morti due civili.

Yemen

Tornano a farsi sentire i fucili di al-Houthi, movimento sciita sostenuto dall’Iran, attivo nel Nord del Paese. Il 31 gennaio sono morte almeno sei persone in seguito a uno scontro a fuoco con l’alleanza tribale di Hagor, un gruppo armato sunnita. I miliziani di Hagor sono poi passati alla controffensiva in cui hanno perso la vita almeno 13 persone. Intanto le forze diplomatiche degli sciiti hanno cercato una soluzione al conflitto, di concerto con il governo centrale. Il portavoce di al-Houthi, Mohammed Abdul Salam, ha dichiarato: «Per tornare al tavolo dei negoziati bisogna mettere fine, una volta per tutte, alle feroci aggressioni militari contro le zone del Nord dove vive la minoranza sciita zaidita». Venerdì 27 gennaio il presidente Ali Abdullah Saleh si era detto disponibile ad aprire le trattative.


sulle orme della madre pìpol di

Gino&Michele

foto Gaetano [getty images]

Pavano

Nel penultimo numero di E abbiamo chiesto ai lettori di immaginare, a vent’anni di distanza, che fine avesse fatto la figlia del Puttanone, cioè l’erede della chiacchierata signora protagonista, alla fine degli anni Ottanta, di feroci ingorghi in prossimità dell'Istituto delle Orsoline a Milano. Non era un concorso a premi, anche se la tentazione di incentivare la partecipazione ci è venuta, tipo “primo premio una serata al Billionaire, secondo premio due serate al Billionaire, terzo, tre serate e così via”. Nonostante la mancanza di stimoli agonistici, la partecipazione è stata discreta. Riportiamo di seguito il meglio, secondo noi, di quanto giunto. Ripartendo dal già pubblicato contributo della redazione: • La figlia del Puttanone dopo le Orsoline si è diplomata e laureata. Oggi fa l’igienista dentale. • La figlia del Puttanone non ha visto I soliti idioti. Odia il cinema d’autore. • La foto sul passaporto della figlia del Puttanone l’ha fatta Fabrizio Corona. • La figlia del Puttanone ha affittato due locali all’Olgettina, dove ha piazzato la sede del movimento Silvio for residence. • La figlia del Puttanone è stata in India e ha chiesto di visitare la tomba di uno dei suoi miti giovanili: padre Teresa di Calcutta. Per continuare poi con i contributi lasciati da alcuni lettori: • L’erede indiscusso del Puttanone è Lapo Elkann, il figlio che la ricca distratta ha creduto per anni una figlia, segnandone la psiche. Come fedelmente registrato dalle cronache, si aggira e parcheggia tra le balle dei milanesi con il suo Cherokee, interpretando alla perfezione il deboscio della classe digerente. (Mazzetta) • La figlia del Puttanone sta ancora cercando di scoprire chi sia il suo papà. (Roberta) • Mi sa che ha scoperto di essere la figlia del papi... (Ernesto) • La figlia del Puttanone lascia la crosta della pizza anche quando è in un ristorante esclusivo di Nairobi. (Juha) • La figlia del Puttanone parcheggia sulle ciclabili (che al tempo di sua madre non c’erano), vive in un appartamento regalatole (ma non sa da chi) e s’è laureata al Cepu. (Laura) • La figlia del Puttanone accompagna la mamma alla selezione delle velone, posteggia in terza fila perché è così che le ha insegnato la mamma e frequenta tuttora le superiori dalle Orsoline insieme al Trota. (Denise) • La figlia del Puttanone oggi è una suora Orsolina. Guida due tipi di auto a seconda delle targhe pari o dispari: i giorni pari, la Fiat 850 color caffellatte. I giorni dispari, il pullmino 850, sempre Fiat, di colore bianco, e porta a spasso le altre suore per farsi dire: «Tua la suora», dai nostalgici. Non ha ancora capito perché la mamma, un bel giorno, non è più passata a prenderla; quel giorno le suore la adottarono. Sulla scomparsa della madre le voci narrano che sul finire degli anni Ottanta, una mattina verso le 12.45, due loschi individui con passamontagna nerazzurro l’abbiano caricata su un furgone e si siano dileguati. Nessuno intervenne in sua difesa. Il Cherokee Limited T.D. oggi è un monolocale affittato agli studenti a 450 euro al mese (per il posto con il sedile reclinabile). (De..) • La figlia del Puttanone lavora per Emergency, perché a volte i figli ragionano con la loro testa... (Alberto) E con questo augurio sincero lasciamo in pace la giovane dai cospicui natali per i prossimi venti capodanni.

I


la posta di E Cara redazione, non voglio dilungarmi né essere pedante, ma ho trovato davvero triste leggere Casa dolce casa e, nella pagina dopo, la storia del Puttanone. Vorrei argomentare meglio, spiegare perché dare della puttana a una donna che non ci piace appartiene in toto alla cultura che produce il femminicidio (no, non sto dicendo che è la stessa cosa che uccidere una donna o che siete colpevoli di qualcosa che non sia la poca attenzione), ma non credo sia necessario. Credo e spero che non sia necessario. Grazie dell’attenzione. Salma

Ciao, se posso permettermi un consiglio, non mi dispiacerebbe se nel mensile ci fossero un paio di pagine dedicate ai nostri bimbi per sensibilizzarli a riguardo della guerra e della povertà. Io ci provo con la bimba più grande, sette anni, ma mi rendo conto che o è troppo presto o non so se uso le parole giuste. Voi avete a che fare con tante persone sicuramente qualificate che potrebbero riuscire a costruire una storia adeguata ai bambini, ovviamente, magari a puntate così ogni mese la storia va avanti. Da parte mia grazie. Ciao e buon lavoro, Raffaella Ribani

Accettiamo il rilievo sulla poca attenzione. Con qualche precisazione: Gino&Michele creano il personaggio del Puttanone nel 1989. Era uno dei simboli della Milano invadente, aggressiva, “da bere” secondo altre dizioni. L’erede di questo personaggio vintage è la figlia (vedi rubrica in questo numero). Poi, lo scrivono anche loro, stop per altri venti anni. Speriamo di ridiscuterne. Quanto alla cultura che produce il femminicidio, cerchiamo di non alimentarla. Spero che una rubrica fissa qual è Casa dolce casa serva anche a creare sensibilità su questo argomento. (gm)

Complimenti per la rivista, mi piace molto: articoli interessanti, bellissime foto e poca pubblicità. Un suggerimento: un racconto a puntate, come avete fatto nei primi numeri con Camilleri, sarebbe molto gradito. Patrizia Sagripanti

Carissime/i giornaliste/i di E, mi voglio complimentare per l’impegno e l’idea di costruire una rivista “dal basso” basandosi (anche) su consigli, critiche, segnalazioni di lettrici e lettori. Grazie per il lavoro che fate, vi auguro un milione di abbonamenti. Mi permetto di fare alcune critiche alla rivista: - Gli articoli (inchieste, reportage) andrebbero allungati con più particolari perché troppo generici e con l’aggiunta di schede e commenti, altrimenti rischiano di aggiungere poco a quello che già dice altra stampa alternativa e indipendente. Andrebbero diminuiti gli articoli per dare maggior spazio all’analisi, cosa che manca oggi nei media. Oppure si rischia di fare una stampa a spizzichi e bocconi, vedi un settimanale molto autorevole di centrosinistra. - Più commenti ed editoriali per fissare al meglio le notizie importanti in un mare di news che ci arrivano sulla testa. - Magari un formato più piccolo. Così è poco maneggevole. - Davvero troppo sintetiche le pagine culturali e la grafica bianco su nero di alcune segnalazioni non invita alla lettura. Dà fastidio anche se ho un’ottima vista. Alfredo Di Sirio

Ale+Ale

per scriverci: redazione@e-ilmensile.it

C Disegnare l’Europa L’organizzazione di SMACK! Fiera del Fumetto e dell’Illustrazione di Genova bandisce il concorso di illustrazione EurHope – Immagini dal futuro, organizzato in collaborazione, tra gli altri, con E-il mensile. Il concorso ha per tema l’Europa – continente, insieme di popoli, federazione di Stati – che sta delineando il proprio futuro tra mille incertezze e speranze. La rassegna guarda alle sfide sociali e culturali nel Vecchio continente e si rivolge a tutti i giovani under 35 che risiedono nei cinquanta Stati d’Europa. Giovani che costituiscono già ora, più di quanto si sia realizzato tra gli Stati, una comunità vitale e vera. EurHope vuole concentrarsi sull’immaginario di quei cittadini convinti che, insieme ai percorsi economici e istituzionali, l’Europa sarà una realtà forte e positiva quanto più sarà capace di scommettere sulla convivenza tra differenti culture, sulla sostenibilità sociale, ecologica ed economica. I lavori selezionati e premiati verranno presentati alla seconda edizione di SMACK! Fiera del Fumetto e dell’Illustrazione di Genova che si terrà il 19 e 20 maggio 2012 e alcuni saranno pubblicati sul numero successivo di questo giornale. Per le migliori idee vengono messi in palio tre premi in denaro: 1.500 euro per il primo classificato, 1.000 euro per il secondo e 500 euro per il terzo. Info e bando: www.eurhope.net www.smackcomics.it Contatti: info@smackcomics.it

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Fausto Danielli

Siamo una trentina di donne, “le detenute” della sezione femminile della Casa circondariale Sant’Anna di Modena. Inviamo questa lettera a tutta la redazione per ringraziarvi tanto per averci donato l’abbonamento al vostro bellissimo e interessante mensile. Attraverso il vostro lavoro capiamo ogni volta di più di quanto amore ha bisogno il mondo, di quanto aiuto. Alcune di noi conoscevano già l’immenso cuore di quanti per Emergency lavorano nei posti più sperduti del mondo. Faremo circolare il vostro giornale e speriamo di contribuire con questo all’aumento del numero di abbonamenti al vostro giornale. Paola Cigarini

illustrazione


di

Carlo D’Amicis

illustrazioni Felix

Petruška

Ilverso dell’uomo Carlo D’Amicis

Nato a Sava (Ta) nel 1964, vive a Roma dove lavora come giornalista nella redazione di “Fahrenheit“ di Radio3. Ha esordito nella narrativa nel 1996 con Piccolo Venerdì (Transeuropa), cui sono seguiti Il ferroviere e il golden gol (Transeuropa, 1998), Ho visto un re (Limina, 1999), con il quale ha vinto il premio Coni per la letteratura sportiva e Amor Tavor (Pequod 2003). Per minimum fax sono usciti Escluso il cane (2006) e La guerra dei cafoni (2008). Con la stessa casa editrice ha pubblicato anche il suo ultimo libro, La battuta perfetta (2010).

Felix Petruška È nato a Milano nel 1977. Ha disegnato per Diario, Corriere della Sera, il Saggiatore, Isbn edizioni, Feltrinelli, Salani.

In principio erano gli animali, e i cacciatori vivevano della loro morte. Avvolti in pellicce un tempo appartenute alle prede, arrivavano all’alba con i fucili a tracolla e si salutavano con un colpo di mento, strofinandosi le mani. Tacere era la più efficace tra le tecniche con cui miravano a imitare l’unica autorità che riconoscevano sopra le proprie teste: la natura, e l’indiscutibilità delle sue leggi. Niente, nemmeno uccidere, in quelle leggi richiedeva un dubbio, un approfondimento. Per dirla più chiaramente, le leggi della natura non avevano un perché. E questo, una volta stabilito, bastava a legittimare l’imperturbabilità dei volti, la certezza del passo, l’infallibilità della mira. I cacciatori avevano mani di fango e nomi da bestia. E anche chi, un tempo, era stato battezzato con generalità di cristiano, ora si faceva chiamare come l’animale a cui, per indole o fisionomia, sentiva di assomigliare. Leone. Lupo. Orso. Falco. E poi Toro, Vipera, Ramarro, Volpe, Lince, Sciacallo. Erano nomi che non potevi maneggiare così, senza avvertirne il peso. Per me quei nomi equivalevano a orazioni, ma, prima di trovare la forza di pronunciarle, i cacciatori mi avevano già voltato le spalle. Le spalle dei cacciatori erano larghe come querce e, se ti avvicinavi, non c’era modo di sottrarsi alla loro ombra. Da considerare c’è che ero un ragazzo, e che il tempo soffiava dalla mia parte: non è poco, se parliamo di natura. In ogni caso nessuno dei cacciatori aveva intenzione di concedermi ulteriori vantaggi. A causa di questo affronto dell’età, anzi, a noi cuccioli del branco (per quanto cuccioli, giovani o ragazzi fossero parole che nessuno usava, come se fossimo tutti consapevoli della loro provvisorietà) credo fosse destinata una qualche punizione. Sta di fatto che io me l’aspettavo da un momento all’altro, e scrutavo mio padre con preoccupazione. A volte avevo la sensazione che fosse proprio mio padre, la punizione. Mio padre aveva il muso lungo e carnoso, una sacca pendula sul collo e il corpo massiccio sulle gambe esili. Lo chiamavano Alce. La prima volta che chiesi ad Alce il permesso di uccidere un animale avevo dieci anni. Sto parlando, ovviamente, di un altro animale. E sto parlando degli anni di Tre Punti, che scorrono in un tempo a parte. Anche Tre Punti è un luogo a parte. Un luogo fatto di boschi troppo fitti e di case troppo distanti tra di loro e da qualunque altra cosa per meritare un nome. La nostra vita è in mezzo a. Ai margini di. Al confine con. Ogni riferimento, anche il più preciso, è sempre troppo vago per non esaurirsi in un’approssimazione, in una rinuncia, in una rarefazione. In Tre Punti sospesi, appunto, in fondo alla frase. «Cosa vorresti fare, tu?».

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Il verso dell’uomo

«Uccidere un animale». Quando chiedevo qualcosa a mio padre Alce, lui di solito non rispondeva: era il suo modo di risparmiare un no. A volte, però, dopo essersi grattato la guancia, m’invitava a ripetere la domanda. Sapevo, allora, che alla mia voce non era permesso esitare, né incrinarsi. Era una specie di prova, superata la quale Alce usciva lentamente dal suo torpore, sbatteva le palpebre e mi faceva cenno di seguirlo. (Quasi tutto, a Tre Punti, è una specie di prova). «Se ti senti sola chiama il Toro», suggerì Alce a mia madre stipando la cartucciera. Sembrava una premura eccessiva: in fondo si trattava semplicemente di andare, uccidere e tornare indietro. Mentre mio padre inforcava la doppietta e richiamava i cani, io infilai gli stivali da pioggia. Cominciavano a starmi stretti, come i miei anni. Sparare, già allora sparavo bene. Sul retro della casa crivellavo barattoli di birra con una carabina Kral Magnum ad aria compressa. Quando i barattoli erano pressoché disintegrati, nell’attesa che mio padre riempisse di lattine il pianale del pick-up (le provviste, a Tre Punti, non si fanno più di una volta al mese) mi esercitavo con un arco in legno di corniolo. Assieme al tasso e al sambuco, il corniolo è il legno più adatto per un arco. Era stato Toro a intagliare il mio, levigandolo con cura maniacale nelle lunghe ore che trascorreva sotto la nostra veranda. Quando fu pronto, applicò sul dorso un tendine di bue, verificò il bilanciamento dei flettenti e poi venne da me con un nodo sulle labbra che stringeva l’impaccio di un sorriso. «Il tiro con l’arco insegna a pensare senza pensare», disse. «A volere senza volere», più altre affermazioni enigmatiche dalle quali trassi soltanto che l’arco era mio. Alce si allontanò dalla catasta di tronchi e venne a vedere cosa stava succedendo. Camminava storto, sbilanciato dal peso della scure che oscillava nella sua mano destra. Con la sinistra si asciugò il sudore dalla fronte. Se avesse avuto un’altra mano si sarebbe strizzato l’uccello, come faceva ogni volta che rivolgeva a Toro la parola. «È molto gentile da parte tua», balbettò. «Gentile è una parola del cazzo», disse Toro cambiando subito espressione. Quindi chiese a me se là intorno l’Agnello vedesse qualcosa di gentile. Toro mi chiamava quasi sempre Agnello, ma a volte anche Pulce o Pidocchio. «Voglio dire – s’inserì Alce – che non dovevi disturbarti per mio figlio». Raramente i cacciatori si guardavano negli occhi. Preferivano tenere bassi i loro sguardi, come se fossero costantemente sotto mira. Sembravano ciechi, almeno finché non arrivava il momento di sparare. Toro tagliò corto: «Non è detto che sia un disturbo. Così come non è detto che Pidocchio sia tuo figlio». Mentre Alce e Toro parlavano, una donna apparve dietro la finestra. Era mia madre (poco importa come si chiamasse quando non lo era) e quelle che posò sul davanzale – a prima vista dei ferri da maglia – scintillarono al sole come soltanto le frecce del mio primo arco avrebbero potuto scintillare: questo sì che era importante. Mia madre si chiamava Cagna. O almeno, bisbigliando tra loro e con grida selvagge che riecheggiavano per giorni dentro il bosco, così Toro e Alce ne invocavano la muta e devota presenza. Se mia madre fosse contenta o disperata, era sempre difficile capirlo. Una volta – prendendola alla larga, come la questione impone – le chiesi qualcosa a proposito della felicità. Lei – mettendomi alle strette, come la questione consente – mi domandò se, secondo me, una donna che il proprio uomo chiama Cagna può essere felice. Io posso camminare nel bosco per ore (qualsiasi cosa sia, la felicità è una cosa che si muove), ma all’improvviso mi sentii stanchissimo. «Cagna non è un brutto nome», dissi sprofondando nella poltrona di fronte alla sua. Lei fissò il fuoco nel caminetto. «Hai ragione», sospirò. «Del resto, quale animale non è bello?». (A Tre Punti, a riguardo, eravamo tutti d’accordo: la bellezza degli animali è insostenibile. Non era nient’altro che questo, in fondo – la loro intollerabile perfezione – che ci spingeva a ucciderli). La Cagna scomparve dietro le tende e Toro, con passo agile, da ladro, la seguì dentro casa. Mio padre, che il suo essere uomo se lo trascinava come una palla al piede,


lasciò cadere la scure, si strizzò l’uccello e arrancò anch’egli verso la camera da letto. Le punte delle mie frecce erano in acciaio, con la cocca intagliata direttamente lungo l’asta. Tesi l’arco con tutte le mie forze e le scagliai rabbiosamente contro il tronco di una farnia. Eccitato da come le frecce si conficcassero, ma anche deluso dell’arrendevolezza con cui la corteccia si lasciava oltraggiare. (Era questo, in effetti, che tanto ci stancava: l’impulso a sovrastare la natura si accompagnava sempre al bisogno di non sentirla del tutto sottomessa. Perché noi eravamo ancora, allo stesso tempo, la civiltà e il creato, l’uomo e l’animale. Eravamo l’arma, ma anche il bersaglio). Mi avvicinai all’albero per riprendermi le frecce. Cominciai a strattonare. Puntai i piedi. Provai ancora con entrambe le mani. La vecchia farnia tratteneva tra le rughe quelli che adesso sembravano spilli. Alla fine vennero Toro e Alce ad aiutarmi. Mio padre aveva in mano un barattolo di birra e si sforzava, con scarsi risultati, di non ruttare. Si appoggiò alla carriola e si mise a guardare Toro che sudava intorno alle mie frecce. «Vuoi che ti aiuti?», chiese quando la birra fu finita. «In fondo si tratta delle frecce di mio figlio». Toro fece finta di non sentire. Aveva le scarpe slacciate e la camicia fuori dai pantaloni. La resistenza della farnia cominciava a innervosirlo. «Hai delle pinze, nel gazebo?». «Cosa?». «Delle cazzo di pinze. Una tenaglia». La carriola scricchiolò sotto il culo di mio padre. Era un culo grosso, sempre più flaccido (mio padre invecchiava). Con una voce lagnosa, leggermente alticcia, Alce chiese chi mai non possedesse una tenaglia. «Mi hai preso per un virgolettato?», protestò dondolando la testa. Virgolettati era uno dei modi con cui chiamavamo quelli che vivevano al di là del bosco: nelle città, o in qualunque altro luogo avesse un nome. Ma bastava dire gli altri, e ci capivamo comunque. «Allora vai a prendere una corda e le chiavi del pick-up». Ci sedemmo sull’erba e guardammo mio padre trascinarsi verso il garage. Farsi sballottare senza una spiegazione dalla richiesta di un paio di tenaglie alla Ford Ranger non lo turbava più di tanto. Toro era il più forte e comandava: a Tre Punti era semplice capirsi. Piazzarono il furgone a retromarcia a due metri dalla farnia. Intorno al gancio del pianale la corda l’annodò mio padre, ma alle frecce ci pensò Toro con un perfetto scorsoio a gassa d’amante. La prima, già fiaccata dai nostri strappi, non oppose troppa resistenza, ma per sradicare le altre Alce dovette portare il motore a tremila giri: pur scheggiando di taglio le occhiate che mio padre gli lanciava dal finestrino, si capiva che anche Toro era sbalordito. Alla fine l’albero sputò le mie frecce, ma non prima di averne masticato la punta e deformato il fusto. «Che razza di muscoli ha questo ragazzo?», ridacchiò nervosamente Alce scendendo dal furgone. Portava l’attenzione sul mio braccio per distoglierla dal terrore che ci gelava il sangue: l’albero s’era impadronito della mia forza e l’aveva moltiplicata. Imponente, solenne, appena scalfito dai miei sfregi, se necessario avrebbe ripetuto all’infinito il suo messaggio, perché infinita era la muta potenza che conteneva: fai qualcosa alla natura, e lei te la restituirà centuplicata. Tornai a sparare alle lattine di birra: si ammassavano sul retro della casa sempre più numerose. Il corpo di Alce si era gonfiato, ma la sua voce rimaneva sottile: una pioggerellina – a volte sentimentale, altre soltanto tediosa – che ogni tanto batteva sui vetri. Eppure, a suo modo (il modo ostinato dell’acquerugiola che cerca d’infiltrarsi dentro casa), rimaneva mio padre. Certo, se a Tre Punti avere un padre fosse stato ciò che è nel mondo dei virgolettati – una farsa, mi dicono – sarebbe stato possibile calare il sipario. Ma la natura non prevede recite e, sebbene si possa dire che Alce fosse ormai fuori parte, il suo ruolo

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rimaneva comunque vita vera (quello che intendo, semplicemente, è che un padre resta un padre anche quando smette di comportarsi come tale). Si comportò da padre, il vecchio Alce, quando mi portò nel bosco a uccidere il mio primo animale? Interrogato a proposito, qualche mese dopo, Toro sostenne che – a parte il dettaglio degli stivali, sul quale avrebbe dovuto essere più attento – quel vecchio cornuto non avrebbe potuto comportarsi meglio. «Comportarsi bene e comportarsi da padre sono due cose diverse», obiettai io. Anche se continuava a chiamarmi Agnello, ero diventato un adolescente accigliato, per niente mansueto. «Comportarsi da figlio e comportarsi male, invece, sono la stessa cosa?». Non era una frase da Toro. Ma, siccome fu pronunciata al funerale di mio padre, forse si spiega con il fatto che davanti alla morte gli animali si assomigliano un po’ tutti. Comunque sia, il giorno in cui Alce mi portò nel bosco a uccidere la mia prima preda, per me una vittima valeva l’altra. Anche per questo indossai degli stivali troppo stretti: ero convinto che si trattasse solo di mirare, sparare, e rientrare per l’ora di colazione. Partimmo che il bosco profumava ancora di notte. Era un sentore che, nei tratti più fitti, non accennava a svanire. Nonostante fossimo a decine di chilometri dal primo centro abitato, ristagnava odore di chiuso: una stanza piena di alberi che nessuno apriva mai. Alce mi camminava davanti. Sarebbe bastato allungare la mano per toccare la Beretta Vittoria a canne lisce che gli dondolava sulla schiena. Dietro di noi ansimavano un bracco da ferma e uno spaniel da riporto. Dove stavamo andando? C’era qualcosa, nella marcia di mio padre, che non faceva pensare a una meta, ma solo alla necessità di allontanarsi il più possibile dal punto da cui eravamo partiti. E invece, all’improvviso, la macchia si diradò, la terra diventò fango, e davanti ai nostri occhi brillarono dorati i riflessi di un lago (bastò guardare meglio, e si rivelò per ciò che era: uno stagno, una palude, diciamo pure un acquitrino). «È questo il posto?», chiesi ad Alce. Lui si sfilò la doppietta dalla spalla e me la porse, distrattamente, mentre i cani affondavano il muso nell’acqua putrida. Di fronte a noi, al centro dello specchio, galleggiava placido uno stormo di uccelli. Ogni tanto qualcuno di essi inarcava il collo e immergeva il becco. Per quanto ce ne possa essere in natura, c’era pace. (Cominciava davvero così il rito solenne di cui i cacciatori si riempivano la bocca davanti al fuoco? S’impartiva in questa quiete, il sacramento della morte?). Ci nascondemmo in una delle botti che i cacciatori avevano mimetizzato tra i cespugli: concepite come strategiche trincee, mi fecero piuttosto l’effetto di una latrina. Alce si sedette sul fondo del tino, incrociò le braccia e disse: «Fai con comodo». All’improvviso ebbi la sensazione che uccidere fosse come pisciare: una cosa semplicissima se la fai da solo, ma quasi impossibile se qualcuno ti guarda. Nel metro quadro del nostro nascondiglio la schiena di mio padre premeva sulle mie ginocchia, costringendomi a imbracciare il fucile in modo innaturale: mi stava tra i piedi, in tutti i sensi. «Hai idea di come farle avvicinare?», mormorò dopo oltre mezz’ora di niente. All’epoca ignoravo completamente l’esistenza degli stampi motorizzati ad ali girevoli, dei richiami vivi e perfino dei semplici Hubertus a fiato. Tutto quello che sapevo era come premere il grilletto. E l’avrei fatto subito (a dirla tutta, nonostante la distanza, con la spavalda convinzione che le avrei prese, che qualcosa, là nel mucchio, era destinata a morire per me) se solo non avessi avuto alle calcagna quel rottame che a ogni ansito trasformava in ruggine il mio piombo. Io sparo, pensai, e la facciamo finita. Ma era pur sempre di mio padre, quel respiro affannoso. Quello sguardo che dal basso in alto mi studiava. E, per quanto remota, l’eventualità di fallire sotto i suoi occhi trasformava la mia posizione nei confronti della preda da quella di implacabile cecchino a faccia dello stesso dado. Innervosito, me la presi con le oche. «Oche?», cavillò Alce. «Io non ho mai visto un’oca, in questo lago». Sul fondo della botte ristagnava un dito di melma. Mio padre ci sprofondava come se il culo non fosse il suo. Insinuò che non sapessi distinguere un’oca da un’anatra, e per sincerarsene si tirò su aggrappandosi ai rampicanti che tracimavano nella


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botte: all’improvviso ebbi la sensazione che preferisse non toccarmi. «Anatre», confermò scuotendo la testa. «Alzavole, per la precisione. Qualche marzaiola e laggiù, sembrerebbe, un germano reale. Ma per te – si mise una mano sul petto, come se gli facesse male il cuore – non sono altro che oche». In altri momenti, se non avessi avuto un fucile tra le mani, avrei certamente abbassato lo sguardo e mi sarei vergognato. Non abbassai nemmeno la canna, invece, e a brutto muso gli risposi che – oche, anatre, germani – io ero là per ammazzare, non per classificare le specie: «Finché non le mettiamo in pentola, per me non fa nessuna differenza». Alce sospirò, come davanti a un lavoro che bisognava ricominciare daccapo. Sarebbe stato più onesto ammettere che quel lavoro – sensato o no – lui non era in grado di farlo, e lasciarmi libero di sparare a chi volevo. Ma mio padre non aveva ancora capito che l’ordine naturale delle cose lo stava sacrificando. O, se l’aveva capito, si aggrappava alla sua uscita precludendomi l’accesso: sfortunatamente, la porta era la stessa. «C’è una regola», mi disse sul barchino che dalla botte ci riportava a riva. «Non si uccide ciò che non si conosce». Mentre le anatre – o quello che erano – starnazzavano al nostro passaggio, pensai che non sarebbe stato un problema: mio padre lo conoscevo fin troppo bene. Nella mia testa lo uccisi a ogni passo: io dietro, con il cane alzato e l’arma puntata sulla sua schiena, e lui davanti come un prigioniero diretto al patibolo. Nella sua testa, invece, suppongo che quella dovesse essere una marcia propedeutica alla vita: un supplizio che mi ci portasse dentro più indurito, ma che per il momento serviva solo a farmi venire i calli ai piedi. Per alcuni chilometri non ci rivolgemmo la parola. Alce indicava le piante – acero di monte, faggio, pioppo tremolo – e ne scandiva il nome a voce nemmeno troppo alta, come se toccasse a me allungarmi per afferrarne il senso. Nel folto del bosco, i rami che scostava per aprirsi il passaggio mi ritornavano indietro come colpi di cinghia. Alla partenza solo un po’ striminziti, avevo l’impressione che gli stivali fossero diventati una tagliola: come se lungo la strada si fossero rimpiccioliti, o – più probabilmente – come se i miei piedi fossero cresciuti. Anche le braccia, mi sembrava, sostenevano il fucile con minore sforzo. Quando, alla destra del sentiero, crepitò uno stormire di fronde, il calcio della doppietta ruotò tra le mie dita con la leggerezza di una carta che dovrebbe predire il tuo futuro. Snella, flessuosa, striata di nero sul dorso rossastro, una bestia si bloccò nel fogliame. La coda folta, la pupilla accesa. Non distava più di quindici metri dal mio mirino. Chiusi l’occhio sinistro. Ma anche così, sul lato cieco, sentii martellare in mille fosfeni impazziti lo sguardo di mio padre. (C’è una regola: non si uccide ciò che non si conosce). Era la prima volta che la vedevo. Era sempre stata lì, nella mia testa, nei miei sogni, nei disegni che orgoglioso mostravo alla Cagna. Ma quella sovrapposizione, quella pur elementare operazione che consisteva nel far combaciare i contorni della vita fuori e dentro di me, comportò una fatale esitazione. L’animale raddrizzò le zampe, rimbalzò in avanti, scartò di lato e infilandosi tra i rovi in un attimo scomparve. «Una volpe!», ringhiai agitando la canna come una prosecuzione del mio nervo ottico. Il dito a uncino contratto sul grilletto, frugavo tra i cespugli come sul fondo di una borsa. La mia disperazione, sospesa tra lo stupore e l’indignazione, era quella di un derubato. «Volpe crucigera», precisò mio padre tutto d’un fiato. «Insolitamente diurna. Probabilmente maschio. Dieci chili di furbizia». Fu come se mi stesse dicendo che sì, il braccio era svelto, ma non contava niente se non era pronto anche il pensiero. Prima di rassegnarmi d’averla persa perlustrai il suolo palmo a palmo. E anche dopo, tutto quello che riuscii ad accettare fu che la volpe (la mia volpe) avesse trovato una tana dove infilarsi. Una cosa è nascondersi, infatti, e un’altra è fuggire: se trova il modo di occultarsi è furba la preda, ma quando riesce a scappare è stupido


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il cacciatore. Finché mi spinsero la rabbia, la ribellione, e l’illusione che l’una e l’altra potessero aiutarmi a stanare l’animale, Alce mi lasciò fare: non aveva che l’esperienza, a suffragio della sua autorità, e tutto ciò che rimarcava la mia imperizia giocava a suo favore. È un gioco, quello del maestro e dell’allievo, destinato sempre a finire, e spesso male. Ma se c’è una cosa che mio padre sapeva fare, era certamente resistere, temporeggiare, impantanarsi con tutto l’avversario: piantò le sue larghe natiche sull’erba, estrasse dal tascapane una lattina di birra e un pezzo di formaggio e si godette lo spettacolo della mia frustrazione. «Non voglio mangiare», mugugnai prima che me lo chiedesse. Quando alla fine accettai lo spicchio di una mela, e con esso di arrendermi all’evidenza – l’avevo persa: persa per sempre, maledetto il suo dio! – le sottili lame di pulviscolo con cui il sole trafiggeva il mio tormento avevano ormai lasciato il posto a un’opaca foschia. Alce consultò la bussola e disse che dovevamo affrettarci: il bosco chiudeva. Ci avviammo verso l’uscita a mani vuote: le mie, in realtà, erano anche piene di graffi, per tutti gli arbusti in cui m’ero addentrato. A parte i miei piedi, che urlavano, lungo il ritorno da quell’andata a vuoto tutto tacque tra me e mio padre. Aspro, amaro, non riuscivo a mandare giù il boccone, e passo dopo passo continuavo a ruminare mela e delusione nello stesso morso. La fatica stava ai miei pensieri come la nebbia ai profili degli alberi: li percepivo quel tanto che bastava per girargli intorno. Per oltre un’ora, anche Alce dovette rinunciare alla sua ossessione di dare un nome a tutto: bosco e solo bosco, era l’unica cosa che si può dire di ciò che ci circondava. Poi – un ramo, il silenzio, la mia infanzia – qualcosa si spezzò, e senza che me ne accorgessi mi ritrovai un’altra volta il fucile stretto tra le mani. La sua canna era la mia erezione, puntarla sulla preda un istinto sessuale: era il piombo l’unico modo che avevo per penetrarla, per fondermi con essa, per lasciare dentro la sua primitiva bellezza una traccia di me. Qualcosa di insopportabilmente vivo vibrava ancora nel fogliame. «Il nome! Il nome!», pretese subito mio padre. Col cuore in gola, io nemmeno riuscivo a localizzarlo. Lo sentivo strisciare nell’erba ed era come se la natura strisciasse su di me. Il tempo, l’animale, la voce del vecchio Alce, per non parlare dei movimenti del fucile: tutto procedeva a scatti. Violenti e rapidissimi strattoni che ci strappavano a qualcosa. Per qualche motivo caddi in ginocchio: pregare, non avevo mai pregato in vita mia, ma a mezzo metro dal suolo la nebbia lasciava un’intercapedine tra la terra e il cielo. Là dentro la vidi (e la vidi, e la vidi ancora): la vidi tre volte perché l’occhio mi batteva, per quanto mi sforzassi di tenerlo spalancato si apriva e chiudeva come un cuore pulsante, come una porta nella quale infilarsi, come la gola di mio padre che ancora mi diceva: non puoi ammazzare ciò che non conosci. Mi gettai in avanti, ventre a terra, le mani giunte sul grilletto. Il mirino era la cruna d’un ago. Dissi: «Lince», e vi sparai dentro una rosata di pallini calibro 20. (A sentire Toro, il colpo di fucile non è niente di più e niente di meno che un verso: il verso dell’uomo. Come il ruglio dell’orso o il ruggito del leone). La preda lanciò un grido che sembrava umano. Un fiotto di sangue schizzò verso il cielo. Io rimbalzai all’indietro. Seguito dai cani, vidi Alce precipitarsi sul corpo agonizzante, frenare, poi aggirarsi a piccoli, frenetici passi lungo un perimetro invalicabile (appena esplosa, la morte scotta troppo per metterci dentro i piedi). «Lince?», ripeteva eccitato. «Sei sicuro? Una lince?». E intanto stringeva il cerchio intorno all’animale. A quattro zampe, coperto di fango, io sputavo terra sulla terra e tentavo affannosamente di risalire la corrente del violento contraccolpo. L’avevo presa, certo. Ma qualcosa aveva preso anche me. E questo qualcosa mi tratteneva, mi stava addosso come a volermi ricordare che ora gli appartenevo. «È ancora viva?», chiesi. La parola morte mi sembrò all’improvviso insostenibile.

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Ritto accanto alla preda, a capo chino, Alce distolse lo sguardo dai suoi occhi sbarrati e mi ordinò di raccogliere la doppietta: il cacciatore non sopporta la vista di un fucile per terra. Fu il calore della canna, credo, a impedirmi di svenire. Barcollai fino alla mia prima vittima, piantai l’arma tra le gambe divaricate e impugnandola come una bandiera (era solo un bastone a cui m’aggrappavo, in realtà), abbassai gli occhi e la fissai. Col cazzo che era una lince. Io le linci le conoscevo (abbastanza). Quello era – e non riuscivo a dirlo – né più né meno come i tanti che circolavano per casa e a cui la Cagna lasciava, sotto il porticato, una ciotola di latte e il pane duro. Selvatico, certo, ma pur sempre un gatto. Alce lo toccò con la punta dello stivale. La testa era ridotta a un poltiglia. Come se fossero consapevoli che qualcosa era andata storto, i cani lanciavano secchi latrati e non si avvicinavano. Non sapevo cosa fare. Non sapevo, soprattutto, come sentirmi. «Hai una buona mira», disse mio padre. Ma questo era già noto. Adesso si trattava di appurare se un gatto (gatto selvatico, felis silvestris – specie solitaria, territoriale, carnivora, ottimo pescatore, sette o otto chili di peso per ottanta centimetri di lunghezza testa-tronco) poteva essere annoverato come preda. E se, di conseguenza, io potevo considerarmi a tutti gli effetti un cacciatore. «La natura va come deve andare», disse ancora Alce. Che cazzo voleva dire? Quella mania che avevano a Tre Punti di non farsi mai capire! Il breve discorso che seguì, da cui ricavai soltanto che noi siamo animali come gli altri, non risolse nessuno dei miei dubbi. Ma almeno fu una passabile orazione funebre per il povero gatto: Alce la pronunciò con il cappello in mano. Poi svuotammo il tascapane di ciò che era rimasto – un’ultima lattina, che si scolò mio padre, e una stecca di cioccolato alla quale m’attaccai con voracità nevrotica – e dopo averla avvolta in un sudario facemmo posto alla salma. «Salma sarebbe solo per gli esseri umani», mi corresse Alce. «Ma fa lo stesso». Era un cacciatore che non metteva piede più di una volta al mese nel mondo dei virgolettati, giusto per ritirare la pensione d’invalidità e caricare di Heineken il pianale: eppure a volte mi stupiva per le cose che sapeva. La strada per tornare la sapeva così e così. Io camminavo male: da una parte il fucile, che non volevo mollare, e dall’altra la preda, o quello che era. («Devi portarla tu», tagliò corto Alce). Il suo sangue mi sgocciolava sul fianco e scivolava dentro gli stivali, dove si confondeva con il mio: le vesciche, alla fine, erano scoppiate come tutto il resto. Più che la bussola, quando venne la sera, ci guidò il filo di fumo che usciva dal comignolo. Sentimmo in lontananza il ronzare del gruppo elettrogeno sul retro della casa e mia madre che gemeva sul tavolo della cucina tra le braccia del Toro. Poi un rumore affilato, come una lama che incideva la notte. Era il miagolio dei gatti che, acciambellati sulla soglia, salutavano il nostro ritorno.

C


Teatro

La parola ai testimoni di

Simona Spaventa

Non sono molte le occasioni in cui uno spettacolo teatrale dimostra in scena la sua necessità al punto da diventare un “cult”. È successo, e per nostra fortuna continua a succedere, a L’Istruttoria di Peter Weiss nell’allestimento del Teatro Due di Parma, diretto da Gigi Dall’Aglio, che dal 1984 torna in scena almeno una volta l’anno per raccontarci la vita nel campo di sterminio di Auschwitz, le torture e i crimini nazisti, con le parole che Peter Weiss ascoltò da 409 testimoni – 248 dei quali erano sopravvissuti di quel lager – nei 183 giorni del processo di Francoforte, tra il 1963 e il 1964. Torna in scena – quest’anno a Milano, dal 13 al 25 marzo al teatro Elfo Puccini – riunendo sul palco la stessa compagnia di allora: attori che nel frattempo sono cresciuti, o magari hanno anche preso altre direzioni come Milena Metitieri, oggi psicologa, che lo continua a fare «perché da L’Istruttoria non si sfugge, non sai se è più lezione per te o per gli altri», come raccontò nel 2008 quando la pièce venne messa in scena in Israele, dove la Shoah resta di fatto irrappresentabile. E L’Istruttoria la rappresenta, eccome. Ma ciò che ne fa un caso unico, un rito doloroso eppure, forse, catartico, è la scelta di rappresentarla nella sua quotidianità spicciola, nei gesti atroci diventati comuni, orrore “normalizzato” dall’istinto di sopravvivenza, dalla capacità, nonostante tutto, di rassegnarsi. Tutte le parole sono tratte dai verbali del processo, sono esatte, asettiche, ma Weiss le trasfigura in versi, componendo un oratorio laico in undici episodi e tre cantiche che guarda a Dante. La regia di Dall’Aglio, essenziale, chiama gli spettatori alla partecipazione: li introduce nei camerini dove si preparano gli attori, li fa attendere in piedi come fossero sulla banchina del treno, prigionieri ebrei da selezionare. Poi li fa sedere sui seggi del tribunale, mentre sul palco una parete nera si fa muro per le fucilazioni o porta verso le camere a gas. Senza retorica, per non dimenticare la banalità del male e la sua precisa, diligente atrocità. L’Istruttoria di Peter Weiss, regia Gigi Dall’Aglio Teatro Elfo Puccini, Milano, dal 13 al 25 marzo

Cinema

Domani

Malattie immaginate diiBarbara

Sorrentini

La psichiatria ottocentesca descriveva l’isteria come una forma di nevrosi esclusivamente femminile, che si manifestava attraverso sintomi sensoriali e motori tipo l’eccitabilità, accessi nervosi, depressione, angoscia, scoppi di ilarità incontrollata (e immotivata). E ci possiamo aggiungere anche ribellione, testardaggine, sfrenato desiderio di libertà e persino sete di giustizia. Hysteria, il film di Tanya Wexler, parte da qui. Nella Londra vittoriana, tra donne dell’alta società e medici audaci si sperimenta la cura all’isteria, quella che riteneva utile per la guarigione di queste donne sventurate lo sfregamento delle loro parti genitali, fino al parossismo. Termini scientifici, adottati senza malizia dai medici autorevoli dell’epoca e che hanno offerto uno spunto interessante alla regista americana per ritrarre la visione discriminatoria e inesatta nei confronti delle donne. Nella cronistoria di questo sintomo, che verrà sdoganato in parte da Sigmund Freud fino a scomparire dall’elenco dei disturbi mentali soltanto nella seconda metà del Novecento, si scoprono barbarie, come la clitoridectomia (rimozione chirurgica, totale o parziale, del clitoride), praticate impunemente sulle donne. Hysteria è una commedia in costume, con rimandi al cinema raffinato di James Ivory, ma lo sguardo è da suffragetta. Non a caso, da una parte c’è il giovane medico Joseph Mortimer Granville (Hugh Dancy) assunto dal luminare dottor Robert Dalrymple (Jonathan Pryce) e promesso sposo alla figlia “buona” di quest’ultimo; e poi c’è l’altra figlia di Dalrymple, quella “strana” (e forse anche un po’ isterica), Charlotte (l’ottima Maggie Gyllenhaal), che fa la volontaria in una casa per poveri e chiede costantemente aiuto a Granville per curare i suoi ospiti nullatenenti. E mentre lui si strazia il polso a furia di massaggiare donne borghesi e fondamentalmente insoddisfatte della propria vita, Charlotte lo invita a occuparsi di chi ne ha veramente bisogno. E invece no, lui arriva persino a brevettare uno strumento elettrico, che verrà poi chiamato volgarmente vibratore, per alleviare gli stati d’isteria e i dolori al polso del medico curante, con l’aiuto dell’amico inventore Edmund St. John Smythe (Rupert Everett). Il punto di vista del film, suggerito dalla Wexler, è quello di Charlotte, chiaramente espresso durante un delirante processo cui viene sottoposta per eccesso di ribellione che, grazie all’attenuante dell’isteria, si concluderà con la condanna all’asportazione dell’utero, come previsto nei casi più acuti. Hysteria, dal 24 febbraio


di Raul

Pantaleo

«Sviluppo infinito all’interno di un mondo finito è assurdo come dire crescita infinita». È un’affermazione di qualche anno fa di Serge Latouche, economista e filosofo francese, diventata oggi tragicamente profetica. Perché la crisi che stiamo vivendo a livello planetario, non è solo di tipo finanziario ma anche valoriale e sociale. È una crisi che rischia, però, di essere pagata principalmente dai segmenti più deboli e indifesi della popolazione. Ma quella che viene percepita da molti come una sorta di “catastrofe planetaria”, potrebbe essere l’occasione per iniziare a investire su modelli di sviluppo alternativi iniziando a riformare le basi materiali e culturali delle società “sviluppate”. È quello che il grande teorico francese definisce approccio teorico alla “decrescita”, un processo che implica, come primo passo, la drastica diminuzione degli effetti negativi della crescita, per poi proseguire con lo sforzo più complessivo di critica alla modernità attraverso una fase di liberazione dal predominio dell’economia e della tecnologia. Un presupposto teorico, quasi utopico di cambiamento dei nostri stili di vita, basato su altre e più sostenibili priorità. Anche il campo della costruzione, negli ultimi anni, è stato investito da fenomeni di sviluppo rapidissimo, incontrollati e spesso incontrollabili, passati attraverso l’adozione di sistemi costruttivi estremamente sofisticati, performanti e quindi estremamente costosi; diventati così complessi da aver generato una sorta di dipendenza tecnologica che ha fatto perdere di vista fattori di buon senso quali la riparabilità, la durabilità, la semplicità d’uso e applicazione, o più semplicemente la reale necessità. Per i sostenitori della decrescita, è invece indispensabile intraprendere un percorso di semplificazione e riduzione anche nel campo dell’edilizia, partendo proprio dal concetto di necessità. Un buon esempio da citare potrebbe essere il quartiere BedZed (Beddington Zero Energy Development), progettato dall’architetto Bill Dunster nei sobborghi meridionali di Londra. Qui sono state applicate, in forma sperimentale, le migliori pratiche in termini di edilizia sostenibile. Gli accorgimenti utilizzati a BedZed vanno dai muri mantenuti sottili per consumare poco materiale, all’uso di grandi finestre per consentire una buona illuminazione diurna senza dover ricorrere all’elettricità. Il condizionamento estivo a BedZed è stato bandito: l’aria naturale viene canalizzata e captata da grandi camini eolici in un unico punto all’interno della casa, per rinfrescarla in estate e riscaldarla d’inverno. Al di là delle interessantissime applicazioni tecnologiche, al centro di tutto il progetto, però, c’è il tentativo di educare a stili di vita attenti ai consumi, una nuova forma di eco-consapevolezza che sarà la base di una futura riflessione sul tema dell’abitare la decrescita. A chi volesse saperne di più, si consiglia di non perdere la terza Conferenza internazionale sulla decrescita per la sostenibilità ecologica e l’equità sociale, che si terrà a settembre a Venezia.

Rete

Architettura

La lezione di Latouche

Diritto di navigazione di

Arturo Di Corinto

«Internet non è un diritto umano». Questa dichiarazione di uno dei “padri di internet”, Vinton Cerf, ha suscitato moltissime critiche. La principale argomentazione di Cerf è che internet, in quanto tecnologia, sia solo un mezzo e non un fine. Sbagliato. Internet non è un semplice mezzo, ma un ambiente di interazione che oggi si identifica immediatamente con la possibilità di comunicare. E la comunicazione è un bisogno umano basilare, un processo sociale fondamentale e l’essenza di ogni organizzazione sociale. Comunicare significa conoscere, lavorare, emanciparsi dal bisogno, dalla povertà, dall’oppressione politica e religiosa. Perciò internet è uno strumento primario per ottenere il rispetto dei diritti fondamentali, come la libertà di parola e il diritto al lavoro. La democrazia politica infatti non può fare a meno della democrazia economica. Internet è la più grande agorà pubblica della storia e permette di esercitare la democrazia in forme e numeri prima impensabili, garantendo trasparenza, confronto, partecipazione. Come farebbero altrimenti gli abitanti dei villaggi cinesi a denunciare la deviazione di un fiume che asseta le loro campagne in un Paese che non rispetta la libertà di stampa? Ma non si tratta “solo” di diritto all’informazione. Internet è anche una piattaforma commerciale, un insieme di mercati, un luogo in cui si producono e distribuiscono beni, si pubblicizzano e commerciano servizi. Dietro queste attività, che sono fatte di email, siti web, blog e social network, ci sono persone che nei Paesi in via di sviluppo non potrebbero creare ricchezza e opportunità in altro modo. Si pensi alle cooperative di contadini indiani che trattano via internet il prezzo delle sementi o alle donne marocchine che ricevono gli ordinativi per i loro tappeti via mail. E allora non è neanche un semplice strumento di comunicazione, ma è un fondamentale strumento di sviluppo del potenziale di ciascuno di noi. Forse internet non è un diritto umano, ma il potervi accedere sicuramente sì.www. wikipedia.org

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Documentario Arte

[magnum photos, courtesy of fondazione merz]

La voce del paesaggio di Vito

Calabretta

La Fondazione Merz di Torino è un luogo prezioso. Fu Mario Merz, pittore e scultore, insigne esponente dell’arte povera, a scegliere quell’edificio industriale del 1936 quale custodia del proprio lascito. Lì era un tempo situata la centrale termica delle Officine Lancia, che stanno dall’altra parte di un ampio slargo carrozzato. Ora l’ex capannone è stato ristrutturato, sono stati chiusi i condotti sotterranei che collegavano la centrale allo stabilimento; sostanzialmente pulito nei suoi volumi, esprime in modo efficace il fascino di una architettura funzionale e industriale. In un luogo suggestivo e impregnato di memoria, la Fondazione ha organizzato una mostra di Josef Koudelka. Ma cosa c’entra con la ricerca formale di Mario Merz, il fotografo che salì alla ribalta documentando i fatti di Praga del 1968 e che poi, entrato a far parte dell’agenzia Magnum, consolidò la propria fama come reporter delle popolazioni nomadi europee? Intanto bisogna dire che quel fotografo non c’è più: da alcuni anni Koudelka lavora sul paesaggio e sulla sua capacità di raccontarci una storia attraverso le forme che lo popolano. L’essere umano, al centro delle riprese durante la prima fase della sua produzione, ha ceduto il posto a ciò che l’essere umano ha fatto. Le immagini che vediamo a Torino fanno parte di questo filone e sono un’analisi del paesaggio del Piemonte, commissionatagli dalla Regione qualche anno fa. Utilizzando un formato di pellicola basso e largo, che accentua, di ogni inquadratura, l’elemento narrativo cui è affidato il compito di raccontare uno sviluppo di forme, Koudelka ci racconta cosa vede in Piemonte, esattamente come negli ultimi anni ci ha raccontato cosa vedeva nei paesaggi d’Europa. Non appaiono più, dunque, gli esseri umani; sono le loro tracce, invece, i soggetti di ogni fotografia: un filo spinato, i piloni di un cavalcavia, le pietre di un cantiere o i filari di un vigneto. Trasferiti nell’immagine di Koudelka, stretta e larga, questi entrano in una striscia che è un racconto e smettono di essere la testimonianza di una geografia, perché diventano soggetti assoluti. Inseriti nel contesto della Fondazione Merz, entrano in un confronto a distanza che genera alcuni punti di interesse suggestivi: il luogo è il frutto di un’architettura che ha cercato di valorizzare la memoria di una funzione industriale; l’istituzione è dedicata a un artista, Mario Merz, la cui ricerca definiva i valori assoluti contenuti negli elementi che compongono la realtà; il lavoro in mostra emancipa Josef Koudelka dal mito creato sulle sue immagini storiche («il maestro degli zingari» è stato recentemente e infelicemente definito) e ci restituisce una sensibilità artistica vivace, in grado di trasformare la realtà del paesaggio piemontese in piccole narrazioni i cui protagonisti sono, anche in questo caso, i valori assoluti contenuti negli elementi che compongono la realtà. Josef Koudelka: Traces, Fondazione Merz, Torino, fino all’8 aprile

Confessioni di un eco-pirata di Matteo

Scanni

Il capitano Paul Watson si ama a prima vista. Look oversize, baffi e capelli immacolati, sorriso vagamente strafottente di chi l’ha appena fatta franca, gli occhi bui di uno stronzo abituato a guadagnarsi la ragione scazzottando. Insomma, un leader nato, determinato e falloso. Buttato fuori da Greenpeace (di cui è stato uno dei soci fondatori) per i suoi metodi poco ortodossi, nel 1977 raduna la fronda degli amici attorno alla Sea Shepherd Conservation Society e si mette a presidiare gli oceani a bordo di un vascello pirata con il proposito di conservare l’ecosistema e le specie minacciate dai cacciatori: foche, balene, delfini e quant’altro. Il suo pezzo forte sono le campagne di disturbo, la pratica dell’azione diretta, teorizzata punto per punto nel bestseller Earthforce!, un pamphlet politicamente scorretto che tanto piacerebbe in Val di Susa. Queste strategie includono il lancio di fumogeni sui ponti delle baleniere, l’uso di “blocca eliche” per sabotare le navi e l’affondamento di una flotta di pescherecci in un porto islandese. La telecamera e il punto di vista sono quelli di Peter Jay Brown, leggendario filmmaker che ha accompagnato capitan Watson per trent’anni nelle sue scorribande marine, finendo col diventare un membro effettivo della ciurma. Fornendo uno sguardo dall’interno, appassionato ma onesto, in cui in fondo si rispecchiano l’impegno e gli sforzi del movimento ambientalista mondiale, il racconto ripercorre la storia dello Sea Shepherd Team, dalle prime campagne in Russia contro i bracconieri di balene ai più recenti blitz in Groenlandia per fermare lo sterminio delle foche. Quel che ne esce è un affresco epico dell’organizzazione, la vera storia quotidiana di una banda di eco-pirati decisi a salvare gli oceani a ogni costo. Il materiale d’archivio (mozzafiato le sequenze di speronamento fra navi e gli inseguimenti delle rompighiaccio fra gli iceberg) documenta attraverso centinaia di ore di girato le incredibili spedizioni in giro per il mondo della banda di Paul Watson. Confessions of an Eco-Terrorist non è il solito documentario sulla natura, ma un film d’azione spettacolare e militante che lascia storditi. Probabilmente la prova provata che, senza le telecamere, il movimento ambientalista semplicemente non sarebbe mai esistito. Sui titoli di coda già si avverte una fitta per la mancanza di un terzo tempo supplementare. Se vi è piaciuto The Cove, avete trovato pane per i vostri denti. Confessions of an Eco Terrorist, di Peter Jay Brown, Peter Jay Brown Productions


di Claudia

Barana

Considerato uno dei creativi più straordinari del ventesimo secolo, Rudolf Steiner è una di quelle persone capaci di coniugare il pensiero con il lavoro delle mani. E una visione della vita nella quale si fondono arte, scienza e spiritualità, così come espresso nella sua pedagogia e nel suo pensiero antroposofico. La mostra a lui dedicata per il centocinquantesimo anniversario della sua nascita (Rudolf Steiner: Alchemy of the Everyday), allestita presso il Vitra Design Museum di Weil am Rhein, vicino a Basilea, svela però qualcosa in più: un uomo capace di distillare un’estetica del quotidiano completamente originale, che prende spunto dai tanti influssi artistici e intellettuali del suo tempo come, per esempio, il liberty e il cubismo. Un’opera complessa, quella di Steiner; l’esposizione però riesce a sottolineare come gli stimoli ricevuti dai suoi contemporanei, ma anche da Goethe con la Teoria dei colori, abbiano portato alla progettazione di oggetti utili allo svolgimento e alla realizzazione del suo stesso obiettivo didattico e filosofico: 45 mobili, 46 modelli, 18 sculture, oltre cento disegni e progetti. Materiali molto interessanti per approfondire l’influenza che Steiner subì attraverso lo studio della Teoria dei colori, dalla quale trasse il concetto di metamorfosi e la simbologia cromatica. Il testo di Goethe costituì la base di una nuova estetica organica in architettura e nel design. Da questi pensieri nacquero le sue progettazioni: mobili e costruzioni caratterizzati da forme cristalline o arcuate, i cui parallelismi con i progetti di creativi moderni sono a volte sorprendenti. Uno stimolo molto importante per il design che diede avvio a rielaborazioni stilistiche, oggi visibili nelle opere di alcuni progettisti come Jerszy Seymour e Werner Aisslinger o nei lavori degli architetti Jürgen Mayer H. e lo studio Graft. L’influenza di Steiner diventa evidente se si guarda agli oggetti, anch’essi esposti, firmati da Konstantin Grcic, Olafur Eliasson e Ronan&Erwan Bouroullec. Oltre alle sale espositive, la mostra prosegue con incontri, laboratori e l’invito a visitare le architetture di Rudolf Steiner a partire dal Goetheanum, costruito tra il 1924 e il 1928 a Dornbracht, a soli 15 chilometri di distanza dal Vitra Museum.

[© vitra]

Rudolf Steiner – Alchemy of the Everyday, Vitra Design Museum, Weil am Rhein (Basilea), fino al primo maggio

Rudolf Steiner, Blackboard Drawing, 1923

Libri

Design

L’impronta del genio

Senza tabù di Alessandra

Bonetti

Dio: «Hai l’aria un po’ sciupata, figliolo. Ti va un bel bicchiere d’acqua?». Gesù: «Oh sì. Lo sai che stai da Dio, papà? Dovresti staccare più spesso». Dio: «Tu dici?». Gesù: «Blllrrrreaaahhhhh! Ma che cazzo è?». Dio: «Un piccolo assaggio del fiume Gange. Mentre quelli usano la terra come un cesso, tu cazzeggi giorno e notte, piccolo stronzetto dei miei coglioni!». Bastano poche battute per capire che A volte ritorno, dello scozzese John Niven, è un romanzo un po’ anarchico e dissacrante, sconsigliato a cattolici fondamentalisti e benpensanti. La trama: dopo essersi preso una vacanza, Dio scopre che la vita sulla terra ha preso una strada diversa dai suoi piani. Purtroppo il tempo in paradiso scorre molto lento (un giorno equivale circa a 57 anni), e nel giro di una settimana di ferie si è passati dalle glorie del Rinascimento ai giorni nostri. Non c’è alternativa: suo figlio deve tornare giù. Precisamente a New York, fra barboni, tossici e reality show. I “romani” di oggi sono infatti i businessmen dell’industria dello spettacolo, al cui confronto quelli di duemila anni fa erano “dame di carità”. Una parodia con tanto di gironi infernali (in cui troviamo, fra gli altri, Ronald Reagan), crocefissione e resurrezione finale, che mette in scena le maschere della contemporaneità. Ma si può ridere su Dio? In una società ormai senza tabù, si può ridere su tutto. Anche sull’Olocausto, come fa Shalom Auslander, nel suo nuovo libro Prove per un incendio. Il protagonista è un ebreo quarantenne degno delle nevrosi del miglior Woody Allen, che si ritrova nella soffitta della sua nuova casa una clandestina: Anna Frank. Proprio lei, la più celebre dei martiri del Novecento, che, sopravvissuta, è una vecchia ripugnante alle prese con la stesura di un manoscritto che deve eguagliare i 32 milioni di copie del suo Diario. Quando l’assurdo irrompe nella vita, non c’è più speranza: «Hitler è stato il più spudorato e ingenuo ottimista degli ultimi cent’anni», sentenzia uno dei personaggi. «La più grande fonte d’infelicità dell’uomo, la più grande causa di angoscia, odio e morte è la speranza». La speranza? «I pessimisti non scatenano guerre». Cinico sense of humor con cui, forse, potrebbe andare d’accordo l’autore de Il fiuto dello squalo, che sul suo sito si presenta così: “Mi chiamo Gianni Solla, 33 anni. Zoppico per finta quando attraverso la strada bloccando il traffico. Lo faccio solo per provocare il senso di colpa cosmico nelle persone”. Il suo romanzo? Una dark comedy sulla camorra. John Niven, A volte ritorno, Einaudi, 400 pp., 19 euro Shalom Auslander, Prove per un incendio, Guanda, 250 pp., 18 euro Gianni Solla, Il fiuto dello squalo, Marsilio, 160 pp., 15 euro


la posta del cuore di

Claudio Bisio

illustrazione

Mug Studio

per scrivere: cuore@e-ilmensile.it

Questo mese voglio farvi leggere una sintesi di tre lettere che mi sono arrivate in risposta alla mail, pubblicata sul numero di gennaio, nella quale Alessandra parlava della violenza domestica di cui era vittima. Carnefice, ovviamente, suo marito. Le tre opinioni che seguono sono molto diverse l’una dall’altra, ma questo è tipico, presumo, proprio del lettore di E. Viva la diversità di opinioni. Viva il lettore di E. Claudio Caro Claudio, la tua risposta alla lettera di Alessandra, pur così sentita, mi dà l’impressione che tu non abbia la “più pallida idea” di quanto sia letale la violenza psicologica (seconda in classifica, appena alle spalle di quella fisica). Cosa vuol dire che non c’è un reale abuso? Non è abbastanza ridurre una persona a non essere più in grado di pensare con la propria testa? Non è abbastanza dover controllare ogni tua mossa perché l’altro non esploda terrorizzandoti (solo con minacce nei casi migliori)? Macché lotta quotidiana alla ricerca di un senso? Si tratta di lottare contro un mostro che ti vuole annientare! E credimi, raramente questi soggetti maturano, anzi, se sentono di perdere il potere sulla vittima diventano terribilmente pericolosi. Non è una questione di senso della vita, si tratta di un problema “culturale” (non nel senso delle diversità), si tratta come al solito della cultura maschilista di cui tu – e mi dispiace molto – sei un esponente inconsapevole. (Consiglio: visita qualche forum online sulla violenza sulle donne). Giusy, Sondrio Bisio (ti do del tu perchè io sono più vecchia), che cosa strana stai facendo rispondendo alla Posta del cuore, tu così – sembrerebbe – bastian cuntrari. Bene, bando alle ciance, ti scrivo perché vorrei che chi fa informazione (tv, giornali ecc.), non parlasse solo delle situazioni negative della vita. Si vedono e danno notizie nei vari telegiornali (noi guardiamo solo La7 e Rai3) di ragazzi diciottenni che accoltellano la ex fidanzata oppure di figli che uccidono per rapporti familiari che di familiare non hanno nulla. Ebbene, ogni cinque notizie di questo tenore, non farebbe bene a tutti – anche ai nostri figli che si formano pensando che fuori dal guscio domestico il mondo sia tutto così – dare notizia anche di belle storie semplici tra gli esseri umani? Ti scrivo questo perché io vivo con mio

marito da 42 anni, 35 dei quali di matrimonio (benché io abbia sessant’anni e mio marito settanta) e ci amiamo senza se e senza ma. Spesso mi è capitato di sentire, sia nel mondo del lavoro sia tra gli amici e anche, appunto, in televisione, frasi come le seguenti: «Ah! Mio figlio qua, mio figlio là, mio marito, lasciamo perdere, non capisce niente». La maggior parte delle volte si nomina il consorte solo per parlarne male. Io mi sono sempre sentita fuori posto, non nascondendo la fortuna di aver trovato una persona da amare e che mi ama così. Vengo vista come chi arriva da un altro pianeta in cui ci si illude di vedere persone che si rispettano e si amano. Perché vergognarsi di esternare il proprio amore non solo ai figli ma anche al consorte? Bene, vorrei vedere la tua espressione dopo aver letto quanto sopra (spero tu non abbia la stessa espressione di incredulità degli altri), ti assicuro che è tutto vero. Per consolarmi dipingo da sempre. Ciao, Luigia Caro Claudio, ho letto la struggente lettera di Alessandra; purtroppo è vero, molte donne vivono quotidianamente questo. Inutile aggiungere altro, la storia di Alessandra è eloquente. Sono contenta che sia stata pubblicata in quanto, per chi vive nel buio di questa situazione, può essere di grande aiuto per uscire dall’isolamento in cui spesso si sprofonda. Scrivo questo perché lavoro per l’associazione L’altra metà del cielo – Telefono Donna di Merate (Lc) e mi occupo, insieme alle mie colleghe, di aiutare le donne come Alessandra a uscire dalla violenza domestica. Se tu potessi contattarla via mail, potresti farle sapere che esistono degli ottimi centri antiviolenza in tutta Italia. Non so di dove sia, ma potrebbe rivolgersi a quello più vicino a lei, troverebbe aiuto e sostegno per risalire la china. Il percorso è spesso difficile e occorre sostegno psicologico, legale e magari anche un tetto provvisorio; il suo bambino forse sarà la molla ma anche la difficoltà in più. I centri sapranno accoglierla e aiutarla. Scappare da un carceriere che difficilmente accetterà di rimanere senza la sua vittima è dura, sotto tutti i punti di vista; è IMPORTANTE che si metta in contatto con qualche centro per non correre il rischio di dover ritornare. Paola

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di

Alessandro Bertani

foto Archivio

Emergency

Obiettivo

«Sì, ho un contratto di lavoro. Mi pagano 35 euro al giorno, ma il lavoro non c’è tutti i giorni». M., 38 anni, originario della Tunisia, è in Italia dal 1998. Vive da sempre a Scoglitti, una frazione di Vittoria, Ragusa, con quattro suoi connazionali. Per due stanze pagano 300 euro di affitto al mese. Lavora nelle serre, segue la coltivazione dei pomodori, dei peperoni e delle melanzane tutto l’anno. «Torno in Tunisia un mese all’anno, per le vacanze. La mia famiglia è là», dice. Nella situazione di M. ci sono diversi uomini che lasciano moglie e figli a casa, anche perché non potrebbero permettersi di mantenerli in Italia. In questa zona la più grande comunità di lavoratori stranieri è rappresentata da nordafricani, in particolare tunisini. Il Poliambulatorio mobile di Emergency si muove qui sul litorale di Vittoria, tra Scoglitti, Punta Braccetto e Marina di Acate. Sono località a ridosso del mare, perché fino al mare arrivano le serre che ricoprono l’intera Piana di Vittoria. Migliaia di costruzioni con impalcature in legno o ferro ricoperte di teli di plastica per creare un ambiente a temperatura costante, tutto l’anno. È un’industria continua che richiede manodopera esperta per sfruttare i cicli produttivi: «Tre mesi – dice M. – per la maturazione dei pomodori e dei peperoni, due mesi per il raccolto delle melanzane». Come molti dei suoi connazionali, avendo un contratto di lavoro ha anche un permesso di soggiorno e una tessera sa-

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nitaria che gli consente di avere accesso alle cure del sistema sanitario nazionale. Di fatto, però, tale diritto resta spesso non attuato, per le difficoltà a muoversi per raggiungere l’ambulatorio del medico di base, per gli orari nei quali è possibile richiedere una visita e per la difficoltà a farsi capire dal proprio medico, in assenza di un traduttore, e a essere indirizzati nelle strutture del sistema sanitario della provincia. Oltre alla prima visita medica e alle cure, l’attività dell’ambulatorio mobile di Emergency consiste anche nell’orientare i pazienti visitati e facilitare il loro accesso ai presidi sanitari pubblici. Attenzione ai bisogni, capacità di ascolto, dignità e rispetto: sono elementi semplici di una ricetta per una sanità più umana e più giusta. Tra le persone che lavorano nelle serre, però, non tutti hanno un contratto di lavoro e un permesso di soggiorno. Molti sono irregolari perché rimangono anche dopo la scadenza del contratto. Invece di regolarizzare la condizione dei lavoratori stranieri, la legislazione italiana si è trasformata in un meccanismo di creazione di irregolari. Condizione per avere un permesso di soggiorno è infatti l’esistenza di un contratto di lavoro. Succede così che molti “datori di lavoro” si fanno pagare fino a mille euro per offrire un contratto a termine (tre mesi), al solo scopo di far ottenere un permesso di soggiorno ai lavoratori stranieri. Questi non vengono poi fatti lavorare o vengono impiegati solo saltuariamente e, alla scadenza del contratto fittizio, diventano a tutti gli effetti irregolari. Una volta che si trovano in questo stato sono più ricattabili e disponibili ad accettare peggiori condizioni di lavoro e di vita.


Vittoria A., 23 anni, originario della Tunisia, si presenta al nostro ambulatorio mobile per un dolore addominale. Durante la visita Adelino, medico, nota una cicatrice recente proprio sul ventre, chiaro segno di una brutta ferita da accoltellamento. «Sono stato operato un mese e mezzo fa e adesso ho mal di pancia», ci dice. Ci mostra il referto e la lettera di dimissione dall’ospedale dalle quali emerge che gli è stata asportata la colecisti e gli è stata effettuata una doppia sutura gastrica. Non gli era stata prescritta una visita di controllo successiva all’intervento, né una particolare dieta. Quando gli diciamo che non dovrebbe assumere cibi fritti o piccanti né bere alcolici si mostra sorpreso. Oltre a queste indicazioni, i nostri medici prescrivono ad A. una visita di controllo presso l’ambulatorio di chirurgia generale dell’ospedale di Vittoria per verificare eventuali complicazioni postoperatorie. A Punta Braccetto, una delle località visitate regolarmente dal Poliambulatorio mobile di Emergency nella piana di Vittoria, c’è una delle diverse comunità di braccianti romeni impiegati nelle serre, la cui presenza è cresciuta nel corso degli ultimi anni. B., 21 primavere, viene accompagnata da un’amica: è molto timida, si vergogna a farsi visitare da sola e parla poco l’italiano. L’amica ci racconta che, in Romania, a B. è stata diagnosticata una cisti ovarica dopo un aborto spontaneo. Segue una terapia che le è stata prescritta da un medico romeno ma lamenta dolori all’addome e vorrebbe farsi visitare da un ginecologo, anche perché non riesce a rimanere di nuovo incinta. Mentre Adelino la sottopone a una visita generale, Nadia, infer-

miera, e Michele, mediatore culturale, si consultano per richiedere l’attribuzione di un codice E.N.I. (acronimo per “europeo non iscrivibile”), la chiave di accesso alle cure per i cittadini europei residenti in Italia. L’amica intanto ci racconta che lavorano entrambe a poche centinaia di metri da dove l’ambulatorio mobile si è posizionato per le visite. Hanno un contratto di lavoro di sei mesi, che viene rinnovato alla scadenza. «Nella serra dove lavoriamo si coltivano pomodori. Quando viene “spruzzata la medicina” non si può entrare per due settimane nel vivaio e quindi rimaniamo disoccupate», ci racconta. «Prendiamo 25 euro al giorno, per sei giorni alla settimana. Qualcuno, quando c’è molto da fare, lavora anche la domenica mattina. Però non paghiamo niente per le case dove abitiamo. È tutto nuovo e pulito, anche le piastrelle sono state appena messe». Sorridiamo sentendo come ci racconta tutto questo con forte accento siciliano. «Accà sono da dieci anni», ci dice. «È da sei che non torno in Romania», con la “r” piena e rotonda della parlata locale. Tra qualche giorno B. tornerà al nostro ambulatorio mobile per ritirare la documentazione necessaria per poter accedere a una visita specialistica ginecologica che possa approfondire la sua attuale condizione e – questa è la sua speranza – possa consentirle di avere il figlio che tanto desidera. «Hai ancora paura?», scherza Adelino quando la visita è terminata. «No, non più, ora», risponde lei. E, mentre ci saluta, si allarga un grande sorriso che finalmente le illumina il viso.

s

Per assicurare tempestivamente cure mediche a chi ne ha bisogno, Emergency ha allestito due ambulatori mobili, i Polibus. Gli ambulatori mobili prestano servizio gratuito per periodi definiti in aree a forte presenza di migranti, come le zone agricole, i campi nomadi o i campi profughi. Da giovedì 22 dicembre 2011 un ambulatorio mobile di Emergency lavora nell’area di Vittoria (Rg), per portare assistenza sanitaria ai braccianti delle serre. I pazienti visitati, di origine nordafricana, soffrono principalmente di patologie muscolo-scheletriche, gastroenteriche e irritative.


ospedali no profit per inciso di

Gino Strada

illustrazione John [getty images]

Holcroft

Caro Gino, mi permetto di farle notare alcune imprecisioni nell’articolo comparso su E di dicembre 2011. Il meccanismo della convenzione pubblico-privato è un po’ diverso da come lo racconta. Le strutture convenzionate ricevono un rimborso per gli interventi chirurgici e per le prestazioni erogate pari al Drg (“Diagnosis-Related Group”, il sistema di retribuzione degli ospedali per l’attività di cura, ndr). Quindi il costo della prestazione per lo Stato italiano è uguale, che venga effettuato nel privato convenzionato o nel pubblico. Dario Cencio Caro Dario, io ancora mi ostino, probabilmente a torto, a parlare di ospedali pubblici e di cliniche private. È una vecchia abitudine figlia dei tempi in cui ancora studiavo medicina ed esistevano “gli ospedali”. Oggi invece ci sono “le aziende ospedaliere” e c’è il settore del “privato convenzionato”. Così, devo ammettere che quella distinzione o contrapposizione tra pubblico e privato possa risultare poco chiara e vada riformulata in termini diversi. Io credo che un ospedale debba essere obbligatoriamente una istituzione no profit. Se il personale – infermieri e medici, tecnici e amministratori – è appassionato del proprio lavoro, competente e onesto, il risultato sarà un ospedale di qualità, ben funzionante, che utilizza al meglio le risorse. Invece vedo dilagare la logica opposta, quella del profitto, anche nelle vecchie strutture che erano davvero pubbliche prima dello sfracello degli ultimi decenni. La medicina, in tutti i suoi aspetti, si occupa di sostenere la vita e il benessere individuale e collettivo. In questo settore davvero “vitale” per la società, ha senso che esista per qualcuno la possibilità di trarne profitto? È giusto, è etico, è utile? Il problema è tutto lì: sì o no al profitto nel campo della sanità. Ospedali profit e ospedali no profit, mettiamola così. Io credo che la progressiva introduzione del profitto nella sanità, iniziata trent’anni fa dai politici con la grave complicità della classe medica, sia una cosa vergognosa e dannosa per la salute dei cittadini. Nella tua lettera sottolinei che i Drg – cioè i soldi che una Regione rimborsa per una prestazione sanitaria effettuata – sono gli stessi, che si tratti di ospedale privato (convenzionato) o pubblico. Hai ragione. Il trucco è proprio lì, nel Drg, nell’idea del “rimborso”, nell’idea di ospedale come azienda. Il Drg è il meccanismo e il lasciapassare per la speculazione che produce profitti miliardari. Se i soldi andassero da pubblico a pubblico non ci sarebbe bisogno di Drg: si spende quanto necessario, niente più, niente meno. Se invece si vuole che qualcuno possa “fare soldi”, basta che le Regioni adottino una politica di rimborsi esagerati, i Drg appunto, molto più elevati dei soldi effettivamente spesi. Se si rimborsa 100 per un intervento che costa 30, chiunque lo effettui, si crea una montagna di danaro a disposizione degli sprechi e della corruzione, nel “pubblico” come nel “privato”. Così si aprono le porte ai futuri “don” e ai “don” già in attività. Un solo esempio: un intervento per sostituire una valvola cardiaca viene rimborsato in Italia (a tutti i Centri che lo effettuano) mediamente ventimila euro. Il costo reale dell’intervento, lo sappiamo benissimo, è invece di circa duemila euro. Una bella differenza, e soprattutto un boccone ghiotto a disposizione di manager e funzionari corrotti, o di faccendieri e speculatori più nobilmente chiamati “investitori del settore”. Sono convinto, caro Dario, che una sana politica sanitaria sia quella che non offre tali opportunità, che non spalanca le porte al profitto a danno della salute di tutti. Smettiamo pure di chiamarli pubblici i nostri ospedali, tanto ormai lo sono sempre meno: io credo che avremmo bisogno di ospedali no profit. Allora si tornerebbe a utilizzare tutte le risorse disponibili per il bene comune, e gli ospedali sarebbero di nuovo parte della res publica. (gs)

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