Casco Estate 2017

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Estate — 2017

Novità sulle terapie di supporto/palliative nel 2016 6 Tossicità cardiaca indotta da immunoterapia 14 Il ruolo della cannabis in oncologia 18

Servizio scientifico offerto da MSD Italia S.r.l.

www.casco-online.com

Management dell’anemia in pazienti affette da carcinoma mammario metastatico: rischi/benefici degli agenti che stimolano l’eritropoiesi 22 Concordanza e regressione 25



Periodico trimestrale riservato alla classe medica edito in collaborazione con Via Vitorchiano 151 – 00189 Roma Tel 06 36 19 11 – Fax 06 36 380 311 www.msd-italia.it Numero verde 800 23 99 89 Estate 2017 Registrazione del Tribunale di Roma in corso Direzione scientifica: Fausto Roila Enzo Ballatori Comitato scientifico: Andrea Antonuzzo (Pisa) Paolo Bossi (Milano) Claudia Caserta (Terni) Enrico Cortesi (Roma) Verena De Angelis (Perugia) Sonia Fatigoni (Terni) Guglielmo Fumi (Terni) Paolo Marchetti (Roma) Gianmauro Numico (Alessandria) Carla Ripamonti (Milano) Daniele Santini (Roma) Il Pensiero Scientifico Editore Via San Giovanni Valdarno 8 00138 Roma Tel 06 862 821 – Fax 06 862 82 250 Internet: www.pensiero.it Stampa: Ti Printing, Roma ottobre 2017 Direttore responsabile: Giovanni Luca De Fiore Redazione: Manuela Baroncini Progetto grafico: Antonella Mion Prezzo: Fascicolo singolo €15,00

CASCO ha raggiunto la sua maturità: per fornire un servizio sempre migliore è sembrato opportuno avvalerci di altre expertise.

Estate 2017

In questo numero EDITORIALE

IL PUNTO SU...

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Un nuovo Board Enzo Ballatori, Fausto Roila

DAI CONGRESSI

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Novità sulle terapie di supporto/palliative nel 2016 Fausto Roila

CASI CLINICI

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GESTIONE EVENTI AVVERSI

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Tossicità cardiaca indotta da immunoterapia Chiara Scafati, Maria Francesca Currà

Management dell’anemia in pazienti affette da carcinoma mammario metastatico: rischi/benefici degli agenti che stimolano l’eritropoiesi Enzo Ballatori, Fausto Roila

STATISTICA PER CONCETTI

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I contenuti pubblicati dalla rivista rispecchiano le opinioni degli Autori e non necessariamente quelle dell’Editore o della MSD Italia S.r.l. Ogni farmaco menzionato deve essere usato in accordo con il relativo riassunto delle caratteristiche del prodotto fornito dalla ditta produttrice.

ONCO-1189198-0003-EMD-PU-09-2019

Il ruolo della cannabis in oncologia Sonia Fatigoni, Fausto Roila

In copertina: Yvonne Audette, Transfiguration-Cantata No. 44 (2012-14).

Concordanza e regressione Enzo Ballatori


Editoriale

Un nuovo Board

si sta sempre più diffondendo e non solo tra gli oncologi clinici: la rivista ha dunque raggiunto la sua maturità. Per fornire un servizio sempre migliore ci è sembrato opportuno avvalerci di altre expertise così da raggiungere due obiettivi: a. coprire uno spettro più ampio di problematiche connesse con le terapie di supporto; b. coinvolgere altri colleghi che con i loro suggerimenti daranno nuova linfa a CASCO e, fungendo da referee, miglioreranno la qualità dei lavori pubblicati. In tal modo verrà anche garantita una maggiore continuità di pubblicazione ed una ancora più ampia diffusione della rivista.

CASCO

In altre parole abbiamo deciso di istituire un Editorial Board, che affiancherà la direzione scientifica della rivista invitando a dare il loro fattivo contributo a CASCO i seguenti oncologi medici: Andrea Antonuzzo, dirigente medico di I livello presso la UO di Oncologia Medica 1 – Polo Oncologico – AOU Pisana, ha la responsabilità delle terapie di supporto. È co-fondatore e tesoriere di NICSO (Network Italiano Cure di Supporto in Oncologia). Paolo Bossi, dirigente medico di I livello presso la S.C. Oncologia Medica Tumori testa-collo, Fondazione IRCCS Istituto Nazionale Tumori di Milano. È co-fondatore e attuale segretario del NICSO. Inoltre è co-chair del Mucositis Study Group del Multinational Association of Supportive Care in Cancer (MASCC). È stato responsabile scientifico di due Consensus Conference sulle terapie di supporto nei tumori del distretto testa-collo in trattamento per malattia recidivata/metastatica. Claudia Caserta, dirigente medico di I livello presso la S.C. di Oncologia dell’AO “S. Maria” di Terni, ha esperienze di ricerca in tema di terapie palliative e di supporto. Enrico Cortesi, docente di Oncologia Medica presso l’Università “La Sapienza” e dirigente di II livello dell’Oncologia Medica B, Azienda Policlinico “Umberto I” di Roma, ha ampia attività di ricerca su tematiche di qualità di vita, di appropriatezza prescrittiva e di terapie di supporto 4

CASCO — Estate 2017

in Oncologia, avendo partecipato agli studi dei gruppi di ricerca “DURTO” e “IGEO”, di cui è stato anche cofondatore. Per diversi anni è stato coordinatore regionale della SICP ed è attualmente referente aziendale per la “Rete Terapia del Dolore” della Regione Lazio. Verena De Angelis, dirigente medico di I livello presso la S.C. di Oncologia medica dell’AO di Perugia, con incarico di alta specializzazione di “Coordinamento della terapia palliativa in oncologia”, è dottore di ricerca in Statistica Medica e Metodologia Epidemiologica. Ha svolto un’ampia attività di ricerca in Oncologia ed ha partecipato attivamente a molti studi dell’Italian Group for Antiemetic Research (IGAR). Sonia Fatigoni, dirigente medico di I livello medico presso la S.C. di Oncologia dell’AO “S. Maria” di Terni, è membro del “Network Italiano dei Tumori Rari” e del NICSO. Ha svolto un’ampia attività di ricerca anche sulle terapie di supporto in Oncologia, dedicandosi in particolare alla profilassi antiemetica. Guglielmo Fumi, dirigente medico di I Livello con incarico di alta specialità presso la S.C. di Oncologia dell’AO S. Maria di Terni, con incarico di alta specializzazione in “Terapia palliativa”, ha svolto un’ampia attività di ricerca in campo oncologico, occupandosi anche di terapie di supporto. Paolo Marchetti, ordinario di Oncologia medica presso l’Università “La Sapienza” e dirigente di II livello di Oncologia presso l’Ospedale “Sant’Andrea” di Roma, ha conseguito il Master di II livello in Psicologia e Relazione con il Paziente. Ha un’ampia attività di ricerca anche nel settore della qualità di vita del paziente neoplastico e su tematiche di terapie di supporto. Gianmauro Numico, direttore del Dipartimento Internistico e della Struttura Complessa di Oncologia dell’AO “SS. Antonio e Biagio e C. Arrigo” di Alessandria, è coordinatore del Tavolo di Lavoro multisocietario sul follow up oncologico e vicepresidente del Collegio Italiano dei Primari Oncologi Medici Ospedalieri. Presso la Rete Oncologica del Piemonte e della Valle d’Aosta è coordinatore del gruppo di lavoro sulle “Terapie di


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Supporto in Oncologia”. Ha un’ampia attività di ricerca sulle terapie di supporto in oncologia e collabora alla stesura di linee guida e di raccomandazioni clinico-pratiche. Carla Ripamonti, responsabile del Dipartimento di Cure di Supporto al Paziente Oncologico presso la Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano; è specialista, oltre che in Oncologia medica, anche in Farmacologia clinica. Ha ricoperto ruoli importanti e incarichi accademici internazionali in ambito di Terapia del dolore e Cure palliative e di supporto. Ha svolto un’ampia attività di ricerca in tema di terapie di supporto e di cure palliative. Daniele Santini, ordinario di Oncologia Medica presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma (UCBM), ha svolto un’ampia attività di ricerca sulle metastasi ossee, sulle neoplasie del colon-retto, del rene e della prostata. È coordinatore delle Linee Guida Nazionali sul "Trattamento delle Metastasi Ossee", in ambito AIOM. Buon lavoro a tutti!

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uesto numero della rivista si apre con una revisione delle novità sulle terapie di supporto/palliative pubblicate nel 2016. Ovviamente la scelta degli studi è soggettiva, il che è una potenziale causa di omissioni importanti, ma nonostante ciò l’articolo offre la possibilità al lettore di valutare le novità reali/apparenti nel contesto dello stato dell’arte sulla prevenzione/trattamento di un determinato sintomo. L’articolo permette al lettore di constatare quanto lentamente procedano le innovazioni in questo settore della medicina. Se a ciò si aggiunge il ritardo con cui tali innovazioni sono implementate nella pratica clinica, emerge il danno per il paziente che potrebbe invece affrontare con meno sofferenza quanto la malattia o il suo trattamento determinano sulle sue condizioni di vita. Altrettanto rilevante è una messa a punto su una tossicità rara ma di grande importanza dell’immunoterapia antitumorale: la cardiotossicità. Conoscerne le caratteristiche permette all’oncologo clinico di pensarci per tempo e, quindi, di trattarla più rapidamente, il che è ovviamente molto importante data la sua potenziale letalità. La cardiotossicità più frequente è la miocardite che riguarda meno dell’1% dei pazienti sottoposti ad immunoterapia. Il New England Journal of Medicine ha recentemente pubblicato il primo caso di miocardite che ha avuto purtroppo un esito negativo per il paziente.

Finalmente viene pubblicata una revisione della letteratura sul ruolo della cannabis in oncologia: di questo vi era e vi è un bisogno assoluto dato che sull’uso dei cannabinoidi a scopo sintomatico (controllo della nausea e del vomito da chemioterapia, controllo del dolore e dell’anoressia da cancro, ecc.) si è assistito negli ultimi anni al dilagare di una propaganda politica di falsa informazione che l’articolo smaschera in modo definitivo. Non vi era nessun bisogno inevaso dei pazienti neoplastici che richiedeva la necessità di inserire i cannabinoidi nell’armamentario terapeutico. Infatti, come si evince dall’articolo, per il controllo del dolore neoplastico, i cannabinoidi valgono quanto la codeina, farmaco raccomandato per il secondo gradino della scala del dolore del WHO. Inoltre, nella prevenzione della nausea e del vomito da chemioterapia i cannabinoidi offrono la stessa efficacia delle alte dosi di metoclopramide per via endovenosa, trattamento superato fin dagli inizi degli anni ’90, dopo l’introduzione degli antagonisti dei recettori 5-HT3. Tutto questo era già evidente fino dai primi anni duemila quando il British Medical Journal pubblicò una revisione su questo argomento e recentemente il JAMA Oncology ne ha riconfermato la validità. E allora aspettiamo con ansia che qualche scienziato ci venga a dimostrare che la disponibilità dei cannabinoidi per i pazienti neoplastici sia qualcosa di più che una mera propaganda. La rivista pubblica come di consueto nella sezione “Casi clinici” un’analisi critica di un lavoro sulle terapie di supporto: in questo caso si tratta della revisione di un articolo sul ruolo degli stimolanti l’eritropoiesi per il trattamento dell’anemia indotta da chemioterapia. Lo studio esaminato riconferma che questi farmaci in pazienti affette da carcinoma della mammella metastatico presentano un più elevato rischio sia di trombosi venose profonde, che di embolia polmonare, oltre una diminuzione della PFS, e forse anche della OS, che ne sconsigliano l’uso. Infine la sezione “Statistica per concetti”, che accresce il valore scientifico della rivista permettendo all’oncologo di migliorare le proprie conoscenze su questo argomento senza un sostanziale aggravio formale, affronta in questo numero il tema della “concordanza e regressione”. Buona lettura! Enzo Ballatori Fausto Roila CASCO — Estate 2017

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Dai Congressi

Novità sulle terapie di supporto/palliative nel 2016

Fausto Roila Struttura Complessa di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

Anche quest’anno si descriveranno le novità più importanti pubblicate su riviste internazionali o presentate in forma di abstract ai congressi oncologici più importanti sulle terapie di supporto/palliative in oncologia medica. Ovviamente la selezione è soggettiva e non riporta articoli che si sono ritenuti di scarsa importanza ma che altri colleghi potrebbero valutare diversamente. Dolore neoplastico L’ASCO ha recentemente pubblicato una linea guida nel trattamento del dolore cronico nei lungo sopravviventi dal cancro1. Le linee guida finora pubblicate dalla Società degli oncologi americani hanno riguardato il trattamento del dolore acuto e del dolore cronico in pazienti con malattia avanzata. In queste, invece l’ASCO affronta il problema in un’altra popolazione di pazienti neoplastici potenzialmente guariti che vanno protetti dai rischi di un uso improprio degli oppioidi (abuso, dipendenza psichica) o da effetti collaterali associati al loro uso prolungato (costipazione, confusione mentale, endocrinopatie come ipogonadismo o fatigue, ridotta libido, osteoporosi, neurotossicità come mioclonie, turbe cognitive, rischio di caduta nei pazienti anziani, iperalgesia, disordini del respiro durante il sonno specie se associati a benzodiazepine). Chi sono i lungo sopravviventi e qual è l’entità del problema? Un lungo sopravvivente è una persona con una storia di cancro che è oltre la diagnosi e oltre la fase di trattamento. Negli Stati Uniti ci sono 14 milioni di lungo sopravviventi, due terzi dei quali hanno sopravvissuto ≥ 5 anni dalla diagnosi. La prevalenza di dolore nei lungo sopravviventi dal cancro è molto variabile ma con percentuali che arrivano fino al 40% dei pazienti. Negli Stati Uniti l’uso di oppioidi è associato a seri problemi: quasi 20.000 morti per overdose nel 2014, più di 10 milioni di persone che usa oppioidi per ragioni non mediche e circa 2 milioni che hanno una diagnosi di disordine da uso di oppioidi. I criteri diagnostici del disordine da uso di oppiacei sono: a) usare un oppioide in quantità crescenti e per più lungo tempo di quanto pianificato; b) desiderio persistente o sforzo senza successo di interrompere o controllare l’uso di oppioidi; c) spendere un tempo esagerato per ottenere, usare o guarire dall’uso/abuso di oppioidi; d) forte desiderio o urgenza di usare gli oppioidi; e) interferenza dell’uso degli oppioidi con importanti doveri o obblighi sociali; 6

CASCO — Estate 2017

f) uso continuato nonostante problemi interpersonali e sociali (interferenze con il lavoro); g) riduzione o eliminazione di attività importanti a causa dell’uso di oppioidi; h) uso di oppioidi in situazioni particolari (ad esempio durante la guida); i) uso continuato di oppioidi nonostante problemi fisici o psicologici o ambedue; l) necessità di aumentare la dose per ottenere la stessa efficacia; m) sindrome da sospensione quando si diminuisce la dose dell’oppioide. Essendoci quindi una vera e propria epidemia, i Centers for Disease Control and Prevention hanno prodotto 12 raccomandazioni rigorose per la prescrizione di oppioidi per il dolore cronico nella popolazione generale2. Ad esempio si consiglia di utilizzare una terapia non farmacologica o farmaci non oppioidi, di usare gli oppioidi solo se i benefici attesi (controllo del dolore e miglioramento della funzionalità) sono superiori ai rischi, di discutere con il paziente gli obiettivi del trattamento prima di iniziare gli oppioidi e, se si decide per un loro uso, vanno preferiti oppioidi a rapido rilascio, usando la dose più bassa possibile, sottolineando i rischi di usare dosi superiori a 50 mg di morfina die e di non superare la dose di 90 mg/die. Inoltre bisogna dosare gli oppioidi nelle urine prima di iniziare il trattamento e non vanno associate benzodiazepine ad oppioidi. Si tratta quindi di una pletora di note di cautela nell’uso di oppioidi con il rischio che probabilmente diminuirà il numero di medici che prescrivono oppioidi e la conseguenza che un più alto numero di pazienti soffrirà per scarso controllo del dolore. Le linee guida ASCO, rivolte ai pazienti oncologici, raccomandano di screenare il lungo sopravvivente ad ogni visita per la presenza di dolore. I pazienti con dolore di nuova insorgenza dovrebbero essere rivalutati per escludere una recidiva di malattia o un secondo tumore, trattati e monitorati. È opportuno durante le visite considerare le sindromi da dolore cronico causate dalle terapie (ad esempio dolori da chemioterapia quali: necrosi avascolare ossea secondaria ad uso di steroidi per lungo tempo, neuropatie periferiche; da ormonoterapia: artralgie e mialgie, osteoporosi e rischio di frattura; da radioterapia: cistiti, proctiti, linfedema, osteonecrosi; da chirurgia: linfedema, sindrome dell’arto fantasma, dolore da mastectomia e toracotomia). Inoltre le linee guida dell’ASCO raccomandano di somministrare analgesici non oppioidi (FANS, paracetamolo) e adiuvanti (antidepressivi e anticonvulsivanti) per controllare il dolore cronico e/o per migliorare la funzionalità del paziente. Gli oppioidi vanno usati solo in pazienti selezionati che non rispondono alle terapie sopra riportate. Ovviamente va valutato il rischio di eventi avversi da oppioidi e va minimizzato il rischio di abuso e dipendenza da oppioidi.


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In contrasto con queste problematiche è la prevalenza del dolore da cancro osservata in una revisione sistematica e del dolore neuropatico che indica la necessità di un ulteriore sforzo per superare le barriere frapposte alla diffusione ed uso degli oppioidi e dalla necessità di implementare le strategie per trattare ottimamente il dolore cronico in generale ed il dolore neuropatico in particolare. Infatti, in 122 studi, che hanno valutato 63.500 pazienti, la prevalenza del dolore da cancro era del 39,3% dopo trattamento curativo, del 55% durante la terapia antitumorale e del 66,4% nei pazienti terminali o con malattia metastatica. Dolore moderato-severo era riferito dal 38% dei pazienti3. In un altro studio sono stati valutati i risultati di 29 studi osservazionali: la prevalenza del dolore neuropatico era 31,2%, che era superiore nei pazienti ricoverati o in hospice rispetto a quelli ambulatoriali4. Uno studio randomizzato in aperto eseguito in Italia in 240 pazienti con dolore moderato da cancro ha confrontato oppiodi deboli (240 mg di codeina, 180 mg se associata a paracetamolo, o 400 mg die di tramadolo) rispetto a basse dosi di morfina (fino 30 mg die) per 28 giorni5. L’endpoint primario dello studio era una riduzione del 20% nell’intensità del dolore in una scala numerica da 0 a 10. Rispetto al dolore basale dopo 28 giorni il dolore si riduceva significativamente più con morfina a basse dosi che con codeina o tramadolo (88,2% versus 57,7%). Più pazienti sottoposti a oppioidi deboli cambiavano trattamento per mancanza di efficacia. Gli effetti collaterali erano simili tra i due trattamenti. Questo studio autorizza quindi ad iniziare immediatamente l’oppioide forte se il dolore non è controllato da un FANS. Il ruolo del secondo gradino della scala WHO nel controllo del dolore, che aveva un valore prevalentemente educativo, è quindi superato. Infine uno studio sulla tossicità del metadone6. Questo farmaco ha possibili vantaggi rispetto agli altri oppioidi: basso costo, alta biodisponibilità, lunga emivita, mancanza di metaboliti attivi e possibile superiore efficacia nel dolore neuropatico rispetto agli altri oppioidi data l’interazione con i recettori N-methyl-D-aspartato. Come è successo con l’allungamento del tratto Q-T che si ha con dosi di metadone superiori a 100 mg/die e che richiede in tali casi un monitoraggio dell’ECG, precedenti studi hanno suggerito un’associazione tra metadone e ipoglicemia (glucosio < 70 mg/dL). Questo studio retrospettivo in 641 pazienti ha confermato una significativa associazione con dosi > 40 mg/die. Una correlazione dose-risposta era osservata con dosi > 80 mg/die. Quindi si raccomanda il monitoraggio del glucosio con dosi di metadone ≥ 40 mg/die. Antiemetici Nella tabella I sono riportate le raccomandazioni recentemente pubblicate dal MASCC/ESMO inerenti la prevenzione ed il controllo dell’emesi da chemioterapia7. Per quanto concerne gli antagonisti degli NK1 recettori non sono stati pubblicati studi comparativi fra i 3 farmaci disponibili (aprepitant e il suo profarmaco fosaprepitant, netupitant, disponibile in unica compressa con il palonosetron, e il rolapitant che sarà rimborsato fra poco in Italia) per iden-

tificare differenze di efficacia o tossicità. Pertanto la scelta dovrebbe essere fatta in base al loro costo. Nelle tabelle II, III e IV sono riportate le dosi raccomandate dalle linee guida dei 5-HT3 antagonisti, del desametasone e degli NK1 antagonisti. L’olanzapina è un farmaco antipsicotico che blocca multipli neurorecettori nel sistema nervoso centrale coinvolti nel fenomeno della nausea e del vomito da chemioterapia: dopamina D1, D2, D3, serotonina 5-HT2a 5-HT2c , 5-HT3 e 5-HT6, recettori, α1 adrenergici, muscarinici e recettori H1 dell’istamina. Alcuni studi di fase II sull’olanzapina sembravano suggerire una importante attività antiemetica specie nel controllo della nausea. Uno studio di fase III eseguito in 380 pazienti trattati con chemioterapia fortemente emetogena ha confrontato la profilassi standard con fosaprepitant 150 mg ev. ed un 5-HT3 antagonista ev. ambedue somministrati prima della chemioterapia, e desametasone 12 mg os prima della chemioterapia e 8 mg os il giorno 2, 3 e 4 associata o meno ad olanzapina 10 mg nei giorni 1-4 a partire dal giorno della chemioterapia8. L’endpoint primario dello studio era l’assenza di nausea che si osservava nel 73,8% versus 45,3% dei pazienti nel giorno 1, nel 42,4% versus 25,4% nei giorni 2-5 dopo la chemioterapia e nel 37,3% versus il 21,9% nei giorni 1-5. Tali differenze erano tutte statisticamente significative. Lo stesso si osservava considerando la percentuale di risposte complete (no vomito e no terapia di salvataggio). L’aggiunta di olanzapina aumentava la sedazione dei pazienti che però era di grado 3 in meno del 5% dei pazienti. Infine uno studio non ancora pubblicato presentato all’ASCO ha confrontato due diverse dosi di olanzapina (5 mg

Tabella I. Profilassi emesi da chemioterapia.

Acuta

Ritardata

Cisplatino

5HT3+DEX+NK1 5HT3+DEX+APR

DEX DEX+APR o MTC

AC

5HT3+DEX+NK1 5HT3+DEX+APR

— APR o DEX

Non-AC MEC

5HT3+DEX

DEX

Carboplatino

5HT3+DEX+NK1 5HT3+DEX+APR

— APR

LEC

5-HT3 o DEX o DA

Minima EC

3-5 giorni CDDP

5HT3+DEX+NK1

DEX

Alte dosi CT

5HT3+DEX+APR

APR

Breakthrough emesi

olanzapina

Emesi refrattaria

altro 5-HT3, NK1, DA, benzodiazepine

AC: antracicline + ciclofosfamide; MEC: chemioterapia moderatamente emetogena; LEC: chemioterapia scarsamente emetogena; CDDP: cisplatino; 5HT3: 5HT3 antagonisti; DEX: desametasone; APR: aprepitant; DA: antagonisti della dopamina; MTC: metoclopramide.

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Tabella II. Dosi raccomandate di un 5-HT3 antagonista.

Antiemetico

Via

Dose

Ondansetron

EV Orale

8 mg o 0,15 mg/kg 16 mg

Granisetron

EV Orale

1 mg o 0,01 mg/kg 2 mg (o 1 mg)

Dolasetron

Orale

100 mg

Tropisetron

EV Orale

5 mg 5 mg

Palonosetron

EV Orale

0,25 mg 0,5 mg

EV: endovena.

Tabella III. Dosi raccomandate di desametasone.

Desametasone Alto rischio – emesi acuta – emesi ritardata

Dosi e schedule 20 mg [12 mg quando usato fos(aprepitant) o netupitant] 8 mg bid per 3-4 giorni [8 mg die quando usato con (fos)aprepitant o netupitant]

Moderato rischio – emesi acuta – emesi ritardata

8 mg 8 mg die (o 4 mg bid) per 2-3 giorni

Basso rischio – emesi acuta

4-8 mg

Bid: due volte die.

Tabella IV. Dosi raccomandate di NK1 antagonisti.

NK1 antagonisti Aprepitant e fosaprepitant – emesi acuta – emesi ritardata

Dose e schedula

APR 125 mg os il giorno della CT o FOS 150 mg ev il giorno della CT 80 mg os giorni 2 e 3 dopo la CT o niente se usato FOS

Rolapitant

180 mg os il giorno della CT

Netupitant

300 mg netupitant/0,5 mg palonosetron os il giorno della CT

CT: chemioterapia.

versus 10 mg) in combinazione con un 5-HT3 antagonista, il desametasone e un NK1 antagonista in 153 pazienti sottoposti a chemioterapia altamente emetogena9. Non vi erano differenze di efficacia statisticamente significative tra le due dosi, mentre la sedazione era minore con 5 mg. Se tali risultati fossero confermati da altri studi la dose di 5 mg diventerebbe la dose di olanzapina da utilizzare per prevenire l’emesi da chemioterapia fortemente emetogena. 8

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Infezioni Le linee guida dell’ASCO per l’uso dei fattori di crescita granulocitari (G-CSFs) raccomandano una profilassi primaria quando il rischio di neutropenia febbrile indotta dalla chemioterapia è approssimativamente 20% o più e non sono disponibili regimi di simile efficacia e meno tossici che non richiedono G-CSFs. Per regimi dose-dense la profilassi con GCSFs è suggerita solo nell’ambito di studi clinici o quando i regimi dose-dense sono supportati da dati di efficacia. L’uso profilattico secondario è raccomandato in pazienti con neutropenia febbrile al primo ciclo di chemioterapia senza G-CSFs in cui una riduzione di dose o il ritardo nel trattamento possa compromettere il risultato. Infine i G-CSFs non vanno usati routinariamente in pazienti con neutropenia afebbrile. Pegfilgrastim a dosi di 6 mg per ciclo dovrebbe essere somministrato 24 ore dopo la fine della chemioterapia. Nella pratica clinica molti pazienti ricevono pegfilgrastim lo stesso giorno alla fine della somministrazione della chemioterapia. Nel 2016 due studi hanno valutato i tempi ottimali di somministrazione del pegfilgrastim. In uno studio retrospettivo eseguito in 45.592 pazienti, che hanno ricevuto 179.152 dosi di pegfilgrastim, l’incidenza di neutropenia febbrile era significativamente superiore nei pazienti trattati lo stesso giorno rispetto a quelli trattati 2-4 giorni dopo la chemioterapia10. Nell’altro studio si valutavano i rischi di iniziale leucocitosi da pegfilgrastim somministrato 24, 72 o 96 ore dopo chemioterapia dose-dense. La leucocitosi predispone al rischio di sindrome da aumentata permeabilità capillare, rottura della milza e leucemia mieloide acuta. Il tempo migliore per prevenire la leucocitosi iniziale era la somministrazione di pegfilgrastim 72 ore dopo la chemioterapia11. In uno studio eseguito per definire la migliore profilassi delle infezioni da inserzione di cateteri intravascolari, 1181 pazienti sono stati randomizzati ad una antisepsi cutanea con 2% clorexidina-alcool o con 5% povidone iodino alcool con o senza lavaggio energico. Clorexidina-alcool riduceva significativamente l’incidenza delle infezioni da catetere rispetto a povidone iodino-alcool (0,28 casi versus 1,77 per 1000 giorni di catetere). Il lavaggio energico non era associato a differenze significative. Clorexidina-alcool induceva più reazioni cutanee gravi (3% versus 1%) e portava a discontinuare il trattamento in due pazienti. Prevenzione della trombosi venosa profonda e dell’embolia polmonare Nel 2016 la International Initiative on Thrombosis and Cancer ha pubblicato le linee guida nella prevenzione della trombosi venosa profonda e dell’embolia polmonare12. Le raccomandazioni sulla profilassi da eseguire nel paziente neoplastico sono di interesse per tutti gli oncologi perché purtroppo tuttora non sempre vengono tradotte nella pratica clinica. In pazienti con cancro sottoposti a chirurgia è raccomandata una profilassi da iniziare 2-12 ore prima dell’intervento da continuare per almeno 7-10 giorni nei pazienti sottoposti a chirurgia maggiore e fino a 4 settimane in quelli ad alto rischio sottoposti a chirurgia addominale e pelvica. La


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profilassi è inoltre raccomandata in pazienti con cancro ospedalizzati e con ridotta mobilità mentre non lo è in pazienti ambulatoriali sottoposti a chemioterapia. Fanno eccezione pazienti affetti da carcinoma localmente avanzato o metastatico del pancreas o del polmone e pazienti con mieloma multiplo sottoposti a lenalidomide o talidomide + desametasone. In quest’ultimo caso gli antagonisti della vitamina K, l’eparina a basso peso molecolare a dosi profilattiche o basse dosi di aspirina hanno mostrato simile efficacia. Infine le linee guida raccomandano di non eseguire una profilassi della trombosi da catetere venoso centrale. Cardiotossicità Nel 2016 il New England Journal of Medicine ha pubblicato una messa a punto del problema della cardiotossicità da target therapies a cui si rimandano i lettori interessati13. Nel 2016 è stata anche pubblicata una metanalisi degli studi di terapia adiuvante del carcinoma della mammella trattato con trastuzumab che analizzava il rischio di scompenso cardiaco classe III-IV NYHA dopo un follow-up di 5-7 anni. L’incidenza di scompenso cardiaco era 1,44% nei pazienti trattati con trastuzumab vs placebo e il rischio relativo era 3,19 volte superiore rispetto al placebo. Il rischio relativo era superiore con dosi più alte (6,79 vs 2,64) e con una durata della terapia maggiore (9 settimane 0,50, 1 anno 3,29 e 2 anni 9,54)14. L’incidenza di disfunzioni cardiache era del 319%. Un numero maggiore di pazienti sospende il trattamento con trastuzumab per un declino ecocardiografico della frazione di eiezione ventricolare sinistra. Nei trial clinici esaminati non vi era una differente incidenza di mortalità per problemi cardiaci tra il trastuzumab ed il placebo. Va ovviamente ricordato che i pazienti arruolati nei trial clinici sono pazienti molto selezionati in quanto non hanno una pregressa storia di cardiopatia (scompenso cardiaco, ischemia, aritmia, ipertensione poco controllata e frazione di eiezione < 50%). D’altronde i criteri di inclusione ed il follow-up nella pratica clinica sono spesso meno stringenti ed è pertanto logico che l’incidenza di cardiotossicità nella pratica clinica sia superiore. In uno studio sono state valutate 18.540 donne, 79% di età < 65 anni, affette da carcinoma della mammella operato. L’incidenza di scompenso cardiaco o morte cardiovascolare era 3,08% mentre era 0,96% nel gruppo di controllo (donne senza carcinoma della mammella)15. A rischio più alto di cardiotossicità erano le pazienti trattate con trastuzumab associato a chemioterapia senza antracicline (1,76%) e come terapia sequenziale (3,96%). La scelta di un monitoraggio intensivo ogni 3 mesi con ecocardiogramma è stato suggerito dagli enti regolatori. Il trastuzumab si sospende se la frazione di eiezione scende sotto il 50% o diminuisce del 10-15% rispetto al valore basale. Ma queste raccomandazioni devono valere per tutte le pazienti? Pertanto l’utilità di un monitoraggio intensivo per tutte le pazienti viene ridiscussa16,17. Infatti non è chiaro purtroppo se in pazienti asintomatiche il declino del LVEF è predittivo di futuro scompenso cardiaco. Non è altresì chiaro se un intervento precoce sulla base delle modifiche del LVEF riduca la cardiotossicità indotta dal trastuzumab (c’è una alta

percentuale di pazienti in cui si ha un recupero spontaneo). Infine ci sono potenziali errori causati da variazioni temporali e indotti da diversi ecografisti nel definire il LVEF. Va ricordato inoltre che i costi correlati ad un eccesso di screening sono una realtà. Pertanto il monitoraggio intensivo dell’LVEF potrebbe non essere giustificato in chi non ha ricevuto antracicline o è in trattamento per carcinoma della mammella metastatico. Tali indicazioni ovviamente richiedono più studi per essere immediatamente tradotte nella pratica clinica. Anche l’utilità dell’ecocardiogramma basale eseguito in tutte le pazienti è stato ridiscusso nel 2016. Questo viene eseguito per valutare la funzionalità cardiaca prima della somministrazione di antracicline o di trastuzumab. In uno studio sono state monitorate 1067 pazienti sottoposte ad ecocardiogramma basale18. Le pazienti con storia di cardiopatia erano escluse. Erano valutabili 600 pazienti. Un ecocardiogramma anormale era osservato in 13 (2,2%) delle pazienti di cui 9 presentavano una LVEF < 55%. Durante il follow-up solo 15 pazienti svilupparono eventi cardiaci. Nessuna di queste aveva un ecocardiogramma basale anormale. Infine uno studio sulla prevenzione della cardiotossicità da trastuzumab con un inibitore dell’angiotensina II, il candesartan. Uno studio di fase III randomizzato, doppio-cieco, placebo-controllato ha valutato 210 pazienti con carcinoma della mammella operato Her2+ sottoposte a chemioterapia con antracicline e poi randomizzate a ricevere all’inizio del trastuzumab candesartan 32 mg die o placebo continuati fino 26 settimane dopo la fine del trastuzumab19. L’endpoint primario dello studio era l’incidenza di un evento cardiaco (diminuzione LVEF > 15% o sotto il 45%). Non sono state evidenziate differenze nell’incidenza di eventi cardiaci (19% con candesartan e 16% con placebo) e, rispettivamente, nell’incidenza cumulativa a due anni che era 0,28 e 0,16. Eventi avversi gravi si osservavano nel 24,8% e 15,5% delle pazienti, rispettivamente. In conclusione il candesartan non è in grado di contrastare il danno cardiaco già iniziato dalle antracicline. Va aggiunto che l’incidenza di danno cardiaco è bassa. Prevenzione della perdita della fertilità Come è noto la castrazione chimica potrebbe prevenire il danno indotto dalla chemioterapia sulle ovaie. Per prevenire la menopausa precoce e la perdita della fertilità 129 pazienti affette da linfoma Hodgkin e non-Hodgkin sottoposte a chemioterapia con agenti alchilanti sono state randomizzate a ricevere triptorelina ogni 12 settimane + noretisterone vs noretisterone da solo20. Purtroppo la triptorelina non era efficace nel prevenire la menopausa precoce (19,4% versus 25%) e non influenzava la percentuale di gravidanze future. In un altro studio per prevenire l’insufficienza ovarica precoce e la perdita della fertilità 281 pazienti affette da carcinoma della mammella sottoposte a chemioterapia adiuvante o neoadiuvante sono state randomizzate a ricevere o meno la triptorelina ogni 4 settimane per la durata della chemioterapia21. La triptorelina era efficace nel prevenire l’insufficienza ovarica precoce (a 5 anni si aveva ripresa delle mestruazioni nel 72,4% versus il 64,0%). Si ottenevano 8 graCASCO — Estate 2017

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vidanze nel gruppo triptorelina e 3 nel gruppo di controllo. Infine una metanalisi ha valutato il ruolo degli agonisti LH-RH nel preservare la funzione ovarica in donne affette da carcinoma della mammella operato e sottoposte a chemioterapia22. È stato valutato un totale di 1067 pazienti in sette studi. L’uso degli agonisti LH-RH si accompagna ad una più alta percentuale di ripresa delle mestruazioni dopo 6 e dopo 12 mesi dalla fine della chemioterapia (OR 2,41). L’uso di LHRH si accompagnava ad un più alto numero di gravidanze sebbene questo risultato non sempre era riportato e non fosse statisticamente significativo. Secondo alcuni esperti la profilassi dell’insufficienza ovarica con LH-RH è ancora da considerarsi sperimentale e la differenza dei risultati ottenuti nei vari studi randomizzati è dovuta più a problemi metodologici che a reali differenze tra gli studi. I problemi metodologici riguardano soprattutto la definizione di insufficienza ovarica precoce, infatti l’impatto sulle mestruazioni non è un endpoint affidabile della riserva ovarica e le donne a cui si attribuisce un fallimento ovarico prematuro più frequentemente presentano mestruazioni irregolari che amenorrea o, viceversa, spesso si attribuisce una perdita ematica dai genitali ad una ripresa delle mestruazioni che spesso non lo è. A ciò va aggiunto che il tamoxifene può alterare la regolarità del ciclo mestruale complicando l’interpretazione della ripresa mestruale. Per evitare ciò è necessario che gli studi siano doppio cieco controllati. Tossicità cutanea Di rilievo nel 2016 vi è stato un solo studio eseguito in 150 pazienti sottoposti a erlotinib in 2° e 3° linea nel NSCLC che sono stati randomizzati a ricevere minociclina profilattica (100 mg due volte die per 4 settimane), minociclina alla comparsa del rash o nessun trattamento se non con grado 3 di tossicità cutanea23. L’incidenza di tossicità cutanea era dell’84%. La profilassi con minociclina ritardava il tempo alla comparsa di gradi più severi di rash. Nel braccio non trattamento il rash di grado 3 era superiore. La sopravvivenza globale mediana non era significativamente differente. Nonostante lo studio fosse negativo gli autori hanno consigliato minociclina profilattica o come trattamento alla comparsa del rash. Anemia Anche sulla terapia dell’anemia ho considerato rilevante solo uno studio pubblicato nel 2016. È uno studio di non inferiorità che valuta l’impatto sulla PFS della eritropoietina (40.000 IU sottocute alla settimana) usata per trattare l’anemia in pazienti sottoposte a chemioterapia per carcinoma della mammella metastatico24. L’endpoint primario era la PFS. In 2098 pazienti la PFS mediana era 7,4 mesi in ambedue i gruppi (HR 1.089; 95% CI, 0.988-1200), ma il limite superiore dell’hazard ratio (1.200) eccede il margine pre-specificato di non inferiorità (1.15). Pertanto lo studio non può escludere un aumento del 15% del rischio di progressione della malattia/morte e gli autori raccomandano di sottoporre le pazienti a trasfusioni di globuli rossi concentrati per trattare l’anemia. 10

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Fatigue È stato pubblicato uno studio singolo cieco in 424 donne affette da carcinoma della mammella che hanno completato la chemioterapia almeno 12 mesi prima che presentassero fatigue persistente con score ≥ 4 del Brief Fatigue Inventory25. Le pazienti sono state randomizzate ad autosomministrarsi, dopo training, agopressione rilassante, agopressione stimolante per 3 minuti, ogni giorno per 6 settimane o la terapia usuale della fatigue. In 270 pazienti la percentuale di pazienti con normale fatigue a 6 settimane era, rispettivamente, 66,2%, 60,9% e 31,3% e a 10 settimane 56,3%, 60,9% e 30,1%, differenze significativamente superiori con agopressione versus terapia usuale. Non vi erano differenze tra i due tipi di agopressione. Nel 2016 è stata pubblicata una metanalisi degli studi randomizzati di fase II e III degli inibitori dei posti di blocco (ipilimumab, nivolumab, pembrolizumab, tremelimumab) sull’incidenza di fatigue26. A questo studio si rimanda per una migliore comprensione di questo importante effetto collaterale che purtroppo non ha terapie efficaci certe. Sono stati esaminati 17 studi. Rispetto ai controlli gli inibitori del CTLA4 aumentavano la fatigue di tutti i gradi del 23% (di grado 3 del 72%); mentre gli inibitori del PD-1 diminuivano la fatigue di tutti i gradi del 28% (di grado 3 del 66%). Linfedema Nel 2016 uno studio ha valutato una serie di fattori prognostici del linfedema che sono quelli su cui le linee guida danno suggerimenti che spesso inducono stress e paura nelle pazienti. Lo studio è stato eseguito in 632 pazienti con carcinoma infiltrante della mammella operato con più di 6 mesi di follow-up che sono state screenate per linfedema e monitorate ad intervalli di 3-7 mesi27. Ad ogni visita, oltre la misura del volume degli arti superiori si riportava il numero dei prelievi di sangue, iniezioni, misurazioni della pressione arteriosa all’arto a rischio + numero di voli effettuati. In 3041 misurazioni effettuate non vi era una significativa associazione tra l’aumento di volume (o l’aumento di volume aggiustato per il peso) dell’arto e i prelievi di sangue, le iniezioni, il numero e la durata dei voli. I soli fattori prognostici di linfedema erano l’aumento ≥ 25 dell’indice di massa corporea, la dissezione linfonodale ascellare, l’irradiazione dell’ascella e la cellulite dell’arto. In seguito alla non chiara evidenza scientifica su cui poggiano gli accorgimenti finora suggeriti per far prevenire o regredire il linfedema, nello stesso numero del Journal of Clinical Oncology viene pubblicato un altro lavoro che provocatoriamente suggerisce di abbandonare queste precauzioni28. Il linfedema è quindi una condizione cronica senza cura. L’unica vera prevenzione del linfedema è evitare la dissezione linfonodale ascellare che riduce il rischio di linfedema dal 20-30% al 5% quando si effettua l’esame del solo linfonodo sentinella. Si aggiunge che il linfedema non è causato dalla somministrazione di farmaci endovena o da prelievi di sangue nell’arto a rischio né dalla bassa pressione in cabina durante i voli (in precedenza venivano consigliati manicotti compressivi a tutte le donne che facevano un viaggio aereo).


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Infine si ricorda la dubbia utilità della fisioterapia, del drenaggio linfatico manuale e di approcci chirurgici (axillary reverse mapping, lymphatic microsurgical preventing healing). Sempre nel 2016 una revisione della letteratura chiude il cerchio analizzando i risultati di 31 articoli che valutavano le evidenze scientifiche a supporto delle raccomandazioni inerenti i fattori prognostici dell’insorgenza del linfedema29. La revisione conclude che non è dimostrato il beneficio di un uso profilattico di bendaggi compressivi durante i viaggi aerei, di evitare misurazioni della PA o lacci emostatici per procedure chirugiche sull’arto, di prelievi di sangue e di iniezioni. Il ruolo delle temperature estreme (esposizione dell’arto ad alte o basse temperature, saune, ustioni cutanee) necessita di più studi. Le uniche evidenze certe è che vanno evitate infezioni e infiammazioni dell’arto superiore interessato. Anoressia-cachessia L’anoressia-cachessia è una condizione debilitante caratterizzata da scarso appetito e diminuzione del peso corporeo attraverso la perdita di massa corporea magra. Al momento i trattamenti disponibili hanno limitata efficacia e potenziali rischi specie nei pazienti con carcinoma disseminato. Anamorelina è un agonista dei recettori della grelina che produce il rilascio dell’ormone della crescita stimolando multipli pathways che regolano il peso corporeo, la massa corporea magra, l’appetito e il metabolismo. L’anamorelina è stata valutata in due studi doppio cieco di fase III (ROMANA 1 e ROMANA 2) vs placebo in 979 pazienti con NSCLC stadio III inoperabile e IV con cachessia (perdita ≥ 5% del peso corporeo entro i precedenti 6 mesi o BMI < 20 kg/m2), tutti sottoposti a chemioterapia o radioterapia30. Anamorelina 100 mg os o placebo era somministrata una volta die per 12 settimane. Gli endpoint co-primari dello studio erano le modifiche dall’inizio della terapia alla fine delle 12 settimane nella massa corporea magra e nella forza della stretta della mano non dominante. Anamorelina aumentava significativamente la massa corporea grassa (+ 0,99 kg versus - 0,47 kg in ROMANA 1 e + 0,65 kg versus - 0,98 kg in ROMANA 2) rispetto al placebo. Anamorelina aumentava significativamente anche il peso corporeo medio (+ 2,20 kg vs 0,14 kg in ROMANA 1 e + 0,95 kg versus -0,57 kg in ROMANA 2) rispetto al placebo. Il farmaco riduceva significativamente i sintomi della anoressia-cachessia (item sull’anoressia-cachessia del questionario FACT) ed era ben tollerata (non differenze nei gradi 3-4 degli eventi avversi tra i due gruppi di pazienti). Nel 2016 è stato pubblicato un altro studio con anamorelina, uno studio doppio-cieco di fase II eseguito in 181 pazienti giapponesi affetti da NSCLC stadio III inoperabile e IV con cachessia (perdita ≥ 5% peso corporeo entro i precedenti 6 mesi). I pazienti erano randomizzati a ricevere anamorelina 50 mg o 100 mg o placebo os ogni giorno per 12 settimane31. Anamorelina 100 mg (ma non 50 mg) aumentava significativamente la massa corporea magra (1,15 kg versus 0,55 kg), il Karnofsky performance status e la qualità di vita rispetto al placebo. Ambedue le dosi di anamorelina aumentavano significativamente il peso corporeo. Non

c’erano modifiche della forza della stretta con la mano non dominante. Dispnea Non sono stati pubblicati studi controllati per valutare l’efficacia-tossicità dei corticosteroidi nel trattamento della dispnea in pazienti neoplastici ed il loro uso è basato su pochi studi retrospettivi. Uno studio di fattibilità, randomizzato doppio cieco in pazienti con dispnea ≥ 4 ha randomizzato a ricevere desametasone 8 mg due volte al giorno per 4 giorni e poi 4 mg due volte al giorno per 3 giorni versus placebo. I pazienti continuavano il trattamento per altri 7 giorni in aperto32. Sono entrati nello studio 35 pazienti che hanno completato la fase in cieco. Il desametasone riduceva significativamente la dispnea (-1,9 nella NRS al giorno 4 e -1,8 al giorno 7). Con il placebo si osservava una riduzione di -0,7 e -1,3, rispettivamente, differenze non statisticamente significative. Il desametasone migliorava la sonnolenza ed era ben tollerato. Un altro studio di fase II in 173 pazienti con dispnea ≥ 4 randomizzati a ricevere agopuntura (sterno superiore, paravertebrale toracico, trigger point sul trapezio e LI4) versus morfina versus la combinazione. I pazienti sottoposti ad agopuntura avevano la morfina come rescue33. L’endpoint primario dello studio era la riduzione ≥ 1,5 nel VAS a 4 ore che si otteneva nel 74%, 60% e 66% dei pazienti sottoposti ad agopuntura, morfina e loro combinazione. Tale differenza non era statisticamente significativa. Il miglioramento era mantenuto nel 45% dei pazienti a 2 settimane. L’agopuntura riduceva l’ansietà e le dosi di rescue con morfina. Infine uno studio doppio-cieco controllato in pazienti con dispnea episodica indotta da esercizio fisico (3-6 minuti di camminata) ha confrontato fentanyl pectina spray nasale versus placebo34. Sono entrati nello studio 24 pazienti; il fentanyl (15-25% della dose totale giornaliera ogni somministrazione) riduceva la dispnea significativamente rispetto al placebo a riposo (dopo una camminata di 6 minuti senza terapia), alla fine dei 6 minuti (dopo somministrazione di terapia) o di una camminata più lunga. Il placebo era efficace nel ridurre dispnea dopo 6 minuti di camminata. Purtroppo nel controllo della dispnea si continua a pubblicare studi con un numero veramente esiguo di pazienti che non permette di valutare adeguatamente i farmaci studiati. Sintomi muscolo-scheletrici indotti da inibitori dell’aromatasi I sintomi muscolo-scheletrici dovuti agli inibitori dell’aromatasi come artriti, artralgie, mialgie, dolori muscolo-scheletrici, rigidità articolari e parestesie (ad esempio sindrome del tunnel carpale) sono stati esaminati in 370 pazienti affette da carcinoma della mammella operato e sottoposto a ormonoterapia precauzionale35. Di queste 302 pazienti (82%) riferivano tali sintomi; il 27% ha sospeso l’inibitore dell’aromatasi e di queste il 68% per sintomi muscolo-scheletrici. Il paracetamolo e lo yoga hanno permesso di continuare il trattamento al 27% di queste pazienti. Circa il 20% non aveCASCO — Estate 2017

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vano ottenuto benefici. Pochi studi d’altronde hanno dimostrato il beneficio di vari trattamenti: 2 piccoli studi randomizzati doppio cieco hanno mostrato il positivo impatto dell’agopuntura, 1 studio quello dell’esercizio fisico e della vitamina D. Un altro studio ha valutato l’incidenza di sindrome del tunnel carpale in 3864 pazienti in post-menopausa ad alto rischio di carcinoma mammario randomizzate a ricevere anastrozolo versus placebo per 5 anni36. La sindrome era riferita da 65 pazienti (3,4%) sottoposte ad anastrozolo e 31 pazienti (1,6%) a placebo. Una sindrome severa era riferita da 10 pazienti, di cui 8 trattate con anastrozolo. Fattori di rischio erano un’alta BMI e la comparsa di sintomi muscoloscheletrici dopo l’ingresso nello studio. Sono state sottoposte a chirurgia 18 pazienti (0, 9%) versus 6 (0,3%), rispettivamente. Vampate di calore Nel 2016 è stata pubblicata una metanalisi che ha incluso 12 studi che hanno valutato l’efficacia dell’agopuntura nel trattamento delle vampate di calore in donne affette da carcinoma della mammella37. La metanalisi non ha evidenziato effetti favorevoli della agopuntura nel ridurre la frequenza delle vampate di calore. Vi era d’altronde una marcata eterogeneità degli studi. In un altro studio, 190 pazienti affette da carcinoma della mammella con vampate di calore, non sottoposte a terapia (antidepressivi, fitoestrogeni, terapia ormonale sostitutiva, farmaci omeopatici, ecc.) sono state randomizzate a ricevere un booklet in cui si standardizzava il trattamento della sindrome climaterica ± 10 sedute settimanali di agopuntura38. L’endpoint primario dello studio era il punteggio delle vampate di calore alla fine del trattamento. L’agopuntura era significativamente superiore alla fine del trattamento, a 3 e a 6 mesi. Lo studio presenta però importanti limiti: vi era uno sbilanciamento dell’arruolamento nei due bracci dello studio (105 versus 85 pazienti), vi era un dropout di pazienti maggiore nel braccio di controllo e lo studio non era doppiocieco. Neurotossicità periferica Nel corso degli anni sono stati sponsorizzati dal National Cancer Institute americano 15 studi sulla prevenzione-trattamento della neuropatia periferica da chemioterapia. Solo uno studio che ha valutato la duloxetina nel trattamento del dolore da neuropatia periferica ha dato risultati positivi. L’analisi di questi studi rappresenta l’oggetto di un lavoro che sottolinea alcune importanti lezioni tratte da questi studi39. In particolare la necessità di utilizzare i patients-related outcomes (in via di definizione anche nel nostro paese), la scoperta di predittori genetici della neurotossicità e l’eliminazione degli approcci pratici tradizionali come la valutazione della tossicità con i CTCAE. Inoltre va aggiunto che gli studi iniziali includevano uno scarso numero di pazienti che non potevano dimostrare differenze significative tra i gruppi a confronto. Uno studio pubblicato nel 2016 ha confrontato la neu12

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rotossicità periferica acuta e cronica indotta da oxaliplatino e paclitaxel40. I sintomi da neuropatia acuta raggiungono l’acme circa al 3° giorno e l’insorgenza al primo ciclo predice la presenza nei cicli successivi. Quelli acuti da paclitaxel hanno simile intensità nei vari cicli e si risolvono fra i cicli. Quelli acuti da oxaliplatino hanno intensità di circa la metà al primo ciclo rispetto all’ultimo e non si risolvono completamento fra i cicli. Ambedue i farmaci inducono una neuropatia cronica prevalentemente sensitiva. La neuropatia da oxaliplatino peggiora dopo la fine della terapia e inizia a migliorare dopo 3 mesi dalla fine. Quella da paclitaxel comincia a migliorare immediatamente dopo la fine della chemioterapia. Durante il trattamento l’incidenza di neuropatia da paclitaxel è simile alle mani e ai piedi, quella da oxaliplatino è più frequente alle mani. Un altro studio ha esaminato le correlazioni fra comorbilità e sviluppo di una neuropatia periferica in pazienti ≥ 65 anni sottoposti a una chemioterapia a base di taxani41. Sono entrati nello studio i pazienti che hanno partecipato a studi di fase II/III dello SWOG sottoposti a taxani dal 1999 al 2011. Le comorbilità considerate erano: diabete, ipotiroidismo, ipertensione, ipercolesterolemia, infezioni da varicella-zooster, malattie autoimmuni e malattie vascolari periferiche. Di 1401 pazienti inclusi nell’analisi 251 (18%) presentavano una neuropatia periferica di grado 2-4. I pazienti sottoposti a paclitaxel presentavano più neuropatia (25% versus 12%) rispetto a quelli trattati con docetaxel. L’associazione con derivati del platino ne aumentava l’incidenza. Per ogni aumento di un anno di età il rischio di neuropatia periferica aumentava del 4%. Il rischio nei pazienti diabetici è doppio rispetto a pazienti non diabetici mentre il rischio nei pazienti con malattie autoimmuni è la metà rispetto a pazienti non affetti. In conclusione l’età e la storia di diabete sono fattori prognostici indipendenti dello sviluppo di neuropatia periferica. Per i pazienti diabetici tali farmaci vanno usati solo se non ci sono alternative terapeutiche. Un altro studio ha valutato l’attività di guanti e calzini ghiacciati posizionati nella mano e nel piede dominante per 90 minuti in pazienti con carcinoma della mammella sottoposte a chemioterapia con paclitaxel per almeno 12 cicli (80 mg/m2 dose)42. La mano ed il piede non dominante servivano come braccio di controllo. L’endpoint primario dello studio era l’incidenza di neuropatia periferica indotta da chemioterapia. Di 44 pazienti inserite nello studio 4 non rispettavano i criteri di eleggibilità e 4 non hanno portato a termine i previsti 12 cicli di paclitaxel. Nei 36 pazienti valutabili l’incidenza del sintomo (28% versus 81%) così come la sensazione di dolore, i formicolii o la pesantezza che interferiscono con le attività quotidiane erano significativamente inferiori nelle mani e nei piedi con guanti e calzini ghiacciati. Nessun paziente sospendeva il trattamento per intolleranza al freddo. I guanti ed i calzini ghiacciati sembrano quindi ridurre i sintomi soggettivi e obiettivi della neuropatia periferica indotta da paclitaxel. Essendo lo studio non doppio cieco né randomizzato sono necessari ulteriori studi per determinare il ruolo di questa tecnica. In modelli animali ed in uno studio di fase I il calmanga-


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fodipir ha dimostrato un’attività nella prevenzione della neurotossicità periferica da oxaliplatino. Nel 2016 uno studio di fase II doppio cieco, placebo-controllato è stato eseguito in 173 pazienti con carcinoma metastatico del colon-retto sottoposti a FOLFOX-643. Il calmangafodipir alla dose di 2 e 5 μg/kg (inizialmente 10 μg/kg) per via endovenosa in 5 minuti era somministrato dieci minuti prima di ogni ciclo di chemioterapia. L’endpoint primario dello studio era la tossicità neurologica dopo ogni ciclo di chemioterapia. Il calmangafodipir era ben tollerato. La tossicità neurologica periferica era significativamente minore con il calmangafodipir (5 μg/kg) rispetto al placebo a partire dal 3° ciclo fino all’8° ciclo di chemioterapia. Il farmaco sembra avere un’efficacia dosedipendente persistente che non interferisce con l’attività antitumorale del FOLFOX-6. È però necessario uno studio di fase III, attualmente in corso, per definire il ruolo del calmangafodipir. Versamento pleurico maligno Il ruolo dei FANS nel trattamento del versamento pleurico maligno non è noto, anche se alcuni esperti raccomandavano di non usarli perché potevano ridurre l’effetto della pleurodesi, così come non è noto se i risultati della pleurodesi sono influenzati dalle dimensioni del tubo. Uno studio fattoriale 2x2 di fase III eseguito in 320 pazienti sottoposti a pleurodesi per versamento pleurico maligno (toracoscopia in 206 pazienti durante la quale si posizionava un tubo 24F, che erano randomizzati a ricevere un FANS o un oppioide e 114 pazienti divisi in 4 gruppi: tubo 24F e tubo 12 F ambedue randomizzati a ricevere FANS o oppioidi)44. I punteggi del dolore non erano significativamente diversi fra FANS e oppioidi (anche se più rescue erano somministrati a chi riceveva FANS) così come i fallimenti della pleurodesi a 3 mesi. Dolore era inferiore con tubo 12F che però dava più fallimenti della pleurodesi. Broncorrea Una revisione sistematica della letteratura ha identificato solo 20 case reports e case series sul trattamento sintomatico della broncorrea in pazienti con neoplasie polmonari, in particolare carcinomi bronchioloalveolari45. I trattamenti riportati come efficaci sono: steroidi, macrolidi, indometacina per via inalatoria, octreotide e inibitori della tirosin chinasi. Con alcuni di questi farmaci si osservava un impatto rilevante sui sintomi associati alla broncorrea quali tosse e dispnea. Tossicità auricolare Una messa a punto ha analizzato la tossicità sull’orecchio dei derivati del platino e dei trattamenti di supporto quali aminoglicosidi e diuretici di ansa. La prevalenza di tossicità auricolare in pazienti che hanno ricevuto farmaci ototossici varia dal 4% al 90%. In questi pazienti è necessario fare controlli dell’udito più frequenti46. Tossicità oculare Le nuove target therapies sono state correlate ad un ampio spettro di tossicità oculare quali congiuntiviti, visione

non chiara, cheratite, neurite ottica e retinopatie indotto da MEK inibitori. Tutte queste tossicità oculari sono riassunte in un lavoro pubblicato nel 2016 che richiede un interesse da parte del mondo oncologico47. •

Bibliografia 1. Paice JA, et al. J Clin Oncol 2016; 34: 3325-45. 2. Dowell D, et al. JAMA 2016; 315: 1624-45. 3. van den Beuken-van Everdingen MH, et al. J Pain Symptom Manage 2016; 51: 1070-90. 4. Roberto A, et al. J Pain Symptom Manage 2016; 51: 1091-102. 5. Bandieri E, et al. J Clin Oncol 2016; 34: 436-42. 6. Flory JH, et al. J Pain Symptom Manage 2016; 51: 79-87. 7. Roila F, et al. Ann Oncol 2016; 27: v119-v133. 8. Navari RM, et al. N Engl J Med 2016; 375: 134-42. 9. Hashimoto H, et al. J Clin Oncol 2016; 34 (suppl.): abstract 10111 10. Weycker D, et al. Support Care Cancer 2016; 24: 2309-16. 11. Lambertini M, et al. Support Care Cancer 2016; 24: 1285-94. 12. Farge D, et al. Lancet Oncol 2016; 17: e452-466. 13. Moslehi JJ. N Engl J Med 2016; 375: 1457-67. 14. Farge D, et al. Lancet Oncol 2016; 17: e452-466. 15. Thavendiranathan P, et al. J Clin Oncol 2016; 34: 2239-46. 16. Dang CT, et al. J Clin Oncol 2016, 34: 1030-3. 17. Brann AM, et al. JAMA Oncol 2016; 2: 1123-4. 18. Truong SR, et al. Oncologist 2016, 21: 666-70. 19. Boekhout AH, et al. JAMA Oncol 2016, 2: 1030-7. 20. Demeestere I, et al. J Clin Oncol 2016; 34: 2568-74. 21. Lambertini M, et al. JAMA 2015; 314: 2632-40. 22. Munhoz RR, et al. JAMA Oncol 2016; 2: 65-73. 23. Melosky B, et al. J Clin Oncol 2016; 34: 810-5. 24. Leyland-Jones B, et al. J Clin Oncol 2016; 34: 1197-1207. 25. Zick SM, et al. JAMA Oncol 2016; 2: 1470-6. 26. Abdel-Rahman O, et al. Clin Oncol 2016; 28: e127-e138 27. Ferguson CM, et al. J Clin Oncol 2016; 34: 691-8. 28. Ahn S, et al. J Clin Oncol 2016; 34: 655-8. 29. Asdourian MS, et al. Lancet Oncol 2016; 17: e392-405. 30. Temel J, et al. Lancet Oncol 2016; 17: 519-31. 31. Takayama K, et al. Support Care Cancer 2016; 24: 3495-505. 32. Hui D, et al. J Pain Symptom Manage 2016; 52: 8-16. 33. Minchom A, et al. Eur J Cancer 2016; 61: 102-10. 34. Hui D, et al. J Pain Symptom Manage 2016; 52: 459-68. 35. Lombard GM, et al. Support Care Cancer 2016; 24: 2139-46. 36. Spagnolo F, et al. J Clin Oncol 2016; 34: 139-43. 37. Salehi A, et al. Support Care Cancer 2016; 24: 4895-9. 38. Lesi G, et al. J Clin Oncol 2016; 34: 1795-802. 39. Majithia N, et al. Support Care Cancer 2016; 24: 1439-44. 40. Pachman DR, et al. Support Care Cancer 2016; 24: 5059-68. 41. Hershman DL, et al. J Clin Oncol 2016; 34: 3014-22. 42. Hanai A, et al. J Clin Oncol 2016; 34 (suppl; abstr 10022). 43. Glimelius B, et al. J Clin Oncol 2016; 34: (suppl; abstr 10018). 44. Rahman NM, et al. JAMA 2015; 314: 2641-53. 45. Rèmi C, et al. J Pain Symptom Manage 2016; 51: 916-25. 46. Landier W. Cancer 2016; 122: 1647-58. 47. Stjepanovic N, et al. Ann Oncol 2016; 27: 998-1005. CASCO — Estate 2017

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Gestione eventi avversi

Tossicità cardiaca indotta da immunoterapia

Chiara Scafati, Maria Francesca Currà Struttura Complessa di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni RIASSUNTO Una grande varietà di eventi avversi cardiaci è stata descritta in corso di immunoterapia con inibitori dei check point immunitari. La miocardite rappresenta il fenomeno più frequente con un’incidenza globale inferiore all’1%. Pur essendo forme molto rare e spesso segnalate in casi isolati, la loro precoce seppur atipica modalità di presentazione e la loro rapida evolutività ne impongono una pronta individuazione ed una tempestiva gestione. I meccanismi patogenetici alla base della cardiotossicità sono stati solo in parte elucidati e non sono stati finora individuati marcatori clinici e bioumorali predittivi. Non vi sono dati che supportino l’esecuzione di uno screening cardiologico completo ed uno stretto monitoraggio clinico è da riservarsi ai soli pazienti con patologie cardiovascolari preesistenti ed a maggior rischio di deterioramento della funzionalità cardiaca. Parole chiave. Immunoterapia, cardiotossicità, miocardite, biopsia miocardica, metilprednisolone.

SUMMARY

Cardiotoxicity generated by immunotherapy A large spectrum of cardiac adverse events has been described with immune checkpoints inhibitors. Myocarditis is the most common event and it has an overall incidence of less than 1%. Although they are very rare and often observed in isolated cases, their early and atypical presentation and their rapid development require a prompt detection and timely management. The cardiotoxicity pathogenesis has been only partially elucidated and have not been identified so far clinical and biochemical predictive markers. There are no data to support the implementation of a comprehensive cardiac screening and close clinical monitoring is to be reserved only for patients with pre-existing cardiovascular disease and an increased risk of deterioration of heart function. Key words. Immunotherapy, cardiotoxicity, myocarditis, myocardial biopsy, methylprednisolone.

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Introduzione Anticorpi immunomodulanti diretti contro recettori espressi sui linfociti T (CTLA-4 e PD1/PD-L1), e coinvolti nell’evasione immunitaria cancro-correlata, sono stati introdotti con successo nell’armamentario terapeutico di diversi tipi di neoplasie, ottenendo un miglioramento del tasso di risposte obiettive ed un prolungamento della sopravvivenza globale. Sebbene, quindi, l’introduzione degli inibitori di punti chiave di controllo della risposta immunitaria antitumorale abbia finora rivoluzionato l’outcome clinico di melanoma, carcinoma polmonare non a piccole cellule (NSCLC), carcinoma renale ed uroteliale, l’utilizzo di tali farmaci è spesso associato ad un vasto spettro di eventi avversi immuno-correlati, più frequenti con trattamenti di combinazione rispetto a monoterapie e sostenuti da un’aberrante attivazione linfocitaria. Eventi avversi si verificano nel 64-80% (23% di grado 3/4) dei pazienti trattati con ipilimumab1,2, nel 79% (13% di grado 3/4) di quelli sottoposti a terapia con pembrolizumab3 e nel 96% (55% di grado 3/4) di quelli che ricevono ipilimumab e nivolumab in combinazione4. Colite, epatite, rash ed endocrinopatie sono i fenomeni descritti più comunemente, ma pressoché tutti gli organi ed apparati fungono da potenziale bersaglio di tossicità da inibitori dei checkpoint immunitari3,5. Per quanto concerne gli eventi cardiaci, rari e poliedrici nella loro presentazione clinica, sono state descritte miocarditi in meno dell’1% dei pazienti ed ancor più rari casi di pericarditi6, fibrosi miocardica7, sindrome Takotsubo-like8 e scompenso cardiaco9. Da non trascurare in tale contesto, il potenziale danno cardiaco secondario ad altre forme di tossicità immuno-correlata, come ad esempio la tachicardia che si presenta in corso di ipertiroidismo o le aritmie relate agli squilibri idroelettrolitici indotti dalla diarrea. Incidenza Gli eventi avversi cardiaci rimangono del tutto eccezionali nei trial di fase III finora condotti con inibitori di PD1/PD-L1 e CTLA-4 anche se diversi fattori potrebbero contribuire alla mistificazione della loro reale incidenza. Una limitazione intrinseca agli studi clinici oncologici riguarda ad esempio l’inclusione di una popolazione selezionata di pazienti che, in assenza di una pregressa storia di cardiopatia, risulta esposta ad un minor rischio di complicanze cardiovascolari. In secondo luogo, la non pianificata esecuzione di un monitoraggio cardiologico attivo è un elemento che inficia sulla rilevazione di effetti caratterizzati da una proteiforme modalità di presentazione e da caratteristiche cliniche atipiche; infine, è molto probabile che il ricco spettro di eventi avversi immuno-relati rappresenti un fattore confondente nell’am-


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bito del corretto inquadramento diagnostico di casi poco frequenti e raramente fatali. La miocardite rappresenta il fenomeno descritto con maggiore frequenza: l’incidenza si aggira intorno allo 0,06% nei pazienti sottoposti a terapia con anti PD1 ed arriva fino allo 0,27% con un trattamento di combinazione anti PD1/anti CTLA4. Tali dati fanno riferimento a studi di farmacovigilanza in cui sono stati individuati 18 casi di miocardite severa in un’ampia casistica di 20.594 pazienti (incidenza globale 0,09%) trattati con ipilimumab e nivolumab. L’evento, contraddistinto da una rapida evolutività clinica, risulta abbastanza precoce nella sua presentazione, essendo caratterizzato da un tempo mediano di insorgenza di 17 giorni con range compreso tra i 13 e i 64 giorni. Due casi di miocardite fatale associata a miosite e rabdomiolisi sono stati segnalati durante trattamento con nivolumab ed ipilimumab in pazienti affetti da melanoma. Un massivo infiltrato T-linfocitario è stato evidenziato autopticamente nel contesto della muscolatura scheletrica e in quella miocardica con un secondario coinvolgimento del sistema di conduzione cardiaco10. Per quanto concerne le rimanenti forme di tossicità, contraddistinte come già anticipato, da maggiore rarità, in uno studio retrospettivo in cui è stata valutata una vasta casistica proveniente da sei centri oncologici americani e tedeschi, sono stati individuati otto pazienti con eventi avversi attribuibili all’utilizzo di inibitori dei checkpoint immunitari. Escludendo i casi di miocardite, di cui uno risultato fatale, sono state descritte due cardiomiopatie con riduzione della cinesi miocardica e quindi della frazione di eiezione ventricolare (rispettivamente in corso di trattamento con ipilimumab ed ipilimumab/nivolumab), un arresto cardiaco con pembrolizumab, un caso di fibrosi miocardica ed uno di scompenso cardiaco regredito con diuretici, indotti da ipilimumab11. Nel contesto degli studi di fase III al momento disponibili, ritroviamo un caso di versamento pericardico e di tamponamento

cardiaco in 287 pazienti con NSCLC sottoposti a terapia di seconda linea con nivolumab12, un caso di infarto miocardico in corso di trattamento con pembrolizumab su un totale di circa 700 pazienti con NSCLC13 trattati con pembrolizumab, un caso di ipotensione indotto da nivolumab14, un arresto cardiaco provocato da alterazioni metaboliche con ipilimumab e 4 casi di ipertensione15 in pazienti affetti da melanoma. Patogenesi Il pathway connesso ai checkpoint immunitari ha un ruolo peculiare nella preservazione dell’integrità tessutale e nella protezione dal danno d’organo indotto da un’eccessiva risposta infiammatoria. Dati preclinici provenienti da studi condotti in modelli murini, hanno confermato come la deplezione genica di PD-1/PDL1 e CTLA-4 si associ allo sviluppo di miocardite e cardiomiopatia dilatativa sostenute, in alcuni casi, da elevati livelli di immunoglobuline di tipo G dirette contro la troponina I miocitaria e la miosina cardiaca16-20. È molto probabile, inoltre, che l’ampio spettro di eventi tossici sia relato alla produzione di cellule T specifiche dirette contro auto-antigeni miocardici e del sistema di conduzione cardiaco, anche se nessun autoanticorpo è stato finora rilevato in vivo in pazienti affetti da miocardite o da altre forme di tossicità cardiaca. L’attivazione T linfocitaria potrebbe essere innescata da antigeni comuni ossia condivisi da cellule tumorali e cellule dei tessuti muscolari e cardiaci, o sostenuta da antigeni diversi ma strutturalmente omologhi (figura 1) come suggerito dagli elevati valori di desmina e troponina rilevati in corso di miocardite immuno-relata. È stato infine ipotizzato un ruolo delle infezioni virali nella stimolazione linfocitaria anche se tale dato non ha ancora trovato conferme nei casi analizzati21.

Figura 1. Meccanismo della tossicità cardiaca da immunocheckpoint inhibitor.

Cellule tumorali Risposte efficaci delle cellule T Nivolumab PD

Blocco del punto di controllo

-1

4

CTLA

Attivazione delle cellule T reattive muscolari e tumorali Ipilimumab

Cellula T PD-L1 (CD274)

Miociti

Miociti lesi

Eventi avversi immuno-relati (es. cardiotossicità autoimmune)

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Clinica L’espressione clinica della tossicità immuno-relata è ricca e variegata, sia per quello che riguarda la modalità di presentazione sia per quanto concerne l’entità e l’evolutività del quadro sintomatologico. Dolore toracico atipico, dispnea, segni di congestione venosa come edemi ed ascite, aritmie e shock cardiogeno sono solo tra i più tipici esempi che rientrano nella più complessa fenomenologia clinica del danno cardiaco immuno-mediato. Dall’analisi dei pochi casi descritti in letteratura è emersa spesso la segnalazione di un evento avverso in pazienti con comorbilità cardiovascolari preesistenti (cardiopatia ischemica, arteriopatia obliterante periferica, cardiomiopatia dilatativa, fibrillazione atriale anamnestica) indicando, forse, una maggiore suscettibilità al danno immunitario in tale contesto. Tale dato necessita tuttavia di solide conferme considerando l’asintomaticità e il buon compenso clinico di tutti i pazienti arruolati negli studi e non giustifica, al momento, l’esecuzione di uno screening cardiologico antecedente l’inizio dell’immunoterapia. È importante sottolineare come la tossicità cardiaca si presenti solo raramente in forma isolata, associandosi nella maggior parte dei casi a tiroidite, uveite, colite, epatite ed ipofisite. Il coinvolgimento di due o più organi è stato riportato nel 7% dei pazienti trattati con ipilimumab e nel 31% di quelli sottoposti a terapia di combinazione ipilimumab/nivolumab22. Dati preliminari sembrano suggerire una correlazione tra l’insorgenza di eventi avversi immuno-mediati ed una migliore e più duratura risposta terapeutica agli inibitori dei checkpoint immunitari anche se la fondatezza di tale ipotesi dovrà essere confermata in futuro su casistiche numericamente più ampie. Diagnosi e terapia La diagnosi è spesso difficile da effettuare alla luce della mancanza di aspetti clinici, laboratoristici o strumentali peculiari e patognomonici di un danno immuno-mediato. Nei più frequenti casi di miocardite sono state descritte alterazioni elettrocardiografiche aspecifiche e, in presenza di coinvolgimento del sistema di conduzione, disturbi della ripolarizzazione come allungamento del tratto PR, alterazioni del tratto ST (sovra-sottoslivellamento) ed aritmie. I valori della troponina risultano spesso nei limiti della norma e l’ecocardiogramma può rilevare reperti compatibili con cardiomiopatia dilatativa o deficit più o meno significativi della funzione contrattile ventricolare. Non è stato finora descritto alcun danno coronarico nei casi in cui sia stata eseguita una coronarografia. La diagnosi differenziale deve essere posta con cause infettive (enterovirus, adenovirus, CMV, virus respiratorio sinciziale, parvovirus B19, virus H1N1, HSV6) e tossiche (es. farmaci, alcool)23-26. Il gold standard diagnostico rimane la biopsia endomiocardica che consente di identificare, in accordo con i criteri di Dallas, il tipico infiltrato linfocitario associato o meno a necrosi dei miocardiociti. L’utilizzo sempre crescente dell’immunoistochimica e della PCR ha permesso di migliorare di gran lunga l’accuratezza diagnostica della miocardite superando i limiti intrinseci alla variabilità di interpretazione bioptica interindividuale27,28. Tenendo conto della potenziale evoluzione fatale degli eventi cardiaci è fon16

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damentale la collaborazione con uno specialista cardiologo che consenta di instaurare, accanto al trattamento immunosoppressivo, una terapia di supporto adeguata (diuretici, ACE inibitori, beta bloccanti). La gestione iniziale prevede l’utilizzo di terapia corticosteroidea ad alte dosi (metilprednisolone 1-2 mg/Kg/die) riservando l’utilizzo di infliximab o micofenolato ai casi che non presentino un miglioramento clinico nell’arco di 3-4 giorni. •

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Il punto su...

Il ruolo della cannabis in oncologia

Sonia Fatigoni, Fausto Roila Struttura Complessa di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

RIASSUNTO Recentemente la cannabis è tornata ad essere protagonista suscitando un acceso dibattito circa la possibilità di utilizzarla a scopi medici, dopo che alcuni studi degli anni ‘70-’80 avevano evidenziato un qualche ruolo nella terapia di supporto in oncologia, al punto che dal 2000 è stata legalizzata, per uso medico, prima in Canada, poi in numerosi altri Stati. Dal punto di vista scientifico, però, le evidenze sono molto limitate, sia nella terapia di supporto-palliativa (controllo del dolore, nausea e vomito da chemioterapia, anoressia) sia ancora di più se si tratta del possibile ruolo come antitumorale. Oltre al problema delle indicazioni, molti altri aspetti restano da chiarire, come ad esempio il tipo di cannabis, il dosaggio e la via di somministrazione da utilizzare, i possibili effetti collaterali e la loro gestione, le possibili interazioni farmacologiche. L’uso della cannabis in oncologia non sembra offrire benefici aggiuntivi rispetto ai numerosi farmaci già disponibili nel controllo dei sintomi in pazienti affetti da cancro. Parole chiave. Cannabis, marijuana, oncologia, utilizzo medico.

SUMMARY

The role of cannabis in oncology Recently, the cannabis caused a heated debate about the possibility of a medical use, after several studies in the 70s and 80s, that evidenced a possible role in oncology supportive care. For this reason, since the year 2000 the cannabis has been legalized for medical use, first in Canada, then in many other countries. However, the scientific evidence is very limited, both in the supportive-palliative care (pain control, chemotherapy-induced nausea and vomiting, anorexia) and even more in the anti-tumoral setting. In addition to the problem of the indications, many other aspects remain to be clarified, such as the type of cannabis, the dosage and the route of administration to be used, the possible side effects and their management, the possible drug interactions. The use of cannabis in oncology, does not seem to offer ad18

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ditional benefits compared to many drugs already available in the control of symptoms in cancer patients. Key words. Cannabis, marijuana, oncology, medical use.

Introduzione Negli ultimi anni si è assistito ad un notevole fermento intorno alla possibilità di utilizzare la cannabis a scopo medico. In Italia, dal 2006 è possibile prescrivere preparazioni magistrali di cannabis ad uso medico, cioè dronabinolo o sostanza attiva vegetale a base di cannabis, ossia la sostanza attiva che si ottiene dalle infiorescenze della cannabis, essiccate e macinate, da assumere sotto forma di decotto o per inalazione con apposito vaporizzatore. Dal 2013 in Italia è prescrivibile dai neurologi un prodotto a base di estratti di cannabis per ridurre gli spasmi dolorosi nella sclerosi multipla. Dopo il Decreto Ministeriale del 9/11/2015, la cannabis per uso medico è divenuta prescrivibile in Italia per le seguenti indicazioni: il dolore cronico (soprattutto neuropatico) in caso le terapie con antinfiammatori non steroidei, steroidi e oppiacei si siano rivelate inefficaci; il dolore associato a spasticità, ad esempio nella sclerosi multipla, e a lesioni del midollo spinale, resistente a terapie convenzionali; nausea e vomito indotti da chemioterapia, radioterapia e terapie per l’HIV; la stimolazione dell’appetito nell’anoressia, cachessia e perdita dell’appetito in pazienti oncologici, affetti da AIDS e anoressia nervosa; il glaucoma, per ottenere un effetto ipotensivo; la riduzione dei movimenti involontari del corpo e facciali nella sindrome di Gilles de la Tourette. La prescrizione è indicata nei casi sopra riportati al fallimento delle terapie convenzionali standard ed è monitorata con un’apposita scheda ministeriale. I prodotti vegetali a base di cannabis venivano importati in Italia solo dall’Office of Medical Cannabis del Ministero della Salute olandese. Dal 2016 è stata avviata una produzione nazionale di cannabis per uso medico presso lo stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze (SCFM), in modo da garantire l’accesso a tale terapia a costi adeguati e in modo sicuro. Si tratta del prodotto Cannabis FM-2, contenente il 5-8% di tetraidrocannabinolo (THC) e il 7,5-12% di cannabidiolo (CBD). La rimborsabilità dei medicinali a base di cannabis non è prevista da tutte le regioni; quelle che, alla fine del 2016, avevano emanato leggi regionali a regolamentare l’erogazione dei farmaci cannabinoidi erano Puglia, Toscana, Liguria, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Marche, Abruzzo, Umbria, Sicilia, Basilicata, Emilia Romagna, Piemonte, Campania.


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Per maggiori informazioni si può consultare il sito del Ministero della Salute (www.salute.gov.it). In realtà la cannabis, detta anche marijuana nel linguaggio comune, ha una storia antica di secoli e ci sono testimonianze del suo utilizzo a scopi medici già nel 1800; poi agli inizi del XX secolo cominciarono ad essere emanate leggi per vietarne l’uso, sia a scopo ricreazionale che medico, sottolineando la limitata utilità e il rischio di abuso. Intorno al 2000 la California per prima, poi il Canada, e via via altri Stati legalizzarono di nuovo l’uso della cannabis. Tra le varie motivazioni, non si può non valutare anche il notevole guadagno che deriva dal commercio legale di cannabis. Al di là dei cenni storici e dei problemi politico-economici, cercheremo adesso di valutare dal punto di vista scientifico i dati che abbiamo a disposizione riguardanti l’uso della cannabis a scopo medico in oncologia. Meccanismo d’azione e sicurezza L’esatto meccanismo d’azione della cannabis non è ancora del tutto conosciuto, così come il funzionamento del nostro sistema endogeno di cannabinoidi. Le piante di cannabis generano oltre quattrocento composti chimici, di cui circa 80 sono cannabinoidi e oltre duecento non-cannabinoidi1. Dal punto di vista medico, tra le molecole attive non-cannabinoidi le più studiate sono i flavonoidi e i terpenoidi; tra i cannabinoidi ci sono il THC e il CBD. Il THC, che è il costituente più attivo della pianta, sviluppa la sua azione legandosi ai cosiddetti recettori dei cannabinoidi 1 e 2 (CB1 e CB2) e inibendo l’adenilato ciclasi e i canali del calcio, attivando invece i canali del potassio. I CB1 sono presenti in tutto il corpo e maggiormente nel sistema nervoso centrale; i CB2 invece si trovano soprattutto nelle cellule del sistema immunitario, specie i linfociti B. Verosimilmente ci sono anche altri recettori per i cannabinoidi endogeni, che non sono però ancora del tutto noti; tra questi è stato identificato di recente ad esempio il recettore GPR55. L’altro costituente della cannabis in alta concentrazione, in aggiunta al THC, è il CBD, che è un elemento non psicotropo, potente anti-infiammatorio e antagonista dei CB1 e CB2, ma con bassa affinità di legame; il CBD è un inibitore della cicloossigenasi e lipoossigenasi. Nella cannabis utilizzata a fini medici c’è un diverso rapporto di concentrazione tra CBD e THC rispetto alla cannabis per uso “ricreativo”. La cannabis ha un profilo di sicurezza favorevole; il THC può dare sedazione ma non è associato a depressione respiratoria; tra gli eventi avversi non terapeutici sul sistema nervoso centrale ci sono euforia, disorientamento, sonnolenza, vertigini, incoordinazione motoria e scarsa concentrazione; tra gli effetti periferici ci sono tachicardia, ipotensione, rossore congiuntivale, broncodilatazione, rilassamento muscolare, riduzione della motilità gastrointestinale. Il rischio di dipendenza è riportato in circa il 9% dei casi di utilizzo prolungato. Da studi sugli animali si stima che la dose letale per l’uomo possa essere intorno a 680 Kg fumati in 15 minuti, cioè pressoché impossibile da raggiungere2. La maggiore biodi-

sponibilità (circa 10-25%) si ha con il fumo o la vaporizzazione, rispetto all’assunzione per via orale (circa 2-20%). Sia il THC che il CBD vengono metabolizzati attraverso il citocromo P450, per cui ci possono essere interazioni farmacologiche significative con i potenti induttori o inibitori di tale citocromo. Dolore neoplastico L’effetto dei cannabinoidi sul dolore si pensa possa essere dovuto a diversi meccanismi: innanzitutto il legame con i CB1, con distribuzione prevalentemente nel sistema nervoso centrale, specie nelle aree deputate alla nocicezione, con una distribuzione simile a quella dei recettori per gli oppioidi; i cannabinoidi possono poi agire sui recettori sui mastociti, inibendo il rilascio di sostanze infiammatorie e favorendo il rilascio di oppioidi; possono anche avere un effetto sul dolore neuropatico inibendo la risposta al dolore acuto nelle fibre C. Sembra, infine, esserci un meccanismo di sinergismo con gli analgesici oppioidi, con un meccanismo non del tutto noto ed un’azione di inibizione della nocicezione a livello spinale e talamico2. Diversi studi clinici hanno valutato il possibile ruolo dei cannabinoidi nel dolore cronico, mentre i pochi studi effettuati sul dolore acuto, ad esempio post-operatorio, sono risultati negativi. Una revisione degli studi pubblicati fino al 20013 ha evidenziato un beneficio modesto dall’uso dei cannabinoidi, anche perché spesso il comparatore era la codeina, che in genere è usata nel dolore cronico di moderata intensità. Si trattava, inoltre, di studi piccoli, in cui in genere i pazienti potevano usare anche i loro analgesici abituali. Uno studio più recente, randomizzato, doppio-cieco, verso placebo, ha valutato su 360 pazienti (263 dei quali hanno completato le 5 settimane di durata dello studio) con neoplasia avanzata e dolore refrattario agli oppiacei, il nabiximols, un nuovo cannabinoide spray oromucosale, che è una combinazione 1:1 di THC e CBD4. I pazienti ricevevano nabiximols a tre livelli di dose, bassa (1-4 spray/die), media (6-10 spray/die) e alta (11-16 spray/die). Una riduzione del dolore medio del 30% negli ultimi 3 giorni della quinta settimana rispetto ai primi 3 giorni della prima settimana era l’endpoint primario. Non vi erano differenze significative tra nabiximols e il placebo. Le dosi media e bassa di nabiximols erano superiori al placebo quando si valutavano le differenze tra i trattamenti a livelli predefiniti del 10% o del 20% nelle 5 settimane (endpoint secondario). Un altro studio randomizzato, doppio cieco, placebocontrollato ha valutato una preparazione di THC e CBD in 177 pazienti con neoplasia avanzata e dolore non controllato con oppiacei. Lo studio valutava un estratto di THC-CBD, verso un estratto di THC, verso placebo. I risultati hanno evidenziato un 30% di riduzione del dolore con THC-CBD rispetto al placebo, mentre i risultati con il solo THC erano simili al placebo5. Va aggiunto che THC-CBD determinava un peggioramento della nausea e del vomito rispetto al placebo. Purtroppo si tratta di pochi studi, a volte con pochi pazienti e con differenti formulazioni di cannabinoidi, quindi tali CASCO — Estate 2017

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dati sono insufficienti per raccomandare l’uso di cannabinoidi in prima linea, perché ci sono troppe variabili che rendono i dati non conclusivi; ulteriori studi sono necessari per valutarne il ruolo come farmaco da usare al bisogno in aggiunta agli altri analgesici. Alcune metanalisi hanno evidenziato invece un possibile ruolo della cannabis nel dolore cronico neuropatico in pazienti non oncologici6-8. Nausea e vomito da chemio e radioterapia Il meccanismo preciso con cui i cannabinoidi sono in grado di contrastare la nausea ed il vomito indotti da chemioterapia (CINV) non è del tutto noto; è stato evidenziato che il THC agisce sui recettori localizzati nel nucleo del tratto solitario a livello dell’area postrema e che è in grado di contrastare gli effetti dei 5HT3 agonisti che inducono emesi. Numerosi studi hanno valutato il possibile ruolo dei cannabinoidi in questo contesto; i più studiati sono il dronabinolo, un THC sintetico, e il nabilone, un analogo sintetico del THC, entrambi con formulazioni orali, mentre più limitati sono i dati con i cannabinoidi per via inalatoria. È importante sottolineare alcuni aspetti: con i farmaci attualmente disponibili per la prevenzione della CINV (NK1 antagonisti, steroidi e 5HT3 antagonisti) si riesce a controllare il vomito in oltre il 90% dei pazienti; non ci sono studi che abbiano confrontato i cannabinoidi rispetto ai farmaci attualmente indicati per la CINV; l’uso della cannabis non è quindi raccomandato per la gestione della CINV e può eventualmente essere preso in considerazione solo in pazienti refrattari/intolleranti agli altri anti-emetici. Una revisione sistematica pubblicata nel 20019 ha valutato 30 studi che comparavano i cannabinoidi verso placebo o altri antiemetici in 1366 pazienti nella prevenzione dell’emesi acuta. I cannabinoidi valutati erano il nabilone orale, il dronabinolo orale e il levonandradolo intramuscolare. Tali cannabinoidi erano più efficaci rispetto a proclorperazina, metoclopramide, clorpromazina, aloperidolo, alizapride (tutti farmaci antiemetici che non trovano oggi indicazioni di rilievo nel controllo della nausea e del vomito da chemioterapia) in pazienti sottoposti a chemioterapia con moderato potere emetogeno, ma non in pazienti sottoposti a regimi altamente emetizzanti. Tra i principali effetti collaterali venivano riportati sedazione, euforia, vertigini, disforia, allucinazioni, depressione. In 18 studi era consentito il cross-over e dal 38% al 90% dei pazienti hanno preferito i cannabinoidi nei cicli successivi di terapia. Va sottolineato che tale revisione ha molti limiti legati a quelli degli studi riportati: i singoli studi erano piuttosto piccoli, i pazienti inclusi molto eterogenei, alcuni dei quali facevano già uso di cannabinoidi e con esperienza di emesi da chemioterapia pregressa, c’era molta variabilità nel tempo di somministrazione dei farmaci antiemetici, tutti elementi che influenzano in modo importante i risultati degli studi. Una successiva revisione pubblicata nel 200610 ha valutato 15 studi randomizzati per un totale di 600 pazienti con nabilone verso placebo o altri antiemetici come agenti di prima linea nella CINV. Il nabilone è risultato superiore rispetto a pro20

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clorperazina, domperidone e alizapride. Nella stessa metanalisi, in 14 studi con il dronabinolo su 681 pazienti, quest’ultimo è risultato superiore alla clorpromazina ed equivalente a metoclopramide, tietilperazina, e aloperidolo. Anche in questa revisione ci sono molte limitazioni, in quanto non viene specificato il tempo di somministrazione dei farmaci, il regime chemioterapico, il modo di valutare la nausea ed il vomito nei vari studi e le caratteristiche dei pazienti. Sono stati pubblicati anche diversi studi che hanno valutato la combinazione di cannabinoidi con altri antiemetici, evidenziando una possibile sinergia tra THC e proclorperazina, tra dronabinolo e proclorperazina, mentre non sembra essere più efficace rispetto ai singoli agenti la combinazione di dronabinolo e ondansetron11-13. Va anche sottolineato che ci sono delle segnalazioni di iperemesi da cannabinoidi anche se in genere in persone che ne fanno uso da lungo tempo. Riguardo all’uso dei cannabinoidi nell’emesi indotta da radioterapia ci sono solo alcune segnalazioni e pochissimi piccoli studi, da cui non è possibile trarre delle conclusioni definitive circa la possibile efficacia14-16. Anoressia nel paziente neoplastico I dati circa il possibile beneficio dall’uso dei cannabinoidi come agenti anti-anoressia sono molto scarsi e sembrerebbero indicare una non efficacia in questo contesto, diversamente da alcune esperienze nei malati di AIDS e demenza, in cui l’uso dei cannabinoidi ha portato ad uno stimolo dell’appetito e ad un aumento del peso corporeo. Nei pazienti oncologici ci sono solo pochi e piccoli studi: uno studio ha valutato il dronabinolo orale da solo verso il megestrolo acetato verso la combinazione dei due farmaci senza evidenziare alcun beneficio in termini di aumento di peso in nessuno dei tre bracci17; un secondo studio ha valutato un estratto della cannabis ed è stato chiuso precocemente per mancanza di beneficio18; un terzo studio ha valutato il dronabinolo orale riscontrando un aumento del senso del gusto nei pazienti ma senza che questo si sia tradotto in un aumento del peso corporeo19. Attività antitumorale L’ipotesi di un possibile ruolo dei cannabinoidi come agenti anticancro nasce dal fatto che i cannabinoidi endogeni e i loro recettori mediano una serie di attività cellulari che regolano la proliferazione, l’adesione e l’invasione cellulare e sembrerebbero in grado di indurre la morte cellulare attraverso la via che stimola l’apoptosi. Ci sono varie evidenze in vitro e in vivo su animali che dimostrano l’attività antiproliferativa dei cannabinoidi, ad esempio su cellule umane di glioma, linfoma, neoplasie di polmone, tiroide, pancreas, endometrio, mammella, prostata, pelle. Al momento, però, è stato pubblicato un solo studio che ha valutato nell’uomo l’effetto dei cannabinoidi contro le cellule tumorali20. Si tratta di uno studio in cui su 9 pazienti con recidiva di glioblastoma multiforme è stata valutata la somministrazione intratecale di THC, che ha evidenziato un rallentamento della crescita tumorale in 2 dei 9 pazienti.


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Ci sono inoltre altri studi in corso: uno che valuta nabiximols verso placebo, ambedue associati a temozolomide nella recidiva di glioblastoma multiforme; altri due che valutano il CBD come agente antitumorale in vari tumori solidi; uno che valuta la cannabis per il dolore e l’infiammazione da carcinoma del polmone, un altro che valuta il cannabidiolo nei pazienti con neoplasia resistente a chemioterapia. Ci sono poi studi in vitro e su animali che valutano il ruolo dei cannabinoidi in aggiunta ai chemioterapici. Al momento, quindi, non ci sono assolutamente dati sufficienti per poter raccomandare un impiego dei cannabinoidi come antitumorali, anche perché ci sono anche piccole evidenze sempre da studi preclinici che i cannabinoidi a basse dosi possono stimolare e non inibire la crescita tumorale e perché come sempre avviene nella ricerca, quello che viene osservato in vitro o negli animali, non necessariamente poi può essere traslato nella pratica clinica21. Conclusioni Dai dati che abbiamo passato in rassegna, emerge in modo chiaro che i dati riguardanti la cannabis per uso medico in oncologia sono piuttosto frammentati e di scarsa qualità, sia per quello che riguarda le terapie di supporto-palliative, sia ancora di più per quello che riguarda un possibile uso della cannabis come agente antitumorale. In considerazione dei risultati dimostrati con i farmaci che abbiamo attualmente a disposizione, in particolare per il controllo dell’emesi da chemioterapia e del dolore cronico, la cannabis sembrerebbe non aggiungere molto. Oltre a ciò vanno considerate le molte incertezze riguardo alla migliore via di somministrazione (la più sicura sembrerebbe la vaporizzazione, in relazione anche alla maggiore velocità di azione), al dosaggio ottimale da utilizzare, alla frequenza della somministrazione, al migliore rapporto tra THC e CBD (in teoria dovrebbe essere tra 5%:6% e 9%:9%, ma poi dipende molto dal paziente, dall’età, patologie e farmaci concomitanti, se ha mai fatto uso di cannabis e così via). Appare quindi necessario effettuare ulteriori studi clinici, ben disegnati e con un adeguato numero di pazienti, per verificare il reale ruolo dei cannabinoidi, prima di poterne raccomandare l’uso nella pratica clinica. •

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Casi clinici

Management dell’anemia in pazienti affette da carcinoma mammario metastatico: rischi/benefici degli agenti che stimolano l’eritropoiesi Enzo Ballatori Statistico medico, Spinetoli (AP)

Fausto Roila SC di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

la sopravvivenza globale (OS), il tempo alla progressione (Time To Progression, TTP), la risposta obiettiva. L’esame di questo studio dà l’opportunità di riflettere, oltre che sui suoi risultati, anche su aspetti metodologici di grande interesse per gli studi condotti in altri settori della ricerca clinica.

RIASSUNTO Sono stati discussi i punti metodologicamente più rilevanti di uno studio di non inferiorità di epoietina alfa vs le migliori terapie standard nelle pazienti anemiche affette da carcinoma mammario metastatico sottoposte a chemioterapia di prima o seconda linea. Parole chiave. Studi di non inferiorità, confronti multipli, PFS, OS.

SUMMARY

On the risk/benefit of erithropoietin stimulating agents (ESAs) in the management of anemia in patients with metastatic breast cancer submitted to first or second line of chemotharapy The most relevant methodological issues of a non-inferiority study on the epoetin alfa (EPO) vs the best standard care (BSC) in anemic patients with metastatic breast cancer submitted to chemotherapy are discussed. Key words. Non-inferiority study, multiple comparisons, PFS, OS.

Background Numerosi studi hanno dimostrato che l’uso di agenti che stimolano l’eritropoiesi (ESAs) presenta notevoli vantaggi in pazienti anemici sottoposti a chemioterapia: aumentano i livelli di emoglobina, riducono il numero di trasfusioni e sembrano migliorare la qualità di vita. Altri studi recenti, però, hanno mostrato risultati negativi nell’uso degli ESAs in relazione agli outcome del tumore, come ad esempio minore durata sia della sopravvivenza globale che di quella libera da progressione. Tali studi, però, non sono esenti da critiche; inoltre, prima di rinunciare ai notevoli benefici degli ESAs occorre essere ragionevolmente certi della loro nocività. Ciò ha indotto un gruppo di ricerca a programmare ed eseguire lo studio sintetizzato nella scheda. Si tratta di un ampio studio multicentrico di non inferiorità volto a fornire una risposta al quesito se si debba rinunciare, o meno, all’uso degli agenti che stimolano l’eritropoiesi (ESAs) per via della loro influenza negativa sugli outcome del tumore quali la sopravvivenza libera da progressione (PFS), 22

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a. Lo studio è di non inferiorità. Sui difetti e sugli inconvenienti degli studi di non inferiorità si rinvia a quanto esposto nel n. 3 di CASCO. La scelta del disegno di non inferiorità appare appropriata, ma, in questo contesto, desideriamo sottolineare l’arbitrarietà insita nello stabilire l’estremo inferiore dell’intervallo atto a definire “non inferiore” un trattamento (EPO) rispetto alla terapia standard (BSC). EPO è definito non inferiore a BSC se la riduzione dell’Hazard Ratio (HR) per la PFS (interpretabile in prima approssimazione come riduzione del rischio di progressione) non supera il 15% (HR = 1,15). Da questa scelta dipendono importanti caratteristiche dello studio, tra cui la sua dimensione. Ad esempio, se ad alcuni questo livello dovesse sembrare eccessivo, si può pensare che se fosse stato fissato, ad esempio, al 10%, il numero dei pazienti da arruolare sarebbe stato così elevato da rendere probabilmente infattibile lo studio. Ciò fa ipotizzare che questo valore sia stato scelto non tanto perché un aumento del rischio del 15% consenta di ritenere “non inferiore” (in termini di PFS) l’uso di EPO rispetto alle sole BSC (mentre ad esempio il 10 o il 12% potrebbero essere ritenute scelte più appropriate), ma che questa soglia sia stata fissata per ragioni di fattibilità dello studio stesso. In generale, se in uno studio di non inferiorità si fissasse un clinicamente credibile estremo inferiore dell’intervallo di “non inferiorità” nella maggior parte dei casi lo studio sarebbe infattibile per via della esagerata dimensione del campione dei pazienti da arruolare. Scegliere la soglia della riduzione del rischio clinicamente rilevante in funzione di una dimensione fattibile dello studio ci sembra una stortura. b. Uso del modello di Cox. Per le elaborazioni principali (quelle legate al tempo, cioè PFS, OS, TTP) è stato scelto il modello di Cox in base al quale è stata anche determinata la dimensione dello studio. Purtroppo, però, il modello di Cox si basa sull’ipotesi del Proportional Hazard (PH), cioè del rischio proporzionale tra i due trattamenti, la cui validità può essere stabilita solo sui dati rilevati: solo a partire dai risultati dello studio si può determinare se l’ipotesi di PH sia accettabile e, quindi, se il modello di Cox è applicabile. Se l’ipotesi del PH non è verificata i ri-


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SCHEDA

Leyland-Jones B, Bondarenko I, Nemsadze J, et al. A Randomized, open-label, multicenter, phase III study of epoetin alfa versus best standard care in anemic patients with metastatic breast cancer receiving standard chemotherapy. J Clin Oncol 2016; 34: 1197-207.

Si tratta di uno studio di non inferiorità volto a valutare l’impatto di epoietina alfa (EPO) usata per trattare l’anemia indotta da chemioterapia, rispetto alle migliori cure standard (BSC), sulla Sopravvivenza libera da Progressione (PFS, endpoint principale); sulla Sopravvivenza globale (OS), Tempo alla progressione (TTP), Risposta obiettiva, Trasfusioni di globuli rossi (RBC), ed Eventi trombotici vascolari (endpoint secondari). Metodi Erano eleggibili donne in età non inferiore a 18 anni, con carcinoma mammario metastatico ed almeno una lesione misurabile, che stavano ricevendo (o stavano per ricevere) almeno 2 cicli di chemioterapia standard in prima o seconda linea, se presentavano livelli di emoglobina non superiori a 11 g/dl nelle 24 ore precedenti la randomizzazione ed avevano un’aspettativa di vita di almeno 6 mesi, l’ECOG pari a 0 o 1, e lo stato delle HER2 conosciuto. Criteri di esclusione erano la presenza di sole metastasi ossee, presenza di metastasi cerebrali, trombosi venosa profonda o un embolo polmonare nei precedenti 12 mesi, trombosi arteriosa nei precedenti 6 mesi, sotto terapia anticoagulante o endocrina, ovvero affette da anemia dovuta ad altre cause. Le fasi dello studio sono state tre: screening, trattamento open label e follow-up. Nella fase open label le pazienti, stratificate per linea di chemioterapia e per stato delle HER2 (in caso di

HER2 positivo le pazienti ricevevano trastuzumab), sono state randomizzate 1:1 a ricevere BSC o EPO (continuato fino a progressione o per 4 settimane dopo la somministrazione dell’ultima chemioterapia). In tutte le pazienti l’emoglobina è stata misurata settimanalmente. Analisi statistica Un totale di 1650 progressioni avrebbe fornito più dell’80% di probabilità di trovare significativo un test unidirezionale al livello del 2,5%, avendo fissato al 15% l’incremento dell’hazard ratio (a favore di BSC) ritenuto clinicamente rilevante. Assumendo una PFS mediana per il braccio BSC pari a 6 mesi, per rientrare nei limiti di non inferiorità, la PFS mediana attesa nel braccio EPO sarebbe dovuta risultare inferiore di 3-4 settimane. Le analisi della PFS, della OS e del TTP furono eseguite mediante il modello di Cox, stratificato per linea di chemioterapia e per stato delle HER2, considerando solo il trattamento come variabile esplicativa. L’analisi principale è basata sulla PFS in cui il tempo di progressione fu valutato dagli sperimentatori; una commissione indipendente rivalutò il tempo alla progressione e la PFS così determinata fu usata per valutare la consistenza dei risultati sopra ottenuti. L’analisi della PFS fu eseguita in base al criterio di intenzione a trattare (ITT) ed anche sul campione delle pazienti ristretto a coloro che non presentavano deviazioni maggiori del protocollo. Risultati Sono stati osservate 2928 pazienti, di cui 2098 eleggibili che furono randomizzate a ricevere EPO (1050) o BSC (1048). Le caratteristiche demografiche e quelle relative alla malattia erano ben bilanciate tra i due bracci.

PFS La PFS mediana basata su 1959 progressioni di malattia determinate dagli autori (endpoint principale) fu di 7,4 mesi in entrambi i gruppi e l’Hazard Ratio (HR) fu trovato pari a HR = 1,089, con un intervallo di confidenza al 95% (abbreviazione: 95%CI) che va da 0,988 a 1,200. L’incremento di rischio di progressione fu quindi di circa il 9% a sfavore dell’EPO e il limite superiore dell’intervallo di confidenza eccede quindi HR = 1,15 che è il valore prespecificato di HR per ritenere non inferiore il trattamento con EPO. Invece, in base ai dati di progressione valutati dal Comitato indipendente, la PFS mediana fu pari a 7,6 mesi in entrambi i gruppi, ma fu HR = 1,028 (3% di rischio in più con EPO) con un 95%CI che va da 0,922 a 1,146, il cui estremo superiore rientra nella soglia prestabilita di non inferiorità. OS e altri endpoint secondari Basandosi sull’analisi di 1337 decessi, la OS mediana fu di 17,2 mesi nel braccio EPO e di 17,4 mesi nel braccio BSC, con HR = 1,057 non significativo (95%CI: 0,949 – 1,177). Anche il TTP, la percentuale di risposte complete (3% in entrambi i gruppi) e quella di risposte parziali (ORR, 50% in EPO e 51% in BSC) non furono significativamente diverse nei due bracci. Trasfusioni La percentuale di pazienti che ebbero trasfusioni fu significativamente inferiore nel braccio EPO rispetto a quello di controllo: 61 (5,8%) vs 119 (11,4%), P < 0,001. Safety L’incidenza di eventi avversi di grado 3 o maggiore fu simile nei due gruppi, ma l’incidenza di eventi trombotici vascolari nel gruppo EPO fu due volte maggiore di quella riscontrata nel gruppo BSC: 2,8% vs 1,4%, P < 0,038. •

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sultati delle elaborazioni possono essere puri esercizi matematici. Ma… così fan tutti! c. Rivalutazione del tempo alla progressione. Nella ricerca clinica in campo oncologico, in questa rubrica si è già avuto modo di stigmatizzare l’uso invero eccessivo della PFS (endpoint surrogato) invece della OS (endpoint finale). Tra le ragioni della nostra critica abbiamo segnalato anche l’incertezza del momento in cui si determina la progressione. In genere il clinico determina il momento della progressione o sulla base dell’insorgenza di nuovi sintomi o al momento di una visita di follow-up. In quest’ultimo caso, quando l’oncologo accerta una progressione, questa potrebbe essere intervenuta molto di recente, ma anche molto tempo prima, ad esempio subito dopo la visita precedente. Nello studio in esame è stato istituita una commissione indipendente per la rivalutazione del tempo alla progressione ed è accaduto un fatto che testimonia quanto, in generale, sia discutibile la scelta della PFS come endpoint primario. Nella valutazione dei ricercatori, la PFS per EPO è risultata eccedere il limite di “non inferiorità” rispetto a BSC: essendo questo l’endpoint primario non resta che concludere per la nocività di EPO. Invece, dopo la rivalutazione, la PFS per EPO è tornata nei limiti prestabiliti della non inferiorità. Analoghe conclusioni si raggiungono con il TTP che si differenzia da PFS perché non include i decessi. Probabilmente il riesame della commissione è stato molto puntuale (i suoi membri non erano distratti da altre incombenze) e si sono notate discordanze così importanti da capovolgere i risultati ottenuti dai ricercatori. Forse varrebbe la pena di istituire una commissione indipendente per la rivalutazione del tempo alla progressione in tutti gli studi (anche quelli sull’efficacia di un nuovo trattamento antineoplastico) in cui PFS sia scelto come endpoint principale. d. Analisi per sottocollettivi. Nello studio sono state eseguite numerose analisi per sottocollettivi (ad esempio, per classi di età, di BMI, di ECOG PS, ecc.) per valutare se, all’interno dei singoli sottogruppi, il comportamento dell’HR di PFS (per EPO rispetto a BSC) fosse diversa (i risultati di questa analisi non sono stati riportati nella Scheda). Sono stati considerati 19 sottogruppi e gli intervalli di confidenza dell’HR risultavano quasi sempre includere il valore di riferimento con l’eccezione dei pazienti con ECOG = 1 (in peggiori condizioni), e con tempo dalla diagnosi di malattia metastatica inferiore a 12 mesi, in cui EPO otteneva risultati significativamente peggiori di BSC.

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CASCO — Estate 2017

In generale, le analisi dei sottocollettivi, essendo confronti ripetuti sullo stesso materiale sperimentale, conducono a risultati solo indicativi. Infatti, eseguendo più confronti, per puro effetto del caso, con alta probabilità alcuni di essi risulteranno impropriamente significativi (v. la rubrica “Statistica per concetti” in CASCO 1). Del resto, se tali confronti fossero aggiustati in base alla disuguaglianza di Bonferroni probabilmente nessuno di essi risulterebbe mai significativo. L’argomento, quindi, è di importanza assai limitata. e. Sopravvivenza globale (OS). L’HR di morte con EPO rispetto a BSC è 1,057, quindi il rischio di morte cresce con l’uso di EPO rispetto a BSC di circa il 5%, risultato non significativo (OS mediana = 17,4 mesi con BSC e 17,2 mesi con EPO). Considerando l’ampiezza del campione (e quindi la stabilità dei risultati), tali differenze sembrano attestare che comunque EPO potrebbe influire negativamente sulla mortalità. f. Risposta obiettiva. La percentuale di risposte complete è identica nei due gruppi (3%) e quella di risposte parziali assai simile (EPO: 50%, BSC: 51%). g. Altri risultati di rilievo. I livelli di emoglobina sono stati trovati significativamente più elevati nei pazienti trattati con EPO. Il numero delle trasfusioni è risultato all’incirca dimezzato nel braccio EPO rispetto al braccio BSC (EPO: 5,8%, BSC: 11,4%; P< 0,001). L’incidenza di trombosi fu poco frequente in entrambi i gruppi, ma due volte più alta nel braccio EPO rispetto al gruppo di controllo (EPO: 2,8%, BSC: 1,4%, P < 0,038). Conclusioni I risultati dello studio confermano quanto già era noto: EPO produce un miglioramento dei livelli di emoglobina rispetto alle sole BSC, per cui la percentuale delle pazienti che hanno avuto bisogno di trasfusioni è dimezzata. Sembra però che EPO agisca negativamente sugli outcome del tumore: con EPO il rischio di progressione è significativamente superiore rispetto alle BSC e, sebbene in modo non significativo, anche quello relativo alla sopravvivenza globale; inoltre, anche l’incidenza degli eventi trombotici è significativamente più elevata. Gli autori correttamente concludono che nel management dell’anemia in donne affette da carcinoma mammario metastatico, in prima e seconda linea di chemioterapia, le trasfusioni siano preferibili all’uso di agenti stimolanti l’eritropoiesi. Tuttavia, essendo in corso alcuni trial sul management dell’anemia in altri tipi di neoplasie, è opportuno attendere i loro risultati prima di giungere ad una valutazione definitiva del rischio/beneficio di trattare l’anemia con ESAs. •


Statistica per concetti

Concordanza e regressione

Riassunto Quando i caratteri associati, X e Y, sono entrambi quantitativi, la distribuzione doppia può essere rappresentata in un piano cartesiano. Tale grafico prende il nome di “diagramma di dispersione” e l’insieme dei punti in esso rappresentati si chiama “nuvola di punti”. Le due rette che interpolano la (cioè, passano in mezzo alla) nuvola di punti (una di Y a X, l’altra di X a Y) i cui parametri siano determinati in base al metodo dei minimi quadrati si chiamano rette di regressione. Dopo aver descritto graficamente il procedimento con cui si perviene alla determinazione dei parametri delle rette di regressione, si dimostra che i loro coefficienti angolari sono misure di concordanza. Parole chiave. Diagramma di dispersione, metodo dei minimi quadrati, concordanza, discordanza, indifferenza, coefficienti di regressione.

Summary

Concordance and regression Let X, Y be two variables observed on the same statistical units; the results can be displayed in a scatter plot. When the points are interpolated using two straight lines (one from Y to X, and the other from X to Y) according to the ‘least squares method’, these lines are called ‘regression lines’. The procedure to calculate the parameters of the regression lines is graphically described, and it is shown that the two regression coefficients are indices of concordance. Key words. Scatter-plot, least squares method, concordance, discordance, indifference, regression coefficients. Siano X e Y due caratteri quantitativi associati, ossia rilevati nelle stesse unità della popolazione. Il risultato della rilevazione costituisce una distribuzione doppia (v. CASCO 15, 16). Essendo quantitativi entrambi i caratteri associati, l’analisi della loro relazione è ben più sofisticata di quella che si sarebbe potuta condurre nel caso in cui almeno uno dei caratteri fosse stato qualitativo (analisi descritte nel n. 16 di CASCO). Nella presente nota sono forniti i concetti di base della regressione lineare riducendo al minimo l’apparato formale: un modo completamente inedito di trattare senza formule (o quasi) questo pur complesso argomento, utilissimo nello studio di fenomeni di grande interesse per la Medicina. La comprensione del testo sarà avvantaggiata dalla conoscenza delle coordinate cartesiane e dell’equazione della retta.

Lo scopo principale dell’analisi della relazione tra X e Y

(entrambi quantitativi) è valutare se Y varia, e se si quanto, al variare di X ed anche di valutare se X varia, e se si quanto, al variare di Y. Esempio. Siano X il peso e Y la statura osservati sugli stessi 5 soggetti maschi di 18 anni di età: N. unità Peso, kg Statura, cm

1 65 170

2 68 178

3 75 180

4 70 172

5 62 175

Si osservi che in un foglio Excel gli stessi dati sarebbero rappresentati per colonna; qui invece li visualizziamo per riga solo per economia di spazio. Si è riportato nella prima riga il numero d’ordine del soggetto solo per evidenziare il concetto di caratteri associati, cioè rilevati entrambi su ciascuna unità del collettivo. Per ogni soggetto esiste una coppia di dati (peso e statura) i cui elementi non possono essere disgiunti (cioè spostati) proprio in quanto rilevati sulla stessa unità. Ad esempio, il soggetto n. 3 pesa 75 kg ed ha statura pari a 180 cm: questi due dati sono indissolubilmente legati tra loro proprio perché rilevati entrambi sul soggetto 3. Ad ogni soggetto è associata, quindi, una coppia di dati. Graficamente, i dati (Y = statura, X = peso) possono essere rappresentati su un sistema di coordinate cartesiane in cui sull’asse delle ascisse riportiamo (ad esempio) il peso e su quello delle ordinate la statura. In tal modo il grafico è costituito da 5 punti: ogni soggetto ha per immagine, nel grafico, un punto. Ogni punto, però, rappresenta uno o più soggetti (nel caso ci fossero più soggetti con lo stesso peso e la stessa statura). Tale grafico prende il nome di diagramma di dispersione e l’insieme dei punti in esso contenuti si chiama “nuvola di punti”. In genere nelle applicazioni il numero di soggetti osservati è molto elevato. In tal caso, il diagramma di dispersione assume una forma che può essere quella riportata nella figura 1. Y

0

X

Figura 1. Diagramma di dispersione. CASCO — Estate 2017

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| Statistica per concetti | Concordanza e regressione

Interpolare una nuvola di punti vuol dire far passare una linea in mezzo ai punti della nuvola, in modo tale che il suo andamento esprima come varia Y al variare di X. Può anche essere interpolata una seconda linea che descriva coma varia X al variare di Y.

Osservazione. In generale, nelle applicazioni si può studiare come varia Y al variare di X, ma anche come varia X al variare di Y (nell’esempio: come varia la statura al variare del peso, ma anche come varia il peso al variare della statura). In tal caso le linee interpolatrici sono due: quella di Y a X e quella di X a Y. Talvolta però l’interesse è solo quello di valutare se e quanto varia Y (ad es. la statura) al variare di X (ad es. l’età), ma non viceversa perché avrebbe poco senso: l’età è l’antecedente logico (v. CASCO 16) e, sebbene si possa sempre tecnicamente fare, ha scarso significato misurare quanto varia l’età al variare della statura. Come linea interpolatrice si sceglie una funzione monotòna (cioè che abbia un solo andamento), tale cioè che sia sempre crescente o sempre decrescente ovvero costante in tutto l’intervallo in cui è definita. Se l’andamento della linea interpolatrice è crescente, cioè, se al crescere di X, Y cresce, allora si dice che tra i caratteri associati c’è concordanza; se è decrescente si dice che c’è discordanza (al crescere di X, Y decresce), se è costante, si dice che c’è indifferenza (al crescere di X, Y resta costante: la linea è parallela all’asse delle ascisse). Riportiamo i tre casi nelle figure 2, 3 e 4. Le linee interpolatrici di Y a X sono infinite. Tra tutte si sceglie la retta non solo per motivi di semplicità, ma soprattutto per il valore interpretativo dei suoi parametri,

Y

X

Figura 2. Concordanza.

Y

0

X

Figura 3. Discordanza.

Y

0

0

X

Figura 4. Indifferenza.

Y

X

Figura 5. Retta di equazione y = a + bx.

CASCO — Estate 2017

Riepilogando: mediante il metodo dei minimi quadrati si determinano i valori dei parametri delle equazioni delle due rette scelte per l’interpolazione. La retta che mostra come varia Y al variare di X (nell’esempio, come varia la statura al variare del peso) ha equazione Y = a + bX. Quella che mostra come varia X al variare di Y (nell’esempio, come varia il peso al variare della statura) ha equazione X = a’ + b’Y.

Y

0

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come sarà mostrato nel seguito. Resta da stabilire un criterio (regola) di interpolazione perché anche le rette interpolatrici (cioè quelle che passano in mezzo ai punti della nuvola) sono infinite. Il metodo da seguire nell’effettuare l’interpolazione è quello dei minimi quadrati: tra tutte le rette del piano si sceglie quella (di Y a X) che passa il più vicino possibile ai punti dati, cioè la retta tale che la somma dei quadrati degli scarti tra le ordinate empiriche (quelle osservate nei singoli soggetti) e quelle teoriche (cioè dei punti che giacciono sopra la retta interpolatrice) sia minima. Per studiare come varia X al variare di Y si procede analogamente scegliendo tra tutte le rette del piano che descrivono come varia X al variare di Y, quella che passa il più vicino possibile ai punti dati, cioè la retta che rende minima la somma dei quadrati degli scarti tra ascisse empiriche (osservate nei singoli soggetti) e quelle teoriche (cioè dei punti che giacciono sulla retta interpolatrice). Nelle figure 5 e 6 sono rappresentate le rette interpolatrici: nella fig. 5 quella di Y a X e nella fig. 6 quella di X a Y; in entrambi i casi le distanze (o scarti), la cui somma dei quadrati va resa minima, sono rappresentate con linee verticali (figura 5) e orizzontali (figura 6) di minore spessore.

0

X

Figura 6. Retta di equazione x = a’ + b’ y.


| Statistica per concetti | Concordanza e regressione

In entrambi i casi i parametri sono determinati in base al metodo dei minimi quadrati; in particolare, per la retta di Y a X (cioè Y = a + bX), a e b sono determinati rendendo minimi i quadrati degli scarti (o distanze) tra ordinate empiriche (quelle osservate nei vari soggetti) e ordinate teoriche (quelle dei punti che giacciono sulla retta interpolatrice); per la retta di X a Y, a’ e b’ sono determinati rendendo minima la somma dei quadrati degli scarti tra ascisse empiriche (osservate nei soggetti) e ascisse teoriche (quelle dei punti che si trovano sulla retta interpolatrice), come rappresentato nelle figg. 5 e 6. Le rette di equazione Y = a + bX X = a’ + b’Y con i parametri a, b, a’ e b’ determinati in base al metodo dei minimi quadrati, prendono il nome di rette di regressione e, tra tutte le rette del piano, sono quelle che passano il più vicino possibile ai punti empirici. Riepilogando: esistono due rette di regressione, una di Y a X (cioè che mostra come varia Y al variare di X) e una di X a Y (che mostra come varia X al variare di Y). Tali rette hanno equazioni i cui parametri sono sempre calcolabili. Tuttavia, quando X è l’antecedente logico (cioè la “causa”) di Y ha senso solo considerare la retta di Y a X (cioè Y = a + bX, v. Osservazione); i parametri dell’altra sono sempre tecnicamente calcolabili, ma, in tal caso, la retta di equazione X = a’ + b’Y (nell’Osservazione, come varia l’età al variare della statura) non ha interesse. Per tener fede al titolo della rubrica, evitiamo di appesantire l’esposizione con dettagli matematici, tanto più che i parametri delle equazioni delle rette di regressione sono calcolati anche da Excel. Occupiamoci invece dell’interpretazione dei valori dei parametri. Per studiare come varia Y al variare di X, si consideri l’equazione Y = a + bX che descrive come varia (lungo la retta di regressione) Y al variare di X. Se facciamo crescere di una unità X, Y crescerà (o diminuirà se b è negativo) di una quantità H: Y + H = a + b(X + 1). Sottraendo membro a membro da questa equazione quella di partenza: Y = a + bX, si ha (Y + H) – Y = (a + bX + b) – (a + bX) O H = b. Il coefficiente angolare della retta Y = a + bX, cioè b, misura quanto cresce in media (cioè lungo la retta di regressione) Y al crescere unitario di X. Come tale, quindi, “b” è un indice (o misura) di concordanza. Tornando ai dati riportati nell’esempio, l’equazione della retta di regressione della statura rispetto al peso è Y = 144,4 + 0,45 X. Vediamo le informazioni che fornisce. Anzitutto il segno di b è positivo, il che indica che c’è concordanza, cioè che al crescere del peso, anche la statura cresce: la retta è inclinata positivamente rispetto all’asse X. Il valore del parametro “a” è irrilevante perché è l’ordinata all’origine (cioè la statura di un soggetto con peso nullo). Invece è assai importante il valore di “b” perché

indica che la statura cresce in media di 0,45 cm per ogni accrescimento unitario di peso (cioè al crescere di 1 Kg di peso). Analogamente, la retta di regressione del peso rispetto alla statura è X = - 45,75 + 0,65 Y: il segno “+” di “b’” mostra che c’è concordanza; il valore di “a’” è irrilevante (sarebbe il peso di un soggetto con statura pari a 0); b’ = 0,65 misura quanto cresce il peso, in media, per ogni incremento unitario di statura (per ogni cm in più di statura, il peso cresce, in media, di 0,65 Kg: in quel gruppo di soggetti, ogni aumento di un centimetro di statura comporta, in media, un incremento ponderale di 0,65 chilogrammi). Si osservi che quando c’è concordanza nella relazione di Y a X, c’è necessariamente concordanza anche nella relazione di X a Y. Questa affermazione si può provare matematicamente, ma trova anche una giustificazione in base al ragionamento che se al crescere della statura il peso cresce (cioè i soggetti più pesanti hanno anche, in media, una statura superiore) per forza i soggetti con peso superiore hanno, in media, una statura più elevata: b e b’ hanno sempre lo stesso segno. Se è b = 0, l’equazione della retta di regressione di Y a X diventa: Y = a, che è l’equazione di una retta parallela all’asse delle ascisse: al crescere di X, Y (valutato sulla retta di regressione), resta costante. In tal caso si dice che tra i caratteri associati c’è indifferenza: al crescere di un carattere, l’altro (sulla retta di regressione) resta costante. Inoltre, se è b = 0, è anche b’ = 0. In conclusione, b e b’ sono indici di concordanza perché misurano, rispettivamente, quanto cresce in media Y al crescere unitario di X e quanto cresce in media X al crescere unitario di Y. Le applicazioni in medicina sono numerosissime e vanno, ad esempio, dallo studio della relazione tra due parametri emotobiochimici (ad es. glicemia e colesterolemia in un gruppo omogeneo di pazienti), all’analisi di quanto la qualità di vita (misurata con un test psicometrico) possa influire sulla sopravvivenza, all’esame di quanto la PFS possa dipendere dall’età del paziente. Da ultimo, occorre segnalare la possibilità di eseguire previsioni mediante una retta di regressione. Ad esempio, sia Y la riduzione di glicemia dopo due ore dall’assunzione di un farmaco e X la dose del farmaco stesso (nel range 200 – 800 mg, stabilito perché è noto che il farmaco sotto 200 mg è inefficace e sopra 800 mg può dar luogo ad effetti collaterali gravi); se l’equazione della retta di regressione di Y a X è Y = 5 + 0,1X, si può dare una stima dell’effetto di una certa dose del farmaco. Ad esempio, 500 mg produrrà una riduzione dei valori di glicemia pari a Y(500) = 5 + 0,1 x 500 = 55. Nel prossimo numero di CASCO, esporremo un altro indice di concordanza e verrà fornito un metodo per valutare la qualità dell’interpolazione eseguita mediante le rette di regressione. Enzo Ballatori CASCO — Estate 2017

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Materiale depositato presso l’AIFA il 28/09/2017


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