Casco Autunno 2016

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Periodico trimestrale riservato alla classe medica edito in collaborazione con

Autunno 2016

Via Vitorchiano 151 – 00189 Roma Tel 06 36 19 11 – Fax 06 36 380 311 www.msd-italia.it Numero verde 800 23 99 89 Autunno 2016 Registrazione del Tribunale di Roma in corso Direzione scientifica: Fausto Roila Enzo Ballatori Gruppo editoriale: Claudia Caserta Sonia Fatigoni Guglielmo Fumi Azienda Ospedaliera di Terni Il Pensiero Scientifico Editore Via San Giovanni Valdarno 8 00138 Roma Tel 06 862 821 – Fax 06 862 82 250 Internet: www.pensiero.it Stampa: Ti Printing, Roma Dicembre 2016 Direttore responsabile: Giovanni Luca De Fiore Redazione: Manuela Baroncini Progetto grafico: Antonella Mion Prezzo: Fascicolo singolo €15,00

Le nuove linee guida di terapia antiemetica: luci, ma anche molte ombre.

In questo numero EDITORIALE

GESTIONE EVENTI AVVERSI

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Le nuove linee guida di terapia antiemetica Enzo Ballatori, Fausto Roila

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IL PUNTO SU...

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Turbe cognitive e trattamento nel paziente neoplastico Milena Vitali, Marina Garassino Disordini elettrolitici associati al cancro (ipo-ipersodiemia, ipo-iperpotassiemia, ipo-ipermagnesemia) Vincenzo Minotti, Chiara Bennati

Tossicità da osimertinib e necitumumab Elisa Minenza Tossicità da S-1 e TAS-102 Guglielmo Fumi

CASI CLINICI

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PRO-sit! Enzo Ballatori, Fausto Roila

STATISTICA PER CONCETTI

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Mettiamo un po’ d’ordine… e parliamo di dipendenza Enzo Ballatori

I contenuti pubblicati dalla rivista rispecchiano le opinioni degli Autori e non necessariamente quelle dell’Editore o della MSD Italia S.r.l. Ogni farmaco menzionato deve essere usato in accordo con il relativo riassunto delle caratteristiche del prodotto fornito dalla ditta produttrice.

In copertina: Jarl Ingvarsson, Road at night, (1995).

ONCO-1189198-0001-EMD-PU-11/2018


Editoriale

Le nuove linee guida di terapia antiemetica

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a 4a Consensus Conference sulla terapia antiemetica organizzata congiuntamente dal MASCC e dall’ESMO si è tenuta a Copenaghen il 28 giugno u.s. Il panel era composto da 39 membri (contro i 23 della Consensus Conference precedente) di cui 22 dichiaravano di aver preso emolumenti dall’industria negli ultimi 3 anni e 17 di non averne ricevuti. Le raccomandazioni, pubblicate in forma di diapositive sul sito web del MASCC (di libero e semplice accesso), nonché la procedura con cui si è pervenuti a formularle, ci consentono di fare alcune importanti considerazioni utili a stimolare una riflessione sullo stato attuale della ricerca clinica nel campo degli antiemetici.

1. La ricerca indipendente dall’industria farmaceutica in questo settore è ormai ridotta al lumicino. In particolare, se si escludono gli studi del Gruppo Italiano per la Ricerca sugli Antiemetici (IGAR), che hanno in qualche modo condizionato le linee guida sulla prevenzione dell’emesi ritardata da chemioterapie a base di cisplatino o di antracicline + ciclofosfamide in donne con cancro della mammella1,2, la produzione scientifica indipendente si caratterizza per studi mal programmati, eseguiti con pochissimi fondi (spesso studi pilota), incapaci di dare risposta ai quesiti clinici ancora aperti nel campo della terapia antiemetica. Da questo punto di vista è paradigmatica la ricerca sull’olanzapina che blocca vari recettori coinvolti nell’induzione della nausea e del vomito da chemioterapia (i recettori 5-HT3, D1 e D2, i muscarinici, gli H1 e H2, ecc.). L’olanzapina, farmaco ormai senza brevetto usato in psichiatria (si ricordi che l’ondansetron – zofran – era stato inizialmente sviluppato per la cura della schizofrenia), ha suscitato l’interesse di chi si occupa di antiemetici in seguito alla pubblicazione di risultati assai positivi, ma preliminari, in pazienti con nausea e vomito refrattari (v. la rubrica “Casi clinici” in CASCO 5 e 4, anche per riguardare i canoni di una corretta ricerca clinica sugli antiemetici). I risultati conseguiti con questi primi studi sembrano addirittura mostrare un’attività anti-nausea e, com’è noto, il controllo della nausea, soprattutto quella ritardata indotta da chemioterapia (ma anche da oppiacei, da interventi chirurgici, da radioterapia), è uno dei problemi irrisolti del trattamento antiemetico. Purtroppo l’interesse dell’industria farmaceutica a sviluppare questa molecola anche come antiemetico è stato nullo (brevetto scaduto). Pertanto gli studi indipendenti eseguiti per dimostrare l’efficacia, la tollerabilità e il ruolo dell’olanzapina rispetto ai farmaci antiemetici già disponibili sono stati mal pianificati, spesso non eseguiti in doppio-cieco (la nausea è un sintomo soggettivo e la conoscenza del trattamento cui il paziente è sottoposto 4

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può influenzare i risultati) e con problemi metodologici rilevanti così da renderli non in grado di impattare sulle linee guida di Copenhagen. Se veramente vogliamo fare gli interessi del paziente – che coincidono con quelli del SSN, dato il basso costo del farmaco – è necessario che l’AIFA finanzi uno o più trial i cui risultati potrebbero migliorare il controllo della nausea e del vomito e ridurre fortemente i costi del trattamento antiemetico (l’olanzapina costa pochissimo rispetto ai 5-HT3 di seconda generazione ed ai nuovi NK1 antagonisti). Tra le raccomandazioni vi è un’unica diapositiva sull’olanzapina, in cui si consiglia il farmaco sulla base dell’unico studio di confronto disponibile tra olanzapina e metoclopramide nel controllare l’emesi refrattaria (breakthrough emesis), cioè la nausea ed il vomito insorto nonostante la somministrazione della miglior terapia antiemetica3. Anche questo studio (discusso in forma di abstract nella rubrica “Casi clinici” in CASCO 5, quando ancora non era stato pubblicato), purtroppo, presenta importanti limiti uno dei quali è che entrambi i farmaci venivano somministrati per via orale, mentre è noto che se un paziente presenta vomito o nausea intensa un trattamento di salvataggio va somministrato per via parenterale perché per via orale indurrebbe ancora più nausea o vomito. Di conseguenza, 2. la Consensus Conference ha esaminato quasi soltanto i risultati di studi sponsorizzati dall’industria farmaceutica. Larga parte della discussione si è incentrata sui nuovi NK1 antagonisti (netupitant, commercializzato in una singola compressa associato al palonosetron, e rolapitant, al momento approvato solo dalla FDA). Migliaia di pazienti sono stati coinvolti in studi di discutibile eticità (almeno 5) condotti per dimostrare quanto già era noto dal 2003 e cioè che l’aggiunta di un NK1 antagonista, l’aprepitant, a desametasone + un 5-HT3 antagonista (l’ondansetron o il granisetron) aumenta la percentuale di risposte complete (no vomito né trattamento di salvataggio antiemetico) sia nei giorni 1 che nei giorni 2-5 e 1-5 dopo chemioterapia con cisplatino o con antracicline più ciclofosfamide, quest’ultima somministrata a donne affette da carcinoma della mammella. In questo editoriale, non vogliamo entrare nel merito del ruolo che hanno le agenzie regolatorie a livello internazionale (FDA ed EMA prima di tutte) nel pianificare insieme all’industria studi che servono solo a dimostrare ciò che è nell’interesse dell’industria farmaceutica (del resto non è da oggi che le riviste internazionali più serie quali


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il British Medical Journal e il JAMA sostengono che le agenzie regolatorie, vivendo per il 70% del loro fatturato con i soldi che l’industria paga per esaminare i dossier dei nuovi farmaci, dipendono di fatto dall’industria farmaceutica), né del ruolo assolutamente secondario svolto ormai dai Comitati Etici, che, forse per mancanza di conoscenze specifiche, approvano studi non etici quali quelli sopra esposti. In questa sede, vogliamo invece parlare del paziente oncologico, arruolato in tali studi, che viene informato e firma il consenso. Se il consenso fosse davvero “informato”, non riusciremmo ad immaginare quale paziente possa aver acconsentito a partecipare allo studio sapendo che la metà dei pazienti arruolati sarà sottoposto ad un trattamento antiemetico ormai desueto come la combinazione di un 5-HT3 antagonista più desametasone, senza un NK1 antagonista, che determinerà un 10-20% di protezione in meno rispetto al regime antiemetico standard con cui sarebbe trattato se non partecipasse allo studio. Vogliamo parlare del ruolo delle riviste scientifiche internazionali di maggior prestigio, fra le quali brilla di luce propria il Lancet Oncology, che ha pubblicato alcuni di questi lavori che, oltre ad essere non etici, non sembrano aggiungere nulla alle conoscenze precedenti. Si resta meravigliati a pensare che una costola del prestigioso Lancet si presti a tali operazioni. Vogliamo parlare delle associazioni degli oncologi, e in particolare dell’ASCO (American Society of Clinical Oncology), che si prestano talora a veicolare messaggi di contenuto più pubblicitario che scientifico: si pensi che l’ASCO ha pubblicato un update delle linee guida sugli antiemetici ma non l’ha fatto sulle poche novità reali e di interesse per i pazienti (quali, ad esempio, il ruolo dell’aprepitant* nella prevenzione sia dell’emesi da cisplatino somministrato per più giorni consecutivi, come utilizzato nel cancro del testicolo, sia dell’emesi indotta da alte dosi di chemioterapia o da chemioterapia altamente emetogena nei bambini), ma ha pubblicato un update focused sul netupitant associato al palonosetron4. Speriamo che gli oncologi, che hanno il dovere di tutelare i loro pazienti (e il SSN), verifichino costantemente i contenuti scientifici dei massaggi che vengono loro inviati, senza dare importanza alla natura del mittente. Fortunatamente nonostante tutti questi fuochi d’artificio le linee guida MASCC/ESMO concludono che nella prevenzione del vomito acuto indotto da cisplatino o antracicline più ciclofosfamide (in donne con carcinoma della mammella) è raccomandata una tripletta di antiemetici costituita da un 5-HT3 antagonista, desametasone e un NK1 antagonista (cioè aprepitant, fosaprepitant, netupitant o rolapitant). È ovvio che difficilmente vedremo uno studio sponsorizzato dall’industria che confronti seriamente i tre diversi NK1 antagonisti che fino a prova contraria devono essere considerati un me too dell’aprepitant. Per finire va aggiunto che quasi tutti i 5 studi sui nuovi * Aprepitant è indicato per la prevenzione della nausea e del vomito associati a chemioterapia oncologica altamente e moderatamente emetogena in adulti e adolescenti dai 12 anni.

NK1 antagonisti hanno scelto come endpoint primario la risposta completa nei giorni 2-5, endpoint scorretto in quanto i risultati ottenuti nei giorni 2-5 dipendono dal risultato ottenuto nel giorno 1 dopo la somministrazione della chemioterapia che, a sua volta, dipende dalla profilassi dell’emesi acuta. A Cophenagen si è discusso animatamente del ruolo degli NK1 antagonisti nella prevenzione della nausea e vomito acuto da carboplatino. Il carboplatino è classificato come un farmaco moderatamente emetogeno (e come tale rimane) ma con un rischio di nausea e vomito più elevato rispetto a quello dell’oxaliplatino, dell’irinotecan, e degli altri farmaci della stessa classe di emetogenicità. A sostenere l’utilità dell’aggiunta degli NK1 antagonisti al desametasone + 5-HT3 antagonista sono stati i risultati di analisi per sottogruppi non pianificate degli studi eseguiti con aprepitant, rolapitant e netupitant che dimostrano una tendenza ad una maggiore percentuale di risposte complete con l’aggiunta dell’NK1 antagonista. Inoltre c’era un unico studio eseguito in pazienti con carcinoma dell’endometrio, dell’ovaio o della cervice uterina, che dimostrava come l’aggiunta di aprepitant protegge più frequentemente le pazienti sottoposte a carboplatino più paclitaxel5. Purtroppo la risposta completa e l’assenza di vomito erano endpoint secondari di questo studio che era stato pianificato per dimostrare l’impatto di aprepitant sulle reazioni di ipersensibilità da paclitaxel (endpoint primario, non trovato significativamente differente nei due bracci di trattamento). Questo si è scoperto solo dopo la pubblicazione del lavoro per esteso perché l’abstract dell’ASCO poneva l’impatto sulla nausea e sul vomito come se fosse questo l’endpoint primario. Purtroppo nel mondo accademico accade anche questo. In conclusione, la Consensus Conference, pur con i legittimi dubbi di alcuni partecipanti, ha raccomandato che un NK1 antagonista sia associato ad un 5-HT3 antagonista ed al desametasone per prevenire l’emesi acuta da carboplatino. Come anticipato sopra, la Consensus Conference ha raccomandato un NK1 antagonista nella prevenzione del vomito da cisplatino somministrato per più giorni consecutivi, per le alte dosi di chemioterapia in pazienti sottoposti poi a trapianto di midollo e nei bambini sottoposti a chemioterapia di alto potere emetogeno: questi sì che sono reali avanzamenti terapeutici! Infine, la Consensus Conference ha introdotto le raccomandazioni per il trattamento o la prevenzione dell’emesi nei pazienti con carcinoma avanzato in cui il fenomeno è multifattoriale e il primo passo consiste nell’identificare e trattare se possibile le varie cause (occlusione intestinale, disionie fra cui l’ipercalcemia, la gastroparesi, le metastasi cerebrali, e così via). Se l’emesi persiste è ragionevole proporre un trattamento antiemetico che, pur in assenza o quasi di studi controllati, è rappresentato dalla metoclopramide nei pazienti senza occlusione intestinale inoperabile, dalla combinazione di somatostatina + desametasone e ioscina butilbromuro se c’è occlusione intestinale, e da un antiemetico (non sono disponibili studi per raccomandarne uno in particolare) nel caso di emesi da oppiacei. CASCO — Autunno 2016

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Per concludere, occorre fare due considerazioni. La prima, comune a molte altre linee guida, concerne la composizione del panel che prende decisioni. A nostro avviso sarebbe ora di evitare che soggetti con conflitti di interesse con l’industria prendano parte alla Consensus Conference. Da più parti si osserva che, però, in tal modo, verrebbero a mancare importanti expertise sull’argomento. A nostro avviso (evidence-based), la loro inclusione produce sicuramente bias e perdite di tempo, mentre la loro esclusione non produrrebbe danni irreparabili: è meglio un’eventuale minore precisione nelle raccomandazioni che l’ombra del sospetto aleggi intorno alle linee guida quando ad approvarle contribuiscono anche soggetti che hanno ricevuto benefici dall’industria. Dal sospetto alla sfiducia il passo è breve: ma la EBM non può permetterselo in quanto le linee guida costituiscono ormai uno strumento fondamentale della pratica clinica che regola anche i rapporti con i pazienti. La seconda considerazione scaturisce dalla vivacità e dalle lungaggini delle discussioni durante i lavori della Consensus Conference, dovute a disaccordi circa la valutazione dei risultati di molti degli studi esaminati. Ma le divergenze di opinioni nascono da una cattiva ricerca, cioè da studi clinici che o sono intrinsecamente scorretti o i cui risultati non rispondono direttamente ai quesiti che sorgono dalla pratica clinica. Da una cattiva ricerca non possono nascere linee guida affidabili e raccomandazioni sufficientemente certe. Malgrado i nostri documenti che reclamavano a gran voce una maggior correttezza degli studi clinici, purtroppo nemmeno in questa Consensus Conference sono stati formulati appelli

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per la conduzione di una ricerca clinica corretta che, unica, può rispondere ai quesiti che sorgono dalla pratica clinica. Segno che ormai la scientificità del processo con cui sono acquisiti i risultati non interessa quasi più a nessuno: predomina il marketing! Enzo Ballatori Fausto Roila Bibliografia 1. Roila F, Ruggeri B, Ballatori E, et al. Aprepitant versus metoclopramide, both combined with dexamethasone, for the prevention of cisplatin-induced delayed emesis: a randomized, double-blind study. Ann Oncol 2015; 26: 1248-53. 2. Roila F, Ruggeri B, Ballatori E, et al. Aprepitant versus dexamethasone for preventing chemotherapy-induced delayed emesis in patients with breast cancer: a randomized double-blind study. J Clin Oncol 2013; 32: 101-6. 3. Navari RM, Nagy CK, Gray SE, et al. The use of olanzapine versus metoclopramide for the treatment of breakthrough chemotherapy-induced nausea and vomiting in patients receiving highly emetogenic chemotherapy. Support Care Cancer 2013; 21: 1655-63. 4. Hesketh PJ, Bohlke K, Lyman GH, et al. Antiemetics: American Society of Clinical Oncology Focused Guideline Update. J Clin Oncol 2016; 34: 381-6. 5. Yahata H, Kobayashi H, Sonoda K, et al. Efficacy of aprepitant for the prevention of chemotherapy-induced nausea and vomiting with a moderately emetogenic chemotherapy regimen: a multicenter, placebo-controlled, double-blind, randomized study in patients with gynecologic cancer receiving paclitaxel and carboplatin. Int J Clin Oncol 2015; Dec 10, PMID: 26662632.


Il punto su...

Turbe cognitive e trattamento nel paziente neoplastico

Milena Vitali, Marina Garassino Dipartimento di Oncologia Medica, Fondazione IRCCS, Istituto Nazionale dei Tumori, Milano

RIASSUNTO I pazienti oncologici hanno attualmente una sopravvivenza a lungo termine migliore anche grazie alla chemioterapia, ma il trattamento può anche essere associato ad una tossicità a lungo termine, compresa la possibilità di sviluppare dei disturbi cognitivi, spesso definiti come “chemobrain”. Una panoramica della letteratura ha indicato una significativa associazione tra chemioterapia e deterioramento cognitivo ma sono comunque necessari ulteriori studi prospettici per esaminare il grado e la persistenza di questo declino. Anche se gli agenti chemioterapici non attraversano la barriera emato-encefalica, un’ipotesi è che la neurotossicità sia legata alla formazione citochine proinfiammatorie. L’attività fisica, approcci farmacologici ed esercizi per la sfera cognitiva sono promettenti nel trattamento dei disturbi cognitivi, ma sono necessari ulteriori studi per stabilirne l’efficacia. Parole chiavi. Cancro, chemioterapia, disturbi cognitivi.

SUMMARY

Cognitive impairment and treatment in cancer patients Patients with cancer are experiencing long-term survival following chemotherapy, but the treatment may also be associated with long-term toxicity, including the possibility of cognitive disfunction, often referred to as “chemobrain”. A literature overview indicated a significant association between chemotherapy and cognitive impairment but prospective longitudinal research is warranted to examine the degree and persisting nature of this decline. Although chemotherapeutic agents are unlikely to cross the blood-brain barrier, it has been alleged that the occurrence of neurotoxicity is linked to the proinflammatory cytokine pathways. Physical activity, pharmaceuticals approaches and cognitive training appear promising in the chemobrain management but additional studies are required to establish their efficacy. Key words. Cancer, chemotherapy, cognitive impairment.

Introduzione I trattamenti chemioterapici hanno aumentato la sopravvivenza dei pazienti affetti da tumore. Comunque questi farmaci causano effetti collaterali e molti pazienti riferiscono un declino nelle funzioni cognitive. Colloquialmente tali disturbi vengono definiti “chemobrain” o “chemofog” e colpiscono prevalentemente la memoria, la velocità di elaborazione e la velocità delle funzioni esecutive. Tali deficit rilevati principalmente in studi condotti su donne affette da carcinoma (CA) mammario impattano sulla qualità di vita soprattutto nei pazienti lungo-sopravviventi. Disturbi cognitivi e chemioterapia: analisi della letteratura Vi è una forte evidenza che la chemioterapia causa un deterioramento delle capacità cognitive a breve termine nel paziente neoplastico, mentre negli studi condotti su tali disturbi a lungo termine i risultati sono discordanti. Studi trasversali che hanno paragonato pazienti oncologici trattati con chemioterapia con soggetti sani hanno dimostrato che la chemioterapia porta ad un deterioramento delle funzioni cognitive. Pazienti affette da CA mammario trattate con chemioterapia neoadiuvante e adiuvante hanno mostrato nel 16% dei casi disturbi cognitivi basandosi sul metodo High-Sensitivity Cognitive Screen, rispetto al 4% della popolazione sana. I disturbi erano prevalenti a livello di linguaggio, attenzione, concentrazione e nell’autocontrollo1. Sempre una coorte di pazienti affette da CA mammario trattate con chemioterapia a base di doxorubicina e ciclofosfamide con o senza taxani, studiate dopo 3-10 anni dalla fine della terapia, ha mostrato un peggioramento della memoria in confronto a donne sane di pari età e grado di istruzione2. Lo stesso disturbo è stato rilevato in pazienti affette da CA mammario dopo 20 anni dal trattamento con CMF adiuvante3. Uno studio condotto su 30 pazienti trattati con chemioterapia per il Linfoma non Hodgkin (NHL), confrontati con 10 soggetti sani a tre mesi dalla fine della chemioterapia di I linea o con rituximab, ciclofosfamide, doxorubicina, vincristina e prednisone (R-CHOP) o con bendamustine-rituximab, ha mostrato come i pazienti trattati con bendamustine-rituximab hanno un risultato peggiore nei test cognitivi rispetto ai pazienti trattati con R-CHOP i cui test cognitivi erano simili alla popolazione normale4. In uno studio con un lungo follow up condotto in donne affette da CA mammario trattate con FEC, o con o senza ad alte dosi di ciclofosfamide, tiotepa e carboplatino o con CMF verso pazienti non trattate con chemioterapia, dopo 2 anni dal termine del trattamento, gli autori hanno rilevato disturbi coCASCO — Autunno 2016

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gnitivi nelle donne trattate con chemio rispetto ai controlli. L’incidenza di disturbi cognitivi era del 32% nel gruppo trattato con CT ad alte dosi, del 20% nel gruppo CMF, 17% nel gruppo FEC verso il 6% nel gruppo delle pazienti non trattate. Dopo 4 anni dal termine della CT non vi erano differenze tra i vari gruppi5. Uno studio condotto su 231 pazienti affette da CA ovarico studiate in corso di chemioterapia, al termine e dopo 6 mesi, ha documentato la presenza di disturbi cognitivi nel 25% dei casi in corso di trattamento. Vi era però un recupero dopo 6 mesi dal termine nell’8% delle pazienti, soprattutto a carico dell’attenzione e nella velocità di elaborazione ma non del tempo di risposta motoria6. Altre indagini nelle quali i pazienti venivano studiati da un punto di vista cognitivo pre e post chemioterapia in modo da servire essi stessi da casi controllo, condotte nel CA mammario7-9, nel CA colon10, pre e dopo CT adiuvante, non hanno rilevato variazioni nelle funzioni cognitive dei pazienti pre- e post-trattamento. Comunque la maggior parte degli studi longitudinali ha mostrato la comparsa di disturbi cognitivi dopo la chemioterapia riguardanti le funzioni esecutive5,11, le funzioni motorie8,12,13, l’apprendimento e la memoria5,8,13,14, la velocità di elaborazione5,14, l’ attenzione8,13 e le capacità visive8. In una metanalisi di 17 studi condotti sulle sopravviventi affette da CA mammario trattate con chemioterapia standard sono stati riscontrati, rispetto alla popolazione normale, dei difetti cognitivi a livello della capacità verbale e visivo-spaziale anche se di minima entità15. Una review del 2012 mirata ad esaminare la relazione tra la percezione soggettiva delle pazienti e il riscontro oggettivo di comparsa di deterioramento cognitivo dopo chemioterapia, su 24 studi condotti prevalentemente nella patologia mammaria solo 8 hanno trovato una correlazione tra la percezione soggettiva delle pazienti e la rilevazione del disturbo nei test. La memoria era la sfera maggiormente interessata. Questa discrepanza può essere spiegata e con i differenti metodi di rilevazione dei sintomi o con le differenti definizioni di decadimento cognitivo. Comunque nonostante il risultato dei test, per le pazienti la percezione del decadimento cognitivo era importante e impattava sulla qualità di vita16. Un ulteriore studio su un campione di 1889 donne operate per CA mammario non si sono riscontrate differenze per quanto riguarda le alterazioni cognitive dopo 7-9 anni, tra le donne solamente operate rispetto alle donne operate e trattate con chemioterapia. Tale risultato è incoraggiante per le pazienti lungo sopravviventi17. Più recentemente, vi sono studi convincenti che documentano come il decadimento cognitivo soggettivo sia associato a delle alterazioni cerebrali documentate alle immagini strumentali quali la risonanza magnetica18-20. Rilevazione delle funzioni cognitive Il maggior ostacolo nel definire i disturbi cognitivi è l’esistenza di una grande batteria di test neurocognitivi. Una metanalisi condotta da Ono et al. nel 2015 su pazienti affette da CA mammario ha rilevato ben 81 tipi di rilevazioni neuropsicologiche che indagano 8 aspetti diversi 8

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della sfera cognitiva: 1) l’attenzione, 2) le funzioni esecutive, 3) la memoria a lungo termine, 4) la memoria a breve termine, 5) la velocità di elaborazione, 6) il linguaggio 7) le capacità visivo-spaziali e 7) le funzioni motorie21. Il problema è che in parecchi studi non vi è una corrispondenza tra i disturbi che riferiscono le pazienti dopo la chemioterapia e ciò che rilevano i test neurocognitivi. La “International Cognition and Cancer Task Force” sancisce in una pubblicazione che i test neuropsicologici rimangono il gold standard per misurare le funzioni cognitive e per valutare gli effetti collaterali della chemioterapia su tale sfera22, mentre ciò che viene riportato dal paziente non è valutabile. Comunque il vissuto dal paziente è estremamente importante nella pratica clinica poiché impatta sulla qualità di vita e i test neurocognitivi possono rilevarsi in alcuni casi non abbastanza sensibili per rilevare alcuni disturbi. Ad oggi non sono ancora definiti dei test standard per misurare ciò che viene riportato dal paziente. Vi sono evidenze di come la chemioterapia abbia degli effetti sul sistema nervoso centrale (SNC) parametrabili mediante la risonanza magnetica o l’elettroencefalogramma (EEG). Alcuni studi hanno rilevato una riduzione della sostanza grigia dell’encefalo in pazienti con CA mammario durante la chemioterapia con un miglioramento dopo il termine della stessa23,24. In aggiunta alcuni pazienti dopo la chemioterapia hanno una riduzione nell’attivazione di certe aree cerebrali deputate al pensiero cognitivo rispetto al basale cioè prima della CT25 o rispetto a soggetti sani23. L’EEG, uno strumento non invasivo, può giocare un ruolo importante nel determinare le alterazioni cognitive in pazienti sottoposti a chemioterapia. Infatti pazienti affetti da LNH chemiotrattati hanno mostrato delle alterazioni nei tempi di attivazione o latenza neuronale rispetto alla popolazione sana quando sottoposti a particolari processi cognitivi4. Eziologia delle turbe cognitive nel paziente neoplastico La possibilità che i processi infiammatori siano alla base delle turbe cognitive nel paziente neoplastico deriva da ricerche di base nei segnali neurali. Tali ricerche hanno dimostrato che le citochine infiammatorie periferiche possono dare segnali al sistema nervoso centrale di generare sintomi quali la fatigue e i disturbi cognitivi26-28. Segnali dal sistema immunitario periferico convergono al sistema nervoso centrale attraverso vie diverse tra cui l’attivazione neurale diretta attraverso la via afferente del nervo vago, trasporto di citochine infiammatorie attraverso la barriera emato-encefalica via molecole carriers, l’interazione diretta tra citochine e recettori cerebrali in particolari aree circumventricolari e mediante cellule cerebrali endoteliali che rilasciano un secondo messaggio29,30. In modelli animali, l’induzione di citochine infiammatorie determina una riduzione dell’attività motoria e altera i processi cognitivi portando gli animali a diminuire l’introduzione di acqua e le relazioni sociali. Studi sperimentali su soggetti sani, dopo stimolazione con endotossine che producono processi infiammatori, hanno rilevato incremento della fatigue e dei di-


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sturbi cognitivi31,32. Un recente studio su 99 pazienti affette da CA mammario candidate a chemioterapia ha valutato le citochine pro infiammatorie nel plasma prima della CT sei settimane e 12 settimane dopo il termine della stessa e valutato tramite test neuropsicologici lo stato cognitivo delle pazienti. Gli autori hanno rilevato che alte concentrazioni di IL-6 e IL-1 erano presenti in pazienti con disturbi cognitivi mentre elevati valori di IL-4 sono risultati protettivi verso il declino cognitivo33. Trattamento delle turbe cognitive nel paziente neoplastico

Trattamenti non farmacologici

Attività fisica L’attività fisica è associata con il miglioramento delle funzioni cognitive in studi condotti su animali e sull’uomo. Alcuni studi hanno valutato su donne trattate per CA mammario con deterioramento delle funzioni cognitive l’effetto benefico dello yoga, del Qigong e del Tai Chi34-36. In particolare Janelsins et al. hanno valutato l’effetto dello yoga su 358 pazienti affetti da tumore dei quali il 75% con CA mammario metà randomizzati ad eseguire esercizi di respiro, Hata yoga e meditazione 2 volte a settimana per 1 mese mentre metà rimanevano in solo controllo. Nel gruppo che faceva attività fisica si è visto un significativo miglioramento della memoria, della fatigue e della qualità di vita rispetto al gruppo in solo controllo37.

Esercizi per la sfera cognitiva In uno studio Von Ah et al.38 hanno diviso i pazienti in due gruppi insegnando strategie per il miglioramento della memoria in un gruppo e un training per migliorare la velocità di ragionamento nell’altro. Nel primo gruppo per 5 sessioni venivano spiegate tecniche per la memorizzazione di liste di parole, sequenze e testi utilizzando tecniche di visualizzazione e associazione e poi per 5 sessioni venivano fatti esercizi pratici ottenendo un miglioramento sulla memoria immediata e a lungo termine rispetto al gruppo di controllo. Anche nel braccio che prevedeva un training sui processi di ragionamento si è ottenuto lo stesso miglioramento anche sulla memoria. In un altro studio Kesleret al.39 hanno utilizzato un corso al computer interattivo che i pazienti eseguivano a casa, per 48 lezioni ed esercizi di 30 min per 6 settimane ottenendo un miglioramento nelle capacità di linguaggio e nell’attenzione. Altri studi che hanno utilizzato tecniche di meditazione tibetana o strategie di comportamento per ovviare ai deficit di memoria, sono risultati negativi40,41.

Trattamenti farmacologici

Psicostimolanti Vi sono studi in letteratura che hanno utilizzato per migliorare il deficit cognitivo il d-metilfenidato42,43, il metilfenidato44 e il modafinil45 senza però ottenere dei miglioramenti statisticamente significativi.

Epoietina alfa e Gingko biloba Uno studio condotto su pazienti affette da CA mammario in trattamento chemioterapico adiuvante si è rilevato un miglioramento statisticamente significativo nelle funzioni cognitive con l’associazione alla CT dell’eritropoietina alfa rispetto al gruppo di controllo46. Barton et al. hanno indagato se il Gingko biloba 60 mg somministrato due volte al giorno durante la chemioterapia adiuvante e fino ad mese dopo il termine della stessa, in pazienti affette da CA mammario prevenisse il decadimento delle funzioni cognitive. Lo studio non ha mostrato nessun effetto in positivo, aumentando invece la nausea rispetto al gruppo di controllo47. In conclusione il problema del decadimento cognitivo durante e dopo la chemioterapia nel paziente oncologico risulta essere significativo. Le nuove tecnologie sono promettenti in particolare programmi che combinano l’attività clinica e il training cognitivo. Sono necessari però studi clinici ben disegnati per migliorare la qualità di vita di questa popolazione di pazienti che è sempre in aumento. • Bibliografia 1. Tchen N, Juffs HG, Downie FP, e t al. Cognitive function, fatigue, and menopausal symptoms in women receiving adjuvant chemotherapy for breast cancer. J Clin Oncol 2003; 21: 4175-83. 2. Conroy SK, McDonald BC, Smith, DJ, et al. Alterations in brain structure and function in breast cancer survivors: effect of postchemo therapy interval and relation to oxidative DNA damage. Breast Cancer Res Treat 2013; 137: 493-501. 3. Koppelmans V, Breteler MMB, Boogerd W, e t al. Neuropsychological performance in survivors of breast cancer more than 20 years after adju vant chemotherapy. J Clin Oncol 2012; 30: 1080-6. 4. Zimmer P, Mierau A, Bloch W, et al. Post-chemotherapy cognitive impairment in patients with B-cell non-Hodgkin lymphoma: a first comprehensive approach to determine cognitive impairments after treatment with rituximab, cyclophosphamide, doxorubicin, vincristine and prednisone or rituximab and bendamustine. Leuk Lymphoma 2014; 5: 1-6. 5. Wefel JS, Saleeba AK, Buzdar A, Meyers CA. Acute and late onset cognitive dysfunction associated with chemotherapy in women with breast cancer. Cancer 2010; 116: 3348-56. 6. Hess LM, Huang HQ, Hanlon AL, et al. Cognitive function during and six monts following chemptherapy for front line treatment of ovarian, primary pewritoneal or fallopian tube cancer: AN NRG oncology/gynaecologic oncologic group study. Gynecol Oncol 2015; 139: 541-5. 7. Debess J, Riis JO, Engebjerg MC, Ewertz M. Cognitive function after adjuvant treatment for early breast cancer: a population based longitu dinal study. Breast Cancer Res Treat 2010; 121: 91-100. 8. Jenkins V, Shilling V, Deutsch G, et al. A 3-year prospective study of the effects of adjuvant treatments on cognition in women with early stage breast cancer. Brit J Cancer 2006; 94: 828-34. 9. Moore HCF, Parsons MW, Yue GH, et al. Electroencephalogram power changes as a correlate of chemotherapy-associated fatigue and cognitive dysfunction. Support Care Cancer 2014; 22: 212731. 10. Andreis F, Ferri M, Mazzocchi M, et al. Lack of a chemobrain effect for adjuvant FOLFOX chemotherapy in colon cancer patients. A pilot study. Support Care Cancer 2013; 21: 583-90. CASCO — Autunno 2016

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| Il punto su... | Turbe cognitive e trattamento nel paziente neoplastico

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Disordini elettrolitici associati al cancro (ipo-ipersodiemia, ipo-iperpotassiemia, ipo-ipermagnesemia)

Vincenzo Minotti, Chiara Bennati Struttura Complessa di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

RIASSUNTO I pazienti oncologici frequentemente presentano disturbi elettrolitici. Le cause sono multifattoriali e possono dipendere sia dalla neoplasia di base che dai trattamenti specifici. A volte sono espressioni di una sindrome paraneoplastica che conferisce una prognosi più sfavorevole. Il pronto riconoscimento di queste alterazioni è la premessa necessaria per un corretto trattamento. Parole chiavi. Cancro, alterazioni elettrolitiche, chemioterapia.

SUMMARY

Electrolyte disorders associated with cancer (hyponatriemia, hypernatremia, hypokalemia, hyperkalemia, hypomagnesemia, hypermagnesemia) Patients with malignancies commonly experience abnormalities in the serum electrolytes. The mechanisms encountered for these disorders have multifactorial origins. Both the underlying disease and the therapeutic interventions can contribute to the development of these disturbances. However, they also may signal the presence of paraneoplastic processes and portend a poor prognosis. In many instances, until they are corrected, these electrolyte disturbances can affect health and may limit treatment of the underlying neoplasia. Thus, their prompt recognition and corrective therapy is critical in the care of the patient with cancer. Key words. Cancer, electrolyte abnormalities, chemotherapy.

Alterazioni del sodio

Iponatriemia L’iposodiemia è il più comune disordine elettrolitico nel paziente oncologico e studi riportano una prevalenza variabile dal 4% al 47%1. In circa il 14% dei casi di iposodiemia riscontrata nei pazienti ospedalizzati, la causa era legata ad una neoplasia sottostante2. L’iposodiemia nel malato oncologico è associata ad una maggiore morbilità e mortalità. Comunque, è ancora dibattuto se essa rappresenti di per sé un fattore prognostico sfavorevole o non sia piuttosto sempli-

cemente un marker legato alla particolare aggressività della malattia. Uno studio recente sembra avvalorare la seconda ipotesi sebbene altre esperienze abbiano dimostrato che una correzione del sodio prima della dimissione migliori la prognosi rispetto ai pazienti con persistente iposodiemia3. È comunemente definita come una concentrazione di sodio (Na) nel siero inferiore a 135 milliequivalenti/litro (mEq/L). Precisare la causa dell’iponatriemia è fondamentale in quanto consente il trattamento appropriato. Facendo riferimento alla volemia, ovvero al volume totale di sangue nell’organismo, si possono distinguere tre tipi di iponatriemia: 1. iponatriemia ipovolemica; 2. iponatriemia isovolemica o euvolemica; 3. iponatriemia ipervolemica. L’iponatriemia ipovolemica può essere secondaria a: perdite extrarenali (vomito, diarrea, peritonite, pancreatite, ustioni), ed è caratterizzata da valori di sodiuria (sodio nelle urine) <20 mmoli/L; perdite renali (diuretici, nefropatie, Morbo di Addison), abitualmente con valori di sodiuria >20 mmoli/L. L’iponatriemia isovolemica può verificarsi nelle seguenti condizioni: uso di diuretici, ipotiroidismo, deficit di glucocorticoidi, aumento del rilascio di vasopressina (ADH o ormone antidiuretico), SIADH (sindrome da inappropriata secrezione di vasopressina) e polidipsia primitiva (quando la quantità di liquidi assunti è superiore a quella che viene persa tramite l’escrezione urinaria). Infine l’iponatriemia ipervolemica riconosce le seguenti cause: cirrosi epatica, scompenso cardiaco congestizio, sindrome nefrosica, insufficienza renale (sia acuta che cronica).

Sintomi I sintomi correlati all’iposodiemia sono aspecifici e per questo si possono erroneamente attribuire al tumore stesso o al suo trattamento. Essi sono prevalentemente neurologici e dipendono dalla gravità e dalla velocità con cui si modifica la concentrazione plasmatica del sodio. Le manifestazioni cliniche dipendono essenzialmente dallo stato di rigonfiamento cerebrale in conseguenza del richiamo osmotico di acqua all’interno delle cellule nervose. Fortunatamente, il cervello, servendosi di alcuni meccanismi di adattamento già efficienti dopo 48 ore, riesce spesso a minimizzare i sintomi, per cui non infrequentemente l’iponatriemia costituisce una sorpresa di laboratorio. In generale, può essere utile ricordare che la nausea e il malessere generale sono i primi sintomi, e si verificano quando la concentrazione del Na scende a valori compresi tra 125 e 130 mEq/L. Quando l’iponatriemia è grave (Na tra 115-120 mEq/L) e di rapida insorgenza (<48 ore), il cervello non è in grado di mettere in atto efficaci misure di CASCO — Autunno 2016

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adattamento per cui si possono manifestare gravi sintomi neurologici quali confusione, irritabilità, convulsioni e coma.

Iponatriemia da SIADH La più comune causa di iponatriemia nel malato oncologico è la sindrome da inappropriata secrezione di ADH (SIADH). Questa sindrome si può associare a varie neoplasie e ad alcuni farmaci antitumorali, ma più comunemente la si osserva nel microcitoma polmonare dove l’iponatriemia si manifesta nel 10%-15% dei pazienti a fronte di un aumento nel plasma di ADH del 70%4. È controverso se lo sviluppo e la gravità dell’iponatriemia si correlano con il volume e l’estensione della malattia metastatica. In uno studio la presenza della SIADH non ha condizionato la risposta alla chemioterapia e la sopravvivenza globale, mentre altre esperienze hanno evidenziato una più elevata mortalità in quei pazienti con microcitoma che avevano una concentrazione di Na nel siero inferiore a 130 mEq/L. Dopo il microcitoma le neoplasie più frequentemente associate alla SIADH sono quelle della regione testa-collo, e si manifestano nel 3% dei casi. Al di fuori di queste 2 neoplasie, molti dati che riportano la SIADH correlata ad altri tipi di neoplasie possono essere confusi dalla presenza di alterazioni della funzionalità renale e surrenalica, e dai farmaci associati alla sindrome. La SIADH paraneoplastica è praticamente una diagnosi di esclusione e i criteri diagnostici essenziali sono riportati nella tabella I. Il primo tempo diagnostico riguarda la valutazione della volemia. Come sopra specificato, la SIADH rientra nelle iponatriemie cosiddette euvolemiche, quindi è necessario riconoscere innanzitutto le condizioni caratterizzate da sovraccarico di liquidi come lo scompenso cardiaco, la sindrome nefrosica e gravi epatopatie. D’altro canto è anche importante escludere le cause di iponatriemia ipovolemica che compare in seguito a perdite renali ed extrarenali di acqua e sodio. Accertata l’euvolemia, prima di attribuire un significato paraneoplastico alla iposodiemia è necessario soddisfare ancora due passaggi diagnostici: l’esclusione di altre cause di iponatriemia euvolemica (deficienza di glucocorticoidi, ipotiroidismo, nefropatie), di varie altre patologie non neoplastiche che possono coinvolgoere il sistema nervoso centrale (infezioni, ictus, tumori, traumi) e l’apparato Tabella I. Criteri essenziali per la diagnosi di SIADH.

1. Riduzione dell’osmolarità del liquido extracellulare (<275 mOsm/Kg) 2. Euvolemia clinica, definita per l’assenza di segni di ipovolemia (ipotensione ortostatica, tachicardia, diminuzione del turgore cutaneo, secchezza delle mucose) o ipervolemia (edema sottocutaneo, ascite) 3. Osmolarità urinaria > 100 mOsm/Kg durante ipotonicità 4. Sodio urinario > 30 mEq/L con normale apporto di sale e acqua attraverso la dieta 5. Assenza di altre cause potenziali di ipoosmolarità euvolemica: ipotiroidismo, ipocortisolismo (morbo di Addison o insufficienza surrenalica secondaria) e uso di diuretici.

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respiratorio (infezioni, pneumotorace, asma, fibrosi polmonare, fibrosi cistica). Inoltre dobbiamo verificare che il paziente non stia assumendo farmaci notoriamente legati alla SIADH (ciclofosfamide, vincristina, cisplatino, morfina). Infatti, particolare cautela è necessaria nei confronti di pazienti che hanno una SIADH subclinica (valori di Na tra 130 e 135 mEq/L) in rapporto ad alcuni chemioterapici come la ciclofosfamide e il cisplatino. In questi casi l’iposodiemia può subire un peggioramento per l’idratazione necessaria a prevenire la cistite emorragica da ciclofosfamide, o come conseguenza del danno tubulare da cisplatino (nefropatia “salt-losing”). Anche i nuovi trattamenti antitumorali, se pur raramente, possono causare iposodiemia con meccanismi non sempre ben precisati: inibitori delle tirosinkinasi utilizzati nel carcinoma renale (sorafenib, pazopanib), inibitori di ALK (ceritinib) e i checkpoints inibitori (Ipilimumab, nivolumab) come conseguenza della tossicità endocrinologica (ipofisiti, insufficienza surrenalica, tiroiditi).

Trattamento dell’iposodiemia Il trattamento dell’iposodiemia nel malato oncologico non cambia rispetto a quello impiegato per tutte le altre cause e dipende dalla presenza dei sintomi, dalla durata e dallo stato della volemia. Se possibile, il controllo della causa sottostante rappresenta l’approccio più razionale e definitivo. Come principio generale, è utile ricordare che l’infusione di soluzione fisiologica è richiesta nei pazienti con una reale riduzione del volume del fluido extracellulare, contrariamente alle altre situazioni di iposodiemia dove è necessaria una restrizione idrica a 500ml/die e una diuresi di più di 500ml/die. In presenza di grave (Na <110mEq/L) o sintomatica iponatriemia insorta acutamente (<48 ore) dovrebbe essere impiegata una soluzione salina ipertonica al 3% (con o senza furosemide per prevenire il sovraccarico di liquidi) in grado di determinare un subitaneo miglioramento dei sintomi neurologici che si osserva già con piccoli rialzi del Na (4-5%). In pazienti sintomatici con iponatriemia protratta per più di 48 ore, la correzione dei livelli di Na serico deve avvenire lentamente (1,5-2mEq/L/h) e non deve superare i 10-12 mEq nelle 24 ore, al fine di scongiurare i rischi di una mielinolisi centrale pontina. Se il paziente è asintomatico, la correzione deve avvenire più lentamente (0,5 mEq/L/h). La restrizione dei liquidi costituisce una misura sufficiente a correggere una lieve e transitoria iponatriemia ma può essere mal tollerata dal paziente neoplastico e diventare problematica quando i protocolli terapeutici richiedono una idratazione. Una nuova classe di farmaci è rappresentata dai vaptani, antagonisti del recettore della vasopressina tipo 2 localizzato sulle membrane cellulari dei dotti collettori renali. Il Tolvaptan è un farmaco orale approvato dall’EMA per l’iponatriemia secondaria alla SIADH. L’efficacia del farmaco è stata valutata in 2 studi randomizzati doppio cieco (SALT12) in 448 pazienti non neoplastici con iponatriemia euvolemica o ipervolemica5. L’endpoint primario per entrambi gli studi era la variazione di concentrazione media giornaliera di sodio, espressa come AUC, dopo 4 e 30 giorni rispetto al basale. Tale concentrazione aumentava sensibilmente con il tolvaptan in entrambe le rilevazioni. La dose iniziale era di 15mg/die e poteva essere incrementata se necessario a 30 e


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60mg/die, per un periodo massimo di 30 giorni. Tra gli endpoint secondari era prevista la valutazione dello stato di salute, misurata tramite la scala SF-12 dopo 30 giorni di trattamento; nella sottopopolazione con SIADH il punteggio della scala SF-12 per lo stato fisico aumentava in maniera significativa nel gruppo trattato con tolvaptan rispetto al placebo, mentre per lo stato mentale si osservava un miglioramento, ma senza raggiungere la significatività statistica. Anche nella SIADH paraneoplastica il tolvaptan è stato in grado di migliorare efficacemente l’iposodiemia, ma le esperienze pubblicate sinora sono aneddotiche o limitate a piccole casistiche6. Uno studio successivo, il SALTWATER, aveva il compito di valutare l’efficacia e la safety di Tolvaptan per un tempo più lungo, (700 giorni). Il 94% dei pazienti ha manifestato un evento avverso e nel 46,8% era correlato proprio al farmaco: sete, pollachiuria, affaticamento e secchezza delle fauci. Si sono verificati casi di sanguinamento gastrointestinale nel 9,5% dei pazienti cirrotici, trattati con tolvaptan, rispetto all’1,8% nei pazienti cirrotici trattati con placebo, per cui EMA non ha approvato l’utilizzo del farmaco in questi pazienti7. Il tovalptan, in Italia in commercio in fascia C (EMA, AIFA), deve essere iniziato in ospedale ed è controindicato nei pazienti con iponatriemia ipovolemica, in presenza di anuria, in quelli che non percepiscono lo stimolo alla sete e nelle situazioni in cui è richiesta una rapida correzione del Na.

Ipernatriemia L’ipernatriemia (Na >145mEq/L) si manifesta molto più raramente dell’iponatriemia ma è gravata da una mortalità maggiore. Il meccanismo che sottende l’ipernatriemia è la perdita eccessiva di acqua corporea in rapporto alla perdita di sodio. In ambito oncologico, a differenza dell’iponatriemia, non ci sono situazioni di ipernatriemia dipendenti strettamente dalla patologia neoplastica o da trattamenti specifici. I pazienti più vulnerabili sono gli anziani debilitati, in genere con alterazioni dello stato mentale, che vanno incontro a disidratazione e non sono in grado di assumere acqua in quantità adeguata al senso di sete. La disidratazione più frequentemente è conseguenza di una diarrea osmotica indotta da lattulosio, sorbitolo o malassorbimento di carboidrati, ma è anche possibile in seguito all’uso di diuretici osmotici come il mannitolo. Raramente si può verificare una ipernatriemia ipervolemica dovuta ad assunzione di un fluido ipertonico con un limitato apporto di acqua. Per restare in ambito strettamente oncologico si può menzionare l’ipernatriemia secondaria a diabete insipido centrale in seguito a distruzione neoplastica della neuroipofisi. Le manifestazioni cliniche nell’ipernatriemia sono principalmente neurologiche e includono alterazioni dello stato mentale, astenia, ipereccitabilità neuromuscolare, deficit neurologici focali, e occasionalmente convulsioni e coma. Come con l’iponatriemia, le manifestazioni cliniche dipendono dalla gravità e dalla rapidità d’insorgenza. L’ipernatriemia cronica, grazie ai meccanismi di adattamento cerebrale, spesso è lievemente sintomatica, anche con incrementi di Na intorno ai 160-170 mEq/L. La correzione dell’ipernatriemia deve avvenire con gradualità e la reidratazione va sempre eseguita lentamente nelle 24-72 ore, avendo cura di somministrare

circa metà del deficit di acqua corporea calcolato nelle prime 24 ore, e l’ulteriore 50% nelle successive 48 ore. Si cerca, in maniera speculare all’iponatriemia, di ridurre il Na a non più di 10 mEq/L/die (0,4-0,5 mEq/L/hr). Alterazioni del potassio

Ipopotassiemia L’ipopotassiemia è il secondo più comune disturbo elettrolitico riscontrato nel malato neoplastico. In molti casi, la genesi è multifattoriale e include farmaci che causano una perdita renale mediante danno tubulare (cisplatino, ifosfamide, amfotericina B, antibiotici aminoglicosidici) cosi come la perdita di potassio per via gastrointestinale. Nell’era moderna delle “target therapy”, anche alcuni inibitori delle tirosinkinasi possono causare disturbi elettrolitici. In 390 pazienti con neoplasia polmonare trattati con afatinib8, e in 290 con carcinoma renale trattati con pazopanib9, una ipopotassiemia di tutti i gradi è stata documentata rispettivamente in 34 (9%) e 28 (10%) pazienti. Poco è noto circa l’esatto meccanismo con cui gli inibitori delle tirosinkinasi causano disturbi elettrolitici. Molto probabilmente sono dovuti alla tossicità gastrointestinale e/o renale. Un farmaco introdotto in questi ultimi anni nel trattamento del carcinoma della prostata è l’abiraterone che agisce inibendo l’enzima CYP17, idrossilasi necessaria alla sintesi, a livello del testicolo, surreni e tessuto prostatico neoplastico, di ormoni androgenici. L’aumento dei livelli di mineralcorticoidi causato dall’inibizione del CYP17 a livello surrenalico può causare ipertensione, ritenzione di liquidi e ipopotassiemia. Non infrequentemente nel paziente neoplastico, l’ipopotassiemia si associa ad altri disturbi elettrolitici. Una riduzione di tutti gli elettroliti (potassio, magnesio, calcio, sodio) è stata osservata in una pool analisi di 25 studi randomizzati relativi a pazienti con varie neoplasie, con predominanza del carcinoma del colon, e trattati con chemio ± un anticorpo anti EGFR (cetuximab, panitumumab)10. Per quanto riguarda il potassio, l’incidenza di eventi ipokaliemici di grado 3/4 è stata riscontrata nel 6,7% (304 di 4543) contro il 3,7% del gruppo di controllo. Un’altra evenienza molto frequente che si accompagna a riduzione nel sangue di potassio, sodio e magnesio è legata al trattamento diuretico. L’ipercalcemia può accompagnarsi ad una perdita renale di potassio indotta dagli alti livelli di calcio e dall’uso improprio dei diuretici. La tabella II elenca le varie condizioni di ipopotassiemia che si possono verificare nel paziente con neoplasia. Tra tutte, un cenno particolare alla sindrome da produzione ectopica di ACTH che si osserva più frequentemente nei carcinoidi bronchiali e nel microcitoma polmonare, ma è stata descritta anche nei tumori del timo, del pancreas e nel carcinoma midollare della tiroide. L’iperincrezione di cortisolo conseguente alla aumentata produzione di ACTH è causa di ipopotassiemia spesso grave e di un quadro clinico specifico caratterizzato da un habitus cushingoide, iperpigmentazione cutanea, diabete, osteoporosi, iperlipidemia, ipertensione e alterazioni dello stato mentale. La strategia terapeutica della sindrome di Cushing è duplice: da un lato il trattamento della malattia di base, dall’altro il controllo dell’iperproduzione di cortisolo. Chemioterapia, radioterapia e chirurgia, variamente CASCO — Autunno 2016

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Tabella II. Cause di ipopotassiemia nel paziente con cancro.

Inadeguata assunzione di K+

Scarso apporto nutrizionale; anoressia; cachessia

Eccessive perdite gastrointestinali

Vomito (chemioterapia), Diarrea (chemioterapia, terapie target, immunoterapia, neoplasie gastro-intestinali, chirurgia) Post chirurgia (ureterosigmoidostomia)

Perdite renali

• Diuretici, ipercalcemia, ipomagnesemia, diuresi post ostruttiva, Farmaci (amfotericina B, aminoglicosidi, cisplatino, ifosfamide, TKi), aumentata escrezione urinaria di lisozima. • Eccesso di mineralcorticoidi (iperaldosteronismo primario ad adenoma e carcinoma surrenalico, tumori renina secernenti, sindrome ectopica di ACTH).

Passaggio all’interno della cellula (“intracellular shift”)

Pseudoipokaliemia, uso di fattori di crescita e terapia con vit. B12

integrate, possono essere impiegate per il trattamento delle neoplasie che causano più frequentemente la sindrome (microcitoma, carcinoide bronchiale, tumori del Timo) mentre il ketoconazolo e, in casi selezionati, la surrenectomia laparascopica, sono misure terapeutiche rivolte al controllo dell’iperincrezione di cortisolo. In ambito oncoematologico una significativa ipopotassiemia è strettamente associata ad alcune forme di leucemia mieloide acuta (M4 ed M5) e si riscontra nel 40%-60% di questi pazienti durante il decorso della malattia. La causa sembra da ricondurre a un danno tubulare indotto dalla abnorme produzione di lisozima. Si ricorda inoltre che nei pazienti ematologici con marcata leucocitosi(>100.000/μL), la fuga di K+ all’interno delle cellule (“intracellular shift”) può causare una ipopotassiemia “spuria”. I sintomi della ipopotassiemia variano ampiamente e cominciano a manifestarsi con valori plasmatici di potassio inferiori a 3mEq/L. Mialgie, miastenie e crampi muscolari alle estremità inferiori sono comuni. Anche la muscolatura liscia può essere coinvolta con quadri di stipsi o franco ileo paralitico. In presenza di una grave deplezione di potassio si possono verificare situazioni preoccupanti come paralisi completa, ipoventilazione o rabdomiolisi. Palpitazioni o sincope sono evenienze possibili in rapporto all’aumentato rischio di aritmie. Il trattamento dell’ipopotassiemia è simile a quello utilizzato nei pazienti non neoplastici e si articola su tre fronti: 1. la prevenzione di complicanze pericolose per la vita (aritmie, insufficienza respiratoria); 2. correzione del deficit di potassio; 3. trattamento della causa determinante la perdita di potassio. La co-presenza di ipomagnesemia deve essere sempre ipotizzata e corretta se si vuole ottenere un ripristino efficace della ipopotassiemia attraverso la somministrazione di potassio per via orale o parenterale a seconda della gravità e urgenza della situazione.

Iperpotassiemia Una vera iperkaliemia nel paziente neoplastico è spesso legata a danno renale acuto o più raramente a insufficienza surrenalica dovuta a metastasi in entrambi i surreni. La eziologia dell’insufficienza renale acuta nel paziente neoplastico è multifattoriale e comprende compressione o infiltrazione neoplastica, chemioterapici nefrotossici (mitomicina C, gem14

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citabina, composti del platino, metotrexate, ifosfamide, bifosfonati, interferon), ostruzione post-renale, sindrome da lisi tumorale, sepsi, e nefropatia da mezzo di contrasto. La sindrome da lisi tumorale è una complicanza potenzialmente fatale che si verifica spontaneamente o più frequentemente in seguito alle terapie di neoplasie caratterizzate da un elevato turnover cellulare come i linfomi e più raramente tumori solidi. La sindrome si presenta con una serie di reperti laboratoristici quali iperuricemia, iperkaliemia, iperfosfatemia e ipocalcemia che possono causare insufficienza renale acuta e aritmie. Infine, l’iperkalemia può in alcuni casi essere l’espressione diretta della tossicità di alcuni farmaci come ad esempio il ketoconazolo o altri di più recente utilizzo come il pazopanib. Quest’ultimo, oltre all’ipopotassiemia, in uno studio è stato associato anche ad un incremento del potassio in 59 (26%) di 225 pazienti con carcinoma renale trattati con pazopanib11. L’iperkaliemia può essere asintomatica finché non compaiono i segni di tossicità cardiaca. Le modificazioni iniziali dell’ECG consistono nell’accorciamento dell’intervallo QT e nella comparsa di onde T alte e appuntite. In presenza di concentrazioni di potassio più elevate (solitamente 5,5 mEq/L), l’iperkaliemia può causare aritmie nodali e ventricolari, accompagnate da complessi QRS slargati e intervalli PR prolungati. Nella fasi terminali si può sviluppare una fibrillazione ventricolare o un’asistolia. Potrebbero comparire sintomi neuromuscolari aspecifici, inclusi ipostenia indefinita e parestesie. Nell’iperkaliemia grave, i sintomi possono diventare drammatici (ipostenia grave, paralisi flaccida). Il trattamento dipende dalle alterazioni elettrocardiografiche e dal grado dell’iperkaliemia. In generale, si basa sull’azione protettiva del gluconato di calcio ev sulla membrana cellulare, lo spostamento del potassio all’interno delle cellule con glucosio, insulina e bicarbonati, e la rimozione dell’eccesso di potassio con diuretici, resine a scambio ionico o trattamento dialitico nel paziente con insufficienza renale. Alterazioni del magnesio

Ipomagnesemia L’ipomagnesemia (Mg <1,3 mEq/L) nel paziente neoplastico è conseguente ai trattamenti più che alla malattia neoplastica. La somministrazione di cisplatino causa una perdita renale di magnesio e una ipomagnesemia è stata osservata


| Il punto su... | Disordini elettrolitici associati al cancro (ipo-ipersodiemia, ipo-iperpotassiemia, ipo-ipermagnesemia)

sino al 90% dei pazienti che hanno ricevuto una dose cumulativa maggiore di 300mg/m212. La perdita di magnesio si realizza con un meccanismo ancora non ben compreso. È stato ipotizzato un legame del cisplatino con le proteine che regolano il riassorbimento del magnesio a livello dei tubuli distali. Studi hanno evidenziato un potenziamento della nefrotossicità da cisplatino quando è già presente una ipomagnesemia e per questo si raccomanda un supplemento di magnesio nel giorno dell’infusione di cisplatino e nei 2-3 giorni successivi. Un danno tubulare si può osservare anche con altri farmaci come l’ifosfamide e l’amfotericina B. Un capitolo del tutto nuovo riguarda l’associazione stretta tra ipomagnesemia e la terapia con anticorpi monoclonali anti-EGFR13. Una recente metanalisi ha evidenziato un’incidenza di ipomagnesemia con cetuximab o panitumumab di ogni grado nel 17% e di grado severo nel 3,5%14. È emerso anche che negli studi con pazienti testa-collo l’incidenza è risultata più bassa rispetto alla popolazione di pazienti con carcinoma del colon. Probabilmente ciò è legato al fatto che i pazienti testa-collo ricevono un supplemento di magnesio durante la terapia con cisplatino. Una ipomagnesemia di tutti i gradi è stata riscontrata anche nel 30% dei pazienti con tumore polmonare trattati con chemioterapia ed un altro anticorpo anti EGFR (necitumumab). La maggior parte del magnesio urinario viene riassorbito passivamente nei tubuli contorti prossimali e nell’ansa ascendente di Henle. Ciononostante un ruolo determinante nell’omeostasi del magnesio è svolto dai tubuli contorti distali attraverso un processo di trasporto attivo del Mg2 da parte di canali chiamati TRPM6 (“transient receptor potential cation channel, subfamily M, member 6”) che sono attivati dai recettori renali per EGF. Perciò, l’inibizione di EGFR da parte del cetuximab, panitumumab e necitumumab aumenta la frazione di escrezione renale di magnesio in conseguenza della ridotta attivazione dei canali del Mg2. Un attento monitoraggio del magnesio è necessario in questi pazienti per evitare potenziali rischi come aritmie cardiache. Possibili sintomi sono costituiti da tremori, fascicolazioni, nistagmo, tetania, alterato stato mentale. In assenza di sintomi, una lieve ipomagnesemia (>1,2mg/dL) non richiede un trattamento mentre una ipomagnesemia di grado 2 (0,9-1,2 mg/dL) può essere trattata con supplementi orali o parenterali di magnesio. Comunque, dal momento che spesso questi anticorpi causano diarrea, è preferibile utilizzare la somministrazione endovenosa di magnesio. È da ricordare che i livelli di magnesio dopo l’infusione declinano rapidamente in rapporto all’inibizione del suo riassorbimento a livello dell’ansa di Henle e ciò richiede continue somministrazioni con dosi anche fino a 6-10 g al giorno. La somministrazione di calcio è appropriata visto che questi pazienti spesso sono ipocalcemici. L’ipomagnesemia generalmente si risolve entro 4-6 settimane dalla fine del trattamento.

Ipermagnesemia In ambito oncologico non ci sono particolari situazioni a rischio di ipermagnesemia (Mg >2,2 mEq/L). Molti casi clinicamente significativi sono iatrogeni e in rapporto all’assunzione di massicce dosi di antiacidi o lassativi contenenti ma-

gnesio. Dal momento che l’escrezione renale costituisce l’unico mezzo per ridurre i livelli di magnesio, la presenza di insufficienza renale può rendere pericolose anche dosi terapeutiche di lassativi e antiacidi. I sintomi dell’ipermagnesemia sono rappresentati da crampi muscolari, paralisi, atassia e stato confusionale. La somministrazione di calcio favorisce la rimozione di magnesio dal sangue. Eliminare le fonti di magnesio esogeno e supportare l’attività cardiorespiratoria finché i livelli di magnesio non sono ridotti. Una aritmia maligna viene spesso corretta da 500-1000 mg di calcio cloruro (5-10 ml di calcio cloruro 10%) ripetibile se necessario. Se la funzionalità renale e cardiorespiratoria sono normali un diuretico come la furosemide favorisce la diuresi salina. Se l’ipermagnesemia è severa la dialisi è il trattamento di scelta ma questa può incrementare l’escrezione di calcio sviluppando ipocalcemia, peggiorando i sintomi e segni dell’ipermagnesemia. • Bibliografia 1. Berghmans T, Paesmans M, Body JJ.. A prospective study on hyponatremia in medical cancer patients: epidemiology, etiology and differential diagnosis. Support Care Cancer 2000; 8: 192-7. 2. Gill G. Characteristics and mortality of severe hyponatremia-a hospital-based study. Clin Endocrinol 2006; 65: 246-9. 3. Waikar SS, Mount DB, Curhan GC. Mortality after hospitalization with mild, moderate and severe hyponatremia. Am J Med 2009; 122: 857-65. 4. List AF, Hainsworth JD, Davis BW, Hande KR, Greco FA, Johnson DH. The syndrome of inappropriate secretion of antidiuretic hormone (SIADH) in small cell lung cancer. J Clin Oncol 1986; 4: 1191-8. 5. Schrier RW, Gross P, Gheorghiade M, et al. SALT Investigators. Tolvaptan, a selective oral vasopressin V2-receptor antagonist , for hyponatremia. N Engl J Med 2006; 355: 2009-12. 6. Kenz S. High sensitivity to tolvaptan in paraneoplastic syndrome of inappropriate ADH secretion (SIADH). Ann Oncol 2011; 22: 2696. 7. Berl T, Quittnat-Pelletier F, Verbalis JG, et al. Oral tolvaptan is safe and effective in chronic hyponatremia. J Am Soc Nephrol 2010; 21: 705-12. 8. Miller Va, Hirsh V, Cadranel J, et al. Afatinib versus placebo for patients with advanced, metastatic non small-cell lung cancer after failure of erlotinib, gefitinib, or both, and one or two lines of chemotherapy (LUX- Lung 1): a phase 2b/3 randomized trial. Lancet Oncol 2012; 13: 528-38. 9. Sternberg CN, Hawkins RE, Wagstaff J, et al. A randomised, doubleblind phase III study of pazopanib in patients with advanced and/or metastatic renal cell carcinoma: final ovewrall survival results and safety update. Eur J Cancer 2013; 49: 1287-96. 10. Qiaoli W, Yuexiao Qi, Di Zhang, et al. Electrolyte disorders assessment in solid tumor patients trated with anti-EGFR monoclonal antobodies: a pooled analysis of 25 randomized clinical trials. Tumor Biol 2015; 36: 3471-82. 11. Hutson TE, Davis ID, Machiels J-PH, et al. Efficacy and safety of pazopanib in patients with metastatic renal carcinoma. J Clin Oncol 2010; 28: 475-80. 12. Goren MP. Cisplatin nefrotoxicity affects magnesium and calcium metabolism. Med Pediatr Oncol 2003; 41: 186-9. 13. Fakih M, Vincent M. Adverse events associated with anti-EGFR therapies for the treatment of metastatic colorectal cancer. Curr Oncol 2010l; 17 (Suppl 1): S18-S30. 14. Chen P, Wang L, Li H, Liu B, Zou Z. Incidence and risk of hypomagnesemia in advanced cancer patients treated with cetuximab: A meta-analysis. Oncol Lett 2013; 5: 1915-20. CASCO — Autunno 2016

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Gestione eventi avversi

Tossicità da osimertinib e necitumumab

Elisa Minenza Struttura Complessa di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

In patients with squamous histology however they have not been identified to date important therapeutic targets for the first line of treatment and the study drugs like cetuximab or necitumumab are associated to important toxicity and marginal benefits. Key words. Necitumumab, osimertinib, lung cancer.

RIASSUNTO Il carcinoma del polmone costituisce il 12,9% circa di tutte le nuove diagnosi di neoplasia, con circa 1,8 milioni di nuovi casi/anno. Il 70% circa delle nuove diagnosi si presenta all’esordio come malattia localmente avanzata o metastatica con una sopravvivenza mediana che si attesta a 12-14 mesi. Negli ultimi anni si è assistito ad un lieve e progressivo, anche se ad oggi modesto incremento in sopravvivenza globale grazie ad una migliore conoscenza della biologia molecolare e alla conseguente introduzione di farmaci biologici target. In particolare nel sottogruppo di pazienti ad istologia non squamosa con mutazioni attivanti di EGFR sono in fase di sviluppo nuove molecole in grado di superare la resistenza al trattamento di prima linea con inibitori di tirosin chinasi, in particolare osimertinib sembra esplicare, con buon profilo di tossicità, una consistente attività nel gruppo di pazienti che sviluppano la mutazione di resistenza T790M. Nei pazienti ad istologia squamosa invece non sono stati ad oggi identificati importanti target terapeutici per la prima linea di trattamento e i farmaci in studio come il cetuximab o il necitumumab forniscono dei benefici di efficacia piuttosto marginali che si associano inoltre ad importanti profili di tossicità. Parole chiave. Necitumumab, osimertinib, neoplasia polmonare.

SUMMARY

Toxicity by osimertinib and necitumumab Lung cancer accounts for about 12.9% of all newly diagnosed cancer, with about 1.8 million new cases / year. About 70% of new diagnoses is represented by locally advanced or metastatic disease with a median survival of 12-14 months. In recent years there has been a slight and gradual but modest increase in overall survival thanks also to the development of molecular biology with introduction of target biological drugs. Particularly in the subset of patients with squamous histology with activating mutations of EGFR are developing new molecules that can overcome resistance to first-line treatment, in particular osimertinib seems to act in patients who develop resistance mutation T790M after previous treatment with tyrosine kinase inhibitors. 16

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Osimertinib Il 10-15% dei pazienti occidentali e fino al 30-40% dei pazienti asiatici affetti da carcinoma del polmone non microcitoma (NSCLC) esprimono mutazioni attivanti del gene EGFR. Questi pazienti ricevono in prima linea terapia mirata con inibitori di tirosin chinasi più efficaci della chemioterapia negli studi registrativi di confronto con un tasso di risposte obiettive pari al 50-80% per gli inibitori di tirosin chinasi rispetto al 30-35% della chemioterapia1-4. Sfortunatamente però dopo circa 9-13 mesi dall’inizio del trattamento i pazienti vanno incontro a progressione di malattia perché si sviluppano dei meccanismi di resistenza alla terapia farmacologica. Tra i meccanismi di resistenza studiati due di essi sono i più frequenti: l’amplificazione di MET (trasformazione epitelio-mesenchimale) che attiva la via del PI3K (fosfatidil-inositolo 3 chinasi) e lo sviluppo della mutazione secondaria di resistenza EGFR T790M5 che è dovuta ad una sostituzione nucleotidica in posizione 2369 dell’esone 20. Tale meccanismo costituisce circa il 50-60% dei casi di acquisita resistenza ad un inibitore di tirosin chinasi reversibile in prima linea. Recentemente inoltre è stato valutato che tale mutazione di resistenza T790M possa essere presente anche nel 3-40% dei pazienti naive al trattamento con inibitori di tirosin chinasi suggerendo la presenza di cloni resistenti de novo. Osimertinib è un potente inibitore irreversibile ed altamente selettivo dei recettori per il fattore di crescita epidermico (EGFR), che presentano mutazioni sensibilizzanti (EGFRm+) compresa la mutazione di resistenza T790M non interferendo con l’attività del recettore non mutato6. Nel novembre 2015 osimertinib ha ricevuto approvazione accelerata FDA per pazienti affetti da carcinoma del polmone NSCLC avanzato, portatori di mutazione T790M del gene EGFR in progressione di malattia dopo un precedente trattamento con inibitori di tirosin chinasici. Osimertinib viene assunto alla dose giornaliera di 80 mg in unica somministrazione. Se si dimentica di assumere una dose del farmaco bisogna riassumerla per supplire alla dimenticanza a meno che la dose successiva debba essere as-


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sunta entro 12 ore. Può essere assunto in concomitanza o meno dei pasti indicativamente alla stessa ora del giorno. Non sono necessari aggiustamenti posologici in base all’età, etnia, peso corporeo, sesso o abitudine tabagica. Osimertinib ha un prevalente metabolismo epatico (per il 65% del totale), in minor misura renale mentre il 2% è eliminato in modo inalterato. Non sono previste riduzioni di dose nei pazienti con insufficienza epatica lieve, non consigliata la somministrazione in presenza invece di un danno epatico moderato-severo per la mancanza di dati in letteratura su questi pazienti; non è necessario inoltre adeguare il dosaggio in pazienti con insufficienza renale lieve-moderata mentre non è consigliata la somministrazione in pazienti con insufficienza renale grave vista la mancanza di dati a riguardo. Uno studio di fase I/II7 ha arruolato complessivamente 253 pazienti in progressione di malattia dopo trattamento di prima linea con inibitori di tirosin chinasi per NSCLC malattia avanzata EGFRm+ di cui 31 venivano sottoposti ad una fase di dose-escalation con somministrazione del farmaco a partire dalla dose di 20 mg poi a salire di 20 mg in 20 mg fino alla dose massima di 240 mg. Ogni volta che una dose si dimostrava attiva veniva iniziata una fase di dose-expansion con i pazienti sottoposti a quello specifico dosaggio. Nella fase di dose escalation non si evidenziava una tossicità doselimitante. I pazienti trattati con dosaggi pari a 160 mg o 240 mg hanno però evidenziato un aumento della frequenza e della severità di alcuni effetti avversi tipici indotti dall’EGFR (principalmente diarrea ed eruzione cutanea) rispetto al dosaggio di 80 mg. L’analisi di attività della fase II dello studio ha valutato il tasso di risposte obiettive che si attesta al 51% (in particolare questa percentuale saliva al 61% tra i pazienti che presentavano la mutazione T790M e scendeva al 21% nei pazienti che non presentavano la mutazione). La PFS mediana è stata di 9,6 mesi e 2,8 mesi rispettivamente per i pazienti con o senza mutazione T790M. Le tossicità più frequenti, principalmente di grado lieve e moderato, sono state: diarrea, rash muco-cutaneo, paronichia, nausea, diminuzione dell’appetito. Due studi clinici di fase II ancora non pubblicati hanno valutato il trattamento con osimertinib alla dose di 80 mg/die8 in 411 pazienti in progressione di malattia dopo trattamento di prima linea con inibitori di tirosin chinasi per NSCLC malattia avanzata EGFRm+ e presenza di mutazione T790M. L’ORR, endpoint primario dello studio, era pari al 59%. Oltre agli effetti collaterali sopra detti sono stati segnalati casi di polmoniti interstiziali, cardiomiopatia, prolungamento del tratto QTc, diarrea ed eruzione cutanee. Il farmaco è al momento in fase di valutazione in uno studio di fase III di confronto tra efficacia e tossicità di osimertinib rispetto alla chemioterapia con doppiette a base di platino in pazienti con NSCLC localmente avanzato o metastatico EGFR T790M positivo, in progressione dopo una precedente terapia con inibitori di tirosin chinasi di EGFR.

Inoltre è stato da poco chiuso lo studio FLAURA 1 che valuta in pazienti naive l’impiego di osimertinib rispetto agli inibitori di tirosin-chinasi oggi a disposizione.

Principali effetti collaterali

Patologie muco cutaneo Esse riguardano circa il 40% dei pazienti trattati negli studi di fase II, generalmente di grado lieve-moderato vista l’azione altamente selettiva di osimertinib. Si manifestano principalmente con: eruzioni cutanee (40% circa), secchezza della cute (30% circa), paronichia (25% circa) e prurito (14%). I trattamenti sono a base di creme steroidee, antibiotici topici o sistemici, antiistaminici topici o sistemici, creme retinoidi.

Diarrea La diarrea colpisce fino al 47% circa dei pazienti in trattamento, anch’essa principalmente di grado lieve-moderato.

Prolungamento del QTc Esso può comportare un maggior rischio di tachi-aritmie ventricolari e (ad es. torsioni di punta) o morti improvvise. Pazienti con prolungamento del QTc >500 msec in due ECG successivi devono interrompere il trattamento e monitorizzare strettamente l’ECG fino alla risoluzione dello stesso. Se l’intervallo scende a 480 msec è possibile riprendere il trattamento ma a dose dimezzata (40 mg/die). Se la risoluzione avviene dopo 2 settimane o si accompagna a sintomi/segni di aritmia grave si consiglia di interrompere definitivamente il trattamento. Negli studi di fase II meno dell’1% dei pazienti ha presentato un QTc superiore a 500 msec e il 2,7% dei pazienti ha presentato un aumento del QTc basale superiore a 60 millisecondi, non si sono riscontrati eventi aritmici. Un’analisi farmacocinetica ha consentito di predire un incremento concentrazione-dipendente del prolungamento dell’intervallo QTc.

Malattia polmonare interstiziale La malattia polmonare interstiziale (ILD) si verifica in circa il 3% dei pazienti ed è risultata fatale in circa lo 0,5% degli oltre 1200 pazienti arruolati al momento negli studi clinici. La diagnosi comporta la sospensione del farmaco e la somministrazione di terapia steroidea sistemica. Generalmente dopo il trattamento e la sospensione del farmaco il quadro clinico è reversibile e la possibilità di riprendere il farmaco è legata all’entità dell’effetto avverso e alla sua durata. Negli studi di fase II la percentuale di pazienti con ILD è stata del 2,7% con lo 0,7% che hanno avuto ILD di Grado 34 e nell’1% dei casi è risultata fatale. L’incidenza di ILD è stata del 6,2% dei pazienti ad etnia giapponese, 1,2% dei pazienti ad etnia asiatica e 2,4% dei pazienti non asiatici negli studi di fase II. Il tempo mediano di insorgenza di ILD o reazioni avverse simil-ILD è stata di 2,7 mesi. CASCO — Autunno 2016

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Alterazioni laboratoristiche Negli studi di fase II le alterazioni laboratoristiche consistono principalmente in piastrinopenia di grado lieve nel 54% dei casi e di grado elevato nell’1,2% dei casi, leucopenia nel 67% dei casi di grado lieve e di grado elevato nell’1-2% dei casi e neutropenia di grado lieve in circa il 30% dei casi e nel 3,4% di grado elevato. Il 46% dei pazienti trattati con osimertinib aveva un’età uguale o superiore a 65 anni e il 13% aveva un’età uguale o superiore a 75 anni. I pazienti di età superiore a 65 anni rispetto a quelli di età inferiore hanno presentato negli studi clinici di fase II una maggiore percentuale di effetti avversi (23% versus 17%). I tipi di eventi avversi sono risultati simili a prescindere dall’età. I pazienti più anziani hanno anche presentato un maggiore numero di eventi avversi di G3 o superiore, rispettivamente del 32% versus 28%.

Necitumumab Il carcinoma del polmone ad istologia squamosa rappresenta circa il 30% di tutti i NSCLC. Diversamente dall’istologia non squamosa dove il trattamento di prima linea con terapie a bersaglio molecolare in pazienti selezionati dal punto di vista biologico per la presenza di mutazioni attivanti dell’EGFR o per la traslocazione di EML4-ALK ha determinato importanti benefici, per l’istologia squamosa, dove la percentuale di mutazioni attivanti l’EGFR o la traslocazione di EML4-ALK sono estremamente rare, la prima linea di trattamento rimane la chemioterapia di combinazione contenente platino. L’istologia squamosa però è caratterizzata da una sovraespressione di EGFR nel 60-80% dei casi e in percentuale del 7-10% anche da alterazioni molecolari che riguardano l’EGFR, tanto che sono oggetto di studio anticorpi IgG1 rivolti al recettore EGFR, in particolare il cetuximab9 e il necitumumab. Il necitumumab è un anticorpo umano monoclonale della classe IgG1 che si lega in modo competitivo al dominio extracellulare del recettore EGFR inibendone l’interazione con il ligando EGF e conseguentemente l’adozione della conformazione recettoriale necessaria per la dimerizzazione. Inoltre il necitumumab può anche indurre una immuno-citotossicità anticorpo dipendente. Ne consegue una down-regulation recettoriale e una inibizione del segnale di EGFR. Necitumumab è stato approvato a novembre 2015 dalla FDA per l’utilizzo in combinazione a chemioterapia contenente cisplatino e gemcitabina nel trattamento di prima linea di pazienti affetti da NSCLC ad istologia squamosa localmente avanzato o metastatico, sulla base dello studio SQUIRE10. Lo studio SQUIRE, randomizzato di fase III, confronta in 1093 pazienti affetti da NSCLC ad istologia squamosa in prima linea di trattamento la combinazione di platino e gemcitabina rispetto alla stessa doppietta chemioterapica con l’aggiunta di necitumumab. Il necitumumab veniva infuso alla dose fissa di 800 mg 18

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nei giorni 1-8 di ogni ciclo in combinazione alla chemioterapia per un numero massimo di 6 cicli e poi in monoterapia fino a progressione o tossicità. L’endpoint primario dello studio, la sopravvivenza globale, è risultato superiore in modo statisticamente significativo, nonostante il beneficio sia modesto, nel braccio di trattamento con necitumumab (11,5 mesi rispetto a 9,9 mesi, HR = 0,84); pressoché sovrapponibile invece la sopravvivenza libera da progressione (PFS) risultata nei due bracci di 5,5 e 5,7 mesi. In mancanza di un preciso target di azione dell’anticorpo ad oggi non identificato11, lo studio documenta un modesto guadagno in OS (1,6 mesi) con l’aggiunta di necitumumab a scapito di un consistente incremento della tossicità. Il farmaco è poi stato valutato in un secondo studio di fase III (INSPIRE)12 su 633 pazienti ad istologia non squamosa randomizzati a ricevere in prima linea necitumumab in combinazione a chemioterapia contenente cisplatino e pemetrexed rispetto alla sola chemioterapia. Lo studio è stato chiuso prematuramente alla luce dell’elevata incidenza di eventi tromboembolici durante i primi due cicli di trattamento. Non sono state evidenziate differenze significative in termini di sopravvivenza globale (11,3 e 11,5 mesi rispettivamente nel braccio sperimentale e in quello di controllo). Anche in questo studio l’aggiunta di necitumumab ha aumentato l’incidenza e la severità degli effetti avversi, in particolare gli eventi trombo embolici, le alterazioni degli elettroliti e il rash cutaneo. In entrambi gli studi si è registrato un incremento del numero di morti nel braccio di pazienti trattati con necitumumab (2,2% vs 0,5% nel primo studio e 3,6% vs 1,6% nel secondo studio) per cause non precisate. Probabilmente i disturbi elettrolitici relati alla combinazione di necitumumab e chemioterapia in unione ad un quadro di predisposizione dovuto alle comorbilità di alcuni pazienti (ad esempio vasculopatia, ipertensione) hanno giocato un ruolo nell’eziologia di tali eventi.

Effetti collaterali più frequentemente riportati

Eventi tromboembolici Eventi tromboembolici venosi (VTE) o arteriosi (ATE) sono risultati tre volte più frequenti nei pazienti con anamnesi di eventi tromboembolici come l’embolia polmonare, la trombosi venosa profonda, l’infarto del miocardio o l’ictus) o di fattori di rischio preesistenti come l’età avanzata, l’immobilizzazione prolungata, ecc. Nello studio SQUIRE gli eventi tromboembolici venosi principalmente rappresentati da trombosi venose profonde ed embolia polmonare sono stati riportati in circa l’8% dei pazienti di cui nel 4% dei pazienti di grado elevato. L’incidenza di VTE ad esito fatale è risultata simile nei due bracci di trattamento pari allo 0,2%. Gli ATE rappresentati principalmente da ictus e infarto del miocardio riguardano circa il 4% dello studio SQUIRE, nel 3% dei casi di grado severo. ATE ad esito fatale hanno riguardato lo 0,6% dei pazienti nel braccio sperimentale rispetto allo 0,2% del braccio di controllo.


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Nello studio INSPIRE, VTE hanno riguardato l’11% dei pazienti nel braccio sperimentale rispetto all’8% del braccio di controllo. Eventi di grado elevato nel 6% e 4% di pazienti rispettivamente. Gli eventi tromboembolici arteriosi invece sono risultati più frequenti nello studio INSPIRE nel braccio della sola chemioterapia (6% versus 4%), nel 4% e 3% rispettivamente di grado severo. Sembra esserci una correlazione tra l’utilizzo di anticorpi anti-EGFR e la patogenesi di eventi tromboembolici soprattutto di tipo venoso (trombosi venose profonde ed embolia polmonare), probabilmente causata dall’ inibizione indiretta del segnale mediato dal Vascular Endothelial Growth Factor13.

Reazioni cutanee Riguardano circa il 78% dei pazienti trattati con necitumumab e sono essenzialmente rappresentate da: eritema acneiforme, dermatite acneiforme, secchezza della cute, prurito e fissurazioni cutanee, paronichia ed eritrodisestesia palmo-plantare (sindrome mano-piede). Le reazioni cutanee sono generalmente di grado lieve, solo il 6% circa dei pazienti ha presentato reazioni di G3-4. L’1,7% dei pazienti ha sospeso il trattamento a causa delle manifestazioni cutanee. L’insorgenza delle manifestazioni cutanee è risultata maggiore durante il primo ciclo di trattamento e si sono risolte entro 17 settimane dalla loro insorgenza. Misure preventive come applicazioni di creme idratanti e protezioni solari sono consigliate. Il trattamento riguarda essenzialmente la somministrazione di steroidi soprattutto per via topica e terapia antibiotica come la doxiciclina. Nei casi di grado elevato viene consigliata la temporanea sospensione del trattamento. Sono stati inoltre segnalati casi di tricomegalia delle ciglia di G1.

Alterazioni elettrolitiche Nell’81,3% dei pazienti si è manifestata una riduzione progressiva dei livelli di magnesio sierico fino ad uno stato di grave ipomagnesiemia nel 18,7% dei pazienti. Dopo un ritardo della somministrazione della dose, l’ipomagnesiemia può ripresentarsi con lo stesso grado o con un peggiore grado di tossicità. I pazienti devono essere attentamente monitorizzati per quello che riguarda gli elettroliti nel siero, in particolare magnesio, potassio e calcio prima di ogni somministrazione di necitumumab e al termine del trattamento al fine di intraprendere una tempestiva terapia di ripristino se necessario.

Patologie cardio-respiratorie I pazienti in trattamento con necitumumab hanno sviluppato una maggiore frequenza di morte improvvisa, in particolare nel 2,8% (15/538) rispetto allo 0,6% della sola chemioterapia dei pazienti dello studio SQUIRE. Dei 15 pazienti 12 sono deceduti entro 30 giorni dall’ultima dose di necitumumab ed avevano come comorbilità: coronaropatia (3), ipomagnesiemia (4), malattia polmonare cronica ostruttiva (7), ipertensione (5).

Da segnalare inoltre la possibilità di reazioni di ipersensibilità/ reazioni correlate all’infusione in circa l’1,5% dei pazienti, di grado severo nello 0,4% di essi; generalmente avvengono dopo la prima o seconda somministrazione di necitumumab e si manifestano con brividi, febbre e dispnea. In questi pazienti se la reazione è di G1-2 e il trattamento viene proseguito previa premedicazione con corticosteroidi ed antipiretici in aggiunta ad antistaminico. Per quanto riguarda i pazienti anziani (età > 70 anni) o con PS ECOG 2 l’efficacia del necitumumab e il suo profilo di tossicità sono risultati sovrapponibili rispetto ai pazienti giovani. • Bibliografia 1. Mok TS, Wu YL, Thongprasert S, et al. Gefitinib or carboplatinpaclitaxel in pulmonary adenocarcinoma. N Engl J Med 2009; 361: 947-57. 2. Rosell R, Carcereny E, Gervais R, et al. Erlotinib versus standard chemotherapy as first-line treatment for European patients with advanced EGFR mutation-positive non-small-cell-lung cancer (EURTAC): a multicentre, open-label, randomized phase 3 trial. Lancet Oncol 2012; 13: 239-46. 3. Sequist LV, Yang JC, Yamamoto N, et al. Phase III study of afatinib or cisplatin plus pemetrexed in patients with metastatic lung adenocarci¬noma with EGFR mutations. J Clin Oncol 2013; 31: 3327-34. 4. Wu YL, Zhou C, Hu C-P, et al. LUX-Lung 6: A randomized, openlabel, phase III study of afatinib (A) versus gemcitabine/cisplatin (GC) as first-line treatment for Asian patients (pts) with EGFR mutation-positive (EGFR M+) advanced adenocarcinoma of the lung. J Clin Oncol 2013; 31 (Suppl): Abstr 8016. 5. Yun CH, Mengwasser KE, Toms AV, et al. The T790M mutation in EGFR kinase causes drug resistance by increasing the affinity for ATP. Proc Natl Acad Sci USA 2008; 105: 2070-5. 6. Thomas E, Stinchcombe TE. AZD9291 in epidermal growth factor receptor inhibitor-resistant non-small-cell-lung cancer. Transl Lung Cancer Res 2016; 5: 92-4. 7. Jänne PA, Yang JC-H, Kim D-W, et al. AZD9291 in EGFR inhibitorresistant non-small-cell lung cancer. N Engl J Med 2015; 372: 1689-99. 8. Osimertinib FDA drug: www.fda.gov/drugs/informationondrugs/ approveddrugs/ucm472565.htm 9. Pirker R, Pereira JR, Szczesna A, et al. Cetuximab plus chemotherapy in patients with advanced non-small-cell lung cancer (FLEX): an open-label randomized phase III trial. Lancet 2009; 373: 1525-31. 10. Thatcher N, Hirsch FR, Luft AV, et al. Necitumumab plus gemcitabine and cisplatin versus gemcitabine and cisplatin alone as first-line therapy in patients with stage IV squamous nonsmall-cell lung cancer (SQUIRE): an open-label, randomised, controlled phase 3 trial. Lancet Oncol 2015; 16: 763-74. 11. Zugazagoitia J, Ponce S, Paz-Ares L. Necitumumab for first-line treatment of advanced, squamous, non-small-cell lung cancer: a relevant step forward? Transl Lung Cancer Res 2016; 5: 95-7. 12. Paz-Ares L, Mezger J, Ciuleanu T, et al. Randomized phase 3 trial (INSPIRE) of necitumumab plus cisplatin-pemetrexed versus cisplatin-pemetrexed alone as first-line therapy in stage IV nonsquamous NSCLC. Lancet Oncol 2015; 16: 328-37. 13. Petrelli F, Cabiddu M, Borgonovo K, et al. Risk of venous and arterial thromboembolic events associated with anti-EGFR agents: a meta-analysis of randomized clinical trials. Ann Oncol 2012; 23: 1672-9. CASCO — Autunno 2016

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Gestione eventi avversi

Tossicità da S-1 e TAS-102

Guglielmo Fumi Struttura Complessa di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni RIASSUNTO Le fluoropirimidine sono utilizzate nel trattamento delle neoplasie gastrointestinali fin dal 1962, data dell’approvazione del 5-fluorouracile (5-FU) in formulazione endovenosa. Questi farmaci rappresentano ancora un caposaldo nei trattamenti delle neoplasie del tratto gastrointestinale e non solo, in monoterapia o, più spesso, in associazione con altri agenti chemioterapici. Un limite del 5-FU è rappresentato dalla breve emivita, circa 10’, che richiede infusioni continuative endovenose per il mantenimento di livelli ematici costanti. La disponibilità di fluoropirimidine per via orale ha notevolmente semplificato l’utilizzo di questa categoria di farmaci, mantenendone l’efficacia. In questa breve presentazione descriveremo il profilo di tossicità di due fluoropirimidine orali di nuova generazione: S-1, già da tempo utilizzata nei paesi asiatici e da qualche tempo disponibile anche nei paesi occidentali (dopo studi di fase I che hanno adattato la dose alle diversità razziali) e TAS-102, in fase di sperimentazione ma con dati che sembrano promettere il superamento di limiti dei precedenti composti. Parole chiave. S-1, TAS-102, tegafur, trifluridina.

SUMMARY

Toxicity by S-1 and TAS-102 Flupropyrimidine have been used for gastrointestinal cancer treatment since 1962, when iv 5-fluorouracil (5-FU) was approved, and they are yet widely used, alone or more often in combination schedules. The short half-life time of iv 5-FU, needing continuous infusions for stable plasmatic levels, has been overcome by the oral formulations, with preserved efficacy. In this brief report we describe the safety profyle of two new oral fluoropyrimidine: S-1, long used in Asian countries and recently available in the west (after phase 1 studies to adapt doses from asians patients to caucasians), and TAS102, a new fluoropyrimidine under study. Key words. S-1, TAS-102, tegafur, trifluridin.

Ruolo delle fluoropirimidine nei tumori del tratto gastrointestinale Il 5-FU è un antimetabolita che agisce fra l’altro interferendo con la sintesi dell’RNA ed inibendo l’attività della timi20

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dilato sintetasi (TS). Il catabolismo del 5-FU avviene ubiquitariamente (per l’80% a livello epatico), ad opera dell’enzima diidropirimidina deidrogenasi (DPD); la carenza di DPD, condizione geneticamente determinata, comporta la persistenza di disponibilità di 5-FU con conseguente esaltazione della tossicità. La prima fluoropirimidina orale disponibile è stata il tegafur, un profarmaco convertito a 5-FU a livello intracellulare, che si è proposto come alternativa alla infusione endovenosa continuativa di 5-FU. Successivamente veniva introdotta la capecitabina, un altro profarmaco convertito a 5FU a livello tessutale dopo diversi passaggi enzimatici. Quasi contemporaneamente si rendeva disponibile anche l’UFT, una associazione di tegafur ed uracile (inibitore della diidropirimidina deidrogenasi-DPD), somministrato in associazione a calcio folinato, in grado di aumentare la citotossicità del 5FU attraverso uno dei suoi metaboliti intracellulari, il 5,10metilenetetraidrofolato. Il profilo di tossicità delle fluoropirimidine è abitualmente ben gestibile, specie quando utilizzate in monoterapia, con l’eccezione dei rari casi di portatori della mutazione congenita dell’enzima DPD, quando le reazioni avverse possono portare fino alla morte. In questo articolo ci soffermeremo sul profilo di tossicità di altre due fluoropirimidine: S-1, già da tempo in uso nei paesi asiatici e da poco disponibile in Europa, e TAS-102, ancora in fase di approvazione. S-1 S-1 è una fluoropirimidina orale di quarta generazione, costituita dall’associazione del profarmaco del 5-FU tegafur (15 mg), combinato con gimeracil (4,35 mg) e oteracil (11,8 mg). Gimeracil è un potente inibitore della DPD, con conseguente blocco della degradazione del 5-FU; oteracil è un inibitore dell’enzima orotato-fosforibosil transferasi, che blocca selettivamente l’azione dei metaboliti attivi del 5-FU nella mucosa gastrointestinale normale, con effetti minimi a livello del tessuto tumorale. Ne deriva una esaltazione dell’attività di 5FU a livello dei tessuti tumorali, con azione protettiva a livello della mucosa sana. S-1, utilizzato già da tempo nei paesi asiatici nel trattamento dei tumori gastrointestinali, è stato recentemente approvato in Europa con indicazione nel trattamento chemioterapico del carcinoma gastrico avanzato in associazione con cisplatino. In Italia è autorizzato dal marzo 2011 con la stessa indicazione.

Effetti indesiderati di S-1 Gli effetti indesiderati di S-1 sono per lo più quelli condi-


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visi dalle altre fluoropirimidine, con possibilità di diarrea anche severa, mucosite, eritrodisestesia palmo-plantare, anemia, leucopiastrinopenia. Quando somministrato insieme a cisplatino, si associano gli effetti collaterali di quest’ultimo (neurologici, renali, otologici) e si potenzia la tossicità ematologica. Da segnalare come la possibilità di diarrea severa, e la conseguente possibile disidratazione, possa incrementare il rischio di insufficienza renale. In caso di deficit di DPD possono verificarsi reazioni avverse fatali. La dose standard raccomandata, quando somministrato in associazione con cisplatino, è di 25 mg/m2 (espresso come contenuto di tegafur) due volte al giorno, al mattino e alla sera, per 21 giorni consecutivi, seguita da 7 giorni di riposo. Il ciclo di trattamento è ripetuto ogni 4 settimane. Le dosi devono essere ridotte per una clearance della creatinina compresa fra 30 e 50 ml/m, non essendo raccomandata l’assunzione per valori di clearance < 30 ml/m. Nei pazienti asiatici i dosaggi raccomandati sono più elevati, suggerendosi dosi di 80 mg/m2 in due somministrazioni giornaliere I diversi dosaggi nei pazienti asiatici e in quelli caucasici sono in parte giustificati dalle diversità, nelle due popolazioni, del genotipo e fenotipo del citocromo CYP2A6, responsabile della conversione del tegafur a 5-fluorouracile, con conseguenti implicazioni famacocinetiche e farmacodinamiche. In realtà le differenze in tossicità (per lo più diarrea e mucositi severe) fra pazienti asiatici e caucasici sono state documentate anche a parità di livelli ematici di 5-FU; possibili spiegazioni possono trovarsi anche nella variabilità interetnica della attività della timidilato sintetasi, così come nelle diverse abitudini alimentari con diete maggiormente ricche di folati (tra i caucasici), in grado di accentuare la tossicità delle fluoropirimidine1. Una metanalisi ha comparato la attività e la tollerabilità di capecitabina ed S-1 all’interno di schemi di combinazione nel trattamento di tumori gatrointestinali. Sono stati analizzati 6 studi, di cui 4 studi randomizzati e due analisi retrospettive, con 790 pazienti complessivi (asiatici). I principali effetti collaterali documentati sono stati anemia, neutropenia, piastrinopenia, fatigue, anoressia, nausea e neuropatia. L’anoressia risultava più frequente nei pazienti trattati con S-1 (67%) rispetto a capecitabina (59%). La frequenza della hand-footsyndrome è risultata sensibilmente più elevata nel gruppo trattato con capecitabina (33%, di grado 3-4: 3%) rispetto ad S-1 (10%, grado 3-4: 0,3%), come già riportato in altri studi. Gli altri effetti indesiderati risultavano egualmente rappresentati nei due gruppi2. S-1 in monoterapia è stato inoltre approvato nei paesi asiatici come trattamento adiuvante nei pazienti gastroresecati per carcinoma gastrico localmente avanzato radicalmente asportato (stadio II, III). Uno studio di fase III randomizzato verso placebo su 1059 pazienti3 ha infatti mostrato un miglioramento della sopravvivenza globale nei pazienti trattati con S-1 (HR per rischio morte dello 0,68%), al dosaggio di 80 mg/m2/die in due somministrazioni per 4 settimane ogni 6 per 12 mesi. Gli effetti indesiderati riportati sono stati di tipo ematologico (leucopenia, anemia, piastrinopenia, grado 3-4 in meno del 3%), quindi anoressia (6%

grado 3-4), nausea e vomito (3,7% grado 3-4), diarrea (3,1% grado 3-4), incremento degli indici di funzionalità epatica (< 2% grado 3-4), rash cutaneo, stomatite, fatigue (grado 3-4 < 1%). Il trattamento è stato interrotto per tossicità in 72 dei 529 pazienti trattati con S-1. L’approvazione in Europa di S-1 è avvenuta a seguito di uno studio randomizzato di fase III che ha confrontato, in pazienti non asiatici, l’associazione di cisplatino/S-1 verso cisplatino/5-FU nella prima linea di trattamento del carcinoma gastrico avanzato, documentando una non inferiorità fra i due trattamenti (FLAGS)4,5. Altri due studi di fase III sono stati condotti con S-1 su pazienti con malattia gastrica avanzata, ma su popolazioni asiatiche, e con dosaggi superiori (80 mg/m2/die), non tollerati dai pazienti caucasici. Lo studio FLAGS è stato condotto in 146 centri in 24 paesi, con stratificazioni, per centro, rispetto al numero di siti metastatici, precedente trattamento adiuvante e malattia misurabile. 1053 pazienti (86% di razza bianca) sono stati randomizzati a ricevere cisplatino 75 mg/m2, in associazione a 5-FU (1000 mg/m2/die per 5 giorni) o S-1 (50 mg/m2/die per 21 giorni ogni 28). L’endpoint primario era la sopravvivenza globale, non risultata significativamente diversa. Le differenze più significative hanno però riguardato il profilo di tossicità: la neutropenia grado 3-4 si è osservata nel 32,3% (5% febbrile) con S-1 rispetto al 63.6% (14,4% febbrile) del braccio con 5FU; piastrinopenia grado 3-4 nell’ 8.3% dei casi (S-1) contro il 13.5% (5-FU). Ancora, nel braccio con S-1 si è avuta mucosite di grado 3-4 nell’1,3% dei pazienti trattati con S-1, contro il 13,6% nel braccio con 5-FU. Ipokaliemia severa si è verificata nel 3,6% con S-1 verso il 10,8% con 5-FU. Gli autori concludono che lo studio, pur non dimostrando vantaggi in sopravvivenza nei pazienti trattati con S-1, evidenzia un profilo di tossicità sensibilmente più favorevole alla combinazione con S-1 rispetto al 5-FU. Una analisi di alcuni endpoint secondari dello stesso studio, pubblicata successivamente, ha enfatizzato le differenze fra i due bracci di trattamento in termini di Patient Reported Outcome, Health Related Quality of Life, time to worsening of Physical Well Being ed altri parametri correlabili al clinical benefit, supportando la migliore tollerabilità della combinazione cisplatino/ S-1 rispetto alla combinazione con 5-FU6. TAS-102 TAS-102 è una nuova fluoropirimidina per assunzione orale, ottenuta dalla combinazione di trifluridina (un analogo dell’acido nucleico timidina) e tipiracile idrocloridrato (un inibitore della timidina fosforilasi). La trifluridina è la componente citotossica attiva del TAS-102; l’inserimento nel DNA della sua forma trifosfata è l’elemento chiave per l’esprimersi della attività antitumorale. L’inibizione della timidina fosforilasi da parte del tipiracile ostacola la degradazione della trifluridina, garantendone livelli plasmatici adeguati per esprimere l’azione antitumorale. TAS-102 è stato approvato in Giappone nel trattamento del cancro colorettale avanzato7,8. Nel maggio 2015 è stato pubblicato uno studio multicentrico randomizzato doppio cieco di fase III9,10, che ha doCASCO — Autunno 2016

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cumentato un miglioramento statisticamente significativo (e clinicamente rilevante) della sopravvivenza globale con TAS102 rispetto al placebo in pazienti affetti da cancro colorettale avanzato e resistente a due o più linee dei trattamenti standard (contenenti fluoropirimidine, irinotecan, oxaliplatino, bevacizumab e cetuximab o panitumumab, questi ultimi nei pazienti gene RAS wild type). Lo studio era stato disegnato per rilevare un hazard ratio per il rischio morte dello 0,75% rispetto al gruppo trattato con placebo. 800 pazienti adulti sono stati randomizzati a ricevere (rapporto 2:1) TAS-102 (35 mg/m2 x2 die 5 giorni a settimana per 2 settimane ogni 4) o placebo. I pazienti erano stati stratificati per stato di RAS, tempo fra la comparsa di metastasi e la randomizzazione, e la provenienza geografica (Giappone, Australia, USA o Europa). L’utilizzo di regorafenib, divenuto disponibile nel corso dello svolgimento dello studio, era egualmente distribuito fra i gruppi di studio (17% TAS, 20% placebo). Lo studio è risultato positivo, con una sopravvivenza globale di 7,1 mesi verso 5,7, ed un HR per il rischio di morte dello 0,68% nel gruppo sperimentale, beneficio riscontrato pressoché in tutti i sottogruppi prepianificati. L’efficacia era evidente anche nei pazienti che venivano da progressione sotto trattamento con fluoropirimidine.

Effetti indesiderati da TAS-102 Nello studio di cui sopra l’evento avverso più frequente con TAS-102 è risultata la neutropenia (67% globale, 38% grado 3-4, febbrile nell’8%); nel gruppo sperimentale inoltre si sono documentati più nausea (50 vs 25%), vomito (30 vs 14%) e diarrea (35 vs 12%), ma con grado 3-4 solo nell’13%; si è riscontrata una morte tossica nel gruppo sperimentale, secondaria ad una sepsi da Staphilococco aureus; tale evento non veniva messo peraltro in relazione causa-effetto con TAS-102. Il 53% dei pazienti nel gruppo con TAS-102 ha necessitato di un ritardo medio per avviare il ciclo successivo di almeno 4 o più giorni, e nel 14% dei casi si è resa necessaria una riduzione di dose. Il trattamento è stato interrotto per tossicità nel 4% dei pazienti nel gruppo sperimentale, verso il 2% nel gruppo con placebo. Gli eventi avversi seri globalmente considerati sono risultati egualmente distribuiti nei due gruppi, evidenziando un profilo di tossicità nel complesso gestibile. La dose raccomandata nei pazienti giapponesi, 35 mg/m2 x 2/die gg 1-5, 8-12, ogni 28, è stata successivamente testata nei pazienti caucasici in un altro studio di fase I11 su 27 pazienti. Anche in questo studio sono stati confermati gli stessi dosaggi. La tossicità dose limitante è stata ancora la leucopenia febbrile; gli eventi avversi di grado 3-4 sono stati per lo più ematologici, con 70% di neutropenia (7% febbrili) e 22% di anemia. Fatigue di grado 1-2 è stata riferita da 15 dei 27 pazienti; frequenti anche i disturbi gastrointestinali (diarrea, nausea, vomito, anoressia), riferiti in circa la metà dei pazienti ma di grado 1-2. In un precedente studio di fase

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I8, TAS-102 era stato testato a dosaggi variabili (100, 60, 50 mg/m2/die 14 giorni ogni 21) in 14 pazienti affetti da neoplasie solide metastatiche di varia origine, in assenza di valide alternative terapeutiche. La tossicità dose limitante è stata anche in questo caso la neutropenia di grado 4; atri effetti indesiderati segnalati sono stati la fatigue e la alterazione del gusto, ma di grado 1-2. Complessivamente TAS-102 è stato studiato in ben 5 studi di fase I, ritrovandosi la neutropenia quale evento avverso dose limitante. L’attività antitumorale della trifluridina era nota già circa 50 anni fa, ma il profilo di tossicità riscontrato ai dosaggi necessari per il manifestarsi dell’efficacia risultava sfavorevole. L’aggiunta di un inibitore della timidina fosforilasi ha consentito una migliore maneggevolezza degli effetti indesiderati. • Bibliografia 1. Chuah B, Goh BC, Lee SC, Soong R, et al. Comparison of the pharmacokinetics and pharmacodynamics of S-1 between Caucasian and East Asian patients. Cancer Sci 2011; 102: 478-83. 2. Zhang X, Cao C, Zhang Q, et al. Comparison of the efficacy and safety of S-1-based and capecitabine-based regimens in gastrointestinal cancer: a meta-analysis. PLoS One 2014; 9: e84230. doi: 10.1371/journal.pone.0084230. eCollection 2014. 3. Sakuramoto S, Sasako M, Yamaguchi T, et al. Adjuvant chemotherapy for gastric cancer with S-1, an oral fluoropyrimidine. N Engl J Med 2007; 357: 1810-20. 4. Ajani JA, Rodriguez W, Bodoky G, et al. Multicenter phase III comparison of cisplatin/S-1 with cisplatin/infusional fluorouracil in advanced gastric or gastroesophageal adenocarcinoma study: the FLAGS trial. J Clin Oncol 2010; 28: 1547-53. 5. Ajani JA, Buyse M, Lichinitser M, et al. Combination of cisplatin/S-1 in the treatment of patients with advanced gastric or gastroesophagal adenocarcinoma: results of non inferiority and safety analyses compared with cisplatin/5-fluorouracil in the First-Line Advanced Gastric Cancer Study. Eur J Cancer 2013; 49: 3616-24. 6. Bodoky G, Scheulen ME, Rivera F, et al. Clinical benefit and health-related quality of life assessment in patients treated with cisplatin/s-1 versus cisplatin/5-fu: secondary end point results from the First-Line Advanced Gastric Cancer Study (FLAGS). J Gastrointest Cancer 2015; 46: 109-17. 7. Yoshino T, Mizunuma N, Yamazaki K, et al. TAS-102 monotherapy for pretreated metastatic colorectal cancer: a double-blind, randomised, placebo-controlled phase 2 trial. Lancet Oncol 2012; 13: 993-1001. 8. Doi T, Ohtsu A, Yoshino T, et al. Phase I study of TAS-102 treatment in Japanese patients with advanced solid tumours. Br J Cancer 2012; 107: 429-34. 9. Mayer RJ, Van Cutsem E, Falcone A, et al. Randomized trial of TAS-102 for refractory metastatic colorectal cancer. N Engl J Med 2015; 372: 1909-19. 10. Salvatore L, Rossini D, Moretto R, et al. TAS-102 for the treatment of metastatic colorectal cancer. Expert Rev Anticancer Ther 2015; 15: 1283-92. 11. Bendell JC, Rosen LS, Mayer RJ, et al. Phase 1 study of oral TAS102 in patients with refractory metastatic colorectal cancer. Cancer Chemother Pharmacol 2015; 76: 925-32.


Casi clinici

PRO-sit!

Enzo Ballatori Statistico medico, Spinetoli (AP)

Fausto Roila SC di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

RIASSUNTO Pazienti affetti da varie neoplasie solide, in cura presso il Memorial Sloan Kettering, sono stati randomizzati a ricevere le cure usuali (gruppo di controllo) ovvero a riferire la severità dei propri sintomi via web (gruppo sperimentale). Nel braccio sperimentale si è osservata una migliore qualità di vita, un minor consumo di risorse (accessi al pronto soccorso e ricoveri) e una sopravvivenza lievemente, ma significativamente, più lunga. Malgrado i risultati non siano esportabili al di fuori degli USA, i benefici effetti dei Patient-Reported Outcomes (PRO) potrebbero riprodursi in altri paesi anche seguendo modalità diverse di rilevazione della sintomatologia. Parole chiave. Patient-Reported Outcomes, PRO, randomizzazione, EQ-5D.

SUMMARY

PRO-sit! Patients with various solid tumors, under treatment at Memorial Sloan Kettering, were randomized to receive usual care (control group) or to a self-reporting of the severity of their symptoms via web (experimental group). In the experimental arm there were a better quality of life, low consumption of resources (emergency room visits and hospitalizations) and a slightly but significantly longer survival than in control arm. Although results cannot be exported outside the US, the beneficial effects of Patient-Reported Outcomes (PRO) could be reproduced in other countries also following different symptom severity measurement mode. Key words. Patient-reported outomes, PRO, randomization, EQ-5D.

Qualche anno fa la FDA ha definito i Patient-Reported Outcomes (PRO) come “any report coming from patients about a health condition and its treatment”. All’estensività di tale definizione è corrisposto un uso sempre più frequente dei PRO nella pratica clinica per i benefici che tali strumenti arrecano in termini di miglioramento della comunicazione medico-paziente e della qualità delle cure, di monitoraggio sia della progressione di malattia, sia della risposta al trattamento.

Il lavoro sintetizzato nella scheda si colloca in questo contesto e va segnalato non solo per la correttezza metodologica, ma anche perché è un esempio di come il disegno dello studio randomizzato, tipico della ricerca farmacologica, possa essere esportato anche al management del paziente. Studi di questo tipo dovrebbero essere eseguiti sistematicamente, soprattutto in Italia, dove non solo è ben nota la vocazione alla ricerca clinica, ma si sta anche rapidamente affermando il settore delle scienze infermieristiche (già da anni sviluppato negli altri paesi occidentali con il research nursing) che potrebbe dare un contributo sostanziale allo sviluppo di tali attività. I vantaggi di tali applicazioni sono evidenti dai risultati dello studio riportati nella scheda: miglioramento della qualità di vita, minore utilizzo delle risorse in termini di accessi al pronto soccorso (ER) e di ricoveri, rafforzamento delle relazioni del paziente con gli operatori sanitari, e, addirittura, miglioramento della sopravvivenza. Certo, lo studio esaminato presenta dei limiti, alcuni dei quali esposti dagli autori nella discussione e cioè a. lo studio è condotto in un contesto urbano e, quindi, i suoi risultati non sono generalizzabili ad altri contesti sociali; b. la scelta di EQ-5D per la valutazione della qualità di vita: non è detto che i risultati ottenuti si conservino usando un altro strumento di misura; c. un numero importante di partecipanti non ha avuto una valutazione di qualità di vita a 6 mesi: i risultati relativi all’endpoint primario possono dunque essere affetti da una distorsione da selezione; tuttavia, gli altri importanti outcome (minor consumo di risorse in termini di ricorso alla ER e di ri-ospedalizzazioni, sopravvivenza) non ne risentono affatto; d. potrebbe essere presente un effetto di confondimento dovuto al fatto che gli inesperti (nell’uso del PC) più spesso degli altri erano anziani e fragili, oltre ad avere una più ampia sintomatologia; quindi a tali determinanti, e non alla inesperienza nell’uso di tecnologie informatiche, sono verosimilmente imputabili i risultati. A tale lista non ci resta che aggiungere alcune considerazioni. Anzitutto la generalizzabilità dei risultati che non possono essere estesi a paesi diversi dagli USA perché 1. il cut-off di 6 punti, in aumento o in diminuzione nel punteggio normalizzato da 0 a 100 ottenuto con EQ-5D, indica una rilevanza clinica della variazione esclusivamente nei pazienti USA, perché è il risultato di studi ad hoc condotti negli USA; 2. la stima del 30-40% di inesperti, su cui è stata determiCASCO — Autunno 2016

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| Casi clinici | PRO-sit!

SCHEDA

Basch E, Deal AM, Kris MG, et al. Symptom Monitoring With PatientReported Outcomes During Routine Cancer Treatment: A Randomized Controlled Trial. J Clin Oncol 2015; 34: 557-65.

I pazienti affetti da tumore metastatico della mammella, del tratto genito-urinario, della sfera ginecologica o del polmone, in prima linea di trattamento con chemioterapia al Memorial Sloan Ketterig (MSK), sono stati randomizzati a due bracci, uno che prevedeva l’autovalutazione (selfreporting) dei sintomi via Web (braccio sperimentale), l’altro sottoposto alle cure usuali (braccio di controllo). Prima della randomizzazione i pazienti arruolati furono classificati a seconda del precedente livello di familiarità con il computer e con le e-mail. Quelli con regolare accesso al computer (d’ora in avanti indicati come ‘esperti’) furono assegnati al gruppo ‘esperto’ mentre gli altri (d’ora in avanti indicati come ‘inesperti’) al gruppo ‘inesperto’. In ognuno dei due sottogruppi, furono randomizzati al self-reporting o alle cure usuali (1:1 nel gruppo ‘esperto’ e 2:1 nel gruppo ‘inesperto’; la differenza nel rapporto di randomizzazione fu introdotta per tener conto di probabili missing data nel gruppo degli inesperti). Intervento Il self-reporting fu condotto via STAR (Symptom Tracking And Reporting), un’interfaccia web, precedentemente messa a punto e facile da usare, relativa a 12 sintomi che comunemente si presentano nel corso della chemioterapia: perdita di appetito, costipazione, tosse, diarrea, dispnea, disuria, fatigue, vampate di calore, nausea, dolore, neuropatia e vomito. La severità di ciascuno di questi sintomi fu valutata con una

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scala di Likert a cinque punti, da 0 (assente) a 4 (disabilitante). All’arruolamento tutti i pazienti vennero addestrati ad usare STAR. Ai pazienti ‘inesperti’ venne chiesto il self-reporting solo durante una visita, mentre agli ‘esperti’ fu dato un accesso in remoto a STAR, con una e-mail settimanale che chiedeva (ma non obbligava) a fornire report tra due visite consecutive. STAR inviava in automatico un messaggio di allerta ad una nurse, quando un sintomo fosse deteriorato di almeno due punti o raggiungeva un grado di almeno 3 punti. Misure di outcome L’outcome primario fu il cambiamento di HRQL (HealthRelated Quality of Life) a 6 mesi dalla valutazione basale (baseline), misurato con il questionario EuroQol5D (EQ-5D) con score normalizzato da 0 a 100, con i valori più bassi a rappresentare le condizioni peggiori; nei pazienti americani un cambiamento di 6 punti su tale scala può ritenersi clinicamente significativo. L’EQ-5D fu somministrato su supporto cartaceo durante una visita ogni 8-16 settimane. Fu inoltre valutata la sopravvivenza ad un anno e fu anche considerata la sopravvivenza aggiustata per qualità di vita moltiplicando il punteggio di EQ-5D per il tempo di sopravvivenza di ciascun paziente. Inoltre, furono misurati il tempo alla prima visita in ER (Emergency Room) e al primo ricovero al MSK. Analisi statistica Lo studio fu pianificato per arruolare 225 pazienti ‘inesperti’ (stimati preliminarmente come il 30-40% del totale), 150 assegnati a STAR e 75 alle cure usuali, così da evidenziare un effect-size di 0,4, in media, nel cambiamento del punteggio dell’EQ5D, con l’80% di potenza usando un

t-test a due code ad un livello di significatività del 5%. In ogni braccio, furono calcolate le percentuali di pazienti che migliorarono, restarono stazionari o peggiorarono rispetto al basale e confrontate con il test esatto di Fisher. Inoltre furono costruiti modelli lineari di regressione multipla assumendo il cambiamento rispetto ai valori basali come variabile dipendente e come covariate le caratteristiche del paziente (sesso, età, tipo di tumore, livello di istruzione, razza). Per gli endpoint relativi al ricorso alla ER e al ricovero al MSK furono costruite curve cumulative di incidenza. I confronti tra i gruppi della sopravvivenza ad 1 anno furono costruiti mediante modelli logistici aggiustando per le caratteristiche dei pazienti. L’analisi di sopravvivenza aggiustata per qualità fu basata sulla media dei punteggi di EQ-5D moltiplicandola per la sopravvivenza in ciascun paziente; tali misure (una per ciascun paziente) furono sommate per ottenere un numero totale di mesi di sopravvivenza aggiustati per qualità. Risultati Tra settembre 2007 e gennaio 2014 furono identificati 1007 soggetti come potenzialmente eleggibili. Escludendo gli ineleggibili e i rifiuti a partecipare, restarono 766 pazienti (227 inesperti e 539 esperti) che furono randomizzati secondo quanto descritto sopra. Qualità di vita e consumo di risorse Nel braccio STAR rispetto a quello di controllo (cure usuali), i punteggi di HRQL a 6 mesi migliorarono più spesso (34% vs 18%) e peggiorarono meno frequentemente (38% vs 53%). Similmente, nel braccio STAR ci fu una maggior percentuale di


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partecipanti che mostrarono un miglioramento di almeno 6 punti rispetto al braccio di controllo (21% vs 11%) e una minor percentuale di peggioramenti di almeno 6 punti (28% vs 37%). Ad un’analisi dei 5 sottodomini di EQ-5D, 3 furono trovati significativamente più spesso migliorati a 6 mesi (rispetto al basale) nel gruppo STAR rispetto a quello di controllo: Mobilità, Cure della persona, Ansietà/depressione, ma non furono significativamente differenti né il Dolore, né le Usuali attività. La percentuale di pazienti che fece ricorso alla ER fu inferiore nel braccio STAR che in quello di controllo (34% vs 41%) e queste differenze apparvero più pronunciate tra gli inesperti (34% vs 56%) che tra gli esperti (34% vs 36%). Un trend simile fu osservato considerando la popolazione dei pazienti ospedalizzati a 1 anno (45% vs 49%, n.s.) che divenne significativo tra gli inesperti (44% vs 63%), ma non tra gli esperti (46% vs 45%). I pazienti del braccio STAR ricevettero la chemioterapia più a lungo dei pazienti sottoposti alle cura usuali (8,2 vs 6,3 mesi). Sopravvivenza A 1 anno, erano vivi il 69% dei pazienti nel gruppo di controllo e il 75% nel gruppo STAR (differenza: 6%, P = 0,05), che si fece più marcata tra gli inesperti (60% vs 74%, P < 0,02). Simili differenze furono osservate per la sopravvivenza aggiustata per qualità (8,0 vs 8,7 mesi (P = 0,004) e furono significative anche in entrambi i sottogruppi.

nata la numerosità del campione, può essere assai differente negli altri paesi (ad es., in Italia, si può ritenere tale dato sia largamente sottostimato perché si riferisce ad una popolazione anziana, qual è quella dei pazienti neoplastici); 3. il management del paziente è diverso da paese a paese. In secondo luogo, il report è limitato a 12 sintomi, mentre, data anche l’eterogeneità del tipo di neoplasia, ce ne potrebbero essere altri più importanti di quelli presi in considerazione. A nostro avviso, considerare una molteplicità di tipi di tumore, mentre lo studio sarebbe risultato assai più accurato considerandone uno solo, è unicamente dovuto a questioni di fattibilità dello studio in termini di arruolamento; infatti, pur considerando una pluralità di neoplasie, lo studio ha impiegato più di 6 anni per essere portato a termine. Ma l’obiezione che ci sembra più rilevante discende dal fatto che l’intervento posto in essere (autovalutazione dei sintomi condotta via STAR) non è l’unico possibile. Nessuno può escludere che scegliendo un’altra metodologia si sarebbero ottenuti risultati similari. Ad esempio in Italia, volendo eseguire uno studio analogo, in luogo dello STAR e dell’uso di tabloid e PC (proibitivi, dato l’analfabetismo informatico, diffuso soprattutto nelle età più avanzate), si potrebbe procedere attraverso contatti telefonici che verosimilmente migliorerebbero la qualità di vita del paziente oncologico, in quanto, soprattutto a causa della sua fragilità, ama sentirsi al centro delle attenzioni e un contatto periodico con il personale sanitario che lo segue non potrebbe che rassicurarlo. In conclusione, i PRO costituiscono un prezioso strumento non solo per valutare l’andamento della malattia ma anche, dal punto di vista del paziente, per migliorare la sua qualità di vita e, dal punto di vista del SSN, per conseguire considerevoli risparmi. •

Sintomi riferiti Il 73% dei partecipanti assegnati al braccio di intervento compilò un selfreporting ad ogni visita. Furono segnalati oltre 84.000 sintomi, di cui 1437 severi (grado 3 o 4). I più frequenti furono fatigue, dolore, anoressia, dispnea, neuropatia a e nausea. •

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Statistica per concetti

Mettiamo un po’ d’ordine… e parliamo di dipendenza

Riassunto Dopo aver fornito le definizioni di distribuzioni statistiche semplici e doppie, si passa allo studio della dipendenza tra caratteri associati, introducendo il chiquadro per misurare la strettezza del legame associativo. Parole chiave. Distribuzioni statistiche, strettezza del legame associativo, dipendenza, chi-quadro.

Summary

Concept of dependence and the chi-square index Statistical distributions were defined, and after clarifying the concept of dependence, chi-square index was introduced to measure the strength of the association. Key words. Statistical distributions, strength of association, dependence, chi-square. Il punto centrale della ricerca scientifica è lo studio del legame associativo tra fenomeni. Infatti, è solo attraverso la sua conoscenza che si possono formulare previsioni. Per restare nello spirito della rubrica, lo studio della dipendenza tra fenomeni (collettivi) sarà trattato esponendo i concetti con il minor apparato formale possibile, pur conservando un dignitoso rigore. Limitandoci allo studio della relazione tra due fenomeni, l’argomento non è particolarmente complesso, ma è esteso. Si è deciso, pertanto, di trattarlo in due parti, cogliendo l’occasione in questa prima parte per dare definizioni rigorose di distribuzioni statistiche semplici e doppie e per introdurre un indice che misura la forza del legame associativo tra due caratteri. La seconda parte, più specificamente incentrata sull’analisi delle distribuzioni doppie, sarà esposta nel prossimo numero.

La Statistica si occupa di fenomeni collettivi, cioè di fenomeni la cui conoscenza richiede una massa di osservazioni di fenomeni elementari (sono fenomeni elementari quelli rilevati su ciascuna delle unità che costituiscono il collettivo). Quindi “collettivo” è un insieme di unità, come una popolazione, o anche un campione, o un gruppo. Esempio 1. Volendo studiare la sopravvivenza di pazienti affetti da uno stesso tipo di neoplasia ad uno stesso stadio, in cura negli ultimi 3 anni presso un certo centro oncologico, occorre rilevare la durata di sopravvivenza in tutti i pazienti che costituiscono tale collettivo. 26

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Non tutti i pazienti considerati hanno la stessa sopravvivenza: ciò che caratterizza il fenomeno collettivo è la variabilità ossia il fatto che il fenomeno oggetto di studio si manifesta in modo differente nelle diverse unità che costituiscono il collettivo. In Statistica si chiama “carattere” il fenomeno oggetto di studio, purché immediatamente rilevabile nelle unità del collettivo. Ad esempio, sono caratteri il peso, l’età, il tipo di tumore (immediatamente rilevabili), ma non sono caratteri il potere, l’intelligenza, la qualità di vita che per essere rilevati sui singoli soggetti hanno bisogno di strumenti psicometrici che ne misurino il livello. Tali strumenti sono composti da item: le risposte a ciascun item, o ad una loro aggregazione, sono caratteri. Il risultato della classificazione delle unità del collettivo secondo un certo carattere prende il nome di “distribuzione statistica semplice”. Esempio 2. Il collettivo di cui all’esempio 1 sia composto da 8 pazienti, la cui sopravvivenza (in mesi) è 8, 12, 8, 8, 12, 22, 12, 12. Tali dati costituiscono la distribuzione semplice dei pazienti suddetti secondo la sopravvivenza. Se anziché di 8 pazienti, il collettivo fosse composto da 80 o, peggio, da 800 pazienti, con tale rappresentazione sarebbe difficile farsi un’idea della struttura della sopravvivenza. Si ricorre, allora, ad una distribuzione più compatta, introducendo la frequenza (assoluta), considerando ciascuna modalità del carattere (cioè i modi diversi con cui il carattere si manifesta nelle unità del collettivo) ed associandole il numero delle unità che la presentano: Sopravvivenza 8 12 22 totale

n. pazienti 3 4 1 8

Vi sono dunque due modi di rappresentare la distribuzione statistica: 1. distribuzione per unità (o disaggregata), ossia l’elenco di ciò che si è rilevato su ciascuna unità del collettivo (stringa dei dati nell’esempio precedente); 2. distribuzione per modalità (o aggregata), che è quella esposta in tabella. Tali due rappresentazioni sono equivalenti, nel senso che data una di esse si può sempre passare all’altra, e,


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quindi entrambe contengono la stessa quantità di informazione. Nell’es. 2, si è mostrato come passare da una distribuzione per unità ad una per modalità; il viceversa è banale: data la tabella dell’es. 2, basta scrivere 8 tre volte, 12 quattro volte, 22 una volta per tornare alla distribuzione per unità. Osservazione. Per chi ha (anche un po’ di) familiarità con Excel, le colonne del foglio rappresentano altrettante distribuzioni semplici per unità, mentre ciascuna riga mostra ciò che si è rilevato su ogni unità rispetto a tutti i caratteri considerati. L’intero foglio di Excel è un prospetto rettangolare che ha tante righe quante sono le unità e tante colonne quanti sono i caratteri rilevati; esso prende il nome di “matrice dei dati”. Distribuzioni doppie Esempio 3. Proseguendo l’es. 2, immaginiamo di rilevare anche il sesso degli 8 pazienti e, nell’ordine con cui è stata rilevata la sopravvivenza, gli attributi siano: F, F, F, M, M, F, F, M. Se gli attributi si riferiscono, nell’ordine, alle stesse unità in cui è stata rilevata la sopravvivenza, si ha una fondamentale informazione in più: l’associazione tra i due caratteri. Infatti dalla stringa di attributi (che è una distribuzione semplice per unità) si può passare alla corrispondente distribuzione per modalità: Sesso M F totale

n. pazienti 3 5 8

ma, sapendo che la stringa degli attributi si riferisce nell’ordine alla sopravvivenza, siamo di fronte a due caratteri rilevati sulle stesse unità cioè a caratteri associati. Abbiamo quindi costruito qualcosa di più di due distribuzioni semplici, cioè una distribuzione doppia che può rappresentarsi in forma di distribuzione doppia per unità (qui riportata per riga per motivi di spazio, mentre con Excel sarebbero due colonne): Sopravvivenza Sesso

8 12 8 F F F

8 12 22 12 12 M M F F M

o in forma di distribuzione per modalità; basta contare il numero di pazienti per ciascuna coppia di valori dei caratteri associati e riportare tale conteggio nella casella appropriata della tabella che segue: Sopravv./Sesso → 8 12 22 totale

M 1 2 – 3

F 2 2 1 5

totale 3 4 1 8

che prende il nome di tabella doppia (o tabella a doppia entrata). Quindi una distribuzione doppia è il risultato della classificazione delle unità del collettivo secondo due caratteri. La sua rappresentazione in forma di tabella doppia presenta ai margini le due distribuzioni semplici, che negli esempi 2 e 3 sono state viste separatamente (si invita il Lettore a rintracciarle nella tabella doppia); per questo motivo le distribuzioni (modalità e frequenze corrispondenti) che sono ai margini della tabella doppia sono dette distribuzioni marginali. Oltre le distribuzioni marginali, nella tabella doppia appaiono anche altre distribuzioni semplici, dette distribuzioni parziali (o condizionate o subordinate), che danno informazioni sull’associazione tra i caratteri. Nella tabella doppia sopra riportata vi sono due distribuzioni parziali secondo la sopravvivenza, quella dei maschi e quella delle femmine. Inoltre, vi sono 3 distribuzioni parziali secondo il sesso, una per ciascuna modalità del carattere “sopravvivenza”. Quindi, in totale, nella tabella doppia sono rappresentate 2 distribuzioni marginali e 5 distribuzioni parziali (2 secondo la sopravvivenza e 3 secondo il sesso), per un totale di 7 distribuzioni semplici (si invita il Lettore a rintracciarle nella tabella doppia). Unico scopo di una distribuzione doppia è lo studio della relazione tra i caratteri associati, cioè rilevati sulle stesse unità del collettivo, (Sesso e Sopravvivenza, nell’esempio). In altre parole, l’unico obiettivo di una distribuzione doppia è valutare se e come varia un carattere al variare dell’altro; nell’esempio, se e come varia la sopravvivenza al variare del sesso. Tabella di indipendenza 1. Premessa: distribuzioni simili Due distribuzioni semplici si dicono uguali se hanno le stesse modalità e le frequenze assolute corrispondentemente uguali. Tale definizione è però troppo restrittiva per le applicazioni perché richiede alle due distribuzioni di avere lo stesso numero totale di unità (nell’es. 3, tale definizione sarebbe applicabile solo quando il numero dei maschi fosse uguale a quello delle femmine). Per rimuovere tale vincolo, si introduce il concetto di distribuzioni simili: due distribuzioni semplici si dicono simili se hanno le stesse modalità e le frequenze relative ordinatamente uguali (è questo il criterio di uguaglianza tra distribuzioni che interessa in Statistica). Come visto in precedenza in questa rubrica, le frequenze relative si ottengono dividendo le frequenze assolute (conteggi), per il loro totale; moltiplicando le frequenze relative per 100 si ottengono le ben note percentuali. Osservazione. Due distribuzioni simili hanno uguali tutti gli indici statistici di nostro interesse; ad esempio, hanno la stessa media, la stessa mediana, lo stesso scarto quadratico medio. CASCO — Autunno 2016

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2. Concetto di indipendenza Nel linguaggio corrente, due fenomeni si dicono indipendenti se le variazioni dell’uno non influiscono sulle variazioni dell’altro. Dati due caratteri associati (cioè rilevati sulle stesse unità del collettivo), X e Y, in Statistica si dice che X è indipendente da Y se, al variare di Y, X resta costante. Consideriamo una tabella doppia, per fissare le idee, quella riportata nell’es. 3. La sopravvivenza è indipendente dal sesso se, al variare del sesso, la sopravvivenza resta costante. “Al variare del sesso” vuol dire che il carattere “sesso” assume modalità M e modalità F. Come si è visto, per ogni modalità assunta dal carattere sesso, esiste una distribuzione parziale secondo il carattere “sopravvivenza”. Allora la sopravvivenza è indipendente dal sesso se, al variare del sesso, le distribuzioni parziali secondo la sopravvivenza sono simili tra loro. Esempio 4. Riprendiamo la tabella doppia costruita nell’es. 3, riportando però le frequenze relative (per comodità di lettura, espresse in forma percentuale) nelle distribuzioni parziali e in quella marginale secondo la sopravvivenza: Sopravv./Sesso → M 8 33,3 12 66,7 22 – totale 100

Osservazione. In una tabella doppia, se il carattere X è indipendente dal carattere Y (ossia, X non varia al variare di Y), si può dimostrare che anche Y è indipendente da X (cioè Y non varia al variare di X) e, brevemente, si dice che X e Y sono indipendenti. Esempio 5. Uno studio randomizzato a 3 bracci (T1, T2, T3) è stato condotto per valutare se i tre trattamenti hanno un differente impatto sulla qualità di vita (QoL), riassunta con uno score a 5 punti (crescenti in relazione alla QoL migliore). I risultati (dati non reali) sono rappresentati nella seguente tabella doppia:

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QoL, score/tratt. → T1 0 9 1 30 2 20 3 50 4 11 totale 120

T2 16 10 50 40 44 160

T3 15 20 30 30 25 120

totale 40 60 100 120 80 400

Accanto ad ogni tabella doppia rilevata, è possibile costruire una tabella di indipendenza in cui, cioè, i caratteri associati sono indipendenti. La tabella di indipendenza ha le stesse distribuzioni marginali della tabella rilevata; cambiano solo le frequenze di associazione (quelle riportate nel corpo della tabella). Si può dimostrare che le frequenze del corpo della tabella di indipendenza si ottengono moltiplicando le corrispondenti frequenze marginali e dividendo per il totale. Tabella di indipendenza

F totale 40,0 37,5 40,0 50,0 20,0 12,5 100 100

Come si può osservare, le distribuzioni parziali secondo la sopravvivenza non sono simili tra loro. Quindi, al variare del sesso, la sopravvivenza varia e, pertanto, nel collettivo considerato, tra sesso e sopravvivenza c’è una relazione: la sopravvivenza dipende dal sesso.

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Tabella rilevata

QoL, score/tratt. → T1 0 12 1 18 2 30 3 36 4 24 totale 120

T2 16 24 40 48 32 160

T3 12 18 30 36 24 120

totale 40 60 100 120 80 400

Consideriamo T1. Le frequenze del corpo della tabella di indipendenza sono state ottenute nel modo seguente (a partire dall’alto): 40 x 120/400 = 12; 60 x 120/400 = 18; 100 x 120/400 = 30; 120 x 120/400 = 36; 80 x 120/400 = 24, e così via per le altre colonne. Calcolando sulla tabella di indipendenza le frequenze relative per ogni trattamento, si può verificare che sono corrispondentemente uguali e che, quindi, le tre distribuzioni parziali secondo lo score di QoL (una per ogni trattamento) sono simili tra loro a due a due. Nell’esempio, la tabella rilevata non coincide con quella di indipendenza e, quindi, tra i caratteri associati c’è dipendenza (o connessione): al variare di un carattere (il trattamento), varia anche l’altro (lo score di QoL); in altre parole, lo score di QoL dipende dal trattamento (sarà compito dell’analisi della tabella doppia stabilire come varia lo score al variare del trattamento).


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Osservazione. Indipendenza è assenza di ogni legame associativo. Se si trova che la tabella rilevata coincide con quella di indipendenza, ogni analisi della dipendenza diventa inutile. Una misura della dipendenza Quanto più la tabella rilevata è “vicina” a quella di indipendenza, tanto più debole è la dipendenza; viceversa, quanto maggiore è la “diversità” tra la tabella rilevata e quella di indipendenza, tanto più forte è il legame associativo tra i caratteri considerati. Ricordando che la tabella rilevata ha le stesse distribuzioni marginali della tabella di indipendenza, una misura della strettezza del legame associativo non può che basarsi sulla diversità delle corrispondenti frequenze di associazione: quanto più queste sono diverse tra loro, tanto più la tabella rilevata sarà distante da quella di indipendenza e, quindi, tanto più forte sarà la connessione. Esempio 6. Si perviene alla costruzione del più usato indice di connessione confrontando casella per casella le due tabelle. Più precisamente, considerando le tabelle riportate nell’es. 5, a patire dalla casella in alto a sinistra, 9 – 12 misura la diversità tra le due frequenze. Per eliminare il segno, ne consideriamo il quadrato: (9 – 12)2. Così facendo, però, abbiamo cambiato unità di misura; per restituire al confronto tra le due frequenze l’unità di misura originale (cioè per esprimerlo in forma di frequenza assoluta), si divide per la frequenza della

tabella di indipendenza: (9 – 12)2/12 = 0,75. Analogamente per la seconda casella della stessa colonna, si ha: (30 – 18)2/18 = 8; per la terza casella, (20 – 30)2/30 = 3,33. Si procede così per tutte le 15 caselle del corpo della tabella e si sommano i risultati (si invita il Lettore, per esercizio, a completare i calcoli; comunque, tale indice è calcolato da ogni package statistico). L’indice così costruito prende il nome di chiquadrato (o chi-quadro) ed è un indice di connessione; esso, quindi, misura la strettezza del legame associativo tra i fenomeni considerati. Infatti, a. chi-quadro vale 0 quando e solo quando la tabella rilevata coincide con quella di indipendenza (è intuitivo, ma se ne può dare dimostrazione); b. chi-quadro cresce al crescere della connessione: è tanto maggiore quanto più sono grandi i suoi addendi, cioè quanto più le frequenze di associazione della tabella rilevata sono diverse da quelle della tabella di indipendenza. Se chi-quadro (che per costruzione non può assumere valori negativi) è maggiore di zero, tra i caratteri associati c’è dipendenza e, quindi, al variare di un carattere varia anche l’altro. Stabilire come varia un carattere al variare dell’altro è compito dell’analisi della distribuzione doppia, argomento che sarà trattato nel prossimo numero di CASCO. Enzo Ballatori

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