E il mensile agosto 2012

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Vaticano chi è il corvo Storie E-IL MENSILE

del terremoto

AGOSTO 2012 • EURO 4,00

Bicicletta amore mio

AGOSTO 2012

Dossier: tutti in bici.Calcio africano.Vaticano.Sabbie bituminose

E - IL MENSILE. GIÀ PEACEREPORTER • ANNO VI - N°8- AGOSTO 2012 • EURO 4,00 • PUBBLICAZIONE MENSILE POSTE ITALIANE S.P.A.- SPEDIZIONE IN ABB. POSTALE - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N°46) ART. 1, COMMA 1, LO/MI

Dossier

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hanno scritto: Gabriele Battaglia.Andrea Cardoni.Fabio Fimiani Luigi Guelpa.Alessio Lega.Renzo Parodi.Francesco Ricci.Stella Spinelli hanno fotografato e illustrato: René Burri.Robert Capa Henri Cartier-Bresson.Alfredo D’Amato.Raymond Depardon Anna Godeassi.Josef Koudelka.Chiara Noseda.Dennis Stock

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l’editoriale

è stato bello E-il mensile interrompe le pubblicazioni. La notizia prima di tutto, m’hanno insegnato quand’ero agli inizi, e la notizia è questa. E questo è il mio ultimo editoriale da direttore. Non facile da scrivere, ma mi tocca. Tra edicole e abbonamenti il giornale vende all’incirca ventimila copie. Non pochissime, secondo me, se teniamo conto della crisi. Molti hanno rinunciato al quotidiano e il taglio si ripercuote con maggior forza su settimanali e mensili. La crisi pesa anche sull’editore, cioè su Emergency. Che non è più disponibile ad accollarsi il passivo (non esorbitante) della gestione. Non ci trovo nulla da eccepire: prima vengono gli ospedali, poi i giornali. E-il mensile è nato per trasmettere una cultura di pace e credo l’abbia fatto. Credo, ancora, che questo modo di fare giornalismo abbia un futuro, anche se si è scontrato con il presente. Me lo fanno pensare i tanti messaggi di colleghi d’altre testate (“bravi, finalmente qualcosa di nuovo”), ma soprattutto i messaggi delle lettrici, dei lettori, di voi che state leggendo queste pagine e che ci avete dato attenzione, fiducia, calore. Grazie a tutti, è stato bello finché è durato, come si usa dire. Molti dei messaggi elogiativi non li abbiamo pubblicati, per modestia. Uno sì, di una lettrice che ci ha definito “un manuale di umanità”: ecco, un pezzettino di quello che considero una medaglia me lo porto via. Il resto lo condivido con una redazione altrettanto ricca di umanità, di progetti, di speranze, forse di utopie, ma è stato bello condividere anche quelle. Bello e utile, nelle dichiarazioni d’intenti, doveva essere questo giornale e credo lo sia stato. Utile perché ha raccontato storie vere, della vita di tutti, e pezzi di mondo. Bello per il respiro dato ai testi, alle illustrazioni, alle fotografie. Dopo la redazione, i ringraziamenti continuano: a tutto il gruppo di E, dalla segreteria ai grafici ai collaboratori esterni. Per me è stato un piacere, e un arricchimento, lavorare con loro. Infine, grazie a Emergency che mi ha offerto questa possibilità. Era un’avventura, è durata meno del previsto, ma grazie ugualmente. Gianni Mura

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grazie E-il mensile interrompe le pubblicazioni. Diciott’anni di lavoro con Emergency mi hanno insegnato a lavorare con la testa e con il cuore e in questo saluto voglio farli parlare entrambi. La testa dice che Emergency non può più permettersi di sostenere i costi di questo straordinario progetto culturale, che parte dal 2003, con un quotidiano online, e si conclude oggi, con l’ultimo numero di un mensile di carta. Come sapete, la crisi economica globale ha dato un colpo durissimo a tutte le realtà che, come Emergency, vivono soprattutto delle donazioni dei piccoli contribuenti: proprio le prime vittime della crisi. La difficile situazione mondiale riempie le sale d’attesa delle nostre strutture sanitarie, anche in Italia, dove visitiamo sempre più cittadini italiani; la difficile situazione mondiale priva i nostri sostenitori – per la maggior parte, proprio cittadini italiani – della possibilità di continuare a donare per tutte le buone cause come quella di Emergency. Essere costretti a lavorare sempre di più, potendo contare su sempre minori risorse economiche: questa, in estrema sintesi, è la realtà che Emergency sta affrontando da più di un anno. Per far fronte a questa situazione, siamo costretti a scegliere: e prima di chiudere la porta di un ospedale, siamo costretti a chiudere la porta di un giornale. Siamo costretti a rinunciare a uno strumento (che è fatto di molte cose: della carta di questo mensile, dei pixel del quotidiano online, delle immagini e dei suoni di tutti i prodotti multimediali) che in questo momento non possiamo più sostenere. È una grossa rinuncia, per tutti noi: fare cultura, cultura di pace, cultura di diritti e solidarietà, è uno degli obiettivi statutari di Emergency, quello che ci ha portato, nel 2003, a dare il via al progetto PeaceReporter. E il cuore, cosa dice? Il cuore dice tutto il suo dolore per essere stati costretti a dover scegliere. Il cuore mi ricorda anche di non dare niente per scontato: ci capita mai di ringraziare uno dei nostri infermieri perché ha assistito bene un paziente? No, non lo ringraziamo, perché ha “solo” fatto il suo dovere, lo diamo per scontato. Eppure, è giusto, bello e utile dirselo, ogni tanto. Anche “il mondo di E”, dal direttore, all’intera redazione, a tutti i collaboratori che hanno reso possibile questo progetto, ha fatto “solo” il proprio dovere: fare cultura, farne tanta, farla bene. Però, in questo saluto, il cuore mi ricorda di dirlo, e di dirlo a voce alta: grazie a tutti quelli che hanno lavorato a questo progetto, grazie per tutto quello che avete fatto e per come lo avete fatto. E, naturalmente, non posso dare per scontato nemmeno il ringraziamento a voi lettori: per averci creduto, per averci sostenuto, per averci letto e consigliato, apprezzato, suggerito, a volte anche criticato, perché si può sempre crescere ed è bello crescere insieme. La testa, in questo momento, deve dire addio. Il cuore sussurra: speriamo che sia un arrivederci. Cecilia Strada

Cari abbonati, vi ringraziamo per avere sostenuto il nostro mensile. Purtroppo questo è l’ultimo numero che riceverete. Chi lo vorrà potrà richiedere la restituzione del valore residuo dell’abbonamento. Se invece deciderete di rinunciare al rimborso, l’importo verrà devoluto al progetto dei Polibus, gli ambulatori mobili che, in diverse zone dell’Italia e in questo periodo in Emilia, assicurano cure mediche a chi ne ha bisogno. Potete comunicare la vostra scelta direttamente su www.eilmensile.it compilando il modulo che trovate online o inviandolo via fax al numero 02 76340836.

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in questo numero 7 le storie

L’Aquila spolpata Noi, terremotati consapevoli Quelle tavole apparecchiate Prima i bambini Staremmo a buon punto storie dell’Aquila che guarda all’Emilia raccolte da Andrea Cardoni foto di Francesca “Scianghi” Conforti e Paolo Quadrini

12 l’intervista

Chi è il corvo? Un prete contro, don Paolo Farinella, racconta la guerra per bande che si va svolgendo nelle stanze vaticane. E assolve il maggiordomo di Renzo Parodi foto di Giovanni Chiesa

16 l’inchiesta

Sotto la sabbia Siamo in Canada, Stato dell’Alberta. Sullo sfruttamento delle sabbie bitumose, si conduce una battaglia. Protagonisti i cittadini e gli ambientalisti da un lato, l’industria petrolifera e il governo canadese dall’altro. Ma anche gli Stati Uniti di Obama, la vecchia Europa e la Cina assetata di risorse energetiche testo e foto di Emanuele Bompan

22 le cronache

Volevo essere come Eto’o Una finta gaffe mondiale per salvare la pelle, una presidentessa mangiauomini e promettenti campioni passati dalle vittorie mondiali al dimenticatoio. Il calcio nel Continente nero non è solo uno sport, ma anche uno strumento di potere politico e una possibilità di riscatto da un destino di miseria. Eto’o e Drogba li conosciamo. Ecco le storie di quelli che, a causa di un sistema corrotto o della sfortuna, non ce l’hanno fatta di Luigi Guelpa

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36 il dossier

Bicicletta, amore mio Perché d’estate c’è voglia d’andare. Perché è ecologica, silenziosa e non inquina. Perché le nostre città hanno bisogno che si moltiplichino. Perché si può aggiustarla da soli. O con gli amici. Perché c’è di che andar fieri del made in Italy. Perché a ciascuno ricorda qualcosa: della propria vita, ma anche di quell’immaginario condiviso fatto di ciclisti affaticati su per il Ventoux, di staffette partigiane e di sequenze di film in bianco e nero con ragazze dai vestiti svolazzanti portate in canna. Perché, come dice Alfredo Oriani, “il piacere della bicicletta è quello stesso della libertà” Con un portfolio di immagini di Dennis Stock, Henri Cartier-Bresson, Robert Capa, Raymond Depardon, Ernesto Bazan, Josef Koudelka, Philip Jones Griffiths, René Burri

Ci salveremo, forse di Gianni Mura

La premiata officina dell’anarchico Malatesta

84 il racconto I velopensieri

di Francesco Ricci illustrazioni di Anna Godeassi

94 sul campo

Al servizio dell’Emilia

96 festival d’estate Musica reggae, letteratura, teatro fringe e tanto cinema per i festival estivi nei molti altrove possibili di Simona Spaventa, Barbara Sorrentini e Alessandra Bonetti

101 per i bambini

Da nessun’altra parte Tutto nasce dalla lettera che Marco Formigoni scrisse al sindaco di Milano dopo l’omicidio di Abba. A questa storia si ispira un cortometraggio di Sami El Kelsh, Antonio Gualano e Guido Ingenito

di Alessio Lega

Unisci i puntini, trova le 10 differenze

Prendiamoci l’autostrada

di Chiara Noseda

di Fabio Fimiani foto di Stefano Montesi

L’arte di aggiustarsi con interviste a Giò Pozzo e Marco Maccarini di Antonio Marafioti foto di Germana Lavagna infografica di Chiara Noseda e Claudia Ceso

Pedalando nella rivoluzione

La saetta dell’estate di Claudia Barana disegni di Amok

il nostro osservatorio 20 34

Casa dolce casa L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro

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Cessate il fuoco

di Gabriele Battaglia

Il futuro corre su due ruote di Stella Spinelli

Il made in Italy è sempre in testa di Natascia Ronchetti

Giù le mani di Giulia Bondi

Lungo il naviglio di Gabriele Battaglia foto di Alfredo D’Amato

in copertina illustrazione di Anna Godeassi

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con noi

www.eilmensile.it

Direttore responsabile Gianni Mura Condirettore Maso Notarianni Art director Federico Mininni Caporedattori Angelo Miotto ◆ Assunta Sarlo Redattori Gabriele Battaglia ◆ Christian Elia ◆ Luca Galassi

Alessandro Grandi ◆ Antonio Marafioti ◆ Enrico Piovesana Valentina Redaelli ◆ Stella Spinelli ◆ Alberto Tundo Photoeditor Marta Posani ◆ Germana Lavagna Grafica Maddalena Masera Videoeditor Claudia Pozzoli Segreteria di redazione Silvina Grippaldi Hanno collaborato Lorenzo Bagnoli ◆ Claudia Barana ◆ Ernesto Bazan ◆ Fetih Belahid ◆ Emanuele Bompan ◆ Giulia Bondi ◆ Alessandra Bonetti ◆ René Burri ◆ Andrea Cardoni Henri Cartier-Bresson ◆ Robert Capa ◆ Casa delle donne per non subire violenza Bologna ◆ Claudia Ceso ◆ Giovanni Chiesa ◆ Francesca “Scianghi” Conforti Alfredo D’Amato ◆ Paride De Carlo ◆ Khaled Desouki ◆ Fabio Fimiani ◆ Maurizio Galimberti ◆ Wilbur E. Garrett ◆ Anna Godeassi ◆ Philip Jones Griffiths ◆ Guido Guarnieri ◆ Luigi Guelpa ◆ Guido Ingenito ◆ Jose Jordan ◆ Sami El Kelsh Josef Koudelka ◆ Jeff D. Larson◆ Alessio Lega ◆ Paolo Lezziero Stefano Montesi ◆ Carl Mydans ◆ Chiara Noseda ◆ Annamaria Palo Renzo Parodi ◆ Paolo Quadrini ◆ rassegna.it ◆ Francesco Ricci Natascia Ronchetti ◆ Sergio Ronchi ◆ Tom Show ◆ Barbara Sorrentini Simona Spaventa ◆ Dennis Stock ◆ Cecilia Strada ◆ Bob Thomas

Renzo Parodi

Alessio Lega

Nato a Lecce, nel 1972. Cantautore, scrittore e militante anarchico. Ha pubblicato cinque dischi, il primo dei quali Targa Tenco 2004, e due libri; l’ultimo, uscito da poche settimane, è scritto con Ascanio Celestini. Nonostante legga anche dei libri di storia, ha fede nell’umanità. Per noi ha riletto passaggi importanti del nostro passato recente partendo dalle due ruote.

Genovese, classe 1953, giornalista e scrittore eclettico (ha raccontato la grande Sampdoria di Paolo Mantovani e Roberto Mancini, ma anche Luigi Tenco e gli amori di Giuseppe Garibaldi) ha lavorato in gioventù per La Gazzetta dello Sport e, per 32 anni, al Secolo XIX. Nella sua lunga carriera giornalistica si è concesso il lusso di esplorare vasti territori: dallo sport alla cronaca, attaverso la politica e il costume, cimentandosi anche con radio e tv. Nella sua Genova ha incontrato don Paolo Farinella.

Nata a Milano, fin da piccola adora disegnare e dipingere. Dopo la laurea in Design della Comunicazione al Politecnico di Milano, collabora con una serie di studi e agenzie creative in qualità di grafica e illustratrice. Qui, con Claudia Ceso, ci ha aiutati a capire com’è fatta una bicicletta.

Luigi Guelpa

Agenzie fotografiche ed editori Afp ◆ Buenavista ◆ Contrasto ◆ Getty Images ◆ National Geographic Magnum Photos ◆ Time & Life Pictures

E - IL MENSILE già PeaceReporter Redazione e amministrazione via Vida, 11 - 20127 Milano - Tel 02 801534 - Fax 02 26809458 segreteria@e-ilmensile.it Edito da Dieci dicembre Scarl via Vida, 11 - 20127 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07 Presidente Maso Notarianni Amministratore delegato Rosanna Devilla Amministrazione Annalisa Braga Responsabile IT Stanislao Cuzzocrea Concessionaria pubblicità Poster pubblicità & p.r. Srl Sede legale e Direzione commerciale: via A. Bargoni, 8 - 00153 Roma Sede commerciale: viale Gran Sasso, 2 - 20131 Milano Tel 06 68896911 - Fax 06 58179764 - poster@poster-pr.it Stampa Nuovo Istituto Italiano Arti Grafiche Spa via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Distribuzione M-dis Distribuzione Media Spa via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano - Tel 02 25821 - Fax 02 25825306 Distribuzione in libreria: Joo Distribuzione, via F. Argelati, 35 - 20143 Milano Servizio abbonamenti e arretrati Picomax Srl viale Sondrio, 7 - 20124 Milano Tel 02 77428040 - Fax 02 76340836 Arretrati 8 euro

Chiara Noseda

Antonio Marafioti Alfredo D’Amato Giornalista, classe 1981. Inizia a scrivere nel 2006 per Calabria Ora. Nel 2008, dopo un master in Relazioni internazionali a Milano, si trasferisce a Roma nella redazione di Inter Press Service. Dal luglio 2009 inizia a collaborare con PeaceReporter seguendo soprattutto la politica estera e interna degli Stati Uniti. Se siete curiosi di sapere come funzioni una ciclofficina, ve lo spiega lui.

Nato nel 1977 a Palermo. Negli ultimi anni ha realizzato diversi reportage in Africa e nei Paesi dell’ex Unione sovietica. Vincitore di diversi premi, ha esposto in importanti sedi internazionali. Le sue fotografie sono apparse su numerose pubblicazioni in Italia e all’estero. È stato con Gabriele Battaglia nel viaggio Lungo il naviglio.

Vercellese del 1971, è un giornalista freelance. La passione per il pallone distante dai riflettori è nata quasi per caso dopo una chiacchierata ai Mondiali di calcio del 1998 a Parigi con Al Owairan, stella del calcio saudita. Da quel momento ha iniziato a girare Maghreb, Africa e Medio Oriente in lungo e in largo. Sull’argomento ha pubblicato anche quattro libri. Con Il Tackle nel Deserto ha vinto il premio Selezione Bancarella Sport nel 2010. E il calcio africano è al centro di Volevo essere come Eto’o.

Resp. trattamento dati (D. Lgs. 30.06.2003, n.196) Gianni Mura

Stella Spinelli

La nostra carta Questo giornale è stampato su carta certificata PEFC

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Nata a Firenze, cresce fra le colline di Carmignano sognando di fare la giornalista. Nel luglio 2003 sente parlare del progetto PeaceReporter ed entra nella squadra. Ha al suo attivo vari viaggi reportage in America Latina. Qui ci racconta di come, in Africa, una semplice bici possa cambiare molte vite.

Claudia Ceso

Classe 1984, ha studiato Design della Comunicazione a Milano, Fukuoka e Orléans. Vive a Milano, dove lavora come grafica nello studio 46xy. Con i suoi progetti, collabora con diverse testate e agenzie editoriali in Italia e all’estero. Per E ha illustrato l’infografica Anatomia di una bicicletta, insieme a Chiara Noseda.

Gabriele Battaglia

Milanese e milanista, nato nel 1966, ha iniziato come web-giornalista. Convinto che l’Oriente sia il migliore punto d’osservazione sul mondo contemporaneo, cerca di raccontare la Cina e gli altri Paesi del Far East. Questa volta è andato in bici a Cassinetta di Lugagnano alla scoperta di un’altra Milano e di un altro modello di sviluppo.

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L'Aquila spolpata Francesca “Scianghi” Conforti

storie raccolte da

Andrea Cardoni

L’autore di queste storie aquilane, Andrea Cardoni, è nato a Roma nel 1981. In famiglia è stato preceduto da generazioni di viaggiatori per lavoro dai quali, fin da piccolo, ha sentito parlare di Africa. Quando è diventato grande abbastanza ci è andato e ci è tornato. Si occupa della comunicazione di Anpas ed è volontario di Shoot4change. Fa parte di Tulime onlus, con la quale torna in Africa.

Elisa Cerasoli ha 32 anni, è giornalista. Lavora per Azione Sociale, il bimestrale delle Acli e dirige Ricostruire insieme: testata dell’omonimo coordinamento nato all’Aquila dopo il 6 aprile 2009 con lo scopo di favorire l’integrazione dei migranti (www.ricostruireinsieme.it). È anche corrispondente dall’Aquila per l’agenzia Redattore sociale (www.redattoresociale.it).

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Ricominciare a sentir parlare di tende è stato molto doloroso. Da quello che ho visto, in tv e sui giornali si sono ripetute scene già viste: servizi su come si dorme in tenda o in macchina, le prime pagine dei giornali, le telecamere nei campi, che non so quanto possano contribuire alla consapevolezza riguardo ai terremoti. All’Aquila è uscito il meglio e il peggio del Paese, anche per quanto riguarda l’informazione: dopo il terremoto, la città è stata raccontata in due maniere. All’inizio si è narrato quello che era: il dramma e le storie. Poi la stampa si è divisa: L’Aquila è stata il dessert. È stata messa al centro ed è stata spolpata da chi era filogovernativo e chi era contro il governo. In tutti e due i casi si è perso il riferimento, si è persa L’Aquila, si è persa la storia di questa città. L’Aquila serviva per dimostrare una tesi, per dimostrare l’efficienza, che c’era il governo del fare, che c’erano gli uomini che in pochissimo tempo avrebbero trovato una soluzione. Dall’altra c’erano i detrattori del governo che sottolineavano ciò che non andava. A tre anni di distanza, ogni tanto qualcuno si ricorda ancora di questa città, ma anche io, che sono una giornalista e mi occupo di sociale, ho difficoltà a raccontare le notizie, perché ormai questa è diventata la nostra normalità. Raccontarla è quasi raccontare un fatto ovvio.

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La terra trema

storia 83 - Elisa Cerasoli

Alcuni di noi, per non impazzire, hanno imparato a cogliere il bello in quello che ci è capitato. Chi fin dall’inizio si è reso padrone della propria vita, rimanendo lucido, ha conservato una distanza di sicurezza per poter vedere le cose, aprire il cuore e intraprendere nuove attività: le case aperte hanno fatto uscire fuori le persone e anche i talenti. Il numero di ragazzi che hanno deciso di dedicare la propria vita all’informazione è incredibile, ma è uscita una creatività inaspettata da questa città che prima del 6 aprile sembrava sopita. Con Ricostruire insieme, e un gruppo di associazioni aquilane, abbiamo fornito un servizio di orientamento agli immigrati per coinvolgerli nella ricostruzione condivisa e partecipata. Eravamo anche riusciti a portare in Parlamento una legge di solidarietà nazionale di iniziativa popolare per regolare tutti gli aspetti del post emergenza dei disastri naturali ed evitare le logiche di gestione emergenziale, di politiche commissariali e arginare le infiltrazioni mafiose. Magari questa legge avrebbe aiutato anche l’Emilia dove spero non ci sia un commissariamento che, per esempio, da noi ha permesso la costruzione di diciannove new town. In queste situazioni l’importante è restare vicini al territorio, non aver fretta di rientrare subito in casa a tutti i costi ed evitare l’assistenzialismo pedante che, all’Aquila, ha portato più danni che benefici.

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Noi, terremotati consapevoli

Paolo Quadrini

La terra trema

storia 84 - Mattia Fonzi

Mattia Fonzi, aquilano, attivista del comitato 3e32. Ha quasi 28 anni, laureato in Comunicazione politica, attualmente fa due lavori: ufficio stampa di una squadra di rugby all’Aquila e operaio addetto allo smaltimento delle macerie nelle demolizioni post sisma.

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La notte del 6 aprile ero a Perugia, in quel periodo lavoravo lì. Tornavo all’Aquila nei weekend. Sapevo dello sciame sismico in atto e quando ho sentito la scossa che ha aperto la porta della mia camera ho pensato subito: “Cazzo, anche a Perugia fanno i terremoti?”. Poi mi ha chiamato mio zio dall’Aquila dicendo che non riusciva a sentire i miei genitori. Sono partito subito dicendo al mio coinquilino di allora: «Ci vediamo domani». Sono tornato a novembre. Credo che una persona sotto i quarant’anni che oggi vive all’Aquila debba necessariamente trovarsi qualcosa da fare, un obiettivo specifico, perché se la si intende come una città normale non si riesce a sopravvivere. Io per esempio faccio parte del collettivo 3e32: tre anni fa L’Aquila era deserta e non c’era più nulla. Il 15 aprile 2009 abbiamo deciso che questa città aveva bisogno di re-incontrarsi e di capire quello che le stava succedendo. Il 3e32, il primo comitato e uno dei pochi rimasti a distanza di tre anni, è nato sotto un tendone. Dopo sei mesi di campo autogestito in via Strinella, nel settembre 2009 abbiamo deciso di riprenderci un posto che era stato abbandonato da anni all’interno dell’ex ospedale psichiatrico di Collemaggio: per questo lo abbiamo chiamato Casematte. Ci siamo ripresi il bar e abbiamo costruito una casa di legno ecocompatibile dove ci sono faldoni e faldoni di proposte che da tre anni facciamo alle istituzioni di tutti i livelli: alla Regione, alla Provincia, ai Comuni, ai governi, ma non sono mai state accolte. Dopo un terremoto è importante

anche riprendersi gli spazi, dimostrare la propria voglia di socialità, soprattutto in un territorio come quello aquilano che è totalmente disgregato. Con il nostro collettivo siamo stati in Emilia, ospitati dai ragazzi dello Spazio Guernica: nostro malgrado abbiamo fatto scuola e in molti si rivolgono a noi, tanto che il nostro “Decalogo del terremotato consapevole” ha avuto una risonanza inaspettata anche per noi. Rispetto all’Aquila questa volta l’intervento della Protezione civile sembra essere stato molto più blando, più sobrio e meno opprimente rispetto a quello di tre anni fa. I sindaci e le istituzioni di prossimità sembrano più liberi di poter fare la loro parte e agire in autonomia. Tre anni fa mi fece impressione una coppia di signori dell’Est Europa che, un mese dopo il terremoto, quando erano usciti i dati definitivi sulle vittime, giravano campo per campo a chiedere gli elenchi delle persone residenti perché non avevano avuto più notizie di una loro parente. A più di tre anni di distanza, all’indomani di un altro terremoto, mi preoccupa la situazione dei migranti: quando c’è una catastrofe sono la parte più debole del tessuto sociale, i meno tutelati dal punto di vista lavorativo e, dato che abitavano nei centri storici o nei cascinali andati distrutti, sono quelli che avranno più difficoltà a trovare una sistemazione quando sarà finito questo sciame sismico.

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Paolo Quadrini

storia 85 - Giovanni Mangione

Quelle tavole apparecchiate Eravamo in via Gabriele D’Annunzio e in quel palazzo crollato dal secondo piano una signora, Maria, era finita in cantina con il suo cane. Fu uno spettacolo riuscire a sentire la sua voce e cominciare a chiamarla: «Marì, Marì: come stai?». «Io sto bene», rispondeva. «Marì, ma dove stai?», chiedevamo noi. «Non lo so, dove sto. Però il cane me mozzica!». «Marì, ma fa male?». «Sì». «Allora va bene, Marì». Questa cosa mi illuminò gli occhi perché da quel palazzo, dopo due ore avevamo tirato fuori soltanto due corpi senza vita. I vigili non bastavano e man mano che stavi chino sulle macerie per fortuna vedevi aumentare le divise insieme alla gente comune. Questa era l’unica cosa che ti dava la forza, la cosa migliore che potesse succedere. I vigili del fuoco dell’Aquila sembravano non bastare mai. Oggi le associazioni che fanno Protezione civile sono molte di più, ma se fossero state tante anche tre anni fa sarebbe stato meglio. Più che altro perché ci sarebbero state persone più capaci e pronte a reagire in un momento del genere. Rispetto a tre anni fa, i servizi che facciamo nella nostra associazione sono cambiati tantissimo. Prima ci occupavamo di portare pasti a persone o famiglie in difficoltà: se allora si potevano contare sulle dita di una mano, adesso non so nemmeno dire il numero delle richieste che abbiamo. Non ce la facciamo a far fronte a tutte le domande:

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vuoi il terremoto, vuoi la crisi. Oggi vivo la mia città con la sensazione di essere ospitato: è paradossale, andare in centro e sentirsi straniero oppure turista e non un cittadino. A distanza di tre anni ho cominciato a dimenticare i luoghi dove ho passato l’infanzia, i vicoli dove giocavo, i palazzi, le piazze. La rassegnazione si legge negli occhi delle persone: si stanno abituando a questo stato di cose come se dentro di loro stesse prendendo forma la certezza che non è possibile fare nulla. Dal terremoto ho cominciato a fotografare la mia città perché ho avuto la sensazione che, mentre si abbassava l’attenzione mediatica, contemporaneamente si abbassasse l’attenzione di chi doveva intervenire e di chi doveva fare qualcosa. Ci sono foto che ben rappresentano la situazione sospesa dell’Aquila: le tante tavole apparecchiate dalla sera del 6 aprile. Ciò che più mi ha fatto male quella notte è stato ascoltare le grida di aiuto che con il passare del tempo diventavano lamenti, e poi non sentirle più. Arrivi anche a sentirti in colpa e tante volte hai bisogno di aiuto anche per arrivare a superare questi momenti. È successo anche a molti di noi volontari perché in qualche modo ti senti responsabile per non essere riuscito a fare nulla per quella persona. Però è così e si va avanti. Io sono un privilegiato perché la mia casa ha avuto pochissimi danni e sono vivo. Terremotato non mi ci sento.

Giovanni Mangione, volontario della Croce bianca dell’Aquila, ha tenuto con sé il sole di cartapesta dei carristi di Viareggio, arrivato al campo di Acquasanta il 30 agosto 2009 in occasione della staffetta Viareggio-L’Aquila, 460 chilometri in memoria delle vittime del terremoto e dell’incidente ferroviario del 29 giugno 2010.

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Prima i bambini

Qualcuno dice che siamo un popolo di ex. Ex cittadini dell’Aquila. Siamo terremotati, ma siamo aquilani. Siamo aquilani terremotati. Io mi sento cittadina aquilana. Sono qui, non sono andata via e vorrei rivedere presto questa città ricostruita. Tutti noi siamo qui, sparpagliati e un po’ demoralizzati. Io non ho avuto danni particolari alla mia casa, ma in molti sono andati via: si parla di duemila ragazzi che mancano dalle scuole. Abbiamo fatto uno sforzo enorme per mantenere aperte le varie facoltà dell’Università e lo sforzo degli insegnanti e dei professori è stato incredibile. La cosa più triste di questo terremoto è che ci sono persone che non sono morte ma che non si vedono dal 6 aprile di tre anni fa. La redazione de Il Centro era in via XX settembre, vicino alla villa comunale: quando uscivo per la pausa caffè incontravo amici e persone che non ho più visto dal giorno del terremoto. Oggi dopo il lavoro uno va a casa, perché se devo prendere un caffè in una casetta di legno in periferia, preferisco andare a casa o fare altro. Ci è cambiato tutto. Siamo cittadini in cattività perché non abbiamo più i luoghi del vivere, i luoghi del passeggio, le scuole e i negozi del centro. Questo dà il senso di quello che abbiamo perso. Oggi se incontri qualcuno lo fai in un centro commerciale e questa non era la nostra città, non era il nostro vivere. Qualche mese prima del terremoto ero diventata presidente della Pro loco di

Coppito. Il giorno dopo il terremoto ci siamo ritrovati a Murata Gigotti e abbiamo deciso di aprire una tendopoli. Da subito ci siamo accorti che bisognava andare oltre il disastro perché la vita doveva andare avanti. Così abbiamo pensato di fare una raccolta di libri perché la Biblioteca provinciale, in pieno centro, era andata distrutta: abbiamo pensato che questo potesse essere un modo per ricostruire. Un mese dopo il terremoto siamo stati contattati dalla direttrice della Biblioteca del Quirinale che, per conto del presidente della Repubblica, ci ha consegnato i primi 150 volumi per la nostra: un omaggio simbolico per dire che la ricostruzione riparte da qui. Il primo maggio scorso abbiamo inaugurato la biblioteca, la prima dell’Aquila dopo la ricostruzione. Ricostruire partendo dai più piccoli è stato l’altro passo che abbiamo fatto a Coppito: un campo estivo per 250 bambini dai cinque ai quattordici anni gestito da volontari di varie associazioni. C’erano bimbi traumatizzati che quando sentivano la terra tremare balbettavano, avevano problemi. Adesso, dopo tre anni, ogni estate è un appuntamento fisso. Con i cinquemila euro raccolti durante il campo estivo del 2009 abbiamo contribuito alla rinascita della scuola elementare Buccio di Ranallo di Coppito.

Marina Marinucci è giornalista de Il Centro e presidente della Pro loco di Coppito. Non è andata via dall’Aquila, ha continuato a scrivere e a fare.

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Paolo Quadrini

La terra trema

storia 86 - Marina Marinucci

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Francesca “Scianghi” Conforti

storia 87 - Vincenzo De Masi

Staremmo a buon punto

Vincenzo De Masi ha 67 anni, è nato a Taranto, si è laureato a Firenze, è architetto e dirigente dell’Aquila Rugby. Da pochi giorni ha avuto la notizia che, con i fondi raccolti da Anpas (Associazione nazionale pubbliche assistenze), il centro sportivo di Centi Colella verrà allargato con un nuovo campo per le giovanili.

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Lo confesso: a Natale non ho mai fatto l’albero. Ma in questi anni dopo il terremoto ho sentito il bisogno di farlo per dare un minimo di “effetto casa” a quella del progetto CASE, che non è la mia. Oltre a tutto il resto, mi sono accorto che mi hanno rubato persino le palle di Natale. “Non ce la possiamo fare”, ho pensato. Tutti noi abbiamo lasciato qualcosa nelle nostre case perché alla prima scossa siamo dovuti scappare. Ci siamo tornati quando ancora il terreno ballava, ma chiaramente non ho recuperato le palle di Natale: non è che mi servissero nel campo all’Acquasanta. E mentre io devo essere accompagnato per tornare a casa mia, perché ci sono crolli, ponteggi e pericoli vari, qualcuno, indisturbato, l’ha saccheggiata. Capisco che non si possa comprendere. Quello che non capisco è perché ancora oggi la maggior parte delle persone pensa che noi, all’Aquila, tutto sommato abbiamo risolto i problemi. Noi stiamo come stavamo allora, anzi stiamo peggio. Prima avevamo l’adrenalina, adesso monta la rabbia. Prima volevamo fare. Avevamo la forza per spianare le montagne. Eravamo tramortiti, umiliati, ma non ci siamo tirati indietro. È chiaro che non volevamo ricostruire una città con le carriole e con la pala, ma abbiamo riportato le persone dentro la città. Abbiamo dovuto forzare dei posti di blocco per rientrare in città. Abbiamo preso le manganellate. Io mi vergogno pure a dirlo, ma tutt’oggi vivo in una casa che non è la mia, pago una casa quando prima ce l’avevo di proprietà, pago uno

studio che è grande un terzo di quello precedente dove siamo messi come i polli in batteria per lavorare e non ho la prospettiva per capire se tra uno, due, tre anni potremo tornare a casa. La notte del 6 aprile mi ha trovato a letto in una casa del centro: mi sono svegliato come in un cartone animato, come in un film dell'orrore. Vedevo le mura spaccarsi, l’intonaco cadere. La mia casa è una di quelle che ha avuto più danni. Sono uscito e francamente non mi sono reso conto della drammaticità del fatto. Sono uscito con i miei piedi, portandomi appresso i miei cani. Io abitavo a duecento metri da piazza Duomo e lì ho iniziato a capire che la cosa era più grande. Siamo riusciti a uscire dalla nostra casa e abbiamo provato a entrare in quelle dove si sentiva che c’erano persone imprigionate. E devo testimoniare. Sono entrato in una casa di fronte alla mia per portare via il figlio di due persone che, nel crollo, lo hanno protetto con i loro corpi. Davanti al portone ho incontrato tre studenti universitari, me ne ricordo uno con le ciabatte da doccia. Gli ho detto: «Vado dentro, voi restate qui che se succede qualcosa avvisate». E loro: «No, questa è anche la nostra città, veniamo con te». Erano ragazzi universitari che stavano qui per studiare. Se ci avessero fatto continuare in quel modo, non dico che avremmo ricostruito L’Aquila, ma ora staremmo a buon punto.

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Renzo Parodi

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Giovanni Chiesa

Chi è il

Don Paolo Farinella è un prete contro. Come il suo amico don Andrea Gallo che definisce il catalizzatore dell’emarginazione. Da Genova racconta la guerra per bande che si sta conducendo nelle stanze vaticane. Assolvendo il maggiordomo e puntando il dito contro l’ala più tradizionalista che guarda ben oltre questo papato

Don Paolo Farinella è un prete di strada. Ma anche un raffinato esegeta della Bibbia che studia nelle lingue originali, l’ebraico, l’aramaico, il greco. Ha vissuto sette anni a Gerusalemme («per risciacquare i panni nel Giordano», scherza) ed è stato testimone della seconda Intifada. Siciliano di Villalba, a Genova dal 1965, due licenze (ossia lauree), in Teologia biblica e in Scienze bibliche e Archeologia, dal 2006 è parroco di San Torpete, una chiesetta nel centro storico, un tempo proprietà della nobile famiglia Cattaneo della Volta, a due passi dal porto antico. Le sue messe domenicali, spesso arricchite da performance di musica sacra, richiamano decine di fedeli. In queste pagine, secondo costume, parla con dura schiettezza della Chiesa di Roma e del momento politico. E assolve il maggiordomo. Don Paolo, veleni, corvi che svolazzano, lotte di potere: che cosa sta succedendo nelle sacre stanze vaticane? «Si è scoperchiato il vaso di Pandora, ne è fuoriuscito ogni genere di nefandezze e non è ancora finita. Quando tutto sarà reso pubblico, probabilmente non ci sarà

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cloaca che potrà convogliare i miasmi. Alcuni quotidiani hanno riportato la notizia che, durante la perquisizione a carico di Ettore Gotti Tedeschi (ex presidente dello Ior, dimissionato, ndr), la polizia ha trovato un memoriale in cui lui avverte che, in caso fosse ucciso, in quelle pagine se ne troverebbero le ragioni. “In Vaticano ho visto cose indicibili”, conclude Gotti Tedeschi e la cosa è credibile. Ciò che emerge è una guerra di bande cardinalizie nelle quali il maggiordomo non c’entra nulla: avrebbero potuto essere più originali e scegliere la cuoca o la badante. I veri colpevoli non verranno fuori, non sia mai detto che un cardinale parli». Chi combatte questa guerra per bande? «Da una parte c’è l’Opus Dei, dall’altra i Cavalieri di Malta e in mezzo c’è la Segreteria di Stato, il cardinal Bertone, una figura insignificante, forse il peggior segretario di Stato. L’abbiamo avuto vescovo qui a Genova, ho avuto contatti diretti con lui e scontri memorabili. Una nullità, in termini di autorità. Nella guerra vaticana si aggiunge un nome nuovo, un cardinale fatto di

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corvo? fresco, Mauro Piacenza, genovese, un fondamentalista, una sorta di talebano, che si colloca più a destra dei Lefebvriani».

saranno sempre più ricche. La strategia del Vaticano per contrastare questa deriva è in atto. E non è finita. I trafficanti e i massoni in Vaticano...».

Che cosa intende dire? «Questa gente vuole condizionare il futuro della Chiesa piazzando le rispettive batterie nell’attesa che papa Benedetto XVI muoia. È il segno che questi uomini sono totalmente miscredenti, altrimenti sarebbero coerenti con ciò che insegnano, quando affermano che il papa e la Chiesa sono guidati dallo Spirito santo. Se è vero, se ne stiano in cappella a pregare e la smettano di manovrare, mettendo in atto guerre e creando conventicole».

Anche i massoni in Vaticano? «Ce ne sono a montagne, hanno rapporti con le massonerie economiche, per esempio i Cavalieri di Colombo in America, che hanno patrimoni enormi. Non bisogna guardare soltanto agli effetti economici, non credo che i cardinali vivano nel lusso, piuttosto sono vanitosi e ricercano il potere e soprattutto amano gestire la politica dei prossimi decenni. Tra una ventina d’anni in Europa ci saranno due religioni forti, il cristianesimo e l’islam. Essendo maggioranza potranno condizionare anche il voto e quindi le politiche degli Stati europei. Il discorso delle radici cristiane nella Costituzione europea è finalizzato proprio a questa affermazione di principio. La strategia del Vaticano è indirizzata da una alleanza con l’islam – ci sono già stati cinque incontri ad altissimo livello – per creare una task force di fedeli e di gruppi organizzati, come erano i Comitati Civici di Luigi Gedda, dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Non fa pensare a questo il fatto che il papa voglia a tutti i costi riportare i seguaci di Lefebvre all’interno della Chiesa di Roma, concedendo loro tutto ciò che vogliono? Si sta compattando il clero di destra: i Legionari di Cristo, l’Opus Dei, i Focolarini, Comunione e Liberazione, i Carismatici, i Neocatecumenali. Un elemento comune li unisce. Rifiutano il Concilio Va-

Ci sono anche i buoni in questa guerra, coloro che vorrebbero difendere il papa dagli attacchi curiali? «Sono i manovali, come il maggiordomo Paolo Gabriele, certamente molto affezionato al pontefice. Costoro sono quelli che non emergono mai, vedono il male che sta intorno a Benedetto XVI, fanno il proprio dovere e si sono ritrovati dentro un gioco troppo più grande. La successione al papa significa anche mettere le mani sullo Ior, ossia su una quantità di soldi e quindi avere in mano i rapporti con la politica, decidere le alleanze, anche a livello mondiale. Tra venti o trenta anni il baricentro dell’economia mondiale si sposterà ancor di più verso l’India e l’Asia e ciò equivarrà per la Chiesa cattolica a una drastica riduzione delle entrate. Il mondo cristiano perderà valore e si impoverirà e le regioni del mondo che professano la religione islamica

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ticano II, cioè il confronto della Chiesa con il mondo moderno, la cultura, il sapere, la scienza». Chi ha ispirato e quando la svolta anticonciliare? «Paolo VI si è trovato nel guado, colpito dallo scisma dei Lefebvriani. Anziché proseguire sulla linea conciliare ha cercato di mediare, includendo tutti. La responsabilità che gli attribuisco è quella di un Concilio incompiuto, ma la colpa eclatante la ascrivo a Giovanni Paolo II. Sotto l’aspetto umano è stato un pontefice capace di affetto, ha demitizzato il papato portandolo nelle strade del mondo, lo ha immerso fra la gente. Ma sul terreno pastorale e teologico è stato il papa peggiore dello scorso Millennio, ha frantumato la Chiesa, tagliando le teste di chi ne professava il rinnovamento. Un esempio per tutti, la Teologia della liberazione. Un altro, il suo silenzio sull’uccisione del vescovo salvadoregno Romero, emblema del rinnovamento e della non compromissione con il potere militare corrotto. Giovanni Paolo II ha creato isole acefale, come l’Opus Dei, che si sono sostituite alle diocesi. La stessa Cl, che non è ancora una diocesi a sé, può diventarlo e così gli Anglicani convertiti al cattolicesimo. Wojtyla ha tentato di far rientrare nella Chiesa i Lefebvriani. Tutti costoro hanno un solo obiettivo. Combattere il Concilio Vaticano II».

parola né potere cammina per i fatti propri. La gerarchia vaticana è ormai un pastore senza popolo e non si illudano che le adunate per il papa equivalgano a riempire le chiese. Il rifiuto di appartenere alla Chiesa cattolica dilaga tra le persone pensanti che pure conservano la fede. È uno scisma all’incontrario». Il suo impegno in prima linea le ha procurato molti nemici? «Una decina di persone ha scritto una lettera al cardinal Bagnasco chiedendo la sospensione a divinis per me e don Gallo. Manca solo che dicano che mangiamo i bambini. Sono destrorsi che vogliono un cristianesimo disincarnato e astratto che si occupi dei riti e delle messe. Quando mi chiedono: “Quante anime ha la sua parrocchia?”, rispondo “Nessuna. Andando in giro io vedo persone, non anime”. Io vivo per rendere conto del nostro tempo e quando vedo che la gerarchia cattolica fa scelte indegne, immorali e corruttive, ho il diritto di intervenire in ossequio alla mia coscienza. Non voglio che in futuro si dica “Nessuno ha parlato”. Le cose che anni fa ho detto e scritto si sono verificate. È appena uscito il mio ultimo libro, dal titolo Habemus Papam.

Purtroppo ci stanno riuscendo... «Appunto. Ma in una forma non prevista da loro, perché chi all’interno della Chiesa non ha

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Sottotitolo: La leggenda del Papa che abolì il Vaticano. È un romanzo storico-teologico che immagina un papato modellato sull’esempio di San Francesco d’Assisi». I suoi rapporti con il cardinal Bagnasco? «Sono ottimi. Ci vediamo periodicamente, lui mi richiama, mi rimprovera di aver offeso il cardinal Siri e il papa. Io gli riconosco due autorità su di me: può dimettermi da parroco e può censurarmi dal punto di vista morale. Purché mi porti dei fatti e non si limiti a dirmi. “Non è prudente... Non è conveniente dire che...”. Tuttavia Bagnasco, a differenza di Bertone, una sua umanità ce l’ha. Purtroppo è condizionato dal ruolo di presidente della Cei. Peccato, sarebbe l’anti-Bertone ideale». Ha fatto scandalo l’appoggio che dall’altare lei ha dato a Marco Doria nella corsa per il sindaco di Genova. «Non ho fatto un appello al voto, ho semplicemente valutato alla luce di ciò che persegue la Chiesa i programmi dei vari candidati. Doria è l’unico che ha fatto un programma in cui si parlava di poveri e di assistenza sociale. Non mi interessa se Doria è battezzato o no, se è

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sposato o celibe. Il suo progetto politico è quello che si avvicina di più all’etica sociale che la Chiesa predica». A Genova vivono 2.500 senza tetto. Un dramma... «Con l’associazione Massoero 2000 ne assistiamo una piccola percentuale, sempre in crescita. I vedovi anziani, i divorziati, i portatori di handicap, artigiani e commercianti falliti, ai quali è stata pignorata l’abitazione. Sono i nuovi poveri, i prodotti della crisi economica dei nostri giorni. La mia proposta al Comune è di utilizzare alcuni conventi vuoti per ospitare gli homeless, sarebbe un modo di restituire una parte dell’8 per mille che peraltro è in picchiata, grazie alle scelte di cardinali e vescovi. La gente non si fida più di chi fa mastrussi (in genovese pasticci, ndr) e camarille sottobanco. La nostra associazione presso san Torpete, intitolata a Ludovica Robotti (una bimba morta ad appena nove mesi), aiuta persone indigenti pagando mutui, bollette, affitti, cercando di impedire che queste persone finiscano nelle mani dell’usura».

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Sotto la sabbia testo e foto

Emanuele Bompan

C’è un tesoro, sotto forma di petrolio, o un disastro ambientale e climatico? Nello Stato dell’Alberta, in Canada, sulle oil sands si gioca una partita che ha per posta, dicono gli ambientalisti, la terra. E che coinvolge oltre al governo canadese che vuole sfruttare al meglio l’oro nero, l’amministrazione Obama che per ora sta a guardare, la vecchia Europa e la Cina assetata di barili

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«Un tempo usavamo il bitume per sigillare le nostre canoe, ora ci ricavano il petrolio, inquinando l’aria, contaminando l’acqua, avvelenando gli animali e togliendoci le foreste dove cacciare e i fiumi dove pescare». Almer Herman, nativo canadese di origine Cree, una delle tribù più importanti della First Nation americana, conosce bene le piane boschive dell’Alberta settentrionale, Canada. Fuma una sigaretta dietro l’altra guardando una pompa d’acqua usata per l’estrazione del petrolio dalle sabbie bituminose, un composto oleoso di petrolio, argilla, sabbia ed acqua. «Le chiamano oil sands, si trovano ovunque qua intorno», aggiunge Almer. I nostri piedi calpestano il più grande deposito “non convenzionale” del mondo. Trentacinque miliardi di barili recuperabili stimati, la seconda riserva mondiale di combustibili fossili al mondo dopo quella dell’Arabia Saudita. Fort McMurray, un’anonima cittadina di centomila abitanti si erige a capitale della nuova corsa all’oro nero. I “pozzi” si estendono su un’area di 140mila chilometri quadrati, circa la metà della superficie dell’Italia. Qua di sceicchi non se ne vedono, solo operai che si sono arricchiti velocemente, ristoranti di scarsa qualità, un giro notevole di prostitute, droga e violenza. A diciannove anni, Elliot guadagna centomila dollari all’anno commercializzando macchinari super pesanti. «È la nostra età dell’oro», racconta mentre entra al casinò. «Al diavolo tutto il resto». «Qua intorno ci sono oltre cento operazioni minerarie legate alle sabbie bituminose, di cui diciotto estrattive: il petrolio viene ‘scavato a cielo aperto’, mentre le altre in profondità», racconta Melina Labucan-Massimo, mezzosangue Cree e italiano, campaign manager per Greenpeace. Le sabbie bituminose in superficie possono essere “raccolte” con operazioni estrattive che impiegano dei macchinari tra i più grandi costruiti dall’uomo. Una volta scavato il petrolio viene “lavato” e diviso dalla sabbia e dalle argille. A raffinare le oil sands sono soprattutto due compagnie canadesi, Suncor e Syncrude, che per prime (rispettivamente nel 1967 e nel 1978) hanno sfruttato il greggio sepolto in queste terre. Quando il petrolio si trova invece a profondità superiori ai cento metri si impiegano tecniche che liquefanno il petrolio nel sottosuolo, usando vapore ad alta pressione (il processo è conosciuto come Sagd, Steam Assisted Gravity Drainage).

Ambiente e clima

Per nativi americani e ambientalisti esiste un solo modo per definire questo boom dell’oro nero: disastro ambientale. Aumento delle malattie, contaminazione dell’acqua, devastazione delle foreste boreali, contaminazione del suolo. Il problema non è unicamente ambientale, ma anche climatico. Secondo il climatologo James Hansen, autore del libro Tempeste (Edizioni Ambiente) sfruttare le sabbie bituminose sarebbe “game over per il clima”. «Questo è il secondo deposito di Co2 (uno dei gas maggiormente responsabili del cambiamento climatico) al mondo», ha dichiarato lo scienziato americano, che ricopre anche il ruolo di direttore del Goddard

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Institute for Space Studies della Nasa. «Se lo sfruttassimo fino in fondo dimostreremmo di essere solo degli stupidi». Per il portavoce di Friend of the Earth Europe «questi sono i carburanti più inquinanti al mondo. Vanno fermati». Il governo conservatore di Stephen Harper – ça va sans dire – offre una versione differente della storia. «Le sabbie bituminose sono fondamentali per il Canada», spiega a E il portavoce del ministero dell’Ambiente canadese, Henry Lau. «Si tratta di una risorsa strategica per la sicurezza energetica del Nord America. Il governo canadese è orientato a lavorare in sinergia con ogni amministrazione e con ogni impresa per garantire che le sabbie bituminose vengano sviluppate in maniera sostenibile sia per l’ambiente che per la società». A Ottawa giurano e spergiurano che stanno cercando di fare il tutto nel massimo rispetto dell’ambiente. Ogni decisione deve essere presa previa analisi di impatto ambientale, dalle acque alle emissioni, ed è strutturata in modo che i nativi possano esprimere le loro perplessità. E a ogni critica i supporter ribattono: creerà occupazione. E non poca: oltre trecentomila posti di lavoro previsti e incassi da record, con una produzione che supererà i due milioni di barili al giorno entro il 2015. Ma non tutti i politici sono d’accordo sull’impatto economico, oltre che ambientale. «Sicuramente si tratta della più grande opportunità economica a breve termine», spiega Megan Leslie, deputata del New Democratic Party, il principale partito di opposizione al governo Harper. «Ma che cosa succederà tra dieci, venti o cinquant’anni? Perché non tenere questa risorsa sul lungo periodo, quando il petrolio scarseggerà, oppure usare i ricavi dell’estrazione per finanziare energie rinnovabili o investire in efficienza energetica, in una economia energetica del futuro? Il futuro non è nel petrolio, questo è un modo di pensare novecentesco».

Una battaglia da vincere

Ottawa e l’industria petrolifera non vogliono perdere, a nessun costo, la battaglia delle oil sands. Per difendere i propri interessi hanno ingaggiato una complessa guerra diplomatica, di lobbying, mediatica e di pubbliche relazioni, su più fronti, la cui estensione e complessità non è del tutto nota. L’obbiettivo principale delle compagnie petrolifere è trasportare il petrolio “sporco” estratto in Alberta fino al Texas per raffinarlo e venderlo negli Usa e nel resto del mondo. Per realizzare questo obbiettivo TransCanada, una società di infrastrutture per petrolio e gas di Calgary, ha proposto di costruire Keystone XL, un super oleodotto lungo 2.673 km. Gli attivisti ambientalisti americani però si sono messi di traverso, sostenuti dalla Casa Bianca. «Sei riuscito a fermare le compagnie petrolifere», commenta il comico americano Stephen Colbert con Bill McKibben, leader delle proteste contro Keystone XL e creatore del network 350.org. «Spero che quel petrolio rimanga sottoterra», ribatte McKibben. «È una battaglia troppo importante per perderla», spiega a E il noto ambientalista americano. «Per ora la Casa

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Bianca ha rimandato ogni decisione sul tratto settentrionale, dicendo di voler analizzare meglio gli impatti della megaopera». Nel tratto sud invece i lavori sono già iniziati a luglio. «Sono posizioni anticanadesi», ringhia l’associazione canadese petrolieri, Capp. «Siamo ostaggio degli estremisti ambientalisti», rilancia il primo ministro Harper, con toni populisti. Per contrastare il movimento No Keystone XL il governo di Ottawa ha movimentato centinaia di milioni di dollari in azioni di lobbying, documentate da una serie di email ottenute dall’associazione ambientalista Friends of the Earth. E soprattutto ha trovato un alleato nei candidati repubblicani che hanno dichiarato guerra a Obama. «Costruiremo Keystone XL – ha dichiarato Mitt Romney – abbiamo bisogno di quel petrolio».

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▲Gli impianti della Syncrude a FortMcMurray, Stato dell’Alberta Nelle pagine precedenti un dettaglio dell’impianto per ripulire le sabbie bituminose visto dall’alto

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L’offensiva europea

Secondo numerosi policy maker di Ottawa, il governo Harper non è andato solo all’attacco di Washington. Parte della sua guerra lobbistica si sarebbe svolta anche in Europa. Da almeno diciotto mesi infatti sta facendo pressione su vari governi europei, in particolare su Londra, in sinergia con varie compagnie petrolifere del vecchio Continente. Il principale ostacolo alle sabbie bituminose da questa parte dell’Atlantico potrebbe essere l’estensione della direttiva europea sulla qualità dei carburanti, nota tecnicamente come Fqd, acronimo di Fuel Quality Directive. Questa direttiva, varata nel 2009, mira a ridurre del 6 per cento le emissioni legate ai carburanti entro il 2020. La nuova estensione bloccherebbe completamente i derivati da petrolio supersporco, come le oil sands che – tabelle Ue alla mano – inquinerebbe il 23

per cento in più di altri combustibili. Chiaramente, a Ottawa la Fqd non va giù. Secondo l’associazione canadese dei petrolieri la direttiva è troppo punitiva, le tabelle imprecise e soprattutto Bruxelles permette l’impiego di petrolio altrettanto inquinante estratto da regimi totalitari. «Almeno il nostro petrolio è etico», ha dichiarato più volte un funzionario ministeriale di Ottawa. «I legami tra l’associazione dei produttori petroliferi e il governo nello sforzo di fare pressione su opinione pubblica e politica europea sono impressionanti», spiega Darek Urbaniak, di Friends of the Earth Europe. Da un documento governativo del 2009 in nostro possesso, emerge l’intenzione “di caratterizzare il dibattito sulle oil sands in Europa in modo che favorisca gli interessi canadesi”. Il documento elenca anche i “nemici” europei. Come le ong, i “xxx” media (censurato, ma si potrebbe ipotizzare che la parola sia leftist media), avversari industriali (industria dei biocarburanti). Ma non basta. «Hanno tentato di influenzare i negoziati sull’Accordo commerciale di libero scambio Ue-Canada (CETA) per cercare di bloccare la Fqd», racconta Andrea Harden del Council of Canadians, esperta del tema. «Tutte informazioni comprovate da documenti governativi ottenuti grazie alla legge sulla trasparenza e libertà d’informazione canadese». Per ora la riforma della direttiva sui carburanti, durante l’ultimo voto del 23 febbraio scorso, non è stata approvata né bocciata. La parola passa al Consiglio dei ministri dell’Ambiente Ue che si riunirà all’inizio del 2013 per decidere se dare semaforo verde alla nuova direttiva, in linea con la politica di riduzione delle emissioni europee. L’Italia, insieme a Spagna, Polonia, Repubblica Ceca, Estonia, Lituania, Bulgaria, è contraria alla riforma. Ma secondo fonti ministeriali il nostro Paese si sarebbe opposto alla proposta poiché troppo onerosa, preferendo un approccio con «gli stessi obiettivi ambientali, semplificando però le procedure e riducendo gli oneri agli stati membri». E se Europa e Stati Uniti dovessero bloccare la strada al petrolio canadese? «Se gli americani non vogliono il nostro petrolio andremo in Cina», ha minacciato Stephen Harper. I cinesi dopo aver investito oltre trentacinque miliardi di dollari in compagnie canadesi non vedono l’ora di ricevere petrolio. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. E soprattutto la British Columbia, dove schiere di cittadini agguerriti e nativi americani hanno dichiarato guerra all’oleodotto North Gateway di Enabridge che dovrebbe portare ogni giorno al Pacifico migliaia di barili pronti da spedire a Pechino. Numerose comunità hanno già fatto sentire la propria voce contraria all’oleodotto mentre attivisti canadesi e americani si preparano a combattere una battaglia campale. «Non vinceranno, il movimento è più forte che mai», aggiunge McKibben. «La posta in gioco è la nostra terra».

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Casa dolce casa a cura di Stella

Spinelli

illustrazione

Guido Guarnieri

7 giugno, Staranzano (Go)

«Voleva lasciarmi alla vigilia delle nozze e ho perso la testa». Si è giustificato così davanti agli inquirenti Claudio Varotto, 57 anni, che ha picchiato a morte Rosina Lavrencic, 60 anni, con la quale viveva da dieci anni. Rosina aveva appena cambiato idea sul matrimonio, previsto per lunedì 11 giugno, e voleva lasciarlo.

10 giugno, Milano

Un notaio milanese, Vincenzo Ialenti, 45 anni, ha ucciso la sua compagna, Marika Siakste, per scriverci: casadolcecasa@e-ilmensile.it 30 anni, di origine lettone, e poi si è suicidato. Nella tasca dei pantaloni di Ialenti, un biglietto: “La colpa della situazione è tutta mia, mia moglie non c’entra niente è una bravissima persona, è la donna più dolce al mondo”. L’uomo, infatti, non era mai riuscito a lasciare definitivamente Casa dolce casa è l’osservatorio sua moglie con la quale aveva avuto una figlia mensile sulle donne uccise ancora minorenne. Nell’appartamento milanese in Italia da uomini ospitava Marika, ma quasi ogni sera tornava a casa che conoscevano, che hanno dalla sua famiglia. All’origine del gesto proprio amato, di cui si fidavano. questa doppia vita: la storia con l’amante, che viveva Si chiamano femminicidi e rimandano alla relazione con gelosia e passione, e la sua vita con moglie di potere tra i generi, che resta e figlia che adorava e con le quali era sempre tuttora un fattore che ordina più complicato andare d’accordo. la società. I dati pubblicati, vista l’assenza di ricerche ufficiali sul fenomeno, sono raccolti dalla stampa e riguardano il periodo di tempo dal primo giugno al 2 luglio. Questo monitoraggio viene effettuato in collaborazione con la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna (www.casadonne.it), associazione impegnata da diversi anni contro la violenza sulle donne, alle quali offre sostegno, ascolto, consulenze e case-rifugio, con una particolare attenzione ai figli minori. Da tempo inoltre la Casa svolge un lavoro di ricerca sul femminicidio dal quale ogni anno deriva un’indagine-quadro sulle donne uccise: nel 2011 sono state 97.

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15 giugno, Campegine (Re)

Alessandro Rizzi, 71 anni, di Castelnovo di Sotto, vedovo, ha sparato alla sua badante, Alena Tyutyunikova, di cui si era invaghito, e al suo presunto amante, Fabio Artoni, 44 anni, sposato e padre di due figli. Avrebbe agito per gelosia.

19 giugno, Merano (Bz)

Erna Pirpamer, 65 anni, parrucchiera di Merano, è stata uccisa a coltellate dall’ex fidanzato, Aouichaoui Boubaker, un tunisino di 33 anni, che non accettava la fine della loro relazione. Si è presentato a casa della donna in serata, ubriaco. Per strada la discussione è degenerata ed è volato qualche schiaffo. Poi il trentatreenne ha tirato fuori un coltello e l’ha colpita quattro volte. Erna è morta in ospedale poco dopo.

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19 giugno, Solofra (Av)

Charangeet Singh, 40 anni, di origine indiana, ha sgozzato la moglie, Jasvir, 32 anni, e la figlia di 7, Jaspreet, e poi si è tolto la vita. Ferita anche l’altra figlia, Simdaujei, 13 anni, sfuggita al massacro. Charangeet, ribattezzato Michele dagli amici italiani, era di nuovo senza lavoro da settimane e i litigi in casa scoppiavano di frequente anche perché l’uomo accusava Jasvir di essere troppo permissiva con le bambine.

22 giugno, Consandolo (Fe)

Rachida Lakhdimi, 37 anni, è stata soffocata dal marito per gelosia, chiusa in un sacco nero e nascosta sotto il letto. «Temevo potesse tradirmi», ha confessato agli investigatori Hassane Jendari, 42 anni, che dopo aver affidato i loro due figli piccoli al fratello che vive nel bolognese è scappato a Belfort, in Francia, dalla sorella, meditando di tornarsene in Marocco. La donna lo ha invece convinto a costituirsi. Il corpo di Rachida è stato trovato alcuni giorni dopo, grazie all’allarme lanciato dal fratello della giovane marocchina preoccupato perché non riusciva a parlarle. L’omicida sarà estradato in Italia.

28 giugno, Legnano (Mi)

Roberto Colombo, oculista di 54 anni, ha ucciso a colpi di mattarello la ex moglie e madre dei suoi tre figli piccoli, Stefania Cancelliere, 39. La lite è scoppiata nel pomeriggio del 27 giugno nella casa di Stefania, che viveva con i bambini nell’attico di un condominio al cui pianterreno abitava Roberto. La giovane madre è morta il giorno dopo in ospedale per le gravi ferite.

2 luglio, Palma Campania (Na) L’ha assassinata a colpi di forbice per un presunto tradimento. Giancarlo Giannini, operaio di 35 anni, ha ucciso sua moglie, Alessandra Sorrentino, casalinga di 26 anni e madre dei suoi due figli di 4 e 6 anni. Tutto è accaduto poco prima delle tre del mattino, mentre i bambini dormivano.

Un anno e mezzo dopo

Uccise la sua compagna – e madre di sua figlia – Antonella Alfano e poi tentò di depistare le indagini inscenando un incidente d’auto. Per questo, il carabiniere Salvatore Rotolo è stato condannato dal gup di Agrigento a 18 anni di reclusione. La sentenza del gup, Valerio D’Andria, prevede anche il pagamento di un milione 250mila euro di risarcimento, cinquecentomila dei quali andranno alla figlia.

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di Luigi

Guelpa

Una finta gaffe mondiale per salvare la pelle, una presidentessa mangiauomini e promettenti campioni passati dalle vittorie mondiali al dimenticatoio. Il calcio nel Continente nero non è solo uno sport, ma anche uno strumento di potere politico e una possibilità di riscatto da un destino di miserie. Eto’o e Drogba li conosciamo. Ecco le storie di quelli che, a causa di un sistema corrotto o della sfortuna, non ce l’hanno fatta

Volevo essere come E C’è un filmato che gira su YouTube e che per numero di visitatori mette in un angolo persino le clip di Madonna o di Lady Gaga. Il protagonista del video si chiama Ilunga Mwepu ed è un ex calciatore della Nazionale dello Zaire (oggi Repubblica democratica del Congo) che prese parte ai mondiali di Germania del 1974. L’essenza di quella pellicola è racchiusa in pochi secondi. Sono i momenti concitati di un calcio di punizione assegnato al Brasile. La barriera africana sembra una muraglia guizzante di muscoli, ma tremolante per condizione mentale. Dall’altra parte c’è Rivelino, quello che si è preso sulle

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spalle l’eredità di Pelè nei verdeoro dopo la sbornia della Rimet. L’arbitro rumeno Rainea sta per fischiare la punizione quando dalla barriera africana si stacca Ilunga Mwepu e con vigore calcia via la palla tra lo stupore generale. Per anni il povero Mwepu venne additato come dilettante allo sbaraglio, a digiuno delle più elementari regole che disciplinano la sfera di cuoio.

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Un giovanissimo palleggia nella casa per bambini di Melford, Zimbabwe

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In realtà il numero 2 dello Zaire sapeva benissimo che cosa stava facendo con quel tentativo a metà strada tra il goffo e il comico: cercava di salvarsi la vita. Lo Zaire tre giorni prima, sempre a Gelsenkirchen, era stato letteralmente travolto (9-0) dalla Jugoslavia e il dittatore Seko Mobutu, furioso per la figuraccia in mondovisione, aveva minacciato la squadra senza mezzi termini: «Se con il Brasile prenderete più di tre gol vi farò arrestare al vostro rientro a Kinshasa». In sostanza la clip di Brasile-Zaire non è altro che lo srotolarsi, fotogramma dopo fotogramma, di una vicenda drammatica. «Eravamo sul 3 a 0 per i brasiliani – si

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Tom Show [getty images]

e Eto’o

giustifica Mwepu – e temevo, come i miei compagni, la collera del nostro presidente». È in quel pomeriggio che il mondo scopre il pallone africano. Bollandolo, a torto, come fenomeno da baraccone. Lo Zaire in effetti fu la prima squadra all blacks a calpestare manti erbosi in mondovisione. Cercò di mostrare il suo lato migliore, quello di una formazione che tre mesi prima in Egitto aveva conquistato la Coppa d’Africa. Ma in Germania, impreparata sotto il profilo caratteriale e organizzativo, e soprattutto minacciata da Mobutu, finì per diventare la barzelletta del torneo iridato, offrendo una visione distorta di quanto invece il calcio fosse

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diffuso e praticato a quelle latitudini. Nel 1974 l’Africa divenne un po’ l’ombelico del mondo dello sport. E fu proprio Kinshasa a farsi conoscere ai quattro angoli del globo. Perché se la squadra di calcio salì sul tetto del Continente e prese parte ai mondiali, nella boxe la capitale dello Zaire ospitò Rumble in the Jungle l’evento considerato il più importante e suggestivo di sempre, ovvero la rivincita tra Ali e Foreman.

L’altra faccia della medaglia

Ritornando al pallone, lo Zaire nel bene e nel male ha tracciato un solco, ha aperto una strada. Ha offerto la consapevolezza che il calcio fosse uno sport praticato ovunque. Anche in Africa, con tanti limiti dettati da una disorganizzazione spaventosa e dai continui colpi di Stato che mettono in ginocchio le già irrisorie economie. Persino sotto questo aspetto lo Zaire è un limpido esempio. Se Mwepu azzardò la figuraccia per salvare la pelle, Boba Lobilo, suo compagno di squadra, è diventato un rivoluzionario che ha combattuto per il Cndp (Congrès national pour la défense du peuple) a fianco del generale psicologo Laurent Nkunda, l’uomo che a suon di pallottole voleva cambiare il corso della storia congolese ma che è finito in un carcere di massima sicurezza in Ruanda. «Vivevo come un mendicante – racconta Boba – sono stato abbandonato dalla stessa classe politica che ai tempi dei mondiali di Germania mi considerava una sorta di eroe nazionale. Mi hanno rubato la giovinezza». Le sue parole non nascondono quel sentimento di rancore e di rivalsa che l’ha spinto a indossare una tuta mimetica e a imbracciare le armi. Aprendo qualche cassettino dei ricordi sulla trasferta teutonica, si ricorda la maglia verde con il leopardo disegnato sul torace, che è diventata oggetto di culto e va ancora a ruba nelle aste online, e le lacrime del portiere Mwamba Kazadi dopo l’impietoso tiro al bersaglio degli jugoslavi e la sostituzione con il carneade il cui nome per gli amanti del calcio vintage è un ricordo comico e ricorrente, Dimbi Tubilandu. «Mobutu al ritorno in patria ci regalò auto e appartamenti, ma solo perché ce l’aveva promesso davanti al re del Marocco per pavoneggiarsi e rimarcare le sue infinite ricchezze. Di tutta quella grazia sinceramente non sapevamo cosa farne, non avevamo i soldi per la benzina e neppure per comprare i mobili. Siamo stati costretti a vendere ogni cosa e quando i soldi sono terminati abbiamo iniziato a vivere alla giornata». Qualche reduce dei mondiali di Germania è riuscito a espatriare e a rifarsi una vita, come appunto Mwepu, che vive in Marocco, dove lavora per una scuola calcio di Fes e ben si guarda dall’insegnare conclusioni con palla inattiva. Mufila Mavuba ha trovato l’eldorado in Francia gestendo gli interessi economici di suo figlio Rio, stella del Lille. Il portiere Kazadi, eletto atleta del secolo in uno dei tanti slanci propagandistici di Mobutu e trionfatore del Pallone d’oro africano, è rimasto invece a Kinshasa, costretto a ricorrere agli espedienti per sbarcare il lunario soprattutto da quando gli è stata confiscata la licenza da taxista. In Sudafrica vive invece il centravanti Ndaye Mulamba, professione posteggiatore in un supermercato di Johannesburg.

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Il disordine organizzato

L’Africa nera è ricca di storie quasi surreali. Vicende umane che a volte sconfinano nel racconto popolare o nella leggenda. Paradossalmente a quelle latitudini c’è un certo orgoglio nel vivere il pallone nel disordine organizzato o nell’enfatizzare i propri limiti. Nonostante i secoli di colonialismo l’Africa non ci appartiene e non la capiremo mai del tutto. Il calcio, lo sport più praticato, vive gli isterismi dei padroni del vapore. La cleptocrazia politica sconfina nel mondo del pallone. La vera Africa non è quella di Didier Drogba o Samuel Eto’o. Quelle sono icone, riferimenti, il sogno di milioni di praticanti. Loro vivono nel mondo delle vetrine scintillanti. Gli scenari di Yaoundé, Abidjan o Lagos sono tutta un’altra cosa. Le opportunità si perdono, si bruciano, mandando in frantumi un materiale umano unico al mondo. Forse qualche esempio si rende necessario per capire come mai l’Africa del pallone non riesce davvero a decollare. Prendete Lomé, la capitale baraccopoli del Togo. Non è solo la citta delle Nana Benz, le chiassose e corpulente proprietarie di quasi tutti i taxi, ma è anche un porto di mare dove ogni allenatore trascina le proprie speranze prima di essere messo fuorigioco. Silurare gli allenatori è il passatempo preferito del pittoresco colonnello Rock Gnassingbé, 46 anni, padre padrone del

L’attaccante della Jugoslavia Dusan Bajevic segna di testa al sostituto portiere Dimbi Tubilandu dello Zaire, il 18 giugno 1974 allo stadio di Gelsenkirchen, durante i Mondiali di Germania. La Jugoslavia ha battuto lo Zaire 9 a 0

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calcio togolese e fratello minore di Faure, uno dei tanti dittatori disseminati nell’Africa nera. Questo signore ha cambiato qualcosa come quattordici allenatori della Nazionale negli ultimi tre anni. L’esonero più bizzarro quello di Jean-Paul Abalo: cacciato per non aver inserito nella lista dei convocati tal Salou Tadjou. Gnassingbé non era al corrente che Tadjou fosse deceduto un anno prima in un incidente stradale. E che dire di Henrietta Rushwaya? Si è affermata come il mito della prima presidentessa di calcio che è rimasta parecchie volte nuda, e divertita, davanti a un mondo morboso e irreversibilmente plebeo. I suoi amanti, giovani, vigorosi e non solo dai piedi buoni, sembravano venuti a questo mondo per essere il primo piatto, il secondo o il dessert, nel tentativo di raggiungere la condizione di menù completo. I sensi disincantati di Henrietta, numero uno della federcalcio dello Zimbabwe, sono stati la causa del fallimento della Nazionale che ha perso il treno per il Sudafrica. La dama nera si presentava alla reception dell’hotel dove alloggiava la squadra, sceglieva i tre o quattro calciatori di suo gradimento come nello stand di una mostra bovina e, dopo una notte bollente e articolata nel suo regale appartamento di Harare, li faceva riaccompagnare dal fedele e omertoso autista, tra le candide lenzuola dell’albergo a godersi il sonno dei giusti e degli spossati.

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Un accenno anche alle divise del Camerun, griffate dalla Puma, che non finirebbero nei magazzini della federcalcio, ma a casa del ministro dello Sport. L’alto funzionario girerebbe alla Nazionale solo un centinaio di esemplari, tra magliette e calzoncini, da utilizzare con un bizzarro turn over fra tutte le squadre. La storia è venuta a galla il 4 settembre del 2010 all’aeroporto di Douala, scalo dei giocatori allenati all’epoca dallo spagnolo Javier Clemente di ritorno dalla vittoriosa gara di Coppa d’Africa alle isole Mauritius. Davanti a un centinaio di testimoni, Eto’o e compagni hanno aperto le valigie ritirate dai nastri e depositato gli indumenti sportivi in alcune ceste. Per lavarli? Macché, per essere imbarcati sul volo della Nazionale Under 17 diretta al Cairo. I “leoncini” sono rimasti con il fiato sospeso fino all’ultimo, attendendo l’arrivo dei campioni per potersi presentare in Egitto con la divisa ufficiale. Non sono favole, ma solo alcuni tra centinaia di episodi che quotidianamente danneggiano il calcio africano, la cui pratica nasce con l’epoca coloniale e arriva a diffondersi in maniera capillare grazie alle scuole delle missioni cristiane. Poco dopo il pallone diventa un elemento d’identità delle classi popolari, soprattutto urbane. In seguito, nel periodo della decolonizzazione, si diffonde in molti Paesi africani come lo sport per eccellenza. Le giovani élite postcoloniali lo considerano un potente ausilio nella formazione e legittimazione dell’ideologia dello Stato nazionale e un ottimo antidoto al rischio di frammentazione etnica. La Nazionale di calcio diventa così l’emblema dello Stato, con i suoi riti da celebrare e i suoi eroi da festeggiare e, nel caso di sconfitta, da punire. Nel 1957 viene organizzata la prima Coppa d’Africa delle Nazioni (vinta dal Sudan), ma fino agli anni Settanta il calcio africano resta un fenomeno circoscritto. La sua entrata sulla scena mondiale coincide con la partecipazione del Marocco alla fase finale del torneo iridato del 1970 in Messico. Il calcio del Maghreb è tuttavia qualcosa di diverso da quello dell’Africa nera. Le nazioni affacciate sul Mediterraneo respirano un’aria più europea e di conseguenza l’organizzazione e il professionismo hanno creato un divario, forse incolmabile, con il resto del Continente. L’incipit di Madre Africa è quindi racchiuso nelle gesta dello Zaire del 1974. Grazie alla diffusione planetaria degli eventi sportivi, partecipare ai Mondiali di calcio per questi Paesi significa acquisire legittimità internazionale e soprattutto avere l’occasione di esprimere, attraverso il tifo, una protesta sociale o un desiderio di rivincita e riscatto.

I Leoni indomabili

Un desiderio che ha animato la squadra del Camerun. Siamo nel 1982, ormai lo Zaire è un ricordo che sbiadisce come una vecchia foto. I Leoni indomabili, questo il loro soprannome, sono una formazione che saprà conquistare le prime pagine dei giornali per i risultati ottenuti sul campo. Il Camerun è inoltre il primo vero contatto dell’Italia con il calcio dell’Africa nera. Se lo Zaire rappresentava la novità in salsa folkloristica, nel 1982 il Camerun ci riguarda da vicino. La squadra, qualificata al mondiale dal timoniere serbo Branko

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Žutic, e accompagnata in Coppa del mondo dal francese Jean Vincent, è tutt’altro che sprovveduta e viene sorteggiata nel girone degli Azzurri. Il compianto ct Enzo Bearzot li aveva visti all’opera qualche mese prima a Tripoli in Coppa d’Africa rimanendo sorpreso dalla loro forza fisica e abilità tecnica. Confermate per altro nelle due sfide pareggiate in Spagna contro Perù e Polonia. Erano i giorni in cui le prime pagine dei giornali insistevano che il Camerun ci avrebbe fatto “tremare”. Anzi no “paura”. Peggio ancora, ci avrebbe fatti “neri”. A meno di un colpo gobbo o di una carognata, attendendo misticamente il bacio della grazia. Magari per intercessione della Fifa, che in virtù degli indiscutibili poteri taumaturgici del presidente João Havelange aveva già spedito a casa l’Algeria di Rabah Madjer per salvare faccia e dignità alla Germania Ovest, con uno dei furti più clamorosi della storia ultracentenaria del calcio. Alla fine tutto si risolse per il meglio, almeno osservando la prospettiva dello stivale: Italia avanti con il vento in poppa verso l’iride e la notte ubriacante del Bernabeu, e Camerun a casa, ma con la percezione di aver sfiorato l’impresa del secolo. Le zampate di alcuni di quei Leoni indomabili lasciarono segni così profondi da non passare inosservati nella nomenclatura del calcio mondiale. Qualcuno entrò nella casta e trovò ingaggi milionari in Europa; di Ephrem M’Bom, “carceriere” di Paolo Rossi, invece, si persero le tracce, almeno fino alla primavera del 2007, quando un tubo difettoso dell’associazione umanitaria Réagir dans le monde ha portato a galla una di quelle storie solitamente partorite sotto il sole dell’Africa. Padre Auguste Bourgeois, un cistercense con la passione viscerale per il calcio, non ha avuto la minima esitazione a riconoscere l’ex calciatore in quell’idraulico attempato che armeggiava sotto il lavandino con tenaglie e chiave inglese. È stato il religioso francese a raccontare del sorprendente incontro alla stampa transalpina che però ha relegato la notizia in un trafiletto anonimo tra le pillole degli sport minori. M’Bom vive a Douala, popolosa città affacciata sul Golfo di Guinea, con il calcio ha chiuso nel 1992, e quando ha cercato di intraprendere la carriera da allenatore non ha trovato uno straccio di squadra disposta ad affidargli l’incarico nonostante le ottime referenze. Al tramonto di una brillante carriera vissuta nel prestigioso Canon di Yaoundé, si è ricordato di aver imparato il mestiere di idraulico quando poco più che bambino trascinava la cassetta degli attrezzi di papà Joseph nel tentativo, non sempre proficuo, di sfamare la mamma invalida e altre quattro sorelline. Quella cassetta, ormai arrugginita, la tiene tra le mani con la stessa sacralità che si addice a uno scrigno, per portare a casa un tozzo di pane. Il caso del difensore camerunense richiama quello del compagno di squadra Gregoire M’Bida, autore del gol agli azzurri nella gara di Vigo, costretto a emigrare in Francia, nella pirenaica Dax, per rimanere a contatto con il calcio e scacciare l’incubo della persecuzione sociale e religiosa. Per le stesse ragioni Jean Pierre Tokoto ha scelto gli Stati Uniti, dove però ha fatto i soldi insegnando il

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gioco pallone nei college. Thomas N’Kono e Roger Milla, portiere e attaccante di quella splendida armata, sfruttano il loro nome e tra i business più disparati se la passano davvero bene.

Il primo africano d’Italia

Mondiali di calcio del 1982. A Vigo, Spagna, il 23 giugno 1982 si affrontano Italia e Camerun. La partita finisce 1 a 1. Qui lo scontro fra Marco Tardelli ed Emmanuel Kunde

Non si può dire altrettanto di François Zahoui, il primo africano del calcio italiano. Lo scorso marzo non gli è stato rinnovato il contratto che lo legava alla panchina della sua Costa d’Avorio. Fatale la sconfitta in finale di Coppa d’Africa, ai rigori, contro lo Zambia. Fu Costantino Rozzi, compianto presidente dell’Ascoli, a portarlo giovanissimo in Italia nell’estate del 1981 poco tempo dopo la riapertura delle frontiere. La città marchigiana lo adottò all’istante soprannominandolo “Zigulì”, come le caramelle. Il suo apporto in maglia bianconera fu più d’immagine che di sostanza. In due stagioni raggranellò la miseria di undici presenze, delle quali una soltanto dal primo minuto. Statistiche che giustificano lo stipendio: dodici milioni di lire annui. Sul suo conto sono state raccontate leggende, bugie, aneddoti e verità curiose. Tra falsi miti e troppi “si dice” c’è un aspetto assolutamente reale: la sua figurina da attaccare sugli album della Panini era tanto introvabile quanto ambita dai collezionisti. Da meteora a bidone, i giudizi che lo accompagnarono dopo il suo addio all’Italia furono spietati: dal canto suo, ancora oggi ricorda con affetto quell’esperienza e le persone conosciute. E siccome a volte ritornano, il 20 agosto del 2010 a Londra tenne a battesimo con la sua Costa d’Avorio la nuova Italia griffata da Prandelli.

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Bob Thomas [getty images]

Icone ed eroi smarriti Il vincente trova sempre una strada, il perdente trova sempre una scusa. Ma è altrettanto vero che lo sport aiuta a cogliere serenamente i limiti dei vincenti e a esaltare le risorse nascoste dei perdenti. Questo accade almeno in condizioni normali. Se nasci in Africa i concetti rischiano di ribaltarsi o estremizzarsi, condizionati da una situazione sociale claustrofobica. Mai come nel Continente nero la fortuna diventa la variabile necessaria per trasformare sogni in realtà o realtà in incubi. In Africa un calciatore che non sfonda non ha prove d’appello nella vita. Finisce la sua corsa nell’oblio, seppellisce i propri fallimenti nella droga o li affoga nell’alcol. A volte spegne persino l’interruttore della vita. Quelle che seguono sono tre squadre che abbracciano un’ampia fetta della storia del calcio africano. Assemblate per valore tecnico di ciascun atleta. Gente dai piedi educati in una sorta di livella di qualità. La prima squadra è un mix di grandi firme, icone del pallone per un intero continente. Le cui gesta vengono tramandate dai padri ai figli spesso con la postfazione di qualche aneddoto che possa sospingerli verso il divismo assoluto. La seconda squadra è un po’ la selezione di chi oggi tiene saldamente nelle mani lo scettro del migliore. Atleti che innescano sogni di gloria di milioni di ragazzini. Poi però ci sono anche quelli che invece si sono persi per strada e che ora vivono nel passato o nel futuro, non più capaci di vivere nel presente, confondendo i propri pensieri con la realtà.

Vecchie glorie Badou Zaki (Marocco) portiere

Rigobert Song (Camerun) laterale destro

Emmanuel Kundé (Camerun) difensore centrale

Hani Ramzy (Egitto) difensore centrale

Lucas Radebe (Sudafrica) laterale sinistro

Stephen Appiah (Ghana) centrocampista

Abedi Pelé (Ghana) centrocampista

Rabah Madjer (Algeria) centrocampista

Kalusha Bwalya (Zambia) attaccante

Roger Milla (Camerun) attaccante

George Weah (Liberia) attaccante

La Top 11 1) - Kennedy Mweene (Zambia), 1984 È il miglior portiere d’Africa. Titolo guadagnato sul campo dopo le strepitose prestazioni offerte al recente campionato continentale in Gabon e Guinea Equatoriale. Decisivo nella gara contro la Costa d’Avorio. Appena 173 centimetri d’altezza, davvero pochi per un portiere, che vengono compensati da una reattività invidiabile. Gioca in Sudafrica, ma l’Europa lo aspetta a braccia aperte. 2) - Alexandre Song (Camerun), 1987 Pilastro della difesa dell’Arsenal di Arsène Wenger e dei Leoni indomabili. Ha fisico, corsa e predisposizione a coprire più ruoli in campo, compreso quello del centrocampista di copertura. Nato in Camerun, è arrivato in Francia da ragazzino imparando l’abc in Corsica nel Bastia fino a diventare una delle stelle della Premiership. È nipote di Rigobert Song, con cui ha giocato anche in Nazionale. 5) - Kolo Habib Touré (Costa d’Avorio), 1981 Ha avuto la fortuna di crescere in patria nell’Asec Mimosas, una delle migliori scuole calcio di Abidjan. Per sette anni ha guidato la difesa dell’Arsenal vestendo anche i gradi di capitano. A volte esagera nell’energia e nell’agonismo, ma la sua presenza è fondamentale. Da due stagioni è il regista difensivo del Manchester City di Roberto Mancini.

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Condusse i suoi uomini a una storica vittoria (1-0, rete di Kolo Touré). Tutto a un tratto sembrava che avesse finalmente dato un calcio alla sfortuna. Fino appunto alla lotteria dei rigori con lo Zambia che gli è risultata fatale sotto l’aspetto professionale.

Il trio Gargo, Kuffour e Duah

Tra Zahoui e l’invasione degli atleti africani c’è una storia che fa da spartiacque. È quella di un trio di ragazzini di belle speranze approdati al Torino nell’estate del 1991: Mohammed Gargo, Emmanuel Duah e Samuel Kuffour. Avevano appena vinto il mondiale Under 17 che si era disputato in Toscana, e l’allora presidente granata Gian Mauro Borsano fiutò l’affare prelevandoli in blocco per un miliardo e duecento milioni delle vecchie lire. Non sono ancora i tempi dei passaporti facili, né della liberalizzazione degli extracomunitari e degli aggiri fantasiosi ai regolamenti. In Italia i tre ghanesi vengono assunti come fattorini presso la Gi.Ma. la società di Borsano. Si parla di tratta di schiavi e contro il Torino si schiera il presidente federale Antonio Matarrese. I regolamenti sono ferrei e la possibilità di tesserarli è ridotta al lumicino. Rimangono, nel limbo, a Torino per un anno. Poi lasciano l’Italia. Gargo e Kuffour ritorneranno poi nel nostro Paese, protagonisti, entrambi, di un’ottima carriera, soprattutto in campo internazionale. Meno fortunata la traiettoria di Duah, riciclatosi nel campionato turco e in quello d’Israele con le casacche di squadre di bassa categoria. Decisamente più morbido l’impatto dei calciatori neri in altri campionati d’Europa. Sotto questo aspetto la Germania è all’avanguardia. L’esordio del primo atleta mulatto tra i professionisti risale addirittura al 1965. Si trattava di Erwin Kostedde, tesserato dal Preußen Münster. Di padre africano e mamma tedesca, questo discreto attaccante stabilì anche un altro primato: fu il primo colored a vestire la maglia della Germania Ovest, giocando tre partite. Il primo africano a tutti gli effetti è però il centrale ghanese Anthony Baffoe, ingaggiato nel 1983 dal Colonia. Un buon atleta che al termine della sua carriera è entrato a far parte dello staff della Fifa oltre a essere ambasciatore del calcio africano. La famiglia Baffoe si è talmente integrata che la sorella di Anthony, Liz, è diventata una stella della televisione tedesca.

Identità sottratte

La storia dei tre moschettieri tira in ballo un altro fenomeno molto diffuso nell’Africa nera, quello della reale età dei calciatori. Il più delle volte gli anni e la data anagrafica dei documenti non coincidono. Il motivo è banale: spesso i genitori portano a registrare i loro bambini alla prima occasione utile, soprattutto se vivono nei villaggi e devono raggiungere la città. Abitudine vuole che la data di nascita diventi quella del giorno di registrazione all’anagrafe, anche se il bambino ha compiuto quattro anni. Ci sono però motivazioni che vanno al di là della disorganizzazione diffusa. Anzi, c’è proprio un’organizzazione capillare nel falsificare i documenti. Una pratica che permette a dirigenti sportivi senza scrupoli di iscrivere le loro squadre a tornei internazionali giovanili e trionfare barando. Nella Nazionale giovanile

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ghanese di Gargo, Kuffour e Duah militava anche un certo Nii Odartey Lamptey, ragazzino prodigio nell’Anderlecht e per un certo periodo designato da Pelè in persona come suo erede. Il futuro sembrava appartenergli. Purtroppo Lamptey aveva almeno 8-10 anni in più di quelli scritti in calce sulla carta d’identità. Non era quindi un ragazzino prodigio, ma un adulto che imbrogliava vincendo facile contro avversari di 16 anni. Nel tempo il tranello venne a galla. Per la cronaca il mancato Pelè cambiò più di venti squadre, per un breve periodo giocò anche a Venezia. Bocciato ovunque. Perché tra gli adulti emergeva quanto fosse mediocre. Ma il capolavoro spetta alla Nigeria. Sostenevano di appartenere alla “meglio gioventù” e forse la convinzione di una bugia ben architettata aveva finito per soppiantare una realtà collocata agli antipodi. Venticinque anni fa la Nigeria sollevava nel cielo di Pechino la Coppa del Mondo Under 17. Impresa suggellata dopo aver messo in riga l’Italia di Maurizio Ganz, il Brasile di André Cruz e l’Argentina di Fernando Redondo. Doveva e poteva essere l’inizio di un ciclo di vincenti, ma quella squadra si sciolse in poche settimane come neve al sole. Travolta appunto dai passaporti truccati. Tutti i protagonisti del trionfo sparirono nel nulla e la testimonianza di uno dei superstiti, l’allora capitano Nduka Ugbade, è significativa: «Molti miei compagni hanno disputato quel torneo con documenti di altri ragazzi. Per questa ragione non si trovano più riscontri a distanza di anni di alcuni baby fenomeni». In parole povere significa che nelle liste ufficiali della Fifa risultava

Samuel Kuffour festeggia il gol del 2-1 con il quale la Roma ha vinto la partita di coppa Uefa contro il Tromso, nell’ottobre 2005

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6) - Aymen Abdennour (Tunisia), 1989 Si è consacrato alla recente Coppa d’Africa come uno dei migliori difensori centrali in assoluto. In patria ha vinto tutto quello che c’era da vincere con l’Étoile du Sahel di Sousse, conquistando anche la Champions League continentale. Da un anno gioca in Francia nel Tolosa. Si tratta però di una toccata e fuga. Arsenal e addirittura Barcellona sono sulle sue tracce da parecchi mesi. 3) - Benoît Assou-Ekotto (Camerun), 1984 Ha apertamente dichiarato al quotidiano The Guardian di fare il calciatore per soldi. Il calcio non sarebbe la sua passione. È un ottimo terzino sinistro, una vera e propria spina nel fianco per qualsiasi difesa avversaria. Bravo in copertura, ma le cose più interessanti nel suo repertorio arrivano quando avanza palla al piede. È nato in Francia da genitori emigrati da Yaoundè e gioca in Inghilterra per il Tottenham. 4) - Gnegneri Yaya Touré (Costa d’Avorio), 1984 È il fratello più giovane di Kolo Touré e ha impiegato una vita (da zingaro tra Belgio, Ucraina, Grecia e Francia) per imporsi all’attenzione generale. Nel Barcellona ha vestito i panni del vice Xavi, fino a quando nel Manchester City è diventato la risposta africana al playmaker del club catalano. Nel 2011 è stato eletto calciatore africano dell’anno, succedendo a Samuel Eto’o; era dal 1984 che un centrocampista non vinceva questo trofeo. 8) - Kevin Prince Boateng (Ghana), 1987 Il prototipo del centrocampista moderno. Un mix di forza d’urto e qualità tecniche. È esploso nel Milan di Allegri dopo aver fatto vedere di che pasta fosse fatto sulla rotta Berlino-Londra-Dortmund. Kevin Prince è cresciuto nel quartiere berlinese di Wedding popolato per circa un terzo da immigrati e nel quale è molto alto il tasso di disoccupazione e di crimini. Il calcio l’ha salvato da un destino ingrato. 7) - André Ayew (Ghana), 1989 È un centrocampista veloce e aggressivo noto con il soprannome La Bestia. Sicuro nell’impostazione della manovra e abile finalizzatore. La sua fortuna è quella di essere nato in una famiglia di calciatori. Suo padre, il celebre Abedi Pelé, apprezzato anche in Italia con il Torino, lo porta praticamente in fasce nel Marsiglia. Dopo un paio d’anni di apprendistato a Lorient e Avignone torna alla casa madre diventando uno degli intoccabili dell’Olympique. 10) - Didier Drogba (Costa d’Avorio), 1978 Troppe volte l’hanno dato per finito, logoro e pensionabile. Lui ha sempre risposto a suon di gol. Prima a Marsiglia e dal 2004 nel Chelsea. Leader assoluto della Nazionale ivoriana, ha vinto il premio di Calciatore africano dell’anno nel 2006 e nel 2009, mentre nelle stagioni 2006-2007 e 2009-2010 è stato capocannoniere della Premier League, realizzando 20 e 29 reti. È stato anche re del gol alla recente Coppa d’Africa. Determinante nella finale di Champions League vinta ai rigori dal Chelsea. Ora fa cassa in Cina. 9) - Samuel Eto’o (Camerun), 1981 Il cobra è sicuramente il calciatore africano più conosciuto al mondo. Ha vinto tutto quello che si possa collezionare in un club. Prima nel Barcellona, poi con l’Inter di Mourinho. Per soldi, come da lui stesso ammesso, ha lasciato il pallone delle grandi vetrine nell’agosto 2011 per trasferirsi in Russia nell’Anzhi Makhachkala, con un contratto di 20,5 milioni di euro a stagione per tre anni. È stato eletto quattro volte Pallone d’oro africano (2003, 2004, 2005 e 2010). In Africa spesso appare come special guest nei video dei più importanti rapper e artisti hip hop. 11) - Emmanuel Mayuka (Zambia), 1990 Rappresenta l’Africa del futuro. L’erede di Eto’o. Ha conquistato la Coppa d’Africa con la sua Nazionale, segnando tra l’altro il gol che ha provocato la sorprendente eliminazione del Ghana. Gioca in Svizzera nello Young Boys di Berna, ha un’esperienza in Israele, ma è arrivato il momento del grande salto, propiziato dalle ottime prove fornite con la sua Nazionale. Andrà a giocare in Inghilterra. Lo vogliono Arsenal, Fulham e Newcastle.

La Flop 11 1) - Joseph Dosu (Nigeria), 1973 Un oro ad Atlanta con la Nigeria, portiere di grandi prospettive. Nel 1996 fu tesserato dalla Reggiana anche se non giocò mai in Serie A. La sua carriera fu infatti bruscamente interrotta nel 1997 quando ebbe un grave incidente automobilistico ad Abuja, nel suo Paese, che lo lasciò paralizzato. Ora vive a Lagos dimenticato da tutti. Si era offerto come commentatore televisivo, ma la sua candidatura è stata bocciata dalla tv di Stato. 2) - Yao Amegnaglo (Togo), 1991 Fisicamente somiglia al francese Marcel Desailly. Difensore corazzato, ma rapido ed elegante. Ha vissuto sulla propria pelle una storia incredibile. Lo scorso anno uno pseudoagente di calciatori decise di portarlo a Tel Aviv per un provino. L’uomo, non avendo le credenziali, non venne mai ricevuto da alcun club e al povero Yao non rimase altro da fare che intraprendere un viaggio della speranza a ritroso, con ogni mezzo di trasporto possibile, per tornarsene a casa. Oggi gioca nell’As Doaunes in patria. 6) - Yaya Banana (Camerun), 1991 Si porta appresso un cognome che è una maledizione. Roba da barzellette. Soprattutto da quando aveva lasciato il Camerun per andare a giocare nell’Espérance di Tunisi. Il povero Yaya non poteva certo sapere che il presidente del club tunisino era l’amministratore delegato per il Nord Africa della Danone. Yogurt e banana sono un’accoppiata vincente, soprattutto per alimentare storielle sul giocatore che sotto l’aspetto tecnico ha pochi rivali in Africa. Da qualche mese è approdato in Francia nel Sochaux. Perde la gara d’esordio e tutti a scrivere su quale buccia è scivolata la squadra transalpina.

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un Victor o un Michael qualsiasi, magari inconsapevoli studenti di Lagos, ma che in realtà erano un Nwankwo o un Obafemi, tutt’altro che minorenni e qualche anno dopo acclamati campioni. Sostituendo una foto si poteva davvero ambire alla Coppa del Mondo.

La tratta degli schiavi

La vicenda di Borsano fa quasi sorridere se messa a confronto con le dinamiche di globalizzazione del calcio che stanno alimentando in particolare un fenomeno: la ricerca dei giovani talenti da inviare in Europa. I Paesi africani, demograficamente molto giovani, sono considerati immensi campi di estrazione di materie prime umane, che vengono trasferite, attraverso un’organizzazione impietosa e grazie alla collusione di poteri locali troppo deboli, verso il cuore del mercato calcistico globale, ovvero l’Europa. È un dato incontestabile che la quasi totalità delle squadre africane qualificate ai Mondiali 2010 era composta da giocatori ingaggiati da club europei. I talenti di successo sono uno dei miti con cui l’Occidente esercita attrazione sull’Africa e sulla sua gioventù. In Paesi dove le popolazioni vivono sulla soglia della povertà, dove i giovani non hanno prospettive di sviluppo e dove pochi ricchi controllano la quasi totalità delle risorse, l’immagine di Eto’o associa la pratica e la riuscita sportiva all’emigrazione, alla ricchezza, al successo. Il fenomeno del traffico dei talenti sportivi è oggi uno dei lati più discutibili e oscuri della globalizzazione dello sport, denunciato da più parti, normalmente inascoltate. È facile cadere nella tentazione. A fianco di una sobria lista di agenti Fifa, deputati a occuparsi a pieno titolo dei giovani promettenti, esiste un vero e proprio esercito di faccendieri senza scrupoli che impostano il loro business su una rediviva “tratta degli schiavi”. Ogni bambino africano sogna di diventare come George Weah, l’ex attaccante del Milan, primo giocatore africano a conquistare il Pallone d’oro. In poche parole, una leggenda vivente. Il calcio può diventare il lasciapassare per una nuova vita e togliere dalla miseria famiglie intere. Ma la maggior parte di loro sono semplicemente destinati ad alimentare un cinico traffico governato da interessi privati e dal denaro. Esiste e si è consolidato un perverso meccanismo di un sistema che recluta ogni anno migliaia di ragazzini in tutta l’Africa e che sfocia spesso nella truffa. Dietro il pagamento di migliaia di euro con la promessa di un ingaggio all’estero, i giovani vengono abbandonati in Paesi stranieri senza soldi, privi di documenti e senza la possibilità di rientrare a casa, mentre le loro famiglie rimangono indebitate a vita. Nessuno sa esattamente quanti siano, dal momento che per la maggior parte di loro il viaggio-speranza verso l’Eldorado del calcio si conclude con un naufragio che li consegna ad altri e miseri lavori e alla clandestinità. Un esempio di dinamica di mercato corretta risale al 1995 con Ibrahim Bakayoko trasferito dallo Stade d’Abidjan, Costa d’Avorio, al Montpellier, in Francia per una cifra di quindicimila euro. Tre anni dopo il giocatore ivoriano è stato venduto all’Everton per sette milioni di euro. Una normale e legale trattativa che al medesimo tempo alimenta il mercato parallelo. Non è tanto quello

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dei giovani allevati nelle scuole calcio e nei pochi club africani, quanto quello dei dilettanti che si accalcano alla ricerca di un ingaggio fra i semiprofessionisti e nelle squadre dilettanti europee. Anche un salario da mille euro al mese vale l’avventura di queste figure di migranti e braccianti del pallone. La storia del camerunense Joseph Mani è significativa: avvicinato a Yaoundé da un sedicente agente e finito in Francia, abbandonato a se stesso e costretto per sbarcare il lunario a giocare in una squadra alsaziana per 400 euro al mese. Malgrado tutto, Joseph è uno dei pochissimi che ce l’hanno fatta: oggi è tesserato per il club svizzero Baulmes e ha documenti regolari per sé e la famiglia. Ma ogni volta che torna a Yaoundé organizza riunioni per allertare i giovani dei rischi che corrono cercando fortuna in Europa. Riferisce drammi e fatiche dell’esercito di riserva dei giocatori africani ai margini del mondo del pallone. Da più parti si chiede a Uefa e Fifa di alimentare fondi di solidarietà internazionale per dare vita a campionati ben strutturati in Africa e a centri di prevenzione per informare i giovani sui rischi dell’espatrio improvvisato e offrire loro alternative al miraggio del football. Un calcio-pedagogia verrebbe da dire, piuttosto che un

Ragazzi angolani giocano a calcio fuori dello stadio di Lobito, a circa venti chilometri da Benguela

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Khaled Desouki [afp/getty images] P022D E017 calcioafrica.indd 31

5) - Massamasso Tchangai (Togo), 1978-2010 È scomparso l’8 agosto 2010 a Lomé ufficialmente a causa di un problema cardiaco. In realtà Tchangai era un adepto del voodoo e il suo decesso sarebbe da mettere in relazione a uno di questi strani riti che gli ha distrutto la carriera. Con il Togo aveva partecipato al Campionato del mondo 2006 e alla Coppa d’Africa 2008. Nel 1998 era approdato all’Udinese, senza però trovare spazio. Meglio nella Viterbese e a Benevento, ai confini dell’impero. Poi sempre più in basso, travolto da un animismo che spesso è il sale della quotidianità a quelle latitudini. 3) - Tenworimi Duere (Nigeria), 1970 Uno dei tanti atleti maledetti dell’Africa nera. A 15 anni veniva considerato un possibile erede di Roberto Carlos. Era il 1985 quando ai mondiali Under 17 di Pechino la sua Nigeria volava sul tetto del mondo e di lui si parlava come di uno che avrebbe sicuramente lasciato il segno. Tenworimi però non fece i conti con il governo dell’allora dittatore Sani Abacha che gli impedì un provino nel Tottenham a Londra. La delusione lo accompagnò sulla strada della droga. 4) - Mohamed Abdelwahab (Egitto), 1983-2006 Una diga di centrocampo apprezzata ai mondiali Under 20 negli Emirati Arabi nel 2003 con la maglia dell’Egitto. Era apprezzato anche da Marco Tardelli, in quegli anni ct dei “faraoni”. Per giocare, e diventare professionista, ha sempre nascosto un problema cardiaco che purtroppo l’ha stroncato in allenamento nell’agosto del 2006 ad appena 23 anni mentre, ironia della sorte, stava per coronare il suo sogno e firmare in Portogallo con il Boavista di Oporto. 10) - Victor Igbinoba (Nigeria), 1969 Se vi trovate per le strade di Lagos e vi si avvicina un uomo corpulento, con tanto di capelli rasta, e vi dice di essere in contatto con Dio, cercate di assecondarlo. Non è aggressivo, ma soprattutto è l’ex fantasista della Nigeria campione del mondo Under 17. Problemi con l’alcol l’hanno frenato mentre stava per trasferirsi nelle giovanili del Real Madrid. Non è riuscito a gestire l’improvvisa notorietà. Scartato all’ultimo dalle merengues aveva provato in Austria nel First Vienna, che decise di tagliarlo poche settimane dopo uno stage. 8) - Dagobert Mougam (Camerun), 1950 Era uno degli intoccabili del Camerun che avrebbe disputato il mondiale del 1982. Il suo unico difetto? Essere un centrocampista con un tasso tecnico superiore alla media. Per il selezionatore Branko Zutic era l’uomo attorno al quale costruire la squadra che avrebbe preso parte alla kermesse iridata spagnola. Non la pensò allo stesso modo il nuovo allenatore, il francese Jean Vincent, più propenso ad allestire una formazione muscolare. Dagobert venne escluso e per protesta decise di lasciare il calcio. Oggi fa il camionista per una compagnia petrolifera di Douala. 7) - Yacouba Bamba (Costa d’Avorio), 1975 Sembra la storia de L’uomo in più, splendida pellicola di Paolo Sorrentino. Bamba doveva essere quello che Drogba è diventato. Anche perché in quegli anni i selezionatori della Costa d’Avorio lo preferivano all’attaccante del Chelsea. Poi la tegola. A Zurigo si frattura tibia e perone. L’operazione, ad Abidjan, non è certo da manuale di ortopedia. L’arto destro è lievemente più corto. Bamba non si arrende, continua a giocare, senza quasi più correre, tra i dilettanti. Ma il repentino tramonto della sua carriera coincide con l’ascesa di Drogba. 9) - Lamin Kuyaten (Gambia), 1987 Lui preferisce farsi chiamare Lamin Boy, come mostra orgoglioso sulla pagina di Facebook. L’anagrafe recita invece Lamin Kuyaten, 25 anni, nato a Banjul, ma con il fardello di una condanna a morte. I piedi, abituati a tirare calci al pallone e messi al servizio della Nazionale del Gambia, li ha convertiti per mettersi in marcia. Un viaggio di sola andata. «Ho attraversato Senegal, Mali e Niger. Un’esperienza massacrante. Mi sono sentito al sicuro solo quando ho varcato il confine che portava in Libia». Affermazione che col senno di poi fa rabbrividire. Lamin non poteva certo immaginare che cosa sarebbe accaduto in pochi mesi dalle parti di Tripoli, «ma il lavoro da carpentiere mi faceva sentire in qualche maniera realizzato». Fino alla rivolta e alla caduta del colonnello Muammar Gheddafi. Il nuovo viaggio della speranza è avvenuto con uno dei tanti barconi. L’Italia si è trasformata nell’eldorado. Una terra promessa dove dimenticare gli incubi di un passato che ha smembrato la sua famiglia. Ora i suoi “parenti” sono i compagni di squadra della Porcenese, formazione dilettantistica di Porcen di Seren del Grappa, nel Bellunese. Dove veste i panni del bomber implacabile. 11) - Hugo Enyinnaya (Nigeria), 1981 Un mistero tutto italiano. 18 dicembre 1999, stadio San Nicola, Bari-Inter: a pochi minuti dall’inizio il nerazzurro Vladimir Jugovic sbaglia un retropassaggio, Enninaya, allora diciottenne, ne approfitta e da circa 30 metri lascia partire un bolide che lascia di stucco Peruzzi: è l’1-0. Qualche minuto dopo pareggia Vieri, ma quasi a tempo scaduto un altro ragazzino, il diciassettenne Antonio Cassano, fissa il risultato sul 2 a 1. Il giorno dopo la stampa sportiva non parla d’altro. Per tutti quella diventa “la notte magica di Cassano ed Enyinnaya”. E se Cassano, pur tra i limiti caratteriali, è riuscito a consacrarsi, di Enyinnaya si sono perse le tracce. Il talento è sfumato via dai suoi piedi e gli infortuni hanno completato l’opera. Tra Livorno e Foggia non combina un granché. Sembra sul punto di rinascere in Polonia, ma naufraga e quando decide di rientrare in Italia ad accoglierlo ci sono soltanto formazioni dilettantistiche. Il gol all’Inter è stato un po’ il suo biglietto da visita. L’unico purtroppo da esibire. Da un anno è tornato in Nigeria. Vivendo di ricordi.

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calcio-utopia. Ma il problema sta anche nel fatto che il governo del pallone mondiale elargisce denaro per questi progetti. Purtroppo il più delle volte finiscono nelle tasche dei soliti dirigenti cleptocratici.

Fino a ora abbiamo parlato di corruzione, tratta degli schiavi, cleptocrazia e disorganizzazione. Nel cuore dell’Africa nera esiste una realtà che va controcorrente. Dove si respira davvero l’aria del professionismo e dove i giocatori non sono costretti per forza a emigrare in Europa per emergere. Il Tp Mazembe, club congolese, è la classica eccezione che conferma la regola. Un’isola felice del pallone salita agli onori delle cronache per aver affrontato l’Inter nella finale del Mondiale per Club del 2010. Sono stati vice campioni del mondo. Una medaglia d’argento di cui essere orgogliosi e che rappresenta davvero il successo di un’operazione manageriale ben strutturata. Dietro al miracolo Mazembe c’è un ricco imprenditore congolese, Moise Katumbi, 47 anni, proprietario della Africo Resources, la più importante azienda mineraria del Congo, e considerato tra i dieci uomini più ricchi d’Africa. Katumbi, che ricopre anche l’incarico di governatore della regione del Katanga, impiega la presenza sociale, che fa da corredo al pallone, non soltanto per prosperare nei suoi guadagni, ma anche per ottenere il massimo riconoscimento politico. A oggi non si può prevedere se in futuro riuscirà a prendere il posto del presidente della repubblica Joseph Kabila, sicuramente il suo Tp Mazembe (acronimo di Tout Puissant, in italiano “onnipotente”) possiede un florido settore giovanile, campi in erba e sintetici, due aerei per gli spostamenti all’estero della squadra e denaro a sufficienza per ingaggiare addirittura calciatori stranieri. Basti pensare che il blocco dello Zambia che ha trionfato in Coppa d’Africa (Himoonde, Sunzu, Kalaba e Sinkala) è tesserato per il club di Katumbi. Di recente ha fatto parlare di sé per aver ingaggiato il primo brasiliano professionista nella storia dell’Africa nera. Si tratta del difensore Julio Cesar dos Santos, ex São Paulo e Vasco da Gama. E sulle ali dell’entusiasmo è uscito dal seminato affermando che entro un paio d’anni porterà nel suo club uno tra Eto’o, Drogba e Emmanuel Adebayor. Un sogno che all’apparenza sembra impossibile. L’impressione è che gli unici diamanti sui quali potrà mettere davvero le mani siano quelli del fecondo sottosuolo di Lubumbashi e non certo i calciatori che a fronte di proposte indecenti non accetterebbero di esibirsi in un campionato anonimo e di profilo approssimativo. Anche se Eto’o, sposando i rubli del semisconosciuto Anzhi Makhachkala (formazione del Dagestan), sembra rafforzare le speranze di questo paperone d’Africa.

Cose dell’altro mondo

Il Continente africano vive a due velocità anche sotto l’aspetto calcistico. Mentre l’Africa nera è in preda a mille problemi, nel Maghreb il professionismo si può toccare con mano da quasi quarant’anni. E se la Nazionale del Marocco fu la prima squadra africana a prendere parte a un mondiale (in Messico nel 1970), la Tunisia otto anni

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Fethi Belaid [afp/getty images]

Una mosca bianca

dopo, in Argentina, riuscì nell’impresa di fermare sullo 0 a 0 i campioni in carica della Germania Ovest dopo aver battuto 3 a 1 il Messico. Quella squadra era diretta in panchina da Abdelmajid Chetali, oggi quotato opinionista della tv qatariota Al Jazeera, ma all’epoca tecnico emergente con in tasca una laurea in Scienze motorie conseguita proprio in Germania a Colonia. Un caso? Tutt’altro. L’allora presidente tunisino Habib Bourguiba aveva inviato i suoi allenatori migliori a studiare all’estero, perché fermamente convinto che l’investimento del calcio avrebbe rappresentato una crescita sociale per il suo Paese. Quattro anni dopo toccò all’Algeria dell’emergente Madjer (detto “Il tacco di Allah”) farsi beffe della Germania. Addirittura sconfitta per 2 a 1 in un pomeriggio da canone inverso a Gijon. I tedeschi non sempre portano bene al Maghreb, perché nel corso della Coppa del Mondo del 1986 in Messico rovinarono la favola del Marocco giunto a sorpresa fino agli ottavi di

I giocatori del Tout Puissant Mazembe, squadra congolese, alzano la Champions League africana, vinta il 13 novembre 2010 allo stadio olimpico Rades di Tunisi. Hanno battuto la Espérance di Tunisi

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spérance di Tunisi, o lo Zamalek in Egitto sono vere e proprie polisportive con strutture che non hanno nulla da invidiare a quelle del Vecchio Continente. Anche la religione islamica a quelle latitudini (diversamente da quanto accade in Medioriente) non si è mostrata d’intralcio. Il calcio nel Maghreb è così radicato che parte delle vicende della Primavera araba sono state partorite proprio nel mondo del pallone. I primi manifestanti al Cairo in piazza Tahrir contro Hosni Mubarak furono i tifosi dell’Al Ahly, la squadra del popolo meno abbiente. In Tunisia parecchi club si sono rifiutati di scendere in campo quando i soldati di Ben Ali tentavano di sedare le proteste nel sangue. Stessa cosa sta accadendo in Algeria, dove gli ultras dell’Mc Alger stanno chiedendo a gran voce le dimissioni del presidente Abdelaziz Bouteflika. Questo perché, come ha ricordato in una recente intervista Ruud Krol, bandiera della grande Olanda e per anni allenatore proprio in Egitto, «gli stadi sono sempre stati considerati una sorta di zona franca. Luoghi dove poter alimentare la protesta senza incappare in forme repressive». La recentissima tragedia di Port Said (73 morti in un regolamento di conti tra tifosi) ha prodotto il blocco di tutte le attività sportive in Egitto. Il momento è delicato, ma l’impressione è che, diversamente da quanto accade nell’Africa nera, dalle ceneri il calcio del Maghreb uscirà ancora più rafforzato.

Il calcio delle favole

finale del torneo (gol dell’ex interista Lothar Matthäus). I lampi iridati dell’Africa del Nord sono figli di un’organizzazione che risente della vicinanza all’Europa e dei continui rapporti con i Paesi colonizzatori. La Francia (in Algeria, Marocco e Tunisia) e l’Inghilterra (in Egitto) non solo hanno lasciato un’impronta, ma hanno successivamente dato vita a un vero e proprio rapporto di collaborazione che ha permesso al Maghreb di crescere calcisticamente e di darsi nel tempo uno status professionale. Nelle prime divisioni di questi Paesi i calciatori sono professionisti a tutti gli effetti, con stipendi che permettono loro il più delle volte di non pensare all’Europa con ossessione. Club come l’E-

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Sarebbe ingiusto concludere questo viaggio senza un lieto fine. L’Africa nera del pallone riesce anche a regalarci qualche bellissima pagina. È il caso dello Zambia, una sorta di cenerentola che alla recente Coppa d’Africa ha avuto l’abilità di salire sul gradino più alto del podio. L’ha fatto contro tutto e contro tutti. A partire dai pronostici non proprio gratificanti, fino ad arrivare ai repentini cambi d’allenatore (è stata guidata anche dall’italiano Dario Bonetti), ad alcuni calciatori che fino a poco tempo prima prestavano servizio in condizioni di semischiavitù nelle miniere di rame gestite dai cinesi. Una vittoria dedicata alla squadra che perse la vita nell’incidente aereo del 28 aprile 1993. In quell’occasione, se si escludono i tre professionisti (Charly Musonda, Kalusha e Johnson Bwalya) che avrebbero raggiunto i compagni diretti in Senegal con un altro volo, morì l’intera Nazionale. Non era una squadra qualsiasi, ma il gruppo che alle Olimpiadi di Seul impartì una lezione di calcio all’Italia (di Tacconi, Tassotti, Virdis e Ferrara) vincendo per 4 a 0 (tripletta di Kalusha). All’indomani dello strabiliante risultato, l’intera stampa italiana gridava alla vergogna. L’eco sportiva giunse anche in Parlamento, il deputato radicale Marco Pannella disse pubblicamente: «La vittoria dello Zambia costituisce un apporto al vero sport, al suo spirito e alla sua pratica». Quindi donò quattromila dollari (mille dollari a gol) alla squadra del Paese africano. La leggenda dei Chipolopolo, letteralmente i “proiettili di rame”, eroi di un pomeriggio in Corea non è mai tramontata nell’orgoglio africano. E oggi rappresenta davvero una pagina di speranza.

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L’Italia è una Repubblica 2 giugno, Salerno

Vittorio Cifone installava pannelli fotovoltaici sul tetto di un capannone, quando è caduto da un’altezza di circa 15 metri. Aveva 41 anni.

2 giugno, Valdobbiadene (Tv)

Francesco Adami, 77 anni, è stato travolto dal trattore. Stava lavorando su un terreno in forte pendenza. L’uomo ha perso il controllo del mezzo, forse per un malore.

3 giugno, Barge (Cn) a cura di

L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro è il nostro osservatorio sulle morti bianche. Si tratta di un elenco parziale e incompleto, ricavato da fonti secondarie, degli infortuni mortali avvenuti tra il 2 giugno e il 2 luglio. A cura di rassegna.it, sito d’informazione su lavoro, politica ed economia sociale, che dal settembre 2010 porta avanti un monitoraggio quotidiano delle vittime.

Marco Ambrogio, 48 anni, stava lavorando nel terreno di sua proprietà quando il trattore si è capovolto, schiacciandolo.

4 giugno, Artizo (Nu)

Il piastrellista di 52 anni Paolo Paba è morto per le ferite riportate nella caduta da un terrapieno. L’incidente era avvenuto due giorni prima.

4 giugno, Manoppello (Pe)

Scaricava da un autocarro una pressa che gli è sfuggita ed è rimasto schiacciato. Così è morto Giustino Fusco, 61 anni.

5 giugno, Padula (Sa)

Operaio di 52 anni, Michele Vecchio era dipendente in una fabbrica di lavorazione di marmo. È rimasto incastrato tra due lastre.

6 giugno, Livigno (So)

Ivo Cusini, 38 anni, stava effettuando un’operazione di pulizia nella sua azienda agricola, quando è scivolato nel pozzetto dei liquami.

9 giugno, San Salvo (Ch)

Giuseppe Artese, antennista di 44 anni, era impegnato su un tetto. È caduto da un’altezza di circa sette metri.

9 giugno, Volterra (Pi)

Thami Elmahnoudi, operaio marocchino di 47 anni, stava lavorando in un campo a Spicchiaiola. È rimasto incastrato in un macchinario per comprimere balle di fieno.

10 giugno, Fisciano (Sa)

Stava installando pannelli fotovoltaici quando è precipitato dal tetto di un capannone. La vittima è Giovanni Grasso, 22 anni.

11 giugno, Bagnolo Piemonte (Cn)

Lin Quafang, operaio cinese di 54 anni, è morto schiacciato da un blocco di pietra nel cortile della ditta per cui lavorava.

11 giugno, Caccamo (Pa)

Giuseppe Randazzo guidava un camion in una cava. Il mezzo si è ribaltato, schiacciandolo nella cabina. Aveva 55 anni.

11 giugno, Elba (Li)

Stava potando un albero in un giardino quando un fulmine lo ha colpito. La vittima è un operaio di 49 anni.

11 giugno, Mugnano del Cardinale (Av) Vittorio Rozza, edile di 54 anni, stava lavorando alla ristrutturazione di un vecchio fabbricato quando ha perso l’equilibrio ed è caduto dall’impalcatura.

11 giugno, Naturno (Bz)

Lavorava sul trattore. Il mezzo si è rovesciato in un tratto ripido. Stefan Kaserer aveva 26 anni.

7 giugno, Castelvetere in Val Fortore (Bn) 12 giugno, Campiglia dei Berici (Vi) Operaio di 43 anni, Pasquale Graniero stava caricando un mezzo cingolato. Lo ha colpito il rimorchio del camion.

Giovanni Zanin, 78 anni, tagliava l’erba nella sua azienda quando il trattore si è rovesciato in un canale.

7 giugno, Novi Ligure (Al)

12 giugno, Cervia (Ra)

7 giugno, Vicenza

12 giugno, Montereale (Aq)

8 giugno, Tortolì (Og)

12 giugno, Napoli

Pasquale La Rocca, 31 anni, era caporeparto all’Ilva. È rimasto schiacciato dal muletto durante il turno di notte.

Stava staccando la motrice del suo camion dal rimorchio quando questo si è spostato, schiacciandolo contro il guardrail. La vittima è Massimo Carlo Griggio, 55 anni.

Salvatore Angius, agricoltore di 48 anni, è morto in un incidente con il trattore mentre lavorava nella sua proprietà.

9 giugno, San Maria Manfredi (Bn)

Roberto La Torella, agricoltore di 82 anni, stava irrigando il terreno con un mezzo meccanico che si è ribaltato.

9 giugno, San Sebastiano da Po (To) Lo ha schiacciato l’escavatore guidato da un collega mentre lavorava alla costruzione di un muretto. La vittima è Renaldo Bertolino, di 69 anni.

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Alessandro Musacchio, ufficiale di 44 anni, è precipitato al suolo durante una simulazione di soccorso in elicottero.

Vasile Gradinaru, operaio romeno di 43 anni, stava lavorando in un cantiere edile. Il mezzo che manovrava si è ribaltato e lo ha schiacciato.

Autotrasportatore di 43 anni, Giulio De Gaetano stava guidando un’autocisterna di gasolio sulla Ss162. A causa di un incidente, il mezzo si è ribaltato, incendiandosi.

12 giugno, Omegna (Vb)

È finito sotto un tornio mentre lo stava pulendo con una soffiatrice. Così è morto Pasquale Santoro, 45 anni.

13 giugno, Avellino

Gerardo D’Andrea, 77 anni, è morto per le ferite riportate nel ribaltamento del trattore, il 21 maggio.

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a fondata sul lavoro 14 giugno, Cerignola (Ba)

23 giugno, Gazzo (Pd)

14 giugno, Scansano (Gr)

23 giugno, Serle (Bs)

15 giugno, Brentino Belluno (Vr)

24 giugno, Vasto (Ch)

15 giugno, Cellino di Bruino (To)

25 giugno, Tarquinia (Vt)

Stava guidando un trattore che, ribaltandosi, lo ha schiacciato. La vittima è Moreno Ferroni di 64 anni.

Renato Stella, 63 anni, è morto in un incidente avuto con il trattore nel suo campo, nella frazione di Rivalta.

Pietro Monni di 61 anni viene investito da un carrello elevatore mentre lavora alla manutenzione di una pressa.

15 giugno, Montecchia di Crosara (Vr) Agricoltore di 61 anni, Marino Valdegamberi è morto nel ribaltamento del trattore che stava guidando.

Lorenzo Zaccaria, agricoltore di 65 anni è rimasto schiacciato nel ribaltamento del suo trattore.

Adelino Tonni, 62 anni, è finito fuori strada con il trattore, probabilmente per un guasto ai freni.

Guidava una trebbiatrice quando il mezzo si è impennato, ribaltandosi. Così è morto Giuseppe Di Loreto, 61 anni.

Un’operaia romena, di cui non è stato rivelato il nome, è stata travolta da un’auto, mentre lavorava al rifacimento del manto stradale lungo l’Aurelia. Ferito il marito.

26 giugno, Dignano (Ud)

16 giugno, Lamezia Terme (Cz)

Operaio di 48 anni, Massimiliano Francioli era stato folgorato da una scarica elettrica. È morto dopo sette giorni d’ospedale.

16 giugno, Palazzolo sull’Oglio (Bs)

L’impalcatura sulla quale lavorava è crollata. Antonio Splendido, 51 anni, è caduto da un’altezza di sei metri.

Era al lavoro nell’azienda agricola di famiglia quando il trattore si è ribaltato. Così è morto un ragazzo di 17 anni.

Stava facendo pulizia nell’azienda di proprietà del figlio. Alessandro Campana, 81 anni, è caduto da una porta finestra.

16 giugno, Perugia

Imeri Destan, operaio macedone di 43 anni, è precipitato dal tetto del capannone per un cedimento della struttura.

18 giugno, Foggia

Salvatore Carbone, 53 anni, stava lavorando alla periferia della città quando è caduto da un’impalcatura.

19 giugno, Caderzone (Tn)

Agricoltore di 73 anni, Amadio Salvadei è morto travolto dal trattore che si è ribaltato.

20 giugno, Rubiera (Re)

Giovanni Di Leonado, imprenditore di 55 anni, è precipitato dal tetto di un capannone per un cedimento.

20 giugno, Santa Maria della Versa (Pv)

26 giugno, Termoli (Bc)

27 giugno, Agropoli (Sa)

Luigi Renzi, operaio di 30 anni, lavorava alla stabilizzazione di un camion. È rimasto schiacciato tra il mezzo e un container.

28 giugno, Nocera Superiore (Sa)

Una forte scossa lo ha investito in una cabina elettrica. Così è morto Antonio Medoro, operaio di 42 anni.

29 giugno, Farra di Soligo (Tv)

Enrico Giotto, agricoltore di 54 anni, è stato travolto dal suo trattore che si è rovesciato.

30 giugno, Gandellino (Bg)

Era impegnato nella costruzione di un palazzo quando è caduto da un cassone. La vittima è Lino Pioli di 55 anni.

2 luglio, Villaperuccio (Ci)

È finito sotto il trattore caduto in un fosso. La vittima è Luigi Rampini, agricoltore di 62 anni.

Stava manovrando il trattore quando il mezzo si è ribaltato schiacciandogli la gabbia toracica. Abid Faical, bracciante di origine marocchina, aveva 29 anni.

22 giugno, Maierato (Vv)

2 luglio, Santa Maria a Monte (Pi)

Il sessantaduenne Francesco Antonio Liberto è caduto dal trattore che guidava. Una fresa lo ha travolto.

22 giugno, Modugno (Ba)

Pietro Esposito, 41 anni, muore dopo 15 giorni d’agonia. Un oggetto lo aveva colpito alla testa mentre riparava una pala meccanica.

22 giugno, Piraino (Me)

Ignazio Natoli stava lavorando in una cabina elettrica a Pirano quando una scossa lo ha folgorato. Aveva 43 anni.

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Gianfranco Mei, 37 anni, era un operatore ecologico. È stato travolto da un’auto mentre cominciava la raccolta dei rifiuti con un asino spazzino.

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2 giugno- 2 luglio morti sul lavoro

Maurizio Galimberti

Il trattore si è ribaltato e ha schiacciato Rocco Di Netta, agricoltore di 41 anni, che lavorava sul suo terreno.

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Dennis Stock Parigi, 1954

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Biciclette

Ci salveremo, forse di

Gianni Mura

Libertà, dignità, speranza: sono le parole chiave, quelle che aprono ai tanti modi di guardare e stare su una bicicletta. Da ciclista professionista sul Ventoux o nel traffico cittadino. Libertà di andare, di vincere o perdere, di fermarsi, di non inquinare, di pensare a un altro modo di muoversi nel mondo

Lo so, è fondamentale distinguere tra ciclismo e uso della bicicletta. A parte il mezzo, le due ruote, poco hanno da spartire quelli che scalano il Galibier e quelli che vanno in ufficio. Distinguiamo pure, ma intanto semino alcune parole che riprenderò poi: libertà, dignità, speranza. «Dimmi cosa ti viene in mente se pensi a una bicicletta». «Libertà, dignità, speranza», rispose undici anni fa Alfredo Martini, grande e nobile vecchio del ciclismo, uno cui darei mezzo litro di sangue, se occorresse, e anche la chiave dei miei risparmi, tanto per dire quanto lo stimo. Adesso ha 91 anni, vive dov’è nato, a Sesto Fiorentino. È stato ciclista, operaio, partigiano, direttore sportivo, negoziante, commissario tecnico della Nazionale dal 1975 al 1998. È riuscito a far vincere un Giro a Gösta Pettersson, l’unico svedese che patisse il freddo. Ha messo d’accordo, per un solo giorno, quello del campionato mondiale, Moser e Saronni, poi Bugno e Chiappucci. Altra parola. Amore. “Per fare una bicicletta bisogna amarla, amarla prima ancora che nasca. Per fare una bella bicicletta bisogna amare anche il lavoro. La bicicletta è tre tubi e due ruote da 150 anni, eppure non si finisce mai di migliorarla. Ci vogliono dieci ore per costruire un telaio. Il telaio è un’opera d’arte: architettura, poi scultura, infine pittura”. Questo è Ernesto Colnago, prima meccanico di Eddy Merckx, poi costruttore di bici molto famose, e ambite, nell’universo mondo. Altra parola. Macchina. Diceva Enzo Ferrari che la bici è la macchina perfetta, perché non consuma, non inquina e su sette chili deve reggere un uomo lanciato anche a cento all’ora. Anche meno. A cento all’ora possono viaggiare i ciclisti di professione nelle discese protette, ossia con il traffico bloccato, altrimenti si rischia la pelle, in equilibrio su pochi millimetri. Si rischia pure in pianura, in città, Milano come Roma. Nelle nostre città, non tutte. A Ferrara, a Mantova, a Parma, a Reggio Emilia la bici è più rispettata, e con lei chi ci sta sopra. La petite reine, la piccola regina, così i francesi chiamano la bici, oppure vélo come abbreviazione di velocipede, così come la bici è abbreviazione di biciclo o bicicletta. A me piace pensare, in un rapido giochino, che la bici sia l’abc del

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moto. Si va in giro gattonando, s’impara a camminare, si sale su un triciclo, si cade e si aspetta che le gambe siano abbastanza lunghe per una bicicletta. Così andavano le cose. Per quelli della mia generazione, almeno. A stadi. Dopo il triciclo e prima della bici mi portavano sulla canna (non proprio un bilocale, ma una specie di dépendance comoda, erano gli altri a pedalare). Poi la bici, piccola. Crescendo, veniva il turno o la possibilità di portare in canna qualcuno, magari evocando versi di Neruda. Una ragazza, forse. Ne ho viste, di bici con ragazze in canna andare verso le periferie dei paesi e delle città. Una coperta legata al portapacchi dava subito conto della non platonicità del rapporto. Il rapporto umano, non meccanico, non quello che si esprime in numeri, tipo 54-13 o 42-21. Poi venne il tempo dei motorini, poi delle utilitarie. Voglio molto bene alle bici normali ed è eccessivo dire che odio le bici da corsa. Non le odio. Le sento lontane. Non posso odiarle. Ho cominciato a conoscerle seguendo professionalmente le corse nel 1965, il Tour, ma solo quello, lo seguo ancora o meglio lo precedo. “Seguire”, da cui suiveurs, è un verbo in disuso. Anche “professionalmente” è un avverbio che non odio ma sento lontano, come le bici da corsa. Umanamente, è molto meglio. All’inizio, avevo l’età dei corridori. Alcuni, che non avevano tempo o capacità, all’estero mi chiedevano di comprare un regalo alla loro fidanzata. Foulard o profumo? Nel primo caso, m’informavo sul colore di occhi e capelli di lei, nel secondo Arpège e via andare (i ciclisti conoscevano solo Chanel N° 5, detto per inciso). Altri m’informavano di quante pasticche d’anfetamina avrebbero ingoiato il giorno dopo. Ebbene sì, in quegli anni l’antidoping non esisteva. Apparve dopo la morte di Simpson sul Ventoux, venerdì 13 luglio 1967. C’ero. Le squadre non avevano medico fisso, né preparatore atletico. Il vero, perico-

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Henri Cartier-Bresson Francia, 1932

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loso doping compare nell’ultimo decennio del secolo scorso, è l’eritropoietina o epo. Facile il gioco di parola tra epo ed epos, il vero casino è che non sai più quando finisce uno e comincia l’altro, quali sono i confini. L’epo fa andare più forte, è chiaro, altrimenti sarebbe usato solo da chi ne ha bisogno: i dializzati, i trasfusi dopo incidente stradale. Come il Gh, l’ormone della crescita, creato per curare i casi di nanismo (anche Messi ne ha fatto regolare uso), estratto dall’ipofisi dei cadaveri. Sul web se ne trova parecchio, arriva dall’Est e fermiamoci qui. Le droghe favoriscono l’ossigenazione del sangue e spingono più in là la soglia della fatica. L’ideale, in uno sport di fatica come il ciclismo. Peccato che, epica ed etica a parte, con queste droghe di ultima e penultima generazione il sangue diventa denso e aumentano a dismisura i rischi per il cuore e la possibilità che insorgano tumori. Bisognava pur parlarne e ho quasi finito, col doping. Un esame serio, che riesca a trovare tutte le nuove porcate, non solo gli anabolizzanti che ormai non usano più nemmeno i pesisti bulgari, costa circa 300 euro. Con i tagli che sappiamo, quasi tutto quello che non è professionismo è terra di nessuno e la competitività che si respira può spingere anche il vicino di pianerottolo sessantenne e molto distinto a bombarsi

come un cavallo anche se in fin dei conti ci si gioca un aperitivo a chi arriva primo sul Ghisallo o anche su un montarozzo minore. In questi casi, lo dico chiaro, la responsabilità è dell’uomo e non della bicicletta. Lo so che questo vale anche per chi guida una moto o un’auto, ma lì si tratta solo di dare gas, di premere l’acceleratore. Non si suda. La dignità, diceva il mio amico Martini. «Il doping ti toglie la dignità, è un gesto di vigliaccheria, è una truffa. Si possono guadagnare tanti soldi, ma sono sporchi, e poi si pagano con gli interessi, all’ospedale. Le bombe giravano anche ai miei tempi, ed è vero che un pochino più forte facevano andare. Ma davano uno e toglievano due, perché passava l’appetito e non dormivi. E allora è meglio allenarsi bene, saper soffrire, voler soffrire. Non è che i miei amici alla catena di montaggio soffrissero di meno, pensavo. Noi giravamo l’Italia, l’Europa. Vedevamo posti nuovi. Conoscevamo persone. Da corridore andavo a letto alle nove di

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Biciclette

sera, le dieci erano già un mezzo stravizio. Ma in bici solo la condizione atletica serve, non è come il calcio dove un fuoriclasse con due tocchi risolve una partita. In bici, se non hai gambe perdi le ruote del gruppo, quindi più del sangue arricchito artificialmente conta avere un corpo sano e una mente fresca». In un Giro degli anni Sessanta seguivo le tappa ogni giorno su un’ammiraglia diversa. Siccome, ovvio, non ci si fermava per mangiare (neanche adesso, veramente), tendevo a preferire quella di Martini per due motivi: il primo era che il suo autista, dal cognome ottimistico (Vita), preparava i migliori panini della carovana. Il secondo era paragiornalistico, nel senso che mi raccontava storie di quando non c’ero, dei tempi di Binda e poi di Coppi, Bartali, Magni, che erano anche i suoi. E di suo padre che lavorava ai forni della Ginori, e tornava a casa tutto annerito e bruciacchiato. Della prima bici che gli comprò, una Francioni color argento che costava 420 lire. Del fatto che non voleva annerito e bruciacchiato pure il figlio e a quattordici anni lo imbucò da apprendista alla Pignone di Firenze. «In Abissinia era finita la guerra, in Spagna c’era, in Italia era nell’aria e nel lavoro. Si fabbricavano lanciafiamme, tra le altre cose. Io ero addetto ai detonatori delle mine sottomarine, prendevo 65 centesimi all’ora con turni di otto e poi di dodici ore». Parliamo di tanto tempo fa, ma il lavoro di ciclista resta molto faticoso e oggi c’è molta più scelta, anche nei paesi. Nel primo dopoguerra, quello del neorealismo, lo sport pescava nel vasto mare dei poveri ma forti: ciclismo, pugilato. Il calcio era come morto con il Grande Torino a Superga, non c’erano le Coppe europee, si viveva all’ombra dei campanili. Ma oggi, come allora, il ciclismo è forse l’unico pezzo di vita in cui chi va in fuga è un coraggioso e non un vile. Oggi come allora il ciclismo è uno sport che non chiede un centesimo a chi vuole guardarlo. Gli passa sull’uscio di casa, oppure lì vicino. Oppure, e sono sempre tanti, si va a vederlo in pellegrinaggio devoto e fiducioso, ma spesso tradito, nelle sue grandi cattedrali a cielo aperto. Lo Stelvio, il Gavia, il Galibier, il Tourmalet. L’italiano applaude i velocisti, rispetta i cronomen e ama gli scalatori. L’ultimo, Pantani. Può darsi che vi stia annoiando. Dove va questo pezzo? In giro, va in giro. Rifornimento, avrebbe detto Vita. “Corriamo nel verde. Assistiamo alla non inattesa doccia estiva dei boschi e delle foreste. Ogni pianta pare rianimata, quando invece questa pioggia disanima i corridori. Un gruppo di abeti, in mezzo a un prato in declivo, sembra che stia ad occhi chiusi a godersi questo regalo del cielo”. Questo è Orio Vergani. Questo è Lorenzo Stecchetti: “Tra il canto degli uccelli e il fior del prato/sovra il ferreo corsier passo contento/come a novella gioventù rinato/e sano e buono e libero mi sento”. “Il piacere della bicicletta è quello stesso della libertà”, Alfredo Oriani. Ancora lui: “Volare come un uccello, ecco il sogno. Correre sulla bicicletta, ecco oggi il piacere. Si torna giovani, si diventa poeti”. Andiamoci piano, non corriamo troppo. “Questo fendere l’aria senza quasi sentire il contatto della terra dà veramente l’illusione d’esser portati via da due grandi ali

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invisibili”, Edmondo De Amicis. “Arrivare fin quaggiù e arrivarci da solo, con le proprie gambe, è fare un viaggio fino alla periferia del rapporto con se stessi, è mettersi alla prova, è cercare, non è scappare ma andare fino in fondo a conoscere i propri fantasmi”. Ma guarda, Jovanotti. Cambiamo musica: “La bicicletta è il veicolo più rapido nella via della delinquenza; perché la passione del pedale trascina al furto, alla truffa, alla grassazione”. Il mitico Cesare Lombroso. Ricambiamo musica. “Non c’è altra meccanica che quella chiusa nelle gambe. Cosce e polpacci sono il materiale di base. E bastano. Il ciclista non deve lasciarsi distrarre dalla tecnologia”. Aggiungerei anche i muscoli dorsali. Questo è Jean-Bernard Pouy in un libro del ’96 intitolato 54x13. Infine, e ci siamo, Sergio Zavoli: “La bicicletta è un modo di accordare la vita con il tempo e lo spazio, è l’andare e lo stare dentro misure ancora, non so per quanto, umane”. Ci siamo perché la penso esattemente come Zavoli, forse in chiave di più accentuata lentezza (dovuta in parte, ma non solo, alla mia stazza). Una volta, nel giorno riposo del Giro a Imola, organizzarono sui due piedi una gara per giornalisti sul circuito dei Tre Monti e tirarono dentro anche me, che ero giovane e magro, anche se già fumatore. Le squadre del Giro avevano messo a disposizione le loro biciclette belle, cromate, da competizione.

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Robert Capa Francia, 1939

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Salii su una (con scarpe da tennis e jeans, lo ammetto) e dopo pochi secondi una parte precisa del mio corpo mandò un urlo lacerante. Quella che pudicamente si chiama soprassella e ingloba il perineo. La sella era una tortura insopportabile, il manubrio che obbligava a una postura forzata nemmeno scherzava. Insomma, mezz’ora prima del via mi trovarono una bici da donna con una bella sella morbida, direi pacioccona. «Non puoi partire così, a freddo. Mettiti a ruota», mi disse un gregario di Gimondi, e mi tirò il collo andando sopra i 40 per qualche chilometro, non più di tre, ma a me sembravano 120. Pronti via, rettilineo bene, curva a sinistra, accenno di salita, decido di alzarmi en danseuse e le gambe si rifiutano. Mi ritiro e mi stendo lungo un fosso a veder correre gli altri. Da allora, per me, ogni ciclista su una bici da corsa, supermoderna, superleggera, superattrezzata, è una specie di alieno. Gli piace così? Affari suoi. Già a me non importa nulla che un aereo guadagni dieci minuti tra Milano e Parigi, o un treno quindici tra Milano e Roma, pensa tu se mi metto a correre con il cronometro a vista. Io vado in bici, che è diverso dal correre in bici. È come camminare da seduti. Seduti comodi, sia chiaro. Busto eretto, niente prove nella galleria del vento, niente posizione aerodinamica. Sono sempre le mie gambe ad andare, ma il ritmo lo decido io, la libertà

è questa. “Liberté toujours”, sta scritto sui pacchetti di Gauloises, peccato, sarebbe stato un bello slogan per la bici. Anche Liberté, égalité, fraternité non sarebbe male. Sulla liberté tutti d’accordo, un po’ meno sulla fraternité, che pure dovrebbe esserci ed è ben diversa dalla confraternita, e sull’égalité meno ancora. Teniamoci allora la libertà di cui parlava Martini. Di andare, di fermarci dove ci pare, di non fare rumore, di non inquinare, di fischiettare, di essere dentro il paesaggio (suoni, colori, odori), di pedalare sentendosi pedalare (il massimo). La speranza, per chi corre sul serio, va da quella di vincere, di non essere ripreso, a quella di non essere staccato, di arrivare ultimo. La mia speranza, da cittadino slow e non fast, è che nelle nostre città ci siano sempre più biciclette e sempre meno motori. Poi in ballo c’è un sacco di altre cose, dalla qualità della vita a quella dell’aria. Non siamo messi bene e forse non sarà una bici a salvarci. Certamente non sarà un motore.

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Biciclette

La premiata officina dell’anarchico Malatesta di

Alessio Lega

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Erano gli ultimi suoi anni, erano i primi anni Trenta. Come un leone in gabbia Errico Malatesta, da cinquant’anni la bestia nera di tutte le polizie d’Europa – e non solo – misurava incessantemente i pochi metri quadri delle due stanzette che abitava a Roma, in via Andrea Doria, senza potersi allontanare troppo dalla bombola d’ossigeno che gli alleviava le crisi di soffocamento da enfisema. Gli pesava molto più quella bombola che non gli sbirri che il governo fascista gli aveva piazzato alla porta per arrestare eventuali visitatori. «Non sento bisogno di stare tranquillo», masticava amaro, «soffro invece perché sono obbligato a restare tranquillo per la crescente coscienza di non poter forse fare più nulla per l’avvenire e non potendo provocare gli eventi, li aspetto». Il “Lenin d’Italia”, così avevano preso a chiamarlo dacché c’era stata la rivoluzione russa, ma a lui mica faceva piacere, lui era un libertario; per lui, Lenin alla fine dei conti era solo un altro dittatore. Non tutti i mezzi valgono il fine, i mezzi devono essere adeguati al fine, non si raggiungono fini nobili con mezzi ignobili. Malatesta detestava l’idea del rivoluzionario di professione e così in tutta la sua vita aveva sottratto tempo alla causa lavorando: il rivoluzionario non poteva pesare parassitariamente sulle spalle di quei lavoratori che voleva affrancare. Malatesta era stato gelataio, manovale, elettricista, meccanico e infine sì, biciclettaio. Ebbe una piccola officina che riparava biciclette, talvolta le costruiva persino: pochissime, due o tre l’anno. Malatesta ha esercitato il mestiere del biciclettaio prima nell’esilio londinese, poi a Roma. Si era avvicinato alla

bicicletta perché l’adorava, fanciullescamente. Aveva scoperto il velocipede (così si chiamava allora) quand’era solo affare di francesi e alcuni belgi valloni e nel 1892 s’era persino «ritrovato sulle strade bianche della Liegi-Bastogne-Liegi». Quattro anni dopo – nell’anno della prima Parigi-Roubaix – aveva conosciuto uno spazzacamino, Maurice Garin, simpatizzante anarchico, il primo campione italiano ( di origine valdostana). Nel maggio del 1898, prima di cannoneggiare la folla che chiedeva pane a Milano, il generale Bava Beccaris decretava, in virtù dei poteri conferitigli, “da oggi e fino a nuovo ordine, il divieto di circolazione di biciclette, tricicli, tandems e simili mezzi di locomozione. I contravventori saranno arrestati e deferiti ai Tribunali di Guerra”. Cosa c’era nella bicicletta che inorridiva il generale e innamorava l’anarchico? Forse il fatto che la bici è il frutto di un’alta sapienza ingegneristica, meccanica, che continua a migliorare e a perfezionarsi con il tempo: una vera macchina per viaggiare nel futuro. Un mezzo che non sfrutta nessuno, uomo o bestia, e non inquina. Un mezzo che interagisce con l’unico potere rispettabile: quello su se stessi. Un mezzo che trae forza e piacere dal lavoro, che adegua lo sforzo all’impresa, che mette in comunicazione le gambe con la testa, e se le gambe sono stanche allora neanche la testa può viaggiare.

La guerra, il fascismo

La Settimana rossa è una rivolta che corre in bicicletta per la campagna romagnola. Il 7 giugno 1914, ad Ancona, anarchici, repubblicani e socialisti hanno convocato ma-

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Ottavio Bottecchia all’arrivo dell’ultima tappa del Tour de France nel 1924

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nifestazione e comizio per protestare contro le campagne coloniali e il militarismo in generale. Forse s’avverte già il vento che puzza di sangue del grande mattatoio mondiale a venire. Dopo il comizio, i manifestanti provano a raggiungere la piazza dove la banda militare sta celebrando l’anniversario dello Statuto albertino. I carabinieri aprono il fuoco: tre morti e molti feriti. Viene proclamato lo sciopero generale di quarantotto ore. La rivolta sale, fa qualche chilometro e incendia la provincia di Ravenna. Ad Alfonsine, a Fusignano e a Mezzano si dichiara decaduta la monarchia e s’innalza l’albero della Repubblica. Le foto d’epoca ci dicono che la bicicletta fu il mezzo su cui viaggiavano le notizie, spesso gonfiate a dismisura (“Milano è in mano alla rivolta!”); sul velocipede correva forte la libertà. Dal velocipede si gridava alla Storia di non voler morire più in guerra per la patria, per nessuna patria. Ma le quarantotto ore di sciopero terminarono, Malatesta nascosto ad Ancona dovette scappare lontano. Mussolini, all’epoca facinoroso socialista che sbraitava contro l’infausta decisione che pose fine alla rivolta, avrebbe di lì a poco voltato gabbana e massacrato compagni di un tempo e libertà. E poi la guerra arrivò e la morte che viaggia in camion, con le tradotte che partono al fronte, con i biplani che mitragliano dall’alto, ha sempre gioco facile nel falciare la vita che si muove in bicicletta. E siamo già con un piede nel fascismo. 3 giugno del 1927, da Gemona, in Friuli, comincia a diffondersi la notizia che hanno trovato Bottecchia con la testa spaccata accanto alla sua bicicletta. Ottavio Bottecchia è il campione dell’epoca, altra storia di un ciclismo esemplare. Di famiglia poverissima, è salito sulla prima bici facendo il soldato. Poi è diventato muratore emigrante in Francia e lì ha scoperto la passione del ciclismo e delle sue gare. Al suo ritorno in Italia è intenzionato a dedicarsi all’agonismo ed esordisce all’età in cui altri cominciano ad accarezzare l’idea del ritiro, a 27 anni. È il primo italiano a vincere il Tour de France e lo vince due anni di seguito, nel 1924 e 1925, la seconda volta in maglia gialla dalla prima all’ultima tappa. Bottecchia è un faticatore timido, riservato e orgoglioso. Il corpo ha i suoi limiti e, al terzo Tour, è costretto a ritirarsi, invece di dormire sugli allori e dedicarsi alla fabbrica di cicli che ancor oggi porta il suo nome, riprende umilmente ad allenarsi, ogni giorno, duramente, su e giù per le montagne del Friuli, finché non lo ritrovano agonizzante, caduto di sella come un angelo muratore. L’incidente ha una dinamica poco chiara e sono molti a ritenere ancora oggi che Bottecchia, che notoriamente in gioventù aveva frequentato circoli anarchici, fosse temuto dalle autorità fasciste e fosse avversario troppo noto per restare al mondo. Alcuni, per la verità, dicono che fosse semplicemente scivolato, altri che fosse stato randellato da un marito geloso, altri ancora da un contadino che l’aveva colto a mangiare un grappolo d’uva (a giugno?). Noi non lo sapremo mai, ma a me piace vedere Bottecchia come l’estremo baluardo di un’Italia proletaria e contadina, quella delle barricate a Parma e delle Camere del lavoro incendiate dagli squadristi, quella che soccombe sotto il denaro degli industriali della macchina e delle mitragliatrici, finanziatrice di criminali prezzolati, bastone e olio di ricino. Chissà se Bottecchia c’entra con tutto questo, ma voglio pensarlo ancora dietro

al manubrio mentre fa correr via la macchina a pedali e che ci giunga un giorno ancora la notizia di una bicicletta, come una cosa viva lanciata a bomba contro l’ingiustizia.

Resistenza e Massa critica

Innumerevoli sono le storie partigiane legate alla bicicletta e sono storie collettive del più bel momento della nostra storia. Storie fantastiche di pedali, di sabotaggio, di vendicatori che ammazzano il torturatore e poi saltano in bicicletta e scappano via, quando riescono a scappare, quando non ci lasciano le penne. La bicicletta fu l’arma più tipica della Resistenza, la silenziosa, fedele bicicletta che scala le montagne e porta dispacci di rifugio in rifugio. Fra il sellino e il culo delle staffette partigiane sta l’onore d’Italia. Le staffette: donne coraggiose, donne fantastiche, che non avevano paura dei fascisti e dei tedeschi, né dei loro stessi compagni, che in fondo le consideravano un po’ puttane, perché avevano a che fare con troppi uomini per i canoni dell’epoca. Fanno sempre paura le donne libere, a tutti gli uomini. Meravigliose staffette, il dio della libertà vi benedica e chi ha ancora a cuore giustizia e memoria si asciughi le lacrime, si cavi il cappello e stia allegro, che anche nella notte più fonda c’è sempre una staffetta partigiana che arriva a cavallo di una bici. Poi ci furono i Provos olandesi dell’inizio degli anni Sessanta – antesignani più creativi e patafisici dei contestatori sessantottini – con le loro biciclette bianche lasciate a disposizione di tutti, liberamente offerte alla popolazione in continuo scambio, per boicottare l’uso inquinante e violento dell’automobile. La polizia arrivò a sequestrarne una cinquantina, perché le biciclette lasciate così, a disposizione, rappresentavano “un’istigazione al furto”. E siamo quasi ai nostri giorni, alla Massa critica (Critical Mass) dei gruppi di ciclisti che si autoconvocano per azioni di disturbo e boicottaggio del traffico cittadino. E se abitate in una grande città, li avrete anche visti qualche volta. Cosa c’è di più stupido, più inutile, più brutto, più incomprensibile, meno elegante di un carroarmato? Che ci fai con un tank se non opprimere, fare paura, schiacciare la primavera di Praga e in generale la libertà di un popolo? Quale migliore metafora della stupidità umana? Ai suoi antipodi sta la bicicletta. Esistono le cosiddette bombe intelligenti, ma lo sapete che nessuna macchina è così intelligente da poter andare in bici? Nessun robot dotato di cervello elettronico può reggersi su due ruote. Per trovare quel meraviglioso equilibrio serve la fantasia umana, che attraverso piccoli spostamenti adegua il corpo al movimento: un miracolo della vita. La bicicletta entra in simbiosi con le migliori caratteristiche umane e le amplifica, le estende, è la meccanica dell’immaginazione. La bicicletta è una cosa solida e leggera e all’incrocio dei suoi tubi, delle sue ruote, delle sue giunture prende concretezza quella cosa che chiamo libertà.

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Biciclette Raymond Depardon New York, 1981

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Biciclette

Prendiamoci l’autostrada Copenaghen, Berlino, Amsterdam, Siviglia ma anche, in casa nostra, Ferrara. Ecco le ricette più innovative per muovere persone e merci a due ruote. Ripensando le città e i collegamenti a misura di bicicletta

di

Fabio Fimiani

foto Stefano [buenavista]

Montesi

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È traffico. Silenzioso, pulito, dall’ingombro ridotto, ma pur sempre traffico. Dunque caotico e per questi motivi ha bisogno di essere gestito in modo ordinato. È il traffico provocato dai ciclisti urbani nelle città del Nord Europa e del Nord America (e non solo), luoghi che hanno sostenuto la riscoperta delle due ruote come sistema per la mobilità quotidiana. Bici versus auto, insomma. L’aumento degli spostamenti delle persone con le biciclette necessita di infrastrutture, come per coloro che si muovono in auto. Per i ciclisti urbani è importante aumentare la sicurezza nei percorsi e nei parcheggi, incrementare la velocità e le distanze percorribili, avere servizi di assistenza, soprattutto nei punti di interscambio con i mezzi pubblici. Questo provoca conflitti con gli automobilisti, ma anche con i pedoni. E induce la sperimentazione di nuove formule per sostenere chi si sposta a pedali.

Una rete di percorsi

Prendiamo Copenaghen, città simbolo della mobilità ciclistica. Anche qui si sperimentano nuove infrastrutture, perché, nel piano della città danese per la riduzione delle emissioni di anidride carbonica, gli spostamenti in bici, che adesso sono al 37 per cento del totale della mobilità, devono arrivare almeno al 50 per cento. Tra le innovazioni in fase di realizzazione, una rete di autostrade per bici, una serie di percorsi lunghi tra i 15 e i 20 chilometri tra la capitale e i suoi sobborghi, come Albertlund.

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In questo comune da trentamila abitanti, dagli anni Sessanta la pianificazione urbanistica è stata fatta per tenere separata la mobilità ciclistica e pedonale da quella automobilistica. La stazione ferroviaria, per esempio, è dotata di un ampio parcheggio per le due ruote, trasportabili anche sui treni, ma le autorità hanno deciso di realizzare pure “un’autostrada” per Copenaghen. La nuova pista si distingue da quelle cui siamo abituati perché, oltre alla tradizionale separazione dalle strade per auto, è a senso unico e ha sottopassi e cavalcavia per evitare ai ciclisti di doversi fermare. Negli attraversamenti, dove non è stato possibile realizzare percorsi ad hoc, i semafori sono sincronizzati con un’onda verde per le bici, tarata sulla velocità di venti chilometri orari, una soluzione già adottata in molti percorsi cittadini, dove i semafori, oltre a quelle

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per automobilisti, hanno tutti anche le segnalazioni per i ciclisti. In Germania, nella Ruhr, simbolo dell’industria pesante e delle rigenerazioni urbane, hanno puntato sulle autostrade per bici, e stanno costruendo la più lunga arteria per due ruote, che collegherà Dortmund a Duisburg, la Radler B-1. Si tratta di una maxipista lunga 60 chilometri e larga cinque metri, che correrà parallela all’autostrada A40, via di collegamento tra le due principali città dello storico bacino del carbone e dell’acciaio. «Il cielo sopra la Ruhr deve tornare a diventare blu», disse nel ’61 Willy Brandt, che, eletto cancelliere, nel 1969, iniziò a mettere in pratica a livello federale questa promessa. Da allora in Germania e in tutto il Land Nord Reno-Westfalia non si sono fermati, e cercano la sostenibilità anche con la più lunga autostrada per bici.

Qui sopra Amsterdam. A pagina 49 (sulla destra) Copenaghen e Berlino fotografate da Fabio Fimiani

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Biciclette

Alla bicistazione

Un’altra categoria di infrastrutture alquanto diffuse, e in evoluzione, è quella delle bicistazioni, luoghi chiusi per la sosta sorvegliata, la manutenzione, e il noleggio delle due ruote, in genere nei pressi delle grandi aree di interscambio con i mezzi pubblici, ferrovie e metropolitane innanzitutto. La più grande e famosa, che qualche ciclista ha soprannominato la Cattedrale, si trova ad Amsterdam, di fronte alla stazione più importante della città, e sembra un gigantesco parcheggio esterno multipiano sorvegliato. Le bicistazioni sono una presenza abituale in Olanda, Germania, Danimarca, Francia e Svizzera, e lo sono anche in alcune città statunitensi, come Chicago, dove la mobilità ciclistica fa concettualmente parte del traffico urbano. Nei Paesi del Nord Europa queste strutture sono gestite dalle società ferroviarie e stanno subendo un’evoluzione dovuta al loro successo. A Friburgo, in Germania, una delle città più verdi d’Europa, la bicistazione è un elegante edificio circolare ricoperto di legno a tre piani, costruito sopra un parcheggio auto e collegato al ponte tranviario ciclopedonale dal quale si accede direttamente ai binari della stazione. Il piano terra riservato alle macchine è ormai sottoutilizzato, mentre i posti a pagamento per le bici sono praticamente esauriti, così come gli armadietti dove lasciare l’abbigliamento tecnico. Il tutto mentre al di fuori, su ciascuno dei lati della stazione, vi sono anche parcheggi liberi per bici. All’ultimo piano della velostazione vi sono, oltre al negozio per riparazione e vendita di accessori, un bar panoramico e un’agenzia viaggio delle ferrovie tedesche.

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Nei centri commerciali

Dall’Olanda, patria di bicistazioni e parcheggi per bici di ogni tipo, come quello, non sponsorizzato, a forma di mela verde di Alphen aan den Rijn, è arrivata un’evoluzione di queste infrastrutture, con la localizzazione di una velostazione nella zona commerciale di Zaanstad, centocinquantamila abitanti a nordest di Amsterdam. Considerato il luogo, la stazione non poteva che essere pensata e integrata come se fosse un bel negozio: dal marciapiede si vedono la vetrina della zona vendita e riparazione. Con una rampa si accede al piano superiore dove è possibile lasciare la bici al coperto e custodita. Al piano terra è anche presente una zona ristoro con spogliatoi per coloro che vogliono cambiarsi. L’edificio è stato pensato per avere bassi consumi energetici. A Chicago hanno integrato un moderno parcheggio per auto con le esigenze dei ciclisti urbani. Oltre quindi alla sosta comoda e sicura nel Greenway Self Park, che si trova nel quartiere North River, è stata realizzata una zona doccia per coloro che devono sistemarsi dopo una lunga pedalata. Anche in questo caso l’inserimento architettonico è stato molto curato, così come la sostenibilità: nel parcheggio è possibile ricaricare le auto elettriche, ci sono micropale eoliche e l’acqua piovana è recuperata. Un’altra bella bicistazione, che si trova a uno degli ingressi del

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Millenium Park, sempre a Chicago, si presenta come un grande salone aperto grazie alle ampie vetrate. In questo caso vi è integrata anche una caffetteria, il punto di vigilanza del parco e postazioni di car e, ovviamente, bike sharing. A Münster, sempre nel Land tedesco del Nord Reno Westfalia, la trasparenza dell’edificio che ospita la bicistazione, situato di fronte allo scalo ferroviario nel centro della città, ha reso gradevole questo scorcio della città universitaria, dove l’assedio del traffico ciclistico rende quasi difficile la convivenza con i pedoni. In questo caso, l’infrastruttura si sviluppa sottoterra, ma l’architettura consente alla luce di arrivare anche alla zona coperta, che può contenere fino a 3.300 bici. In questa bicistazione, oltre ai servizi di manutenzione e di custodia dell’abbigliamento tecnico, è stato realizzato un bicilavaggio automatico low cost. Un’altra innovazione, in una città in cui si contano in media due velocipedi per ogni abitante, è la circonvallazione riservata ai ciclisti.

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La ricetta andalusa

Una città che ha scoperto recentemente la bicicletta come mezzo di trasporto quotidiano è Siviglia, nella calda e splendida Andalusia delle architetture moresche. Qui si è imparato dagli errori dell’Expo del 1992 che pure ha contribuito alla riscoperta e al rilancio della città. Dal 2004, l’amministrazione comunale ha iniziato a costruire decine di chilometri di piste ciclabili, a installare migliaia di archetti per parcheggiare le bici con maggiore sicurezza e a realizzare iniziative a favore delle due ruote, anche se l’auto rimane comunque il mezzo di trasporto prediletto. Il primo passo è stato inserire una variante al piano territoriale cittadino, che ha recepito una indicazione dell’Agenda 21 per la sostenibilità della Comunidad Valenciana. Nei primi due anni sono stati realizzati ottanta chilometri di itinerari protetti, dalla periferia verso il centro, in un percorso che poi è stato esteso ai comuni della cintura urbana. Nel centro della città è stata ampliata l’isola ciclopedonale, nel 2007 è stato installato il servizio di bike sharing, che conta su duecentocinquanta stazioni e duemilacinquecento biciclette ed è stato incentivato l’interscambio due ruote-mezzi pubblici, con parcheggi custoditi come alla stazione degli autobus di Plaza de Armas, a ridosso del centro storico e di fronte all’ingresso principale dell’area Expo. I risultati della nuova strategia sono confortanti: dai seimila spostamenti giornalieri del 2006, si è arrivati ai sessantamila. Anche per questo Siviglia l’anno scorso ha ospitato Velocity 2011, l’annuale conferenza della città ciclabili. Intanto nelle strette strade dell’affascinante centro storico capita sempre più spesso di vedere ciclisti a bordo di bici pieghevoli, un altro segnale di quanto in Andalusia stiano arrivando velocemente le nuove tendenze del ciclismo urbano.

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E infine, anche le merci possono essere consegnate con le biciclette o con i tricicli. Per questo motivo si stanno diffondendo nuovi servizi e studiando nuove modalità per la distribuzione dei pacchi, che possano permettere l’uso di questi mezzi sostenibili. In Italia a guidare questa tendenza è Ferrara, la capitale della mobilità ciclistica nel nostro Paese. La città emiliana è, insieme ad Alba, in provincia di Cuneo, uno dei due partner italiani nel progetto triennale CycleLogistic del programma Iee (Intelligent Energy Europe) della Commissione europea. L’amministrazione comunale ha reintrodotto i tricicli come mezzo ausiliario per gli operatori ecologici di zona, al posto dei piccoli furgoni. Intanto un grande corriere privato sta studiando le modalità per fare le consegne in bici invece che con i mezzi a motore, almeno per alcune tipologie di pacchi. Nell’autunno scorso intanto a Ferrara si è svolta la prima fiera delle cargo bike, sia a due che a tre ruote. A Portland, in Oregon, i ciclisti urbani organizzano competizioni ed esercitazioni per il trasporto merci anche in caso di calamità naturali, in città opera pure una società specializzata nella consegna di pasti a domicilio con cargo bike. Un servizio al quale si sono ispirati gli Urban Bike Messengers di Milano, i pony express con bici a scatto di ispirazione newyorkese, che, oltre ai plichi, adesso consegnano anche pacchi, essendosi dotati di un triciclo. Da poco offrono anche pranzi a domicilio, in collaborazione con una catena di cibo salutistico.

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Telaio

La trasformazione del telaio ha rappresentato un passaggio fondamentale. La sua storia comprende differenti disegni, ma quello più comune assume la cosiddetta forma “a diamante”. Il telaio può essere fabbricato con diversi materiali: i più usati sono l’acciaio, l’alluminio, il carbonio e il titanio. Il mercato propone anche telai d’altro materiale come il legno, le resine di vario tipo, il magnesio, il bambù e varie composizioni.

Forcella

È la componente anteriore della bicicletta ed è collegata al telaio per mezzo di un sistema di sedi e sfere al fine di garantire il movimento. È formata da due collettori, detti foderi, l’estremità dei quali termina con due forcellini ai quali viene agganciata la ruota anteriore. La parte superiore è la testa di forcella, che collega i foderi e a cui è saldato il tubo di forcella che si inserisce nel telaio. Alla forcella è agganciato il freno anteriore con diverse soluzioni a seconda che si tratti di freno a pinza, V-Brake, o freno a bacchetta.

Pedali

Sono dei sostegni per i piedi studiati per trasmettere il movimento delle gambe alla ruota posteriore della bicicletta. Sono composti da elementi agganciati al telaio (l’albero) ed elementi mobili (i pedali veri e propri). Il loro movimento è dovuto a un complesso meccanico formato da sfere inserite in apposite gole. I pedali possono variare in quanto a forma e superficie d’appoggio: oltre al tipo cosiddetto “normale”, esiste il pedale con puntapiede e quello a sgancio rapido.

Freni

Come per tutti gli altri componenti, anche i freni sono prodotti secondo diverse tipologie. I più utilizzati sono quelli a filo, che lavorano sui cerchi sfruttando la leva manubrio e la pinza freno. In Italia, sono stati fabbricati anche i freni a bacchetta, azionati da un sistema di tiranti rigidi (le bacchette appunto); ci sono poi i freni a tamburo, quelli a nastro e quelli a disco.

illustrazione

e Chiara

Claudia Ceso Noseda

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Camera d’aria

Nel 1888 John Boyd Dunlop, un veterinario scozzese, sviluppò il primo prototipo di camera d’aria. Prima di questa innovazione, sperimentata per il triciclo del figlio, le ruote erano fatte di gomma piena. In realtà, prima di Dunlop, l’idea fu introdotta dal suo connazionale Robert William Thompson che nel 1845 provò a “svuotare” gli anelli di gomma intorno ai cerchioni, ma la sua idea non ebbe successo e costò anche a Dunlop la revoca del brevetto.

Catena

Le prime biciclette erano chainless con una ruota gigantesca davanti che serviva a sviluppare un sufficiente numero di metri a ogni pedalata per mezzo di una trasmissione a cardano. Nel 1874 H. J. Lawson inventò la prima bicicletta a catena che ha permesso di montare due ruote di uguale dimensione e avere un rapporto in virtù del quale il ciclista facendo un giro di pedali sviluppa una potenza sufficiente a muoversi.

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L’arte di aggiustarsi C’è chi viene per riparare i freni e va via, chi per gonfiare una ruota e non se ne va più. Lo spirito è quello della condivisione, la teoria è la socializzazione del sapere, gli oggetti sono vecchi telai da verniciare, ingranaggi da ingrassare, ruote da riportare a nuova vita. La ciclofficina è il tempio del ciclista che ama il riciclo e la logica del do it yourself

di

Antonio Marafioti

foto

Germana Lavagna

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Se non fosse per quella ruota appesa al muro d’ingresso esterno, la ciclofficina di via Gaetano de Castilla a Milano sembrerebbe uno di quei prefabbricati usati come deposito attrezzi del grande cantiere edile di zona Isola. In realtà, in quel contesto di riqualificazione urbana, appare più come l’ultimo avamposto della storia operaia milanese che resiste alla modernizzazione di uno dei più famosi fra gli ex quartieri popolari della città. Alla fine della piccola via de Castilla, fra la trattoria di Tommaso, e le escavatrici dell’immobiliare texana Hines, fra la Milano che è stata e quella che sarà, l’as-

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sociazione +bc ha preso in carico l’eredità della prima ciclofficina in Italia, quella del centro sociale Bulk, che si era poi trasferita alla Stecca degli artisti. Nel quartiere dove perfino l’ex sede storica del Pci di via Volturno si sta trasformando in un palazzo per pochi eletti, la +bc vive come una formica all’ombra dei grandi elefanti di cemento armato del progetto Porta Nuova: 340mila metri quadri di superficie, un cantiere da oltre 2 miliardi e mezzo di euro delineato dal bosco verticale progettato da Stefano Boeri, una sorta di condominio con appartamenti da 13mila euro a metro quadro e dalla nuova sede di Unicredit disegnata dall’archistar Cesar Pelli, che con i suoi 231 metri ha ottenuto il record di edificio più alto d’Italia. Al confronto i tre metri d’altezza del capannone per gli appassionati delle due ruote sembra Davide di fronte a

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Chi fa da sé fa per tre

Golia. Qui tra una cinquantina di carcasse di biciclette vecchie, gli attrezzi per ripararle, le tute da meccanico allineate come fossero in un atelier d’alta moda, lavorano quelli che decidono di sporcarsi le mani. «Ogni anno passano un migliaio di persone. Molti, però, vengono anche solo per gonfiarsi una ruota e quindi non li tesseriamo, a meno che non lo chiedano loro. L’anno scorso abbiamo avuto 350 soci». Angelo Massagli, trentacinquenne consulente societario, da due anni è uno dei dieci volontari che hanno le chiavi della ciclofficina. «Ero venuto per una banalissima regolazione del freno e poi non me ne sono più andato. L’associazione non si limita a insegnare la riparazione, ma tende ad ampliare tutti i campi d’intervento fino a promuovere l’utilizzo della bici e l’intercomunicazione fra le persone».

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La filosofia da rispettare è quella del Diy (do it yourself) ovvero “fai da te”. In pratica ciò che danno in officina sono gli strumenti, una bicicletta vecchia e il know how per ridarle vita, quello che bisogna portarsi da casa sono il tempo e la voglia di mettersi a lavorare sui telai e sugli ingranaggi. «Siamo molto alla mano, in molti casi deleghiamo al ragazzo o alla ragazza che viene qui il compito di istruire colui che arriva dopo. Si chiama socializzazione dei saperi. Fanno amicizia e magari alla fine della giornata vanno a bere una birra insieme. Noi non ripariamo biciclette, ma insegniamo una serie di cose». Per impararle, e imparare a insegnarle chi si iscrive deve versare una quota di tesseramento che, dice ancora Angelo scherzando, «è una cifra abbastanza alta, ti ci puoi comprare un kebab. Costa cinque euro all’anno e serve quasi totalmente a coprire l’assicurazione per chi lavora qui». Mentre Angelo parla, nel piccolo cortile si genera un via vai di provetti meccanici che si alternano ai cavalletti sui quali montano i propri mezzi per la riparazione. Non solo uomini e non sono solo appassionati. «Gli unici che non mi è mai capitato di vedere qui dentro sono estremisti di destra che sono esclusi per statuto», continua Massagli. «Per il resto si vede chiunque. Lì c’è un signore sull’ottantina che era venuto per una ruota forata e da quel momento è sempre ritornato. Mi è capitato anche di vedere entrare la sciura con i tacchi a spillo, che ha avuto anche qualche problema a piegarsi su quei trampoli. È venuto il chirurgo che, a fine lavoro, si è rifiutato di lavarsi le mani perché ha detto che gli piaceva una volta tanto tenerle sporche dopo che tutta la settimana era obbligato ad averle iperasettiche. È venuto il ragazzino minorenne che voleva farsi la bici fighetta. Gli abbiamo fatto portare la liberatoria dei genitori. Sono venuti a più riprese anche organizzazioni come gli scout che hanno cominciato a lavorare a un progetto di costruzione di una bicicletta che doveva coinvolgere tutto l’oratorio. È capitato più di una volta di vedere entrare tipi in giacca e cravatta, persone normalissime che magari non sono riusciti a passare da casa per cambiarsi dopo il lavoro». Girando per il capannone si possono vedere gli scheletri di tante biciclette differenti, un cesto con le forcelle, un altro con i manubri, un altro ancora con i cambi e le catene. È tutto da riportare in funzione e l’unico particolare che distingue quella ferraglia da quella che si può trovare in una discarica, è il perfetto ordine con il quale viene allineata per essere utilizzata dai soci. «Il rispetto del luogo è una delle nostre regole d’oro. Tutti questi “diamanti” vengono dalla lungimiranza di quelli che non utilizzano più la bici e che invece di portarla in bicicleria, la mettono a nostra disposizione», spiega Angelo. «Abbiamo solo un divieto: l’utilizzo di cose rubate, perché prendere una cosa rubata significa sti-

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molare l’offerta del mercato nero. Se si viene beccati si è fuori dall’associazione». Chi rimane dentro invece lavora e gli altri fanno di tutto per aiutarlo nell’impresa di rimettere a posto una due ruote. «Ricordo la storia di un papà. Il classico omone di questo quartiere che era venuto qui perché aveva la bici forata. L’abbiamo aiutato a riparare la camera d’aria anche se aveva cinque forature. Durante la giornata ha iniziato a chiedere informazioni sulle bici da bambino. Parlando del più e del meno, è arrivato a dirmi che era disoccupato e che doveva mandare la figlia a mangiare dalla nonna perché non aveva i soldi per il cibo. Voleva regalarle una bici ma non aveva un euro in tasca. Sembrava una cosa da libro Cuore. Gli abbiamo dato una di quelle biciclette che stava puntando in cambio della promessa di venire a darci una mano nel tempo libero. Ho visto gli occhi di quest’uomo cambiare, gli brillavano».

Il 35 per cento è donna

Mentre Angelo parla entrano due amiche e, tempo dieci minuti, si mettono a lavorare insieme sulle loro biciclette con fare certo e sicuro. Montano, smontano, ingrassano le catene e il movimento centrale e si destreggiano con chiavi inglesi e cacciaviti. «Per noi è normalissimo», dice divertito il volontario. «Questa ciclofficina è frequentata per il 65 per cento da uomini e per il 35 da donne. Si crede ancora che le ragazze certe cose non le facciano. In realtà alcune vengono qui pensando che qualcuno le aiuterà a fare tutto, salvo poi scoprire che, uno, sono capaci e, due, che gli piace. In molti casi sono arrivate accompagnate dai loro fidanzati che poi, spesso, sono rimasti fermi a vederle lavorare. Sono situazioni paradossali, ma nell’ambito dello stereotipo. E in questa associazione gli stereotipi li combattiamo. Lì c’è una ragazza, Martina, che tre settimane fa è venuta per un guasto meccanico e da allora non ci ha più lasciato. Si è fermata come volontaria e, come vedi, si sporca le mani. Che poi le rimangono sporche solo per poco visto che qui abbiamo tutto ciò che serve per pulirsi: gel, pasta lavamani, spazzolini». Martina ha 28 anni, è laureanda in Pedagogia sociale e fa vari lavori per mantenersi. Non passa inosservata mentre si muove infagottata dalla sua tuta arancione da meccanico di due misure più grande, lisa sulle maniche e stretta in vita da una camera d’aria che le fa da cintura. «Vengo qui da gennaio, da quando ho avuto bisogno di riparare la mia bici. Sapevo che il meccanico ha dei costi esagerati e soprattutto spesso non aggiusta, ma cambia. La mia filosofia è diversa, aggiustare tutto l’aggiustabile anche mescolando bici e pezzi diversi», racconta incrociando sulle gambe le mani imbrattate di grasso, vernice e limatura di ferro. «Avevo un grosso danno alla bici che qui abbiamo sistemato in un pomeriggio spendendo cinque euro invece che settanta. Da allora vengo spesso, perché ho conosciuto questo aspetto comunitario legato alla ciclofficina: il passare tempo insieme, imparare delle cose e promuovere un mezzo di trasporto pulito. La bici è un mezzo talmente semplice che anche i bambini potrebbero fare la manutenzione di base: i freni, le gomme e la catena». Fra le attività promosse da +bc ci sono anche corsi di

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Giò Pozzo: «La bicicletta deve essere essenziale» La sede della Orco Cicli di via Pastrengo 7 a Milano è un buco colorato, in cui tutto è collegato a una passione: quella per le biciclette. Giò Pozzo, architetto e giornalista classe 1952, è uno che da grande ha deciso di non esercitare più le professioni per iniziare a produrre bici. Seduto davanti a un poster che domanda retoricamente al lettore “L’intellettuale è inutile?”, intorno ha un cavalletto con lo stemma della falce e martello e una porta scorrevole variopinta dalla forma di una barretta di cioccolato. Sopra ci sono due delle sue bici: una De Rosa e una Pegoretti. Accanto le creazioni della Orco, società nata circa tre anni fa, dopo due di lavoro sui prototipi, di ricerca dei fornitori, di disegno di modelli che devono essere come quelli di una volta. «Ne facciamo di più per l’estero, esportiamo in Australia, Stati Uniti e, in Europa, in Germania, Gran Bretagna e Francia. Abbiamo una capacità produttiva di cinquanta bici l’anno, ma ne fabbrichiamo molte di meno», dice. Il primo amore sono state le moto. Com’è avvenuto il passaggio da centauro a ciclista? «Una sindrome del tunnel carpale mi ha reso impossibile guidare una moto per più di una decina di chilometri senza avere lancinanti dolori al polso destro. Non volevo farmi operare e sono passato alla bicicletta. Mi considero un predestinato: quando ero adolescente mio padre mi trascinava in giri pseudoturistici in bicicletta che odiavo perché sognavo il motorino. Crescendo mi sono permesso una minicollezione di moto inglesi che poi ho venduto prima di scoprire le ciclofficine popolari. Lavorando come volontario per +bc ho riparato centinaia di biciclette e ho scoperto che quelle prodotte fino agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso erano fatte bene e si potevano riparare. Il libro che ho scritto con il mio socio di bottega e di società, Adriano Maccarana, si intitola La macchina perfetta, perché il telaio a diamante, sviluppato verso i primi anni del Novecento, da allora non è più cambiato. La bici ha un’efficienza energetica meravigliosa, occupa poco spazio, e può durare decenni, può essere facilmente riparata e manutenuta, è alla portata di chiunque. Il fatto che in una città come Milano non si usino solamente le biciclette è una cosa folle. Milano è minuscola, si attraversa in venti minuti, è piatta perché le uniche salite sono le

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riparazione per ragazzi a partire dai dodici anni. Le lezioni raggruppano classi da 35, vengono tenute da esperti e sono divisi in moduli: ruote, freni, lubrificazioni degli ingranaggi, regolazione dell’assetto e componenti meccaniche complesse. Martina è una delle volontarie più intraprendenti: prima è al banco del trapano, poi ai cavalletti e infine con una ramazza in mano a raccogliere gli scarti di lavorazione. «A dispetto della mia tuta e dello sporco accumulato, che può far credere che io sia un meccanico provetto, in realtà qui sono una sorta di sguattera volontaria», racconta sorridendo. «Mi faccio spiegare le riparazioni più semplici e le insegno agli altri. La ciclofficina è questo, un luogo di aggregazione e scambio. Permette alla gente di conoscere punti di vista diversi, di dialogare in una maniera che non è convenzionale a Milano. Il sabato per esempio si mangia tutti insieme. Ognuno porta qualcosa e ci si siede in un momento di convivialità». Quando finisce il suo turno, la ragazza sveste i panni di meccanico e indossa di nuovo gli abiti borghesi della studentessa. Prima di salutare tutti, tiene una minilezione di ciclosofia: «Io uso solo la bici. C’è un rapporto diverso con lo spazio, con le distanze, che dipendono da me e non dai tempi dei mezzi pubblici o del traffico. Poi vivo la città in modo diverso perché i sensi sono tutti allo scoperto e si può parlare, aumenta la percezione degli odori e dei rumori. Tutto ciò che in macchina o sui mezzi pubblici non si può fare. La bici è anche indipendenza: la notte per una ragazza è molto più sicuro muoversi perché i tempi di attesa in strada sono annullati. Io non ho paura di muovermi a Milano, però ci sono delle zone che non sono percepite come tranquille. Con la bici invece, viene meno anche questo problema di genere: non è poco».

Vecchi e nuovi arrivati

Seduto sul tavolo principale della sala all’entrata, dove uno dei sabati mangerecci il volontario noto come il cuoco ha portato carne di daino da mangiare insieme, siede Igor Zovianoff. Ha cinquant’anni ma non ne dimostra trenta. È vestito con un’eccentrica camicia azzurra, porta un cappello largo il doppio della sua testa e un paio d’occhiali con una montatura verde pastello. «Li ho conosciuti quando erano ancora alla Stecca degli artigiani, e gli ho chiesto se potevano darmi uno spazio per tenere un corso di disegno a fumetti. Io vengo dalle esperienze dei Cam (Centri di aggregazione multifunzionale) del Ponte delle Gabelle e di Scaldasole». «Non vengo per le biciclette, anche se sono un ciclista anche io, però meno esaltato di loro. Ho imparato a riparare una camera d’aria ma non posso dirmi un ciclofilo, per me la bicicletta è un bellissimo mulo da trasporto, ci fai di tutto e ti ci diverti pure. Quando ci sono le grandi nevicate e vado in bicicletta vedo quelli che in macchina vanno a passo di formica e me la godo come un pazzo». Schivando arnesi sparsi al suolo e secchi di acquaragia, ci si può imbattere in chi è entrato in ciclofficina per la prima volta. Davide Motta è uno studente di 24 anni a battesimo in +bc. «Li ho conosciuti per caso, a un banchetto in strada, passavo di lì, incuriosito mi sono fermato, mi hanno spiegato e poi mi hanno

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curve del parco e il cavalcavia Bussa. Si potrebbe tranquillamente muoversi in bicicletta con beneficio della salute del singolo, di quella della collettività, perché non si inquina portando i figli a scuola con il Suv, e anche di quella della mente, perché le endorfine che si producono andando in bicicletta ti rendono più felice». Passione per un oggetto utile o passione per un oggetto bello? «Come diceva Antoine de Saint-Exupéry: “La perfezione si raggiunge non quando non si ha più nulla da aggiungere ma quando non resta più niente da togliere”. Le nostre biciclette, classiche o meno, sono essenziali. Quella che mi piace di più si chiama Spicciola ed è fatta con i tubi sottili di acciaio, senza cambio, con i freni e la ruota libera, una grande invenzione che permette di fare meno fatica e viaggiare con maggior sicurezza. Tanto basta, non montiamo nemmeno le luci, per legge li diamo al cliente in un sacchetto a parte. La bici deve essere essenziale: un telaio, due ruote e i meccanismi che trainino». Un intero capitolo è dedicato allo scatto fisso che è nato prima della ruota libera. Oggi è tornato a essere una moda. Perché? «Anche se usare una bicicletta a scatto fisso è un’esperienza interessante, credo sia opportuno farlo solo in uno spazio protetto. In una pista dove c’è il parquet, il cemento, dove non c’è bisogno di frenare, non passano gli autobus e nessuno ti attraversa la strada di colpo. In quel caso la fixed dà grosse soddisfazioni, ma in città è pericolosa. Mi auguro che lo scatto fisso avvicini le persone al mondo della bicicletta e che poi, quelle persone possano scoprire che la ruota libera è meno faticosa e molto più piacevole. Andare in bici e non poter mai arrestare la pedalata è massacrante. Una volta quando non avevano ancora inventato la ruota libera e il ciclismo era una cosa eroica, i corridori avevano dei fermapiedi montati sotto il manubrio, in discesa mettevano i piedi lassù e lasciavano andare i pedali». Oggi una bicicletta può costare diverse migliaia di euro. È diventato un oggetto dalle più diverse fogge e misure. Come ci si è arrivati? «Il costo della bicicletta è in realtà diminuito: nel 1910 una bicicletta normale, che era detta a bacchetta perché aveva i freni rigidi, poteva costare anche tre mesi di salario di un operaio. Nel tempo il prezzo si è ridotto. Poi ci sono le eccezioni per cui c’è la bicicletta ultrasofisticata, da gara, fatta solo di carbonio, con componentistica ricercata, cambi a undici velocità, pacchetti di pignoni da sedici, una riduzione di peso estrema. A volte il prezzo è sceso troppo: le biciclette che io chiamo da supermercato, in Italia costano 99 euro, all’origine, in Cina, ne costano dieci. E non voglio dire che in Cina non sappiano lavorare: la stragrande maggioranza dei telai di alta gamma vengono realizzati in Cina e a Taiwan, come anche tutti i componenti. Ma tutto dipende dai materiali». La bici del cuore? «La più vecchia che ho, un gigantesco biciclettone inglese del 1908 che funziona ancora. Forse è quella che amo di più perché è la più grande. Poi mi sono affezionato a una bici che ho rimesso a posto qualche giorno fa: una Bianchi del 1952. Aveva la mia età. Lo so perché su tutte le Bianchi c’è inciso l’anno di fabbricazione. In mezza giornata di lavoro è tornata a nuova vita e il cliente che ce l’ha portata è ripartito felice sulla sua due ruote perfettamente funzionante e che durerà per almeno altri sessant’anni. Abbiamo scoperto che le verniciature erano ancora perfette. Sfido oggi a fare un prodotto di così alta fattura. Noi cerchiamo di farle come una volta, ma spesso ci scontriamo con un problema di forniture: i componenti artigianali sono praticamente scomparsi». Regalare una due ruote. Un’ultramoderna in negozio o una riparata in ciclofficina? «Sicuramente un’ultramoderna in carbonio sofisticatissima (ride), garantita solo due anni perché non si sa cosa succede quando il carbonio invecchia, che si può rompere da un momento all’altro, con dei cambi impossibili da regolare: la catena deve distare 0,5 millimetri dal guida catena da una parte, e 0,5 dall’altra. Per carità. Scelgo tutta la vita una bici di una volta. Oppure una bici di oggi, ma fatta come quelle di una volta. Noi usiamo fondi di magazzino nuovi perché nessuno fa più i mozzi per le biciclette a bacchetta, nessuno fa più le guarniture e, quando si trovano, made in India, dopo due pedalate si storcono. Finché avremo fondi di magazzino per farle, le faremo. Quando l’artigiano sessantacinquenne che ci fa i parafanghi in acciaio inox smetterà di farli, non ci saranno più. Lo poteva pagare l’industria per la quale lavorava, la Dei, storico marchio italiano di biciclette. Adesso la Dei li commissiona in Oriente dove costano molto meno e a lui sono rimasti gli stampi con i quali ci può fare dei parafanghi in acciaio inox spettacolari. Quelli in alluminio non ce li fa più perché dovrebbe comprare cinquemila chili di materia prima, se non di più, e lui non intende fare questa spesa. Quindi i parafanghi di alluminio sono scomparsi, noi li abbiamo usati per i primi tre anni e adesso non sapremmo dove andarli a prendere». (am)

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Maccarini e l’elogio della tall-bike Nei primi anni del Duemila Marco Maccarini è stato uno dei vee-jay più famosi di Mtv. Dopo anni al servizio di grandi network, ha in cantiere il progetto di tv popolare, una televisione democratica gestita direttamente dai cittadini. L’idea assomiglia molto a quella della ciclofficina, per realizzarla servono ancora diverse sottoscrizioni, ma lui è ottimista. È uno che di bici se ne intende, le ama, le colleziona e, soprattutto, le aggiusta. Viene in ciclofficina da almeno quattro anni: «Qui si ritrova gente appassionata non solo di biciclette ma anche di vita, di voglia di alternative, di libertà. E poi è un bel posto dove sporcarsi le mani, e anche parecchio. Santa pasta lavamani! Vieni qui e giochi, con la materia e con i pezzi di bicicletta che magari hai trovato nell’immondizia. La bici sulla quale porto i miei bambini l’ho costruita assemblando pezzi usati, ma è solida ed efficiente. La creazione più divertente è una tall-bike che ho creato saldando due telai. Mi è costata in tutto neanche venti euro e mi permette di vedere tutto dall’alto e divertirmi come un matto. È un modo fantastico di pedalare e di godere della città». Che cosa significa pedalare? «Io ho preso la patente a trent’anni con la nascita del mio primo figlio. È stato un obbligo, non amo le macchine. Sono sempre stato un appassionato di bici, mi sono sempre spostato benissimo anche senza patente. La bici è un risparmio in senso assoluto: non solo economico, ma anche di vita, dal momento che non emetto veleni nell’aria, e di tempo, perché non c’è paragone fra muoversi in bici e farlo in auto. Bisognerebbe usarla solamente per assoluta necessità: se si fa una spesa gigante, se si devono trasportare carichi pesanti o portare in giro tutta la famiglia. Per il resto è solo dannoso. La bici resta il massimo. Quelle un po’ diverse dal comune, come la tallbike e quelle a scatto fisso, mi obbligano a rimanere concentrato e anticipare i pericoli della strada. Io divago spesso, la bici mi aiuta nella meditazione, nel riordinare i pensieri. Cosa che non fa la macchina. Quando sono in auto sono sempre incazzato. Sono tutti dei nemici. Perché sono grossi pezzi di ferro e non pensi che lì dentro c’è un essere umano come te. È una roba orribile. E poi ti lascia anche un retrogusto di cattiveria: in macchina vedi l’altro come un nemico che ti vuole passare davanti». Giornate da ciclofficina? «La primavera io sverno qui. Mi metto a posto tutte le bici che sono rimaste ferme durante l’inverno. Anche in autunno vengo spesso. Diciamo che durante le stagioni in cui le temperature sono estreme mi faccio vedere di meno. Comunque ho anche tutti gli attrezzi a casa e spesso chiamo per chiedere consigli: «Faccio bene? Questa è la procedura giusta?», e loro sono molto disponibili e gentili. A mia volta, quando sono qui, ogni tanto aiuto. Mi è capitato anche di venire anche se non avevo nulla da fare sulle mie bici, solo per dare una mano». Riparazioni meglio riuscite? «Ci sono delle cose che mi piacciono molto, tipo il movimento centrale che è tutto da scoprire, la catena, i pignoni, la serie sterzo, i coni delle ruote. Mi piace molto la regolazione. Ho delle difficoltà con la smagliatura e la rimagliatura della catena e, soprattutto, con la raggiatura delle ruote: una roba zen. Tu sei sempre lì “raggio raggio, chiudo chiudo, incrocio, conto. Raggio raggio, chiudo chiudo, incrocio, conto”. È una sorta di mantra. Ecco perché le ruote costano tanto, perché si possono fare solo a mano partendo dal mozzo e inserendo i raggi uno a alla volta. È una procedura piuttosto complessa». Numero di biciclette possedute e bici preferita? «Dunque solamente le mie sono nove, ma nessuna è costosa. Non ho roba che costa migliaia di euro, perché penso che per avere una buona bici basti spendere non più di trecento euro oppure fartela in ciclofficina se si ha il tempo e la voglia. E se te la rubano, oltre a maledire i ladri, te ne fai un’altra. In questo periodo sono affezionatissimo alla tall-bike: mi arriva poco sotto l’ascella e mi permette di pedalare con la testa oltre i due metri». (am)

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lasciato l’indirizzo. Mi avevano già detto che hanno tutti gli attrezzi e che le riparazioni avrei potuto farle tranquillamente io e che loro mi avrebbero seguito per le prime volte». Il progetto di Davide sembra molto complicato, ma lui confida di poterlo realizzare in un paio d’ore: «Devo togliere i pignoni che non servono più perché il cambio è andato, e poi smontare il movimento centrale e vedere se si riesce a sostituire. Non ho studiato nulla, non ho mai aperto un manuale di meccanica e non ho mai messo le mani da solo su una bici. Conosco il nome dei componenti ma nulla più, conto soprattutto sulla loro disponibilità ad aiutarmi. Non ho fretta e devo prendere le misure, però l’inizio e buono e stimolante». Dopo un’ora fra i rumori dei martelli, dei trapani e delle lime, il buonumore non è ancora svanito. C’è chi ride come a inizio giornata. Uno che ha parecchia voglia di scherzare è Simone, ha 16 anni ed è considerato la mascotte dell’associazione. «Vengo qui da quando avevo 14 anni per divertirmi e per passare il tempo in modo non distruttivo. Non è che abbia imparato cose particolari, più che altro ho insegnato agli altri»,

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ammette con malcelata modestia. «Prima di frequentare questo posto lavoravo in un negozio di biciclette, anche lì per divertirmi. Io sono per lo scatto fisso e l’ho montato su una bici da pista, so che non è il massimo della sicurezza, ma cerco sempre di stare attento e di rispettare me e gli altri, anche perché penso che andando più lentamente riesci a notare tutti i particolari che ti sfuggono quando sei in macchina. Trovi sempre posti strani, a volte bellissimi». Prima d’inforcare la sua fixed, racconta agli altri volontari di un progetto che gli è venuto in mente dopo un regalo importante: «Una cantina che mi hanno lasciato i miei nonni. Sto pensando di metterci dentro gli attrezzi e di creare una ciclofficina serale aperta tutti i giorni fino a mezzanotte. Insomma, ragazzi, un posto dove poter andare a stare quando qui si chiude».

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Biciclette Josef Koudelka Italia, 1961

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Biciclette

Pedalando nella rivoluzione

Quella culturale, che spedì i suoi genitori al confino. Da lì comincia la storia di Xu Xing che in bici ha girato per tutto il Paese. Oggi non crede a chi lo definisce il Kerouac cinese e vuole tornare in Europa

Di nuovo uno spostamento, di nuovo la vita che impone variazioni spaziali. Xu Xing ci accoglie nella casa che fino a poco tempo fa era di sua madre, morta da poco, e che lui ha assistito fino alla fine. Ha appena traslocato e i libri si ammucchiano sugli scaffali. Siamo all’altezza del quarto anello nord di Pechino, la direttrice verticale che attraversa tutti i luoghi simbolo della capitale e che termina, poco più a sud, con il villaggio olimpico. Siamo venuti per parlare di viaggi. Scrittore e documentarista, già definito “il Jack Kerouac cinese”, Xu ha passato buona parte della sua vita in movimento. È stata la stessa storia della Cina a imporlo. Nato a Pechino nel 1956, era ancora un bambino quando i suoi genitori furono spediti al confino nel turbinio della Rivoluzione culturale. «Il viaggio è diventato modo di vivere, anche se all’inizio mi è stato imposto, non l’ho scelto io. Quando avevo undici o dodici anni ero costretto ad andare molto lontano, nel Nordovest cinese, nel Gansu, nel Qinghai, a trovare mia madre. Capisci, un bambino che esce da solo, non era facile all’inizio. Un bambino da solo che andava a comprare il biglietto del treno. Era l’epoca della Rivoluzione culturale e nella mia carta di identità c’era una pagina in più che diceva: “La madre e il padre di questo bambino sono nel Nordovest”. Questo è il

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lato doloroso: tornare a Pechino era difficile, i bambini devono stare con la madre. Ma per strada, durante il viaggio, incontravi molte persone e situazioni, che per gli occhi di un bambino erano estremamente affascinanti, molto diverse dalle esperienze di chi stava in città o a scuola. A scuola studiavi oltretutto cose noiosissime: marxismo, maoismo, cose noiose e vuote. Da quel momento in poi ho cominciato ad apprezzare il viaggio, trovarmi in cammino, e non ne ho potuto più fare a meno. Dovevo partire, non riuscivo più a stare dentro una scuola». Questo impulso l’ha portato ovunque nell’immensa Cina. E in bicicletta. «Sì davvero: in bicicletta. A quel tempo però ero già un adulto. Sono andato in tutta la Cina tranne che nel Xinjiang». Ne è uscito il suo libro “on the road”: E quel che resta è per te (Shengxia de dou shuyu ni). In Italia è stato pubblicato da Nottetempo.

di

Gabriele Battaglia

Di tanto in tanto ci sfrecciava accanto sfiorandoci il capo con un batter d’ali qualche uccello notturno, di certo un fottuto uccello vagabondo come noi, non un uccello perbene. Alla fine si levò il sole e noi potemmo ammirare l’incantevole paesaggio naturale ai due lati della strada. Che al mondo esistano scene

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Wilbur E. Garrett [national geographic/getty images]

di tale bellezza, mentre agli uomini toccano soltanto pene e tribolazioni, è da ascrivere all’ingiustizia divina. E forse questo mondo sarebbe ancora più bello se non esistessero vagabondi poveri e stanchi come noi, o forse sarebbe ancora più piatto e noioso... chissà, tutto è possibile e il suo contrario. Prima, aveva scritto il racconto Variazioni senza tema (Wu zhuti bianzou), pubblicato nel 1985 sulla rivista Renmin Wenxue. «Non ha potuto essere pubblicato fino al 1985, ma l’avevo già finito nel 1981. La situazione politica in Cina era un macello, quindi ero in quella situazione: avevo terminato il mio lavoro, ma non potevo vederlo stampato. Appena è uscito il libro, tutto è cambiato in maniera strana: improvvisamente sono diventato uno scrittore. Quando ero giovane non mi presentavo mai come uno scrittore. Intanto perché scrivevo poco, poi perché non mi andava, altrimenti sembrava che fossi uguale a tutti gli altri. Io sono sempre stato diverso: non ho fatto mai parte di nessuna organizzazione ufficiale degli scrittori, non sono mai stato un membro di nulla, mai. Anche oggi è così. Poi gli anni passano, le persone mi dicevano che ero uno scrittore e io acconsentivo tacitamente. Nel 2004 ho partecipato alla Fiera del libro di Francoforte e un giornalista mi ha chiesto quale fosse la differenza tra me e gli altri scrittori. La mia risposta è stata: “Se mi devi considerare uno scrittore, sono lo scrittore che ha scritto di meno al mondo”». Adattando un motto di solito utilizzato per i giornalisti, potremmo dire che “scrivere è meglio che lavorare”. Soprattutto se ciò che preme, in realtà, è il viaggio. La bicicletta come strumento di liberazione. «Non c’era nessuno che mi controllava: i miei genitori non c’erano, erano in un posto lontano. All’inizio ho

Per la sicurezza dei ciclisti Sono oltre 2.500 i ciclisti morti sulle strade italiane negli ultimi dieci anni. Due morti ogni tre giorni. Fermare questa ecatombe è la missione del movimento Salvaciclisti (salvaciclisti.it), nato lo scorso febbraio in rete sull’onda della campagna “Manifesto per città a misura di bicicletta”, promossa dal quotidiano britannico The Times. Il documento contiene otto proposte concrete per tutelare la sicurezza dei ciclisti. 1. Gli autoarticolati che entrano in un centro urbano devono, per legge, essere dotati di sensori, allarmi sonori che segnalino la svolta, specchi supplementari e barre di sicurezza che evitino ai ciclisti di finire sotto le ruote. 2. I cinquecento incroci più pericolosi del Paese devono essere individuati, ripensati e dotati di semafori preferenziali per i ciclisti e di specchi che permettano ai camionisti di vedere eventuali ciclisti presenti sul lato. 3. Dovrà essere condotta un’indagine nazionale per determinare quante persone vanno in bicicletta in Italia e quanti ciclisti vengono uccisi o feriti. 4. Il 2 per cento del budget dell’Anas dovrà essere destinato alla creazione di piste ciclabili di nuova generazione. 5. La formazione di ciclisti e autisti deve essere migliorata e la sicurezza dei ciclisti deve diventare una parte fondamentale dei test di guida. 6. Il limite di velocità massima nelle aree residenziali sprovviste di piste ciclabili deve essere di trenta chilometri orari. 7. I privati devono essere invitati a sponsorizzare la creazione di piste ciclabili e superstrade ciclabili prendendo per esempio lo schema di noleggio bici londinese sponsorizzato dalla Barclays. 8. Ogni città deve nominare un commissario alla ciclabilità per promuovere le riforme. Queste proposte sono state recepite da un disegno di legge sostenuto da tutte le forze politiche presenti in Parlamento – Lega esclusa – e dallo stesso premier Mario Monti. Attualmente la legge è al vaglio della Commissione permanente Lavori pubblici e Comunicazione del Senato. Nel frattempo, la campagna Salvaciclisti è proseguita con l’iniziativa “Caro Sindaco”, una lettera con cui si chiede l’attuazione del Manifesto e di altri provvedimenti per favorire la ciclabilità e la sicurezza dei ciclisti nelle città italiane. A oggi hanno risposto favorevolmente all’appello, tra gli altri, i sindaci di Torino, Milano, Reggio Emilia, Bologna, Firenze, Roma, Ferrara e Napoli. Negli Stati Uniti il problema della sicurezza dei ciclisti è stato sollevato da una campagna a effetto che sta prendendo piede in tutto il mondo: Ghost Bikes (ghostbikes.org), biciclette fantasma dipinte di bianco, ruote comprese, lasciate legate a un palo sul luogo della morte di ogni ciclista travolto e ucciso da automobilisti. Memoriale e monito.

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viaggiato per andare a trovare mia madre, poi a scuola mi annoiavo e partivo. Spesso mi hanno messo in centri di accoglienza per i bambini di strada». Sapevo che in città, ai viaggiatori di passaggio, non era consentito pernottare; sai che bellezza essere importunati tutta la notte e magari rischiare al primo colpo di farti sbattere – te, la tua bici scassata e il tuo sacco a pelo puzzolente – in un centro di raccolta dove ti bollano come “vagabondo” e ti rispediscono a casa insieme alle vecchie col moccio al naso e ai vecchi pidocchiosi. «In bicicletta ci andavo davvero e all’epoca non era cosa comune, non c’era nessuno che viaggiasse così. Adesso è ovvio che molti lo facciano, gente che arriva fino in Xinjiang con le biciclette super tecniche di oggi. Ma all’epoca era una cosa nuova. Mi intervistavano i giornalisti – sono davvero uscito sui giornali – perché pensavano fossi matto ad andare in giro in bicicletta, con una bici di quelle comuni. Mi portavo anche la tenda. Esperienze toste, la bici non era buona, le strade neanche, ogni otto chilometri mi dovevo fermare per rimettere a posto la catena, era un casino. A dire la verità era anche parecchio noioso. Alla fine me ne sono pure pentito: pedalavo e basta, non facevo nient’altro. Pensa a una regione come l’Hebei: tutto piatto, pedalavo un giorno, tre giorni, tutto uguale, gli stessi villaggi, la stessa gente, gli stessi campi. Mi sono chiesto chi me lo faceva fare, mi abbronzavo al punto di spellarmi. Pedalavo così, a testa bassa, sulla mia bicicletta, e siccome ogni volta che alzavo la testa per guardarmi intorno mi accorgevo che la strada davanti a me era sempre perfettamente dritta e piatta, mi veniva da odiarla un po’, questa strada che si allungava in avanti all’infinito senza la minima variazione. Solo dopo essermi messo in viaggio avevo capito che l’itinerario scelto tanto attentamente non aveva nulla dell’aura poetica con cui la mia immaginazione l’aveva abbellito. Praticamente dall’inizio alla fine del mio viaggio c’erano lavori in corso per l’ampliamento della strada, gli alberi ai lati sono stati tutti abbattuti e la gente che abitava nei paraggi si era portata via la legna. Il sole mi sfolgorava dritto addosso senza pietà e io, praticamente nudo se non per un paio di pantaloncini corti da cui uscivano le gambe sottili, spingevo sui pedali con la furia di uno che sfugge a morte certa». E così decide di prendere l’aereo e andare più lontano, di vedere l’Europa. Vive in Germania dal 1989 al 1994, studia alle Università di Berlino e Heidelberg. Ma anche questo viaggio finisce. «Sono tornato a Pechino perché ero in Germania. Se fossi andato in Italia, forse non sarei più tornato. La Germania è troppo calma, piatta, una vita troppo comoda, mi annoiavo. E poi io sono una persona che lavora con il cinese, con la lingua. Fortuna che non

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Carl Mydans [time & life pictures/getty images]

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sono andato in Svizzera, altrimenti forse sarei tornato dopo sei mesi (ride). A Francoforte, quello che mi dava più fastidio era la pubblicità: i cartelloni pubblicitari luminosi, che in Cina non c’erano. In Cina ti lavavano il cervello, ma in Occidente facevano lo stesso con i soldi, con le cose da comprare. Avevo quella sensazione. Poi ci sono stati tanti cambiamenti e oggi, se non voglio vedere i cartelloni pubblicitari, forse dovrei tornare in Europa». Un disadattato perenne, come tutti quelli che non riescono a fermarsi. «A Pechino mi annoio terribilmente, ma ovviamente ci sto anche comodo. Oltretutto parlo cinese e per me la lingua è importante: significa avere degli amici con cui comunicare. Pechino, se paragonata a Shanghai e a Canton, ha un tono culturale più forte, è molto meglio. Ma quando mi sento annoiato, vado in campagna. Per esempio l’anno scorso sono stato sei mesi nello Zhejiang rurale, a lavorare in un posto meraviglioso che si chiama Sanjiangkou, cioè “dove tre fiumi si incontrano”». Di Pechino mi importava meno che della mia bici scassata: nel folto di quella giungla di grattacieli, in mezzo a tutti quegli elegantoni imbellettati come manichini, circondato da nobili individui dall’energia e dal talento straordinari, frastornato dal luccichio irreale delle luci al neon che balenano come fuochi fatui, nel profondo del tuo cuore non puoi che sentirti come un miserabile, insignificante insetto.

di propaganda e faceva altri lavori. Quando i “criminali” venivano arrestati dovevano essere registrati: chi sei, che fai, la tua famiglia da chi è composta, i bambini, eccetera. Quindi Lao Jia aiutava a compilare queste schede di registrazione, molto semplici, che poi erano ricopiate su altre schede più formali. Dopo averle ricopiate, utilizzava le prime schede per disegnare. Quando è uscito, si è portato le schede appresso perché c’erano i suoi disegni. Quando ho visto quelle schede sono rimasto impressionato: erano tutti contadini, tutti condannati come controrivoluzionari, tutti dello Zhejiang. Allora sono andato a cercare queste persone. Oggi i nomi del luoghi sono cambiati e alcuni di quei “controrivoluzionari” sono ovviamente morti. Ma ho calcolato che molti dovessero avere più o meno settant’anni e alla fine ne ho trovati dodici». Xu Xing armeggia con dei cavi e tre monitor di computer. Sullo schermo compare un paesaggio di acqua e di colline, dei bei volti rugosi. Parlano, raccontano. Ce n’è uno che si è fatto dieci anni di galera perché aveva disegnato il ritratto del presidente Mao, sì, però in bianco e nero. Il problema è che non aveva gli altri colori. «Nei lavori sulla Rivoluzione culturale si è sempre parlato di personaggi famosi o di intellettuali o artisti che sono stati arrestati. Ma a livello ufficiale mancano informazioni sui contadini: non si è mai parlato dello strato più basso della popolazione, delle formiche. Durante la Rivoluzione culturale, loro cosa facevano? Questo per me è molto stimolante: voglio riportare quello che nessuno sa di questa gente a cui, finora, nessuno ha prestato attenzione. Mi sembra di fare una cosa importante anche per la storia della Cina, mi affascina molto». Anche il governo cinese punta molto sulla cultura. Vuole esportare un’immagine nuova nel mondo, esercitare soft power. Che cosa ne pensa lo scrittore-documentarista-vagabondo? Di nuovo una risata: «È propaganda. E ti dirò che mi dispiace pure per il governo, ma non sa quali valori prendere come riferimento. Non hanno nessuna speranza di puntare sulla cultura, stanno sognando. A meno che non mi facciano ministro alla Cultura. Allora magari qualche speranza ci sarebbe». È quasi buio e fa caldo. L’ultima birra prima di uscire a caccia di cibo. Xing, ci andiamo in bici? «Non ci penso neppure. Le gambe non sono un problema: il problema è la cervicale». Dopo aver girato più di mezza Cina in bicicletta non avevo più molta voglia di mettermi in viaggio. Ormai mi pareva di aver capito cos’è che rimane a questo mondo e avevo pure capito abbastanza chiaramente che ciò che rimane non è detto sia per noi. (Ha collaborato Désirée Marianini)

Quello verso la campagna è un viaggio non solo spaziale, ma anche nella memoria, nella storia del suo Paese. «Ci sono andato per girare un documentario sulla Rivoluzione culturale. Avevo conosciuto un pittore, Lao Jia, che era stato in prigione per dieci anni durante la Rivoluzione culturale. In prigione disegnava i manifesti

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Il futuro corre su due ruote Se è vero che cento bici cambiano cinquecento vite resta da capire come sia possibile. L’idea di Fred Hanynde ha rivoluzionato il modo di spostarsi e vivere in Africa: ecco come

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Stella Spinelli

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Fred Hanynde ha trentacinque anni e vive a Chapola, un villaggio rurale dello Zambia. È sposato e fa il contadino. Da quando suo fratello si è ammalato ed è morto di Aids, Fred ha scelto di fare un corso per infermiere ed è diventato un assistente volontario. Ogni giorno organizza il suo tempo tra la famiglia, il lavoro nei campi e i pazienti, e per visitare gli ammalati che vivono più lontano è costretto a percorrere fino a venti chilometri a piedi. Ma Fred sa che per quella gente rappresenta tutto. Le uniche cure regolari che ricevono sono le sue e non può mollare. Sono anime abbandonate a se stesse e stigmatizzate. Per ignoranza vengono isolate perché ritenute contagiose e in quell’uomo grande e sorridente che arriva da lontano gli ammalati di Aids ripongono ogni speranza di contatto umano e solidarietà. Fred vorrebbe fare molto di più per loro, ma non ha tempo. Deve anche sbarcare il lunario e le ore che gli restano sono troppo poche per visitare tutti quelli che vorrebbe. Ma un giorno di metà giugno del 2005 qualcosa cambia, radicalmente. Rapid, il programma che ha frequentato per diventare caregiver, stringe un accordo con la World Bicycle Relief, una ong statunitense che “dona biciclette per cambiare il mondo”, e la sua vita ne esce rivoluzionata. Con quella bicicletta fra le mani Fred diventa capace di ottimizzare il suo tempo e quadruplica gli ammalati che riesce a raggiungere. Nel medesimo lasso di tempo può percorrere quattro volte la distanza che copriva prima muovendosi a piedi e il suo prender-

si cura degli altri diventa più leggero e più semplice. Le sue giornate si allungano: può lavorare fino alle quattro del pomeriggio e rientrare a casa prima del buio, è molto meno stanco per badare al raccolto ed è più presente in famiglia. Quella bicicletta nera, con i freni a bacchetta e un capiente portapacchi al quale legare la valigetta di pronto soccorso, diventa per lui e per i suoi pazienti un nuovo inizio. Adesso Fred è uno dei 19mila infermieri volontari dello Zambia che fanno i loro giri quotidiani in bici. Un bell’esempio di quello che la World Bicycle Relief chiama “il potere della bicicletta”, mezzo ecosostenibile che in Paesi quali lo Zambia, il Ghana, il Kenya o lo Zimbabwe – dove camminare è l’unica maniera per spostarsi – diventa sinonimo di cure mediche, nuovo impiego e accesso all’educazione. Possedere una bici crea un’alternativa di vita e la Sram, l’azienda statunitense leader mondiale nella produzione di ogni tipo bici, lo ha capito. Nel gennaio 2005 di fronte al disastro provocato dallo tsunami nel Sudest asiatico decide di fondare l’organizzazione no-profit World Bicycle Relief per unirsi alle organizzazioni di aiuti umanitari che operano alla ricostruzione. Con la supervisione di esperte ong, indivi-

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Biciclette

dua in Sri Lanka 24mila persone a cui donare una bici, gente che non ha più nulla e che può, così, tornare alla vita. Quel gesto ha effetti inaspettati: in poco tempo quelle biciclette fiammanti contribuiscono a ricostruire una rete di collegamento fra paesi sperduti e ripristinare l’accesso alle cure e all’educazione. Un successo. Tanto che da allora quella no-profit con sede a Chicago non si è più fermata e ha scelto di espandersi in tutta l’Africa subsahariana. Studiando caso per caso il mezzo più adatto alle condizioni meteorologiche e del terreno, ha ormai all’attivo migliaia di biciclette regalate, ognuna delle quali ha realizzato una micro rivoluzione. “Per ogni 103 bici donate, 505 vite cambiano”, recita un loro slogan, e che sia vero lo si capisce dalla storia di Cecil Hankambe o di Prisca Marilanga. Cecil è un contadino di una zona sperduta dello Zambia, che grazie alla bici riesce a vendere anche venti litri di latte al giorno, rispetto ai sette che riusciva a piazzare prima. I suoi introiti sono triplicati, ha più tempo per il suo lavoro in fattoria e per la sua numerosa famiglia. Ha potuto costruire una casa e comprare altre biciclette con le quali ha iniziato a mandare i suoi figli a scuola. Quelle due ruote hanno rinnovato la sua esistenza e semplificato tutto.

Una piccola rivoluzione, la stessa che ha travolto la vita di Prisca, zambiana, madre di cinque figli e vedova dal 1997. Grazie alla bici oggi può provvedere con molta più facilità al sostentamento della sua famiglia. La fonte d’acqua è diventata più facile da raggiungere e la quantità d’acqua trasportata è quintuplicata. Adesso ha molto tempo da dedicare al suo lavoro di infermiera: i pazienti sono diventati quindici al giorno, rispetto ai due di quando non aveva altra scelta che camminare, e tutto il resto della giornata lo dedica alla cura della casa e dei bambini. Invece, a Tendai Phiri, dodici anni, la bici ha regalato un futuro. Come tutte le altre bambine dell’Africa subsahariana, è costretta ogni mattina ad alzarsi presto per aiutare la mamma nei lavori domestici. E solo dopo aver finito, può andare a scuola. Una scuola lontana chilometri e da raggiungere a piedi. Se c’è qualche soldo in più, la famiglia lo investe in una bicicletta per i figli maschi, destinati a frequentare anche le superiori. Le femmine devono solo sposarsi presto e figliare e se per stanchezza saltano le lezioni non importa. Così, quando in classe viene chiesto loro di descrivere cosa vogliono fare da grandi, molto spesso le bambine restituiscono un foglio bianco, vuoto come le loro aspettative. Da quando Tendai ha ricevuto in dono la sua bicicletta, però, anche quel foglio si è riempito. Vuol fare l’insegnante e ora sa che potrà, perché ha raggiunto dei voti da prima della classe. Quella bici le fa risparmiare tre ore ogni sedici chilometri percorsi e le regala tempo per non deludere la mamma in casa, per studiare e per sognare. La possibilità di una vita diversa si è concretizzata anche per Mirriam Oduro, ventisette anni, ghanese. Mirriam ha una gamba paralizzata che le ha reso la vita un inferno. Stigmatizzata e additata, è cresciuta

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Mille opportunità

forte e decisa a dimostrare quanto valesse. Si è fatta molti amici, maschi per lo più, che le hanno trasmesso la passione per la meccanica. Adesso è diventata un meccanico di biciclette. Lavora per una cooperativa curata da una ong di Boston, che insieme alla World Bicycle Relief si impegna a formare personale esperto nel costruire, riparare e mantenere le tante biciclette intorno alle quali ora ruota la vita della comunità. Un programma che viene applicato ovunque si diffondano le biciclette. E se inizialmente i clienti mostravano diffidenza quando si trovavano di fronte a un meccanico donna e per di più disabile, da quando hanno visto come lavora la rispettano e la cercano per chiederle consigli e dritte. Mirriam ha rotto ogni schema sociale in un Paese chiuso e machista ed è diventata un esempio da seguire per tutte le donne di Koforidua.

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Il made in Italy è sempre in testa La flessione nelle vendite c’è, ma chi vuole comprare una bicicletta punta ancora sul prodotto italiano. Quelle costruite da noi sono richieste in tutto il Nord Europa: un mercato che vale un miliardo di euro

Anci e Legambiente qualche tempo fa hanno fatto un po’ di conti. Nelle città, quando ci mettiamo al volante di un’auto, ci muoviamo a passo di lumaca. Paghiamo il prezzo altissimo della congestione. Così, bene che vada, riusciamo a percorrere quindici chilometri in un’ora, nelle ore di punta ci fermiamo al massimo a sette o otto. Numeri che, come ha osservato di recente Confcommercio nel corso di un convegno su mobilità e trasporti, ci catapultano, per la velocità degli spostamenti, niente meno che nel Settecento. «Nelle grandi aree urbane aumentano residenti e auto, le città sono sempre più piene e sempre più immobili», dice Piero Nigrelli, direttore del settore ciclo di Ancma, l’organizzazione di categoria dei produttori di biciclette. Insomma: molto meglio le due ruote, che, caso mai non bastassero praticità e sostenibilità, costituiscono anche un vero e proprio pozzo di San Patrizio, un mercato che vale un miliardo di euro. A tanto ammonta infatti

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nel nostro Paese il fatturato industriale dei produttori di biciclette, componenti e accessori, tra colossi come Pinarello, Olympia, Wilier Triestina (brand riconosciuti a livello internazionale) e una fitta rete di piccole e medie imprese. In tutto una galassia di circa un centinaio di aziende – molte concentrate nel Veneto, prevalentemente nel Padovano, dove si è sviluppato un vero e proprio distretto produttivo – che danno lavoro a più di dodicimila addetti. L’anno scorso hanno prodotto oltre 2,3 milioni di biciclette, pari al 2 per cento della produzione mondiale, che tocca quota 120 milioni, e ne hanno vendute più di un milione e settecentomila. Non che la recessione non abbia fatto capolino anche in questo settore, con una contrazione che si aggira intorno al 9 per cento rispetto al 2010. Ma la flessione è stata, tutto sommato, contenuta. E non ha praticamente sfiorato le esportazioni, che ancora adesso assorbono oltre il 60 per cento della produzione. Oltreconfine la bici italiana piace. È richiesta in Francia e in Germania,

di

Natascia Ronchetti

foto

Alfredo D’Amato

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Biciclette

ma anche in Spagna e in Inghilterra, bacini commerciali storici dove il made in Italy continua a essere trainato da una domanda vivace. Persino nei Paesi di lingua tedesca, dove sono presenti i principali concorrenti dei produttori italiani, le biciclette tricolore presidiano una buona fetta del mercato. Questione di qualità, ma non solo: la differenza la fa anche una spessa e riconosciuta tradizione industriale. «Parlare di bicicletta – dice Nigrelli – oggi significa parlare di valori come la tutela dell’ambiente, il benessere fisico, la rapidità di spostamento, soprattutto nelle aree urbane e, ultima tendenza, vuol dire anche declinare temi come uno stile di vita alternativo, paradossalmente più veloce e pratico ma anche a più elevato benessere, sia sul piano della sostenibilità sia sul piano della salute».

Giù le mani

Tutti in fiera

Anche in Italia la bici-mania è in crescita. Certo, siamo ancora ben lontani dai record macinati da Paesi come l’Olanda o la Danimarca, dove la bicicletta è uno dei mezzi di spostamento preferiti dalla maggioranza della popolazione. Eppure anche da noi comincia a farsi strada il cicloturismo, sulla scia di quanto accade da tempo all’estero, soprattutto nel Nord Europa. Così, se il mercato italiano continua a essere dominato dalla domanda di city bike e di biciclette per il trekking, cominciano a intravedersi nuovi fenomeni sociali e culturali, agevolati dalle politiche sulla mobilità di Comuni e Province e dagli investimenti in crescita sulle infrastrutture per la bici. Nel quadro di una domanda sostanzialmente stabile la voglia di pedalare è in aumento, giurano gli imprenditori, che pure denunciano l’assenza di una politica nazionale per incentivare l’uso della bici. Resta il fatto che anche chi rimanda l’acquisto di una due ruote nuova di zecca a tempi migliori, spiegano da Ancma, si converte comunque, sempre di più, alla mobilità alternativa ad auto e trasporto pubblico, ripiegando sulla vecchia bicicletta impolverata in cantina. Con il risultato che risparmia, fa attività fisica e si sposta più velocemente dribblando il traffico. Una conferma arriva anche dal proliferare di manifestazioni fieristiche. Padova, che dal 2008 ospita Expo Bici (vetrina con cinquecento espositori che nell’ultima edizione ha raggiunto i 42mila visitatori) oggi deve vedersela anche con Roma, che replica con Bici a Roma Expo. L’evento padovano è riservato ai produttori, quello della capitale a dettaglianti e consumatori. «Considerando la situazione di grave crisi che sta affrontando il Paese – dice Denise Muraro, project manager di Expo Bici Padova – i produttori di biciclette e accessori stanno reggendo molto bene. Nessuno ha il coraggio di lamentarsi. Quasi tutte le aziende hanno aperto una linea di produzione di bici elettriche, a fronte di un vero e proprio boom. All’estero ma anche sul mercato interno. Del resto si tratta di un mezzo rivoluzionario: non richiede né bollo né benzina, ha ormai rimpiazzato quasi completamente il motorino».

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Ladri di biciclette, il vostro incubo è il registro nazionale. Ma per ora non c’è. E intanto la regola è: neanche un minuto senza catena e lucchetto. E possibilmente avere una targa Stefania non li ha perdonati: «L’avevo lasciata davanti alla stazione di Reggio Emilia, era la bici rosa che avevo fin da ragazzina. Che rabbia!». Carlo, invece, sì: «Dopo la frustrazione iniziale, ho pensato che per rubare una bici uno deve stare proprio messo male». A Cecilia, la bicicletta è sparita fuori dalla biblioteca, in pieno centro di Modena: «Ero carica di libri e avevo perfino le scarpe con i tacchi!». Non ha fatto denuncia, ma si è precipitata dal ferramenta «a comprare un lucchetto da 24 euro». Mimma, originaria di Salerno, insegna a Bologna: «Ho denunciato il furto, ma in questura mi hanno riso in faccia. E la bici non l’ho più rivista». Emanuele, invece, ha imparato come difendersi dal suo coinquilino, ai tempi dell’università: «Da noi a Rotterdam, mi disse, i furti sono un problema. Ma il segreto è avere una catena più robusta di quello che ha parcheggiato accanto a te». Non c’è bisogno di scomodare De Sica, i ladri di biciclette esistono e colpiscono. Ma le stime sul fenomeno sono piuttosto imprecise, soprattutto perché il furto di bici è tra i crimini meno denunciati. Stando all’indagine Istat “Reati, vittime e percezione della sicurezza”, nel periodo 2008-2009 quasi quattro famiglie italiane su cento si sono viste rubare una bicicletta. Più frequenti nel Nord Italia (soprattutto Emilia e Toscana) e nelle città grandi rispetto ai piccoli centri, le sparizioni di “due ruote” nel biennio in esame sarebbero 416mila. Oltre il doppio, per

di

Giulia Bondi

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2009, ha avuto 1.697 adesioni, 67 furti e tre ritrovamenti. Le bici marchiate che vengono rubate entrano in una blacklist pubblicata sul web, utile soprattutto a chi sta comprando una bici usata e vuole assicurarsi che non provenga da un furto.

Paride De Carlo [creative commons]

Possibili soluzioni

esempio, rispetto ai 142mila scippi dello stesso periodo. Tra gli scippi, però, più di metà viene denunciata, mentre per i furti di bici la percentuale scende al 18,5 per cento. Per la bici rubata non si va dai carabinieri perché “non è un reato abbastanza grave” (53,9 per cento) o perché “tanto non si poteva fare nulla” (14 per cento). Il problema non è soltanto italiano: il deposito municipale di bici di Amsterdam raccoglie decine di migliaia di mezzi, tra quelli ritrovati e quelli rimossi per parcheggio irregolare, ma solo uno su quattro viene reclamato. Per dimostrare il possesso della bici, la capitale olandese offre un servizio di marchiatura gratuita: un codice impresso sul telaio, che identifica bicicletta e proprietario. In Francia, l’associazione di ciclisti Fubicy ha lanciato da alcuni anni Bicycode, un sistema di targatura diffuso in tutto il Paese, che in Danimarca e Norvegia è addirittura obbligatorio. Contro i furti, si è impegnato anche il Massachusetts Institute of Technology, progettando la “Copenhagen Wheel”: un disco rosso, da montare sulla ruota posteriore, che una volta in commercio consentirà di aprire e chiudere la bici con lo smartphone, incorporando anche una batteria elettrica per dare una mano al ciclista urbano nelle salite più dure. Anche in Italia qualcosa si muove, anche se in modo frammentario: a Torino, l’associazione Intorno, insieme alla Provincia, ha lanciato un sistema di marchiatura che costa cinque euro. In circa tre anni, da settembre

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Padova, Venezia e Vicenza propongono ai cittadini di marcare gratuitamente le proprie biciclette, imprimendo sul telaio il codice fiscale del proprietario. Ma il sistema più diffuso a livello nazionale, scelto da molti enti locali, da Reggio Emilia a Firenze, passando per Cremona, Brescia e Pesaro, si chiama Bicisicura. Prevede una targa adesiva e l’iscrizione a un registro nazionale, accessibile alle forze dell’ordine, che a fine 2011 censiva 72mila bici. Una goccia nel mare, se si pensa che il parco circolante del Paese è di circa trenta milioni di bici, secondo le stime 2010 di Legambiente. Intanto, a Modena, la Federazione amici della bicicletta (Fiab) sta lavorando a una convenzione tra rivenditori e polizia per incentivare l’usato sicuro, imponendo a chi vende bici di seconda mano di targarle con i dati dell’ultimo proprietario e sottoponendo chi rifiuta di farlo a controlli più frequenti. «La piaga dei furti di biciclette e il suo mancato contrasto è uno dei tanti effetti collaterali della mancanza di una politica nazionale della bicicletta», spiega Michele Mutterli, della Fiab nazionale. «Servirebbe un database pubblico e centralizzato per identificare le bici nello stesso modo in tutto il Paese e poter risalire al legittimo proprietario». Al momento, l’unica banca dati nazionale, Bicisicura, è privata («in caso di chiusura dell’azienda – chiariscono dalla Fiab – i dati potrebbero non essere più accessibili») e richiede ai proprietari di rinnovare l’iscrizione, a pagamento, ogni due anni. In attesa di un registro nazionale, c’è chi fa prevenzione scambiando informazioni, come il sito Rubbici.it: dalle segnalazioni di ciclisti-navigatori nasce la pagina Mercatini sospetti, quelli dove la bici di seconda mano è quasi sicuramente rubata. Non mancano i post sconsolati di chi ha appena visto sparire l’amato velocipede e la pagina che annuncia, con un pizzico di esultanza, i ritrovamenti: chi vede la bici legata a un palo per strada e la blocca con un altro lucchetto in attesa delle forze dell’ordine, e chi la trova in vendita sui vari siti di annunci on line. Più la bicicletta è riconoscibile e sgargiante, più è semplice identificarla. Se poi si annota il numero di telaio (spesso si trova sotto la scatola del movimento dei pedali) e si scatta una fotografia, sarà più facile sporgere una denuncia completa e dettagliata. Che sia una Graziella d’epoca o una “fissa” dai colori fluo, gli accorgimenti antifurto restano gli stessi: usare una catena solida (alcune marche propongono rimborsi o sconti su una nuova bici in caso di furto), parcheggiare in luoghi frequentati, non lasciare la bici aperta nemmeno per pochi minuti. E soprattutto, legare sempre anche il telaio, per non trovare la desolante sorpresa della ruota scompagnata, ancora saldamente ancorata a un palo mentre il resto della bici ha preso il volo.

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Biciclette Philip Jones Griffiths Vietnam, 1968

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Biciclette

Lungo il Naviglio

Chilometri di strada tra fabbriche in disuso, ponti mobili, vecchie cartoline della metropoli di un tempo, campagne e cascine del Cinquecento. Fino a Cassinetta di Lugagnano, il borgo che ha detto no al cemento di

Gabriele Battaglia

foto

Alfredo D’Amato

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Si comincia a percepire qualcosa di diverso quando da Porta Genova si imbocca il Naviglio Grande sul lato destro, in senso contrario rispetto alla corrente, verso sudovest, verso il Ticino. Il paesaggio urbano si contamina con una prospettiva nuova, un senso di tranquillità accompagna la pedalata. A sinistra l’acqua, merce rara oggi, ma un tempo componente fondamentale della Milano che fu, quella dei navigli aperti. A destra, le fabbriche attive o dismesse si alternano ai loft per “gente danarosa”, agli orti urbani, ai graffiti, alle nicchie dimenticate di una città iperlottizzata, dove la paranoia coltivata scientemente per almeno vent’anni vorrebbe una telecamera a circuito chiuso in ogni angolo buio.

Sotto le ruote, una delle piste ciclabili più lunghe di Milano: venti chilometri fino ad Abbiategrasso, per poi proseguire ancora a sud, incontro al fiume, oppure a nord, sempre costeggiando l’alzaia del naviglio, verso Magenta. È in quella direzione che pedaliamo, a caccia di un modello alternativo di governance: Cassinetta di Lugagnano, “Comune virtuoso” perché ha scelto di non destinare al cemento mezzo centimetro cubo in più di quello già costruito. Giù dalla darsena, lasciandosi alle spalle il quartieredivertimentificio per eccellenza, superi il ponte della ferrovia e poi sfili davanti a San Cristoforo, la chiesetta incastrata tra il canale e i binari. Ricordi d’infanzia:

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il matrimonio della sorella grande di un amico, parenti dell’operoso ceto medio lombardo familiarizzano con quelli calabresi; transessuali tutti in ghingheri tra gli invitati, vestitini pastello che manco la regina Elisabetta. Milano a strati. Canottieri Olona, Canottieri Milano. «Quando sei un po’ più grande, ti mando alla Canottieri, così ti vengono le spalle dritte», diceva la mamma. Mai fatto. Oxford e Cambridge alla cassoeula, stanno a pochi metri una dall’altra in un derby minore, che su queste acque si chiama Cimento: tre da una parte, tre dall’altra, a nuotare nel canale. E le barche? Subito dopo, ecco il ponte mobile Richard Ginori, gioiello ferroso tutto milanese, in quanto progettato con tecnica francese per una fabbrica svizzero-toscana. Anno 1906. Serviva da raccordo ferroviario per portare tazze, piastrelle e pitali nel mondo. Quando il carico usciva dallo stabilimento, il binario sulla parte alta scendeva fino al livello stradale; poi tornava su per lasciar passare le barche, sulle quali navigava il caolino con cui si producevano le ceramiche. L’hanno fatto ispirandosi alla Torre Eiffel, ma ricorda tanti angoli dal sapore ferroso di Londra. Milano è così: la città senza scorci offre un esemplare per ogni tipo storico, geografico, artistico, archeologico in una sorta di teca da museo a cielo aperto. Come a dire: “Tiè, ce l’abbiamo anche noi, però c’è altro a cui pensare”. Ma simbolo della poesia industriale di una Milano che non c’è più è il grande serbatoio dell’acqua che si staglia contro il cielo tra Milano e Corsico. Dite quello che volete: è bellissimo. Una specie di Amanita phalloides con il cappello lavorato, come se ci avesse messo mano un intagliatore di diamanti: la perfetta contaminazione tra natura e manifattura. Mai saputo a che fabbrica appartenesse. A Gaggiano si attraversa il naviglio per proseguire sull’altro lato e non sbattere addosso alla strada statale. Ecco le campagne e le cascine, alcune costruite nel Cinquecento. Infine Abbiategrasso, dove si incontrano il Naviglio Grande e quello di Bereguardo, sollevando qualche flutto. Sembrano quasi fiumi. Svolta a destra e su, verso nord. Cassinetta è nel parco del Ticino. Tre chilometri quadrati per circa milleottocento abitanti, uno di quei comuni «che alle politiche votano a destra», ci dice Domenico Finiguerra, ex sindaco e inventore del “modello Cassinetta”. Nel 2002, a capo di una coalizione “a sinistra della sinistra” presenta infatti il suo Piano di governo del territorio (Pgt) a crescita zero e vince con il 51 per cento, nonostante dica chiaramente che per finanziare le attività di un borgo che fa a meno dei soldi dei palazzinari è necessario aumentare le tasse. Nel 2007, il Pgt viene definitivamente approvato. Alle elezioni del 6 maggio 2012 gli succede Daniela Accinasio con oltre il 50 per cento dei voti: stessa lista, stessa idea di sviluppo, nuovi progetti. Il modello Cassinetta può continuare. Finiguerra chiama “mezzaluna fertile” il territorio che circonda Milano e che va da Melegnano a Legnano, un cuscinetto di campi, canali, fontanili, rogge e filari di alberi che riempie lo spazio tra la periferia e il Ticino, da sudest a nordovest della città: un territorio fortemente interessato dalla speculazione edilizia in vista di Expo 2015.

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Paradosso Milano

Da qui, appare in tutta la sua chiarezza il paradosso della Grande Milano, una metropoli da quattro milioni di abitanti che ci ostiniamo a pensare come una municipalità da uno e mezzo. Invece di progettare una città diffusa, reticolare ma vivibile, fatta di villaggi sempre più integrati con il centro attraverso trasporti efficienti, si punta sull’“incontinenza della metropoli” – altra definizione di Finiguerra – che si sfoga nel territorio circostante cementificandolo, piallandolo, rendendolo uguale a se stessa. Ma senza trasporti efficienti. Un corpaccione esteso privo di sistema nervoso o sanguigno che dir si voglia. Creato il gigante disabile, ecco la soluzione prêt-à-porter: «Nuove tangenziali e nuovi assi radiali. Strade con centri commerciali agli svincoli», continua l’ex sindaco. Eccolo, il modello lombardo (o forse italiano?) di sviluppo: altro cemento, altre code su arterie già intasate, altra vita da cani, altri soldi nelle tasche degli speculatori edilizi e dei politici che ci vanno a braccetto. Il paesaggio scompare con la civiltà dei luoghi. La campagna si trasforma in un’immensa periferia. Al posto del treno per connettere Cassinetta e altri comuni a Milano, al posto dei trasporti sostenibili, Provincia, Regione e Anas avevano progettato una superstrada di collegamento tra la Tangenziale Ovest di Milano e la Strada statale 11 “Padana Superiore”, la maggiore arteria del Nord Italia prima che costruissero la Serenissima. Sarebbe passata nel Parco del Ticino. L’amministrazione di Finiguerra ha fatto un esposto all’Unesco nel 2009 e, pian piano, altri comuni si sono uniti. Da allora, non si sente più parlare della superstrada. Forse anche per problemi di soldi.

Il modello

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La sindaca di Cassinetta di Lugagnano, Daniela Accinasio

A Cassinetta, solo il 19 per cento del territorio è urbanizzato, dato in controtendenza rispetto alla media della provincia di Milano, che raggiunge quasi il 50 per cento. L’idea del comune a crescita zero è semplice: non si costruisce più; se ce n’è bisogno, si recupera l’esistente. Sul sito del Comune si legge che il Pgt “non contiene previsioni di crescita dell’insediamento e punta a mantenere il più possibile intatto il proprio territorio agricolo”. Si tratta di «interrompere il circolo vizioso basato sulla monetizzazione del territorio», prosegue Finiguerra. «Devi chiudere il bilancio, allora lottizzi i terreni, sorgono nuove aree residenziali, la popolazione aumenta e di conseguenza è necessario creare nuovi servizi. Il bilancio ancora una volta non lo si riesce a chiudere». Bisogna quindi emancipare il bilancio comunale dagli oneri di urbanizzazione. “A soli 26 km da Milano – si legge ancora sul sito del Comune – questo piccolo centro ha subito, come i comuni limitrofi, un aumento della popolazione che, visto il continuo calo delle nascite, è da ascrivere quasi totalmente alle migrazioni dai centri maggiori. Dal 1961 al 2001, la popolazione di Cassinetta è aumentata del 48,05 per cento e, solo nel decennio 1991-2001, si è registrato un incremento del 31 per cento, passando da 1.152 a 1.519 abitanti, fino agli oltre 1.800 attuali”.

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A Cassinetta prevedono di non consumare suolo, il che non significa non far aumentare la popolazione residente. Si utilizzano i volumi già esistenti. Facendo un’indagine tra appartamenti sfitti e altri spazi recuperabili, è emerso infatti che c’è spazio per altri cinquecento residenti. Un esempio è Villa Grosso-Pambieri, il più vecchio edificio di Cassinetta, che stava cadendo a pezzi. «Invece di darla con tutti i terreni a qualche costruttore – continua l’ex sindaco – l’abbiamo ristrutturata di modo che venti famiglie vi trovino alloggio». È questo il recupero dei volumi esistenti senza consumo di territorio. Un palazzinaro aveva proposto di costruire una stecca di case nel parco retrostante. No, niet. Il Comune ci ha perso qualche milione di euro, ma «fare oggi questo discorso per scelta è preferibile al farlo tra vent’anni per forza di cose, quando tutto il territorio sarà consumato».

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Non costruire significa perdere gli oneri di urbanizzazione, così l’amministrazione stringe la cinghia e fa di necessità virtù. Un esempio è quello del settore Cultura, che con Finiguerra sindaco era gestito proprio da Accinasio. Il budget era di diecimila euro, più o meno quanto ci vuole per ristrutturare un bagno nel capoluogo. «Con questo portafoglio non è possibile neanche assumere il bibliotecario di cui ci sarebbe bisogno, e allora si ricorre al volontariato, all’associazionismo». Così, per raccogliere risorse, si sono inventati i ma-

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trimoni a ciclo continuo nelle ville nobiliari del Comune. Sì, proprio così, ci si può sposare fino a mezzanotte, in una sorta di Las Vegas sostenibile. I cittadini di Cassinetta non pagano, gli altri sì, ma hanno a disposizione una dimora settecentesca come Villa Negri, 8.500 metri quadrati di giardino. «Dai costruttori arrivano tante proposte per edificare, ma alla fine ci rinunciano», dice l’ex sindaco. Loro, quelli di Cassinetta, giocano alla luce del sole e così non sono neanche ricattabili. Quando un comune diventa simbolo, proprio come una persona, non vale la pena dargli addosso. Quindi il marketing della propria esperienza è importante e fare parte dell’Associazione dei Comuni virtuosi serve anche a questo scopo. Ma non solo: molto prosaicamente, farsi conoscere porta anche soldi. «Il rinnovamento e ampliamento del parco cittadino (intitolato a Fabrizio De André) ci è stato offerto da un consorzio sociale», spiega Accinasio. «Loro prendono soldi dalla Fondazione Cariplo e ci hanno chiesto se potevano fare il parco qui da noi, a Cassinetta. Ci guadagnano tutti. Noi abbiamo il nostro parco, loro i soldi per farlo, per la Fondazione Cariplo è buona pubblicità». Un circolo virtuoso, economico, a cui contribuisce il Comune, che ci mette il bene prezioso ma intangibile della propria immagine.

Lavorare in rete

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L’ex sindaco Domenico Finiguerra, l’inventore del “modello Cassinetta”

«Finché si usa il Pil come parametro, siamo perdenti. Se si utilizza la qualità della vita, è tutto un altro discorso», aggiunge Finiguerra. Cassinetta, da sola, non è esportabile. Il punto è che qui si lavora sulla specificità del territorio e quindi non c’è un modello da vendere, perché ogni territorio è unico. Forse di esportabile c’è proprio questo: avere ben saldi i principi di qualità della vita e di sostenibilità; quindi plasmarli molto pragmaticamente sulle peculiarità locali. Fare uno sforzo di inventiva e lavorare come formichine. Per scambiarsi esperienze e per fare massa, anche in termini economici, è perciò necessario agire in rete. Nell’ottobre 2011, proprio a Villa Negri, il Comune ha ospitato la prima riunione nazionale del forum Salviamo il paesaggio, “un aggregato di associazioni e cittadini di tutta Italia (sul modello del Forum per l’acqua pubblica) che, mantenendo le peculiarità di ciascun soggetto, intende perseguire un unico obiettivo: salvare il paesaggio e il territorio italiano dalla deregulation e dal cemento selvaggio”, si legge sul loro sito. La partecipazione è però rivolta soprattutto all’interno, ai cittadini di Cassinetta. «Nel Pgt abbiamo coinvolto tutti con questionari e assemblee pubbliche. Una scelta partecipativa, in cui qualcuno si è sentito più coinvolto di qualcun altro, ma va bene così», dice Accinasio. La domanda di fondo era molto chiara: preferite un Comune che si doti di tante strutture e servizi – palestre, piscine, eccetera – attuando una lottizzazione spinta, oppure preferite mantenere un territorio integro e, se mai, accedere a servizi del genere per altra via, magari aumentando le tasse? La scelta della gente è stata

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chiara. «Non è scontato che le tasse siano percepite come il male assoluto, se si dice la verità ai cittadini», conclude Finiguerra. Siamo vicini a Milano, ma non troppo. È tempo di montare in sella e ritornare nella metropoli. Sta anche per piovere.

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Biciclette RenĂŠ Burri Cuba, 1993

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Velo pensieri Uno

di

Francesco Ricci

illustrazioni

Anna Godeassi

Francesco Ricci Francesco Ricci si è occupato per anni di comunicazione sociale e aziendale. Attualmente gestisce un ristorante osteria a Zocca. Ha pubblicato, per i Tipi di Limina, Il 68 a pedali, diario di un ciclista mai esistito che corre il Giro d’Italia al fianco di Eddy Merckx, e Bella Ciao (Incontri Editrice), viaggio-racconto ispirato dalla rappresaglia nazifascista di Ospitaletto, un paese di poche case sull’Appennino modenese.

Anna Godeassi Illustratrice freelance e sognatrice, lavora con diverse agenzie di pubblicità e varie testate in Italia, Giappone, Corea, Gran Bretagna e Stati Uniti. Tra le sue collaborazioni: la Repubblica, Il Sole 24 Ore, Elle Decor, Glamour, Io Donna, Bravacasa, Gioia, Psychologies, Cosmopolitan, Traveller, Rolling Stone. Disegna per adulti e crea libri per l’infanzia.

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Le nuvole si avvicinano minacciose. Eppure questa mattina sono partito presto, illuso dal bel cielo azzurro. Ho già più di settanta chilometri nelle gambe, me ne mancano almeno altri quaranta per tornare a casa. Non ho voglia di fermarmi, anche se qui è bello. Le visioni mi sommergono e sul sellino mi sembra di annegare in un mare di colori. Ho le guance gonfie come quelle di Satchmo e bolle di mille dimensioni fluttuano sopra la mia testa protetta dal casco. Stendo le immagini rarefatte che mi penzolano davanti agli occhi sul precipizio dell’esistenza, avvolta nel cielo blu che mi trafigge: mi piacerebbe legarle alle nuvole e farle diventare come quegli aeroplani che si tirano dietro striscioni pubblicitari, anch’essi illusori, come tutta la vita del resto. Mentre facevo colazione un titolo ha turbato il precario equilibrio: “Sì lo confesso, odio le cravatte strette”. Maledizione, sono circondato dall’idiozia. Eppure il settimanale da cui traggo questa perla di confessione è uno dei più stimati nel panorama editoriale nostrano. La dichiarazione appartiene a un noto attore americano: la foto lo ritrae con lo sguardo sbilenco, pare che piaccia. Il primo bottone della camicia, di un bianco opaco che vuole essere cool, è slacciato e una cravatta sfatta e larga, alla calciatore osannato per intenderci, penzola nella pagina nel tentativo di dare il giusto tono a tutta l’immagine. Meglio partire al più presto, inforcare la bici e fuggire lontano. Quartieri periferici. Una discarica abusiva. Una damigiana, materassi sfatti, pneumatici, scatoloni sporchi e stropicciati, come la pelle degli elefanti. Una valigia distrutta. Una scala quasi priva di pioli. Bidoni da imbianchino. Bidoni di latta. Ci sono pure due prostitute. Il mattino ha l’oro in bocca. L’autobus passa e scarica studenti annoiati. Come li capisco. Scuola di merda, priva di emozione, sensualità, gioia, amore. Solo un recinto è ormai la scuola italiana, e gli studenti a fare le vacche, i pecoroni, i bamboccioni. Affanculo. Pedala Frank, dai, via di qui. Al più presto. Mi sono ammalato di oscurità molto tempo fa. Una cataratta pesante come una saracinesca opprime gli inutili tentativi di guardare il mondo. In bici, il sudore riesce in parte a schiarire la vista. Per questo pedalo: cerco di avvicinarmi a un mondo che sento sempre più lontano. Di guardarlo meglio, se è possibile. Ma quanta fatica. Sotto il cavalcavia autostradale. Sotto quello della tangenziale. Fagiani nei campi. Sembrano strane divinità inebetite che ogni tanto sussultano volando basso, con una goffaggine che li rende ridicoli. Tutto è ridicolo, a pensarci bene. Oggi le persone si appassionano tanto alle trasmissioni dedicate alla cucina. Gli chef ormai dettano legge nello stile e nel comportamento. Ma poi tutte quelle persone che li guardano estasiate vanno a comprare cibo pronto. Così è la vita. Mmm: oggi mi sembra che arranchino pure i pochi trattori che ogni tanto si insinuano nei campi

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Velopensieri

come fuorilegge della gomma. Sembrano creature anacronistiche dalla silhouette antropomorfa. Finalmente la strada sale, e tutto si fa più bello, nitido, semplice, voluttuoso. Mi alzo agile sui pedali, tanto per provare il gusto di sentire i muscoli reagire. Ogni tanto la vita è bella. Basta poco, oh yes. Passo davanti a una pieve di un romanico malinconico, lieve come le colline che la circondano. Sulla panchina un vecchio guarda nel vuoto. Sembra più che affranto, sommerso. Dai ricordi, dai rimpianti, dalla solitudine. Quando transito nei paesi guardo sempre le locandine dei morti. In base all’età che leggo dei defunti, scommetto sempre sulla data della mia morte. Uh, Anita è scomparsa a ottantadue anni, ci arriverò mai io a quell’età? La mia terra è l’Appennino, senza dubbio. Getto lo sguardo oltre le colline, verso il crinale. La terra ha il colore del pane abbrustolito. Di farina di castagne. Di foglie cadute in autunno. Osservo. Non faccio altro quando vado in bici. Arranco sui pedali, un uomo è chino davanti alla sua porta di casa circondata da vecchi mattoni a vista. Qual è la differenza tra gli uomini piegati su se stessi e gli uomini che si credono arrivati? Quelli che comandano, che appaiono, che descrivono, che raccontano, che filmano, che suonano, che vincono alla fine sono uomini come questi. Siamo tutti feriti in battaglie che non abbiamo mai combattuto. Siamo dei reduci. Accolgo nei polmoni il profumo dell’asfalto di strade secondarie e poco frequentate. Una bellezza minima. Un sapore di infanzia e di libertà. Solo nella strada, ad ammirare le lapidi dei partigiani morti. Alberi solitari. Solchi nei campi. Un giorno torneranno i papaveri. E allora sì, sarà finalmente estate. Attraverso piccoli paesi. Sembra che non ci sia nessuno. Quindi non si disturba nessuno. È un vagare di fantasmi. Dov’è il medico di famiglia? Il farmacista? Il postino? Il fannullone del bar? L’impiegato del Comune? Tutti in città, per dio? Inutile ricordare di come si stava un tempo. Però qui, oltre al vuoto e al disagio, c’è una certa profonda bellezza. Che nessuno vuole più vedere, o accettare, o riconoscere. A volte purtroppo, appena fuori dal paese, orribili capannoni danno l’idea del tempo che cambia. In peggio, mi pare. Villaggio artigiano, zona industriale. Le parole hanno sempre più di un significato e spesso sono usate in modo meschino, ingannevole: qui non ci sono villaggi, piuttosto accozzaglie di edifici in cemento armato e lamiera, circondati sempre da una moltitudine di macchine parcheggiate ai lati di queste mura tristi e senza amore. Le strade in Appennino hanno le crepe. Non so perché, ma mi ricordano i fumetti che leggevo da bambino. Sembra che si possano aprire da un momento all’altro. Preludio alle voragini della vita. Le crepe sono piccoli ictus del terreno, che si scuote per il peso dell’incuria, della trascuratezza. Le strade sono la cipria che abbiamo spalmato sulla terra. E quando si secca, si sgretola mostrando i segni del tempo, un invecchiamento precoce e costante al quale non sappiamo più rimediare. I tornanti sono pochi, rari come la pioggia d’estate. L’Appennino non è maestoso come le Alpi. Però c’è una grazia antica in queste curve che esprimono qualcosa di inespresso. Parlano la lingua del silenzio. Sono curve che rasentano la fierezza, ma non arrivano mai a essere trionfali. È bello salire tra i castagni, i faggi e quel sapore di antico che solo questa terra sa donare. È ora di rientrare. Chissà cosa troverò oggi nei giornali. Qualcuno di famoso che odia le bretelle? I peperoni verdi? Le ceste natalizie? La discesa aiuta a far scivolare via il banale a cui sto andando incontro. Quanti anni vivono di solito le anatre? E gli aironi? E le talpe? I daini? I cinghiali? Le lepri? I topi di fogna? Le lucertole? I ramarri? I rospi? Fa caldo. Rallento. La pianura si stende come un tappeto melmoso sotto le ruote. Riprendo a pedalare cercando un ritmo regolare. Provo a fare un po’ di velocità. Non c’è vento contrario. La pedalata è buona. In mezz’ora sarò a casa. E poi?

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Due La bicicletta luccica e risplende. Schegge di bagliori partono scintillando dai raggi e dai mozzi per scaricarsi nell’aria. L’ho appena pulita e ne sono fiero. La bici ha una sensualità estrema, forte e dolce nello stesso tempo. Sembra fatta apposta per cavalcare la nostra spina dorsale, che sono gli Appennini e troppo spesso ce ne dimentichiamo. Un giorno mi piacerebbe partire dalle colline liguri e arrivare, seguendo il profilo dei monti, fino in Calabria. Per ora mi accontento del mio Appennino, fatto di paesi in cui sembra nessuno voglia più stare. “Steve Jobs tirchio e drogato: ecco cosa traspare dai dossier della Cia”. Sorrido dentro me sognando California, mentre mastico pane e miele. I titoli dei giornali sono ridicoli, ridicoli i sommari e gli occhielli. A volte solo i commenti si salvano. Eppure non posso fare a meno dei giornali. Come dell’odore del caffè: amo il profumo che spande la moka borbottando nell’aria. Tanto caffè, tanto pane e tanto miele. Un frutto e le albicocche secche. Sono pronto per un nuovo giro. Allez. Oggi vado a trovare un amico che abita in un paese che ha il nome più bello di tutti: Riolunato. L’idea che la luna si possa specchiare in un piccolo ruscello di montagna in piena notte ha un suo perché. Ma che il ruscello possa avere le sue lune è ancora meglio. Muschio e sassi. Rami e fili d’erba. Leggende parlano di gamberi di montagna. Potrebbero bastare i ranocchi. E le volpi invisibili. Il ruscello scorre placido nella mia immaginazione. Da bambino passavo ore a creare piccole dighe nei torrenti di montagna. Spostavo sassi e terriccio, mi procuravo dei pezzi di legno e giocavo con l’acqua che scorreva gelida fra le dita. Davo dei nomi a quelle pozze, ai fragili ponti che tentavo di costruire, agli argini con i sassi. Il suono dell’acqua si insinuava nelle mie orecchie penetrando in tutto il corpo. Fluiva con il fluire del sangue e poi usciva attaccandosi chimicamente all’anidride carbonica. L’amico partì un giorno di tanto tempo fa per delle isole lontane, a nord dell’Europa. Adesso è tornato al suo paese. Chi non desidera partire, migrare, immaginare nuovi orizzonti? Inutile, però, credere ai grandi viaggi. La vita è qui, dove non succede mai nulla. Oggi tanti chilometri. E tanta solitudine. Le strade di campagna sembrano gialle. Seguo la pianura che s’inchina finalmente alle colline. Scelgo una strada secondaria, che sale di nascosto sopra i campi coltivati. Guardo giù e vedo il letto del fiume tutto stropicciato. Cave di ghiaia. Le odio. Un odio profondo. Con quei mucchi di sabbia rubati al fiume e quei cingolati che girano impazziti come mosconi sulla merda. Guardo in su e riprendo fiato. Un sorso alla borraccia. Non temo i crampi, piuttosto i rimpianti. I quali troppo spesso mi parlano di monti spelacchiati, di paesi vuoti. Tutti sono prodighi di consigli. Tutti ti dicono come devi fare. Il trucco consiste nel capire come le persone ti vedono, come vorrebbero che tu fossi e agire di conseguenza. Se stai al gioco è fatta. Mmm: mi sa che sono fottuto. Le persone parlano. Parlano di tutto. Sanno di tutto. Ma io sono un nomade di mente, e sono sempre a vagabondare. “Giunta al confin del cielo/Dietro Appennino o Alpe, o del Tirreno/Nell’infinito seno/Scende la luna; e si scolora il mondo” (Giacomo Leopardi, Il tramonto della luna).

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Mangio una banana, accanto alla fontana. Bevo un caffè prima di affrontare il pavé. Salgo in bicicletta, senza nessuna fretta. Aggancio i pedali e non m’illudo di avere le ali. La strada è l’unica compagna affidabile. Lei c’è, sempre. Sei tu a volte che la tradisci, per pigrizia, indolenza, rassegnazione. L’amico ha un volto d’altri tempi. Sembra un sasso di fiume scolpito con leggerezza. La sua amicizia è un invito a retrocedere nella memoria. In fondo c’è una luce, proprio dietro i suoi occhi. Che sia il bagliore della giovinezza? A volte bisogna respirare. Respiri profondi. E poi sorridere. Ammirare i pazzi che rubano le nuvole, seguire il volo delle poiane e immaginare che il mite profilo delle nostre montagne non è altro che il crinale della nostra esistenza. Di qua la pianura, di là il mare. Oriente e Occidente. Come vorrei ogni tanto che un pino marittimo facesse la sua comparsa, improvvisa come la gioia. Sulla strada del ritorno. Inizio a essere stanco. Non ho potuto rifiutare il piatto di tagliatelle offertomi dalla mamma dell’amico. Una signora anziana, deliziosa, che nemmeno il Parkinson ha sfigurato. Anzi, il suo lieve tremolio suggerisce che la nostra vita può essere un’onda leggera, a volte sorridente, come può esserlo un rossetto delicato sulle labbra di una signora di montagna e vicina agli ottant’anni. Non mi piacciono le automobili. Non mi piacciono i camion. Le motociclette, quelle sì. Non mi piacciono i condominii. Le rotonde. Le radici degli alberi che cercano di evadere dalle aiuole. I cartelloni pubblicitari. Poco mi piace della mia città. Che ha smarrito la sua identità nell’alta marea piccolo borghese in cui è annegata. Salgo le scale con la mia bicicletta. Non posso tenerla in garage, la devo portare in soffitta. In garage me ne hanno rubata già una, la mia amatissima Pina, vale a dire una Pinarello in carbonio che mi ha portato ovunque. Ebbene sì: nelle nostre sublimi città dobbiamo blindare tutto, soprattutto noi stessi.

Tre Ci sono strade che rasentano il sublime. Da Montefiorino, Frassinoro al Passo delle Radici, passando per Piandeilagotti. Una strada terrazzo. Una strada visione. Una strada dal sapore mistico. Le case, le officine, gli stabilimenti e la sporcizia che hanno invaso la pianura e deturpato la collina qui non si vedono più. Solo piccoli paesi dal tono sconsolato, malinconico, circondati da prati e boscaglie. Solo in alto si può trovare salvezza, rifugio e ci si può sentire puerilmente liberi. Qui, in un tempo ormai rimosso, la violenza si scatenò feroce come un’improvvisa tempesta di neve. L’uomo si fece bestia e le sofferenze furono inaudite. Nazisti e repubblichini si abbandonarono a rappresaglie vigliacche, selvagge e a rimetterci furono soprattutto i civili. Adesso sembra tutto sepolto in un dimenticatoio in cui si macinano i semi dell’ignoranza uniti a quelli della superficialità. Ne esce una farina scialba, mediocre, che sa di benessere stantio e anestetizzato dal catodo. Ma quassù, pedalando in questa strada piena di luce, in cui il Cimone e tutto il crinale assomigliano a un anfiteatro di terre ancestrali e silenziose, si possono scorgere i fantasmi dei viandanti, dei pellegrini, dei vagabondi, dei briganti, dei contadini, dei legnaioli, dei carbonari, dei partigiani e delle giovani ragazze e dei vecchi che ti osservano silenziosi. Gli unici a parlare sono gli uccelli: falchi pellegrini, poiane, civette, gufi, passeri, gazze, pettirossi, merli e d’estate anche le rondini. A volte planano paralleli alla tua corsa per una ventina, trentina di metri, per poi virare e scivolare oltre gli alberi, i campi, la vita. Parlano il linguaggio della luce eterna. Questi sono luoghi di transito. Da tempo immemore. Qui non c’è nessuno. Perciò sono belli questi luoghi. Il pino. Il faggio. Il prato. La pietra. La zolla. Il sottobosco.

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L’aria che punge. L’aria che frigge. L’aria che alita parole d’amore. L’aria che suona. L’aria che riflette la luce. Sono malato di luce, lo so. Qui l’equilibrio fra aria e terra rasenta la perfezione. E ti puoi sentire soffice anche nelle ossa. Ti puoi sentire leggero nella testa. E aprire gli occhi totalmente, senza paura. E ti sembra di andare forte, sospinto dai refoli di una gioia finalmente libera, priva di condizionamenti. È la forza della purezza. Basta respirarla a fondo che le gambe mulinellano che è un piacere. Salire verso l’Imbrancamento (punto di congiunzione fra la strada da cui provengo e la statale del Passo delle Radici) è meraviglioso. Saluto gnomi e lepricauni e cerco funghi di qua e di là dalla strada. Vedo solo fragole, di un rosso così acceso che sa di poesia. Mi piacerebbe vagare a lungo in questo stato di grazia, ma so perfettamente che tutto finisce. Raggiungo il passo per guardare di là. Le Apuane, il mare Tirreno. Sotto, in lontananza, una parvenza di civiltà. Civiltà? Passo delle Radici. Un toponimo meraviglioso. “Going back to my roots. World citizen”. La voce di Sylvian e la musica di Sakamoto. “I was suffering”. Come un malato? Un visionario che soffre di allucinazioni? Chi viaggia in aereo vede le luci del mondo. Ma qui non ce n’è bisogno. Radici vicine e scenari lontani. Il mondo è piccolo. Raggiungo il santuario di San Pellegrino in Alpe, ripromettendomi che la prossima volta salirò dalla Garfagnana. È una delle salite più dure che ci siano in circolazione, che ho fatto già due volte. Vabbè, sarà per un’altra occasione. Adesso torno giù che ho voglia della fontana dell’Imbrancamento. Voglio percorrere la stessa strada al contrario. Ma prima riempio la borraccia di acqua pellegrina, di acqua viandante, di acqua solitaria, di acqua catartica e gelida come le notti d’inverno con la luna. Amen, Frank. Come è dolce pedalare in questo mare. Una volta a casa, dopo la doccia, attendo i figli. Cerco di incrociare i loro sguardi, quasi di nascosto, con un certo pudore. La loro esuberanza mi atterrisce. Cerco di capire se nel loro cuore c’è l’angoscia che avevo io alla loro età. Sento riemergere dentro me le grida di bambini che giocano spensierati nel cortile di una casa in cui ho abitato tanto, troppo tempo fa. È allora che mi accorsi di essere malato. Avevo si e no dieci, undici, dodici anni. E non sono mai guarito. Spero che i miei figli non siano afflitti dallo stesso delirio. Un po’ di gioia per dio, ho bisogno di un sorriso e di molta semplicità. Sarò mai un buon padre? Se non mi uccido, forse sì.

Quattro La differenza tra l’Appennino emiliano e le Alpi si basa sul concetto di difesa. Nelle Alpi, quelle tirolesi soprattutto, dato che quelle lombarde in particolare sono state massacrate dall’idiozia umana, le persone cercano di difendere una ricchezza che la natura ha concesso in dosi massicce. E di venderla nel migliore dei modi. Mentre qui in Appennino l’uomo non ha nulla da difendere. Nelle Alpi i depliant parlano in tutte le lingue del mondo di paesaggi incontaminati, ben sapendo di mentire. Qui da noi non vengono nemmeno stampati. Certo, non abbiamo picchi, ghiacciai, piste da sci chilometriche. A volte penso sia una fortuna. Il poco che abbiamo diventa così tanto proprio perché nessuno lo vende. L’ottimo Vico Magistretti diceva che bisogna imparare a togliere. Il buon design è una sottrazione. Non ha bisogno di orpelli. Ma di esaltare in modo semplice la funzionalità delle cose. Per salvare i nostri paesaggi dovremmo fare la stessa cosa: iniziare a togliere, piuttosto che continuare a costruire. E ricostruire, risanare, bonificare, piuttosto che edificare. Caso mai eliminando i ragionieri, gli architetti corrotti e i funzionari di partito, qualsiasi esso sia. Ci sono strade che sanno di eterno, solide come il tronco di querce secolari. Sono strade che sanno aspettare, che non hanno fretta, che non hanno voglia di rompere il mondo e mandarlo in frantumi. Sono strade che chiedono solo di essere percorse. Sono strade ospitali e quasi sempre silenziose. Sono strade che hanno rispetto di tutto e non vogliono essere trattate male. Chi getta cartacce o rifiuti lungo le strade

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non solo è un maleducato. È uno stolto. Solo il vento può interrompere i lunghi silenzi che avvolgono queste strade. Quando c’è il vento queste strade cantano. Si trasformano in sirene e sembra che vogliano sedurti, ammaliarti, prenderti. Si viaggia che è un piacere su queste strade. Fili d’erba e ragni. Grilli e cicale. Queste strade sono come cascate orizzontali, come scie di aeroplano nel cielo turchino. Queste strade sono esemplari e ogni tanto mi dico: ecco, questo è il mio posto. Stoffe, metalli, ceramiche, plastiche, carte e cartoni, bottiglie, mozziconi, merda, piscio, pietre, rifiuti organici, preservativi, sputi, pneumatici, cerchioni, assorbenti, scarpe, pantofole, cassette di legno, calze: sul ciglio di alcune strade, di troppe strade, trionfa l’arte povera. Esistono anche strade malate. Vivono nella semioscurità. O sono troppo calpestate, consumate, vilipese, o sono abbandonate all’incuria e poi volutamente evitate. Come se percorrerle potesse in qualche modo fare male. Come se potessero contagiare chi le oltrepassa. Sono strade segregate, che vivono ai margini della società, rifiuti dell’abusivismo edilizio, della mancanza di un piano regolatore preciso. Sono strade zerbino, usate fino a quando servono e poi lasciate in disparte. Sono strade fogna, cloaca, immondizia. Spesso sono prive di illuminazione. Di solito sono brutte e puzzolenti. Hanno a che fare con l’infelicità di chi non ha più un sogno da vivere, nemmeno da spendere. Ci sono strade che sanno di balera e riecheggiano allegre valzer, polke, mazurche: sono strade lisce come il pavimento di una pista da ballo. Sdrucciole. Strade di campagna che sanno sorridere al grano che le circonda, che sanno godere dell’estate e che s’immalinconiscono d’inverno. Che sanno di gonne svolazzanti e di passi felpati, di giri inebrianti e di mani che si stringono forte, di mani sui fianchi, di mani imploranti voluttà. Sono strade che conoscono il dialetto, che conoscono la fatica, il sudore e che lasciano però spazio alla gioia del sabato del villaggio, di quella gioia che nasce e muore nel giro di una notte. Precoce, effimera e però assolutamente necessaria. Sono strade che conoscono il sapore dei baci, delle mani fra i capelli, dell’amore furtivo e inconsapevole. Dell’amore che danza senza tregua, per morire al primo canto del gallo, in un’alba d’estate. Sono strade che conducono spesso nelle piazze di paesi in cui d’estate furoreggiano sagre e banchetti. Sono strade che conducono negli angoli del nostro esistere. Sono strade dal baricentro basso e che sanno dirottare lontano quell’io imbalsamato in cui siamo costretti a vivere. Ci sono strade che sanno di cibo. È un piacere alla domenica mattina tornare a casa e sentire che dalle finestre delle cucine o delle sale da pranzo esce un profumo intenso di ragù, o di cacciatora. Sono piccole certezze che danno sapore alla vita. Un rituale, quello domenicale, che qui in Emilia è ancora molto radicato. Ci sono strade che sanno di grigliata, di osteria, di gnocco e tigelle e l’odore di fritto non è nauseabondo, ma un profumo che caratterizza il nostro essere. Ci sono strade che offrono ristoro e danno un senso di appartenenza. Meno c’è, meglio è. Così si può tornare a parlare con le nuvole, le pozzanghere, gli alberi, le vipere, le lucertole, i sassi, i torrenti. E con se stessi, senza troppo mentire. Ci vuole un bel coraggio, no? La regola del “meno c’è, meglio è” nelle strade vale doppio, anzi triplo. Quando percorro decine di chilometri incontrando si e no una decina di auto il pedalare si trasforma in un mantra che sa di oceano, magma, placenta. Puoi mollare la presa sulla concentrazione da traffico e stringere il manubrio con leggerezza. Lo sguardo si fa vispo, le narici, le orecchie, la bocca si dilatano e i pensieri scivolano via. È il momento in cui il corpo, tutto, si libera per ricevere. Si svuota di ciò che ha accumulato per riempirsi di inaspettato.

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Come d’incanto tutto cambia fisionomia. Anche i cartelli stradali assumono un’altra valenza. Sono più belli, più sinceri nella loro solitudine. Quando transito di fianco a una pieve mi sento catapultato in un’altra dimensione. Forse amo più le cose che le persone. È bello scivolare nei luoghi in cui non arriva nessuno. Anche gli odori si percepiscono meglio. L’odore del silenzio poi è pazzesco. A volte capita di incrociare un furgoncino, per lo più di gelati, patatine, bevande o altri generi alimentari. Va via veloce, senza disturbare. Visita i paesi come fa il medico condotto. È parte integrante della comunità. Si ferma, scarica, riparte. Ogni tanto il conducente si permette un caffè, niente di più. Sembra che abbia fretta di tornare da dove è venuto. Molta fretta. Cos’è che lo turba? La paura di rimanere invischiato in troppa solitudine? Perché nelle città si ha la sensazione di non essere soli? Come ci inganniamo facilmente. Troppo facilmente. Forse abbiamo perso il coraggio. Il nostro essere così piccolo borghesi ci ha tolto il coraggio di rimanere soli con noi stessi. Siamo pavidi in questo autoinganno. Abbiamo bisogno di illuderci con il tanto, il molto, il tutto. Iper, super, multi, maxi. Mucche al pascolo. Poche. Qualche cavallo. Greggi di pecore. Poche. Balle di fieno arrotolate nei campi. Un gatto punta qualcosa e nemmeno mi degna di uno sguardo. Due rondini atterrano sotto un tetto spiovente e si nascondono. Conoscono l’Africa. Conoscono l’Appennino. Una meraviglia. A me sembra di riconoscere i fiori, le piante, le siepi, i campi. Sanno di silenzio e di vento, di sole e di pioggia e giacciono immobili, immersi nel perenne monito che suggeriscono ai passanti: di vivere dell’oggi e di non gettare al vento la vita, di non ricordare il giorno trascorso e di non perdersi in lacrime sul domani che verrà. Non c’è passato o futuro che tenga, transitando in questi luoghi. C’è solo il presente, che quando è illuminato dal sole riempie tutte le cose. Anche noi, semplici viandanti senza una geografia precisa. Mi fermo per mangiare le mie amate albicocche. Appoggio la bici a un muretto, vicino a un pino solitario. Davanti a me la linea irregolare dei monti. Sono bassi, gentili, sembrano delle onde cristallizzate nel tempo. Il verde è il colore dominante. I pensieri corrono più veloci di me, mi superano lasciandomi senza difesa. Mi sento come un coccio, un frammento, una buccia gettata nella scarpata. Bevo un sorso di acqua dalla borraccia. Ascolto il mio respiro. Cerco di capire se sono ancora dentro il mio corpo, o se l’ho definitivamente abbandonato per seguire la chimera dell’infinito. Salgo in bici, cercando di mettere un po’ d’ordine in me, cercando la poesia nelle cose, la semplicità del vivere che proprio mi sfugge. Non sono un campione, sono un gregario della fuga. Ho tutto da imparare e nulla da nascondere. A volte mi sento solo, ultimo, con una maglia nera di felicità addosso. Velocità. Discesa, falsopiano e ancora discesa. Velocità. Ritmo. Una bella salita. Ritmo. Stare bene fisicamente è un privilegio che va coltivato quotidianamente. Sto bene solo in bici, o quando cammino. Per il resto sono un’autentica nullità. Amo la salita. Per vedere oltre l’asfalto devi alzare il mento. Mi piace il sudore che gronda sul telaio. Per vedere oltre gli alberi devi alzare la testa. Tutta intera. Mi alzo sui pedali: in bici il mio cuore è più leggero. I muscoli si sciolgono. Solo le spalle ogni tanto hanno qualcosa da rimbrottare. Bere. Mangiare. Pisciare forse. Le foglie oscillano al vento e io vorrei essere una radice. Piantata qui per sempre.

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Cessate il fuoco a cura di

Lorenzo Bagnoli

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Messico Colombia Cessate il fuoco è l’osservatorio mensile delle vittime dei conflitti nel mondo. I dati, che si riferiscono al periodo dal 4 giugno al 3 luglio, vengono raccolti da organizzazioni umanitarie o da fonti giornalistiche e quindi non potranno essere esaustivi. Le notizie sui conflitti in tempo reale su: www.eilmensile.it

Iraq

A Balad, il 27 giugno, l’esp losione di tr autobombe e ha provocato la morte di persone. Il p undici rimo attacco suicida ha u sette person cciso e nel mercato cittadino. Po minuti dopo chi , due moto cariche di es hanno colpit p losivo o una stazio ne di polizia e un ufficio postale. La C nn riferisce che secondo alcune fonti della polizia l’attacco sare bbe stato co ndotto da u cellula di al na Qaeda in Iraq . L’organizza terroristica av zione rebbe colpit o Balad, citt a maggioran à za sciita, per provocare sc etnici nel Pae ontri se.

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Algeria Libia Somalia Etiopia Sudan Uganda Nigeria Rep. Dem. Congo Costa D’Avorio Mali Rep. Centrafricana

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Myscaonnmtriaetnr ici nello Stato diitRa aak2h9inpee, rsa oonvee,st

Gli state la v nicato ar, sono co o ha comu L m . n a te y ri fe M i e d rimast i confine re 38 sono gli Affari d e d mentre alt ro te is e del min overno, il portavoc fonti del g le o d n o c e o. S te, mentre il 14 giugn no buddis so 3 1 e hingya, m ti oranza Ro tra le vit in m a ll a gione ngono ze nella re n le 16 apparte io v e L donna sulmana. ando una u q , o di fede mu n g iu ciate l’8 g ccisa sono comin ta è stata u is d d u b a z ngdaw. ioran ittà di Mau della magg c ato a ll a o in anno port ya vic usulmani h dai Rohing m e mpi a ti c is 7 d 3 e nei tra bud lt i o c n c o a si n ra o te Le ersone, ni Unite. entamila p alle Nazio d e n alla fuga tr io g re a llestiti nell profughi a

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7.168

Repubblica Democr atica del Congo

Un gruppo di Maï Maï, guerriglieri in bantu, ha as lingua salito la bas e militare di K a 125 chilom aseghe, etri da Batu mbo, nel No L’operazion rd Kivu. e è avvenuta il 5 giugno. attaccato le «Hanno nostre caserm e e ucciso al soldati», ha cuni dei nost affermato L ri ambert Men del governo d e, portavoce di Kinshasa. Il bollettino u è di undici v fficiale ittime tra i m ilitari e otto Il bilancio è tr a i miliziani. stato smenti to dal capo il generale K d ei guerriglieri, akule Sikula La Fontaine, il quale i dec secondo essi tra le fo rze governat 31 mentre n ive sarebber on ci sarebb o ero vittime tr I gruppi Maï a i suoi. Maï che min acciano la R Democratic epubblica a del Congo so no compost da ex guerrigl i ieri e diserto ri. Secondo d’intelligence fonti , i gruppi so no foraggiati confinanti, dai Paesi soprattutto dal Ruanda. la milizia di In p articolare, La Fontaine è alleata del democratich le Forze e per la liber azione del R il più poten uanda (Fdlr), te contingen te armato di etnia hutu.

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Il 3 parten ro missili ettate di ap sp so e n ciato quatt o n rs a sg pe a h ta residenti senza pilo aziristan. I W d u Il velivolo S l e bitazione n li hanno ampa loca contro un’a st i d ie z n e asti feriti lle ag ne sono rim io ascoltati da z ra ati e p ’o ll ia comand che ne gli aerei-sp a denunciato m ri p ie b o e o ttivi i. Il giorn ito altri du lp o c o diversi civil n a v e v termine dalla Cia a giugno, al 7 Il . a z a distanza h g a rio Onu di Mana R il commissa , nel villaggio d a b a «i raid m la iarato che isita a Is h v ic a d su a h a ll y e d i Pilla o del diritto umani Nav i sul rispett b b u per i diritti d ri se ura i sollevano icato l’apert sp u a i o con i dron p a h tilizzo. ale». Pillay e sul loro u it n U i n internazion io Naz gine delle di un’inda

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Al servizio dell’Emilia

Poco più di un anno fa abbiamo annunciato l’avvio di un nuovo progetto. Due pullman, trasformati in ambulatori, avrebbero portato assistenza sanitaria a chi non aveva altra possibilità di essere curato per scarsa conoscenza dei propri diritti, impossibilità di accedere alle strutture sanitarie, difficoltà linguistiche e culturali, paura. La scorsa estate i nostri Polibus hanno percorso le strade di un’Italia diversa da quella che pensavamo

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di conoscere. Negli aranceti di Rosarno, tra i nomadi di Tretitoli, nel campo profughi di Manduria, abbiamo visto uomini e donne vivere in condizioni vicinissime alla schiavitù ed emarginati senza diritti. Li abbiamo curati, ci siamo fatti carico di accompagnarli nelle strutture pubbliche quando è stato necessario, li abbiamo ascoltati quando ce l’hanno chiesto. Il progetto dei Polibus dava seguito all’impegno che avevamo intrapreso nel 2006 con l’apertura del Poliambulatorio di Palermo e l’avvio del Programma Italia. Anche nel nostro Paese iniziavamo a toccare con mano la mancanza di risposte ai bisogni delle fasce più vul-

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nerabili della popolazione. Dal 2006 a oggi quei bisogni sono cresciuti: una cultura politica improntata all’esclusione e tagli sempre più consistenti alla spesa pubblica hanno messo in discussione anche i diritti fondamentali. Secondo il Censis, per esempio, più di nove milioni di italiani dichiarano di non aver potuto ricevere le cure di cui avevano bisogno per ragioni economiche. Mentre scriviamo, uno dei nostri ambulatori mobili è al lavoro in Emilia. Cittadini, medici, nostri volontari ci hanno chiesto un aiuto per garantire assistenza sanitaria nella provincia di Modena, una delle zone più colpite dal terremoto.

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Il Polibus di Emergency si trova in un campo abitato da circa seicento persone, in gran parte stranieri, e lavora anche nei campi sorti spontaneamente negli spazi aperti delle città per la paura di nuove scosse. Non mancano i medici sul posto: mancano invece spazi equipaggiati e puliti, dove possano fare il loro lavoro. A Rovereto, un paese di 4.500 abitanti poco lontano dal capoluogo, abbiamo messo il nostro Polibus a disposizione del medico di base che era costretto a ricevere i pazienti in una tenda da campeggio allestita sulla strada, dopo che il suo ambulatorio era stato dichiarato inagibile. La situazione, già critica per tutti, è ancora più pesante per gli stranieri: sul polibus trovano l’aiuto dei nostri mediatori culturali per superare le difficoltà linguistiche e orientarsi tra i servizi di un sistema sanitario che conoscono poco. Non sappiamo ancora, in questo momento, come evolverà il nostro intervento: lo valuteremo in base alle richieste e alle necessità che incontreremo nelle prossime settimane. Per ora siamo in Emilia perché ce n’è bisogno e perché vogliamo offrire un segno concreto di solidarietà a chi, anche nel nostro Paese, si trova in difficoltà.

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I Polibus in Italia Per assicurare tempestivamente cure mediche a chi ne ha bisogno, Emergency ha allestito due ambulatori mobili, i Polibus. Gli ambulatori mobili prestano servizio gratuito per periodi definiti in aree a forte presenza di migranti, come le zone agricole, i campi nomadi o i campi profughi. Attualmente i due Polibus sono in servizio a Carpi (Mo) per portare assistenza sanitaria agli sfollati del terremoto; e a Cassibile (Sr) dove vivono numerosi migranti impiegati nell’agricoltura e provenienti principalmente dal Sudan e dal Nordafrica. In passato Emergency ha lavorato a Vittoria (Rg), Rosarno (Rc), Venosa (Pz), Siracusa, nella campagna della Capitanata in provincia di Foggia e nelle vicinanze del campo di Manduria a Taranto. Le prestazioni erogate presso gli ambulatori mobili sono gratuite. Da aprile 2011, Emergency ha effettuato 3.474 visite (dato al 31 marzo 2012).

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È qui il festival

Nel nome di Bob

La settimana da cerchiare in rosso sul calendario è quella tra il 16 e il 22 agosto, giorni in cui a Benicassim, in Spagna, avrà luogo il Rototom Sunsplash, il più importante festival di musica reggae a livello europeo: quello più lungo, con il calendario più fitto e di maggior spicco. Sono state duecentotrentamila, l’anno scorso, le persone che hanno celebrato quella musica con radici africane che però ha trovato in Giamaica il luogo di sintesi e il suo centro di diffusione principale. E proprio all’isola caraibica e al cinquantesimo anniversario della sua indipendenza sarà dedicato il festival, giunto alla sua diciannovesima edizione. Ma attenzione, verranno celebrati anche i primi cinquant’anni di vita del reggae, il cui atto di nascita viene fatto risalire ai primi esperimenti musicali del suo massimo esponente, Bob Marley, e del team di musicisti che poi sarebbero entrati nella leggenda con il nome di The Wailers. Una ricorrenza importante che verrà ricordata con un concerto di Kymani Marley e Andrew Tosh, rispettivamente figli di Bob e dell’altro cult hero di questo genere musicale, Peter Tosh, affiancati da Marcia Griffiths, la “regina del reggae”, che fu parte di una band, le I Threes, in cui militò anche Rita Marley, la moglie del profeta.

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Jose Jordan [getty images] Rototom Sunsplash, Benicassim, dal 16 al 22 agosto www.rototomsunsplash.com

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Che quest’edizione sia targata Giamaica lo si capisce anche guardando il cast, composto all’80 per cento da artisti giamaicani, ai quali si aggiungeranno nomi di richiamo provenienti anche da altre aree, come l’ivoriano Alpha Blondy, attualmente la stella più luminosa nel panorama reggae africano e Giuliano Palma&The Bluebeaters. Sette giorni di musica suonata sui cinque palchi, una full immersion nel reggae e nei suoi sottogeneri, come lo ska, il dub o la dancehall. Per chi volesse scoprire qualcosa di più delle radici di questa musica, ci sarà la Reggae University, un luogo di incontri, dibattiti e lezioni per continuare il viaggio anche con gli amplificatori spenti. Previsto anche quest’anno il Foro Social, un’altra agorà, dedicata però all’attualità e a macrotemi come diritti, economia e ambiente, il cui titolo è “Viva la democrazia!”, cui parteciperanno, tra gli altri, il direttore de Le Monde Diplomatique Ignacio Ramonet, il sociologo Zygmunt Bauman e Rick Ralkvinge, il fondatore del Partito Pirata. Infine, area bimbi, African Village con corsi di cucina e di balli africani per andare al cuore del reggae e della cultura rastafariana. I bambini sotto i dodici anni, gli adulti sopra i sessantacinque e i portatori di handicap non pagano il biglietto. Preparate la tenda, la festa può cominciare.

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Film sul lago di

Barbara Sorrentini

Festival internazionale del film, Locarno, dall’1 all’11 agosto, www.pardolive.ch

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Esigente, generoso e con meno film rispetto agli anni passati. Questa la dichiarazione d’intenti per la 65a edizione del Festival internazionale del film di Locarno, che si terrà nella città svizzera dal primo all’11 agosto. «Esigente per quel che concerne la qualità artistica e dei nuovi film in programma nei Concorsi e in Piazza Grande», promette il direttore artistico Olivier Père alla sua terza gestione. «Generoso per l’organizzazione di omaggi». La tradizionale Retrospettiva sarà dedicata a Otto Preminger, mentre è stata creata una nuova sezione che prende il titolo dall’opera di Jean-Luc Godard Histoire(s) du cinéma, con documentari, film restaurati e omaggi a personalità che hanno scritto la storia del cinema contemporaneo, invitate a Locarno per incontrare il pubblico. In questa nuova edizione il Pardo d’onore avrà una forte impronta francese e d’autore. A riceverlo in Piazza Grande sarà Leos Carax, cineasta di culto, spesso oggetto di dibattiti, che ha sorpreso al Festival di Cannes con il film Holy Motors, in cartellone insieme agli altri suoi film (Les Amants du Pont Neuf, Rosso sangue e Pola X). A Johnnie To, altro regista nel pieno della sua attività, va il Pardo alla Carriera, accompagnato dalla proiezione di alcuni suoi film (da Breaking News a Election) e dall’anteprima in Piazza Grande del poliziesco Motorway di Soi Cheang, prodotto da To e appena uscito in Cina e a Hong Kong. Sempre in Piazza Grande, nell’arena cinematografica più capiente d’Europa, è in programma Ruby Sparks. È il secondo film di Jonathan Dayton e Valerie Faris, autori indipendenti che hanno raggiunto una certa notorietà con il precedente Little Miss Sunshine, dal cui cast, a distanza di sei anni, si sono portati dietro lo stralunato Paul Dano, nei panni di uno scrittore alle prese con un blocco creativo. I film del concorso internazionale verranno giudicati da una giuria presieduta dal regista thailandese Apichatpong Weerasethakul, Palma d’oro nel 2010 per Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti. Tra i vari film in corsa per il Pardo d’Oro c’è quello di Tizza Covi e Rainer Fimmel, autori del piccolo caso cinematografico dell’anno scorso La Pivellina. Der Glanz des Tages (The Shine of the Day), ambientato in Austria, dove risiedono i due registi, è la storia di un incontro tra un attore di successo e un vagabondo. Dagli Stati Uniti un altro film indipendente, Compliance di Craig Zobel, un thriller basato su una storia vera, un caso sociale di accusa e condanna nei confronti di una ragazza presumibilmente innocente. Nel panorama mondiale del concorso, opere dal Portogallo (A última vez que vi Macau di João Pedro Rodrigues e João Rui Guerra), dalla Francia (La fille de nulle part di Jean-Claude Brisseau) e dal Messico (Los mejores temas di Nicolas Pereda). Il concorso Cineasti del presente avrà un nuovo premio dedicato alle opere prime e seconde e all’interno di quest’ultima categoria, tra i film più quotati, c’è Les mouvements du bassin di HPG (pseudonimo di Hervé P. Gustave) attore, produttore e regista di film porno, pioniere in Francia dello stile “gonzo”, interpretato, oltre che dallo stesso HPG, dall’ex calciatore Eric Cantona e dalla moglie, l’attrice Rachida Brakni. Ogni anno il Festival di Locarno dedica l’Open Doors a un Paese diverso, con una sezione che mira ad aiutare e mettere in luce i registi e i produttori di cinema indipendente dei Paesi del Sud e dell’Est del mondo. Dopo l’India, nel 2011, quest’anno il laboratorio di coproduzione sarà dedicato all’Africa subsahariana francofona. Tra le personalità del cinema africano presenti, i registi burkinabé Idrissa Ouédraogo, già in Piazza Grande nel 1989 con Yaaba (Nonna) e Gaston Kaboré, autore nel 1983 di Wend Kuuni, (Il dono di Dio). Altri due importanti esponenti di questo cinema sono il maliano Cheick Oumar Sissoko e il mauritano Abderrahmane Sissako, rispettivamente registi di Guimba, un tyrant, une époque (già a Locarno nel 1995) e Bamako.

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È tempo di fringe Simona Spaventa

Jeff D. Larson

di

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Estate, tempo di fringe. Basta teatro ufficiale e paludato, la stagione fa venire voglia di libertà e cose nuove, meno ingessate, su palcoscenici che respirano l’aria aperta. E allora ecco farsi avanti artisti e compagnie indipendenti e sperimentali, le “frange” (questo, alla lettera, il significato del termine) che stanno ai margini della scena già affermata, teatranti del sottobosco off, voci fuori dal coro che hanno tanta voglia di dire la loro e trovare un pubblico che le ascolti. Una tendenza che ha conquistato di recente anche l’Italia, dove la parola “fringe” compare accanto alla rassegna più giovane e underground del Napoli Teatro Festival e anche nel nuovo Roma Fringe Festival, che ha appena chiuso la sua prima edizione. Bisogna però guardare oltre confine per trovare la culla di questo genere, ossia il Fringe Festival di Edimburgo, magmatico e frizzante nonostante la bella età. Era il 1947 quando otto gruppi autoprodotti, esclusi dal festival ufficiale nato anche lui quell’anno per risollevare lo spirito agli scozzesi dopo la guerra, decisero di darsi un palcoscenico collaterale. Sessantacinque anni dopo, la ricetta resta la stessa, con manipoli di teatranti indipendenti che affollano il fringe, mentre i grandi nomi sfilano nella rassegna ufficiale. Quest’anno succede dal 3 al 27 agosto, con migliaia di artisti, decine di palchi sparsi per la città, centinaia di spettacoli di ogni genere, dal teatro di ricerca al musical, dalla danza al mimo. Ma non è da snobbare nemmeno il programma maggiore, l’Edinburgh International Festival che presenta spettacoli d’eccellenza nella ricerca teatrale, a iniziare da 2008: Macbeth del polacco Grzegorz Jarzyna, che mette Shakespeare sul campo di una guerra di oggi in Medio Oriente. E poi regie di Christoph Marthaler, Ariane Mnouchkine con il suo Théâtre du Soleil, Tadashi Suzuki, Matthew Lenton. Ancora in Europa, tocca spingersi a nord per trovare la scena off più interessante insieme a Edimburgo. È Stoccolma, con un intensissimo fine settimana di teatro e danza, ma anche street art, installazioni e performing art. Dalla Svezia si passa in Norvegia per l’Ibsen Festival di Oslo, non fringe ma molto interessante. Qui, le pièce del genio norvegese sono messe in scena da compagnie d’avanguardia, con esiti sorprendenti. Quest’anno, ad aprire il cartellone ci sono i tedeschi Rimini Protokoll, collettivo di punta della scena europea. Nell’agosto italiano, per trovare un po’ di gusto fringe bisogna esplorare BMotion, costola sperimentale dell’Operaestate festival di Bassano del Grappa, dove dal 24 agosto al primo settembre sfilano le compagnie al top della nuova scena, dai Babilonia Teatri freschi di premio Hystrio ad Anagoor, dagli Effetto Larsen a Marta Cuscunà, e va in scena una panoramica sulla nuova danza. Aria fresca anche ad Andria al festival Castel dei Mondi che, accanto a grandi nomi – tra gli altri Sergio Rubini e Peppe Servillo – e a proposte più classiche, lascia spazio alla ricerca con Costanzo/Rustioni e Fattore K, Teatro Minimo, Cantieri Koreja, Menoventi, Animanera. Non bisogna dimenticare, però, anche La Mama Spoleto Open, la costola fringe del Festival dei Due Mondi di Spoleto, che affianca con cento spettacoli e trecento artisti indipendenti il festival ufficiale. Si è aperto il 30 giugno e proseguirà fino al 16 settembre. Per gettarsi appieno nelle braccia del fringe bisogna, però, spingersi addirittura oltreoceano, dove i festival “ai margini” sono una piccola epidemia. Il più importante è il New York International Fringe Festival che invade il Lower East Side da sedici anni con i suoi artisti che di giorno lavorano, la notte fanno un teatro orgogliosamente “off-off ”. Ma il tour nel teatro non allineato del Nord America prosegue al Minnesota Fringe di Minneapolis, che anima il quartiere di St. Paul da diciannove anni, e sconfina in Canada, dove sono da citare almeno il Calgary Fringe e il festival di Edmonton. Festival Internazionale di Andria Castel dei Mondi, Andria (Bt), dal 25 agosto al 2 settembre, www.casteldeimondi.it La Mama Spoleto Open, Spoleto (Pg), fino al 16 settembre, www.lamamaspoletopen.net Operaestate Festival Veneto, Bassano del Grappa (Vi), dal 24 agosto al primo settembre, www.operaestate.it Calgary Fringe Festival, Calgary, dal 3 al 10 agosto, www.calgaryfringe.ca Edmonton International Fringe Theatre Festival, Edmonton, dal 16 al 26 agosto, www. fringetheatreadventures.ca Edinburgh International Festival, Edimburgo, dal 9 agosto al 2 settembre, www.eif.co.uk Edinburgh Fringe Festival, Edimburgo, dal 3 al 27 agosto, www.edfringe.com Minnesota Fringe Festival, Minneapolis, dal 2 al 12 agosto,www.fringefestival.org Stockholm Fringe Festival, Stoccolma, dal 22 al 25 agosto, www.stockholmfringe.com

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Prepararsi a Mantova di

Alessandra Bonetti

Festivaletteratura, Mantova, dal 5 al 9 settembre www.festivaletteratura.it

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Lo so, il titolo suona un po’ prosaico, in stile manuale per aspiranti allo sbaraglio. Ma c’è una ragione per tale debolezza: mi sto preparando a partecipare, dal 5 al 9 settembre, al Festivaletteratura di Mantova, l’appuntamento più atteso della stagione editoriale italiana. Quasi quattrocento eventi e altrettanti ospiti, fra scrittori e artisti. Come negare un certo smarrimento e cercare di correre ai ripari, selezionando un po’ di titoli e approfittando delle ferie d’agosto? Per entrare nello spirito festivaliero, mi concentro sull’immagine dell’edizione 2012, firmata da Emiliano Ponzi, che sarà a Mantova per parlare di narrazione per immagini. Qualche mese fa, Corraini ha pubblicato una sua monografia dal titolo 10x10, e scopro così un giovane poeta del tratto e dell’immaginazione, da cui fatico a distogliere lo sguardo. Ma entriamo nel vivo del festival, partendo – come recita il programma – “dai fondamentali”: L’Orlando Furioso, protagonista di una maratona di recital e letture a Palazzo Te. L’impresa appare titanica: voi riuscireste a leggere Ludovico Ariosto sotto l’ombrellone? In aiuto arriva David Lodge, narratore e critico londinese affezionato alla città dei Gonzaga, che in un romanzo di qualche anno fa, Il professore va al congresso, raccontava con ironia i tic e le manie dei letterati in trasferta. Uno dei passatempi era “il gioco dell’umiliazione”, in cui gli accademici dovevano confessare il classico che non avevano mai letto. Fra i libri interrotti, quello che prese più punti era L’Orlando Furioso. Alle origini, seppur meno remote, torna anche Toni Morrison, pseudonimo di Chloe Anthony Wofford, scrittrice afroamericana: 81 anni, un Pulitzer, un Nobel, una decina di romanzi, l’ultimo dei quali sarà in libreria proprio alla vigilia del Festival. Alla sua maestosa figura viene dedicata la retrospettiva di quest’anno, un affresco di eroi imperfetti e senza pietà, come Frank Money, il protagonista del prossimo A casa, veterano della guerra in Corea che torna dalla sua odissea in un’America, quella degli anni Cinquanta, dove già germogliavano i semi della violenza e dell’intolleranza di oggi. La quotidiana stupidità del male, le colpe, la tragedia, il teatro della vita sono al centro di altri due libri molto attesi a Mantova: Di cosa parliamo quando parliamo di Anna Frank di Nathan Englander e All’improvviso bussano alla porta di Etgar Keret (ambedue in uscita a settembre). Entrambi quarantenni, ebrei, autori di racconti. Il primo, nato e cresciuto a New York (ma trasferitosi a Gerusalemme) è il traduttore del secondo, che vive a Tel Aviv. Due autori diversissimi: alto, possente e travolgente Englander, lieve e sorridente Keret. Differenze che traspaiono anche nella loro scrittura, l’una più carnale e spirituale, l’altra carica di un’ironia surreale. Che però fanno riferimento a un unico grande maestro, Isaac B. Singer. Già, i maestri. Al rapporto fra generazioni sarà dedicato un appuntamento che vede scendere in campo alcuni giallisti, fra i quali ci sono i coniugi svedesi Ahndoril, in arte Lars Kepler, che con il loro commissario Joona Linna hanno scalzato dalle classifiche la trilogia “Millennium” di Stieg Larsson. Ma c’è un’altra coppia “atipica” che attira l’attenzione. Si tratta del keniano Ngugi Wa Thiong’o, fra i più grandi scrittori africani, noto per la sua esplosiva denuncia politica (Jaca Book ha recentemente pubblicato la sua autobiografia Sogni in tempo di guerra) e la giovane nigeriana Lola Shoneyin, autrice di una commedia tragicomica sulla poligamia, Prudenti come serpenti. Due voci, due volti, due generazioni di un continente che ha avuto un’infinità di vittime: della violenza politica, etnica, religiosa, sessuale. Non più oggetto di denuncia, ma di farsa. Quando esce dalla fiction, la realtà diventa ancor più sfaccettata. Per comprenderne la molteplicità, vado sul sicuro: Zygmunt Bauman, un po’ inflazionato certo, ma Conversazioni sull’educazione non è uno dei tanti saggi riesumati dai suoi discorsi. In questo interregno che stiamo vivendo, dove qualcosa si è irrimediabilmente concluso ma non si sa ancora da cosa verrà sostituito, le vecchie categorie di trasmissione del sapere (alla Paola Mastrocola, per intenderci) non sono più adatte. Meditiamoci, gente, meditiamoci.

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Oscar Sabini P101S E017 coverbimbi.indd 101

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di Sami El Kelsh, Antonio Gualano e Guido Ingenito

Da nessun’

Tutto nasce da una lettera. Una lettera di un papà preoccupato - si chiamava Marco Formigoni, faceva il giornalista a Peacereporter - al sindaco di Milano. Scritta dopo l’omicidio di Abba, Abdul Guiebre, ucciso a sprangate per il furto di un pacchetto di biscotti da un barista e da suo figlio in via Zuretti a Milano, nel 2008. Quel papà raccontava di suo figlio che con Abba ha in comune il colore della pelle e diceva di non sapere bene come spiegargli cosa era accaduto a quel ragazzo. “Dovrei dirgli che oggi ci sono persone che hanno paura di quelli con la pelle scura come la sua. Ma la colpa, amore mio, non è del colore della pelle, piuttosto di quello che quelle persone hanno

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’ altra parte nella testa e nel cuore”. A quella lettera che chiedeva cosa avesse fatto chi ci governa perché tutto questo non accadesse non arrivò risposta. Anni dopo Marco Formigoni non c’è più e c’è un nuovo sindaco,Giuliano Pisapia. Che risponde alla lettera: “A Milano non ci dovrà più essere nessuno che possa avere paura di quelli con la pelle scura perché il rispetto dei diritti di tutti renderà la città più vivibile”. Alla storia di Marco, di suo figlio e di Abba si ispira il cortometraggio “Da nessun’altra parte” di Sami El Kelsh, Guido Ingenito e Antonio Gualano che ha ottenuto la menzione speciale della prima edizione del concorso Vola alto indetto dall’Associazione Marco Formigoni.

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Io vado a letto Non dormi? Si adesso Guarda che domani hai scuola! Va bene, notte papa’. Buonanotte

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Gli autori Sami El Kelsh è nato a Milano nel 1983, laureato con lode all’Accademia di Belle Arti di Brera. Antonio Gualano, milanese classe ‘86, laureando in Gestione delle risorse umane, è appassionato di fotografia e videomaking. Guido Ingenito, tedesco di nascita, s’interessa di comunicazione. Insieme hanno prodotto tre cortometraggi.

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Sembra ieri che siamo venuti a prenderti, hai già dieci anni. Stai crescendo e non possiamo più far finta che non stia succedendo. Vorrei godermi questi momenti, ma come ogni genitore immagino quello che potrebbe succederti quando tra qualche anno uscirai la sera, magari in macchina. Io chiederò: “Quando torni?” e dopo le prime volte mi risponderai solo con il sorriso di chi pretende fiducia. Mi sprecherò con frasi come “Stai attento!”, “Non fare stupidaggini!” e dovrò ricordarti ogni volta che se te lo dico è perché non mi fido degli altri, non certo di te. Ma questo non basta. No. Non basta. Perché tu hai la pelle scura.

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Magari non così scura ma di quel colore che basta per capire che non sei italiano. Ricordi quest’estate, in Liguria, quando eravamo in spiaggia e mentre giocavi con gli altri bambini, un signore scocciato ti ha chiamato “negro di merda”. Hai fatto finta di non sentirlo e sei tornato a giocare senza rispondere, ma quando siamo tornati a casa sei scappato in camera, in silenzio. Che fatica fartelo raccontare. Che fatica sentirtelo raccontare. “Quel signore è uno stupido ignorante”, mi hai detto, mi hai fatto paura con quelle parole, mi hai fatto capire che avevi già’ imparato cosa fosse l’ignoranza.

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La cosa che mi ha fatto più male però è che ho capito che ti stai abituando alla stupidità, all’ignoranza, all’infondata paura che la gente ha per il diverso. Forse hai già iniziato a sentirti diverso. Quando ho letto l’articolo sulla morte di Abdul Guiebre, c’era la sua foto sul giornale, i suoi occhi, lo sguardo si è subito spostato sulle tue foto, quelle che tengo sulla scrivania... le foto che spolvero ogni giorno. Ecco... Abdul era solo un ragazzino, un ragazzino che è sparito sotto una polvere che nessuno potrà mai più pulire. Era un ragazzo di colore, dello stesso colore di mio figlio.

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Sai amore, sto scrivendo questa lettera per te, ma forse lo sto facendo per me, vorrei parlarti di tutto questo, ma ho paura di non riuscire a farlo. Temo tu possa travisare le mie parole, trasformarle in paure ancora più grandi, è per questo che sto scrivendo questa lettera, voglio essere pronto. Come se avessi pesato le parole, una a una, ogni lettera di ogni parola. Domani dopo scuola, quando saremo a casa, ti racconterò di Abdul cercherò di spiegarti cosa è successo, ma forse non ci riuscirò, perché dovrò dirti che oggi ci sono persone che hanno paura, ma la colpa non è tua.

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Il trailer del video www.coitempichescorrono.com

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Chi ha paura di quello che non conosce non fa nulla perché odiare è molto più semplice. Ho paura che potresti farlo anche tu. Dicono che mettere al mondo dei figli sia il massimo dell’egoismo. Non esistono però stronzate sull’adozione. Il razzismo è come la polvere che combatto ogni giorno in questa casa. Ci sarà sempre, compierai 10 anni, poi 15, poi 18, poi 20, adesso qualcuno ti chiama negretto, e tra qualche anno sentirai di peggio. Tu non sei diverso da nessuno, tutti siamo diversi allo stesso modo e siamo uguali, proprio perché abbiamo le stesse differenze. Devi imparare che tu sarai un uomo che abita nel mondo, da nessun’altra parte.

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Unisci i puntini di Chiara

Noseda

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Trova le 10 differenze di Chiara

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La saetta dell’estate di Claudia

Barana

Un gioco veloce da costruire e di sicuro divertimento. Per realizzarlo servono solo materiali facili da reperire.

disegni Amok

Sì, ma quali?

Un cartoncino o una cartolina piegata a metà, due cannucce, due stecchini di legno lunghi per spiedini, un tappo di sughero da tagliare in quattro fettine uguali, un bicchiere di carta o una carta di un cono gelato o un cono in cartoncino. Nastro adesivo ed, eventualmente, colla.

Come si realizza?

1. Taglia le cannucce in modo che siano poco più lunghe rispetto alla larghezza del cartoncino, gira il cartoncino e sul retro fissa le cannucce con il nastro adesivo. 2. Con il nastro adesivo (ma anche con la colla) attacca il bicchiere o il cono al cartoncino. 3. Taglia il tappo di sughero in quattro fette e inserisci gli stecchini 4. Inserisci lo stecchino nella cannuccia e colloca la ruota mancante alla fine della cannuccia stessa. 5. La macchina è finita. Ma se vuoi, puoi decorare a piacimento la tua saetta.

 Come si gioca?

1. Traccia per terra un circuito completo delle linee di partenza e di arrivo. Se sei per strada, puoi disegnarlo con il gessetto. Sul pavimento di casa, puoi realizzare il circuito con un nastro di stoffa. 2. Posiziona le automobiline sulla linea di partenza e al VIA tutti i giocatori cominciano a soffiare nel bicchiere (o cono) per far avanzare i propri veicoli. Chi arriva per primo a traguardo, ha vinto!

Curiosità

Questo gioco sfrutta l’energia eolica che si ottiene dal vento del tuo soffio e prende il nome da Eolo, il dio del vento nella mitologia greca. L’energia eolica è stata utilizzata fin dall’antichità per far muovere le pale dei mulini a vento, ma anche le vele delle barche.

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Dal 1994 abbiamo curato oltre 4 milioni e mezzo di persone vittime della guerra e della povertĂ

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