Periodico trimestrale riservato alla classe medica edito in collaborazione con
Inverno 2016
Via Vitorchiano 151 – 00189 Roma Tel 06 36 19 11 – Fax 06 36 380 311 www.msd-italia.it Numero verde 800 23 99 89 Inverno 2016 Registrazione del Tribunale di Roma in corso Direzione scientifica: Fausto Roila Enzo Ballatori Gruppo editoriale: Claudia Caserta Sonia Fatigoni Guglielmo Fumi Azienda Ospedaliera di Terni Il Pensiero Scientifico Editore Via San Giovanni Valdarno 8 00138 Roma Tel 06 862 821 – Fax 06 862 82 250 Internet: www.pensiero.it Stampa: Ti Printing, Roma Maggio 2017 Direttore responsabile: Giovanni Luca De Fiore Redazione: Manuela Baroncini Progetto grafico: Antonella Mion Prezzo: Fascicolo singolo €15,00
CASCO è andata affermandosi nel mondo oncologico perché affronta le problematiche quotidiane del paziente neoplastico.
In questo numero EDITORIALE
IL PUNTO SU...
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Nella quotidianità del paziente neoplastico Enzo Ballatori, Fausto Roila
Preservazione della fertilità nelle pazienti con carcinoma mammario Matteo Lambertini, Lucia del Mastro
DAI CONGRESSI
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ASCO 2016: novità sulla terapia di supporto/palliativa Fausto Roila, Maria Francesca Currà, Chiara Scafati
GESTIONE EVENTI AVVERSI
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Tossicità di nivolumab e pembrolizumab Elisa Minenza, Sonia Fatigoni
CASI CLINICI LINEE GUIDA E PRATICA CLINICA
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Sesso e cancro Sandro Barni
Prevenzione della nausea: ci siamo? Enzo Ballatori, Fausto Roila
STATISTICA PER CONCETTI
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Analisi descrittiva delle distribuzioni doppie Enzo Ballatori
I contenuti pubblicati dalla rivista rispecchiano le opinioni degli Autori e non necessariamente quelle dell’Editore o della MSD Italia S.r.l. Ogni farmaco menzionato deve essere usato in accordo con il relativo riassunto delle caratteristiche del prodotto fornito dalla ditta produttrice.
In copertina: Joan Mitchell, Untitled (1992).
ONCO-1189198-0002-EMD-PU-04/2019 Depositato in AIFA 09/05/2017.
Editoriale
Nella quotidianità del paziente neoplastico
CASCO
è una rivista che si è andata affermando nel mondo oncologico soprattutto perché affronta le problematiche quotidiane del paziente neoplastico allo scopo di individuare le possibilità di controllo o di prevenzione sia degli eventi avversi dovuti alla terapia, sia degli effetti della malattia stessa. Nel Congresso dell’ASCO sono generalmente pubblicati gli abstract dei lavori più importanti sulle terapie di supporto. In questo numero di CASCO dedichiamo un articolo alle novità di ASCO 2016 in tema di terapia antiemetica, di gestione della fatigue, del controllo del dolore, della neuropatia periferica, a così via perché è solo valutando un ampio panorama di abstract che possono essere identificati i lavori che, (almeno apparentemente) corretti da un punto di vista metodologico, possono far pensare ad una rapida trasmissione delle novità alla pratica clinica quotidiana. In questo numero di CASCO si dà spazio a quelle problematiche di terapia di supporto che raramente sono trattate nelle riviste oncologiche: sesso e cancro e la preservazione della fertilità nelle pazienti con carcinoma della mammella operato sottoposte a chemioterapia precauzionale. Il sesso è un argomento “sensibile”, di difficile discussione con il/la paziente per la difficoltosa narrazione dei disturbi sessuali; tuttavia, date le numerose possibilità terapeutiche, è necessario che tutti gli oncologi imparino ad affrontarlo con i propri pazienti. Non meno delicato è il problema della fertilità delle donne operate di carcinoma della mammella in premenopausa desiderose di avere un figlio dopo le terapie precauzionali necessarie per ridurre il rischio di metastasi a distanza. Anche in questo campo è opportuna una crescita culturale del medico oncologo non solo per counseling, ma anche per indirizzare eventualmente la paziente verso le strutture di riferimento. Finalmente abbiamo a disposizione due inibitori del PD-1, il nivolumab e il pembrolizumab, farmaci già approvati con numerose indicazioni: melanoma adiuvante e metastatico in prima o in successive linee di terapia, carcinomi del polmone squamocellulare ed adenocarcinoma in seconda linea di terapia (e a breve lo saranno anche in prima linea),
carcinoma renale, vescicale, testa-collo sempre in seconda linea dopo un’iniziale chemioterapia e linfomi non Hodgkin*. Si stima che un numero crescente di pazienti riceveranno nei prossimi mesi un’immunoterapia per cui è assolutamente prioritario conoscerne le tossicità e saperle prevenire o trattare adeguatamente: è questo l’obiettivo che si pone l’articolo della rubrica “gestione degli eventi avversi”. Non meno rilevante è il progresso che si è ottenuto nella prevenzione dell’emesi da chemioterapia e, da questo punto di vista, l’olanzapina sembra essere la molecola giusta per migliorare il controllo della nausea che, com’è noto, è uno dei pochi problemi ancora irrisolti della terapia antiemetica. Ovviamente sarà necessario un maggiore sforzo di ricerca per ridurre la tossicità sul sistema nervoso centrale, in particolare la sedazione: negli studi pubblicati è riportata di grado 3-4 in circa il 5% dei pazienti, mentre in esperienze personali di colleghi che hanno ripetutamente utilizzato l’olanzapina nella pratica clinica alla dose di 10 mg, la sedazione di grado 3-4 sembra essere presente in percentuali nettamente superiori. Al riguardo sarà importante pianificare uno studio su un ampio numero di pazienti in cui un dosaggio inferiore (ad es., 5 mg) di olanzapina sia testato vs 10 mg, per valutare se le due dosi abbiano un’efficacia simile e se ci sia una riduzione della tossicità (vedi rubrica “Casi clinici”). Infine, nella rubrica “Statistica per concetti”, viene esposta la logica con cui analizzare nel modo più efficace una tabella doppia, argomento trasversale a tutta la gamma delle terapie di supporto. Cogliamo l’occasione di questo editoriale per segnalare che il network NICSO ha recentemente terminato i suoi primi studi indipendenti (che verranno a breve inviati per la pubblicazione su riviste internazionali) e che i vari gruppi di lavoro che costituiscono la spina dorsale del NICSO stanno elaborando nuovi protocolli ai quali, speriamo, l’oncologia italiana dia la più ampia adesione. Buona lettura! Enzo Ballatori Fausto Roila
*Pembrolizumab in monoterapia è indicato: nel trattamento del melanoma avanzato (non resecabile o metastatico) nei pazienti adulti; nel trattamento di prima linea del carcinoma polmonare non a piccole cellule (NSCLC) metastatico negli adulti il cui tumore esprime PD-L1 con tumour proportion score (TPS) ≥50% in assenza di tumore positivo per mutazione di EGFR o per ALK; nel trattamento del NSCLC localmente avanzato o metastatico negli adulti il cui tumore esprime PD-L1 con TPS ≥1% e che hanno ricevuto almeno un precedente trattamento chemioterapico. I pazienti con tumore positivo per mutazione di EGFR o per ALK devono anche avere ricevuto una terapia mirata prima di ricevere pembrolizumab.
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CASCO — Inverno 2016
Dai Congressi
ASCO 2016: novità sulla terapia di supporto/palliativa
Fausto Roila, Maria Francesca Currà, Chiara Scafati Struttura Complessa di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni
Dolore Il primo studio che ci piace segnalare è uno studio di fase III che ha valutato un antagonista dei recettori μ per gli oppiacei ad azione periferica, la naldemedina, sviluppata per trattare la costipazione indotta da oppiacei, uno degli effetti collaterali più frequenti1. Lo studio doppio cieco, placebocontrollato, ha incluso pazienti con un numero inferiore a 5 movimenti intestinali spontanei nell’arco di due settimane randomizzati a ricevere naldemedina 0,2 mg per via orale/die o placebo. L’endpoint principale dello studio era la percentuale di pazienti con ≥ 3 movimenti intestinali spontanei alla settimana e un aumento rispetto al basale di ≥ 1 movimento intestinale spontaneo in un periodo di 2 settimane. Sono entrati nello studio 193 pazienti. La naldemedina ha aumentato significativamente la percentuale di movimenti intestinali spontanei dal 34,4% al 71,1%. La frequenza di movimenti intestinali spontanei migliorava notevolmente con naldemedina (5,16 versus 1,54), così come la sensazione di evacuazione incompleta che si accompagna a movimenti intestinali spontanei (2,76 versus 0,71) e i movimenti intestinali spontanei senza sforzo (3,85 versus 1,17). L’incidenza di eventi collaterali aumentava con la naldemedina rispetto al placebo (44,3% versus 26,0%); la diarrea era il solo effetto collaterale osservato in più del 5% dei pazienti (19,6% versus 7,3%). In conclusione la naldemedina migliora significativamente la costipazione indotta da oppiacei ed è generalmente ben tollerata. Uno degli effetti collaterali del pegfilgrastim è il dolore lieve-moderato. Nella pratica clinica per trattare il dolore si utilizza sia un antiifiammatorio non steroideo che un antiistaminico anche se i dati di efficacia sono scarsi. Uno studio randomizzato, non doppio cieco, è stato eseguito in 600 pazienti affette da carcinoma della mammella sottoposte a ≥ 4 cicli di chemioterapia adiuvante o neoadiuvante che ricevevano il pegfilgrastim per ridurre il rischio di neutropenia febbrile2. Le pazienti erano randomizzate a ricevere una profilassi con naproxen 500 mg os x 2/die, loratadina 10 mg os/die iniziata il giorno della somministrazione del pegfilgrastim e continuata per 5 giorni o una non profilassi in ognuno dei 4 cicli di chemioterapia. L’endpoint primario era la percentuale di dolore osseo di tutti i gradi al 1° ciclo di chemioterapia che era non
significativamente differente fra i tre bracci (40,3%, 42,5% e 46,6%, rispettivamente) così come la percentuale di pazienti con dolore osseo di grado 3/4 (3,1% versus 4,5% versus 4,7%). Vi era un trend alla riduzione della media del dolore osseo riferito dal paziente trattato con naproxen e loratadina rispetto al non trattamento (1,8%, 1,7% e 2,2%, rispettivamente). La percentuale di pazienti con effetti collaterali, specie di tipo gastrointestinale, era superiore con naproxen rispetto alla loratadina (10,9% versus 0,5%). Lo studio è purtroppo negativo. Va aggiunto che uno studio simile, anche se di fase II, richiede il doppio-cieco per poter interpretare i risultati. Neuropatia periferica Alcuni studi hanno esaminato l’impatto di varie strategie nel prevenire/trattare la neuropatia periferica indotta da vari trattamenti antiblastici. Uno studio ha esaminato le correlazioni fra comorbilità e lo sviluppo di una neuropatia periferica in pazienti sottoposti a una chemioterapia a base di taxani3. Sono entrati nello studio i pazienti che hanno partecipato a studi di fase II/III dello SWOG sottoposti a taxani dal 1999 al 2011. Le comorbidità considerate erano: diabete, ipotiroidismo, ipertensione, ipercolesterolemia, infezioni da varicella– zooster, malattie autoimmuni e malattie vascolari periferiche. Di 1401 pazienti inclusi nell’analisi 251 (18%) presentavano una neuropatia periferica di grado 2-4. I pazienti sottoposti a paclitaxel presentavano più frequentemente neuropatia (25% versus 12%) rispetto a quelli trattati con docetaxel. Per ogni aumento di un anno di età il rischio di neuropatia periferica aumentava del 4%. Il rischio nei pazienti diabetici è doppio rispetto a pazienti non diabetici mentre il rischio nei pazienti con malattie autoimmuni è la metà rispetto a pazienti non affetti da malattie autoimmuni. In conclusione l’età e la storia di diabete sono fattori prognostici indipendenti dello sviluppo di neuropatia periferica. Uno studio ha valutato l’attività di guanti e calzini ghiacciati posizionati nella mano e nel piede dominante per 90 minuti in pazienti con carcinoma della mammella sottoposte a chemioterapia con paclitaxel per almeno 12 cicli (80 mg/m2 dose)4. La mano ed il piede non dominante servivano come braccio di controllo. L’endpoint primario dello studio era l’inCASCO — Inverno 2016
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cidenza di neuropatia periferica indotta da chemioterapia. Di 44 pazienti inserite nello studio 4 non rispettavano i criteri di eleggibilità e 4 non portavano a termine i 12 cicli previsti di paclitaxel. Nei 36 pazienti valutabili l’incidenza del sintomo (28% versus 81%) così come la sensazione di dolore, formicolii o pesantezza che interferisce con le attività quotidiane erano significativamente inferiori nelle mani e nei piedi con guanti e calzini ghiacciati. Nessun paziente sospendeva il trattamento per intolleranza al freddo. I guanti ed i calzini ghiacciati sembrano ridurre i sintomi soggettivi e obiettivi della neuropatia periferica indotta da paclitaxel. Naturalmente essendo lo studio non in doppio cieco né randomizzato sono necessari ulteriori studi per determinare il ruolo di questa tecnica. Un altro studio ha valutato l’efficacia dell’acido alfa lipoico per via orale nella prevenzione della neurotossicità periferica da oxaliplatino5. Benché questo trattamento ha dimostrato proprietà neuroprotettive pochi studi sono disponibili con l’acido lipoico e l’unico studio controllato eseguito non ha permesso di giungere a conclusioni definitive essendosi verificata una perdita rilevante di pazienti durante il follow up. In questo studio doppio cieco, placebo-controllato sono stati inclusi 120 pazienti. L’acido alfa lipoico veniva somministrato alla dose di 1600 mg 2 volte die. L’endpoint primario dello studio era l’incidenza di neuropatia periferica indotta da oxaliplatino durante 6 mesi di trattamento. Solo 99 pazienti erano valutabili; in questi l’incidenza di neuropatia periferica non era significativamente differente fra l’acido alfa lipoico ed il placebo.
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Il calmangafodipir ha dimostrato un’attività in modelli animali ed in uno studio di fase I nella prevenzione della tossicità neurologica periferica da oxaliplatino. Uno studio di fase II doppio cieco, placebo-controllato è stato eseguito in 173 pazienti con carcinoma metastatico del colon-retto sottoposti a FOLFOX-66. Il calmangafodipir alla dose di 2 e 5 μg/kg (inizialmente 10 μg/kg) per via endovenosa (5 minuti) era somministrato dieci minuti prima di ogni ciclo di chemioterapia. L’endpoint primario era la tossicità neurologica dopo ogni ciclo di chemioterapia valutata con l’Oxaliplatin Sanofi Specific Scale (OSSS). IL calmangafodipir era ben tollerato. La tossicità neurologica periferica era significativamente minore con il calmangafodipir (5 μg/kg) rispetto al placebo a partire dal 3° ciclo fino all’8° ciclo di chemioterapia. Il farmaco sembra avere un’efficacia dose-dipendente persistente che non interferisce con l’attività antitumorale del FOLFOX-6. Ovviamente è necessario uno studio di fase III, attualmente in corso, per definire il ruolo del calmangafodipir. Infine, uno studio di fase III, eseguito in 314 pazienti sottoposti a differenti chemioterapie capaci di indurre neuropatia periferica (cisplatino, taxani, alcaloidi della vinca), che ha valutato l’effetto dell’esercizio nel prevenire tale sintomo7. L’esercizio fisico consisteva in un programma standardizzato, individualizzato, di moderata intensità, eseguito a domicilio, di 6 settimane, di progressive camminate. L’esercizio fisico riduceva significativamente rispetto ai controlli la neuropatia periferica da chemioterapia. Gli anziani ottenevano benefici superiori a più giovani.
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Fatigue Uno studio osservazionale Italiano eseguito in 25 centri oncologici ha valutato la presenza, l’intensità e le caratteristiche della fatigue in 1394 pazienti che si presentavano presso il centro oncologico per visita di follow up o per ricevere chemioterapia, target therapies o terapia palliativa/di supporto8. Il 62,1% dei pazienti riferiva fatigue che in oltre il 50% dei casi persisteva da oltre 4 mesi. L’intensità della fatigue valutata con il Brief Fatigue Inventory era moderata nel 43,0% e severa nel 29,2% dei pazienti. La fatigue interferiva in maniera importante con tutti gli aspetti della qualità di vita. Solo il 13,5% dei pazienti riceveva un trattamento farmacologico che nel 86,3% dei casi era rappresentato da un corticosteroide. IL 21,7% dei pazienti era sottoposto invece a trattamenti non farmacologici come l’esercizio fisico (63,8 dei pazienti) e vari supplementi alimentari (27,6% dei pazienti). Un altro studio ha riportato i risultati di una revisione sistematica e metaanalisi su incidenza ed intensità della fatigue negli studi che hanno confrontato pazienti sottoposti ad antagonisti del PD-1 rispetto a pazienti sottoposti a chemioterapia9. Sono stati valutati 2124 pazienti valutati in 5 studi randomizzati, 4 inerenti il nivolumab ed uno il pembrolizumab in pazienti affetti da melanoma e da non small cell lung cancer (NSCLC). L’incidenza di fatigue (tutti i gradi / grado 3/4) era presente nel 20,7% / 0,8% dei pazienti sottoposti ad antagonisti del PD-1 e nel 28,6% / 4,5% di quelli sottoposti a chemioterapia. Il rischio di interruzione del trattamento a causa della fatigue ed altri eventi avversi era significativamente più basso con gli antagonisti del PD-1 rispetto alla chemioterapia. Quindi il rapporto rischio /beneficio del trattamento con gli antagonisti del PD-1 è più favorevole di quello con la chemioterapia per quanto riguarda incidenza ed intensità di fatigue. L’efficacia dello yoga, una forma di esercizio che incorpora aspetti fisici e di meditazione, sulla fatigue cancro-correlata è stata valutata in una metanalisi degli studi eseguiti in pazienti con carcinoma della mammella10. Sono stati inclusi 14 studi randomizzati controllati con un numero di pazienti variabile da 18 a 128. In questi studi erano valutati 8 diversi interventi di yoga. Il gruppo di controllo era costituito da pazienti sottoposte a terapia usuale, educazione sanitaria, terapia di supporto e training aerobico. I 14 studi erano molto eterogenei fra loro. I risultati non hanno evidenziato una differenza significativa tra lo yoga ed il gruppo di controllo nelle donne affette da cancro della mammella. La fatigue indotta dal trattamento con regorafenib è uno dei principali effetti indesiderati del farmaco e frequente causa di interruzione del trattamento. Nella pratica clinica si somministrano corticosteroidi sebbene ci siano solo poche evidenze di efficacia. Uno studio doppio cieco, placebo-controllato, ha valutato l’efficacia del desametasone (2 mg per via orale al giorno per 4 settimane) in 74 pazienti affetti da carcinoma del colon-retto metastatico sottoposti a regorafenib11. L’endpoint primario era l’incidenza di fatigue e di malessere. L’incidenza di tutti i gradi di fatigue e malessere valutati con CTCAE era del 58,3% e 61,1% con desametasone e placebo e del 47,2% versus 58,3% con i patient reported
outcomes (PRO), rispettivamente. L’incidenza di grado 2 di fatigue e malessere era ancora più a favore del desametasone: 19,4% versus 38,9% dei pazienti con CTCAE e 27,8% versus 52,8% con PRO. In conclusione il desametasone sembra migliorare la fatigue ed il malessere indotti dal regorafenib. Sono necessari più studi in un numero più elevato di pazienti per confermare questi risultati. Uno studio doppio cieco di fase II ha confrontato supplementi di omega-3 (olio di pesce) versus supplementi di omega-6 (olio di soglia) in 108 pazienti con carcinoma della mammella sopravviventi dopo 4-36 mesi dalla fine della chemioterapia adiuvante con un punteggio di fatigue ≥ 412. Le pazienti erano randomizzate a ricevere 3 trattamenti: a) alte dosi di omega-3 (6 grammi al giorno), b) basse dosi di omega-3 (3 grammi al giorno) + basse dosi di omega-6 (3 grammi al giorno) e c) alte dosi di omega-6 (6 grammi al giorno) per sei settimane. La valutazione della fatigue prima e dopo l’intervento era misurata con il Symptom Inventory e con il Brief Fatigue Inventory. Il Symptom Inventory mostrava differenze significative a favore dei supplementi di omega-6 (-2,5, versus -2,1 versus -0,9, rispettivamente). Risultati analoghi, ma non statisticamente significativi, si osservavano con le variazioni prima-dopo del Brief Fatigue Inventory. Beneficiavano di più dei supplementi di omega-6 le pazienti con una fatigue basale più elevata (punteggio 7-10). La minociclina è una tetraciclina con proprietà antinfiammatorie. I pazienti con NSCLC sottoposti a chemio-radioterapia combinata presentano frequentemente fatigue durante e dopo il trattamento. È stato eseguito uno studio di fase II randomizzato doppio cieco placebo-controllato in 40 pazienti in cui la minociclina era somministrata a dosi di 100 mg due volte die durante le 6-7 settimane di trattamento con radio-chemioterapia13. La minociclina riduceva significativamente la fatigue durante 12 settimane di valutazione (AUC per fatigue 12 settimane: 31,2 versus 45,0 con minociclina e placebo rispettivamente). L’analisi multivariata evidenziata un netto aumento della fatigue durante la chemio-radioterapia e una netta riduzione dopo la fine della radiochemioterapia. Inoltre confermava il beneficio della minociclina. Non vi erano eventi avversi significativamente superiori con la minociclina. Uno studio di fase III è in corso per confermare questi risultati. Nausea e vomito Uno studio di fase II randomizzato, doppio cieco ha valutato efficacia e tossicità di due dosi di olanzapina (10 mg e 5 mg), somministrate dopo cena per 4 giorni consecutivi, in associazione a aprepitant, palonosetron e desametasone in 153 pazienti sottoposti a chemioterapia con cisplatino (≥ 80 mg/m2)14. L’endpoint primario era la percentuale di risposte complete (no vomito né terapie di salvataggio) nei giorni 2-5 dopo la chemioterapia. La risposta completa nei giorni 2-5 era 77,6% con 10 mg e 85,7% con 5 mg di olanzapina, differenza non statisticamente significativa. L’incidenza di sedazione era rispettivamente 53,3% con 10 mg e 45,5% con 5 mg di olanzapina. Olanzapina 5 mg è la dose da suggerire per studi di fase III. CASCO — Inverno 2016
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Anemia Uno studio ha valutato il modo ottimale di somministrare ferro in 192 pazienti con anemia ferrocarenziale trattati con chemioterapia e non sottoposti a eritropoietine. I pazienti sono stati randomizzati a ricevere ferro solfato 100 mg 3 volte die per 42 giorni o due somministrazioni a distanza di 21 giorni di ferro per via endovenosa (dose definita sulla base di una formula che calcolava il deficit di ferro totale)15. L’aumento medio di emoglobina a 6 settimane era non significativamente differente tra le due formulazioni di ferro (0,11 gr/dl con ferro per via endovenosa e -0,16 gr/dl con ferro per os). Un aumento di emoglobina di 1,5 gr/dl a 6 settimane era ottenuto dal 19% e dal 12% dei pazienti rispettivamente. In ambedue i bracci di trattamento 12 pazienti necessitavano di una emotrasfusione di globuli rossi. Tossicità gastrointestinale si osservava nel 41% e 44% dei pazienti, rispettivamente, mentre una reazione di ipersensibilità si è verificata in 5 pazienti tutti sottoposti a ferro per via endovenosa. Trombosi venose profonde Uno studio ha valutato la percentuale di recidiva di una trombosi venosa profonda (TVP) richiedente ospedalizzazione con differenti trattamenti anticoagulanti, utilizzando un database di pazienti che iniziavano terapia con eparina a basso peso molecolare, warfarin or rivaroxaban per una TVP insorta tra il 1.1.2013 ed il 31.5.201516. In 2428 pazienti la durata della terapia anticoagulante era di 1,0, 3,5 e 3,0 mesi, rispettivamente. La percentuale di recidiva con rivaroxaban era significativamente inferiore rispetto all’eparina a basso peso molecolare (13,2% versus 17,1% a 6 mesi e 16,5% versus 22,2% a 12 mesi). Il rivaroxaban era inoltre più efficace anche rispetto al warfarin (13,2% versus 17,5% a 6 mesi e 15,7 versus 19,9% a 12 mesi). Gli autori attribuivano la maggior efficacia del rivaroxaban alla minor durata della terapia con eparina a basso peso molecolare e allo scarso controllo del warfarin. Polmoniti da immunoterapia Sono uno degli effetti collaterali più gravi della terapia con nivolumab e pembrolizumab la cui incidenza non è ancora chiaramente definita. L’incidenza è stata riportata da una metanalisi dei 15 studi pubblicati con i due farmaci, che hanno arruolato complessivamente 5505 pazienti affetti da melanoma e NSCLC17. Una polmonite di tutti i gradi / alti gradi era osservata nel 2,9% / 1,8% dei pazienti con un’incremento rispetto ai controlli (rischio relativo 3,42 / 2,21, rispettivamente). L’incidenza era simile tra i due farmaci ed era superiore nei pazienti affetti da melanoma rispetto a quelli affetti da NSCLC. •
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Linee guida e pratica clinica
Sesso e cancro
Sandro Barni Oncologia Medica ASST Bergamo Ovest, Ospedale di Treviglio
RIASSUNTO La sessualità del paziente oncologico durante e dopo la terapia è un argomento poco noto e poco considerato da parte dei sanitari. I disturbi sessuali sono dovuti a varie cause: le più importanti sono legate alle terapie mediche, chirurgiche e radianti, al tumore stesso ed alla componente psicologica. I pazienti hanno un grande bisogno di condividere questi aspetti col curante pur persistendo molte barriere da entrambe le parti. È quindi veramente importante che l’equipe conosca le soluzioni ai problemi sessuali, i farmaci, i presidi, e che sappia fare le scelte terapeutiche più rispettose della sessualità ma soprattutto impari ed incoraggi il colloquio che a volte il paziente non osa iniziare. Un colloquio aperto, sereno e senza pregiudizi è stato dimostrato essere di grande aiuto ai nostri pazienti Parole chiavi. Sessualità, cancro, comunicazione, riabilitazione
SUMMARY
Sex and cancer The cancer patient's sexuality during and after treatment is a little known subject and little considered by health professionals. Sexual disorders are due to various causes: the most important are related to medical therapies, surgical and radiation, the tumor itself and the psychological component. Patients have a great need to share these aspects with the physician even if there have many barriers on both sides. It is therefore very important that the team knows the solutions to sexual problems, drugs, devices, and that the same team is able to do the best therapeutic options, more respectful of sexuality but, above all, he learns and encourages the interview that sometimes the patient does not dare to start. An open interview, serene and without bias has been shown to be of great help to our patients Key words. Sexuality, cancer, communication, rehabilitation
Introduzione Storicamente lo scopo della oncologia è stato quello di sconfiggere il cancro. Attualmente, grazie, alla prevenzione, alle nuove possibilità terapeutiche e soprattutto al lavoro di equipe, si sono raggiunte percentuali di guarigione che superano il 60%1 e le previsioni per il futuro prevedono un aumento del loro numero. Da molti anni si è cercato quindi di porre maggiore attenzione, laddove ciò non comportasse un rischio di cura insufficiente e quindi un pericolo di non guarigione, alla qualità di vita dei pazienti. Questo concetto, nonostante la disponibilità di una quantità di questionari che cercano di misurarla, è ancora molto impreciso e deve tener conto di tutti gli aspetti della vita personale e sociale dell’uomo. È all’interno di questo capitolo che si inserisce il discorso, estremamente importante e a lungo sottostimato, della sessualità del paziente oncologico. In più e forse ancora più rilevante si viene ad evidenziare l’aspetto della sessualità nei quasi tre milioni di pazienti che oggi in Italia hanno vinto la loro battaglia contro il cancro. Molti oncologi, nella loro pratica clinica, soprattutto se riescono a raggiungere coi pazienti la tanto auspicata alleanza terapeutica, si trovano a dover affrontare con loro una serie di problemi che il più delle volte li trova impreparati. I pazienti si aspettano, soprattutto dopo che si sono resi conto di essere guariti, di avere risposte che vanno al di là delle cure e che abbracciano la sfera della alimentazione, dello sport, del lavoro e non ultima della loro vita sessuale. È però ancora abbastanza comune risolvere il problema non affrontandolo, adducendo le ragioni della mancanza di tempo e della inadeguatezza delle strutture, ma in realtà la ragione vera è la impreparazione del medico su questo delicato argomento, sul come affrontarlo e sulle soluzioni da proporre. Oggi vi sono reali possibilità terapeutiche e riabilitative in questo settore ed è quindi molto importante conoscerle per offrirle al paziente oncologico. I disturbi sessuali Quali che siano le cause i disturbi della sfera sessuale si possono classicamente distinguere come relativi a tre situazioni ben note: i disturbi della fase della libido, della eccitazione e dell’orgasmo2. Ovviamente le tre fasi sono tenute separate solamente a scopo didattico, in quanto esse sono, nella realtà, strettamente legate tra loro, tanto che i disturbi di una fase, se persistono a lungo, tendono inevitabilmente a coinvolgere la precedente. Ad esempio un paziente che non riesce ad avere una buona eccitazione alla fine arriverà ad una diminuzione o alla perdita della libido. Per questa ragione si dovrebbe ricercare e risolvere, se possibile, il problema precocemente, prima che tenda a cronicizzare e ad ingigantirsi. CASCO — Inverno 2016
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È intuitivo che le cause dei disturbi sessuali nei pazienti oncologici sono molteplici e riconducibili a ragioni psicologiche, iatrogene e alla presenza del tumore stesso. Il peso di queste componenti, che di solito non sono mai singole, è diverso nelle varie situazioni cliniche, nelle varie neoplasie ed è sempre influenzato dalla personalità dell’individuo. Le cause psicologiche sono il campo più esplorato della ricerca, in questi ultimi anni. Nella tabella I sono riassunte le situazioni che hanno maggiore rilevanza psicologica nei pazienti oncologici. La paura o il terrore legato alla diagnosi di tumore; il senso di colpa della malattia vista ancora come una punizione e i tabù che ne derivano; l’ansia per il futuro e la depressione reattiva influenzano chiaramente in senso negativo tutta la vita di relazione. La perdita della propria immagine corporea diminuisce l’autostima e limita la vita sessuale in varia misura3,4, in rapporto al tipo di relazione che si riesce a creare col partner e ai rapporti che esistevano in precedenza5. Un buon rapporto pre-malattia incide positivamente sul rapporto sessuale, come pure l’aiuto psicologico offerto al paziente da chi gli sta più vicino (amici). Anche la situazione maritale e l’età6,7 sono fattori molto importanti: chi è solo, ha da poco rotto una relazione (per vari motivi) o è giovane (pazienti guariti da tumori del testicolo, linfomi, leucemie) ha più difficoltà a trovare, o a ritrovare, un equilibrio sessuale. La consapevolezza di non poter più procreare8 si ripercuote negativamente sulla vita sessuale, come pure la presenza in anamnesi di fatti traumatici infantili come stupri o violenze carnali che possono far riaffiorare situazioni psicologiche che potevano sembrare superate. Da ultimo, è ovvio che la qualità di vita, e quindi anche questo particolare aspetto, è peggiorata dalle terapie necessarie al trattamento del tumore come la chemioterapia, l’ormonoterapia, la radioterapia, la chirurgia e soprattutto dalla presenza del tumore stesso, anche piccolo e anche in regioni anatomiche non direttamente coinvolte con la sfera sessuale. La chirurgia Le cause iatrogene: gli interventi medici in senso lato, hanno una grande responsabilità nel provocare i disturbi sessuali dei pazienti; a volte si tende ad enfatizzare il ruolo di alcuni e a sottovalutare quello di altri. In primo luogo l’atto chirurgico in se stesso provoca una debilitazione fisica che richiede un tempo più o meno lungo di ripresa dell’organismo: in questo periodo la assenza di attività sessuale è la norma. Vi sono interventi chirurgici (prostatectomia, resezione addomino-perineale, resezione del pene, vulvectomia, cistectomia allargata, linfoadenectomie) che per ragioni anatomiche provocano in una larga percentuale di casi danni della funzione sessuale (impotenza, difficoltà o impossibilità alla erezione, eiaculazione retrograda). Questi tendono ad essere più gravi e più numerosi in relazione alla importanza della demolizione chirurgica9. Attualmente le nuove tecniche nerve-sparing riducono questi danni e permettono il mantenimento di una buona vita sessuale10. La dispareunia e i disturbi dell’orgasmo legati agli interventi di tipo ginecologico (per tumori della vulva e della cervice uterina) sono anch’essi in relazione alla ampiezza della demolizione 10
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chirurgica. La stessa manovra della cistoscopia, se ripetuta a lungo, porta a una riduzione della libido per irritazione uretrale11. La chirurgia mammaria, una delle più studiate da questo punto di vista, provoca, quale che sia, una alterazione di un organo bersaglio della stimolazione sessuale. Forse per questa ragione non si trova, negli studi controllati, una grande differenza dei disturbi sessuali provocati (diminuzione dell’eccitazione e dell’orgasmo) tra la mastectomia e la quadrantectomia12,13. Per di più, la cicatrice e/o la presenza di protesi impediscono alla mammella di essere attiva come trigger di eccitazione. Alcuni interventi demolitivi o che esitano in stomie temporanee o permanenti (tracheostomia, colonstomia) disturbano l’attività sessuale anche dal punto di vista fisico, oltre che ovviamente da quello relazionale. La radioterapia La radioterapia è una tecnica di trattamento loco regionale che può provocare danni acuti e ritardati. La nausea, l’esofagite, le irritazioni cutanee, la xerostostomia, l’astenia provocano gli stessi disagi sulla libido degli effetti acuti della chemioterapia. Più importanti sono i danni tardivi legati alla sclerosi dei tessuti, come l’atrofia vaginale, la dispareunia il vaginismo e quelli legati alla sindrome menopausale da castrazione, non dissimile da quella provocata con altre metodiche. Le terapie mediche Per le terapie mediche, e in primo luogo per la chemioterapia, valgono molte delle considerazioni sopra riportate. Le tossicità acute del trattamento allontanano il desiderio sessuale diminuendo la libido anche per periodi prolungati. Alcuni farmaci antiblastici sono certamente responsabili di alterazioni del ciclo mestruale: irregolarità, amenorrea con disturbi di tipo menopausale. Gli alchilanti14 sono i più noti, ma anche vinblastina, etoposide e cisplatino15 sono implicati. I disturbi indotti di tipo menopausale, come la secchezza vaginale, la perdita di elasticità dei tessuti e la facilità alle infezioni urinarie, portano a dispareunia transitoria o definitiva e quindi diminuiscono la qualità e la quantità delle relazioni sessuali. Per ultimo la sterilità è una conseguenza importante soprattutto per i pazienti molto giovani guariti da linfomi o tumori del testicolo. Anche le terapie ormonali, che pur molto raramente producono disturbi acuti, portano ad alterazioni importanti della sfera sessuale. La deprivazione androgenica totale che si attua nella terapia del tumore prostatico porta a perdita della libido in quasi tutti i pazienti. Una carenza di androgeni16 è stata segnalata nel 50% delle donne operate alla mammella e che presentano disturbi della fase di eccitazione e di orgasmo, alcuni autori suggeriscono l’uso di androgeni in questi casi documentati o anche nei casi di difficoltà di erezione o di orgasmo nei pazienti operati per neoplasia del testicolo. Sono ben noti i disturbi provocati dal tamoxifene e dagli inibitori delle aromatasi, che vanno dalle caldane alla secchezza vaginale, dalla diminuzione della libido alla dispareunia. Pochissimi sono i dati a disposizione che si riferiscono agli
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effetti delle terapie biologiche e/o immunologiche e forse si dovrà nel futuro prestare attenzione maggiore anche a questo capitolo. Bisogna infine tenere nella giusta considerazione che il paziente neoplastico, anche guarito, non è scevro da una serie di altre patologie la cui terapia può provocare danni a livello della sfera sessuale che a volte sono erroneamente attribuiti a situazioni di disagio psicologico o a terapie specifiche antitumorali. Alcuni farmaci antinausea, gli H2-antagonisti, gli antiparkinsoniani, alcuni cardiovascolari, alcuni antiipertensivi, gli antiadrenergici, i diuretici tiazidici, gli antipsicotropi, gli ansiolitici, gli antidepressivi, gli ipnotici, i sedativi, i narcotici, le anfetamine e gli allucinogeni possono influire sulle diverse fasi della libido, della eiaculazione e dell’orgasmo (tabella II). Per questa ragione dovrebbero, se possibile, essere ridotti o aboliti. Il tumore Le cause legate al tumore stesso: come abbiamo già sostenuto, la conoscenza da parte del paziente di essere portatore di una neoplasia influenza psicologicamente in modo negativo la sua vita sessuale. Vi sono però molte situazioni in cui è il tumore stesso o le metastasi linfonodali ed a distanza, la ragione prima dei disturbi sessuali. Le situazioni più comuni sono riconducibili ai tumori propri della sfera sessuale come le neoplasie vulvari, della cervice uterina, del testicolo, del pene e in minor misura della mammella. È intuitivo come anche la presenza di masse linfonodali inguinali o latero cer-
vicali magari ulcerate, come pure le metastasi cutanee estese o ulcerate non favoriscono la relazione sessuale. Cenni di terapia È necessario sapere che i malati oncologici hanno molti più disturbi della sfera sessuale di quanto noi abbiamo pensato sino a oggi. Una serie di studi riferiscono percentuali che variano dal 40 al 100%17-19. È ovvio quindi che il nostro compito di Oncologi Medici e di infermieri di oncologia è quello dell’aggiornamento anche in questo settore, per poter avere delle soluzioni da proporre. Purtroppo nel nostro curriculum universitario tale preparazione è assolutamente assente. In seconda istanza dobbiamo preoccuparci della qualità di vita dei nostri pazienti e quindi trovare il tempo e dimostrare un atteggiamento di disponibilità verso di loro, in modo che siano incoraggiati ad aprirsi con l’oncologo medico anche su queste problematiche. Un breve colloquio col malato è in grado di risolvere nel 73% dei casi20 le difficoltà più comuni e una serie di 4-5 incontri col medico o con la équipe ne risolve un altro 16%. Nel 10-20% i disagi della sfera sessuale sono più importanti e radicati e necessitano dell’intervento di uno specialista. Tutta la letteratura sottolinea come il paziente chiede, è disposto, ha bisogno21,22 di parlare di problemi sessuali col curante anche se esistono oggettivamente barriere soprattutto culturali da entrambe le parti (tabella III)23.
Tabella I. Elementi psicologicamente rilevanti.
Paura Terrore Senso di colpa Tabù Ansia Depressione
Perdita della immagine corporea Relazione col patner Vita sessuale pre-malattia Relazione con amici Stato maritale Età
Impossibilità alla procreazione Traumi psicologici infantili Trattamenti medici Esiti dei trattamenti Presenza del tumore
Tabella II. Farmaci che interferiscono con la sessualità.
Antinausea H2-Antagonisti Antiparkinsoniani Alcuni cardiovascolari Alcuni antiipertensivi Interferone
Antiadrenergici Diuretici tiazidici Antipsicotropi Ansiolitici Antidepressivi Metadone
Ipnotici Sedativi Narcotici Anfetamine Allucinogeni Alcuni FANS
Tabella III. Barriere alla discussione dei problemi sessuali.
Da parte del clinico Imbarazzo Interesse su altri obiettivi Mancanza di preparazione Inesperienza counseling psicologico Non conoscenza terapie
Da parte del paziente Fattori emozionali Età Percezione che non sia un problema medico Non conoscenza delle opzioni terapeutiche
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È assodato da molti studi che quando i pazienti sono coinvolti in colloqui e/o corsi e partecipano attivamente sia a livello personale che di gruppo ad interventi educativi hanno minori problemi nella gestione della loro sessualità24-26. La sensibilità del medico deve tener conto del tempo, quando iniziare il discorso e come farlo27. Per quanto riguarda il quando iniziare non esistono regole se non la sensibilità che ci fa capire se il nostro paziente è pronto ad aprirsi a questa problematica o è ancora concentrato nella accettazione della diagnosi o sugli effetti collaterali della terapia. Sul come farlo, al di la delle capacità e della empatia personale che non sempre ci vengono in aiuto, sono stati codificati, nei paesi anglosassoni dei metodi che possono rendere più agevole instaurare il discorso. Se ne possono ricordare i più noti: il PLISSIT28, acronimo di P (permission) LI (limited information) SS (specific suggestion) IT (intensive therapy), l’ALARM, acronimo di Activity, Libido, Arousal, Resolution e Medical Hystory, Il BETTER29 (B = bringing up the topic, E = explanation, T = telling, T = timing, E = education, R = regustrazione Ci sono anche numerosi strumenti per valutare la qualità della sessualità dei pazienti, come l’Indice di Funzione Sessuale Femminile (FSFI)30 e l’Indice Internazionale di Funzione Erettile (IIEF)31. Al di là di questi strumenti sono certo che la strategia32,33 più importante è saper comunicare al paziente, uomo o donna che sia, la nostra disponibilità assoluta a condividere con lui anche questi aspetti della vita che sono importanti per lui e che lo faremo quando e come lui deciderà. Sarà il paziente comunque che alla fine sceglierà con chi discutere della sua sessualità e quindi è assolutamente rilevante che la stessa preparazione e disponibilità sia condivisa da tutti i membri della equipe (medici, infermieri, psicologi, chirurghi, radioterapisti andrologi, sessuologi)34. Oltre l’aspetto psicologico-relazionale che resta il più importante, soprattutto dal punto di vista del paziente, altre opportunità devono essere ricordate: le varie modalità chirurgiche, la scelta dei farmaci antiblastici, degli ormoni e di altri farmaci per le co-patologie (di cui abbiamo già parlato). Si deve tenere in considerazione la scelta di tecniche chirurgiche meno demolitive, magari precedute da chemio e/o radioterapia. Vi sono tecniche nerve-sparing più rispettose della qualità di vita, quadrantectomie invece di mastectomie, ricostruzioni plastiche, lipofilling, chirurgia laparoscopica, ecc. L’oncologo medico ha a disposizione un ventaglio di antiblastici tra cui può scegliere quelli meno dannosi sulla sessualità e molti farmaci per una efficace terapia di supporto della nausea e del vomito che limitano la qualità di vita dei pazienti. La scelta della opportunità di una chemio o ormonoterapia e di quando iniziarla (es. trattamento del tumore della prostata) gioca in modo importante per il numero e la durata dei disturbi sessuali. Da ultimo ricordiamo la possibilità di usare una serie di farmaci attivi nei disturbi della erezione e tutti i trattamenti lo12
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cali per la secchezza vaginale, la dispareunia da radioterapia e/o i dilatatori vaginali. Conclusioni La sessualità del paziente in trattamento oncologico attivo ed al termine della cura è un argomento poco considerato da parte dei sanitari che spesso lo ritengono di secondaria importanza. Al contrario la letteratura è ricca di articoli che sottolineano come i pazienti abbiano un grande bisogno di condividere questi aspetti col curante ma persistono molte barriere da entrambe le parti. È veramente importante che l’equipe conosca le soluzioni ai problemi sessuali, i farmaci, i presidi, che sappia fare le scelte terapeutiche più rispettose della sessualità ma soprattutto impari ed incoraggi il colloquio che a volte il paziente non osa iniziare. Noi non siamo stati preparati, durante i nostri studi curricolari a tutto questo, ma, solo con la volontà di farlo, si possono imparare i metodi ormai codificati ed efficaci. Un colloquio aperto, sereno e senza pregiudizi è stato dimostrato essere di grande aiuto ai nostri pazienti. •
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Il punto su...
Preservazione della fertilità nelle pazienti con carcinoma mammario
Matteo Lambertini, Lucia del Mastro UO Sviluppo Terapie Innovative IRCCS AOU San Martino-IST, Genova
RIASSUNTO Per le giovani donne con carcinoma mammario, la possibile comparsa di infertilità come conseguenza dei trattamenti anti-tumorali e il disagio psico-sociale ad essa legato rappresentano temi di importanza crescente. Nonostante avere una gravidanza dopo pregresso carcinoma mammario è oggi considerato sicuro, meno del 10% riesce a ottenerla. In particolare, le donne con tumore della mammella sono tra le pazienti oncologiche quelle con la più bassa probabilità di avere una gravidanza al termine dei trattamenti. La discussione sugli aspetti legati alla preservazione della fertilità nell’ambito dell’oncologia medica (cioè il counselling riproduttivo) deve oggi essere parte integrante della valutazione specialistica e rappresentare un momento chiave del colloquio medico-paziente. Nelle giovani donne con carcinoma mammario, le principali tecniche di preservazione della fertilità disponibili sono: crioconservazione embrionaria od ovocitaria, crioconservazione di tessuto ovarico e soppressione ovarica temporanea con LHRH analoghi durante chemioterapia. La crioconservazione embrionaria od ovocitaria rappresentano tecniche standard di preservazione della fertilità: tuttavia, in queste pazienti, la crioconservazione embrionaria è vietata dalla legge in Italia. La crioconservazione di tessuto ovarico è una tecnica ancora sperimentale che però può trovare indicazione in casi selezionati come per pazienti con un alto rischio di andare incontro a disfunzione ovarica precoce e che non possono ritardare il trattamento oncologico o che hanno controindicazioni alla stimolazione ormonale. Alla luce dei nuovi dati divenuti disponibili nel corso del 2015, la soppressione ovarica temporanea con LHRH analoghi durante chemioterapia può essere oggi considerata tecnica standard di preservazione della funzione ovarica e/o della fertilità per le pazienti pre-menopausali con carcinoma mammario. In Italia, nel giugno 2016, è stato dato parere favorevole dagli organi competenti per l’inserimento di LHRH analoghi durante chemioterapia a scopo di preservare la funzione ovarica e/o la fertilità nell’elenco istituito ai sensi della legge 648/96. Parole chiavi. Carcinoma mammario, preservazione della fertilità, crioconservazione embrionaria/ovocitaria, crioconservazione del tessuto ovarico, LHRH analoghi. 14
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SUMMARY
Fertility preservation in breast cancer patients The possible development of treatment-induced infertility and the related psycho-social distress are issues of growing importance in young women with breast cancer who undergo anti-cancer therapy. Despite having a pregnancy after prior history of breast cancer is now considered safe, less than 10% of these survivors manage to achieve a subsequent pregnancy. Among cancer patients, breast cancer survivors have the lowest chance of having a pregnancy after the end of anticancer treatments. The discussion on the issues related to fertility preservation in cancer patients (i.e. oncofertility counseling) should now be considered as an integral part of specialist assessment and is a key moment in the interview between physicians and their patients. In young women with breast cancer, the main available strategies for fertility preservation are: embryo or oocyte cryopreservation, cryopreservation of ovarian tissue, and temporary ovarian suppression with LHRH analogs during chemotherapy. Embryo/oocyte cryopreservation are standard strategies for fertility preservation. However, in Italy, embryo cryopreservation is prohibited by law in this setting. Ovarian tissue cryopreservation is still considered an experimental technique but may be proposed to selected cases such as patients with high-risk of treatment-induced premature ovarian failure and who cannot delay anticancer therapy or with contraindications to controlled ovarian stimulation. In light of the new data that became available in 2015, temporary ovarian suppression with LHRH analogs during chemotherapy can be now considered a standard strategy to preserve ovarian function and/or fertility in pre-menopausal breast cancer patients. In Italy, in June 2016, LHRH analogs during chemotherapy have been included within the law 648/96 to be used in cancer patients during chemotherapy to preserve ovarian function and/or fertility. Key words. Breast cancer, fertility preservation, embryo/oocyte cryopreservation, ovarian tissue cryopreservation, LHRH analogs.
Il carcinoma mammario rappresenta il tumore più frequentemente diagnosticato nelle donne giovani: ogni anno, circa l’11% dei tumori della mammella vengono diagnosticati in pazienti con età inferiore a 45 anni, corrispondendo in Italia a più di 5000 nuovi casi all’anno1. La gestione clinica delle pazienti giovani con carcinoma mammario è resa ancora più complessa dalla necessità di dover tenere in considerazione alcune problematiche età-specifiche come quelle riguardanti la possibile perdita della fer-
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tilità come conseguenza dei trattamenti anti-tumorali2. In considerazione del miglioramento della prognosi di queste giovani pazienti e della tendenza delle donne nei paesi occidentali a spostare in avanti l’età alla prima gravidanza, la possibile comparsa di infertilità come conseguenza dei trattamenti anti-tumorali e il disagio psico-sociale a essa legato rappresentano temi di importanza crescente2. Le terapie oncologiche sono associate a un elevato rischio di infertilità temporanea o permanente3. Sono fattori chiave per il rischio di andare incontro a questo effetto collaterale, la necessità di utilizzare la chemioterapia e la terapia anti-ormonale, e l’età al momento del trattamento3. Il rischio di infertilità correlata al trattamento è particolarmente significativo per le pazienti candidate a chemioterapia adiuvante o neoadiuvante con regimi che includano agenti alchilanti come la ciclofosfamide, per quelle con tumori ormono-responsivi per la necessità di effettuare una terapia anti-ormonale adiuvante per una durata di 5-10 anni che comporta un’ulteriore posticipazione dell’età di una possibile gravidanza, e infine per le donne con età superiore a 40 anni e più vicino all’età fisiologica della menopausa al momento del trattamento3. Gravidanza in pazienti con storia di carcinoma mammario La storica pregiudiziale controindicazione alla gravidanza nelle pazienti con pregresso carcinoma mammario deve essere considerata oggi superata. I dati a disposizione dimostrano come le donne che hanno avuto una gravidanza dopo diagnosi e trattamento di un carcinoma mammario, anche se ormono-sensibile, non hanno una prognosi peggiore4. A questo proposito, per le donne con carcinoma mammario ormono-sensibile candidate a un trattamento anti-ormonale per 5-10 anni e intenzionate a interromperlo per avere una gravidanza, è attualmente attivo in diverse istituzioni italiane uno studio clinico internazionale (“the POSITIVE study”) che ha come obiettivo quello di valutare la sicurezza di una sospensione temporanea della terapia endocrina adiuvante dopo almeno 18-30 mesi di terapia per permettere alle pazienti di andare incontro a una gravidanza5, pratica che però non andrebbe proposta in maniera attiva alle donne, considerata l’assenza attuale di dati in termini di sicurezza. Nonostante i dati rassicuranti e il fatto che più del 50% di donne con carcinoma mammario desideri avere una gravidanza al momento della diagnosi oncologica, meno del 10% riesce effettivamente a ottenerla6. In particolare, tra le pazienti oncologiche, le donne con tumore della mammella sono quelle con la più bassa probabilità di avere una gravidanza al termine dei trattamenti, che risulta ridotta del 70% rispetto a quella della popolazione generale7. L’effetto gonadotossico delle terapie oncologiche può essere considerata una delle principali cause della ridotta fertilità in queste giovani donne. Il counselling riproduttivo La discussione sugli aspetti legati alla preservazione della fertilità nell’ambito dell’oncologia medica (cioè il counselling riproduttivo) deve oggi essere parte integrante della valutazione specialistica e rappresentare un momento chiave nel
colloquio medico-paziente. Come raccomandato dalle principali linee guida nazionali e internazionali sull’argomento, tutte le pazienti con diagnosi oncologica in età riproduttiva devono essere adeguatamente e tempestivamente informate del rischio di riduzione della fertilità come conseguenza dei trattamenti anti-tumorali e, nello stesso tempo, delle strategie che sono oggi disponibili per cercare di ridurre questo rischio7-10. Durante il counselling riproduttivo, è fondamentale stimare il rischio di infertilità del trattamento proposto e la prognosi oncologica, nonché indagare l’interesse della paziente a una futura gravidanza. Successivamente, le pazienti interessate ad accedere alle strategie di preservazione della fertilità devono essere adeguatamente informate sulle opzioni disponibili, includendo una descrizione delle diverse tecniche, tempistiche, possibili complicanze e risultati attesi, chiarendo quello che è ben noto o ancora sperimentale per ciascuna strategia. In questo processo, è fondamentale un approccio multidisciplinare e una comunicazione efficace fra medico oncologo e specialista in medicina della riproduzione per la definizione delle strategie di preservazione della fertilità e la tempistica delle terapie oncologiche. Nelle giovani donne con carcinoma mammario, le principali tecniche di preservazione della fertilità disponibili sono: la crioconservazione embrionaria od ovocitaria, la crioconservazione di tessuto ovarico e la soppressione ovarica temporanea con LHRH analoghi durante chemioterapia. Tecniche di preservazione della fertilità La crioconservazione embrionaria rappresenta la tecnica più consolidata di preservazione della fertilità nelle pazienti oncologiche7-9. Tuttavia, in Italia è vietata dall’articolo 14 comma 1 della Legge 19 Febbraio 2004, n. 40 “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”10. Per questo motivo le linee guida italiane sulla preservazione della fertilità nelle pazienti oncologiche, non includono la crioconservazione embrionaria fra le tecniche di preservazione della fertilità10. La crioconservazione ovocitaria è considerata dal 2013 una tecnica standard di preservazione della fertilità. Rappresenta un’importante strategia non solo nei paesi come l’Italia dove la crioconservazione embrionaria è vietata ma anche per quelle donne che non hanno un compagno al momento della diagnosi oncologica o che per motivi etico-religiosi non accettano il congelamento degli embrioni7-10. Le pazienti candidate a questa tecnica sono le donne che hanno la possibilità di rinviare il trattamento chemioterapico di 2-3 settimane (per permettere la fase di stimolazione ormonale e la successiva raccolta ovocitaria), con età inferiore a 40 anni e che hanno una riserva ovarica adeguata per il recupero di un numero sufficiente di ovociti. La metodica consiste inizialmente nell’induzione della crescita follicolare attraverso una fase di stimolazione ormonale della durata di 10-15 giorni. Nelle pazienti infertili non oncologiche, i “protocolli standard” di stimolazione ormonale iniziano nei primi giorni della fase follicolare del ciclo mestruale. Nelle pazienti oncologiche, per evitare di dover aspettare la comparsa del ciclo mestruale e quindi ritardare ulteriormente l’inizio della chemioterapia, sono stati sviluppati “protocolli di emergenza” nei quali la CASCO — Inverno 2016
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stimolazione può essere iniziata in qualsiasi giorno3. Per le donne con tumore della mammella, al fine di ovviare alle preoccupazioni circa il potenziale rischio associato all’esposizione ad alti livelli di estrogeni correlati con la fase di stimolazione, sono stati sviluppati protocolli alternativi che includano l’utilizzo di letrozolo o tamoxifene3: questi protocolli sembrano garantire risultati comparabili a quelli dei “protocolli standard”. Successivamente alla fase di stimolazione viene effettuato il prelievo eco-guidato di ovociti attraverso una procedura invasiva della durata di circa 10 minuti che in Italia viene eseguita in regime di day surgery. Infine, la fase di laboratorio prevede la valutazione, selezione e quindi crioconservazione degli ovociti. Le due tecniche principali di congelamento sono il congelamento lento o “slow-freezing” e la vitrificazione: quest’ultima è associata a un maggior tasso di successo e sta pertanto sostituendo il congelamento lento in quasi tutti i laboratori10. I dati sul tasso di successo con l’utilizzo di questa procedura derivano principalmente dall’applicazione della tecnica in pazienti infertili non oncologiche. L’età della paziente al momento della procedura è il fattore chiave per il successo del congelamento ovocitario, con tassi inferiori al 30% in donne con età superiore a 40 anni e superiori al 40% in donne con età inferiore a 35 anni. Nelle pazienti con carcinoma mammario, la casistica più numerosa riguarda 33 pazienti che al termine dei trattamenti sono tornate per effettuare il trasferimento embrionario e provare ad avere una gravidanza11. Un totale di 20 pazienti ha avuto una gravidanza, per un “tasso di preservazione della fertilità” pari al 51,5%11. Anche se i numeri rimangono limitati, lo studio ha mostrato che nelle pazienti oncologiche il successo della procedura non sembra differire da quanto osservato nelle donne infertili non oncologiche di pari età. Per quanto riguarda la sicurezza dell’effettuazione della stimolazione ormonale (includendo il letrozolo nel protocollo di stimolazione) prima di effettuare il trattamento chemioterapico nelle pazienti con carcinoma mammario, l’unico studio prospettico disponibile sull’argomento ha mostrato risultati rassicuranti12. Lo studio ha incluso 337 pazienti con carcinoma mammario, di cui 120 hanno effettuato la stimolazione ormonale per la crioconservazione embrionaria/ovocitaria e 217 nessuna procedura (gruppo di controllo)12. A un followup mediano di circa 5 anni, non è stata osservata alcuna differenza significativa in sopravvivenza tra i due gruppi con un hazard ratio per ripresa di malattia dopo stimolazione ormonale di 0,77 (intervalli di confidenza [IC] 95%, 0,28-2,13; p = 0,61)12. Da sottolineare che questi dati derivano da pazienti con nuova diagnosi di neoplasia mammaria e candidate a ricevere un trattamento chemioterapico al termine della stimolazione ormonale; al contrario, non abbiamo dati solidi a oggi per supportare l’utilizzo di questa procedura in pazienti con pregressa storia di carcinoma mammario e non candidate a trattamenti anti-tumorali al termine della stimolazione. La crioconservazione di tessuto ovarico è una tecnica ancora sperimentale di preservazione della fertilità che ha però alcuni vantaggi rispetto alla crioconservazione embrionaria od ovocitaria: non richiede né un partner né una stimolazione ormonale, e permette di preservare non solo la fertilità ma an16
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che l’attività steroidogenica7-10. Trova indicazione nelle pazienti pre-puberi (dove la crioconservazione embrionaria od ovocitaria non possono essere effettuate), ma può anche trovare indicazione in alcune selezionate pazienti con tumore della mammella come coloro ad alto rischio di andare incontro a disfunzione ovarica precoce e che non possono ritardare il trattamento oncologico o che hanno controindicazioni alla stimolazione ormonale3. Le migliori candidate sono rappresentate da pazienti con età inferiore a 38-40 anni e riserva ovarica adeguata. La procedura richiede due interventi chirurgici in genere effettuati per via laparoscopica: uno per la rimozione del tessuto ovarico e, successivamente, al termine dei trattamenti oncologici, un secondo intervento per il reimpianto che viene effettuato nella maggior parte dei casi in sede ortotopica (cioè nelle sede ovarica dove è stato effettuato il prelievo) o meno frequentemente in sede eterotopica (cioè lontano dalle ovaie in siti particolarmente vascolarizzati). Questa tecnica dovrebbe essere effettuata solo in centri con adeguate competenze di crioconservazione ma soprattutto con un’organizzazione che permetta di offrire le più sensibili e aggiornate tecniche di analisi istologica del tessuto ovarico rimosso per escludere un suo eventuale interessamento metastatico da parte del tumore primitivo3. È importante sottolineare che il luogo dove si effettua la procedura chirurgica di prelievo di tessuto ovarico e quello in cui si procede alla crioconservazione possono essere diversi dal momento che, in adeguate condizioni, il trasporto non sembra ridurre l’efficienza della procedura3. I dati sul tasso di successo con l’utilizzo di questa procedura riportano un tasso di ripresa della funzionalità endocrina nel 90-100% dei casi; ad oggi sono nati più di 90 bambini dopo reimpianto di tessuto ovarico anche da pazienti con carcinoma mammario, di cui uno anche in Italia10. La soppressione ovarica temporanea con LHRH analoghi durante chemioterapia ha alcuni vantaggi rispetto alle tecniche di crioconservazione: non richiede né un intervento chirurgico né una stimolazione ormonale, ed è una tecnica ampiamente disponibile in tutti i centri oncologici. Da sottolineare come questa strategia, l’unica ad essere stata studiata all’interno di studi clinici randomizzati, sia stata sviluppata specificatamente come tecnica di preservazione della funzione ovarica. Tuttavia, la preservazione della funzione ovarica, che rappresenta comunque un obiettivo importante per molte pazienti, non necessariamente si traduce in preservazione della fertilità. Le linee guida internazionali ASCO ed ESMO pubblicate nel 2013 consideravano la tecnica ancora sperimentale dal momento che i risultati degli studi all’epoca disponibili riportavano risultati non definitivi sul ruolo della strategia e non erano stati ancora riportati dati a lungo termine sulla sua efficacia come tecnica di preservazione della fertilità (cioè gravidanze post-trattamento) e sicurezza (cioè sopravvivenza delle pazienti)7,8. Nel corso del 2015, sono stati pubblicati i risultati con follow-up a lungo termine dei due più grandi studi randomizzati che hanno valutato l’efficacia di questa strategia in donne con carcinoma mammario (lo studio americano POEMS-SWOG S0230 e lo studio italiano PROMISE-GIM6)13,14. Entrambi gli studi hanno dimostrato un
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ruolo protettivo di LHRH analoghi durante chemioterapia nella preservazione della funzione ovarica con una riduzione assoluta di circa il 15% nell’incidenza di menopausa precoce chemio-indotta13,14. Inoltre, gli studi hanno dimostrato che l’aggiunta di LHRH analoghi alla chemioterapia si associa a un più alto numero di gravidanze senza conseguenze negative sulla prognosi delle pazienti13,14. Una recente meta-analisi che ha incluso tutti i 12 studi randomizzati condotti ad oggi nelle donne con carcinoma mammario, ha confermato l’efficacia di questa strategia nella preservazione sia della funzione ovarica sia della fertilità15. Un totale di 1231 pazienti sono state incluse nell’analisi; complessivamente, lo studio ha dimostrato una riduzione significativa nel rischio di andare incontro a disfunzione ovarica precoce (odds ratio [OR], 0,36; IC 95%, 0,23-0,57; p < 0,001) e amenorrea 12 mesi dalla fine della chemioterapia (OR, 0,55; IC 95%, 0,41-0,73; p < 0.001) nelle pazienti trattate con LHRH analoghi durante chemioterapia15. Inoltre, l’uso di questa tecnica era anche associato a una più alta probabilità di avere una gravidanza al termine dei trattamenti (OR, 1,83; IC 95%, 1,02-3,28; p = 0,041)15. Alla luce di queste evidenze cliniche, le principali linee guida nazionali e internazionali sono state aggiornate raccomandando l’utilizzo di LHRH analoghi per le giovani pazienti premenopausali candidate a ricevere chemioterapia (neo)adiuvante per un carcinoma mammario e desiderose di preservare la funzione ovarica e/o la fertilità9,10. In Italia, nel giugno 2016, è stato dato parere favorevole dagli organi competenti per l’inserimento di LHRH analoghi durante chemioterapia a scopo di preservare la fertilità nell’elenco istituito ai sensi della legge 648/9616. È importante sottolineare che la soppressione ovarica con LHRH analoghi durante chemioterapia e le strategie di criopreservazione non sono tecniche mutualmente esclusive. La soppressione ovarica temporanea con LHRH analoghi durante chemioterapia andrebbe proposta alle pazienti desiderose di preservare la funzione ovarica ma non interessate a future gravidanze, e alle donne desiderose di preservare la fertilità che non possono ricevere le tecniche di crioconservazione o che hanno già ricevuto una di queste strategie così da aumentare la possibilità di preservare sia la funzione ovarica sia la fertilità. Grazie a numerosi sforzi scientifici, negli ultimi anni sono stati compiuti numerosi progressi nel campo della preservazione della fertilità in oncologia. Tuttavia, per poter migliorare la qualità di vita delle giovani pazienti con carcinoma mammario nel processo terapeutico volto non solo alla loro guarigione ma anche al mantenimento dei loro obbiettivi futuri compresi quelli di una pianificazione familiare, è fondamentale aumentare lo scambio di informazioni e la collaborazione tra medici oncologi e specialisti in medicina della riproduzione. Per questo obiettivo, ogni centro oncologico dovrebbe attivare uno stretto rapporto di collaborazione con una unità di procreazione medicalmente assistita, anche all’esterno della propria struttura ospedaliera se non disponibile all’interno. •
Bibliografia 1. “I numeri del cancro in Italia 2015”. AIOM-AIRTUM: www.registri-tumori.it/PDF/AIOM2015/I_numeri_del_cancro_ 2015.pdf 2. Rosenberg SM, Newman LA, Partridge AH. Breast cancer in young women: rare disease or public health problem? JAMA Oncol 2015; 1: 877-8. 3. Lambertini M, Del Mastro L, Pescio MC, et al. Cancer and fertility preservation: international recommendations from an expert meeting. BMC Med 2016; 14: 1. 4. Azim HA Jr, Kroman N, Paesmans M, et al. Prognostic impact of pregnancy after breast cancer according to estrogen receptor status: a multicenter retrospective study. J Clin Oncol 2013; 31: 73-9. 5. Pagani O, Ruggeri M, Manunta S, et al. Pregnancy after breast cancer: Are young patients willing to participate in clinical studies? Breast 2015; 24: 201-7. 6. Letourneau JM, Ebbel EE, Katz PP, et al. Pretreatment fertility counseling and fertility preservation improve quality of life in reproductive age women with cancer. Cancer 2012; 118: 1710-7. 7. Peccatori FA, Azim HA Jr, Orecchia R, et al. Cancer, pregnancy and fertility: ESMO Clinical Practice Guidelines for diagnosis, treatment and follow-up. Ann Oncol 2013; 24 (Suppl 6): vi16070. 8. Loren AW, Mangu PB, Beck LN, et al. Fertility preservation for patients with cancer: American Society of Clinical Oncology Clinical Practice Guideline Update. J Clin Oncol 2013; 31) :2500–10. 9. Paluch-Shimon S, Pagani O, Partridge AH, et al. Second international consensus guidelines for breast cancer in young women (BCY2). Breast 2016; 26: 87-99. 10. Linee Guida AIOM Preservazione della Fertilità nei Pazienti Oncologici: www.aiom.it/professionisti/documentiscientifici/linee-guida/preservazione-fertilita/1,713,1, 11. Oktay K, Turan V, Bedoschi G, et al. Fertility preservation success subsequent to concurrent aromatase inhibitor treatment and ovarian stimulation in women with breast cancer. J Clin Oncol 2015; 33: 2424-9. 12. Kim J, Turan V, Oktay K. Long-term safety of letrozole and gonadotropin stimulation for fertility preservation in women with breast cancer. J Clin Endocrinol Metab 2016; 101: 136471. 13. Moore HCF, Unger JM, Phillips K-A, et al. Goserelin for ovarian protection during breast-cancer adjuvant chemotherapy. N Engl J Med 2015; 372: 923-32. 14. Lambertini M, Boni L, Michelotti A, et al. Ovarian suppression with triptorelin during adjuvant breast cancer chemotherapy and long-term ovarian function, pregnancies, and disease-free survival: a randomized clinical trial. JAMA 2015; 314: 2632-40. 15. Lambertini M, Ceppi M, Poggio F, et al. Ovarian suppression using luteinizing hormone-releasing hormone agonists during chemotherapy to preserve ovarian function and fertility of breast cancer patients: a meta-analysis of randomized studies. Ann Oncol 2015; 26: 2408-19. 16. Lambertini M, Cinquini M, Moschetti I, et al. Temporary ovarian suppression during chemotherapy to preserve ovarian function and fertility in breast cancer patients: a GRADE approach for evidence evaluation and recommendations by the Italian Association of Medical Oncology. Eur J Cancer 2017; 71: 25-33.
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Gestione eventi avversi
Tossicità di nivolumab e pembrolizumab
Elisa Minenza, Sonia Fatigoni Struttura Complessa di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni RIASSUNTO L’immunoterapia è una delle strategie di trattamento in oncologia più interessanti ed innovative, che recentemente ha dimostrato di essere potenzialmente efficace in diversi tumori, con un prolungato controllo della malattia in una percentuale importante di pazienti. Una delle pathway studiate è quella del PD1 (programmed death 1), un recettore transmembrana sulla superficie dei linfociti, e dei suoi ligandi (PDLs). Negli ultimi anni molti studi hanno valutato anticorpi contro PD1 e PD-L1, come pembrolizumab e nivolumab. Questi farmaci hanno di solito effetti collaterali immuno-mediati, come ad esempio polmoniti, epatiti, coliti, tiroiditi. Dati interessanti si stanno inoltre accumulando sulla possibile combinazione di chemioterapia ed immunoterapia o anche sulla combinazione di diversi tipi di immunoterapia, come ad esempio nivolumab ed ipilimumab. Parole chiave. Nivolumab, pembrolizumab, immunoterapia.
SUMMARY
Nivolumab and pembrolizumab toxicity Immunotherapy is one of the most interesting and innovative treatment strategy in oncology. Recently immunotherapy showed potential efficacy in several tumours, with prolonged disease control in a significative percentage of patients. One of the pathways evaluated is the PD1 (programmed death 1), a trans-membranal receptor of the lynphocyte surface and its ligands (PDLs). In the last years many studies evaluated antibodys against PD1 and PDL1, such as pembrolizumab and nivolumab. These drugs have usually immunomediated side effects, including pneumonitis, hepatitis, colitis, thyroiditis. Interesting data are emerging concerning the possible combination of chemotherapy and immunotherapy or of different type of immunotherapy, such as nivolumab plus ipilimumab. Key words. Nivolumab, pembrolizumab, immunotherapy.
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Introduzione L’immunoterapia sta emergendo come un importante strumento nel trattamento di diversi tumori, con un beneficio clinico potenzialmente duraturo nel tempo in una buona parte dei pazienti trattati. Il microambiente tumorale composto da linfociti, cellule stromali e molecole co-stimolatorie, coinvolte nella regolazione della risposta immune è divenuto e rimane oggetto d’intenso studio, al fine di comprendere alcuni dei meccanismi biologici che stanno alla base della progressione della malattia neoplastica. Tra i farmaci che sono stati studiati c’è l’ipilimumab, un anti CTLA4 autorizzato per il melanoma avanzato, della cui tossicità abbiamo già trattato in precedenza (vedi CASCO 2013 volume 3 n. 6). Tra le pathway molecolari inibitorie, quella di Programmed death-1 (PD-1) (un recettore transmembranario di tipo I espresso sulla superficie dei linfociti) e dei suoi ligandi (PD-Ls, Programmed Death-Ligands) dalla cui interazione scaturisce il segnale immunosoppressivo è divenuta il bersaglio dell’immunoterapia con gli inibitori del check-point immune, anti-PD-1 ed anti-PD-L1. Tale checkpoint immunologico è al centro di molti studi per diverse neoplasie solide ed ematologiche; in molte neoplasie infatti è stata riscontrata una sovra-regolazione dei ligandi di PD-1 ed in studi preclinici l’inibizione del recettore PD-1 viene associata a diminuzione della crescita tumorale. Anticorpi anti PD-1 e anti PDL-1 potenziano la risposta immunitaria bloccando l’interazione tra la proteina PD-1, recettore co-inibitorio della cellula T ed uno dei suoi ligandi PDL-1 impedendo alle cellule tumorali di eludere il sistema immunitario dell’ospite1,2. In particolare, in questo articolo, ci occuperemo di nivolumab e pembrolizumab, tra gli anti PD1, perché sono le molecole su cui recentemente si sono accumulati più dati e che sono state già autorizzate in diverse patologie (melanoma, polmone, rene) e della combinazione di nivolumab ed ipilimumab, approvata di recente dall’EMA per il melanoma. Passeremo in rassegna i risultati dei principali studi clinici ed analizzeremo poi in particolare il profilo di tossicità caratteristico di tali farmaci e la sua gestione. Pembrolizumab Pembrolizumab è un anticorpo monoclonale umanizzato dell’isotipo IgG4/kappa che blocca direttamente sia l’interazione tra PD-1 e i suoi ligandi PD-L1 e PD-L2 che il legame tra PD-1 e altre pathways immunomodulatrici. Pembrolizumab ha un’ emivita di eliminazione di circa 26 giorni, con concentrazione raggiunta allo steady-state dopo
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18 settimane circa; non occorrono riduzioni di dose del farmaco per insufficienza renale né per insufficienza epatica lieve3. È in fase di studio per il trattamento di molte neoplasie solide sia in monoterapia che in associazione a chemioterapia o ad altri farmaci biologici visto il buon profilo di tossicità e quindi la buona tollerabilità del trattamento stesso. Pembrolizumab è stato approvato a settembre 2014 dalla FDA per il trattamento del melanoma stadio III o IV in seconda linea (dopo progressione ad ipilimumab o dopo BRAF inibitori nei pazienti BRAF mutati). Nel 2015 FDA ed EMA hanno approvato pembrolizumab anche in prima linea. Gli studi che hanno portato all’autorizzazione del farmaco, sono stati il KEYNOTE-002 e il KEYNOTE-006. Lo studio randomizzato di fase II (KEYNOTE-002)4 ha confrontato chemioterapia e pembrolizumab in 540 pazienti affetti da melanoma avanzato refrattario a terapia con ipilimumab e a vemurafenib se BRAF mutati. I pazienti sono stati randomizzati a ricevere pembrolizumab 2 mg/kg, pembrolizumab 10 mg/kg o chemioterapia a scelta dell’investigatore 1:1:1. Il tasso di risposte obiettive è stato del 21%, 25% e 4% rispettivamente; la PFS a 6 mesi è stata rispettivamente del 34%, 38% e 16%; il 48% dei pazienti ha effettuato cross-over a pembrolizumab e i dati di sopravvivenza non sono ancora maturi. Per quanto riguarda il profilo di tossicità, gli eventi avversi di grado 3-5 si sono registrati nel 26% dei pazienti sottoposti a chemioterapia e nel 10-14% dei pazienti sottoposti a pembrolizumab; ipotiroidismo di ogni grado è stato diagnosticato nell’8% dei pazienti; gli eventi avversi di grado elevato non hanno coinvolto più del 2% dei pazienti. Lo studio randomizzato di fase III KEYNOTE-0065 ha valutato in 834 pazienti con melanoma avanzato l’attività di pembrolizumab alla dose di 10 mg/kg ogni 2 o ogni 3 settimane verso ipilimumab 3 mg/kg ogni 3 settimane per 4 dosi con random 1:1:1. Gli endpoint principali dello studio erano la PFS e la OS. Dopo un follow-up mediano di 7,9 mesi entrambe le schedule di pembrolizumab hanno determinato una migliore PFS rispetto ad ipilimumab: tasso di sopravvivenza libera da progressione rispettivamente del 47,3%, e 46,4% per le due schedule di pembrolizumab rispetto a 26,5% di ipilimumab; la terapia con pembrolizumab inoltre è stata associata a un miglior tasso stimato di sopravvivenza globale a 12 mesi che è risultato rispettivamente di 74,1% e 68,4% per le due schedule di pembrolizumab e del 58,2% per ipilimumab. Per quanto riguarda il profilo di tossicità, eventi avversi di G3-5 si sono registrati nel 13,3%, 10,1% dei pazienti trattati con pembrolizumab 10 mg/kg rispettivamente ogni 2 o 3 settimane e nel 19,9% dei pazienti trattati con ipilimumab. I pazienti che hanno discontinuato il trattamento per tossicità sono stati rispettivamente: 4%, 6,9% e 9,4%. Una morte tossica è stata documentata nel braccio di terapia con ipilimumab. Gli eventi avversi più comuni nei pazienti in trattamento con pembrolizumab sono stati: fatigue (20% circa), diarrea (15% circa), rash (14% circa), prurito (14% circa) generalmente di grado lieve; solo l’1% dei pazienti ha presentato questi effetti di grado elevato, tranne la diarrea nel 2% dei pazienti. Gli eventi avversi più frequenti
immuno-relati sono stati l’ipotiroidismo (8-10% circa) e ipertiroidismo (3-6%); inoltre si sono registrati casi di epatite e colite di grado elevato in più dell’1% dei pazienti trattati con pembrolizumab e nell’8% circa dei pazienti trattati con ipilimumab così come le ipofisiti. Ipotiroidismo e ipertiroidismo sono più frequentemente collegati a terapia con pembrolizumab, coliti ed epatiti con ipilimumab. Pembrolizumab ha ricevuto alla fine del 2015 anche l’approvazione accelerata per il trattamento dei pazienti affetti da NSCLC in fase avanzata, PD-L1 positivi, in progressione a chemioterapia con doppietta a base di platino. PD-L1 è iperespresso nel 25-50% dei carcinomi del polmone non microcitoma, percentuale ancora più alta per gli istotipi a differenziazione sarcomatoide (50-60% circa). Lo studio che ha portato all’approvazione accelerata è lo studio di fase I KEYNOTE-0016. Sono stati arruolati 495 pazienti affetti da NSCLC avanzato, l’80% dei quali aveva già ricevuto un precedente trattamento, e con la positività per PD-L1 (definita mediante colorazione della membrana cellulare in almeno l’1% delle cellule neoplastiche). Endpoint primario dello studio era la valutazione della tossicità e dell’attività del pembrolizumab, somministrato endovena a differenti dosaggi (2 mg/kg e 10 mg/kg ogni 3 settimane o 10 mg/kg ogni 2 settimane). Il pembrolizumab ha determinato un ORR del 19,4% (18,0% nei 394 pazienti precedentemente trattati e 24,8% nei 101 pazienti non pretrattati) indipendente da dose, schedula di somministrazione, istotipo di malattia. La durata mediana della risposta è stata pari a 12,5 mesi, la PFS mediana è stata di 3,7 mesi (3,0 nei pazienti pretrattati vs 6,0 mesi in quelli non pretrattati) e la OS mediana è stata di 12,0 mesi (9,3 nei pretrattati vs 16,2 mesi nei non pretrattati). Nei pazienti che presentavano un livello di positività del PD-L1 di almeno il 50% è stato riscontrato un ORR del 45,2% con una PFS mediana di 6,3 mesi. I più comuni eventi avversi sono stati fatigue (19,4%), prurito (10,7%), diminuzione dell’appetito (10,5%), rash (9,7%) artralgia (9,1%) e diarrea (8,1%). Complessivamente, eventi avversi di grado ≥ 3 sono stati riportati nel 9,5% dei casi. Eventi avversi immunorelati che si sono verificati in più del 2% dei pazienti sono reazioni infusione-relate (3,0%), ipotiroidismo (6,9%), polmoniti (3,6%, di cui di grado ≥ 3 nell’1,8% dei pazienti). Non sono state riscontrate differenze di eventi avversi tra le diverse dosi e schedule di trattamento con pembrolizumab. È stato poi pubblicato lo studio di fase II-III7 che ha confrontato pembrolizumab (2 o 10 mg/kg ev ogni 3 settimane) verso docetaxel (KEYNOTE-010) in 1034 pazienti PD-L1 positivi in almeno l’1% delle cellule neoplastiche, affetti da carcinoma del polmone squamoso o da adenocacinoma, in progressione dopo una, due o più linee di chemioterapia o dopo un inibitore di EGFR o ALK. Gli endpoint co-primari dello studio erano la OS e la PFS, valutate sia nell’intera popolazione che in quella dei pazienti in cui il PD-L1 era presente in ≥ 50% delle cellule tumorali. La OS mediana è stata di 10,4 mesi e 12,7 mesi con pembrolizumab, alle dosi di 2 e 10 mg/kg, rispettivamente, e 8,5 mesi con docetaxel (differenze CASCO — Inverno 2016
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statisticamente significative tra entrambe le dosi di pembrolizumab e docetaxel). La OS è risultata significativamente maggiore nei due bracci pembrolizumab verso il braccio docetaxel con un HR di 0,71 per pembrolizumab 2mg/kg versus docetaxel e 0,61 per pembrolizumab 10/mg/Kg versus docetaxel. La PFS mediana è stata praticamente la stessa sia per i due diversi dosaggi di pembrolizumab (3,9 e 4,0 mesi) sia nei pazienti trattati con docetaxel (4,0 mesi). Anche con il pembrolizumab la curva di sopravvivenza tende ad appiattirsi dopo circa 16 mesi dall’inizio del trattamento. Nei pazienti in cui il PD-L1 era espresso da ≥ 50% delle cellule tumorali la OS mediana è stata significativamente più lunga con pembrolizumab che con docetaxel (14,9 e 17,3 mesi vs 8,2 mesi), così come la PFS mediana (5,0 e 5,2 mesi vs 4,1 mesi). L’incidenza degli eventi avversi di grado ≥ 3 è stata significativamente inferiore con il pembrolizumab (13% e 16% vs 35% con il docetaxel). Quelli più frequenti con pembrolizumab 2 mg/kg e10 mg/kg erano diminuzione dell’appetito (14% e 10% vs 16% con docetaxel), fatigue (14% e 14% vs 25%), nausea (11% e 9% vs 15%), rash (9% e 13% vs 5%) diarrea (7% e 6% vs 18%). L’ipotiroidismo insorgeva nell’8%/8% vs < 1% dei pazienti e la polmonite nel 5%/4% vs 2% con docetaxel. Recentemente è stato pubblicato lo studio di fase III KEYNOTE-024 che ha confrontato nei NSCLC PD-L1 positivi pembrolizumab alla dose fissa di 200 mg ogni 3 settimane verso chemioterapia a base di platino8 su 305 pazienti in prima linea, non mutati e con positività del PD-L1 in almeno il 50% delle cellule tumorali. Era permesso il crossover. L’endpoint primario dello studio era la PFS che è risultata di 10,3 mesi con il pembrolizumab verso 6.0 mesi con la chemioterapia; l’ORR è risultato del 44,8% verso 27,8% rispettivamente. Gli eventi avversi di ogni grado sono risultati inferiori con il pembrolizumab rispetto alla chemioterapia (73,4% verso 90,0%), così come gli eventi avversi di grado3, 4 e 5 (26,6% verso 53,3%). Gli eventi avversi seri correlati al farmaco sono risultati con uguale frequenza nei due bracci (21,4% verso 20,7%). La discontinuazione si è avuta nel 7% dei pazienti nel braccio del pembrolizumab e nel 10,7% nel braccio della chemioterapia. Gli eventi avversi hanno causato la morte di 1 paziente nel braccio di pembrolizumab e 3 in quello della chemioterapia. Gli eventi avversi relati al trattamento più frequenti con pembrolizumab sono risultati diarrea (14,3%), fatigue (10,4%) e febbre (10,4%); quelli di grado 3-5 sono risultati la diarrea (3,9%) e le polmoniti (2,6%). Gli eventi avversi immuno-mediati si sono verificati nel 29,2% dei pazienti con pembrolizumab verso 4,7% con la chemioterapia; quelli di grado 3-4 si sono verificati nel 9,7% verso 0,7% (reazioni cutanee, polmoniti, coliti). Nivolumab Nivolumab è un anticorpo monoclonale umano dell’isotipo IgG4/kappa che blocca direttamente l’interazione tra PD1 ed entrambi i suoi ligandi PD-L1 e PD-L2, attenuando così segnali inibitori e aumentando la risposta immunitaria dell’ospite. 20
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La sua farmacocinetica è lineare, proporzionale alla dose, con una modesta variabilità interindividuale (20-44%) e l’emivita del farmaco è di 17-25 giorni circa9. Dagli studi di fase I, infatti, condotti su pazienti affetti da diverse neoplasie solide (melanoma, NSCLC, rene, colonretto) non sono state riscontrate tossicità dose limitanti o dosi massimamente tollerate rispetto ai dosaggi valutati di 0,1, 0,3, 1,3, 3 e 10 mg/kg. Gli eventi avversi di G3 sono stati limitati e variabili dall’1 al 6% delle popolazioni in studio e hanno riguardato principalmente polmoniti e coliti10,11. Sono stati pubblicati molteplici studi di fase II-III nell’ambito del melanoma, del carcinoma del polmone non microcitoma, carcinoma renale, carcinoma del distretto testa-collo. Nivolumab è stato approvato nel novembre 2015 dall’FDA in prima linea nei pazienti con melanoma non operabile e/o metastatico BRAF V600 wild type e nel giugno 2015 dall’EMA per i trattamento del melanoma inoperabile/metastatico indipendentemente dallo stato di BRAF. L’approvazione in prima linea si è avuta sulla base dello studio Checkmate 066, studio di fase III condotto su 418 pazienti con melanoma inoperabile/metastatico BRAF wild type che ha confrontato nivolumab (3 mg/kg ev ogni 2 settimane) rispetto alla chemioterapia con (dacarbazina 1000 mg/m2 ev ogni 3 settimane)12. Come endpoint primario è stata scelta la OS, la cui mediana, al momento della valutazione, non era stata ancora raggiunta nei pazienti sottoposti a nivolumab mentre era di 10,8 mesi nei pazienti trattati con dacarbazina. La sopravvivenza ad 1 anno era, rispettivamente, del 72,9% versus 42,1%, HR = 0,42. La PFS mediana è risultata significativamente superiore nei pazienti che ricevevano nivolumab rispetto a quelli trattati con dacarbazina (5,1 vs 2,2 mesi, HR = 0,43), ed anche l’ORR (40% vs 13,9%). La risposta ottenuta con nivolumab era confermata in tutti i sottogruppi di malattia considerati, indipendentemente anche dallo stato di PD-L1 (cut off utilizzato 5%). In particolare, nei pazienti PD-L1 positivi la percentuale di risposte al nivolumab era del 52,7% rispetto al 10,8% della dacarbazina; nei pazienti PD-L1 negativi la percentuale di risposte con il nivolumab era del 33,1% e del 15,7% con la dacarbazina. Per quanto concerne la tossicità, nel gruppo di pazienti sottoposti a nivolumab si è avuta una minore incidenza degli eventi avversi di grado 3 e 4 (11,7% vs 17,6%). Gli eventi avversi più frequenti con l’immunoterapia sono stati fatigue (19,9%), prurito (17%) e nausea (16,5%). La dacarbazina ha comportato maggiori percentuale di effetti avversi soprattutto gastrointestinali ed ematologici. La percentuale di pazienti che hanno interrotto il trattamento per tossicità era del 6,8% nel braccio “nivolumab” e dell’11,7% in quello “dacarbazina”. Non è stata eseguita la valutazione della qualità di vita. Checkmate 066 è lo studio di fase III che presenta il più lungo follow up nei pazienti con melanoma trattati con anticorpo anti PD-1 e dimostra un importante beneficio in sopravvivenza globale nei pazienti con melanoma metastatico in prima linea. Purtroppo non è stato ancora possibile iden-
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tificare dei biomarkers (quali ad esempio l’espressione di PDL1) predittivi di risposta al trattamento con nivolumab. Nivolumab è stato approvato dall’FDA nel dicembre 2014 in linee successive alla prima per il trattamento del melanoma inoperabile/metastatico in progressione dopo ipilimumab e, se BRAF mutato, dopo un inibitore di BRAF. Nello studio Checkmate 03713 sono stati arruolati 405 pazienti con melanoma stadio IIIC/IV che avevano già ricevuto un trattamento con ipilimumab (se BRAF wild type) o con un inibitore di BRAF + ipilimumab (se BRAF mutati), randomizzati 2:1 a ricevere nivolumab (3 mg/kg ev ogni 2 settimane) o chemioterapia (dacarbazina 1000 mg/m2 ev ogni 3 settimane o associazione carboplatino AUC6 + paclitaxel 175 mg/m2 ev ogni 3 settimane). Il confronto tra le percentuali di risposte è stata condotta sui primi 120 pazienti arruolati nel braccio del nivolumab e sui primi 47 nel braccio della chemioterapia. Il nivolumab ha determinato un aumento di ORR dal 10,6% al 31,7%, che è risultato indipendente dallo stato di BRAF e dalla precedente risposta alla terapia con anti CTLA-4. In particolare nei pazienti BRAF mutati si è osservata una percentuale di risposte del 23% con nivolumab e del 9% con la chemioterapia, mentre nei pazienti BRAF wild type la stessa percentuale è stata, rispettivamente, del 34% vs 11%. Nel braccio “nivolumab”, nei pazienti PD-L1 positivi (cutoff 5%) l’ORR era del 44% mentre inquelli PD-L1 negativi era del 20%. Non è stato riscontrato un miglioramento significativo della PFS mediana (4,7 mesi nei pazienti che ricevevano nivolumab vs 4,2 mesi in quelli trattati con chemioterapia). La tossicità è stata maggiore nei pazienti che hanno ricevuto chemioterapia con un’incidenza di eventi avversi legati al trattamento di grado 3 e 4 pari al 31% per la chemioterapia e al 9% per il nivolumab. Anche la tossicità che ha portato all’interruzione del trattamento è stata inferiore con il nivolumab (3% vs 7%). La qualità di vita nei pazienti sottoposti a terapia nei due gruppi di trattamento è stata valutata ma non sono ancora noti i risultati. Nell’ambito del NSCLC in due studi di fase II è stata documentata attività di nivolumab in monoterapia sia in pazienti pretrattati che in pazienti non pretrattati. In entrambi gli studi nivolumab è risultato ben tollerato; eventi avversi di G3-4 sono stati riscontrati nel 14% dei pazienti pretrattati e nel 10% di pazienti non pretrattati. Sono state diagnosticate tre morti tossiche relate al trattamento (in seguito all’insorgenza di polmoniti interstiziali). Nel gruppo di pazienti pretrattati si evidenzia un 9% di casi di polmoniti, nessun caso in pazienti non pretrattati14,15. Uno studio di fase II CheckMate 06316 ha valutato l’attività di nivolumab in 117 pazienti affetti da NSCLC malattia avanzata ad istologia squamosa pretrattati con almeno due linee di terapia. Ad un follow-up mediano d 12 mesi il 14,5% dei pazienti ha presentato risposta oggettiva e oltre il 2/3 di questi pazienti erano ancora in trattamento al momento dell’analisi. Il 26% dei pazienti ha avuto una stabilità di malattia. Circa ¾ dei pazienti ha riportato eventi avversi di ogni grado, tra i più frequenti fatigue, diminuzione dell’appetito
e nausea. Il 17% dei pazienti ha presentato tossicità di G34, in particolare fatigue, polmoniti e diarrea. Gli eventi avversi immuno-relati più frequenti sono stati quelli gastrointestinali e cutanei generalmente di basso grado. Si sono verificate due morti legate al trattamento per polmonite interstiziale e ictus ischemico in pazienti con molteplici comorbilità. Gli eventi avversi hanno portato alla discontinuazione del trattamento nel 12% dei casi. Il nivolumab è stato approvato dall’EMA ad aprile 2015 per il trattamento di seconda linea di pazienti affetti da NSCLC, istotipo squamoso, in progressione di malattia dopo un precedente trattamento chemioterapico. L’efficacia del farmaco è stata valutata in uno studio di fase III in cui 272 pazienti affetti da carcinoma squamoso del polmone stadio IIIB/IV, in progressione di malattia durante o dopo un iniziale trattamento chemioterapico con doppietta a base di platino, sono stati randomizzati a ricevere terapia con nivolumab (3 mg/kg ev ogni due settimane) o docetaxel (75 mg/m2 ev ogni tre settimane)17. La OS mediana, endpoint primario dello studio, è risultata significativamente superiore nel gruppo di pazienti trattati con nivolumab rispetto a quelli trattati con chemioterapia convenzionale (9,2 vs 6,0 mesi, HR = 0,59); la sopravvivenza ad un anno è stata, rispettivamente, del 42% vs il 24%, con una curva che tende ad appiattirsi nei pazienti trattati con nivolumab a partire dai 18 mesi. L’ORR è stato significativamente superiore con nivolumab (20% vs 9%) così come la PFS mediana (3,5 vs 2,8 mesi). L’83% dei pazienti randomizzati sono risultati positivi per espressione di PD-L1, positività che era ben bilanciata tra i due gruppi. La positività di PD-L1 non era correlata con il beneficio in sopravvivenza e non è stata pertanto prognostica o predittiva di efficacia clinica. La percentuale di eventi avversi è risultata complessivamente inferiore nel gruppo trattato con nivolumab (58% vs 86%) e, in tale contesto, gli eventi di grado ≥ 3 sono risultati significativamente più frequenti con il docetaxel (57% vs 7%). Gli eventi avversi più frequenti con nivolumab sono stati: fatigue (16% dei pazienti vs 33% con docetaxel), inappetenza (11% vs 19%), astenia (10% vs 14%), nausea (9% vs 23%), diarrea (8% vs 20%), polmonite (5% vs 0%), ipotiroidismo (4% vs 0%), rash (4% vs 6%), aumento dei livelli di creatinina (3% vs 2%). La discontinuazione del farmaco è stata necessaria in una piccola percentuale di pazienti (3%) e più frequentemente era dovuta all’insorgenza di una polmonite su base immunitaria. Sono stati riportati tre eventi avversi di grado 3 nel gruppo sottoposto a terapia con nivolumab, ovvero nefrite tubulointerstiziale, colite, polmonite; non sono stati descritti eventi di grado 4. Ad ottobre 2015 la FDA ha esteso l’indicazione all’utilizzo del nivolumab nel NSCLC, includendo pazienti affetti da istologia non squamosa, in progressione dopo un precedente trattamento con regimi a base di platino o dopo fallimento di terapie target in presenza di mutazioni di EGFR o traslocazione di ALK. L’approvazione è stata basata sui risultati di uno studio di fase III18 nel quale 582 pazienti sono stati randomizzati 1:1 ad effettuare terapia con nivolumab alla dose di 3 mg/kg CASCO — Inverno 2016
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(n=292) ogni due settimane o docetaxel 75 mg/m2 ogni tre settimane (n=290). Lo studio ha documentato un incremento statisticamente significativo della OS mediana (12,2 vs 9,4 mesi, HR = 0,73), endpoint primario dello studio. La OS mediana è risultata significativamente superiore con nivolumab (ad un anno la percentuale di sopravviventi era 51% vs 39% ed a 18 mesi 39% vs 23%, rispettivamente) così come l’ORR (19% vs il 12%) e la durata mediana della risposta (17,2 mesi vs 5,6 mesi). Non sono state osservate differenze significative in termini di PFS mediana (2,3 mesi vs 4,2 mesi,rispettivamente). L’espressione di PD-L1 è stata eseguita su 455 pazienti. In tale sottogruppo, il 46% sono risultati PD-L1 negativi (espressione documentata in meno dell’1% delle cellule tumorali) ed il 54% positivi. È emersa una correlazione significativa tra l’espressione del PD-L1 e l’outcome clinico con il nivolumab; infatti un maggior beneficio in termini di OS, PFS e ORR è stato evidenziato a livelli crescenti di espressione di PD-L1 (≥1%, ≥5%, ≥10%), suggerendo un valore predittivo di efficacia del farmaco, contrariamente a quanto finora osservato nelle forme ad istologia squamosa. Nei pazienti PD-L1 negativi non vi erano differenze in termini di OS mediana tra nivolumab e docetaxel. Il profilo di sicurezza è risultato analogo a quello già descritto negli altri studi, essendo gli eventi avversi con il nivolumab poco frequenti e di scarsa intensità. Eventi avversi di ogni grado sono stati riferiti dal 69% dei pazienti trattati con nivolumab e dall’88% dei pazienti trattati con docetaxel, un evento di grado 3 o 4 è stato riportato dal 10% e dal 54% dei pazienti, rispettivamente. Tra gli eventi più frequenti di ogni grado segnalati nel gruppo trattato con nivolumab: fatigue (16% vs 29% con docetaxel), nausea (12% vs 26%), inappetenza (10% vs 16%), astenia (10% vs 18%). In fase di pubblicazione lo studio di fase III CheckMate 026 che valuta l’efficacia di nivolumab in prima linea rispetto ad un regime chemioterapico a base di platino in pazienti affetti da NSCLC stadio IV all comers e PDL-1 positivi (cut-off 5%). Il nivolumab è stato inoltre approvato dall’FDA nel novembre 2015 per il trattamento del carcinoma renale metastatico in seconda linea dopo una prima linea di trattamento con una terapia anti-angiogenetica. L’approvazione si è avuta in seguito sulla base dei risultati dello studio di fase III Checkmate 02519 condotto su 821 pazienti con carcinoma renale a cellule chiare metastatico in seconda linea precedentemente sottoposti a terapia con una o due terapie antiangiogenetiche. La presenza di metastasi cerebrali era un criterio di esclusione dallo studio.I pazienti sono stati randomizzati 1:1 a ricevere terapia con nivolumab (3 mg/kg ev ogni 2 settimane) o everolimus (10 mg/os/die). Endpoint primario era la OS. I risultati hanno mostrato un incremento significativo della OS mediana nei pazienti sottoposti a terapia con nivolumab rispetto a quelli che hanno ricevuto everolimus (25,0 vs 19,6 mesi, HR =0,73). Anche l’ORR è risultato significativamente superiore (25% vs 5%) mentre la PFS mediana non è stata trovata significativamente diversa (4,6 mesi nei pa22
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zienti sottoposti a terapia con nivolumab e 4,4 mesi in quelli trattati con everolimus). Nei pazienti che non avevano presentato progressione di malattia a sei mesi (35% dei pazienti che ricevevano nivolumab e 31% di quelli trattati con everolimus) la PFS mediana è stata di 15,6 mesi con nivolumab vs 11,7 mesi con everolimus. La OS mediana non è risultata significativamente diversa in relazione all’espressione di PD-L1. La qualità della vita misurata con il Functional Assessment Cancer Therapy – Kidney Symptom Index era simile al basale ma migliorava nel tempo di più con nivolumab che con everolimus. La terapia con nivolumab è risultata ben tollerata con un numero di eventi avversi di grado 3 e 4 nettamente inferiore all’everolimus (19% vs 37%); gli eventi avversi di grado 3 e 4 più frequenti con nivolumab sono stati la fatigue (2%) e l’anemia (2%) mentre con everolimus l’anemia (8%). Per quel che riguarda l’incidenza di fatigue è stata sostanzialmente la stessa con entrambe le terapie (33% con nivolumab vs 34% con everolimus), così come la nausea (rispettivamente 15% vs 18%), mentre altri eventi avversi sono stati più frequenti con everolimus (ad esempio stomatite 33% vs 2%, anemia 32% vs 10% e mucosite 22% vs 3%). Nivolumab + ipilimumab La possibilità di combinare due tipi diversi di farmaci immunologici è oggetto di valutazione in diversi studi clinici. La combinazione di nivolumab ed ipilimumab è già stata autorizzata dalla FDA a fine 2015 per il trattamento di pazienti con melanoma metastatico BRAF wild type. Il razionale di tale combinazione è nella azione sinergica sulla stimolazione della risposta immunitaria tra anti CTL-A4 (ipilimumab) e gli anti PD-1 (nivolumab). L’approvazione accelerata si è avuta sulla base dello studio di fase II Checkmate 06920, che ha randomizzato 142 pazienti con melanoma inoperabile/metastatico 2:1 a ricevere la terapia di combinazione con nivolumab (1 mg/kg ev ogni 3 settimane per 4 somministrazioni e poi 3 mg/kg ev ogni 2 settimane in “mantenimento”) + ipilimumab (3 mg/kg ev ogni 3 settimane per un totale di 4 somministrazioni) o solo ipilimumab alle stesse dosi e tempi di somministrazione. Nello studio era prevista la possibilità di un crossover alla combinazione per i pazienti che avevano ricevuto il solo ipilimumab. Endpoint primario dello studio era la risposta obiettiva nei pazienti BRAF wild type. I risultati hanno mostrato che l’ORR è stato significativamente superiore nei pazienti trattati con la terapia di combinazione rispetto a quelli trattati con ipilimumab (61% vs 11%). Una risposta completa si è avuta nel 22% dei pazienti trattati con la combinazione ed in nessun paziente che aveva ricevuto il solo ipilimumab. Nei pazienti che presentavano una mutazione di BRAF i risultati sono apparsi sostanzialmente simili a quelli osservati nei pazienti BRAF wild type; in particolare, in questi ultimi, l’ORR è stato del 61%, verso 11% nei wild-type e del 52% verso 10% nei mutati; nei pazienti BRAF wild type la PFS mediana non era stata ancora raggiunta con la terapia di combinazione, mentre è risultata di 4,4 mesi nei pazienti trattati
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con ipilimumab; nei pazienti BRAF mutati, la PFS mediana è stata di 8,5 mesi verso di 2,7 mesi. Gli eventi avversi di grado 3 e 4 sono risultati complessivamente più frequenti con la terapia di combinazione rispetto alla monoterapia (54% vs 24%). In particolare è stata osservata colite immunorelata (17% vs 7%) e incremento delle transaminasi (18% vs 0%), mentre l’incidenza di diarrea (11%) è stata uguale nei due gruppi. L’interruzione del trattamento era dovuta per lo più a tossicità (45% vs 23%). La conferma dell’approvazione si è avuta con lo studio di fase III Checkmate 06721 che ha randomizzato 945 pazienti con melanoma stadio III inoperabile/IV a ricevere nivolumab (3 mg/kg ev ogni 2 settimane) o ipilimumab (3 mg/kg ev ogni 3 settimane per 4 dosi) o la combinazione di nivolumab + ipilimumab (1 mg/kg ev di nivolumab ogni 3 settimane associato a ipilimumab 3 mg/kg ev ogni 3 settimane per 4 dosi seguiti da nivolumab 3 mg/kg ogni 2 settimane). La PFS (endpoint primario) è risultata superiore con la combinazione rispetto al solo nivolumab (11,5 mesi vs 6,9 mesi), mentre il nivolumab ha mostrato una PFS mediana più elevata rispetto al solo ipilimumab (6,9 mesi vs 2,9 mesi). Anche l’ORR è aumentato con la terapia di combinazione ed in particolare è stata del 57,6% con la combinazione, rispetto al 43,7% con nivolumab, e al19% con ipilimumab. La tossicità è aumentata con la combinazione; infatti eventi avversi di tutti i gradi sono stati il 95,5% con la combinazione, l’82,1% con nivolumab, l’86,2% con ipilimumab. Anche gli eventi avversi di grado 3 e 4 sono stati più frequenti con la terapia di combinazione: 55% vs 16,3% con nivolumab vs 27,3% con ipilimumab. Nel caso della combinazione gli eventi avversi più comuni sono stati diarrea (44,1%), rash (40,3%), fatigue (35,1%) e prurito (33,2%). Gestione eventi avversi immuno-relati Negli ultimi mesi sono stati pubblicati numerosi lavori riguardanti la tossicità immuno-relata in corso di terapia con agenti anti CTLA-4 o anti PD1, PD-L1, segno evidente del crescente interesse per queste molecole ed anche del loro crescente utilizzo nella pratica clinica22-30. Gli eventi avversi immuno-relati possono interessare potenzialmente ogni distretto corporeo (cute, distretto gastroenterico, vie respiratorie, sistema nervoso, fegato, rene, cuore, ecc.) per cui è molto importante che i clinici sappiano riconoscere e trattare tali tossicità. Esistono, innanzitutto, una serie di fattori di rischio preesistenti che potrebbero facilitare l’insorgenza di tali eventi avversi, per cui è fondamentale raccogliere un’anamnesi accurata, volta ad indagare la storia personale o familiare di malattie autoimmuni (come malattia di Crohn, rettocolite ulcerosa, celiachia, artrite reumatoide, lupus, interstiziopatie, pancreatiti, nefriti, endocrinopatie, miastenia, sclerosi multipla, miocarditi, uveiti, ecc.). Va indagata la storia di epatiti, infezione HIV o tbc, nonché raccolta un’anamnesi farmacologica attenta, dato che molti farmaci possono essere associati a disordini autoimmuni (antiaritimici, antipertensivi, alcuni tipi di antibiotici, antipsicotici e anticonvulsivanti). Alcune di tali condizioni sono una controindicazione al trattamento con
questi farmaci se in fase attiva; nella maggior parte dei casi, però, il trattamento può anche essere effettuato, ma necessita di una maggiore cautela, perché tali pazienti sono in genere esclusi dagli studi clinici e non abbiamo, quindi, dati sulla tossicità22. È importante informare adeguatamente il paziente e i suoi familiari sul tipo di tossicità attesa e sulla necessità di riferire in maniera tempestiva fin dall’inizio qualunque tipo di disturbo in corso di trattamento. Per il clinico è fondamentale considerare che una tossicità immuno-relata si può verificare in qualunque momento del trattamento (sia in fase iniziale che anche dopo il termine), anche in base al tipo di tossicità (quella endocrina e polmonare sono in genere più tardive) e che anche il tempo di risoluzione può essere molto variabile23. Gli eventi avversi generalmente sono di grado lieve-moderato, nel complesso maneggevoli. La percentuale di eventi avversi di G3-4 degli anti PD-1 (nivolumab e pembrolizumab) non superano il 20% dei casi indipendentemente dalla patologia per cui vengono impiegati, con una percentuale di eventi avversi che possono portare a morte inferiore al 2%28. In particolare gli agenti immunoterapici anti PD-1 (nivolumab e pembrolizumab) risultano complessivamente più tollerati dai farmaci anti-CTLA4, in particolare eventi avversi di G3-4 sono stati riscontrati nel 10-15% dei pazienti trattati con anti PD-1 rispetto al 20-30% degli anti CTLA4. In particolare disfunzioni tiroidee, artralgie e mialgie, vitiligo e rash sono più comuni con nivolumab e pembrolizumab mentre diarrea, coliti, ipofisiti e prurito sono più comuni con ipilimumab. La combinazione di nivolumab e ipilimumab potenzia le tossicità, in particolare diarrea, epatiti, prurito e rash che restano comunque nella maggior parte dei casi facilmente gestibili; anche eventi avversi di G3-4 sono quasi sempre reversibili ad eccezione degli effetti cutanei ed endocrini che hanno un tasso di risoluzione rispettivamente dell’86% e 46% circa31. C’è una correlazione lineare tra la dose e la tossicità per ipilimumab ma non per nivolumab e pembrolizumab. Quando ci troviamo di fronte un evento avverso di grado lieve viene generalmente consigliata la prosecuzione del trattamento con un più stretto monitoraggio clinico del paziente. Di fronte, invece, ad un quadro di tossicità di tipo moderato viene generalmente consigliata l’interruzione del trattamento fino alla risoluzione della tossicità o al ripristino di una tossicità di grado lieve e deve essere valutata la somministrazione di terapia steroidea per una più rapida risoluzione della sintomatologia (introduzione variabile a seconda dell’organo colpito da tossicità, dalle condizioni cliniche del paziente, dalle comorbilità dello stesso, ecc.). Di fronte ad un evento avverso di grado elevato è indicata l’interruzione del farmaco e l’introduzione di terapia steroidea ad elevati dosaggi o di più potenti farmaci immunosoppressori, come ad esempio l’infliximab ed il micofenolato in caso di refrattarietà alla terapia steroidea per le diarrea/coliti di grado severo o ad esempio agenti antiTNFalfa per diarrea refrattaria o polmoniti di grado severo32. Naturalmente questi trattamenti sono coadiuvati da farmaci CASCO — Inverno 2016
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| Gestione eventi avversi | Tossicità di nivolumab e pembrolizumab
ancillari a seconda dell’organo colpito e dei sintomi lamentati dal paziente. La ripresa di un trattamento immunoterapico dopo tossicità di grado elevato deve essere valutata attentamente in ogni singolo paziente in un reale rapporto rischio-beneficio in assenza di chiare linee guida in merito28-33. Si tratta, in conclusione, di farmaci molto interessanti, che hanno una potenziale efficacia in molte neoplasie ed il cui profilo di tossicità è diverso da quello della chemioterapia tradizionale, ma in genere ben gestibile, anche se ovviamente l’impiego nella pratica clinica porterà ad una maggiore conoscenza anche di possibili tossicità più rare. •
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Casi clinici
Prevenzione della nausea: ci siamo?
Enzo Ballatori Statistico medico, Spinetoli (AP)
Fausto Roila SC di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni
RIASSUNTO Sono discussi metodologia e risultati di un recente studio che ha mostrato che l'olanzapina protegge dalla nausea indotta da chemioterapia. Parole chiave. Nausea, vomito, confondimento tra nausea e vomito, antiemetici
SUMMARY
Prevention of nausea: here we go? Results and methodology of a recent study showing the effectiveness of olanzapine in controlling chemotharapy-induced nausea are discussed. Key words. Chemotherapy-induced nausea and vomiting, confounding between nausea and vomiting, antiemetics.
Background Nausea e vomito sono effetti collaterali della chemioterapia che hanno pesanti ripercussioni sulla qualità di vita del paziente. Negli ultimi 35 anni, enormi progressi sono stati compiuti per il loro controllo, dapprima con la dimostrazione di poter utilizzare, senza danni per il paziente, alte dosi di metoclopramide, quindi con l’introduzione dei 5-HT3 antagonisti nella pratica clinica, infine con la scoperta delle proprietà antiemetiche degli NK-1 antagonisti. L’effetto che fino ad oggi non è stato ancora sufficientemente controllato è la nausea, soprattutto quella ritardata (giorni 2-5 successivi alla somministrazione della chemioterapia), e, tra le due dimensioni in cui può essere esplorata la nausea nei pazienti che ne hanno sofferto, cioè severità e durata, è quest’ultima ad avere il maggiore impatto sulla qualità di vita del paziente1. Nausea e vomito sono fenomeni correlati (la nausea è definita come “sensazione di vomito imminente”), nel senso che chi ha episodi di vomito, rispetto a chi non ne ha, ha una probabilità molto maggiore di soffrire di nausea e, viceversa, chi soffre di nausea, rispetto a chi non ne soffre, ha un rischio maggiore di vomitare. Nel valutare l’effetto dei trattamenti antiemetici non ci si può dunque limitare ad osservare la protezione dalla nausea e dal vomito separatamente, perché se si trova, ad esempio, che una profilassi antiemetica è efficace contro il vomito, quasi sempre lo è anche contro la nausea proprio per la correlazione tra i due fenomeni (il confronto diventa inutile). Sa-
rebbe allora necessario abbandonare questo approccio “ingenuo” considerando l’altro effetto alla stregua di un fattore di confondimento2. In altre parole, se si vuole valutare l’efficacia differenziale di due terapie antiemetiche sul vomito occorre aggiustare per la presenza di nausea o meno; viceversa, la valutazione dell’efficacia differenziale delle due terapie sulla nausea non può prescindere dall’aggiustamento per la presenza o meno di vomito. L’aggiustamento può essere fatto ricorrendo a modelli logistici con due fattori (ad es., se si vuole valutare l’efficacia differenziale dei due trattamenti sulla nausea, la sua presenza o meno sarà assunta come variabile dipendente e, come fattori, il trattamento e la presenza o meno di vomito). Sebbene con minore precisione, si può procedere anche confrontando le percentuali di soggetti che hanno avuto uno dei due effetti collaterali (ad es., nausea) tra i due trattamenti, sia nei soggetti che hanno sofferto dell’altro effetto (nell’esempio, vomito) e in quelli che non l’hanno avuto. La definizione della corretta metodologia da usare negli studi sui farmaci antiemetici è stata oggetto della Consensus Conference di Perugia del 19973 e non è stata più modificata nelle successive linee guida del MASCC; il che vuol dire che non era stato trovato nulla da cambiare in quanto già stabilito. La rilevanza del lavoro sintetizzato nella scheda discende dal fatto che sull’efficacia dell’olanzapina (OLA) come farmaco antiemetico erano state presentate diverse comunicazioni a congressi ed erano stati pubblicati alcuni lavori che però avevano carenze di dimensione campionaria o altri gravi problemi metodologici. Lo studio di Navari et al., invece, appare sostanzialmente corretto e mostra inequivocabilmente che OLA è efficace nel prevenire la nausea indotta da chemioterapia. Un altro elemento di rilevanza è dovuto al fatto che è sensazione comune che, nella fase ritardata, i 5-HT3 antagonisti e gli NK-1 antagonisti abbiano un’efficacia nulla o al più debole nel prevenire la nausea. Quindi OLA viene a colmare un buco importante nella profilassi antiemetica. L’olanzapina è un farmaco usato per il trattamento delle psicosi, a brevetto scaduto e, quindi, di bassissimo costo. Non è la prima volta che un farmaco introdotto in psichiatria si è dimostrato utile come antiemetico. Ad esempio, l’ondansetron, prima di diventare uno dei più promettenti farmaci antiemetici, era stato testato senza successo come trattamento della schizofrenia. Questo è il primo studio che ci capita di vedere in cui l’endpoint principale è la protezione completa dalla nausea (no CASCO — Inverno 2016
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SCHEDA
Navari RM, Qin R, Ruddy KJ, et al. Olanzapine for the Prevention of Chemotherapy-Induced Nausea and Vomiting. N Engl J Med 2016; 375: 134-42.
Pazienti con malattia maligna in età non inferiore a 18 anni, non trattati precedentemente con chemioterapia, con ECOG tra 0 e 2, furono considerati eleggibili per lo studio se erano destinati a ricevere un trattamento chemioterapico altamente emetogeno (cisplatino ≥ 70 mg/m2, da solo o in combinazione, oppure adriamicina ≥ 60 mg/m2 + ciclofosfamide ≥ 600 mg/m2). Tutti i pazienti ricevettero la seguente profilassi antiemetica: Desametasone (DEX) (12 mg il giorno 1 + 8 mg nei giorni 2, 3 e 4) + un 5-HT3 antagonista nel giorno 1 (palonosetron iv 0,25 mg, oppure, per os, ondansetron 8 mg o granisetron 1 mg) + un NK1 antagonista (fosaprepitant iv 150 mg il giorno 1, o aprepitant per os 125 mg il giorno 1 + 80 mg nei giorni 2 e 3). I pazienti furono randomizzati a ricevere olanzapina (OLA, 10 mg per os al dì, dal giorno 1 al giorno 4) o placebo (nei giorni 1-4) in aggiunta alla suddetta profilassi antiemetica. Fu adottata una randomizzazione stratificata per sesso, chemioterapia (cisplatino vs antracicline) e lo specifico 5-HT3 antagonista utilizzato (palonosetron, ondansetron o granisetron). Lo studio fu condotto in doppio-cieco. Outcome Endpoint primario fu l’assenza di nausea, definita come una risposta 0 in un analogo visivo lineare (da “0” = non nausea, a “10” = peggior
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nausea immaginabile) volto a misurare la severità della nausea nei periodi 0-24 ore (fase acuta), 25-120 ore (fase ritardata), 0-120 ore (intero periodo). Endpoint secondari furono la risposta completa (no vomito e no rescue) e gli eventi avversi valutati negli stessi periodi precisati sopra. Analisi statistica Fu programmata un’analisi ad interim a metà dell’arruolamento dei pazienti. Per l’endpoint primario fu usato il test chi-quadro per confrontare le percentuali di pazienti che non ebbero nausea tra i due gruppi. Furono usati modelli logistici per aggiustare rispetto sia ai fattori di stratificazione, sia a score basali, sia ad altre caratteristiche dei pazienti. I missing values non furono considerati per via del loro basso numero. Tuttavia fu condotta un’analisi di sensibilità per valutare la robustezza dell’analisi principale. La valutazione fu eseguita in base al criterio di intenzione a trattare un po’ indebolito. Il numero calcolato dei pazienti da arruolare fu pari a 332 (166 per braccio): ipotizzando un incremento della protezione dalla nausea con OLA (nei primi 5 giorni dalla chemioterapia) del 17,5% si sarebbe ottenuto un risultato significativo al 5% con il 90% di probabilità (potenza). Si ritenne che l’analisi degli endpoint secondari avesse una natura esplorativa e, pertanto, i livelli di significatività riportati non furono aggiustati per confronti multipli. Risultati Furono valutati 380 pazienti, 192 arruolati nel gruppo sperimentale
(OLA) e 188 in quello di controllo (placebo). I due bracci risultarono ben bilanciati rispetto a tutti i fattori presi in considerazione. La percentuale dei pazienti che non ebbero nausea fu significativamente maggiore nel gruppo sperimentale (OLA) rispetto a quello di controllo (placebo): fase acuta 74 vs 45% (P = 0,002); fase ritardata 42 vs 25% (P = 0,002); intero periodo (gg. 1-5) 37 vs 22% (P = 0,002). Considerando i missing values come pazienti che ebbero nausea, i risultati furono analoghi. Considerando clinicamente rilevante uno score della nausea da 3 in su (max. 10), la percentuale di pazienti protetti da nausea clinicamente rilevante fu maggiore nel gruppo OLA che in quello di controllo: 87 vs 70% nella fase acuta, 72 vs 55% nella fase ritardata, 67 vs 49% nell’intero periodo, differenze tutte significative all’1 per mille. Anche la frazione di pazienti che ebbero una risposta completa (no vomito, no rescue) fu maggiore nel gruppo OLA che nel gruppo di controllo: fase acuta 86 vs 65% (P < 0,001), fase ritardata 67 vs 52% (P < 0,007), intero periodo 64 vs 41% (P< 0,001). Gli eventi avversi di grado 3-4 furono pochi e nessuno di essi fu attribuito all’olanzapina. Nel gruppo sperimentale (OLA) fu riscontrato un incremento dell’incidenza della sedazione nel giorno 2 rispetto al basale, significativamente superiore a quello osservato nel gruppo di controllo (sedazione severa nel 5% dei casi). Tuttavia, gradualmente la sedazione si risolse nei giorni 3, 4 e 5, anche quando i pazienti, nei giorni 3 e 4, continuarono a ricevere olanzapina.
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nausea): ottima scelta non solo per la rilevanza dell’endpoint, ma anche perché così non si cincischia più con risposte composte. Commentiamo alcuni punti che non mettono in discussione la correttezza dello studio ma che sono comunque utili a comprenderlo meglio. 1. La scelta del doppio-cieco. È ineludibile, dato che l’endpoint (protezione dalla nausea) è di tipo soft, cioè risente di una componente di soggettività. 2. Analisi ad interim. Il solo scopo era decidere precocemente se lo studio andava proseguito o se, invece, era il caso di interromperlo. Gli autori hanno calcolato un intervallo per il livello di significatività del confronto al momento dell’analisi ad interim: tra 0,003 e 0,844, per cui se il P ottenuto vi fosse stato compreso, si sarebbe proseguito lo studio, altrimenti se fosse stato P < 0,003 lo si sarebbe interrotto per raggiunta evidenza di efficacia, mentre se fosse stato P > 0,844 lo si sarebbe interrotto per una probabile non efficacia di OLA. Poiché l’analisi ad interim è stata condotta quando la metà dei pazienti era stata arruolata e valutata, a nostro giudizio forse non ce ne sarebbe stato bisogno. 3. Valutazione della nausea. La nausea è stata valutata mediante una scala di Likert a 11 punti, da 0 a 10. A rigore, non è il solito analogo visivo lineare (Visual Analogue Scale, VAS), per via degli ancoraggi intermedi (da 1 a 9) che in genere non compaiono nel VAS. Dato che l’endpoint primario è la protezione dalla nausea, forse la scelta di una scala di Likert a 4 punti (No nausea, Nausea lieve, Nausea moderata, Nausea Severa) sarebbe stata più indicata per la sua maggiore comprensibilità. In realtà, gli autori hanno scelto questo strumento per valutare anche la severità della nausea che hanno poi riportato tra i risultati. Manca però la valutazione della durata della nausea, che per la qualità di vita del paziente è più importante della severità. 4. Endpoint secondario. Come endpoint secondari sono stati scelti la risposta completa (No nausea, no rescue) e l’incidenza degli eventi avversi. In realtà, tra i risultati figura anche l’intensità della nausea, misurata considerando i punteggi da 3 in su come nausea non lieve, che è un vero e proprio endpoint secondario; invece, avremmo tolto gli eventi avversi dall’elenco. La risposta completa è fortemente influenzata dalla presenza di vomito, e, quindi, il risultato del successo di OLA contro il vomito è scontato dato che la nausea è definita come “sensazione di vomito imminente” (v. la parte scritta in corsivo). Per avere maggiori informazioni sull’efficacia di OLA nella prevenzione del vomito si sarebbe dovuta eseguire un’analisi multifattoriale considerando come risposta la presenza di vomito o meno e come fattori il trattamento e la presenza di nausea. In tal modo l’efficacia di OLA contro il vomito sarebbe stata aggiustata per la presenza o meno di nausea. 5. Eventi avversi. Nulla da aggiungere alle analisi eseguite. Solo che, per esperienza, OLA induce una sedazione ben al di sopra di quella riportata nel lavoro.
6. Aggiustamento dei risultati. Non è la prima volta che vediamo eseguire un’analisi multifattoriale, aggiustando la risposta per i fattori di stratificazione in base a cui è stata eseguita la randomizzazione. Tale analisi sembra inutile in quanto proprio per l’adozione di una randomizzazione stratificata, i gruppi non possono che essere ottimamente bilanciati rispetto a tali fattori. Prospettive future Lo studio dimostra l’efficacia di OLA in aggiunta alla terapia standard nel prevenire la nausea indotta da chemioterapia. Si tratta ora di individuare quali debbano essere gli sviluppi futuri di tale preziosa conoscenza. a. Individuazione di un regime antiemetico di basso costo. Se anziché somministrare OLA in aggiunta alla terapia standard, che prevede l’uso di farmaci costosi, si costruisse una combinazione antiemetica di basso costo, ad es., OLA + Desametazone + Ondansetron (a brevetto scaduto), e la si confrontasse con la terapia prevista dalle linee guida, un tale studio attirerebbe l’attenzione mondiale. Infatti, se il regime sperimentale (contenente OLA) risultasse di efficacia paragonabile (o anche un po’ inferiore) a quello raccomandato dalle linee guida diventerebbe il trattamento di elezione almeno per quei paesi che non possono permettersi la profilassi standard. Che questi paesi esistano è attestato anche dall’interesse che i ricercatori di alcuni paesi in via di sviluppo mostrano verso i vecchi studi dell’IGAR sull’efficacia della metoclopramide (interesse riscontrato su Research Gate, un social network per ricercatori). b. Dose finding. Uno studio di fase II randomizzato doppio cieco ha valutato efficacia e tossicità di due dosi di olanzapina (10 mg e 5 mg), somministrate per 4 giorni consecutivi, in associazione a aprepitant, palonosetron e desametasone in 153 pazienti sottoposti a chemioterapia con cisplatino4. Come endpoint primario fu scelta la risposta completa nei giorni 2-5 dalla somministrazione della chemioterapia. La percentuale di risposte complete nei giorni 2-5 era del 77,6% con 10 mg e dell’85,7% con 5 mg di olanzapina, differenza non statisticamente significativa. L’incidenza di sedazione era rispettivamente del 53,3% con 10 mg e del 45,5% con 5 mg di olanzapina. Olanzapina 5 mg sembra essere la dose da suggerire per altri studi di fase III. • Bibliografia 1. Ballatori E, Roila F, Ruggeri B, et al. The impact of chemotherapyinduced nausea and vomiting on health-related quality of life. Support Care Cancer 2007; 15: 179-85. 2. The Italian Group for Antiemetic Research. On the relationship between nausea and vomiting in patients undergoing chemotherapy, Support Care Cancer 1994; 2: 171-6. 3. Morrow GR, Ballatori E, Groshan S, Olver I. Statistical considerations in the design, conduct and analyses of antiemetic trials. An emerging consensus. Support Care Cancer 1998; 6: 261-5. 4. Hashimoto H, et al. A double-blind randomized phase II study of 10 versus 5 mg olanzapine for emesis induced by highly emetogenic chemotherapy with cisplatin. J Clin Oncol 2016; 34 (suppl; abstr 10111). CASCO — Inverno 2016
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Statistica per concetti
Analisi descrittiva delle distribuzioni doppie
Riassunto Sono esposti gli strumenti statistici per eseguire l’analisi descrittiva di una tabella doppia in relazione alla natura del carattere “risposta” (“effetto”), cioè del carattere le cui variazioni siano spiegate da quelle del suo antecedente logico (“causa”). Parole chiave. Indipendenza, media, mediana, scarto quadratico medio, coefficiente di variazione.
Summary
Descriptive analysis of two-ways tables The statistical instruments able to perform a descriptive analysis of two-ways tables were described. Key words. Independence, mean value, median, root mean square, coefficient of variation. I contenuti della presente rubrica non sono rintracciabili nei testi di Statistica perché sono a cavallo tra questa disciplina e la metodologia della ricerca. Con la loro esposizione, basata prevalentemente su esempi, si coglie anche l’occasione per ricordare alcuni elementi importanti della ricerca clinica. In “Statistica per concetti” del precedente numero di CASCO, sono state definite le distribuzioni doppie ed è stato introdotto l’indice chi-quadro (o chi-quadrato) come misura dalla strettezza della relazione tra i due caratteri associati. Poiché quanto sarà esposto può essere considerato come una prosecuzione dell’argomento trattato nel numero precedente, si invita il Lettore a rileggerlo. Se l’indice chi-quadro è uguale a zero, i due caratteri associati sono indipendenti, cioè, al variare dell’uno, l’altro non varia, denotando così l’assenza di ogni legame associativo; in tal caso ogni successiva analisi della relazione tra i due caratteri diventa inutile in quanto la relazione non esiste. Viceversa, se è chi-quadro > 0 (non può mai essere negativo), allora al variare di un carattere anche l’altro varia, attestando così l’esistenza di una relazione tra i caratteri associati; pertanto l’analisi prosegue. Per comodità del Lettore, riportiamo di seguito la classificazione dei caratteri, già esposta nel numero precedente, perché importante ai fini di quanto sarà trattato. I caratteri possono essere: a. qualitativi sconnessi (scale nominali). Si manifestano nelle unità del collettivo con attributi (aggettivi). Dati due attributi rilevati su due unità, si può dire solo se sono uguali o diversi (esempi: sesso, professione, tipo di neoplasia); 28
CASCO — Inverno 2016
b. qualitativi rettilinei (scale ordinali). Si manifestano anch’essi come attributi; dati due attributi rilevati su due unità, non solo si può dire se sono uguali o diversi (come per i caratteri sconnessi) ma si può anche stabilire l’ordine, ossia quale dei due attributi precede l’altro (ad es., è maggiore o minore dell’altro). Esempi: stadio della malattia, ECOG performance status, punteggi su una scala di Likert; c. caratteri quantitativi (scale di rapporti). Tali caratteri, nelle unità del collettivo si manifestano in forma di intensità (cioè con un numero) (esempi: peso, superficie corporea, dose di un farmaco, sopravvivenza). Nella presente nota consideriamo il caso in cui almeno uno dei due caratteri sia qualitativo (sconnesso o ordinabile). Il caso di entrambi i caratteri quantitativi sarà esposto nel prossimo numero. Trattandosi di analisi descrittiva, le tematiche di inferenza non sono considerate.
Se è chi-quadro > 0, per procedere ad una corretta analisi descrittiva della distribuzione doppia rappresentata in forma di tabella doppia (o tabella a doppia entrata), è importante individuare quale dei due caratteri associati sia l’antecedente e quale il conseguente logico. Usando in modo inappropriato un linguaggio deterministico, potremmo dire quale sia la causa e quale l’effetto. Siano (X,Y) i caratteri associati. X è antecedente logico di Y (che è il conseguente) se ha senso valutare solo come varia Y al variare di X.
Esempi (1) a. In un gruppo di pazienti affetti dalla stessa malattia allo stesso stadio, X sia il sesso (carattere sconnesso) e Y il punteggio complessivo degli score riportati in un questionario di qualità di vita del paziente. Ha senso chiedersi come varia Y al variare di X, cioè se i maschi presentano un punteggio complessivamente maggiore o minore di quello riscontrato sulle donne, ma non ha alcun senso chiedersi come vari il sesso al variare del punteggio: il sesso è l’antecedente logico (nel linguaggio deterministico diremmo che il sesso è la “causa” e lo score l’”effetto”). b. Siano T1 e T2 due trattamenti farmacologici (X) e R la risposta in termini di successo o insuccesso terapeutico (Y). Ha senso chiedersi come varia Y al variare di X, cioè se i successi sono stati più frequenti nei pazienti trattati con T1 o in quelli trattati con T2: il trattamento
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costituisce l’antecedente logico del risultato. Non ha senso valutare come varia il trattamento al variare della risposta. Talvolta ciascun carattere può essere visto come antecedente logico dell’altro e, quindi, ha senso valutare sia come varia Y al variare di X, sia come varia X al variare di Y.
Esempi (2) 1. X = statura e Y = peso dei giovani alla visita di leva. In tal caso, la statura può essere considerata l’antecedente logico del peso, ma può anche avere interesse valutare come varia la statura al variare del peso. 2. X = Sopravvivenza e Y = score di qualità di vita. Può avere interesse investigare sia come varia la qualità di vita al variare della sopravvivenza, ma anche come varia la sopravvivenza al variare della qualità di vita. Le analisi che possono essere condotte fanno riferimento al tipo di carattere “conseguente logico” (“effetto”), indipendentemente dalla natura dell’antecedente logico. A. Conseguente logico (“effetto”): carattere sconnesso (scala nominale) Esempio 3: due caratteri dicotomici Sia X il trattamento: ad es., X1 = terapia, X2 = placebo. Sia Y la risposta al trattamento: Y1 = successo, Y2 = insuccesso. Al termine dello studio i risultati sono sintetizzati nella seguente tabella (1): Tabella 1. Pazienti secondo il trattamento e il risposta. Trattamento Risposta Successo Insuccesso Totale
terapia 84 36 120
placebo 50 75 125
Il trattamento è l’antecedente logico. Si tratta di vedere come varia il conseguente (risposta) al variare del trattamento. Occorre, quindi, confrontare la percentuale di successi tra i due trattamenti: la percentuale di successi è stata del 70% (84/120) con la terapia e del 40% (50/125) con il placebo. Sarà il test per il confronto tra due frequenze a stabilire se la diversità osservata possa essere attribuita al caso o, invece, se deriva dal fatto che la terapia ha una sua efficacia farmacologica. Da un punto di vista descrittivo si può dire che, nei pazienti osservati, la terapia è stata più efficace del placebo. Esempio 4: dose finding. Sia Y la risposta definita come nell’esempio 3. Nel dose finding il carattere antecedente logico sono le diverse dosi del farmaco.
Tabella 2. Pazienti secondo la risposta e la dose del farmaco. Dose del farmaco (mg) Risposta 0 Successo 33 Insuccesso 77 Totale 110
75 72 48 120
150 75 50 125
L’analisi descrittiva di tale tabella è del tutto analoga a quella vista sopra: si confrontano le percentuali di successi tra i tre trattamenti: 30% se il trattamento non viene somministrato, 60% se è somministrato alla dose di 75mg, 60% alla dose di 150mg. Il trattamento è attivo e le due dosi (75 e 150mg) hanno la stessa efficacia. Osservazione (1). Se la risposta è di tipo soft in quanto dipende da una valutazione soggettiva (del paziente e/o del medico), lo studio clinico cui si riferiscono i risultati va tassativamente programmato in doppio cieco e ai pazienti randomizzati a ricevere una dose nulla del farmaco va somministrato un placebo. B. Conseguente logico: carattere qualitativo rettilineo (scala ordinale) Esempio 5. In uno studio trasversale sulla fatigue in pazienti neoplastci, è stato usato il BFI (Brief Fatigue Inventory) che consta di 10 item. Il ricercatore vuole analizzare la risposta all’item 2 in relazione all’età (meno di 50, 50-64, 65 anni ed oltre). Item 2: “Valuti il suo affaticamento (stanchezza) facendo una crocetta sul numero che esprime meglio il suo ABITUALE grado di affaticamento nelle ultime 24 ore”; segue una scala di Likert a 11 punti con gli estremi ancorati all’esperienza del paziente: 0 = nessun affaticamento, 10 = il peggior affaticamento che si possa immaginare. Tabella 3. Pazienti secondo l’affaticamento abituale nelle ultime 24 ore e l’età (anni). BFI \ Età → 0 2 4 7 8 9 Totale
< 50 16 5 3 8 6 2 40
50–64 65 e oltre 27 24 6 3 4 1 5 8 10 7 8 7 60 50
Vi sono vari modi di analizzare la tabella 3. Infatti, in relazione allo scopo dello studio il ricercatore a. potrebbe essere interessato solo alla fatigue severa, ponendo il cut-off da 8 in su; b. potrebbe invece interessarsi a chi non prova fatigue o ne prova in misura lieve (cut-off: da 0 a 2); CASCO — Inverno 2016
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c. potrebbe decidere di eseguire un’analisi complessiva. I casi (a) e (b) ricadono in quanto già esposto in precedenza. Per il caso (a), le percentuali di chi prova fatigue severa sono 20% (8/40), 30% (18/60), 28% (14/50) rispettivamente per le tre classi di età, concludendo così che la fatigue severa è più frequente dai 50 anni in su. Per il caso (b) le percentuali di chi prova fatigue lieve (BFI = 2) o non ne prova affatto (BFI = 0) sono 52,5% (21/40), 55% (33/60), 54% (27/50) rispettivamente per le tre classi di età: la presenza di una fatigue lieve (2) o nulla (0) è praticamente indipendente dall’età. Il conseguente logico è una scala ordinale, per cui tra le tre classi di età si possono confrontare le mediane (v. CASCO 13, Statistica per concetti e CASCO 9, Statistica per concetti 2). Esse risultano sempre uguali a 2 per ciascuna classe di età e pertanto non variano al variare dell’età. In conclusione, l’influenza dell’età sulla risposta all’item 2 del BFI è complessivamente debole; solo una fatigue severa è più frequente sopra i 50 anni. Come si può constatare, dicotomizzando il carattere (BFI) si possono ottenere informazioni che altrimenti sarebbero nascoste per l’effetto media nella massa dei casi osservati. Osservazione (2). Non è consigliabile confrontare la media aritmetica del punteggio per le 3 classi di età perché le risposte all’item 2 del BFI sono solo apparentemente quantitative, in quanto non sono note le distanze tra due score diversi. Ad esempio, la distanza (differenza) tra 2 e 3 non è la stessa che c’è tra 7 e 8. C. Conseguente logico: carattere quantitativo (scala di rapporti) Esempio 6. La severità di vomito. Nei trial sui farmaci antiemetici, talvolta si confrontano i gruppi sperimentali (T1, T2) rispetto al numero di episodi di vomito (NVOM). È una prassi errata in quanto in tal modo si vengono a mescolare due indicatori diversi: la presenza di vomito e la sua severità. Infatti, se ci sono abbastanza pazienti che sono stati protetti dal vomito (NVOM = 0), solo per questo NVOM potrebbe risultare complessivamente inferiore in un gruppo rispetto all’altro, nascondendo la reale differenza in termini di severità. La prassi corretta confronta anzitutto la presenza di vomito e, successivamente, il numero di episodi assunto come indicatore di gravità dell’emesi, ma solo nei pazienti che hanno vomitato. Riportiamo i risultati di uno studio di fase III, per il confronto della severità dell’emesi tra i pazienti che ricevono una profilassi antiemetica T1 e quelli trattati con T2.
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Tabella 4. Pazienti che hanno vomitato secondo il numero di episodi di vomito (NVOM) e la profilassi antiemetica NVOM \ Tratt.→ 1 2 3 5 8 14 Totale
T1 18 6 2 1 3 0 30
T2 10 4 5 2 7 2 30
In tal caso, non solo possono essere eseguite tutte le analisi descritte al precedente punto (B), ma possono essere anche confrontati i valori di diversi indici statistici in grado di dare informazioni interessanti. Infatti, si potrebbe fissare un cut-off per individuare un vomito particolarmente severo (ad esempio, 8 episodi ed oltre). In tal caso, la percentuale di pazienti con almeno 8 episodi è pari al 10% (3/30) nel gruppo T1 ed al 30% (9/30) in T2. Il che ci porta a concludere che nei pazienti osservati la profilassi antiemetica T1 protegge maggiormente da un vomito particolarmente severo. Si potrebbe calcolare anche la mediana delle due distribuzioni: il numero mediano di episodi di vomito è pari a 1 nel gruppo T1, mentre è pari a 3 in T2. In aggiunta a quanto esposto al punto (B), in questo caso possono essere calcolati vari indici statistici. 1. La media aritmetica: il numero medio di episodi di vomito è pari a 2,17 (65/30) nel gruppo T1 e a 4,23 (127/30) in T2: nei pazienti che hanno vomitato, la profilassi antiemetica T1 riduce la severità del vomito rispetto a T2. Da un’attenta lettura dei dati risulta che, se la randomizzazione è 1:1, è verosimile che la protezione dal vomito sia all’incirca la stessa per i due trattamenti (se, in entrambi i gruppi, 30 è il numero dei pazienti che hanno vomitato, la percentuale di quelli protetti dal vomito sarà all’incirca la stessa nei due gruppi); quindi T1 risulta preferibile a T2 perché, se è vero che T1 non aumenta la protezione dal vomito, almeno riduce la severità dell’emesi nei pazienti che vomitano. 2. Il confronto tra media e mediana in entrambi i gruppi depone per un’asimmetria positiva dovuta alla presenza di pazienti che hanno un vomito particolarmente severo (v. Statistica per concetti in CASCO 13). 3. Interessante potrebbe essere il confronto tra la variabilità delle due distribuzioni, da condursi per mezzo del coefficiente di variazione (perché le due medie sono diverse, v. Statistica per concetti in CASCO 14). Riportiamo alcuni calcoli per consentire al Lettore volenteroso di verificarli. T1: Dev (X) = 136,18; σ = √(136,18/30) = 2,13; CV = (2,13/2,17) x 100 = 93,8% T2: Dev (X) = 423,37; σ = √(423,37/30) = 3,76; CV =
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(3,76/4,23) x 100 = 88,9% Come si vede, lo scarto quadratico medio del numero di episodi di vomito nei pazienti trattati con T1 è uguale a 2,13: ogni paziente ha avuto un numero di episodi di vomito diverso da quello medio, in media, di 2,13 episodi. Nei pazienti trattati con T2, invece, lo scarto quadratico medio è risultato pari a 3,76: ogni paziente trattato con T2 ha avuto un numero di episodi di vomito diverso da quello medio, in media, di 3,76 episodi. La variabilità del numero di episodi di vomito è leggermente superiore in T1 (CV = 93,8%) che in T2 (CV = 88,9%). Conclusioni Nell’analisi descrittiva di una tabella doppia anzitutto è importante individuare quale dei due caratteri, X e Y, sia l’antecedente logico dell’altro (“causa”), così da eseguire le analisi mostrando come le sue variazioni inducano variazioni nel conseguente logico (“effetto”). Può accadere che ciascuno dei due caratteri, X e Y, possa
essere considerato antecedente logico dell’altro; in tal caso si può valutare sia come varia X al variare di Y, sia come varia Y al variare di X (ad es., statura e peso). Nell’analisi, è il tipo di carattere “conseguente logico” a suggerire con quali strumenti statistici essa possa essere condotta. Si è mostrato che se il conseguente logico è un carattere quantitativo, lo strumentario statistico per l’analisi è molto ampio. In qualche occasione capita di vedere che, pur di non rinunciare alla ricchezza esplicativa di tali strumenti, è stato analizzato come varia l’antecedente logico al variare del conseguente. Solo raramente, però, questo tipo di analisi può essere accettata. Nella presente nota, per motivi di spazio, non è stato considerato in caso in cui entrambi i caratteri siano quantitativi. Infatti, quando X e Y sono entrambi quantitativi può essere condotta un’analisi assai più raffinata, quella della concordanza (ad es., se e quanto cresce Y al crescere di X), basata sulla regressione lineare. Tale situazione verrà trattata nel prossimo numero. Enzo Ballatori
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