ESC Congress 2024: focus su HFrEF e ipercolesterolemia

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ESC Congress 2024: focus su HFrEF e ipercolesterolemia

Si è tenuta a Londra dal 30 agosto al 2 settembre l’edizione 2024 di ESC Congress: il meeting annuale dell’European Society of Cardiology. Come di consueto, l’evento è stato teatro di importanti novità e discussioni, confermandosi come il principale appuntamento scientifico al mondo nell’ambito della ricerca cardiovascolare. Il numero di partecipanti, poi, è ritornato ai livelli raggiunti prima della pandemia di COVID-19, attestandosi sull’impressionante cifra di 32.000 professionisti sanitari provenienti da 171 Paesi.

Oltre alla presentazione di importanti studi clinici e di linee guida e documenti di consenso, come sempre oggetto di grande attenzione, nel corso dell’evento diversi simposi hanno affrontato e approfondito tematiche di particolare interesse per il cardiologo. Di seguito riportiamo una sintesi di alcuni incontri e sessioni, tra i più seguiti e partecipati del meeting, riguardanti la gestione farmacologica dello scompenso cardiaco e dell’ipercolesterolemia.

Trattamento dello scompenso cardiaco: si può (e si deve) fare di più

Anche a causa delle molte e rilevanti innovazioni avvenute in questo settore, negli ultimi anni il congresso dell’European Society of Cardiology dedica ampio spazio al trattamento dello scompenso cardiaco. Nel corso dell’edizione 2024 uno degli incontri più partecipati è stato un simposio tenutosi durante la seconda giornata congressuale, dal titolo “Amplify and act: case-based discussions with heart failure experts”, in cui alcuni esperti di livello mondiale, tra cui un rappresentante di un’associazione di pazienti, hanno discusso le strategie più efficaci per ottimizzare il trattamento di questa patologia.

L’incontro è iniziato sottolineando che il punto di partenza nella gestione dei pazienti con scompenso cardiaco a frazione di eiezione ridotta (HFrEF) è la terapia farmacologica raccomandata dalle linee guida (Guideline-Directed Medical Therapy, GDMT), quella basata sui cosiddetti “quattro pilastri”: ACE inibitori o inibitore

del recettore dell’angiotensina e della neprilisina (ARNI), beta-bloccanti, antagonisti del recettore dei mineralcorticoidi (MRA) e inibitori di SGLT21. “Questi sono trattamenti che hanno mostrato chiaramente la loro abilità nel migliorare la sopravvivenza – ha spiegato Maja Cikes, cardiologa dell’University of Zagreb Medical School di Zagabria – e anche nel ridurre le ospedalizzazioni per scompenso cardiaco, che sono importanti per noi ma ovviamente anche per i nostri pazienti”. Alcune evidenze mostrano però che l’implementazione di questo approccio terapeutico nel mondo reale non è sempre ottimale. Nel corso di una sessione poster dedicata all’uso degli ARNI sono stati presentati i dati aggiornati dello studio osservazionale, trasversale, multicentrico OPTIMA-HF (Optimization of Therapy in the Italian Management of Heart Failure), che ha indagato l’adozione delle GDMT in 29 ambulatori per lo scompenso cardiaco di ospedali universitari e servizi ambulatoriali di cardiologia in Italia2. In totale, sono stati reclutati 1.390 pazienti con HFrEF in trattamento con almeno un farmaco orale per la gestione di questa sindrome. Sebbene i tassi elevati di prescrizione della terapia con i quattro pilastri siano risultati elevati, i dati hanno mostrato che il tasso di combinazione delle terapie non è ancora sufficiente e che la titolazione dei farmaci deve essere migliorata. Ad esempio, come messo in evidenza da una sottoanalisi del registro presentata nel corso della stessa sessione, nel nostro Paese ci sono ancora molti pazienti che pur essendo elegibili al trattamento con ARNI non ricevono questo farmaco. Su 1.291 pazienti presi in considerazione, 342 (27%) non sono risultati in terapia con ARNI sebbene solo 129 (38%) di questi non soddisfacessero i criteri di inclusione dello studio PARADIGMHF3 per la prescrizione di questo trattamento4 . Di conseguenza, nel corso del simposio è stato sottolineato più volte come siano necessarie strategie per migliorare l’implementazione delle GDMT per lo scompenso cardiaco. Un aspetto particolarmente rilevante, in questo senso, sembra essere la stratificazione del rischio. “Uno degli errori più grandi che commettiamo nell’ambito dello scompenso cardiaco – ha detto James L. Januzzi, docente di medicina dell’Harvard Medical School di Boston – è utilizzare il termine ‘stabile” in riferimento ad alcuni pazienti affetta da questa condizione. È una contraddizione in termini”.

Sebbene i pazienti con HFrEF abbiano un rischio sostanziale di progressione della malattia, ospedalizza-

ASCVD

Scompenso cardiaco

HFrEF e recente ospedalizzazione o peggioramento dello scompenso cardiaco

HFrEF “stabile”: classe NYHA II e senza recenti ospedalizzazioni

Eventi ASCVD multipli o 1 evento ASCVD + molteplici condizioni a rischio elevato

Prevenzione prima o secondaria

Prevenzione primaria

zione e morte, molti di essi vengono considerati come affetti da malattia cronica stabile e percepiti erroneamente come a “basso rischio” a causa dei sintomi lievi. Questa concettualizzazione, basata su un rischio relativo di eventi annuali piuttosto che assoluto, spesso contribuisce al fatto che i pazienti non ricevano terapie in grado di estendere la sopravvivenza o le ricevano con ritardi significativi5. “Il rischio di un paziente con scompenso cardiaco considerato stabile, in termini di ospedalizzazioni per scompenso cardiaco e morte cardiovascolare – ha ricordato Januzzi – è più alto di quello di un paziente considerato ad alto rischio di patologie cardiovascolari di natura aterosclerotica” (Figura 1). La tendenza a considerare “stabili” pazienti in classe NYHA II e senza recenti ospedalizzazioni è, secondo l’esperto statunitense, uno dei fattori che ha favorito un approccio “lento” nei confronti dell’introduzione delle terapie per lo scompenso cardiaco. Il tempo necessario per raggiungere l’implementazione piena delle GDMT può raggiungere le 56 settimane, periodo in cui i pazienti sono esposti a un rischio maggiore 6. Il medico dell’Harvard Medical School ha quindi spiegato i vantaggi, al contrario, di un approccio rapido che miri a implementare la terapia con i quattro pilastri il più rapidamente possibile.

Una raccomandazione questa prevista anche in un recente Expert Consensus Document Pathway dell’American College of Cardiology, di cui Januzzi è stato vice-chair7. “In questo documento raccomandiamo di iniziare e di titolare rapidamente le terapie. Ovviamente la scelta delle terapie e la velocità di titolazione sono a discrezione del medico, ma ci sono diverse strade che possono essere esplorate”. Tra le ragioni sottostanti i benefici di un inizio concomitante delle terapie c’è il fatto che queste sembrano lavorare l’una al servizio dell’altra8. “L’inizio di un inibitore di SGLT2, ad esempio, minimizza il rischio di iperkaliemia degli antagonisti del recettore dei mineralcorticoidi – ha spiegato Januzzi – quindi l’inizio concomitante delle due terapie rende possibile una patofisiologia diversa”. In aggiunta, l’implementazione rapida delle GDMT sembra essere ben vista anche dagli stessi pazienti. Nick Hartshorne Evans – CEO e fondatore di Pumping Marvellous Foundation (UK), un’associazione inglese di pazienti con scompenso cardiaco – ha illustrato i risultati di una survey condotta dalla sua organizzazione in cui si chiedeva ai pazienti con una nuova diagnosi di esprimere un parere in merito all’idea di iniziare rapidamente tutti i trattamenti. L’88% dei partecipanti aveva espresso un parere positivo. “Credo che questa

Figura 1. Contestualizzazione del rischio nei pazienti con scompenso cardiaco.

sia la conferma che stiamo andando nella direzione giusta – ha commentato Hartshorne Evans – e penso che l’aspetto della sicurezza sia centrale. Ma quello che è davvero importante è che sono i medici a definire l’attitudine dei pazienti: se i medici dicono loro di iniziare tutte le terapie loro lo faranno”.

Cikes ha quindi argomentato ulteriormente sottolineando l’esistenza di evidenze solide a supporto di questo approccio: “Abbiamo i dati del trial STRONG-HF che mostrano che possiamo essere aggressivi e proattivi in modo efficace e sicuro”. Questo studio ha infatti reclutato 1.078 pazienti ospedalizzati per uno scompenso cardiaco acuto, assegnati a un approccio ad alta intensità o a uno standard dopo la stabilizzazione e prima delle dimissioni. L’approccio ad alta intensità prevedeva la titolazione al 50% della massima dose raccomandata dalle linee guida prima delle dimissioni e al 100% entro le due settimane successive. I trattamenti considerati erano quelli raccomandati dalle linee guida sullo scompenso cardiaco al momento dell’inizio dello studio: beta-bloccanti, antialdosteronici e inibitori del sistema renina-angiotensina (ACE inibitori, bloccanti del recettore dell’angiotensina o ARNI).

I risultati dello studio hanno messo in evidenza come l’endpoint primario dello studio, costituito da mortalità per tutte le cause o ospedalizzazione per scompenso cardiaco a sei mesi dalle dimissioni, si sia verificato nel 15,2% dei pazienti sottoposti a un approccio ad alta intensità e nel 23,3% di quelli sottoposti all’approccio standard (P = 0,0021). I soggetti trattati secondo l’approccio ad alta intensità, inoltre, hanno mostrato un miglioramento significativo della qualità di vita rispetto a quelli trattati secondo l’approccio standard (P < 0,0001)9.

Cikes ha quindi riportato i risultati di due studi relativi all’implementazione di questo approccio nel mondo reale. Il primo di questi, il registro TITRATE-HF, aveva valutato 4.288 pazienti provenienti da 48 ospedali nei Paesi Bassi, di cui 1.732 con scompenso cardiaco de novo, 2.240 con scompenso cardiaco cronico e 316 con worsening heart failure10. “È emerso che il 44% dei pazienti era in trattamento con i quattro i pilastri e che solo l’1% aveva raggiunto la dose target per tutti i trattamenti. È interessante vedere che la classe terapeutica in cui la dose target è stata raggiunta più frequentemente, escludendo gli inibitori di SGLT2 per cui non è necessaria una titolazione, è quella degli ARNI”.

Il registro GWTG-HF (Get With The Guidelines-Heart Failure), relativo al contesto statunitense, ha invece cercato di stimare la proporzione di pazienti con nuova diagnosi HFrEF eleggibili alla quadruplice terapia farmacologica e i benefici associati a una rapida implementazione su un campione di 33.036 pazienti11 “In questa coorte nazionale statunitense di pazienti ricoverati per una nuova diagnosi di HFrEF, oltre quattro pazienti su cinque erano considerati eleggibili per una terapia quadruplice al momento della dimissione – ha spiegato Cikes – tuttavia meno di un paziente su sei l’ha effettivamente ricevuta. Se consideriamo i benefici dimostrati dai trial clinici, l’inizio della terapia farmacologica quadruplice in ospedale comporterebbe, per questi pazienti, significative riduzioni della mortalità”.

Inclisiran

per la riduzione del colesterolo LDL, dai trial clinici al mondo reale

Nella gestione dell’aterosclerosi “il tempo è rischio”. Si è aperto con questa riflessione di Kausik K. Ray, docente di salute pubblica dell’Imperial College London e presidente dell’European Society of Atherosclerosis, un simposio tenutosi nel corso della seconda giornata congressuale dal titolo “Sustained LDL-C reduction: from long-term trials to real-world implementation”. Key, moderatore dell’incontro, ha infatti ricordato che le evidenze oggi disponibili mostrano che se il colesterolo non è gestito precocemente il tempo per rallentare la progressione delle placche si riduce e aumenta la necessità di intervenire con terapie aggressive12 “C’è un problema di base – ha spiegato – parliamo sempre di target mentre dovremmo parlare di rischio. C’è una grande differenza tra target e riduzione del rischio”. Key, descrivendo un caso esemplificativo, ha sottolineato come la riduzione dei livelli di colesterolo LDL ottenuta attraverso gli approcci disponibili (es. riduzione attesa del 20% con l’aggiunta di ezetimibe al trattamento con statine) determini spesso una riduzione del rischio a lungo termine piuttosto limitata: dal

20% al 18%, nel caso descritto. L’obiettivo dovrebbe invece essere quello di ridurre maggiormente i livelli di C-LDL, in modo da riuscire a ottenere un effetto maggiore sul rischio13.

Il fattore tempo gioca un ruolo importante in questo senso. Come riportato da Shun Kohsaka, cardiologo della Keyo University School of Medicine di Tokyo intervenuto come primo relatore, una casistica che ha valutato soggetti con sindrome coronarica acuta mediante angiografia coronarica con tomografia computerizzata (CCTA) ha infatti mostrato che la maggior parte delle rotture di placca (più del 65%) si era verificata in contesti di stenosi moderata, inferiore al 50%14. Il rischio totale legato alle placche aterosclerotiche non può basarsi sull’entità dell’ostruzione. Un parametro più affidabile è, secondo Kohsaka, la moltiplicazione dei livelli di C-LDL per l’età del soggetto15: “Il rischio di rottura della placca aumenta esponenzialmente sopra i 5000 mg/anni”.

Le linee guida per la gestione delle dislipidemie dell’European Atherosclerosis Society e dell’European Society of Cardiology del 2019, come è noto, raccomandano di trattare i pazienti ad alto rischio con statine ad alta intensità e, nel caso non si raggiungessero i livelli target, con l’aggiunta di ezetimibe ed, eventualmente, di un inibitore di PCSK9. “Quello che stiamo vedendo in Giappone – ha sottolineato Kohsaka – è che l’incidenza e la prevalenza delle sindromi coronariche acute tra i 34 e i 64 anni è decisamente più bassa rispetto ai Paesi occidentali: il tasso di infarto miocardico in Giappone è pari a circa il 10-20% di quello che osserviamo negli Stati Uniti16”. Questo ha fatto sì che nel Paese asiatico l’adozione dei livelli target suggeriti dalle evidenze scientifiche sia stata più lenta che altrove. La Japanese Circulation Society, ad esempio, ha iniziato a raccomandare una riduzione del 50% dei livelli di C-LDL e il valore target di 70 mg/dL nei pazienti con coronaropatia solo nel 202217. Di conseguenza, come accade anche in Europa18 , anche in Giappone la percentuale di pazienti che raggiungono i livelli target e di quelli trattati adeguatamente è insufficiente: secondo un registro giapponese la percentuale di pazienti ad alto rischio in trattamento con statine ad alta intensità, ad esempio, è pari solo allo 0,1%19. “Per ottimizzare il trattamento nella gestione del colesterolo LDL – ha concluso Kohsaka – è necessario considerare efficacia, sicurezza, aderenza, accesso e valutazioni di tipo economico”.

Sull’aderenza si è concentrato l’intervento successivo, tenuto da Ray. “A un livello di popolazione – ha spiegato – l’esposizione ai livelli di C-LDL dipende da due cose: quello che facciamo noi e quello che fa il paziente”. Uno studio di coorte condotto su tre gruppi di pazienti (16.701 con malattie cardiovascolari documentate, 12.422 con diabete di tipo 2 senza malattie cardiovascolari o malattia renale cronica, e 674 con malattia renale cronica senza malattie cardiovascolari), ad esempio, ha mostrato una relazione continua tra una misura combinata di aderenza e intensità del trattamento con gli esiti cardiovascolari: le maggiori riduzioni di C-LDL e del rischio cardiovascolare erano emerse tra i pazienti aderenti che ricevevano una terapia ad alta intensità20.

Il presidente dell’European Atherosclerosis Society ha poi mostrato i dati di un’analisi predefinita del trial clinico randomizzato ORION-1, relativo all’impiego di inclisiran21. Come è noto questo trattamento, il primo siRNA disponibile in questo ambito, si basa su un meccanismo d’azione innovativo, in quanto va a interferire a livello epatico con l’RNA responsabile della codifica della proteina PCSK9. Così facendo la terapia con inclisiran aumenta la capacità del fegato di assorbire il colesterolo LDL, riducendone di fatto la concentrazione nel sangue.

Nell’analisi presentata da Ray, una somministrazione di inclisiran ha ridotto i livelli medi di C-LDL nel corso di un anno dal 29,5% al 38,7%, e due somministrazioni – una al giorno 1 e una al giorno 90 – hanno ridotto i livelli medi di C-LDL nel corso di un anno dal 29,9% al 46,4% in modo dose-dipendente. Una riduzione del 50% di C-LDL è invece stata mantenuta per almeno sei mesi dopo due dosi di al giorno 1 e al giorno 90. “Uno dei problemi che abbiamo con questi pazienti, quello dell’aderenza, potrebbe essere risolto”, ha commentato. “Ma cosa succede a lungo termine con questo farmaco? Lo possiamo sapere.” Ray ha infatti riportato i risultati del trial ORION-8 (studio di estensione open-label con pazienti che avevano completato i trial ORION-3, ORION-9, ORION-10 o ORION-11), i quali hanno valutato l’efficacia, la sicurezza e la tollerabilità a lungo termine di inclisiran su 3.274 pazienti ad alto rischio cardiovascolare e livelli elevati di C-LDL nonostante la massima dose di statine, con o senza l’aggiunta di ezetimibe22. Di questi, più di 200 erano in trattamento da più di sei anni, mentre un paziente su quattro lo era da almeno quattro anni e mezzo. “La prima cosa da dire è

Cambiamento percentuale medio dei livelli di C-LDL dalla baseline

-50 0 50

II livello medio di C-LDL alla baseline era di 2,9±1,2 mmol/L

che quelli che avevano cominciato prima il trattamento e lo hanno continuato non mostrano alcuna attenuazione dell’effetto nel tempo. Quelli che l’hanno cominciato dopo hanno raggiunto gli stessi livelli e mostrano lo stesso pattern nel tempo” (Figura 2).

Anche in termini di sicurezza, poi, un trattamento a lungo termine con inclisiran non risulta associato a problematiche particolari. Una pooled analysis di sette studi ORION, per un’esposizione totale di 9.982 pazienti/anni, ha mostrato che, in pazienti trattati per sei anni, gli eventi avversi di natura epatica, muscolare, renale e l’incidenza di diabete erano paragonabili a quelli del placebo, in assenza di nuovi segnali di sicurezza osservati23. “Ci sono degli studi di efficacia in corso – ha sottolineato Ray – ma è bello vedere che con questo approccio terapeutico gli outcomes di sicurezza correlati agli eventi cardiovascolari maggiori sono risultati numericamente inferiori”.

Si tratta, però, di dati che non dimostrano ancora l’efficacia del trattamento con inclisiran in termini di beneficio clinico. Questo aspetto è attualmente oggetto di tre ampi studi clinici con outcome cardiovascolari e uno studio di imaging, nell’ambito del cosiddetto VictORION program. Nello specifico, lo studio ORION-4 e lo studio VICTORIAN-2 PREVENT stanno indagando l’effetto di inclisiran sugli eventi cardiovascolari mag-

Fase 3 Inclisiran-Inclisiran Fase 3 Placebo-Inclisiran

giori e altri outcome clinici in pazienti con patologia cardiovascolare, lo studio VICTORIAN-1 PREVENT sta valutando l’effetto in termini di riduzione degli eventi cardiovascolari maggiori in pazienti ad alto rischio in prevenzione primaria e lo studio VICTORIAN-Plaque sta valutando l’effetto sulla progressione delle placche studiate mediante CCTA in pazienti con diagnosi di coronaropatia non ostruttiva e senza una storia di eventi cardiovascolari maggiori. “Sulla base di diverse simulazioni che sono state effettuate – ha concluso Ray – l’impiego di inclisiran come terapia aggiuntiva a quella con statine potrebbe portare benefici di salute a un livello di popolazione”.

Nell’intervento successivo, Christie M. Ballantyne, responsabile della Section of Cardiology and Cardiovascular Research del Baylor College of Medicine di Houston, ha presentato le evidenze a oggi disponibili circa l’impiego di inclisiran nel mondo reale. Il cardiologo ha iniziato il suo intervento presentando i risultati dello studio VICTORIA-INITIATE, che ha valutato l’efficacia di una strategia di implementazione “inclisiran first” (aggiungendo inclisiran immediatamente dopo il fallimento nel raggiungere livelli di C-LDL <70 mg/dL nonostante l’assunzione di statine alla massima dose tollerata) rispetto all’approccio standard nei pazienti statunitensi con malattia cardiovascolare atero -

Figura 2. Riduzione dei livelli di C-LDL nel trial ORION-8. (Tratto da Wright RS et al. Cardiovasc Res 2024).

Riduzione media assoluta C-LDL

Riduzione media percentuale C-LDL

Riduzione C-LDL ≥50%, percentuale di pazienti

sclerotica. I risultati, relativi a 450 pazienti, hanno messo in evidenza come questa strategia abbia permesso di ridurre del 53% i livelli di C-LDL, senza impattare sull’aderenza al trattamento con statine e senza problemi di sicurezza24.

Un altro studio, invece, presentato in occasione dell’ultimo congresso dell’American College of Cardiology, ha analizzato retrospettivamente le cartelle cliniche di 180 pazienti trattati con una dose iniziale e una seconda dose a 90 giorni di inclisiran presso 23 centri di infusione negli Stati Uniti, stratificati in base alla terapia con statine e inibitori di PCSK9. “Quello che si vede a un anno è una riduzione del 45,5% dei livelli C-LDL – ha spiegato Ballantyne – e una riduzione assoluta media di 64,6 mg/dL, con una probabilità maggiore di tenere queste persone sotto i livelli target” (Figura 3). A risultati simili, poi, è giunto anche lo studio di real world evidence Cholinet, presentato in occasione del meeting dell’European Society of Cardiology del 2023, da cui è emersa una riduzione dei livelli di C-LDL pari al 49%. “Vediamo questi numeri molto simili a quelli emersi dai trial clinici, ed è proprio quello che vorresti vedere quando una nuova terapia arriva nella pratica clinica”. E lo stesso vale per i dati relativi all’aderenza. Descrivendo i risultati – presentati in occasione dell’ultimo

congresso 2023 della National Lipid Association –dell’US Komodo Health database study, che ha indagato questo aspetto in pazienti trattati con inclisiran e inibitori di PCSK9, Ballantyne ha fatto notare come i pazienti trattati inizialmente con il siRNA mostrassero un tasso di aderenza alla terapia significativamente maggiore (0,90 con inclisiran; 0,70 con alirocumab, 0,70 con evolucumab; p<0,0001). “Quali sono le cause? Iniezioni più frequenti con gli inibitori di PSCK9, nuove richieste di autorizzazione dovute a cambiamenti della copertura assicurativa e molte altre cose. Ma questo è quello che succede nella vita reale”.

Una discussione “globale” sulla Lipoproteina(a)

Nel corso della prima giornata congressuale si è tenuto un importante simposio sul ruolo della Lipoproteina(a) [Lp(a)] nel contesto del rischio cardiovascolare, dal titolo “Bridging east and west: a global dialogue on Lp(a)- from epidemiology to clinical practice”, durante il quale sono state presentate evidenze clini -

Figura 3. Riduzione dei livelli di C-LDL con inclisiran nel mondo reale.

che ed epidemiologiche real world provenienti da Cina e Giappone.

L’incontro ha visto la partecipazione di Christie M. Ballantyne, il quale ha elencato le caratteristiche biochimiche della lipoproteina(a), ricordando come questa sia un particolare tipo di lipoproteina presente nel sangue, strutturalmente simile alla lipoproteina a bassa densità, il C-LDL, ma con l’aggiunta di un’apolipoproteina(a) legata ad essa25

Rispetto al C-LDL, i cui livelli mostrano una distribuzione normale nella popolazione, Lp(a) si caratterizza per una distribuzione disomogenea. “La maggior parte delle persone ha dei livelli bassi – ha spiegato Ballantyne – ma una percentuale compresa tra il 20% circa e il 30% della popolazione nei Paesi occidentali ha dei livelli che possono essere considerati superiori alla soglia di rischio per lo sviluppo di patologie cardiovascolari, pari a 30 mg/dL o 75 nmol/L26”. I livelli di Lp(a), tuttavia, sono principalmente determinati dalla genetica e variano a seconda dell’etnia. I primi studi su questa lipoproteina(a) e sul suo ruolo nelle patologie cardiovascolari aterosclerotiche sono stati condotti prevalentemente su soggetti di etnia caucasica. Ulteriori indagini indipendenti su larga scala hanno stabilito chiare differenze etniche nella concentrazione plasmatica di Lp(a) e nella sua distribuzione nella popolazione. È stato dimostrato che le persone di origine africana presentano i livelli di Lp(a) più elevati tra tutti i gruppi etnici, seguite dai sud-asiatici, i caucasici, gli ispanici e gli asiatici orientali27.

Zhenyue Chen, cardiologa della Shanghai Jiaotong University School of Medicine di Shangai in China, ha quindi presentato una serie di evidenze riguardanti il rapporto tra Lp(a) e rischio cardiovascolare nel suo Paese. Nella popolazione cinese, infatti, Lp(a) ha una distribuzione distintiva – con alcune province che mostrano una concentrazione media del 5,6 mg/dL e solo il 20% della popolazione caratterizzata da una concentrazione superiore a 30 mg/dL – ma risulta essere comunque un fattore di rischio indipendente per diverse patologie cardiovascolari come l’ictus ischemico, le coronaropatie e la stenosi aortica calcifica28. “Dico sempre che una media più bassa dei valori di Lp(a) non significa un minor danno ai vasi”, ha commentato Chen. In Giappone, invece, i livelli medi di Lp(a) nella popolazione generale sono pari a 12,1 mg/dL29. “Si tratta di valori più bassi rispetto ad altre etnie, come quella africana, ma è interessante vedere come la distribuzio -

ne dei soggetti ad alto rischio sia molto simile”, ha spiegato Hayato Tada, cardiologo della Kanazawa University. “Inoltre, il 5% della popolazione mostra concentrazioni superiori a 70 mg/dL e il 10% superiori a 50 mg/dL”.

Ballantyne ha poi sintetizzato le evidenze relative alla relazione tra la concentrazione di Lp(a) e il rischio cardiovascolare. Livelli elevati di Lp(a) sono infatti associati a un rischio maggiore di patologie cardiovascolari, a prescindere dall’etnia di appartenenza, e tale relazione sembra essere lineare: il rischio più elevato si osserva nei soggetti con livelli più alti di Lp(a)30 Chen ha poi illustrato uno studio multicentrico prospettico realizzato in Cina, pubblicato quest’anno sul Journal of the American College of Cardiology, che ha cercato di comprendere se l’associazione tra Lp(a) e il rischio di infarto miocardico fosse rafforzata dalla presenza di placche a bassa attenuazione (LAP) identificate mediante CCTA. In una coorte di 5.607 pazienti con dolore toracico stabile e sospetto di coronaropatia, i livelli di Lp(a) sono risultati in un rischio aumentato di infarto miocardico durante otto anni di follow up, con un rischio maggiore riscontrato nei pazienti con LAP identificate dalla CCTA (Figura 4)31.

La discussione si è poi spostata sulle raccomandazioni riportate nelle principali linee guida sulla gestione delle dislipidemie. Ballantyne ha sottolineato come diverse linee guida – tra cui quelle della Canadian Cardiovascular Society del 201932, dell’European Atherosclerosis Society e dell’European Society of Cardiology del 201933 e un consensus statement dell’European Atherosclerosis Society del 202234 – raccomandino a tutte le persone di misurare il proprio livello di Lp(a) almeno una volta nella vita, con l’obiettivo di individuare i soggetti ad alto rischio cardiovascolare.

Anche le linee guida nazionali cinesi sulla gestione delle dislipidemie, poi, pubblicate nel 2023, indicano i livelli elevati di Lp(a) come un indicatore di rischio per lo sviluppo di patologie di natura aterosclerotica35

Oltre alla misurazione nella popolazione generale, raccomandata anche in questo caso almeno una volta nella vita, il documento raccomanda di valutare attentamente questo marcatore in cinque categorie specifiche: le persone ad alto rischio di ASCVD, le persone con familiari con una storia di ASCVD a esordio precoce (sotto i 55 anni per gli uomini, sotto i 65 anni per le donne), i familiari diretti delle persone con livelli di Lp(a) superiori o uguali a 90 mg/dL, le persone affette

Figura 4. Relazione tra livelli di Lp(a), presenza di LAP e rischio cardiovascolare. (Tratto da Yu MM et al. J Am Coll Cardiol 2024).

evalenza di LAP (% )

Follow-Up (anni)

(anni)

da ipercolesterolemia familiare o altre dislipidemie ereditarie, le persone con stenosi aortica calcifica. Per quanto riguarda i cut-off delle concentrazioni di Lp(a), utili a individuare i soggetti che possono essere considerati ad alto rischio cardiovascolare sulla base di questo indicatore, la soglia utilizzata più comunemente è quella dei 50 mg/dL. Tuttavia, come riportato da Chen e Tada, in Cina e Giappone36 si preferisce, sulla base delle evidenze relative a queste popolazioni, optare per un cut-off di 30 mg/dL. Negli Stati Uniti, invece, come sottolineato da Ballantyne, uno statement della National Lipids Association ha utilizzato un approccio diverso, indicando come a rischio intermedio le persone con valori compresi tra 30 mg/dL e 50 mg/dL e a rischio alto quelle con valori superiori a 50 mg/dL37. Il simposio è poi continuato con una riflessione più generale sulla misurazione, a oggi, dei livelli di Lp(a). Chen, descrivendo la situazione cinese, ha sottolineato come nel suo Paese questa procedura non sia considerata prioritaria dai medici in quanto questo marcatore viene percepito ancora come un fattore di rischio residuo, secondario ai marcatori tradizionali. I motivi alla base di questa concezione sarebbero da ricercare nella scarsità di evidenze in merito agli effetti dell’abbassamento dei livelli di Lp(a) sul rischio car-

diovascolare, nella mancanza di un trattamento specifico e – secondo la cardiologa – nella poca consapevolezza dei suoi colleghi in merito al ruolo della lipoproteina come fattore di rischio indipendente. “Dobbiamo ampliare le evidenze su Lp(a) – ha concluso – e ripensare il ruolo di Lp(a) nelle ASCVD con una maggiore educazione”.

Tada ha invece presentato i dati relativi alla misurazione dei livelli di Lp(a) in Giappone, i quali mostrano come la proporzione dei test per questo marcatore rispetto a quelli per i livelli di C-LDL sia ancora estremamente bassa: pari allo 0,17% nei pazienti ambulatoriali e allo 0,87% in quelli ospedalizzati. “Al fine di migliorare questa situazione – ha concluso Sada – la Japanese Atherosclerosis Society sta mettendo in atto diverse iniziative: una survey da sottoporre a medici e pazienti, un consensus statement, un programma di formazione e lo sviluppo di trattamenti”.

In conclusione, i tre relatori hanno ragionato sulla possibilità di includere il testing dell’Lp(a) nella pratica clinica. Ballantyne ha sottolineato l’importanza del cosiddetto screening a cascata: “Quando individuate una persona con livelli elevati di Lp(a) in realtà avete individuato una famiglia con livelli elevati di Lp(a). Lo screening a cascata è molto produttivo: il 50% degli

individui che testerete risulterà essere ad alto rischio38”. Una volta identificati i soggetti ad alto rischio, la prima cosa da fare è consigliare una modifica dello stile di vita. Tada ha infatti riportato dei dati che dimostrano chiaramente l’associazione tra livelli elevati di Lp(a) e uno stile di vita non salutare, secondo uno score che teneva conto di abitudine al fumo, peso corporeo, esercizio fisico e alimentazione39. “Abbiamo poi dimostrato – ha concluso – che uno stile di vita sano può in parte mitigare il rischio di coronaropatie associato”. In termini di trattamento, in assenza di terapie specifiche, i relatori hanno poi consigliato di seguire l’approccio tradizionale per l’ottimizzazione e la gestione dei fattori di rischio. L’aferesi delle lipoproteine, invece, è da prendere in considerazione solo nei pazienti con livelli elevati di Lp(a) e malattia coronarica progressiva. “Per quanto riguarda i trattamenti c’è però molto in arrivo”, ha concluso Ballantyne. “Abbiamo studi su oligonucleotidi antisenso, come il trial HORIZON, ma anche studi su silenziatori dell’RNA, su inibitori delle piccole molecole. Si parte studiando i pazienti con livelli molto elevati, ma sicuramente arriveremo a studiare livelli più bassi, come è accaduto con il colesterolo”.

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Rassegna realizzata da CardioInfo in collaborazione con

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