Casco Autunno 2015

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Periodico trimestrale riservato alla classe medica edito in collaborazione con

Autunno 2015

Via Vitorchiano 151 – 00189 Roma Tel 06 36 19 11 – Fax 06 36 380 311 www.msd-italia.it Numero verde 800 23 99 89 Autunno 2015 Registrazione del Tribunale di Roma in corso Direzione scientifica: Fausto Roila Enzo Ballatori Gruppo editoriale: Claudia Caserta Sonia Fatigoni Guglielmo Fumi Azienda Ospedaliera di Terni Il Pensiero Scientifico Editore Via San Giovanni Valdarno 8 00138 Roma Tel 06 862 821 – Fax 06 862 82 250 Internet: www.pensiero.it Stampa: Arti Grafiche Tris, Roma dicembre 2015 Direttore responsabile: Giovanni Luca De Fiore Redazione: Manuela Baroncini Progetto grafico: Antonella Mion Prezzo: Fascicolo singolo €15,00

In questo numero EDITORIALE

GESTIONE EVENTI AVVERSI

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Tossicità da nuovi farmaci: alpharadin e nintedanib Claudia Caserta Sonia Fatigoni

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La descrizione degli eventi avversi associati al trattamento anti-tumorale: l’importanza del punto di vista dei pazienti Massimo Di Maio

Il quinto anno di CASCO Enzo Ballatori, Fausto Roila

DAI CONGRESSI

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Novità sulle terapie di supporto/palliative dell’ASCO 2015 Fausto Roila, Maria Francesca Currà, Chiara Scafati, Sonia Fatigoni

LINEE GUIDA E PRATICA CLINICA

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CASI CLINICI

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Terapia del tromboembolismo venoso nei pazienti con cancro: il ruolo dei nuovi anticoagulanti Mario Mandalà

Le recenti linee guida di terapia antiemetica… viste dall’esterno Enzo Ballatori, Fausto Roila

IL PUNTO SU...

STATISTICA PER CONCETTI

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Fattori di crescita granulocitari peghilati (pegfilgrastim e lipegfilgrastim) nella profilassi della neutropenia febbrile Marco Danova, Martina Torchio

I contenuti pubblicati dalla rivista rispecchiano le opinioni degli Autori e non necessariamente quelle dell’Editore o della MSD Italia S.r.l. Ogni farmaco menzionato deve essere usato in accordo con il relativo riassunto delle caratteristiche del prodotto fornito dalla ditta produttrice.

Oltre alle ultime novità in tema di terapie di supporto, in questo numero sono presenti numerosi spunti di riflessione sulla ricerca clinica.

In copertina: Lyonel Feininger, Village, (1953).

Concetto e interpretazione di indici statistici: medie e asimmetria Enzo Ballatori


Editoriale

Il quinto anno di CASCO

È

con enorme piacere poter celebrare con questo numero l’ingresso nel quinto anno di vita di CASCO insieme ai 2-3 mila lettori cui viene inviata la rivista: non ci risultano successi simili nel mondo con riviste sulle terapie di supporto,

una tematica che sempre più attira l’attenzione di oncologi, ematologi e radioterapisti. Sono i lettori, infatti, a darci le motivazioni per continuare in quest’opera di diffusione non solo dei risultati della ricerca clinica, ma anche di strumenti per una lettura critica sempre più accurata dei risultati degli studi sulle terapie di supporto. La rivista CASCO (Current Advances in Supportive Care in Oncology) è nata per collocarsi come punto di contatto tra ricerca clinica e pratica clinica, ai fini di diffondere criticamente le conoscenze acquisite con la ricerca clinica nel campo delle terapie di supporto alla pratica clinica, con l’obiettivo finale di migliorare la qualità di vita del paziente neoplastico. Era ed è infatti doveroso tentare di colmare il gap tra produzione scientifica in questo settore e pratica clinica che a tutt’oggi vede gravi ritardi nell’implementazione di queste acquisizioni; basti pensare a quello che avviene nella terapia del dolore da cancro, nella profilassi dell’emesi da chemioterapia e nella profilassi della neutropenia febbrile, settori in cui gli studi di drug utilization continuano a mostrare percentuali di appropriatezza veramente incredibili (talora sotto il 10%). Ci piace festeggiare questa ricorrenza anche con i tanti autori di revisioni della letteratura e di raccomandazioni per la pratica clinica, tra cui molti giovani, che garantiscono un futuro di attenzione e di studio delle terapie di supporto cui lasceremo un segno di onestà intellettuale e di dedizione convinta alla mission delle terapie di supporto. Così come ci piace festeggiarla con tutto il direttivo e gli iscritti al NICSO (Network Italiano per le Cure di Supporto in Oncologia) che la rivista ha visto nascere e di cui, in prospettiva, spera di essere uno strumento di diffusione dell’importanza di fare ricerca indipendente nel campo delle terapie di supporto. Questa ricorrenza ci piace festeggiarla, infine, con chi ci ha permesso di realizzare CASCO: il team di MSD coinvolto nelle terapie di supporto che non ha mai interferito in alcun modo sui contenuti della rivista, e il Pensiero Scientifico Editore che fin dall’inizio è stato al nostro fianco per realizzare CASCO in modo ottimale. Grazie ancora a tutti con l’augurio di poter ancora festeggiare insieme i 10 anni di vita di CASCO. Enzo Ballatori Fausto Roila 4

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Dai Congressi

Novità sulle terapie di supporto/palliative dell’ASCO 2015

Fausto Roila, Maria Francesca Currà, Chiara Scafati, Sonia Fatigoni Struttura Complessa di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

A

nche quest’anno numerosi abstract inerenti studi sulla terapia di supporto/palliativa sono stati presentati al congresso dell’ASCO tenutosi a Chicago. In questa rassegna presenteremo quelli più importanti e in qualche modo in grado di modificare o impattare la pratica clinica quotidiana. Antiemetici Il primo studio che segnaliamo in questa sezione è uno di fase II che ha valutato il ruolo dell’olanzapina in associazione ad un NK1 antagonista, un 5-HT3 antagonista e desametasone nella prevenzione della nausea e del vomito in donne affette da carcinoma ginecologico sottoposte per la prima volta a chemioterapia altamente emetogena (cisplatino ≥ 50 mg/m2)1. L’olanzapina a dosi di 5 mg al giorno era iniziata il giorno prima della somministrazione del cisplatino e poi ripetuta al momento di andare a letto fino al giorno 5 dopo la chemioterapia. In 40 pazienti la percentuale di risposte complete era del 97,5% nel giorno 1, 95,0% nei giorni 2-5 e 92,5% nei giorni 1-5 dopo la chemioterapia. Il ruolo degli NK1 antagonisti nella prevenzione della nausea e del vomito in pazienti sottoposti a chemioterapia moderatamente emetogena (carboplatino, oxaliplatino, irinotecan, ecc.) è stato poco studiato. Questo è dovuto al fatto che tali antiemetici sono stati valutati soprattutto in pazienti sottoposti a cisplatino o a chemioterapia con antracicline e ciclofosfamide in donne affette da carcinoma della mammella (chemioterapie classificate attualmente come altamente emetogene). Uno studio randomizzato doppio cieco di fase III, che è stato presentato sia all’ASCO che al MASCC, ha valutato il fosaprepitant versus placebo, ambedue associati ad ondansetron più desametasone in pazienti sottoposti per la prima volta a chemioterapia moderatemente emetogena2. I pazienti ricevevano fosaprepitant 150 mg ev + ondansetron 8 mg os e desametasone 12 mg os oppure ondansetron 8 mg os due volte die nei giorni 1-3 e desametasone 20 mg os nel giorno 1. L’endpoint primario dello studio era la risposta completa nei giorni 2-5. Tale endpoint, che è stato adottato da molti degli studi sugli antiemetici pubblicati recentemente che hanno valutato gli NK1 antagonisti, è metodologicamente

poco appropriato in quanto è fortemente influenzato dai risultati che i pazienti ottengono nelle prime 24 ore. A differenza però degli altri studi di fase III eseguiti con NK1 antagonisti (1/1 del netupitant* e 3/3 con il rolapitant*) in cui si confrontava il nuovo NK1 antagonista versus placebo in pazienti sottoposti a cisplatino o chemioterapia con antracicline e ciclofosfamide in donne affette da carcinoma della mammella, tutti studi non etici in quanto l’efficacia del NK1 antagonista era già stata dimostrata nel 2003 e nel 2005, rispettivamente, in questo studio l’uso del placebo è corretto perché mancava una dimostrazione certa della superiorità del NK1 antagonista rispetto al placebo. Oltre 1000 pazienti sono entrati nello studio. La risposta completa era significativamente superiore con fosaprepitant (78,9% versus 68,5% nei giorni 2-5, e 77,1% versus 66,9% nei giorni 1-5) mentre era simile nel giorno 1 (93,2% versus 91,0%). Tale risultato era significativamente superiore con il fosaprepitant anche nel controllo del vomito. Il fosaprepitant non aumentava l’incidenza degli eventi avversi. Al momento non sono stati resi noti i risultati dell’analisi per tipo di chemioterapia ricevuto (carboplatino, oxaliplatino, etc.) che potrebbe definire quali dei pazienti arruolati hanno ottenuto un beneficio dall’aggiunta del fosaprepitant. Infine uno studio prospettico coreano ha valutato l’incidenza di insufficienza surrenalica secondaria alla somministrazione del desametasone come antiemetico per la prevenzione dell’emesi acuta e ritardata indotta da chemioterapia altamente e moderatamentre emetogena. Il desametasone doveva essere utilizzato per almeno tre giorni per ogni ciclo di chemioterapia3. I pazienti da trattare con chemioterapia erano preliminarmente sottoposti ad un test rapido di stimolazione dell’ACTH per escludere quelli con insufficienza surrenalica. Veniva considerato positivo un test in cui i livelli serici di cortisolo non aumentavano sopra i 18 mcg/dl dopo la somministrazione di ACTH. Sono entrati nello studio 350 pazienti, di questi 56 (16,0%) presentavano una insufficienza surrenalica a 3 e 6 mesi dopo la prima dose di desametasone come an*Non disponibile in Italia. CASCO — Autunno 2015

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tiemetico. L’incidenza era strettamente correlata con la durata di trattamento con megestrolo acetato, ma non con l’età, il sesso, il performance status, il tumore primitivo, lo stadio, il potenziale emetogeno della chemioterapia, gli antitumorali usati o la dose e la durata della terapia con desametasone. È molto importante quindi che gli oncologi conoscano questi risultati perché un’incidenza del 16% è clinicamente rilevante e da tenere presente. Intervallo nella somministrazione dei difosfonati Quest’anno viene presentato un altro studio importante sull’intervallo di somministrazione fra le dosi di acido zoledronico. È uno studio di non inferiorità eseguito in 1822 pazienti con metastasi ossee di carcinoma della mammella, della prostata e mieloma che ha confrontato la somministrazione standard di acido zoledronico (4 mg ogni mese) versus una somministrazione sperimentale (4 mg ogni 3 mesi)4. La dose di acido zoledronico somministrata era adattata alla clearance della creatininemia (da 4 mg con clearance ≥ 60 a 3,5 mg fra 50-59, 3,3 mg fra 40-49 e 3 mg fra 30-39). L’endpoint primario dello studio era la proporzione di pazienti in ogni gruppo che hanno avuto ≥ 1 evento scheletrico (radioterapia alle ossa, fratture, compressione midollare, chirurgia). I margini di non inferiorità considerati clinicamente rilevanti erano il 7%. La proporzione di pazienti che hanno presentato un evento scheletrico era del 29% con ambedue le schedule di somministrazione dell’acido zoledronico. La somministra-

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zione ogni 3 mesi non era inferiore ad una somministrazione ogni mese per tipo di neoplasia, dolore, performance status. L’incidenza di osteonecrosi della mandibola (2% versus 1%) e di insufficienza renale (1,2% versus 0,6%) di 4 mg ogni mese versus 4 mg ogni 3 mesi non era significativamente differente tra le due modalità di somministrazione. Questo studio pertanto conferma che l’acido zoledronico può essere somministrato ogni 3 mesi con simile efficacia e tossicità della somministrazione mensile. Disturbi cognitivi da chemioterapia in pazienti con carcinoma della mammella Uno studio osservazionale, eseguito in 366 pazienti con carcinoma non metastatico della mammella non precedentemente sottoposte a chemioterapia e 366 controlli, ha valutato con il FACT-Cog utilizzato una settimana prima e 4 settimane dopo la chemioterapia il deficit cognitivo indotto dalla chemioterapia5. Le stesse pazienti e i controlli erano sottoposte a 4 valutazioni neuropsicologiche per valutare le funzioni esecutive. Le pazienti trattate con chemioterapia presentavano un deficit cognitivo significativamente superiore rispetto ai controlli così come peggiori performance delle funzioni esecutive. Il deficit cognitivo era influenzato dai geni della longevità e da segnali di neurotrasmissione e si accompagnava ad un aumento degli indicatori di infiammazione (IL-1β, MCP-1, sTNFR1). Un altro studio randomizzato di fase III condotto in 479 pazienti non metastatici che iniziavano un trattamento che-


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mioterapico, ha valutato l’efficacia dell’esercizio per migliorare il deficit cognitivo e l’infiammazione6. I pazienti randomizzati a fare esercizio, oltre la chemioterapia ricevevano un programma di 6 settimane di esercizio a domicilio di tipo aerobico e anaerobico. Il deficit cognitivo era misurato con il FACT-Cog; si valutava inoltre l’impatto dell’esercizio sull’infiammazione determinando prima e dopo l’intervento i livelli di citochine proinfiammatorie (IFNg, IL-8, IL-1b) e di citochine anti-infiammatorie (IL-6, IL-10, sTNFra). I risultati evidenziavano differenze significative nel punteggio totale di deficit cognitivo, nel deficit cognitivo percepito, nell’impatto del deficit cognitivo sulla qualità di vita delle pazienti sottoposte all’esercizio. L’esercizio induce una risposta anti-infiammatoria nelle pazienti con cancro che protegge dal deficit cognitivo. Fatigue ed esercizio fisico L’attività fisica ha dimostrato in numerose neoplasie di migliorare gli indicatori di performance, i risultati dal punto di vista fisico, il benessere psicologico, la funzionalità self-reported, i sintomi e la qualità di vita nel suo insieme. Pochi sono però i dati disponibili nel carcinoma del polmone. Uno studio ha randomizzato 112 pazienti affetti da cancro del polmone localmente avanzato o metastatico che avevano un’aspettativa di vita di almeno 6 mesi ed erano in grado di eseguire un test che prevedeva di camminare per 6 minuti a ricevere i trattamenti usuali (il 75-80% dei pazienti era sottoposto a chemioterapia ed il 17-19% a targeted therapies) o i trattamenti usuali più un programma settimanale di attività fisica e di supporto comportamentale7. L’endpoint primario dello studio era il miglioramento della fatigue a 2 mesi (una riduzione di 6 punti della scala della fatigue del questionario FACT-F). L’aderenza allo studio era del 69% per quanto riguarda l’attività fisica e del 75% per le sessioni comportamentali. L’attività fisica riportata dai pazienti del gruppo intervento migliorava a 4 mesi così come aumentava l’esercizio di moderata intensità a 2, 4 e 6 mesi. Questo non si traduceva però in un miglioramento della fatigue a due mesi rispetto al gruppo di controllo così come non impattava significativamente sulla qualità di vita, sui sintomi, sullo stato fisico o funzionale e sulla sopravvivenza globale dei pazienti. Anche nelle pazienti sopravvissute ad un carcinoma ovarico i dati dell’impatto dell’esercizio fisico sulla qualità di vita sono pochi. Uno studio ha randomizzato 144 pazienti che hanno completato 6 mesi di chemioterapia per carcinoma dell’ovaio a ricevere un programma di 6 mesi di attività fisica o far parte di un gruppo di controllo8. Le pazienti arruolate nel braccio attività fisica ricevevano ogni settimana una telefonata da un preparatore atletico certificato ed erano consigliate di aumentare di 150 minuti alla settimana l’esercizio aerobico. Il gruppo di controllo riceveva la telefonata settimanale per discutere un problema di salute correlato al carcinoma dell’ovaio. Le condizioni basali dei due gruppi erano simili. Dopo 6 mesi il gruppo sottoposto a esercizio fisico presentava un miglioramento statisticamente significativo dell’esercizio settimanale (133 minuti alla settimana versus 59 minuti alla settimana, rispettivamente). La componente fisica

della qualità di vita era migliorata con l’esercizio fisico ed era peggiorata nel gruppo di controllo. Vi era infine un miglioramento bordeline della fatigue nel gruppo sottoposto ad esercizio fisico. Un altro studio, eseguito in 196 pazienti sopravviventi ad una neoplasia, ha randomizzato a ricevere un programma di esercizio fisico per 12 settimane (LIVESTRONG) o a far parte del gruppo di controllo9. La maggior parte di tali pazienti era affetta da stadi I e II di neoplasia e nel 50% avevano presentato un carcinoma della mammella. La maggior parte dei pazienti arruolati era inattiva con solo un 34% di essi che segnalava di eseguire più di 150 minuti alla settimana di attività fisica. I pazienti randomizzati a ricevere il programma aumentavano significativamente l’attività fisica rispetto a coloro che fungevano da braccio di controllo (75% versus 25% aumentavano l’esercizio per più di 150 minuti alla settimana). Ciò si traduceva anche in un miglioramento del benessere, della qualità di vita valutata con il questionario FACT-G ed in una diminuzione della fatigue. Funzionalità renale e tossicità da chemioterapia I pazienti anziani sono più a rischio di tossicità in seguito ad un trattamento antitumorale, questo anche perché c’è un declino della funzionalità renale in rapporto all’età. Uno studio ha confrontato l’associazione tra 4 differenti formule per calcolare la funzionalità renale (Jellille modificata, CockcroftGault, Wright e Modification of Diet in Renal Disease – MDRD) e l’insorgenza di tossicità di grado III-V10. Sono stati valutati 492 pazienti di cui il 43% era di età superiore o uguale a 75 anni. La stima media della funzione renale misurata con le 4 formule variava da 56 a 78 mL/min. La tossicità di grado III-V si osservava nel 53% dei pazienti. La diminuzione della clearance della creatinina valutata con la formula di Cockcroft-Gault che utilizzava il peso corporeo attuale si associava con un aumentato rischio di tossicità indotta dalla chemioterapia: per ogni diminuzione di 10 mL/min della clearance aumentava il rischio della tossicità del 12%. Questa correlazione non era evidente con le altre formule utilizzate per calcolare la clearance della creatininemia né con la creatininemia serica. Inoltre non vi era correlazione con la riduzione della dose e la durata di somministrazione della chemioterapia e la tossicità. In conclusione la creatininemia sierica non è adeguata per valutare il rischio di tossicità della chemioterapia negli anziani. La formula che meglio esprime il rischio di tossicità è quella di Cockcroft-Gault. Prevenzione dell’alopecia indotta da chemioterapia Il sistema DigniCap è il primo sistema di scalp cooling approvato dalla Food and Drug Administration per minimizzare l’alopecia da chemioterapia. Il sistema è stato lungamente utilizzato in Europa dagli inizi degli anni ‘80 e poi abbandonato poiché ritenuto poco efficace e fastidioso da sopportare durante la chemioterapia. L’alopecia è un evento fortemente negativo per le pazienti affette da cancro della mammella sottoposte a chemioterapia adiuvante. Uno studio ha valutato l’efficacia del sistema in 101 pazienti con carcinoma della CASCO — Autunno 2015

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mammella sottoposte a chemioterapia adiuvante con docetaxel-ciclofosfamide (76%), docetaxel-carboplatino (12%) e paclitaxel settimanale (12%)11. Escluse erano le pazienti sottoposte ad antracicline seguite da taxani. La valutazione era eseguita confrontando le fotografie della quantità di capelli prima della chemioterapia con quella un mese dopo la fine della chemioterapia. Veniva considerato un successo una perdità dei capelli ≤ 50% (score 0-2). Un successo si otteneva nel 71% delle pazienti in confronto a 0/16 pazienti che fungefano da gruppo di controllo in quanto non si erano sottoposte allo scalp cooling. Il 39% delle pazienti presentava una perdita di capelli minima o assente. Il trattamento era ben tollerato e non vi erano evidenze di metastasi al cuoio capelluto. Ovviamente sono necessari più studi controllati per meglio definire il reale vantaggio del sistema. • Bibliografia 1. Abe M, et al. Efficacy and safety of olanzapine combined with aprepitant, palonosetron, and dexamethasone for the prevention of cisplatin-based chemotherapy-induced nausea and vomiting for gynecological cancer: KCOG G-1301 phase II trial. J Clin Oncol 2015; 33 (Suppl.): abstract TPS9639. 2. Rapoport BL, et al. A phase III, randomized, double-blind study of single-dose intravenous fosaprepitant in preventing chemotherapy-induced nausea and vomiting associated with moderately emetogenic chemotherapy. J Clin Oncol 2015; 33 (Suppl.): abstract 9629. 3. Han HS, et al. Prospective multicenter study evaluating adrenal suppression after dexamethasone therapy as an antiemetic in

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cancer patients: a KSWOG (Korean South West Oncology Group) study. J Clin Oncol 2015; 33 (Suppl.): abstract 9605. 4. Himelstein AL, et al. CALGB70604(Alliance): a randomized phase III study of standard dosing vs. longer interval dosing of zoledronic acid in metastatic cancer. J Clin Oncol 2015; 33 (Suppl.): abstract 9501. 5. Janelsins MC, et al. Chemotherapy-related cognitive impairment and neurotransmitter signaling, longevity, and inflammation pathways in 366 breast cancer patients and 366 age-matched cancer-free controls: a prospective, nationwide, longitudinal URCC NCORP study. J Clin Oncol 2015; 33 (Suppl.): abstract 9503. 6. Mustian KM, et al. EXCAP exercise effects on cognitive impairment and inflammation: a URCC NCORP RCT in 479 cancer patients. J Clin Oncol 2015; 33 (Suppl.): abstract 9504. 7. Vardy JL, et al. The impact of physical activity on fatigue and quality of life in lung cancer patients: a randomized controlled trial. J Clin Oncol 2015; 33 (Suppl.): abstract 9507. 8. Zhou Y, et al. Randomized trial of exercise on quality of life and fatigue in women with ovarian cancer: the Women’s Activity and Lifestyle Study in Connecticut (WALC). J Clin Oncol 2015; 33 (Suppl.): abstract 9505. 9. Irwin ML, et al. Impact of the LIVESTRONG at the YMCA Program on physical activity, fitness and quality of life in cancer survivors. J Clin Oncol 2015; 33 (Suppl.): abstract 9508. 10. Peterson LL, et al. Association between renal function and chemotherapy-related toxicity in older adults with cancer. J Clin Oncol 2015; 33 (Suppl.): abstract 9509. 11. Rugo HS, et al. Clinical performance of the DigniCap system, a scalp hypothermia system, in preventing chemotherapy-induced alopecia. J Clin Oncol 2015; 33 (Suppl.): abstract 9518.


Linee guida e pratica clinica

Terapia del tromboembolismo venoso nei pazienti con cancro: il ruolo dei nuovi anticoagulanti

Mario Mandalà Unità di Oncologia Medica, Dipartimento di Oncologia ed Ematologia, Azienda Ospedaliera Papa Giovanni XXIII Cancer, Bergamo

RIASSUNTO Esistono evidenze cliniche che gli anticoagulanti orali (NOACs) sono paragonabili alla terapia tradizionale a base di eparina a basso peso molecolare (EBPM) seguito da un antagonista della vitamina K nella maggior parte dei pazienti con tromboembolismo venoso. Al momento questi risultati non possono essere estrapolati nella popolazione generale oncologica perché gli studi clinici randomizzati pubblicati finora hanno incluso pochi pazienti con cancro, peraltro altamente selezionati. Inoltre, questi farmaci non sono stati confrontati con le EBPM, che rappresentano lo standard di cura per il trattamento del tromboembolismo venoso (TEV) in pazienti affetti da cancro. Altre limitazioni di particolare importanza per i pazienti con cancro sono l’interazione con la chemioterapia, i problemi legati all’insufficienza renale, o il coinvolgimento massivo metastatico del fegato perché questi pazienti hanno maggiori rischi di trombosi ricorrente e sanguinamento, in assenza di antidoti. L’uso di NOACs non può essere raccomandato dalle linee guida internazionali, ma è ora in fase di studio in trial clinici in corso, che valuteranno nel prossimo futuro il loro ruolo nella profilassi e nel trattamento del TEV in pazienti affetti da cancro. Parole chiave. Nuovi anticoagulanti orali, trattamento, tromboembolismo venoso.

SUMMARY

Therapy of venous thromboembolism in cancer patients: the role of new anticoagulants There is evidence that the novel oral anticoagulants (NOACs) are comparable to traditional therapy using low molecular weight heparin (LMWH) followed by a vitamin K antagonist in most patients with venous thromboembolism. At present these results cannot be extrapolated to the general oncology population because randomized clinical trials published so far have included very few and highly selected patients with cancer. Furthermore, these drugs have not been compared to the LMWHs, that represent the standard of care in the treatment of venous thromboembolism (VTE) in cancer patients. Other limitations of particular importance to patients with cancer, such as chemotherapy interaction, renal impairment, or hepatic involvement with metastases also

need to be carefully considered because these patients have higher risks of recurrent thrombosis and bleeding. The use of NOACs cannot be recommended by international guidelines but is now being explored in ongoing clinical trials, that will address their role in the prophylaxis and treatment of VTE in cancer patients. Key words. NOAC, cancer patients, treatment, venous thromboembolism.

Terapia della fase acuta Il trattamento standard del tromboembolismo venoso (TEV) in pazienti con cancro, in assenza di controindicazioni note, non differisce da quello dei pazienti senza cancro e consiste in una fase iniziale in cui si somministra eparina [non frazionata (ENF) o l’eparina a basso peso molecolare (EBPM)], seguita dall’anticoagulazione con anticoagulanti orali. L’ENF sodica viene somministrata in un bolo iniziale di 5000 UI seguito dall’infusione endovenosa continua di dosi variabili, aggiustate in modo da ottenere, e mantenere, un allungamento del tempo di tromboplastina parziale attivata (aPTT) pari a 1,5-2,5 volte il valore basale. Le EBPM vengono invece somministrate in dosi fisse, aggiustate al peso corporeo, per via sottocutanea due volte al giorno. Esse hanno la stessa efficacia e sicurezza dell’ENF nel trattamento iniziale del TEV13 . Possibilmente entro 24 ore dall’inizio dell’eparina va iniziata l’embricatura con l’anticoagulante orale. Al raggiungimento del range terapeutico di anticoagulazione (INR 2-3) per almeno 2 giorni consecutivi, l’eparina viene sospesa, e viene continuato solo l’anticoagulante orale. Oggigiorno le EBPM possono essere considerate lo standard terapeutico per la terapia iniziale della trombosi. Anche nei pazienti oncologici i due trattamenti, EBPM versus ENF, nella fase iniziale, risultano sovrapponibili nel prevenire le recidive trombotiche. Infatti, con tali schemi, l’outcome a breve termine nei pazienti oncologici non è diverso da quello osservato nei pazienti con TEV non oncologici è parimenti favorevole in questi pazienti come nei pazienti senza cancro. Quale durata del trattamento anticoagulante nei pazienti neoplastici? Il trattamento anticoagulante standard a lungo termine con gli anticoagulanti orali (inibitori della vitamina K), al range terapeutico (INR 2-3), si è dimostrato inequivocabilmente efficace nella prevenzione delle recidive del TEV. La durata di tale trattamento dopo un unico episodio di TEV rimane ancora dibattuta. È stato, comunque, chiaramente evidenziato che, tra i pazienti con tromboembolismo venoso, il CASCO — Autunno 2015

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rischio di sviluppare una recidiva tromboembolica durante il follow-up è particolarmente spiccato nei pazienti neoplastici con un rischio relativo pari a 1,7 rispetto ai non neoplastici. Tale rischio è ancora maggiore rispetto ai pazienti con trombofilia ereditaria. La durata dell’anticoagulazione appare quindi da prolungarsi almeno per tutto il tempo in cui il cancro sia in fase attiva o vi sono terapie antitumorali in corso, a meno che non sussistano delle controindicazioni (es. diatesi emorragica). Il ruolo del trombo residuo valutato mediante metodica ultrasonografica è argomento di ricerca. Pertanto, la presenza o l’assenza del trombo residuo dopo 6 mesi di terapia anticoagulante standard con EBPM non dovrebbe influenzare la decisione clinica relativamente alla durata della terapia anticoagulante. Terapia a lungo termine del TEV nel paziente oncologico I pazienti neoplastici con TEV, durante il trattamento anticoagulante orale, sono esposti ad un rischio significativo sia di recidive trombotiche che di complicanze emorragiche, rispetto a pazienti non neoplastici con TEV4,5. Nonostante un’adeguata anticoagulazione infatti circa il 5-7% dei pazienti con cancro sviluppa una recidiva di TEV. La condotta terapeutica da far seguire deve pertanto tener conto sia dell’elevato rischio di recidiva sia anche del rischio emorragico in questi pazienti. Pertanto si sta oggigiorno valutando la possibilità di trattamenti alternativi, più efficaci, per la terapia del TEV a lungo termine nelle neoplasie. Uno studio recente ha valutato l’efficacia della EBPM dalteparina verso la terapia anticoagulante orale nella prevenzione secondaria della trombosi in pazienti neoplastici. I pazienti, dopo un episodio di TEV, erano randomizzati a ricevere: 1. trattamento standard con EBPM (dalteparina 200 UI/Kg/die) per 5-7 giorni embricata con l’anticoagulante orale per 6 mesi (INR 2-3), oppure 2. dalteparina 200 UI/Kg/die per un mese, seguita da una dose pari al 70-80% della dose iniziale per i rimanenti 5 mesi. Il trattamento prolungato con EBPM per 6 mesi ha ridotto le recidive tromboemboliche dal 17% al 9% (p=0,0017), rispetto alla terapia standard con dicumarolici, senza aumentare il rischio di sanguinamento6. I dati di buona tollerabilità e sicurezza sono stati confermati da un altro studio condotto da Meyer et al.7. Questi autori hanno valutato pazienti con TEV acuto e li hanno randomizzati a ricevere 3 mesi di warfarina ad INR tra 2 e 3 o enoxaparina. Lo studio ha valutato un outcome combinato di emorragie maggiori e recidive trombotiche. Nel gruppo di pazienti che assumeva warfarina l’outcome degli eventi era del 21% versus il 10,5% dei pazienti che avevano assunto enoxaparina. Questa differenza (p=0,09) era dovuta particolarmente alla differenza di emorragie maggiori. In base ai dati forniti da questi studi la EBPM dovrà essere considerata, nel prossimo futuro, la terapia standard nella profilassi secondaria del TEV nei pazienti neoplastici. La terapia warfarinica è infatti particolarmente complicata nei pazienti con tumore per varie ragioni: è spesso molto difficile mantenere l’INR entro il corretto range in quanto i pazienti con cancro soffrono spesso di vomito, possono avere inappetenza o dieta obbli10

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gata, oppure alterazioni dell’assorbimento intestinale e/o della funzionalità epatica. Per di più le interazioni farmacologiche delle terapie concomitanti possono ampiamente interagire con i farmaci vitamina K-dipendenti. Infine un altro fattore limitante è dovuto al fatto che si è spesso costretti ad interrompere la terapia anticoagulante per la necessità di procedure microinvasive (toracentesi, biopsie o altro) o piastrinopenia intercorrente. Ruolo dei nuovi anticoagulanti orali (NOAC) Il profilo farmacodinamico di warfarin e VKA (Antagonisti della Vitamina K) non è prevedibile, pertanto i pazienti devono costantemente sottoporsi al monitoraggio ematico per la valutazione dell’INR. Per assicurare efficacia terapeutica e limitare i rischi di sanguinamento maggiore, l’INR deve essere mantenuto in un range terapeutico compreso tra 2 e 3. Nel tentativo di migliorare il rapporto rischio-beneficio della terapia anticoagulante con VKA e la qualità di vita dei pazienti, sono state commercializzate altre due classi di anticoagulanti orali: la classe degli inibitori diretti della trombina (dabigatran) e la classe degli inibitori diretti del fattore X attivato (apixaban e rivaroxaban) (tabella I). Diversamente da warfarin, i NOAC sono caratterizzati da un profilo farmacodinamico prevedibile, motivo per cui non necessitano del monitoraggio di routine, e presentano un numero relativamente limitato di interazioni con alimenti o farmaci. A differenza di warfarin, che inibisce la sintesi vitamina K-dipendente dei fattori della coagulazione II, VII, IX e X, i NOAC inibiscono la coagulazione attraverso il legame diretto e specifico con il sito attivo della trombina (dabigatran) o del fattore Xa (apixaban, rivaroxaban). Ad oggi non ci sono dati, derivanti da studi prospettici randomizzati di fase III, sull’efficacia dei NOAC nella profilassi primaria dei pazienti oncologici ambulatoriali oppure ospedalizzati con malattia attiva in trattamento chemioterapico. In 6 studi clinici che hanno paragonato i NOAC al Warfarin nella terapia della TVP o della EP [RECOVER I-II8, EINSTEIN-TVP e EINSTEIN-TEP9,10, AMPLIFY11, HOKUSAI TEV12] la percentuale di pazienti con cancro inclusi negli studi è molto bassa, pari al 4-6%. Ad oggi, sulla base dei dati disponibili, i NOAC non sono indicati, nei pazienti con cancro, per la profilassi secondaria dopo TEV per i seguenti motivi: 1. I NOAC sono risultati non inferiori a warfarin nei pazienti senza cancro, ma ci sono dati insufficienti per dimostrare che non sono inferiori a warfarin nei pazienti con cancro. 2. Non vi è alcuna evidenza che dimostri che i NOAC siano ugualmente efficaci o superiori alle EBPM nei pazienti con cancro. 3. La percentuale di pazienti oncologici inclusi nei trial clinici non solo è bassa, ma i pazienti arruolati in tali studi sono molto selezionati per cui risulta difficile estrapolare i dati alla popolazione generale oncologica. 4. Inoltre negli studi suddetti vi sono poche informazioni, nei pazienti oncologici arruolati, sul tipo di neoplasia, lo stadio clinico, il tipo di trattamento chemioterapico. Inoltre la definizione di ‘cancro attivo’ differisce da uno studio all’altro.


| Linee guida e pratica clinica | Terapia del tromboembolismo venoso nei pazienti con cancro: il ruolo dei nuovi anticoagulanti

Tabella I. Inibitori diretti della trombina (dabigatran) e inibitori diretti del fattore X attivato (apixaban e rivaroxaban). Farmaco

Dabigratan

Rivaroxaban

Dosaggio

110 mg 150 mg

15 mg 20 mg

15 mg 20 mg

5 mg 2,5 mg

Apixaban

Indicazione terapeutica

Prevenzione di ictus e embolia sistemica in pazienti adulti con fibrillazione atriale non valvolare (FANV) con uno o più fattori di rischio

Prevenzione dell'ictus e dell'embolia sistemica nei pazienti adulti affetti da (FANV) con uno o più fattori di rischio

Trattamento della trombosi venosa profonda (TVP) e dell'embolia polmonare (EP) e prevenzione delle recidive di TVP ed EP nell'adulto

Prevenzione di ictus e embolia sistemica in pazienti adulti con FANV e uno o più fattori di rischio

– Biodisponibilità

3-7%

66% senza cibo 100% con cibo

50%

– Tempo di picco massimo

3 ore

3 ore

3 ore

– Eliminazione

80% renale

75% epatica 25% renale

25% renale 75% fecale

– Emivita

12-17 ore

11-13 ore

9-14 ore

Parametro

5. Data la superiorità della EBPM sul warfarin nella terapia del TEV nei pazienti oncologici, uno studio prospettico randomizzato è in corso al fine di paragonare EBPM e NOAC. 6. I dati di sicurezza nella popolazione con insufficienza renale ed epatica non permettono di escludere problemi di accumulo nei pazienti con cancro. 7. Gli inibitori e gli induttori del CYP-3A4, rispettivamente, aumentano e riducono le concentrazioni dei NOAC, per cui l’uso di questi farmaci è gravato da interferenze farmacologiche non trascurabili con chemioterapici, inibitori delle tirosinchinasi e altri farmaci utilizzati in terapia di supporto nei pazienti con cancro. •

Bibliografia 1. Levine M, Gent M, Hirsh J, et al. A comparison of low molecular weight heparin administered at home with unfractionated heparin administered in the hospital for proximal deep vein thrombosis. N Engl J Med 1996; 334: 677-81. 2. Koopman MMW, Prandoni P, Piovella F, et al. Treatment of venous thrombosis with intravenous unfractionated heparin administered in the hospital as compared with subcutaneous low molecular weight heparin administered at home. N Engl J Med 1996; 334: 682-7. 3. The Columbus Investigators. Low molecular weight heparin in the treatment of patients with venous thromboembolism. N Engl J Med 1997; 337: 657-62. 4. Prandoni P, Lensing AW, Piccioli A, et al. Recurrent venous thromboembolism and bleeding complications during

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Il punto su...

Fattori di crescita granulocitari peghilati (pegfilgrastim e lipegfilgrastim) nella profilassi della neutropenia febbrile

Marco Danova, Martina Torchio Dipartimento di Area Medica, A.O. di Pavia e Università di Pavia

RIASSUNTO La neutropenia severa e la neutropenia febbrile rappresentano la principale tossicità dose-limitante di molti regimi chemioterapici di largo utilizzo. I fattori di crescita granulocitari ricombinanti (rG-CSF) riducono l’incidenza e la gravità degli episodi di neutropenia febbrile e delle infezioni rendendo così possibile il completamento di un programma terapeutico con l’intensità di dose pianificata. Sono oggi disponibili varie formulazioni di rG-CSF, tutte impiegate secondo la indicazioni di tutte le linee guida sull’argomento soprattutto come profilassi primaria o secondaria. Le formulazioni rG-CSF cosiddette long acting (pegfilgrastim e lipegfilgrastim, forme rispettivamente peghilate e glicopeghilate del filgrastim) subiscono una clearance attraverso i neutrofili, e pertanto richiedono una singola somministrazione per ogni ciclo di trattamento antitumorale. Entrambi hanno dimostrato elevata efficacia anche rispetto alle formulazioni di rG-CSF a somministrazione giornaliera, nel ridurre gli episodi di NF ed il tasso di ospedalizzazioni. Negli ultimi anni diversi studi hanno escluso una potenziale immunogenicità dei rG-CSF long acting, confermandone quindi la sicurezza. Anche sul piano della tollerabilità, non è stato osservato un incremento significativo delle osteoartralgie, principale evento collaterale, rispetto ai pazienti trattati con la formulazione giornaliera di rG-CSF. I rG-CSFs long-acting sono quindi da considerarsi come agenti dotati di elevata efficacia e buona tollerabilità e trovano la loro maggiore indicazione quando utilizzati nell’ambito di schemi chemioterapici particolarmente neutropenizzanti e che abbiano finalità curative. Le caratteristiche farmacocinetiche di queste molecole consentono una modalità di somministrazione semplificata che può impattare positivamente sulla compliance di particolari tipologie di pazienti e permette di uniformare aspetti quali il timing e durata di somministrazione del fattore di crescita. Parole chiave. rG-CSF, pegfilgrastim, lipegfilgrastim, neutropenia febbrile, linee guida.

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SUMMARY

The recombinant colony stimulating factors in the prophylaxis of febrile neutropenia Severe neutropenia and febrile neutropenia are the main dose-limiting-chemotherapy toxicities: the recombinant colony stimulating factors (rG-CSFs) reduce the incidence and severity of myelotoxicity, infections, episodes of febrile neutropenia, thus making possible the completion of a treatment program with the intensity of the planned dose. Various formulations of rG-CSF are currently available, all employed especially in primary prophylaxis or secondary prophylaxis. The rG-CSF long acting formulations (pegfilgrastim and lipegfilgrastim, respectively pegylated and glico-pegylated forms of filgrastim) have a clearance throughout neutrophils, and therefore require a single dose per cycle of cancer treatment. Both long acting factors have proved their effectiveness in reducing the frequency and severity of episodes of febrile neutropenia and the hospitalization infections-related. In recent years several studies have ruled out the alleged potential immunogenicity of long acting rG-CSFs, confirming their safety. Also regarding tolerability, it wasn’t observed a significant increase in bone and articular-algic symptoms, in comparison with rate of bone pain in patients treated with daily rG-CSF. The rG-CSFs long acting currently available are agents with high efficacy and good tolerability, particularly indicated during chemotherapy highly myelosuppressive in curative setting. The pharmacokinetic characteristics of these molecules allow a simplified modality of administration, which may traduce in a more standardized use of rG-CSF in terms of timing and duration of administration. Key words. rG-CSF, pegfilgrastim, lipegfilgrastim, febrile neutropenia, guidelines.

La neutropenia indotta da chemioterapia (CIN) e la neutropenia febbrile (NF) sono eventi di frequente riscontro in pazienti affetti da neoplasia e sottoposti a trattamento antitumorale citotossico. La CIN si classifica per la gravità della riduzione della conta assoluta dei neutrofili (ANC) mentre la NF è comunemente definita come ANC <0,5 x 109 / L con temperatura orale ≥38 °C per più di 1 ora. I pazienti con CIN sono più suscettibili alle infezioni e spesso necessitano di ospedalizzazione oltre ad una terapia antibiotica specifica (con conseguente incremento della spesa sanitaria) e di una riduzione delle dosi di chemioterapia (CT) e/o un ritardo nella somministrazione della stessa che possono peraltro comprometterne l’efficacia1-3. Negli anni recenti sono stati introdotti nella pratica cli-


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nica i fattori di crescita ricombinanti della serie granulocitaria (rG-CSF), molecole in grado di stimolare la produzione e la maturazione dei neutrofili e di ridurre significativamente l’incidenza e la durata di CIN e di NF conseguenti ai trattamenti CT2-4. Le numerose linee guida (ASCO, NCCN, ESMO, AIOM) sull’utilizzo di rG-CSF nella neutropenia chemio-indotta nei tumori solidi, indicano concordemente la necessità di effettuare sempre un’attenta valutazione del rischio di NF, considerando parametri quali il tipo lo schema, e le finalità della CT (neoadiuvante, adiuvante, della fase avanzata, con intento curativo o palliativo), insieme a vari fattori paziente-relati e tumore-relati5. Le stesse linee guida raccomandano il ricorso ad una profilassi primaria della CIN, prevedendo l’impiego di un rG-CSF sin dal primo ciclo di CT quando lo schema previsto sia caratterizzato da un rischio atteso di NF pari o superiore al 20%6. Per regimi di CT con un rischio di NF intermedio (1020%), le linee guida raccomandano, prima della decisione di utilizzare la profilassi primaria, una valutazione integrata dei molteplici fattori di rischio per lo sviluppo di NF CT-indotta. Sono disponibili oggi diverse formulazioni di rG-CSF, principalmente differenziate sulla base della cinetica di escrezione che ne condiziona la durata d’azione. I rG-CSF giornalieri, dei quali filgrastim è il capostipite, vengono escreti principalmente attraverso i reni richiedono una iniezione quotidiana e continuativa fino al recupero dell’ANC. Le formulazioni cosiddette long acting, invece, subiscono una clearance attraverso i neutrofili e richiedono una singola somministrazione per ciclo di trattamento antitumorale. Si tratta di pegfilgrastim e lipegfilgrastim, formulazioni rispettivamente peghilate e glicopeghilate del filgrastim. La coniugazione di filgrastim con una molecola di monometossi-polietilen-glicole (PEG),nel caso di pegfilgrastim, di 20 kDalton (kDa) non altera la natura delle interazioni biologiche e dell’azione del filgrastim stesso ma ne impedisce la degradazione proteolitica e l’opsonizzazione operta dai macrofagi, nonché la filtrazione glomerulare, non tanto per il peso molecolare (inferiore al cutoff di filtrazione dei 38,8 kDa) ma piuttosto per il suo raggio idrodinamico7,8. Parimenti lipegfilgrastim, approvato in Europa nel 2013 e disponibile anche in Italia, coniugato di filgrastim con PEG a livello del sito naturale di glicosilazione della proteina attraverso un legame mediato dalla presenza di glicina, N-acetilneuramina e N-acetilgalattosamina, presenta una similare clearance neutrofilica, e richiede anch’esso una somministrazione singola per ciclo di CT9,10. La correlazione inversa esistente tra le concentrazioni di entrambi i rG-CSF long acting (peg- o lipeg-filgrastim) e l’ANC, osservata in differenti regimi chemioterapici ed in diverse neoplasie (solide ed ematologiche), ha dimostrato chiaramente la dipendenza della clearance di entrambi i farmaci che risulta unicamente auto-regolata sulla base del grado di neutropenia. Per quanto riguarda pegfilgrastim, diversi studi hanno dimostrato la sua efficacia nella profilassi della NF. Kosaka et al. hanno registrato gli effetti dell’impiego di pegfilgrastim in pazienti sottoposte a trattamento chemioterapico a finalità adiuvante secondo schema docetaxel/ciclofosfamide in

pazienti con carcinoma mammario in stadio iniziale11. Il gruppo di pazienti che riceveva pegfilgrastim, rispetto al gruppo trattato con placebo, presentava una significativa riduzione dell’incidenza di NF con una altrettanto significativa riduzione del tasso di ospedalizzazione e del ricorso al trattamento antibiotico per infezioni NF-relate. Tale osservazione è stata confermata in altri trial clinici condotti in pazienti con carcinoma polmonare a piccole cellule (SCLC) e linfoma non Hodgkin (NHL)12-15. In apparente parziale contrasto con il background farmacocinetico e farmacodinamico, pegfilgrastim somministrato in regimi chemioterapici dose-dense, in pazienti affetti da carcinoma polmonare non a piccole cellule (NSCLC), SCLC e carcinoma mammario in stadio iniziale, (ove la medesima dose chemioterapica veniva somministrata ogni quattordici giorni) ha dimostrato la sua efficacia nel prevenire la comparsa di NF e nell’assicurare il corretto timing di somministrazione-densità di dose tra un ciclo chemioterapico ed il successivo16. Questi studi hanno altresì mostrato che pegfilgrastim esercita la sua azione stimolatoria sui precursori granulocitari e nel contempo li preserva dall’apoptosi indotta dalla chemioterapia, prolungando in tal modo la sopravvivenza di questa popolazione cellulare durante i trattamento chemioterapici dose-dense. Allo stesso modo, l’efficacia di lipegfilgrastim è stata validata in studi e analisi post-hoc condotti in pazienti con carcinoma mammario e NSCLC, indipendentemente dallo stadio di malattia (iniziale o avanzato), dall’età dei pazienti, e dal setting in cui tipo di trattamento veniva somministrato (adiuvante o metastatico)17,18. La non inferiorità di lipegfilgrastim nei confronti di pegfilgrastim, in termini d’impatto positivo sulla risoluzione dell’efetto immunosoppressivo della CT, è stata recentemente dimostrata in uno studio di fase 3 in pazienti non chemio-trattati (chemonaive)19. In particolare lipegfilgrastim si è dimostrato in grado di assicurare un aumento della ANC più duraturo rispetto alla formulazione peghilata, senza un significativo aumento nel valore massimo-picco dell’ANC. Questa osservazione clinica potrebbe trovare la sua base biologica in una recentemente dimostrata differente sensibilità di lipegfilgrastim rispetto a pegfilgrastim all’azione dell’elastasi neutrofilica20. Le formulazioni long acting di rG-CSF hanno dimostrato la loro efficacia quando paragonate alle formulazioni giornaliere di rG-CSF: in uno studio retrospettivo condotto negli USA in soggetti affetti da carcinoma mammario, ovarico, colorettale, polmonare o NHL, la profilassi condotta condotta con pegfilgrastim si è dimostrata superiore ad una profilassi con rG-CSF giornaliero, nel ridurre gli episodi di NF e nel ricorso all’ospedalizzazione21,22. Il tasso di ospedalizzazioni correlate ad episodi di NF, dopo un primo ciclo CT, si riduceva dall’1,3% allo 0,6%, mentre il tasso di ospedalizzazione globale su tutti i cicli somministrati decresceva dal 10% al 5% con l’impiego di pegfilgrastim. Una metanalisi condotta su cinque studi, che interessava un totale di 617 soggetti con diversi tumori solidi sottoposti a trattamento mielosoppressivo, volta a valutare l’efficacia di pegfilgrastim e di filgrastim, ha osservato come una singola dose di pegfilgrastim sia significativamente più efficace rispetto ad un ciclo di filgrastim per CASCO — Autunno 2015

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10-14 giorni, nel ridurre l’incidenza di NF. Pegfilgrastim sarebbe maggiormente in grado di ridurre l’incidenza di NF di grado 4 rispetto al filgrastim. Va peraltro sottolineato come i risultati di questa metanalisi siano stati in parte criticati perchè alcuni degli studi considerati non erano stati disegnati esattamente per dimostrare la superiorità di pegfilgrastim su filgrastim in termini di efficacia nel ridurre l’incidenza di NF. Inoltre sui cinque studi considerati le popolazioni arruolate gli istotipi tumorali considerati e i tipi di CT somministrate erano eterogenee e non completamente confrontabili in una metanalisi3,23. Per quanto riguarda la sicurezza nell’impiego delle formulazioni long acting di rG-CSF negli ultimi anni diversi studi hanno escluso problemi legati ad una loro presunta potenziale immunogenicità. In particolare, Afsaneh et al. hanno valutato questo aspetto correlandolo con la presenza e le eventuali variazioni nella concentrazione sierica di anticorpi anti-farmaco (pegfilgrastim o lipegfilgrastim) in soggetti con carcinoma mammario o polmonare: l’incidenza globale di anticorpi anti-farmaco indotti dai rG-CSF è risultata intorno all’1% per pegfilgrastim e 2% per lipegfilgrastim, inferiore a quella segnalata per filgrastim (3%). Successivamente, a tempi diversi dal termine della somministrazione dei due fattori long acting, non sono stati più rilevati anticorpi-anti farmaco che potessero compromettere tollerabilità, efficacia e sicurezza del farmaco24. I pazienti che ricevono un rG-CSF, giornaliero o long acting, possono manifestare sintomatologia algica secondaria a espansione sia quantitativa che variazione qualitativa del comparto midollare emopoietico, a sensibilizzazione periferica agli stimoli nocicettivi, a modulazione della risposta immune, ed a effetto diretto dei rG-CSFs sul metabolismo osseo25. Per quanto riguarda questo aspetto della tollerabilità, in particolare le mialgie ed le osteoartralgie, nei soggetti trattati conun rG-CSF long acting non è stato osservato un incremento significativo delle osteoartralgie rispetto ai pazienti trattati con la formulazione giornaliera; in realtà, il passaggio a filgrastim non sembra ridurre l’incidenza di dolore ma appare essere a volte causa di una sintomatologia dolorosa più spiccata26. Bondarenko et al. hanno peraltro dimostrato una sovrapponibilità tra pegfilgrastim e lipegfilgrastim con un tasso di eventi avversi di grado superiore o uguale a 1, che globalmente si registra nel 20% dei soggetti trattati27. Sempre in tema di tollerabilità ed effetti collaterali, sin dalla loro registrazione sono stati descritti alterazioni elettrocardiografiche associate all’impiego dei fattori di crescita granulocitari. In questo ambito, due studi di fase tre condotti da Lammerich in soggetti con carcinoma polmonare e mammario, hanno dimostrato come la somministrazione di lipegfilgrastim non abbia effetti su frequenza cardiaca, conduzione atrio-ventricolare, misurata come variazione dell’intervallo PR; depolarizzazione, misurata come variazione della durata o della morfologia dell’intervallo QRS e ripolarizzazione. Nel gruppo si soggetti con carcinoma mammario, pegfilgrastim e lipegfilgrastim non sono risultati correlabili con alterazioni elettrocardiografiche, ad eccezione di un alterazione non specifica del tratto ST e di un allungamento del QT (intorno ai 10-15 14

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ms), variazioni che gli Autori concludevano come da imputarsi a cause differenti dalla somministrazione di rG-CSF28. In conclusione, i rG-CSFS long acting si propongono come agenti dotati di elevata efficacia, sicurezza d’impiego e buona tollerabilità, particolarmente indicati quando, a fronte di schemi CT altamente neutropenizzanti e finalizzati ad un intervento curativo, sia fondamentale assicurare una massima protezione dalla NF e assicurare un corretto delivery della CT. Le caratteristiche farmacocinetiche di queste molecole consentono una modalità di somministrazione semplificata che da una parte può contribuire ad una maggiore compliance di particolari categorie di pazienti con una riduzione degli interventi medici per il monitoraggio della risposta terapeutica e dall’altra ridurre la variabilità in termini di timing e di durata della somministrazione che continuano oggi in varie realtà ad essere motivo di elevata eterogeneità prescrittiva delle formulazioni giornaliere di rG-CSF. •

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Gestione eventi avversi

Tossicità da nuovi farmaci: alpharadin e nintedanib

Claudia Caserta Sonia Fatigoni Struttura Complessa Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

RIASSUNTO Alpharadin è il primo radiofarmaco emittore di particella alfa ad essere stato approvato dall’FDA e dall’EMA per il trattamento di soggetti adulti affetti da carcinoma prostatico resistente alla castrazione con metastasi ossee sintomatiche e senza metastasi viscerali note. Il radium-223 si lega selettivamente alle aree di aumentato turnover osseo, prevalentemente nelle metastasi ossee osteoblastiche dove causa un effetto antitumorale citotossico. Il trattamento è complessivamente ben tollerato: le tossicità più frequentemente osservate sono la soppressione midollare, in particolare trombocitopenia, neutropenia, leucopenia, e le complicanze gastrointestinali, diarrea, nausea e vomito. Nintedanib è un inibitore di tirosin-kinasi, che blocca i recettori di VEGF, FGF e PDGF e quindi tre distinte pathway proangiogeniche. Nintedanib è stato di recente approvato dall’EMA in associazione a docetaxel per il trattamento in seconda linea di tumori del polmone non microcitoma ad istologia adenocarcinoma localmente avanzati, metastatici (stadi IIIB/IV) o recidivati sulla base di uno studio di fase III che ha evidenziato, rispetto a docetaxel + placebo, un aumento della PFS e dell’OS. Il profilo di tossicità è buono, con gli eventi collaterali più frequenti (diarrea, aumento degli enzimi epatici ALT e AST) in genere facilmente gestibili con terapie di supporto e/o riduzioni di dose del farmaco. Sono in corso studi di fase II e III per valutarne il ruolo nel tumore del colon-retto, rene, epatocarcinoma, mesotelioma pleurico. Parole chiave. Alpharadin, carcinoma prostatico, nintedanib, tumore del polmone.

SUMMARY

New drugs toxicity: alpharadin e nintedanib Alpharadin is the first alpha emitter drug approved by FDA and EMA for treatment of progressive castration-resistant prostate cancer patients with bone metastases and no known visceral metastases. Radium-223 selectively binds to areas of increased bone turnover in bone metastases, especially within the microenvironment of osteoblastic metastases, inducing a potent and highly localized cytotoxic effect in the target areas. Treatment is well tolerated with minimal myelotoxicities, thrombocytopenia, neutropenia, leucopenia, and gastrointestinal toxicities, diarrhea, nausea and vomiting. 16

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Nintedanib is a tirosin-kinasi inhibitor that blocks the receptors of VEGF, FGF and PDGF, so it blocks three distinct proangiogenic pathways. Recently EMA approved nintedanib in combination with docetaxel for the second-line treatment of non small cell lung cancer with adenocarcinoma histology, locally advanced, metastatic (stage IIIB/IV) or recurrent. The approval is based on the results of a phase III randomized trial that evaluated nintedanib + docetaxel versus placebo + docetaxel with an increased PFS and OS with the combination. The safety profile is manageable; the most frequent side effects are diarrhea and an increase of liver enzymes ALT e AST, generally manageable with supportive treatment and/or dose reduction. Phase II and III studies are evaluating the possible role of nintedanib for the treatment of colorectal, renal cell, hepatocellular carcinoma and of malignant pleural mesothelioma. Key words. Alpharadin, prostate cancer, nintedanib, lung cancer.

Alpharadin nel carcinoma della prostata

Introduzione La terapia di deprivazione androgenica è da diversi decenni il trattamento iniziale standard per gli uomini affetti da adenocarcinoma della prostata metastatico e si ottiene mediante castrazione chirurgica o medica con l’impiego di agonisti o antagonisti del luteinizing-hormone releasing hormone (LH-RH). La combinazione di un antiandrogeno alla castrazione medica offre un modesto vantaggio rispetto alla terapia con il solo agonista dell’LH-RH, prolungando la sopravvivenza globale a 5 anni dal 2 al 5%1. Circa l’80% dei pazienti ha un’iniziale risposta alla terapia di deprivazione androgenica, ma dopo circa due-tre anni, tutti i pazienti manifestano una progressione di malattia, passando ad una condizione definita di “resistenza alla castrazione” che è inevitabilmente fatale nell’arco mediamente di 20-24 mesi. La definizione di carcinoma della prostata resistente alla castrazione è stata recentemente standardizzata: richiede livelli di testosterone inferiori a 50 ng/dl (1,7 nmol/L) ed evidenza di una progressione del PSA e/o radiologica2. Più del 90% dei pazienti con carcinoma della prostata metastatico resistente alla castrazione ha un’evidenza radiologica di metastasi ossee, che sono la causa più frequente di morte, di disabilità, peggioramento della qualità di vita e aumento dei costi delle terapie per questi pazienti. Le opzioni terapeutiche per i pazienti affetti da carcinoma della prostata resistente alla castrazione sono state per molti


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anni soltanto i tentativi di manipolazione ormonale di seconda linea, che producono risposte in una piccola percentuale di pazienti e la chemioterapia con docetaxel, che ha dimostrato un vantaggio in sopravvivenza globale e un rilevante beneficio clinico sia nei pazienti sintomatici che in quelli asintomatici3. Più recentemente il nostro armamentario terapeutico si è arricchito: due farmaci orali, inibitori del pathway del recettore degli androgeni, abiraterone ed enzalutamide, hanno dimostrato di prolungare significativamente la sopravvivenza globale nel trattamento dei pazienti con carcinoma della prostata resistente alla castrazione, sia quando impiegati prima che dopo la chemioterapia con docetaxel4-7; il chemioterapico cabazitaxel ha dimostrato di prolungare la sopravvivenza rispetto al mitoxantrone in pazienti in progressione dopo docetaxel8; il radium-223 ha dimostrato di prolungare la sopravvivenza globale e il tempo al primo evento scheletrico sintomatico in pazienti affetti da carcinoma della prostata resistente alla castrazione in progressione dopo chemioterapia con docetaxel o non idonei a ricevere il docetaxel9.

Efficacia ed eventi avversi Radium-223 (alpharadin) è stato il primo farmaco alfa emittente ad essere stato approvato dalle autorità regolatorie come trattamento antitumorale. Il radium-223 mima il calcio e si lega selettivamente alle aree di aumentato turnover osseo, prevalentemente nelle metastasi ossee osteoblastiche. Il target del radium-223 è il minerale osseo idrossiapatite, un componente essenziale e primario della matrice inorganica dell’osso, che aumenta nelle aree di osso neoformato. In una lesione metastatica osteoblastica, le cellule tumorali sono miste all’idrossiapatite. Legandosi al suo target, il radium-223 emette particelle alfa ad alta energia che causano un’alta frequenza di rotture della doppia elica del DNA delle cellule tumorali adiacenti, con conseguente effetto citotossico. Il raggio di azione delle particelle alfa emesse dal radium-223 è inferiore a 100 μm, e questo spiega la rarità di effetti tossici sui tessuti sani adiacenti e in particolare sul midollo osseo. Negli studi di fase I e II che hanno coinvolto pazienti con metastasi ossee, il radium-223 ha dimostrato di avere un profilo di tossicità favorevole, con lievi o moderati eventi avversi ematologici e gastrointestinali e nessuna tossicità dose-limitante osservata, neanche alla dose di 200 kBq/kg. I dati di farmacocinetica, biodistribuzione e dosimetria sono stati ottenuti in tre studi di fase I. Il farmaco viene somministrato come iniezione endovenosa lenta (generalmente di circa 1 minuto), viene incorporato nell’osso e nelle metastasi ossee, ed eliminato nel tratto gastrointestinale. I risultati degli studi di fase 2 hanno suggerito un possibile beneficio in sopravvivenza nei pazienti affetti da carcinoma della prostata resistente alla castrazione con metastasi ossee, una significativa riduzione del dolore osseo e un miglioramento dei biomarker correlati alla malattia (per esempio fosfatasi alcalina ossea e PSA)10. Per valutare l’efficacia del radium-223, è stato condotto lo studio ALSYMPCA (Alpharadin in Symptomatic Prostate Cancer Patients), uno studio di fase III, randomizzato, in doppio-cieco, multicentrico, che ha confrontato l’efficacia e la si-

curezza del radium-223 rispetto al placebo in pazienti con carcinoma della prostata resistente alla castrazione. I pazienti erano eleggibili per lo studio se avevano almeno due metastasi ossee, assenza di note metastasi viscerali e di metastasi linfonodali di dimensioni maggiori di 3 cm, se erano giudicati non idonei a ricevere chemioterapia con docetaxel o avevano avuto una progressione di malattia durante o dopo chemioterapia con docetaxel. L’obiettivo primario dello studio era la sopravvivenza globale. Gli obiettivi secondari comprendevano il tempo al primo evento scheletrico sintomatico e vari endpoint di risposta biochimica (tempo alla progressione del PSA e della fosfatasi alcalina). 921 pazienti sono stati randomizzati in un rapporto di 2:1 a ricevere sei infusioni di radium223 alla dose di 50 kBq/kg ogni 4 settimane o placebo. Il 43% dei pazienti trattati con radium-223 non aveva ricevuto in precedenza docetaxel, il 41% stava ricevendo bifosfonati, il 57% accusava dolore di grado 2-3 sulla scala OMS. All’analisi finale dei dati, la sopravvivenza globale è stata di 14,9 mesi nel gruppo del radium-223 e 11,3 mesi nel gruppo del placebo (HR 0,70; p<0,001). Tutti gli obiettivi secondari dello studio sono risultati a favore del radium-233 rispetto al placebo. Durante il trattamento con radium-223 è stato riportato un più lento deterioramento della qualità della vita rispetto al gruppo del placebo, secondo la valutazione eseguita mediante i questionari specifici EQ-5D e FACT-P. Il trattamento con radium-223 è stato complessivamente ben tollerato. Il numero di pazienti che hanno avuto eventi avversi dopo aver ricevuto la terapia farmacologica è stato più basso nel gruppo del radium-223 rispetto al gruppo del placebo per gli eventi di ogni grado (558 dei 600 pazienti [93%] verso 290 di 301 pazienti [96%]), per gli eventi avversi di grado 3 o 4 (339 pazienti [56%] verso 188 pazienti [62%]), per gli eventi avversi gravi (281 pazienti [47%] verso 181 pazienti [60%]). La percentuale di interruzione della terapia dovuta ad eventi avversi è stata del 16% (99 pazienti) nel gruppo del radium-223 rispetto al 21% (62 pazienti) nel gruppo del placebo. Gli effetti collaterali ematologici e nonematologici che si sono manifestati in almeno il 5% dei pazienti in entrambi i gruppi sono mostrati nella tabella I. Gli eventi avversi di grado 3 o 4 sono stati molto rari e sono stati riportati solo nell’1-2% dei pazienti nel gruppo della terapia sperimentale. Comunque non ci sono state significative differenze nella frequenza degli eventi avversi di grado 3 o 4 tra i due gruppi. Trombocitopenia di qualsiasi grado si è manifestata nel 12% dei pazienti trattati con radium-223 e nel 6% dei pazienti che hanno ricevuto placebo. Trombocitopenia di grado 3 e 4 è stata osservata nel 6,3% dei pazienti trattati con radium-223 e nel 2% con il placebo. Nel gruppo dei pazienti trattati con radium-223, la frequenza di trombocitopenia di grado 3 e 4 è risultata più bassa tra i pazienti che in precedenza non avevano ricevuto docetaxel (2,8% verso 8,9%). Neutropenia di qualsiasi grado è stata riportata nel 5% dei pazienti trattati con radium-223 e nell’1% dei pazienti che hanno ricevuto placebo. Neutropenia febbrile di grado 3 è stata riportata in un solo paziente (<1%) nel gruppo del radium-223 e in un paziente (<1%) nel gruppo del placebo. CASCO — Autunno 2015

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Tabella I. Eventi avversi più frequenti con radium-223.

Radium-223 (N=600)

Placebo (N=301)

Tossicità

Tutti i gradi N (%)

Tutti i gradi N (%)

Anemia

187 (31)

92 (31)

Trombocitopenia

69 (12)

17 (6)

Neutropenia

30 (5)

3 (1)

Stipsi

108 (18)

64 (21)

Diarrea

151 (25)

45 (15)

Nausea

213 (36)

104 (35)

Vomito

111 (18)

41 (14)

Astenia

35 (6)

18 (6)

Fatigue

154 (26)

77 (26)

Deterioramento dello stato generale

27 (4)

21 (7)

Ritenzione di liquidi

76 (13)

30 (10)

Piressia

38 (6)

19 (6)

Polmonite

18 (3)

16 (5)

Infezione urinaria

47 (8)

28 (9)

Perdita di peso

69 (12)

44 (15)

Anoressia

102 (17)

55 (18)

Dolore osseo

300 (50)

187 (62)

Debolezza muscolare

9 (2)

17 (6)

Frattura patologica

22 (4)

15 (5)

Vertigini

43 (7)

26 (9)

Compressione midollare spinale

25 (4)

23 (8)

Insonnia

27 (4)

21 (7)

Ematuria

30 (5)

15 (5)

Ritenzione urinaria

25 (4)

18 (6)

Dispnea

49 (8)

26 (9)

Complessivamente, la frequenza di neutropenia di grado 3 e 4 è risultata più bassa tra i pazienti che in precedenza non avevano ricevuto docetaxel rispetto a quelli che lo avevano ricevuto (0,8% verso 3,2%). Soltanto un paziente nel gruppo del radium-223 ha presentato un evento avverso ematologico di grado 5 considerato potenzialmente correlato al farmaco: una trombocitopenia in un paziente che è morto per una polmonite con grave ipossiemia, senza evidenza di sanguinamento. In conclusione, la soppressione midollare è l’evento avverso più grave riportato durante il trattamento con radium223. Pertanto, i parametri ematologici dei pazienti devono essere determinati al basale e prima di ogni dose di terapia. I pazienti con evidenza di riserva midollare ridotta, ad esempio dopo una precedente chemioterapia e/o radioterapia o pa18

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zienti con avanzate e diffuse infiltrazioni ossee, devono essere trattati con cautela. La sicurezza del radium-223 in pazienti con malattie infiammatorie intestinali non è stata studiata. Considerando l’escrezione fecale del radium-223, le radiazioni potrebbero causare un aggravamento dell’infiammazione acuta intestinale. Non si ritiene altresì necessario alcun aggiustamento della dose nei pazienti anziani (>65 anni) o nei pazienti con insufficienza epatica e renale.

Nintedanib nel carcinoma polmonare Nintedanib è un inibitore potente e specifico dei recettori di VEGF, FGF e PDGF; è in grado, inoltre, di legare con minore potenza anche altre chinasi, come RET, FLT3 e la famiglia Src. La sua azione antitumorale è dovuta al blocco della crescita delle cellule endoteliali, muscolari lisce e dei periciti mediata da VEGF, PDGF o FGF11; si è dimostrato efficace, inoltre, nel trattamento della fibrosi polmonare idiopatica. Il farmaco è somministrato per via orale ed è eliminato con la bile, dopo essere stato metabolizzato per la maggior parte attraverso una via indipendente dal citocromo P450. Dagli studi di fase I-II è emerso un buon profilo di sicurezza e una potenziale efficacia in diverse neoplasie solide12. Di recente tale farmaco è stato autorizzato dalla FDA e dall’EMA per l’utilizzo in seconda linea negli adenocarcinomi polmonari localmente avanzati, metastatici o recidivati, in associazione a docetaxel, sulla base dei dati di uno studio pubblicato nel 2014, ed è in fase di studio anche in altri tumori, come colon-retto, rene, mesotelioma pleurico, epatocarcinoma13. Lo studio che ha portato all’autorizzazione nel polmone (LUME-Lung 1) è uno studio di fase III, randomizzato, doppiocieco, controllato, che ha valutato su 1314 pazienti con carcinoma polmonare in progressione dopo una prima linea di terapia, la combinazione di docetaxel 75 mg/m2 giorno 1 e nintedanib 200 mg x2/die per via orale giorni 2-21 ogni 3 settimane verso docetaxel + placebo14. Lo studio aveva come endpoint primario la PFS valutata ad un’analisi ad interim dopo 714 eventi; l’endpoint secondario era la OS valutata a 1121 eventi, in un ordine prestabilito: prima i pazienti con adenocarcinoma in progressione entro 9 mesi dall’inizio della prima linea, poi in tutti i pazienti con adenocarcinoma, infine in tutti i pazienti. La PFS è risultata di 3,4 mesi verso 2,7 mesi dopo un follow-up mediano di 7,1 mesi sul totale dei pazienti, senza differenze importanti per gli adenocarcinomi o i carcinomi squamosi; ad un followup mediano di 31,7 mesi, la OS è risultata di 10,9 mesi verso 7,9 mesi per il primo gruppo di pazienti, 12,6 verso 10,3 mesi per il secondo gruppo e 10,1 mesi verso 9,1 (non significativa) nel totale dei pazienti. Per quanto riguarda il profilo di tossicità, il farmaco appare abbastanza maneggevole, con la maggior parte delle tossicità gestibile con terapie di supporto o riduzioni di dose. L’evento avverso più frequente nel braccio di combinazione è risultato essere la diarrea (42,3% verso 21,8%); altri eventi


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frequenti erano: abbassamento dei neutrofili (37,1% verso 35,9%), fatigue (30,4% verso 26,9%), aumento delle ALT (28,5% verso 8,4%), riduzione dei globuli bianchi (24,5% verso 24,4%), nausea (24,2% verso 18%), aumento delle AST (22,5% verso 6,6%), riduzione dell’appetito (22,2% verso 15,6%), dispnea (19,0% verso 16,8%), vomito (16,9% verso 9,3%). Le tossicità di grado 3 che sono risultate più frequenti nel braccio della combinazione rispetto a docetaxel, sono risultate la diarrea (6,6% verso 2,6%), un aumento reversibile di ALT (7,8% verso 0,9%) e AST (3,4% verso 0,5%). Va sottolineato che 35 pazienti nel braccio con la combinazione e 25 nel braccio con docetaxel sono morti per eventi collaterali possibilmente non dovuti a progressione di malattia (sepsi, polmoniti, insufficienza respiratoria, embolia polmonare). Una riduzione di dose di nintedanib/placebo è stata richiesta nel 18,6% verso 6,3% dei casi per tossicità gastroenterica o alterazione di ALT e AST; quella del docetaxel nel 15,6% verso 11,9% nella maggioranza dei casi per tossicità ematologica. L’incidenza di eventi avversi in genere associati agli anti-angiogenetici (come ipertensione arteriosa, sanguinamenti, perforazioni gastrointestinali) è risultata simile fra i due gruppi. Per la gestione della diarrea è raccomandato un trattamento sintomatico (idratazione e antidiarroici come la loperamide) fin dai primi segni; se ciò non è sufficiente, si può sospendere temporaneamente o ridurre il dosaggio di nintedanib. Anche per la gestione della nausea e del vomito sono consigliati farmaci di supporto come steroidi o 5HT3 antagonisti ed eventualmente la sospensione/riduzione del farmaco. Per la prevenzione della neutropenia febbrile risultata più frequente nel braccio di combinazione (7,4% verso 4,9%), si raccomanda il monitoraggio dell’emocromo. L’aumento delle transaminasi è in genere transitorio; nei casi di aumento di AST e/o ALT ≥ 2,5 x ULN (upper limit normal, limite superiore della norma) associato ad aumento della bilirubina totale ≥1,5 x ULN o in caso di aumento delle transaminasi > 5 x ULN, è richiesta una riduzione del farmaco; in caso di aumento di AST e/o ALT ≥ 3 x ULN associata ad aumento della bilirubina a ≥ 2 x ULN e ad ALP < 2 x ULN è raccomandata l’interruzione permanente del trattamento. La riduzione di dose prevede un primo scalino a 150 mg x2/die e un secondo scalino a 100 mg x2/die. Si segnala, infine, che il prodotto può dare allergie nei pazienti con ipersensibilità alla soia e alle arachidi, in quanto tra gli eccipienti c’è la lecitina di soia. Recentemente è stata pubblicata anche un’analisi dei “self-report outcomes” (PROs) per i sintomi e la qualità di vita dei pazienti arruolati nello studio15. La valutazione veniva effettuata attraverso i 30 item del Core Quality of Life Questionnaire (QLQ-C30) dell’EORTC, i 13 item del supplemento specifico per il tumore del polmone (QLQ-LC13), e il questionario per malattia in genere Euro-QoL, comprendente i questionari EQ-5D e EQ-visual analogue scale (VAS). Sono stati valutati circa l’80% dei pazienti arruolati nello studio e circa il 70% ha compilato i questionari alla visita di fine trattamento. L’analisi non ha evidenziato differenze significative nel tempo di deterioramento dello stato di salute globale/QoL, o

in sintomi come tosse, dispnea e dolore; non si è evidenziata una differenza statisticamente significativa nei questionari EQ-5D ed EQ-VAS. Nei pazienti affetti da adenocarcinoma alcuni item sono risultati a vantaggio della combinazione rispetto al docetaxel (tempo di deterioramento della qualità di vita, tempo di deterioramento per disturbi gastrointestinali, comparsa di dolore a braccia e spalle). All’ASCO 2013 è stato presentato uno studio (LUMELung 2) randomizzato, doppio-cieco, placebo-controllato16 che ha valutato l’efficacia e la sicurezza di nintedanib 200 mg x2/die per via orale giorni 2-21 più pemetrexed 500 mg/m2 giorno 1 ogni 3 settimane verso placebo + pemetrexed in tumori polmonari non-microcitomi non-squamosi stadio IIIB/IV o recidivati: l’endpoint primario era la PFS. Lo studio è stato interrotto prematuramente dopo l’arruolamento di 713 dei 1300 pazienti previsti, perché la prima analisi di futilità ha giudicato futile lo studio e l’endpoint primario probabilmente non raggiungibile. La PFS è risultata 4,4 mesi verso 3,6 mesi; la OS non era diversa fra i due gruppi. Non si sono evidenziati problemi particolari riguardo alla tossicità; gli eventi avversi di grado 3 risultati più frequenti nel braccio con la combinazione sono aumento di ALT (23% verso 7%), ALT (12% verso 2%) e diarrea (3% verso 1%); non c’erano differenze riguardo a ipertensione, sanguinamenti, trombosi, mucositi o neuropatie di grado 3. In conclusione possiamo dire che nintedanib è un triplo inibitore di kinasi pro-angiogeniche, con un buon profilo di tossicità; la sua combinazione con docetaxel è un’opzione di trattamento nella seconda linea di pazienti con adenocarcinomi del polmone17,18; studi di fase II ne stanno valutando il ruolo nel carcinoma renale, nell’epatocarcinoma e nel mesotelioma pleurico e uno studio di fase III è in corso nel tumore del colon-retto13. •

Bibliografia 1. Samson DJ, Seidenfeld J, Schmitt B, et al. Systematic review and metaanalysis of monotherapy compared with combined androgen blockade for patients with advanced prostate carcinoma. Cancer 2002; 95: 361-76. 2. Scher HI, Halabi S, Tannock I, et al. Design and end points of clinical trials for patients with progressive prostate cancer and castrate levels of testosterone: recommendations of the Prostate Cancer Clinical Trials Working Group. J Clin Oncol 2008; 26: 1148-59. 3. Tannock IF, de Wit R, Berry WR, et al. Docetaxel plus prednisone or mitoxantrone plus prednisone for advanced prostate cancer. N Engl J Med 2004; 351: 1502-12. 4. de Bono JS, Logothetis CJ, Molina A, et al. Abiraterone and increased survival in metastatic prostate cancer. N Engl J Med 2011; 364: 1995-2005. 5. Ryan CJ, Smith MR, de Bono JS, et al. Abiraterone in metastatic prostate cancer without previous chemotherapy. N Engl J Med 2013; 368: 138-48. 6. Scher HI, Fizazi K, Saad F, et al. Increased survival with enzalutamide in prostate cancer after chemotherapy. N Engl J Med 2012; 367: 1187-97.

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| Gestione eventi avversi | TossicitĂ da nuovi farmaci: alpharadin e nintedanib

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Gestione eventi avversi

La descrizione degli eventi avversi associati al trattamento anti-tumorale: l’importanza del punto di vista dei pazienti

Massimo Di Maio Dipartimento di Oncologia Università degli Studi di Torino AOU San Luigi Gonzaga, Orbassano (TO)

RIASSUNTO È ormai dimostrato che i clinici possono sottostimare l’incidenza di numerose tossicità che si verificano durante il trattamento dei pazienti oncologici, in particolare delle tossicità “soggettive”. Tale rischio è concreto non soltanto nella pratica clinica, ma anche nel contesto di sperimentazioni cliniche, nelle quali in linea di principio sarebbe richiesta agli sperimentatori particolare attenzione nell’indagare e riportare gli eventi avversi. Al fine di ridurre il rischio di under-reporting degli eventi avversi soggettivi, negli ultimi anni si sta sviluppando l’incorporazione formale dei patient-reported outcomes (PRO) nella definizione della tossicità, elaborando un sistema di raccolta dati in cui sono i pazienti stessi a registrare le tossicità. In particolare, mentre i Common Terminology Criteria for Adverse Event (CTCAE) tradizionalmente usati prevedono la registrazione degli eventi avversi da parte degli sperimentatori, il National Cancer Institute ha recentemente patrocinato la messa a punto di un sistema di descrizione degli eventi avversi, chiamato PRO-CTCAE, che, nel caso delle tossicità “sintomatiche”, integra il sistema tradizionale mediante l’acquisizione dell’informazione da parte dei pazienti. Sia la prospettiva del paziente che quella del medico sono essenziali nella descrizione dei sintomi, in quanto rappresentano informazioni complementari che, quando integrate, consentono una stima più robusta e accurata. I medici hanno la competenza per interpretare i sintomi del paziente alla luce del contesto generale della malattia e del trattamento, ma il valore aggiunto dell’impiego di uno strumento che “dà voce” ai pazienti è che questi ultimi possono comunicare direttamente la loro esperienza soggettiva. Parole chiave. Eventi avversi, under-reporting, PRO-CTCAE.

SUMMARY

The description of anticancer treatment-related adverse events: the importance of patient’s point of view It has been shown by several studies that clinicians can under-estimate and under-report treatment-related adverse events in cancer patients, particularly “subjective” symptomatic toxicities. This can occur not only in clinical practice, but even within clinical trials, a setting where, at least in princi-

ple, investigators are required to carefully report adverse events occurred during treatment. In order to reduce the risk of under-reporting of subjective adverse events, the formal incorporation of patient-reported outcomes (PRO) in toxicity definition has been recently considered. While traditionally used Common Terminology Criteria for Adverse Events (CTCAE) are based on the registration of adverse events by investigators, the National Cancer Institute has recently promoted the creation of a PRO measurement system as a companion to the CTCAE, called the PRO-CTCAE. For a list of symptomatic toxicities, this system integrates the traditional investigator-based assessment with patient-derived information. Both patient’s and physician’s perspective are essential, because their integration allows a more robust and accurate description of symptoms. Key words. Adverse events, under-reporting, PRO-CTCAE.

I trattamenti anti-tumorali (sia la “classica” chemioterapia che i farmaci a bersaglio molecolare) sono comunemente associati al rischio di tossicità non trascurabili, che possono comportare importanti ripercussioni sulla qualità di vita dei pazienti oncologici. Alcuni di tali effetti collaterali sono “soggettivi”, vale a dire che, non essendo documentati da un’alterazione degli esami di laboratorio, devono essere riferiti direttamente dal paziente (tipicamente, la nausea e il vomito, il dolore, la diarrea o la stipsi, l’alterazione del gusto e la mancanza di appetito, l’astenia, ecc.). È ormai dimostrato che i clinici possono “sottostimare” l’incidenza di numerose tossicità, specialmente delle suddette tossicità “soggettive”. Uno studio italiano, coordinato presso l’Unità Sperimentazioni Cliniche dell’Istituto Nazionale Tumori – Fondazione Pascale di Napoli e pubblicato nel 2015 sul Journal of Clinical Oncology, ha confrontato la tossicità direttamente riferita dai pazienti e quella riportata dai medici in una casistica di oltre 1000 pazienti trattati nell’ambito di 3 studi clinici multicentrici1. Nello specifico, in uno dei 3 studi2 pazienti operate per tumore della mammella erano sottoposte a trattamento chemioterapico adiuvante, mentre negli altri 2 studi3,4 pazienti con tumore del polmone non a piccole cellule avanzato ricevevano un trattamento di prima linea (chemioterapia con cisplatino e gemcitabina oppure erlotinib). Alla fine di ogni ciclo di trattamento, in tutti i 3 studi i pazienti compilavano i questionari di qualità di vita EORTC: il QLQ C30, ovvero il modulo generale, e in aggiunta il modulo specifico per il tumore del polmone (LC13) o per il tumore della mammella (BR23), nei rispettivi studi. Tra le domande contenute in tali questionari, al paziente viene chiesto se, nel corso della settimana CASCO — Autunno 2015

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precedente, abbia avuto le 6 tossicità prese in considerazione nello studio: nausea, vomito, diarrea, stipsi, anoressia e perdita dei capelli. Ciascuna di tali domande prevede che il paziente possa rispondere: “no”, “un po’”, “parecchio” o “moltissimo”. Le risposte dei pazienti sono state quindi confrontate con la tossicità riportata, nelle schede di raccolta dati dei 3 studi, dagli sperimentatori. Nel dettaglio, la tossicità era codificata secondo i Common Toxicity Criteria del National Cancer Institute (NCI-CTC) versione 2.0 in due studi, e secondo i NCI - Common Terminology Criteria for Adverse Events (CTCAE) versione 3 nello studio più recente. Nell’analisi principale dello studio, l’under-reporting da parte dei medici è stato calcolato come la percentuale di casi in cui, nei 3 cicli di trattamento considerati, il medico non ha riportato alcun grado di una specifica tossicità, sul totale dei pazienti che, in uno o più dei 3 cicli, hanno invece riferito di aver avuto quella specifica tossicità, indipendentemente dal grado. Il risultato ha documentato, per tutte le 6 tossicità prese in considerazione, una notevole percentuale di under-reporting da parte dei medici: tale percentuale è risultata pari al 74,4% per l’anoressia, al 40,7% per la nausea, al 47,3% per il vomito, al 69,3% per la stipsi, al 50,8% per la diarrea e al 65,2% per l’alopecia. La concordanza tra medico e paziente nel riportare ciascuna delle 6 tossicità prese in considerazione, misurata mediante il coefficiente di Cohen, è risultata tutt’altro che ottimale (coefficiente compreso tra 0,15 e 0,45 a seconda della tossicità considerata, mentre la concordanza perfetta corrisponderebbe a un coefficiente pari a 1). Da sottolineare che, anche limitando l’analisi ai soli casi in cui il paziente o la paziente avevano riferito “moltissima” tossicità (casi in cui è difficile pensare che il medico possa aver volutamente ritenuto trascurabile la tossicità stessa), la percentuale di casi nei quali il medico non aveva affatto riportato tale tossicità nella scheda era tutt’altro che trascurabile, andando dal 13,0% per il vomito al 50,0% per l’anoressia. I risultati di tale studio vanno sostanzialmente a ribadire quello che già altre esperienze in letteratura avevano documentato, vale a dire il rischio di under-reporting per le tossicità “soggettive”5-8. Tale rischio è concreto non soltanto nella pratica clinica, ma anche nel contesto di sperimentazioni cliniche, nelle quali in linea di principio sarebbe richiesta agli sperimentatori particolare attenzione nell’indagare e riportare gli eventi avversi. I possibili motivi per i quali questo può accadere sono numerosi. L’under-reporting può nascere da una cattiva comunicazione tra il paziente e il medico, favorita dalla carenza di tempo e anche dal fatto che le tossicità e i sintomi occorsi spesso non vengono esplicitamente indagati secondo una lista predefinita. Peraltro, in alcuni casi il medico può non aver riportato la tossicità in quanto, pur avendo acquisito l’informazione, ha attribuito il sintomo alla malattia, o a patologie concomitanti, o ad altri farmaci piuttosto che al trattamento anti-tumorale, ad esempio in quanto il sintomo era già presente al momento della valutazione basale: questa spiegazione potrebbe giustificare l’under-reporting di alcuni sintomi (come l’anoressia, o l’astenia) frequentemente presenti nei pazienti con malattia avanzata, ma non sembra in grado di giustificare l’elevata percentuale di under-reporting di alcuni 22

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effetti collaterali (come la perdita dei capelli o la diarrea) che, quando si verificano durante il trattamento, sono nella maggior parte dei casi attribuibili al trattamento stesso. Tra l’altro, se è ovvio che la riduzione dell’under-reporting della tossicità comporterebbe una migliore descrizione del reale profilo di effetti collaterali associati alla somministrazione dei trattamenti anti-tumorali (e quindi un’informazione più accurata per i pazienti candidati a ricevere successivamente il trattamento), non è ancora chiaro se una diminuzione dell’under-reporting, oltre a rendere più fedele la descrizione degli effetti collaterali, possa anche migliorare la gestione stessa dei pazienti, contribuendo a migliorare il trattamento delle tossicità e, di conseguenza, la qualità di vita dei pazienti. In ogni caso, al fine di ridurre il rischio di under-reporting degli eventi avversi soggettivi, migliorandone l’accuratezza della descrizione, negli ultimi anni si sta sviluppando l’incorporazione formale dei patient-reported outcomes (PRO) nella definizione della tossicità, elaborando quindi un sistema di raccolta dati in cui sono i pazienti stessi a registrare le tossicità che hanno sofferto9. In particolare, mentre i CTCAE tradizionalmente usati prevedono la registrazione degli eventi avversi da parte degli sperimentatori, il National Cancer Institute ha recentemente patrocinato la messa a punto di un sistema di descrizione degli eventi avversi, chiamato PRO-CTCAE, che, nel caso delle tossicità “sintomatiche”, integra il sistema tradizionale mediante l’acquisizione dell’informazione da parte dei pazienti. In particolare, sul totale di 790 eventi avversi compresi complessivamente nella lista dei CTCAE, 78 si prestano ad essere riportati da parte del paziente stesso: per ciascuno di tali 78 eventi avversi, sono state elaborate da 1 a 3 domande riferite alla frequenza, alla severità e all’interferenza del sintomo con l’attività quotidiana, mettendo a punto una “libreria” complessiva di 124 domande9. Uno studio recentemente pubblicato, condotto su 975 pazienti statunitensi sottoposti a trattamenti anti-tumorali (chemioterapia o radioterapia) in regime ambulatoriale, ha contribuito alla validazione dei PRO-CTCAE10. Mentre, come detto, la libreria completa PRO-CTCAE consiste di 124 domande riferite a 78 eventi avversi sintomatici, nello studio, per evitare di somministrare ai pazienti un numero troppo elevato di domande, queste erano predefinite sulla base della diagnosi e dei sintomi più frequenti in ciascun tipo di neoplasia, fino ad un massimo di 82 domande riferite a 58 sintomi. I pazienti compilavano il questionario in sala d’attesa prima della visita, mediante l’impiego di un tablet. I risultati dello studio del National Cancer Institute PRO-CTCAE Study Group hanno provato a definire la validità (validity), la riproducibilità (reliability) e la responsività (responsiveness) dello strumento PRO-CTCAE. La validità (validity) è l’accuratezza con cui lo strumento misura il sintomo di interesse: nello studio è stata descritta una significativa associazione tra le risposte riferite a tutti i sintomi e le risposte date alle domande concettualmente affini contenute nel questionario EORTC QLQ-C30. Gli autori hanno anche confrontato le risposte riportate in gruppi di pazienti suddivisi in base al performance status o al tipo di tumore, e per la gran parte dei sintomi le risposte andavano nella direzione attesa. La riproducibilità (re-


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liability) è invece la capacità dello strumento, usato in tempi diversi, di ripetere la misurazione dello stesso sintomo con risultati sostanzialmente simili: Dueck et al., nel sottogruppo di pazienti che aveva compilato due volte il questionario a breve distanza di tempo (1-3 giorni, rendendo quindi plausibile assumere che i cambiamenti nei sintomi tra una valutazione e l’altra fossero piccoli se non nulli), hanno osservato una buona o ottima riproducibilità per la gran parte dei sintomi indagati. Infine, la responsività (responsiveness) è la capacità dello strumento di identificare i cambiamenti del sintomo misurato: è importante, in particolare, che lo strumento sia sensibile al minimo cambiamento rilevante dal punto di vista clinico. Nello studio pubblicato su JAMA Oncology, tale caratteristica è stata analizzata descrivendo una buona associazione tra il cambiamento nella risposta ai sintomi tra le 2 visite e la risposta riportata al “Global Impression of Change” al momento della seconda visita, vale a dire la risposta a 3 domande sul cambiamento (miglioramento / stabilità / peggioramento) in termini di qualità di vita, condizione fisica e condizione emotiva. Così come l’impiego dei CTCAE è stato storicamente fondamentale per consentire l’adozione di un “linguaggio comune” nella descrizione della tossicità dei trattamenti da parte dei medici, lo sviluppo dei PRO-CTCAE è una tappa importante per integrare la prospettiva dei pazienti in tale descrizione. Lo studio di validazione recentemente pubblicato su JAMA Oncology, con la descrizione della validità, della riproducibilità e della responsività dello strumento, è un passo importante verso la possibilità di adottare universalmente tale strumento. Come sottolineato da Benjamin Movsas nell’editoriale che accompagna la pubblicazione dello studio11, sia la prospettiva del paziente che quella del medico sono essenziali nella descrizione dei sintomi, in quanto rappresentano informazioni complementari che, quando integrate, consentono una stima più robusta e accurata. I medici hanno la competenza per interpretare i sintomi del paziente alla luce del contesto generale della malattia e del trattamento, ma il valore aggiunto dell’impiego di uno strumento che “dà voce” ai pazienti è che questi ultimi possono comunicare direttamente la loro esperienza soggettiva. •

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Casi clinici

Le recenti linee guida di terapia antiemetica… viste dall’esterno

Enzo Ballatori Statistico medico, Spinetoli (AP)

Fausto Roila SC di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

L

a Consensus Conference per la definizione delle nuove linee guida (LG) di terapia antiemetica si è tenuta a Copenaghen dalle 8.00 alle 16.30 del 28 giugno scorso. La discussione collegiale delle proposte avanzate dalle 10 Commissioni è risultata vivace e compressa, tant’è vero che successivamente, sul web, ci sono state proposte di variazione alle conclusioni raggiunte. Fausto Roila era coordinatore della Commissione III (Chemioterapia Moderatamente Emetogena, MEC) e faceva parte anche della Commissione II (Chemioterapia Altamente Emetogena, HEC), Enzo Ballatori, che era membro della Commissione III (MEC), non ha potuto partecipare alla Consensus Conference, ma ha letto gli articoli relativi ai Comitati II e III, depositati su Dropbox, ed ha inviato proprie osservazioni e documenti. La percezione dell’assente è stata che la formazione delle LG sia un “caso clinico” (per questa ragione la trattiamo nella presente rubrica). Le LG dovrebbero infatti essere fondate il più possibile su solide evidenze invece che, come in questo caso, lasciare ampi spazi alle “opinioni” e ai punti di vista personali. Non essendo state ancora pubblicate le raccomandazioni, non è possibile riportarle in questo numero di CASCO. Ci si limiterà, quindi, ad esaminare i motivi profondi delle controversie.

Commissione I: emetogenicità delle chemioterapie Il punto di partenza è riassunto nel seguente, ormai famoso, prospetto: Livelli di potenziale emetogenicità degli agenti chemioterapici Livello

Potenziale emetogenicità

1

No or Minimal (0-10%)

2

LEC* (10-30%)

3

MEC (30-90%)

4

HEC (> 90%)

*LEC = Low Emetogenic Chemotherapy.

in cui sono classificati gli agenti chemioterapici, o, più raramente, le combinazioni. La tabella è frutto di congetture perché oggi non sarebbe 24

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possibile determinare il potenziale emetogeno assoluto di un farmaco in quanto, se sospettato di indurre nausea o vomito, sarebbe non etico somministrarlo senza un’adeguata profilassi antiemetica. Fanno eccezione pochissimi farmaci, tra cui il cisplatino, perché agli esordi della ricerca sugli antiemetici si era constatato che quasi tutti i pazienti cui veniva somministrato vomitavano in assenza di profilassi antiemetica. Nelle linee guida MASCC-ESMO 2010 le combinazioni contenenti antracicline e ciclofosfamide (AC, EC, FAC, FEC), in cui i singoli farmaci erano ritenuti MEC, vennero considerate come HEC. Pertanto, nella Consensus Conference di Copenaghen, queste combinazioni sono state trattate come HEC. Se, da un lato, non ci si può che rallegrare per un errore che è stato corretto, dall’altro questo “esproprio” svuota notevolmente il contenuto della categoria MEC, che oggi consta di soli 14 farmaci (carboplatino, oxaliplatino, irinotecan, così via), e con esso quello di interesse della Commissione III perché, data la grande diffusione delle chemioterapie a base di antracicline e ciclofosfamide, quasi tutti gli studi condotti su agenti della classe MEC comprendono un ampio numero di pazienti cui sono stati somministrati tali trattamenti che ora sono considerati altamente emetogeni, e quindi di pertinenza della Commissione II. In alcuni studi si è proceduto ad un’analisi separata dei pazienti non trattati con ciclofosfamide + antracicline, ma per la diminuita potenza e per l’elevata eterogeneità dei trattamenti ora considerati MEC, raramente sono stati riscontrati risultati utili a definire in modo abbastanza certo e condiviso le LG per questa categoria. Pertanto, la Commissione III ha solo dovuto constatare che la ricerca sui farmaci per il controllo dell’emesi indotta da MEC era quanto mai scarsa e frammentaria e consentiva raramente di giungere a raccomandazioni basate su chiare evidenze. In conclusione, a nostro avviso, la tabella sopra esposta dovrebbe essere in futuro riformulata per tutte le classi, non più considerando una ”emetogenicità assoluta”, ormai ottenibile solo sulla base di opinioni, ma tenendo conto dell’incidenza dell’emesi realmente osservata, cioè condizionata dalla profilassi antiemetica ricevuta. Leggendo i lavori utilizzati per ridefinire le LG di terapia antiemetica ci si rende conto che spesso la scarsa correttezza della metodologia usata ha impedito di individuare esattamente il ruolo dei singoli trattamenti antiemetici, con grave nocumento per la pratica clinica e impedendo alle nuove LG di basarsi su solide evidenze. Dopo una


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sommaria statistica, sono stati individuati due punti nodali, i più frequenti (sebbene non i soli), che hanno inficiato i lavori presi in considerazione; la loro rimozione consentirebbe in futuro di condurre studi i cui risultati potrebbero costituire solide evidenze da utilizzare per i prossimi aggiornamenti delle LG: 1. Inadeguata scelta degli endpoint in relazione al disegno dello studio. 2. Farmaci antiemetici testati in contesti lontani dalla pratica clinica. Ciò ha indotto ad inoltrare a tutti i membri della Consensus Conference un breve documento, riportato nella scheda, in cui si chiede che, al termine dei lavori, la Consensus Conference si concluda con un auspicio per la rimozione di tali gravi difetti dai prossimi studi. Solo Jorn Herrstedt, oncologo a Copenaghen, ha avuto parole di adesione e il grande oncologo americano Larry Einhorn parole di plauso. Com’era nelle previsioni, la Consensus Conference ha completamente ignorato il documento, riconoscendo implicitamente all’industria il diritto di continuare a sbagliare, evidentemente a proprio vantaggio. A difetti metodologici degli studi sugli antiemetici è stata dedicata questa rubrica nel n. 10 di CASCO; qui occorre approfondire le ragioni per cui gli studi che contengono questi due errori non possono fornire risultati attendibili.

1. Inadeguata scelta degli endpoint in relazione al disegno dello studio Per trattare compiutamente l’argomento, occorre fare due premesse. – L’emesi (nausea e/o vomito) acuta (che si manifesta nelle prime 24 ore dalla somministrazione della chemioterapia) è un fenomeno differente dall’emesi ritardata (che si manifesta dopo 24 ore e, in genere, non dura più di 5 giorni). Da un punto di vista fisiopatologico, questa convinzione poggia sugli studi condotti sul modello animale dal fisiologo Andrews1. Da un punto di vista clinico, esistono trattamenti per la prevenzione dell’emesi ritardata diversi da quelli usati per prevenire l’emesi acuta. Le stesse LG di terapia antiemetica tengono ben distinti i due fenomeni. Inoltre, l’emesi acuta ha un impatto differente da quello dell’emesi ritardata sulla qualità di vita del paziente2. – Esiste un effetto dipendenza dell’emesi ritardata dall’emesi acuta, nel senso che la probabilità di soffrire di emesi ritardata varia fortemente con la presenza o meno di emesi acuta. Questo effetto può essere verificato da chiunque abbia a disposizione dati sull’emesi acuta e ritardata, indipendentemente dal tipo di chemioterapia (MEC o HEC) e dalla profilassi antiemetica adottata. A titolo di esempio riportiamo la classificazione di un gruppo di pazienti che abbiano ricevuto una profilassi per prevenire l’emesi indotta da HEC, secondo la presenza o meno di emesi acuta e ritardata (dati verosimili, ma non reali):

Emesi acuta Emesi ritardata

Presente

Assente

Presente

32

28

60

Assente

8

92

100

40

120

160

Totale

Totale

40/160 pazienti hanno sofferto di emesi acuta, 60/160 di emesi ritardata. Il rischio di soffrire di emesi ritardata per un paziente che ha avuto emesi acuta è pari a 32/40 (80%), per un paziente che invece è stato protetto dall’emesi acuta è 28/120 (23,3%). La differenza o il rapporto tra 80% e 23,3% misurano quanto sia forte l’effetto “dipendenza” dell’emesi ritardata da quella acuta. L’“effetto dipendenza” è dovuto ad una pluralità di ragioni, tra cui: a. effetto di trascinamento. All’effetto della profilassi dell’emesi ritardata va ad aggiungersi quello della profilassi dell’emesi acuta che, certo, non si esaurisce alla 24-ma ora, posta convenzionalmente come elemento di separazione tra emesi acuta e ritardata. Si tratta di un effetto di trascinamento (carry-over effect) dell’efficacia della profilassi dell’emesi acuta nella fase ritardata. b. Condizionamento psicologico. Probabilmente esiste un effetto psicologico forse simile a quello che genera l’emesi anticipatoria: chi ha già esperito l’emesi acuta sa (teme) che possa ripresentarsi anche nella fase ritardata e per questo è a maggior rischio di soffrire di emesi ritardata. c. Personale tendenza all’emesi. Verosimilmente ogni paziente ha una propria tendenza all’emesi. Se un paziente ha un’alta propensione ad avere emesi, soffre di emesi acuta ed anche di emesi ritardata. Se un paziente ha una propria bassa propensione ad avere emesi, non soffre né di emesi acuta, né di emesi ritardata. Se si è convinti che il risultato più importante di una ricerca clinica sia identificare, quanto più possibile precisamente, il ruolo dei farmaci nella cura di una malattia, le conseguenze di tali premesse condannano all’inutilità la maggior parte dei risultati dell’attuale ricerca clinica sui farmaci antiemetici, per l’impossibilità di valutare l’effetto di differenti trattamenti sull’emesi ritardata quando siano stati usati differenti regimi per la prevenzione dell’emesi acuta. Infatti, il test statistico usato per la valutazione finale dovrebbe controllare due effetti sistematici: la diversità dei trattamenti contro l’emesi ritardata e l’effetto dipendenza dai risultati ottenuti nella fase acuta; ma ciò è impossibile perché un test statistico è progettato per controllare un solo effetto sistematico. Si potrebbe argomentare che un’analisi multifattoriale, condotta assumendo come fattori il trattamento e la risposta osservata nella fase acuta potrebbe aiutare a migliorare la valutazione del trattamento. Questa affermazione non è del tutto condivisibile perché il modello riesce a spiegare solo in parte la variabilità della risposta osservata in fase ritardata ed è pertanto assai meno accurato di uno studio il cui disegno preveda la stessa profilassi dell’emesi acuta per CASCO — Autunno 2015

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tutti i pazienti (è un po’ come surrogare i risultati di uno studio ad hoc con un’analisi per sottogruppi). Inoltre, anche la severità dell’emesi acuta varia e resta complicato non solo valutarla, ma anche misurarne il peso sull’incidenza dell’emesi ritardata. Comunque, tali analisi sono praticamente assenti in letteratura. Corollari: 1. per valutare l’effetto di diversi trattamenti sull’emesi ritardata occorre che tutti i pazienti ricevano la stessa profilassi dell’emesi acuta. 2. Inadeguatezza degli endpoint composti per la valutazione di efficacia. Spesso si usa un endpoint primario composto, nel senso di valutare la risposta nei giorni 1-5. Sia R la risposta considerata (ad esempio Protezione Completa (CP), o Risposta Completa (CR), o assenza di vomito, e così via). La probabilità di osservare la risposta R nei giorni 1-5 si può scrivere come P(RA 艚 RD), dove RA è la risposta ottenuta nella fase acuta (giorno 1) e RD quella osservata nella fase ritardata (giorni 25); il simbolo “艚” rappresenta l’intersezione (o prodotto logico) dei due eventi, RA e RD, cioè gli eventi RA e RD si presentano nello stesso paziente. In parole più semplici, affinché si possa osservare una risposta nei giorni 1-5, occorre che si sia ottenuta la risposta nel giorno 1 e la risposta nei giorni 2-5 (ad es., se R è assenza di vomito, per osservare assenza di vomito nei giorni 1-5 occorre che ci siano state assenza di vomito nel giorno 1 e assenza di vomito nei giorni 2-5). Usando gli strumenti del Calcolo delle Probabilità si può scrivere P(RA 艚 RD) = P(RA) x P(RD/RA), (1) dove P(RD/RA) è la probabilità di ottenere una risposta nella fase ritardata, condizionata alla risposta già ottenuta nella fase acuta. A titolo di esercizio, ne mostriamo una verifica considerando i dati esposti nella tabella sopra riportata. P(RA 艚 RD) = 92/160 (no emesi acuta e no emesi ritardata); P(RA) = 120/160 (no emesi acuta); P(RD/RA) = 92/120 (no emesi ritardata dato che non si è avuta emesi acuta): eseguendo le operazioni indicate nella (1) si giunge all’identità. Dalla (1) si evince che la probabilità di osservare una risposta nei giorni 1-5 dipende dalla probabilità di ottenere una risposta nella fase ritardata, condizionata alla protezione ottenuta al giorno 1 (premiando così il trattamento più efficace in fase acuta) e, quindi, va incontro alle critiche esposte al punto precedente. In altre parole, quando siano usate differenti profilassi per prevenire l’emesi acuta, un endpoint R nei giorni 1-5 soffre degli stessi problemi derivanti dalla impossibilità di valutare R nella fase ritardata: l’uso di R nei giorni 1-5 apparentemente semplifica, ma di fatto è inattendibile. 3. Quando si usano diversi trattamenti per prevenire l’emesi acuta, il solo risultato inoppugnabile è la valutazione di efficacia differenziale dei trattamenti nella prevenzione dell’emesi acuta. 26

CASCO — Autunno 2015

2. Farmaci antiemetici testati in contesti lontani dalla pratica clinica Quando è provato che la profilassi antiemetica debba basarsi su una combinazione di farmaci, non ha alcun senso procedere a sperimentazioni testa-a-testa tra due diversi agenti omologhi, perché nessuno può assicurare che la diversa (o uguale) efficacia trovata si conservi quando siano presenti gli altri farmaci della combinazione. In altre parole, supponiamo che sia stato provato che la combinazione A + B + C (ad es., 5-HT3 antagonista + NK-1 antagonista + steroide) sia la profilassi che abbia mostrato la massima efficacia nella prevenzione dell’emesi. I risultati di uno studio testa-a-testa tra due farmaci omologhi, A1 e A2 (ad esempio tra due diversi 5-HT3 antagonisti), non hanno alcun valore per la pratica clinica in quanto nessuno può assicurare che la differenza riscontrata (o la dimostrata uguale efficacia) si mantenga quando siano somministrati anche gli altri farmaci della combinazione (B e C). Pertanto, il modo corretto di procedere, l’unico utile per la pratica clinica, è sperimentare (A1 + B + C) vs (A2 + B + C). Nella ricerca clinica sui farmaci antiemetici questo è un problema atavico. Soprattutto l’Italian Group for Antiemetic Research (IGAR) lo ha affrontato in maniera rigorosa provando che a. sostituendo ondansetron alla metoclopramide, entrambi in associazione con desametasone, la combinazione contenente il 5-HT3 antagonista era più efficace3; b. granisetron aveva la stessa efficacia di ondansetron quando somministrati entrambi in associazione con desametasone4. È un problema antico che oggi si è purtroppo diffuso enormemente e si manifesta in tutta la sua gravità coinvolgendo pazienti, clinici, conoscenza scientifica perché, oltre ai problemi metodologici sopra delineati, tali studi presentano anche problemi etici. Infatti, se si sperimentano testa-atesta 2 diversi 5-HT3 antagonisti, tutti i pazienti arruolati sono privati del miglior trattamento disponibile (contenente anche un NK-1 antagonista e un corticosteroide); se si sperimenta un NK-1 antagonista vs un “controllo attivo” che non lo contiene, la metà dei pazienti in studio è privata del miglior trattamento disponibile. Tali problemi mettono in discussione non solo l’operato degli specialisti che hanno programmato lo studio, ma anche il ruolo dei comitati etici che ne hanno approvato il protocollo, ed hanno conseguenze nefaste sulla pratica clinica sia per l’incertezza che determinano nel momento della decisione terapeutica, sia per le difficoltà che producono al momento della definizione di LG di terapia antiemetica. Conclusioni A che punto siamo con la terapia antiemetica? È stata fatta molta strada da quando (praticamente) tutti i pazienti sottoposti a cisplatino vomitavano. E che vomito! Definendo due distinti episodi di vomito come separati da almeno un minuto l’uno dall’altro, dai dati che abbiamo elaborato nei primi studi, nei pazienti che non ricevevano una profilassi antiemetica, si osservavano, in media, circa 30 epi-


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SCHEDA

Documento condiviso tra gli autori della rubrica inviato da Enzo Ballatori a tutti i membri della Consensus Conference In defining antiemetic guidelines we need results of studies that identify the role of each antiemetic prophylaxis as precisely as it is possible. Unfortunately the large majority of the published studies are affected by one or more shortcomings that make the obtained results scarcely useful for the purpose. Two are the most frequent criticisms that can be made to these studies: a. inadequate choice of the endpoints in relationship with the study design; b. the antiemetic drugs are tested in a context far from that of daily clinical practice, i.e., not coincident with that recommended by the antiemetic guidelines. For what concerns point (a), I set two hypotheses, founded on the results obtained in several years of antiemetic research, and, then, I derive logical and methodological consequences. Hypotheses (that should be shared by all researchers in this field). 1. Acute and delayed ChemotherapyInduced Nausea and Vomiting (CINV) are different phenomena because: a. they are produced by different patho-physiological mechanisms (as was shown by Andrews (1994) using animal models); b. they need different therapeutical strategies; c. they have a different impact on the patient’s daily life. 2. Both the incidence and severity of delayed CINV are dependent on the CINV observed in acute phase. In fact, it was shown in several studies that the presence of acute CINV is the most important prognostic factor of delayed CINV.

Furthermore, the cut-off between acute and delayed CINV is set to 24 hours, and no one can think that the effect of prophylactic antiemetic regimen against acute CINV stops really at the 24th hour; in other words, the dependence of delayed on acute CINV is due at least in part to a carry-over effect of the efficacy of drugs administered to prevent acute CINV on the delayed phase. Moreover, the dependence effect may also be due to a psychological mechanism generated from the fact that CINV has been already experienced in acute phase, mechanism that may be similar to that involved in anticipatory CINV. Consequences When the administered treatments against acute CINV are different between the two arms, the assessment of the differential efficacy of two antiemetic prophylaxes of delayed CINV is practically impossible because there are two systematic effects to be controlled: the different efficacy of the two treatments and the dependence effect, while it is known that a statistical test can control only one systematic effect. The use of multifactorial statistical models can add some important information, but it is unable to give definitive results. The following statements can be seen as corollary to this situation: 1. When the aim of a study is the differential efficacy of two antiemetic regimen on delayed phase, all patients should receive the same prophylaxis of acute emesis. 2. When the two arms of the study are treated with a different prophylaxis of acute emesis the conclusions about delayed CINV are purely descriptive, and do not give information useful from a clinical point of view. 3. When the two arms receive a different antiemetic prophylaxis of acute CINV, the composite

responses (f.i., CINV in day 1-5) should be avoided because they incorporate information on delayed CINV that cannot be obtained in this context. Moreover, despite of its apparent simplicity, the use of a composite response is confusing because does not allow us to detect the role of the antiemetic treatment in daily clinical practice. 4. When the two arms are treated with a different antiemetic prophylaxis of acute emesis, the only reliable results of the study concern the effectiveness in acute phase. The second criticism (b) is related to the comparisons between two single drugs when the antiemetic guidelines recommend the use of a combination as antiemetic prophylaxis. This type of studies should be avoided for both methodological and ethical reasons. Ethical reasons: all patients enrolled in these studies do not receive the treatment recommended by the antiemetic guidelines. Methodological reasons: no one can know if the observed difference can be maintained when other antiemetic agents are administered. Furthermore, these studies are performed in a context different from that of the daily clinical practice, and therefore they cannot give useful results. Therefore, my conclusion is that the results of these studies should not considered in defining antiemetic guidelines. The main aim of these considerations is to ask to all participants to the Consensus Conference, who are the most leading researchers in this field, to share them and to take a stand against these evident shortcomings that today affect the large majority of the antiemetic studies. •

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sodi di vomito nel primo giorno dopo la somministrazione del cisplatino, numero che in alcuni pazienti giungeva a superare i 50 episodi. L’impatto sulla qualità di vita era così devastante che molti pazienti rifiutavano di sottoporsi ai successivi cicli di chemioterapia. In seguito, Richard Gralla suggerì di usare alte dosi di metoclopramide. Le temute reazioni extrapiramidali furono successivamente controllate in modo soddisfacente con la difenidramina, così che metoclopramide + desametasone + difenidramina divenne il trattamento standard e garantiva il 50-60% di protezione dal vomito acuto da cisplatino. Successivamente furono introdotti i 5-HT3 antagonisti che portarono la protezione dal vomito a circa il 65-70%. Vennero, infine, gli NK-1 antagonisti che aumentarono la protezione dal vomito di un 12-15%, portandola a circa l’80% e, in alcuni studi, anche oltre. Con il regime NK-1 antagonista + 5-HT3 antagonista + desametasone, anche la severità del vomito era considerevolmente diminuita; tuttavia, anche con tale profilassi, l’emesi (nausea e vomito) aveva un notevole impatto sulla qualità di vita del paziente2. Ci si può dunque ritenere così soddisfatti da tali risultati (anche pensando che l’impatto dell’emesi sulla qualità di vita del paziente dura solo pochi giorni) da chiedersi come mai si investa ancora tanto in (cattiva) ricerca sugli antiemetici e non si dirottino invece le risorse in altri settori delle terapie di supporto o in altri campi della Medicina che ne hanno un maggior bisogno. Resta però un problema aperto: la nausea. Scarso è l’interesse della ricerca di base su questo sintomo (perché è più difficile da studiare rispetto al vomito) e inadeguati sono gli strumenti adottati per valutarla nella ricerca clinica, perché per lo più ci si limita a misurarne la massima intensità (con analoghi visivi o con scale di Likert), ma quasi mai la durata che invece, come si è dimostrato2, è ciò che maggiormente impatta sulla qualità di vita del paziente.

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CASCO — Autunno 2015

Abbiamo incentrato la presente nota sui due errori più frequenti nell’attuale ricerca clinica sugli antiemetici; sebbene ce ne siano altri (v. “Casi clinici” in CASCO 10), l’eliminazione di questi due contribuirebbe ad identificare molto meglio il ruolo degli agenti antiemetici a tutto vantaggio dell’aggiornamento delle future LG e, quindi, della pratica clinica. In sede di formazione delle LG, le controversie vertono spesso su come considerare i risultati degli studi che sono affetti da tali due errori. Chi sostiene l’accettabilità dei risultati malgrado la loro presenza cerca di degradare la discussione a livello di differenze di opinioni. Ma non è così: da una parte c’è una posizione basata sul metodo scientifico, dall’altra c’è incompetenza nella ricerca clinica sui trattamenti antiemetici o, talvolta, adeguamento a “certe” strategie dell’industria. Resta comunque da chiedersi perché eseguire una cattiva ricerca, quando se ne potrebbe fare una buona. Lasciamo la risposta alla riflessione dei lettori, ricordando che, comunque, i costi della ricerca clinica, buona o cattiva che sia, ricadono sull’intera società. •

Bibliografia 1. Andrews PLR. The Mechanism of emesis induced by chemotherapy and radiotherapy. in “antiemetics in the supportive care of cancer patients”. Tonato M (Ed.). ESO Monographs. Heidelberg: Springer, 1996; 3-24. 2. Ballatori E, Roila F, Ruggeri B, et al. The impact of chemotherapy-induced nausea and vomiting on health-related quality of life. Support Care Cancer 2007; 15: 179-85. 3. The Italian Group for Antiemetic Research. Ondansetron + dexamethasone vs metoclopramide + dexamethasone + diphenhydramine in prevention of cisplatin-induced emesis. Lancet 1992; 340: 96-9. 4. The Italian Group for Antiemetic Research. Ondansetron versus Granisetron, both combined with dexamethasone, in the prevention of cisplatin-induced emesis. Ann Oncol 1995; 6: 805-10.


Statistica per concetti

Concetto ed interpretazione di indici statistici: medie e asimmetria

essendo l’altro la relazione di causalità. Tali strumenti sono irrinunciabili per comprendere e vanno estesi al campo dei fenomeni collettivi, dove però si incontra una complicazione in più – la variabilità – che ne indebolisce la struttura.

Riassunto Sono stati sviluppati i concetti e l’interpretazione della media aritmetica e della mediana senza introdurre formule matematiche. Inoltre, dal confronto tra tali indici statistici si è ricavato un semplice indicatore di asimmetria, utile per acquisire ulteriori conoscenze sulla distribuzione statistica considerata. Parole chiave. Media, mediana, simmetria, asimmetria.

Summary

Concepts and interpretations of statistical indices: means and asymmetry Concept and interpretation of both mean and median have been developed without introducing mathematical formulas. Moreover, a useful index of asymmetry was derived from the relationship between mean and median. Key words. Mean, median, symmetry, asymmetry.

Negli articoli scientifici che riportano i risultati di studi clinici compaiono i valori di indici statistici che, in assenza di una preparazione specifica del Lettore, sono interpretati su base intuitiva. Inoltre, spesso non sono sfruttate tutte le caratteristiche e le relazioni tra gli indici che consentono di acquisire informazioni importanti ai fini della comprensione della struttura dei fenomeni oggetto di studio. Scopo della presente nota è dare conoscenze abbastanza rigorose, pur senza fornire l’alibi dell’impedimento a comprendere per via di una insufficiente preparazione matematica. La Statistica è stata anche definita “Scienza del confronto” perché consente di comparare differenti popolazioni rispetto ad importanti caratteristiche: è anzitutto dal confronto che scaturisce la conoscenza. Ad esempio, sapere che, per un certo tipo e stadio di tumore, curato con un determinato trattamento, A, la sopravvivenza mediana è di 8 mesi nulla ci dice sull’efficacia di A finché non la confrontiamo con quella riscontrata con un’altra terapia, B (con cui si ottiene, poniamo, una sopravvivenza mediana di 10 mesi). Supponendo che tali risultati siano stati acquisiti con uno studio clinico dal disegno rigoroso e da una conduzione ineccepibile, se una differenza continua a persistere anche una volta che è stata aggiustata per la variabilità

accidentale, possiamo concludere che B è più efficace di A. La Statistica si occupa di fenomeni collettivi, cioè di quei fenomeni che si presentano in modo diverso nelle unità della popolazione. La maggior complessità dei fenomeni collettivi rispetto a quelli deterministici, cioè a quelli che si manifestano sempre allo stesso modo in tutte le unità, discende appunto dalla variabilità. Esempio di fenomeno deterministico: “Non c’è bisogno della Statistica per sapere quante volte il taglio del nervo sciatico produce la paralisi dei muscoli da questo innervati” scriveva Claude Bernard nella sua “Introduzione alla Medicina Sperimentale”. Il confronto è uno dei due pilastri su cui si fonda il metodo scientifico,

Nel campo dei fenomeni deterministici è assai semplice eseguire un confronto. Ad esempio, dati due soggetti, il primo alto cm 182 e il secondo cm 176, sappiamo che il primo è più alto del secondo e che la sua statura è di 6 cm superiore. Se ci ponessimo la stessa domanda per due collettivi di soggetti, ad esempio, se considerassimo i ragazzi e le ragazze di 18 anni di età di una certa scuola, e volessimo sapere quale dei due gruppi è “più alto”, la domanda resterebbe priva di risposta perché vi sono alcuni maschi che sono più alti di alcune ragazze, ma ci sono anche alcune ragazze più alte di alcuni maschi. La domanda corretta è allora: sono complessivamente più alti i ragazzi o le ragazze? Il che indurrebbe, in prima battuta, a sommare le stature dei ragazzi e a confrontare il risultato con la somma delle stature delle ragazze. Quando si confrontano le intensità o le frequenze di due (o più) fenomeni collettivi esistono uno o più fattori di disturbo il cui effetto va eliminato per rendere corretto il confronto. L’effetto del fattore di disturbo più importante si elimina con il rapporto R = A/B, dove A è il fenomeno la cui intensità (o frequenza) si intende confrontare e B è l’intensità (o la frequenza) del fattore di disturbo. Nell’esempio, il più importante fattore di disturbo è la diversa numerosità dei due gruppi, che va eliminata con un rapporto per rendere corretto il confronto (altrimenti è ovvio che solo il diverso numero di soggetti che compongono i due gruppi potrebbe essere responsabile della maggiore o minore statura complessiva). Si tratta, quindi, di dividere la somma delle stature dei CASCO — Autunno 2015

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ragazzi per il numero dei ragazzi e la somma della stature delle ragazze per il numero delle ragazze. Ad esempio, se la somma delle stature dei ragazzi fosse pari a cm 21.120 e quella della ragazze cm 33.600, dividendo tali somme di stature, rispettivamente, per il numero dei ragazzi (120) e per quello delle ragazze (200), si ha, per i ragazzi, cm 176 e, per le ragazze, cm 168.

Altri tipi di rapporti statistici Ci sono moltissimi altri tipi di rapporti statistici che possono interpretarsi come descritto sopra. A titolo di esempio, ne esponiamo due.

Considerando i sopravviventi a due anni, in uno studio clinico randomizzato di confronto tra due trattamenti, A e B, sono stati registrati 150 sopravviventi con il trattamento A e 240 con B. Il confronto tra questi due dati (conteggi o frequenze assolute) sarebbe corretto se i due gruppi fossero ugualmente numerosi. Se così non è, allora per poter eseguire un confronto corretto delle frequenze assolute bisogna eliminare l’effetto del più importante fattore di disturbo (diversa numerosità). Se i pazienti trattati con A sono complessivamente 300 e quelli trattati con B 600 (ad esempio nel caso di una randomizzazione 1:2), i corrispondenti rapporti valgono R(A) = 150/300 = 0,5 e R(B) = 240/600 = 0,4. Tali valori si chiamano frequenze relative (proportions) e moltiplicati per 100 danno le più note percentuali. In conclusione, se lo studio è stato adeguatamente programmato e ben condotto, e se una differenza permane dopo aver aggiustato per la variabilità accidentale, si può concludere che il trattamento A è più efficace di B. b. Quoziente di natalità. La domanda è: c’è una tendenza a nascere di più nella regione A o nella regione B? La prima idea è confrontare il numero dei nati delle due regioni in un certo anno, ma ci si accorge subito che tale confronto è affetto da vari fattori di disturbo il più importante dei quali è la dimensione della popolazione, in quanto da essa provengono i nati. Si costruiscono allora i rapporti Q(A) = [N(A)/P(A)] x 1000 e Q(B) = [N(B)/(P(B)] x 1000, dove N(A) e N(B) sono i nati nelle due regioni in un certo anno e P(A) e P(B) il numero degli abitanti. I valori così ottenuti si chiamano quozienti generici grezzi di natalità ed esprimono quanti sono, in media, i nati nelle due regioni per ogni 1000 abitanti.

a. Frequenze relative. Sia dato un gruppo di pazienti, affetti tutti dalla stessa neoplasia allo stesso stadio.

Warning: nella costruzione di un rapporto occorre prestare molta attenzione a che il fenomeno, la cui

Il risultato del rapporto R = A/B esprime quanta parte di A spetta (compete), in media, ad ogni unità di B, dove “in media” significa che, se tutte le unità di B fossero ugualmente dotate dell’intensità (o della frequenza) di A, allora R rappresenta quanto competerebbe a ciascuna di loro. Considerando i dati dell’esempio, se tutti i ragazzi fossero ugualmente alti, ciascuno di loro sarebbe alto cm 176; se le ragazze avessero la stessa statura, ciascuna di loro sarebbe alta cm 168. È come se avessimo “costruito” un ragazzo e una ragazza “tipo”, ossia un rappresentante di ciascun gruppo, riconducendoci così alla soluzione deterministica del confronto tra due stature. Possiamo quindi concludere che i ragazzi sono mediamente più alti delle ragazze di cm 8. Quella calcolata nell’esempio è la statura media. In generale la media aritmetica, o più semplicemente “media” (per antonomasia, data la sua importanza), si ottiene rapportando l’ammontare totale del carattere (ossia la somma delle intensità individuali) al numero delle unità della popolazione.

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CASCO — Autunno 2015

intensità (o frequenza) è posta a denominatore, sia proprio il fattore di disturbo più importante, altrimenti si può giungere a conclusioni aberranti. Ad esempio, a qualcuno è venuto in mente di confrontare l’abilità e la prudenza alla guida degli uomini e delle donne considerando il numero degli incidenti in cui sono stati coinvolti come guidatori. È evidente che non è sufficiente confrontare il solo numero di incidenti ma che occorra tener conto di fattori di disturbo, per cui gli analisti che hanno pubblicato i dati hanno diviso, in ciascuno dei due gruppi, il numero degli incidenti per il numero dei patentati. Ne è risultato che il numero medio di incidenti per patente era più alto per gli uomini che per le donne; da ciò conclusero che le donne guidano meglio degli uomini. Appena fu pubblicata, la notizia rimbalzò in tutti i telegiornali delle varie reti televisive (ed ancora oggi, seppur raramente, ancora se ne parla). In realtà l’esposizione al rischio di incidente è misurata soprattutto dalla percorrenza chilometrica; quindi un corretto rapporto avrebbe dovuto avere a denominatore non già il numero di patentati, ma la distanza media realmente percorsa in un anno da ciascuno dei due generi. Il confronto eseguito sarebbe stato corretto solo sotto l’inverosimile ipotesi che uomini e donne percorrano mediamente un’analoga distanza; ma si può asserire che così non è, conoscendo il differente uso dell’auto da parte dei due generi. La mediana Possono essere costruite infinite altre medie che, come la media aritmetica, si calcolano eseguendo operazioni su tutti i termini della distribuzione; tali medie sono dette analitiche. Vi sono però anche infinite medie lasche che sono calcolate considerando la posizione che certi valori hanno all’interno della graduatoria (ossia della distribuzione ordinata, ad es., in senso crescente) o per il significato che certi termini


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esprimono. La più importante tra queste è la mediana che viene definita come il termine che bipartisce la graduatoria lasciando a sinistra lo stesso numero di termini che lascia a destra. Si chiama graduatoria una distribuzione ordinata, ad es., in senso crescente (o meglio non decrescente, v. CASCO 9, Statistica per concetti 2). Per calcolare la mediana, come prima cosa, occorre trasformare la distribuzione in graduatoria. Poi si va a vedere qual è il termine che la divide in due parti ugualmente numerose. Esempio: calcolo della mediana. Siano state eseguite 5 determinazioni di glicemia su altrettanti pazienti diabetici alla diagnosi: 140, 180, 320, 240, 210. La corrispondente graduatoria (crescente) è: 140, 180, 210, 240, 320. Il valore mediano di glicemia tra i 5 pazienti è 210. Nel caso di un numero di termini pari, non c’è più una sola mediana, ma qualunque valore dell’intervallo più interno (detto intervallo mediano) può essere assunto come mediana. Solo convenzionalmente si assume per mediana la semisomma degli estremi dell’intervallo mediano. Graduatoria: 140, 180, 210, 250, 280, 320. Intervallo mediano: 210 --250; mediana è qualunque valore tra 210 e 250 (estremi inclusi). Mediana convenzionale = (210 + 250)/2 = 230. Esistono infinite altre medie simili alla mediana, dette “quantili”. In una graduatoria, ogni quantile lascia alla sua sinistra una certa quantità di termini ed alla sua destra la restante quantità. Tra i quantili, i più importanti nelle applicazioni mediche sono i centili (o percentili, molto usati in Pediatria e in Auxologia per individuare il normale accrescimento, definito in Italia come l’intervallo compreso tra il 3° e il 97° percentile). I percentili sono 99: il primo lascia alla sua sinistra l’1% dei termini ed alla sua destra il restante 99%; il secondo percentile lascia a sinistra il 2% dei termini ed alla sua destra il restante 98%; … ; il 99° percentile lascia a sinistra il 99% dei termini ed a destra il

restante 1%. Il 100° percentile lascerebbe a sinistra il 100% dei termini: quindi, non essendo univocamente determinato, nel senso che di “centesimi centili” ce ne sono infiniti, non ha interesse. Si osservi che la mediana coincide con il 50° percentile. Applicazioni della mediana Quando la media aritmetica non può essere calcolata, è opportuno determinare la mediana. Esempi: – Scale ordinali: se il fenomeno oggetto di interesse è collocabile su una scala ordinale (v. CASCO 9, Statistica per concetti 2) la media aritmetica non può essere calcolata perché i termini della distribuzione non sono intensità – esprimibili con numeri – ma attributi (cioè aggettivi) e, quindi, non è possibile sommarli. In tal caso si determina la mediana. – Sopravvivenza: al momento della chiusura di uno studio clinico avente come endpoint la sopravvivenza, ci possono essere pazienti ancora in vita, ma non si sa per quanto tempo ancora. In tal caso, non è possibile calcolare la sopravvivenza media (perché, per farlo sono richieste le durate di vita di tutti i pazienti che vanno sommate), ma spesso è possibile determinare la sopravvivenza mediana. Interpretazioni: esempi – In un gruppo di pazienti ipertesi alla diagnosi, la pressione diastolica media è pari a 104 mmHg e la mediana a 98 mmHg. Ciò vuol dire che, se tutti i pazienti considerati avessero la stessa pressione diastolica, questa sarebbe pari a 104 mm/Hg. Inoltre, 98 mm/Hg è quel valore di pressione diastolica tale che la metà dei pazienti considerati ne ha uno più basso e l’altra metà uno più alto. – Vita media e vita mediana. L’ISTAT (Istituto Centrale di Statistica) ha calcolato che, per le donne italiane, la vita media alla nascita (expectation of life, speranza di

vita) è pari a 84 anni e la vita mediana pari a 82 anni. Quindi, se tutte le bambine che nascono oggi avessero la stessa durata di vita, questa sarebbe pari a 84 anni; invece, 82 anni è quell’età tale che la metà delle bambine che nascono oggi morirà prima e l’altra metà dopo. Asimmetria di una distribuzione Una distribuzione statistica, trasformata in graduatoria, si dice simmetrica se, stabilito un centro di simmetria (che si assume essere la mediana, proprio per la sua definizione), per ogni termine a sinistra della mediana, ne esiste uno ed uno solo a destra avente la stessa distanza dalla mediana. Esempi 1. Nella distribuzione: 5, 7, 9, la mediana è 7. La distanza di 5 da 7 è |5 – 7| = 2. La distanza di 9 da 7 è ancora 2: la distribuzione è simmetrica. 2. La distribuzione 5, 7, 21 non è simmetrica in quanto la distanza di 5 dalla mediana 7 è 2, mentre quella di 21 da 7 è 14. Nell’esempio (1) si può osservare che la media aritmetica è uguale a 7 [= (5 + 7 + 9)/3], cioè alla mediana, e non è un caso, potendosi dimostrare che, se la distribuzione è simmetrica, la media coincide sempre con la mediana. Osservando i dati dell’esempio (2), senza fare calcoli, si può asserire che la media è maggiore della mediana, in quanto il termine “21” conta “uno” (è un termine solo, come 5) ai fini della determinazione della mediana, ma ha un peso ben maggiore di 5 quando si calcola la media. Infatti, svolgendo i calcoli, si ha mediana = 7, media = 11. 3. Confrontiamo la distribuzione 1, 7, 9 con quella dell’esempio (1). Si può osservare che anch’essa è asimmetrica, ma per un ragionamento analogo a quello fatto sopra, ci si attende che la media sia inferiore alla mediana. Infatti, la mediana è sempre 7, ma la media, stavolta, è 17/3 = 5,67, minore della mediana. CASCO — Autunno 2015

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In sintesi, se la distribuzione è simmetrica allora la media coincide con la mediana. Attenzione: non vale il viceversa; non è detto, cioè, che se la media coincide con la mediana la distribuzione sia simmetrica: potrebbe esserlo o non esserlo. Però, se la media non è uguale alla mediana la distribuzione è certamente asimmetrica. In questo caso, se la media è maggiore della mediana [come nell’esempio (2)], l’asimmetria si dice positiva, se la media è inferiore alla mediana, si parla di asimmetria negativa. Quindi, un pratico indicatore di asimmetria scaturisce dal confronto tra media e mediana: AS = media – mediana. Se AS è maggiore di zero,

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CASCO — Autunno 2015

l’asimmetria si dice positiva ed è caratterizzata dalla presenza di pochi termini molto più grandi degli altri. Invece, quando AS è minore di zero, si parla di asimmetria negativa che è caratterizzata dalla presenza, nella distribuzione, di pochi termini molto più piccoli degli altri. Infine, se è AS = 0, si hanno poche informazioni: la distribuzione potrebbe essere simmetrica o asimmetrica. Interpretazione In entrambi gli esempi riportati in precedenza (pressione diastolica e vita media) la media è superiore alla mediana. Si tratta quindi di due casi di asimmetria positiva che può essere

interpretata come dovuta, nel primo esempio, alla presenza di pochi pazienti con una pressione molto più alta di quella misurata negli altri, nel secondo esempio, a poche donne che sopravvivono molto più a lungo delle altre (ad es. le ultracentenarie). In conclusione, poiché media e mediana sono calcolate da tutti i programmi statistici (ed anche da EXCEL), il loro confronto offre, a pochissimo prezzo, un’utile informazione su un rilevante aspetto della distribuzione, l’asimmetria, che contribuisce a descrivere ancor più precisamente la distribuzione. Enzo Ballatori



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