CASCO 2 - 2011

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Current Advances in Supportive Care in Oncology

2 — 2011 volume 1 – numero 2 – ottobre-dicembre 2011

Servizio scientifico offerto da MSD Italia S.r.l.

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Le complicanze tromboemboliche nel paziente con cancro: le linee guida ESMO 40

Sedazione palliativa 54

Le vampate di calore in terapia antitumorale per carcinoma mammario 50

Il secondo gradino nella terapia del dolore da cancro: dalla ricerca alla pratica clinica 62

Abiraterone: che fatigue? 57


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Periodico trimestrale riservato alla classe medica edito in collaborazione con Via Vitorchiano 151 – 00189 Roma Tel 06 36 19 11 – Fax 06 36 380 311 www.univadis.it Numero verde 800 23 99 89

Vol 1, n. 2, ottobre-dicembre 2011

In questo numero EDITORIALE

36 Anno 1 N. 2 – ottobre-dicembre 2011 Registrazione del Tribunale di Roma in corso Direzione scientifica: Fausto Roila Enzo Ballatori Gruppo editoriale: Claudia Caserta Sonia Fatigoni Guglielmo Fumi Azienda Ospedaliera di Terni

Le terapie di supporto tra epistème e doxa Enzo Ballatori Fausto Roila

DAI CONGRESSI

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Focus sui congressi ECCO-ESMO-ESTRO e AIOM 2011 Fausto Roila Sonia Fatigoni

... la presa di coscienza del medico sulle carenze della ricerca clinica può contribuire sostanzialmente non solo ad ottenere in futuro evidenze più convincenti, ma anche al miglioramento della qualità delle cure. Enzo Ballatori, Fausto Roila IL PUNTO SU...

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Sedazione palliativa Guglielmo Fumi

LINEE GUIDA E PRATICA CLINICA

CASI CLINICI

Il Pensiero Scientifico Editore Via San Giovanni Valdarno 8 00138 Roma Tel 06 862 821 – Fax 06 862 82 250 Internet: www.pensiero.it Stampa: Arti Grafiche Tris, Roma febbraio 2012 Direttore responsabile: Giovanni Luca De Fiore Redazione: Manuela Baroncini Progetto grafico: Antonella Mion Prezzo: Fascicolo singolo €15,00

40

57

I contenuti pubblicati dalla rivista rispecchiano le opinioni degli Autori e non necessariamente quelle dell’Editore o della MSD Italia S.r.l.

50

Ogni farmaco menzionato deve essere usato in accordo con il relativo riassunto delle caratteristiche del prodotto fornito dalla ditta produttrice.

Le complicanze tromboemboliche nel paziente con cancro: le linee guida ESMO Mario Mandalà Roberto Labianca

Abiraterone: che fatigue? Enzo Ballatori Fausto Roila

STATISTICA PER CONCETTI

60

Randomizzazione Enzo Ballatori

TUMORI E TERAPIE DI SUPPORTO

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Terapia di supporto nei tumori maligni gastrointestinali Luca Faloppi Stefano Cascinu

QUESTIONI APERTE

62

Il secondo gradino nella terapia del dolore da cancro: dalla ricerca alla pratica clinica Carla Ida Ripamonti Elena Bandieri

GESTIONE EVENTI AVVERSI

Le vampate di calore in terapia antitumorale per carcinoma mammario Martina Nunzi Silvia Sabatini

In copertina: David Hockney, Autumn Pool, 1978

PROGETTI IN CORSO

64

Il Progetto HuCare (Humanization of Cancer Care in Italy) Intervista a Rodolfo Passalacqua e Caterina Caminiti


Editoriale

Le terapie di supporto tra epistème e doxa

S

iamo orgogliosi di presentare un numero della rivista di grande interesse per la qualità dell’aggiornamento in tema di terapie di supporto. Infatti, non solo dei lavori citati spesso è stata data una lettura critica, ma anche le lacune dovute

all’assenza di affidabili evidenze sono state colmate dalla descrizione della pratica clinica seguita da importanti studiosi italiani del settore. Malgrado la ricerca sulla cura di sintomi della malattia e sul management di eventi avversi connessi alla somministrazione di terapie oncologiche si sia poco o per nulla occupata di numerosi sintomi (orphan symptoms), peraltro assai fastidiosi per il paziente, non si può certo dire che, globalmente, non si faccia ricerca sulle terapie di supporto. La qualità degli studi pubblicati è però fortemente diseguale. Si va da studi che riferiscono i risultati di ricerche cliniche ottenuti con una metodologia inappuntabile a studi che, invece, ad una lettura critica, riportano risultati che, per la metodologia con cui sono stati ottenuti, più che altro rinsaldano le incertezze sulla pratica clinica da seguire nell’interesse del paziente. In questo secondo caso, l’epistème, conoscenza certa delle cause e degli effetti, cede il passo alla doxa, cioè all’opinione del clinico che deve comunque decidere, anche in assenza di prove incontrovertibili. Crediamo sia molto formativo procedere ad una lettura degli articoli della rivista avendo in mente anche questo aspetto nei lavori citati: la presa di coscienza del medico sulle carenze della ricerca clinica può contribuire sostanzialmente non solo ad ottenere in futuro evidenze più convincenti, ma anche al miglioramento della qualità delle cure.

Enzo Ballatori Fausto Roila

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CASCO — Vol 1, n. 2, ottobre-dicembre 2011


Dai Congressi

Focus sui congressi ECCO-ESMO-ESTRO e AIOM 2011

Fausto Roila Sonia Fatigoni SC Oncologia Medica Azienda Ospedaliera Terni

Nausea e vomito Recentemente due studi hanno valutato l’incidenza dell’emesi ritardata in pazienti sottoposti a terapia antiemetica con palonosetron più desametasone prima della chemioterapia e randomizzati a ricevere desametasone (8 mg dose singola o 4 mg x 2 per via orale) o placebo nei giorni 2-3. Il primo studio1 è stato eseguito in 300 pazienti affette da carcinoma della mammella e sottoposte a chemioterapia con ciclofosfamide ± antracicline. La percentuale di risposte complete (no vomito e no terapia di salvataggio) nel giorno 1 era 68,5% versus 69,5% nelle pazienti che successivamente ricevevano desametasone e placebo, mentre era 65,8% versus 62,3% nei giorni 2-5 e complessivamente 53,7% versus 53,6% nei giorni 1-5, rispettivamente. Nel secondo studio2, eseguito in 324 pazienti valutabili trattati con vari farmaci moderatamente emetogeni (antraciclina + ciclofosfamide, oxaliplatino, irinotecan e carboplatino), le risposte complete erano, rispettivamente, nel giorno 1, 84,3% versus 88,6%; nei giorni 2-5, 77,7% versus 68,7% e nei giorni 1-5, 71,1% versus 67,5%. Le conclusioni di ambedue gli studi erano che la somministrazione di desametasone per la prevenzione dell’emesi ritardata da farmaci moderatamente emetogeni, come raccomandata dalle linee guida MASCC ed ESMO, non fosse più necessaria quando i pazienti ricevevano nel giorno 1 il palonosetron, un 5-HT3 antagonista a lunga durata d’azione. Ai congressi ECCOESMO-ESTRO ed AIOM è stata riportata un’analisi combinata dei due studi di fase III3. Sono stati valutati 624 pazienti che sono stati stratificati in due categorie in base alla presenza/assenza di nausea acuta o vomito acuto e valutati rispetto all’incidenza di nausea ritardata/vomito ritardato. Nei 544 pazienti senza vomito acuto, il vomito ritardato non era presente nel 96% dei pazienti riceventi placebo nei giorni 23 e nel 97% di quelli che ricevevano desametasone; nessuna differenza statisticamente significativa si evidenziava negli 80 pazienti che avevano presentato vomito acuto, in particolare non hanno avuto vomito ritardato il 64% dei pazienti riceventi placebo e il 73% di quelli sottoposti a desametasone. Inoltre, nei 390 pazienti senza nausea acuta, la nausea ritardata non era presente nel 65% dei pazienti riceventi placebo nei giorni 2-3 e nel 73% di quelli che ricevevano de-

sametasone; nessuna differenza statisticamente significativa era evidente nei 234 pazienti che avevano presentato nausea acuta, in particolare non hanno avuto nausea ritardata il 18% dei pazienti riceventi placebo e il 19% di quelli sottoposti a desametasone. Le conclusioni degli autori di questo studio erano basate sulla simile percentuale di protezione dall’emesi ritardata tra i due regimi, in pazienti con presenza o meno di nausea e di vomito nelle prime 24 ore. Ciò indicherebbe che una sola somministrazione di desametasone associato a palonosetron abbia un effetto farmacologico sull’emesi ritardata paragonabile a quello derivante dalla somministrazione di desametasone anche nei giorni 2 e 3, e non sia semplicemente un effetto di carryover conseguente alla prevenzione dell’emesi acuta. Per poter interpretare meglio i risultati, è necessario precisare che i due studi sono stati disegnati come studi di equivalenza. L’ipotesi testata è che i due regimi antiemetici non presentassero una differenza nella protezione dell’emesi ritardata superiore al 15%. Va detto, anzitutto, che questo delta è di fatto nettamente superiore a quanto ritenuto dagli esperti clinicamente rilevante nella pratica clinica, cioè una differenza ≥10% tra due diversi trattamenti antiemetici. Il valore del 10% è conseguente ai risultati dello studio4 che dimostrava una superiorità del desametasone rispetto al placebo del 10% nella prevenzione del vomito ritardato in pazienti sottoposti a farmaci antitumorali di moderato potere emetogeno. In secondo luogo, lo studio di Celio mette insieme farmaci moderatamente emetogeni con rilevante differenza nel rischio di nausea e vomito tra loro; infatti, non si può para-

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gonare l’incidenza di emesi dovuta al carboplatino con quella dovuta all’oxaliplatino, nettamente meno emetogeno; pertanto bastano piccole differenze nella distribuzione dei vari farmaci antiblastici fra i due bracci di trattamento per determinare risultati differenti nel controllo del vomito ritardato. Quindi i due studi non dimostrano che nella prevenzione del vomito ritardato il placebo non è inferiore al desametasone; per poter infatti dimostrare la non inferiorità sarebbe stata necessario testare l’ipotesi di una differenza non superiore al 10% in termini di risposte complete ma questo avrebbe richiesto un numero notevolmente superiore di pazienti. Peraltro, nell’analisi per sottogruppi eseguita combinando i due studi, emerge che nella prevenzione del vomito ritardato in pazienti con vomito acuto e nella prevenzione della nausea ritardata in pazienti senza nausea nelle prime 24 ore vi sia una differenza del 9% e dell’8% rispettivamente nella protezione completa tra chi riceve il placebo e chi riceve il desametasone. Questo fa chiaramente pensare che la differenza non è staticamente significativa solo per un puro effetto di scarsa potenza del test applicato su piccoli campioni. Inoltre, una differenza del 9% di risposte complete nei giorni 2-5 a favore del desametasone era evidente anche nello studio di Celio2. Quindi la nostra opinione è che non vadano modificate le linee guida MASCC-ESMO sulla base di questi studi e che il desametasone sia il farmaco da suggerire nella prevenzione del vomito ritardato da farmaci moderatamente emetogeni non AC/EC anche quando il palonosetron è somministrato nelle prime 24 ore. Infine, l’analisi condizionata sulla base della presenza/assenza di nausea e di vomito acuti presentata al congresso ECCO-ESMO-ESTRO non solo non dimostra l’efficacia del palonosetron nel controllo del vomito ritardato, ma neanche esclude un effetto carry-over in quanto i pazienti ricevevano lo stesso trattamento per prevenire il vomito acuto. L’analisi condizionata serve solo ad evidenziare quello che è già stranoto: che il principale fattore di rischio dell’emesi ritardata è l’emesi acuta. Un altro studio5 meritevole di commento ha valutato il trattamento della nausea e del vomito anticipatorio con la paroxetina, un potente inibitore della ricaptazione della serotonina. Com’è noto i trattamenti farmacologici sono poco efficaci nel controllo dell’emesi anticipatoria e l’unico far38

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maco dimostrato superiore al placebo in uno studio doppiocieco controllato è l’alprazolam. Lo studio con la paroxetina ha arruolato 60 pazienti che presentavano nausea o vomito anticipatorio dopo 2 cicli di chemioterapia. Questi pazienti erano affetti nel 33% da cancro della mammella, nel 25% da carcinoma del colon, nel 16% da cancro del polmone e del pancreas e nell’8% da neoplasia ovarica. I pazienti erano trattati con paroxetina gocce 20 mg al giorno, dose che veniva aumentata dopo ogni ciclo fino ad un massimo di 60 mg al giorno nel caso di fallimento terapeutico. L’efficacia era valutata dopo ogni ciclo di chemioterapia. Sorprendentemente, l’80% dei pazienti evidenziava una scomparsa della nausea e del vomito anticipatorio con 20 mg/die di paroxetina; il 10% dei pazienti con 40 mg/die e il 5% con 60 mg/die; il 5% dei pazienti non ha risposto al trattamento. Non è stata segnalata un’importante tossicità. Gli autori concludono che la paroxetina è da considerare il trattamento di scelta per il trattamento dell’emesi anticipatoria. Sicuramente questo studio pilota sembra cambiare le carte in tavola nella terapia dell’emesi anticipatoria. Finora, infatti, i farmaci utilizzati sono stati considerati sempre non efficaci o al massimo moderatamente efficaci, come l’alprazolam. Va detto che questi dati vanno confermati in uno studio doppio-cieco verso placebo che è l’unico studio che ci permette di identificare un trattamento di scelta nell’emesi anticipatoria che, come è noto, è fortemente condizionata da un riflesso pavloviano, potenzialmente sensibile ad un effetto placebo. Prurito Nel 2009 il New England Journal of Medicine ha pubblicato una lettera che riportava un rapido miglioramento del prurito, a seguito dell’assunzione di aprepitant, in 3 pazienti con sindrome di Sezary, ricoverati per insonnia e depressione indotte da prurito, nonostante l’applicazione intermittente di una pomata a base di un cortisonico. In questi pazienti la somministrazione di aprepitant 80 mg/die migliorava anche la qualità della vita. Al congresso ECCO-ESMO-ESTRO è stato presentato un interessante lavoro6 in 30 pazienti con prurito severo indotto da terapie biologiche. I pazienti erano affetti soprattutto da cancro del polmone (12) e del colon-retto (13) e presentavano un prurito intenso (VAS ≥7) durante un trattamento con erlotinib (12), cetuximab (13), panitumumab (1), lapatinib (1), sunitinib (2), imatinib (1). Il prurito era resistente agli antistaminici e ai corticosteroidi. I pazienti hanno ricevuto aprepitant 125 mg giorno 1 e 80 mg giorno 3 e 5. Dopo una settimana dall’inizio del trattamento, l’intensità del prurito diminuiva mediamente dell’88%, in particolare vi era una diminuzione di oltre il 50% del prurito nel 93% dei pazienti, mentre solo 2 pazienti non hanno risposto adeguatamente. L’intensità del prurito, che all’inizio del trattamento era 10 in 3 pazienti, 9 in 6 pazienti, 8 in 14 e 7 in 7 pazienti (mediana 8), divenne 0 in 14 pazienti, 1 in 6, 2 in 4, 3 in 4, 4 in 1 e 6 in 1 paziente (mediana 1). Questo studio pilota ha confermato la segnalazione precedente che i recettori NK1 siano dei mediatori del prurito. Attualmente


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sono in corso studi che confrontano aprepitant con le terapie finora disponibili per controllare il prurito. Aprepitant attualmente è indicato per la prevenzione della nausea e del vomito precoci e tardivi associati alla chemioterapia altamente (cisplatino) e moderatamente emetogena in ambito oncologico negli adulti. Alopecia Al congresso ECCO-ESMO-ESTRO sono stati presentati 2 studi inerenti la prevenzione dell’alopecia utilizzando il casco ghiacciato. Nel primo studio7 sono stati esaminati 1414 pazienti. Complessivamente, il 50% di questi era soddisfatto del risultato. La soddisfazione era riferita dall’8% dei pazienti sottoposti alla chemioterapia con docetaxel-adriamicinaciclofosfamide e dal 95% di quelli trattati con paclitaxel. Ad un’analisi multifattoriale si evidenziava minore soddisfazione per i risultati da parte dei pazienti di età superiore ai 65 anni e asiatici. Risultati migliori si osservavano nei maschi, in pazienti sottoposti a taxani rispetto alle antracicline e per un tempo d’uso del casco inferiore a 80 minuti rispetto a 80100 minuti dopo la somministrazione del farmaco. Il secondo studio8 valutava l’incidenza di metastasi cutanee nel cuoio capelluto nei pazienti con qualunque tipo di neoplasia. Le donne con carcinoma della mammella trattate con chemioterapia adiuvante senza casco ghiacciato presentavano metastasi cutanee nel 2-4% dei casi, mentre l’incidenza di metastasi nel cuoio capelluto era inferiore all’1%. Le metastasi cutanee del cuoio capelluto erano riportate nello 0,5% di pazienti con cancro della mammella con 4 o più linfonodi positivi alla diagnosi. In letteratura le metastasi al cuoio capelluto sono state riportate in 13 pazienti sottoposte al casco ghiacciato su più di 3000 pazienti trattati in 60 studi. In alcuni studi l’incidenza di metastasi al

cuoio capelluto era sistematicamente valutata ed era riportata in meno dell’1% su 1700 pazienti. Infine, 3 su 395 pazienti sottoposte a casco ghiacciato hanno presentato metastasi cutanee in un periodo mediano di follow-up di 110 mesi. Pertanto, l’incidenza di metastasi al cuoio capelluto è rara nel cancro della mammella e non è stato osservato alcun incremento nelle pazienti trattate a scopo precauzionale con casco ghiacciato per prevenire l’alopecia. La prevenzione dell’alopecia, nei pazienti sottoposti a chemioterapia, con casco ghiacciato è scarsamente efficace (gli studi controllati sono pochi e non dimostrano spesso risultati importanti). Inoltre, persistono dubbi sui reali vantaggi rispetto al fastidio del tenere il casco ghiacciato durante e dopo la somministrazione della chemioterapia. Va altresì detto che, nonostante negli ultimi anni si sia tornati a parlare e a fare ricerca su questa modalità preventiva, di fatto la traduzione nella pratica clinica è oggi nettamente minore rispetto a 20 anni fa. Sono pertanto necessari altri studi che mirino ad identificare sia le caratteristiche dei pazienti sia i trattamenti antitumorali che possono beneficiare del casco ghiacciato. • Bibliografia 1. Aapro M, et al. Ann Oncol 2010; 21: 1083-88. 2. Celio L, et al. Supp Care Cancer 2011; 19: 1217-25. 3. Celio L, et al. Eur J Cancer 2011; 47 (suppl 2): 239, abstr. 3056. 4. IGAR. N Engl J Med 2005; 361: 1415-6. 5. Lugini A, et al. Eur J Cancer 2011; 47 (suppl 2): 228, abstr. 3020. 6. Santini D, et al. Eur J Cancer 2011; 47 (suppl 2): 242, abstr. 3068. 7. Van den Hurk CJG, et al. Eur J Cancer 2011; 47 (suppl 2): 238, abstr. 3054. 8. Van den Hurk CJG, et al. Eur J Cancer 2011; 47 (suppl 2): 225, abstr. 3009.

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Linee guida e pratica clinica

Le complicanze tromboemboliche nel paziente con cancro: le linee guida ESMO

Mario Mandalà Roberto Labianca Divisione di Oncologia Medica Dipartimento di Oncologia ed Ematologia Ospedali Riuniti di Bergamo

Introduzione Il tromboembolismo venoso (TEV) rappresenta una delle più importanti cause di morbilità e mortalità nei pazienti con cancro. In accordo con recenti studi di popolazione i pazienti con il rischio maggiore sono quelli con malattia metastatica, e nell’ambito di tumori primitivi quelli con rischio maggiore sono i gliomi, il carcinoma del polmone, dell’utero, della vescica, del pancreas, dello stomaco e del rene1. Il rischio è 413 volte superiore nei pazienti con malattia metastatica rispetto a quelli con malattia limitata1,2. Il rischio è maggiore nei primi mesi dopo la diagnosi e persiste per molti anni dopo un episodio di TEV. Durante la chemioterapia il rischio è 7 volte maggiore se paragonato ai pazienti senza cancro. Il rischio di TEV nei pazienti ricoverati è intorno al 6-7%. Oltre ad avere un rischio maggiore di sviluppare TEV, i pazienti con cancro hanno anche un maggior rischio di avere recidive del TEV e complicanze emorragiche se paragonati ai pazienti senza cancro, allorché vengano trattati con anticoagulanti orali a dosaggio terapeutico3. La probabilità di essere nuovamente ospedalizzati entro 6 mesi dopo un TEV è pari al 22% nei pazienti con cancro versus 6,5% in quelli senza cancro, con conseguenti implicazioni sociosanitarie ed economiche3. Lo sviluppo del TEV ha importanti risvolti sia sulla qualità di vita dei pazienti con cancro sia sulla loro prognosi indipendentemente dallo stadio di malattia, dal trattamento e dalle condizioni cliniche4. Nonostante il TEV sia una complicanza a volte devastante, potenzialmente fatale, molti oncologi sottostimano tale tipo di tossicità5,6. Per tale motivo la Società Europea di Oncologia Medica (ESMO) ha deciso di stilare delle raccomandazioni cliniche per la profilassi e la terapia del TEV al fine di ottimizzare la gestione clinica di tale complicanza nei pazienti con cancro7. Fattori di rischio Il rischio di sviluppare TEV è la risultante di fattori di rischio clinici e patologici quali: l’istotipo e la sede del tumore, lo stadio, la somministrazione della chemioterapia e della terapia ormonale, l’intervento chirurgico, la durata dell’ane40

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stesia, la presenza di un catetere venoso centrale, l’età, l’immobilità, e il TEV in anamnesi8. Uno dei più importanti fattori di rischio per il TEV è la chemioterapia che può aumentare il rischio di TEV attraverso 4 meccanismi: 1. danno acuto sulla parete vasale come può avvenire con la bleomicina, la carmustina e gli alcaloidi della vinca; 2. danno ritardato sull’integrità dell’endotelio vasale (adriamicina); 3. riduzione delle proteine regolatrici del processo coagulativo, come la diminuzione dei livelli di proteina C ed S con lo schema CMF (Ciclofosfamide, 5-Fluorouracile, Methotrexate), ovvero la riduzione dei livelli di antitrombina in pazienti trattati con asparaginasi; 4. alterazioni dell’attività piastrinica8. Gli agenti antiangiogenetici come il bevacizumab, la talidomide e la lenalidomide contribuiscono allo sviluppo della trombosi sia attraverso l’attivazione delle piastrine e dell’endotelio, sia attraverso il danno endoteliale. Una recente metanalisi ha mostrato un aumento relativo del rischio del 33% con l’utilizzo di bevacizumab9. L’effetto trombogenico degli agenti antiangiogenici è amplificato dalla somministrazione di chemioterapia e steroidi. Nei pazienti che ricevono bevacizumab il rischio di TEV di ogni grado e di grado elevato (G3-G4) è risultato pari all’11,9% e al 6,3%, rispettivamente. Nei pazienti con mieloma multiplo l’incidenza più elevata è risultata in chi è stato trattato con talidomide in combinazione a chemioterapia contenente antracicline e nei pazienti in progressione trattati con lenalidomide e alte dosi di desametasone10,11. Recentemente Khorana et al. hanno riportato i risultati di uno studio osservazionale, prospettico, multicentrico12. Gli autori hanno riscontrato una elevata incidenza di TEV in pazienti obesi, con neoplasia del tratto gastroenterico, del polmone e nei pazienti con linfoma, con un valore di piastrine prechemioterapia > 350.000/μl, così come l’utilizzo di eritropoietine o di fattori di crescita granulocitari erano associati allo sviluppo di trombosi all’analisi multivariata. Sulla base di tale studio è stato costruito uno score clinico (tabella I) in grado di identificare un sottogruppo di pazienti ambulatoriali con un rischio di TEV sintomatico pari al 7%. Questi dati saranno utili nel disegno di studi futuri di tromboprofilassi nei pazienti ambulatoriali che ricevono chemioterapia. Prevenzione del TEV

Chirurgia È stato riportato che i pazienti oncologici sottoposti a un intervento chirurgico hanno il doppio del rischio di TEV post-


| Linee guida e pratica clinica | Le complicanze tromboemboliche nel paziente con cancro: le linee guida ESMO

Tabella I. Modello predittivo di sviluppo del tromboembolismo venoso nei pazienti oncologici ambulatoriali con cancro attivo che ricevono chemioterapia.

Fattori di rischio correlati al cancro Sede del cancro e istotipo • Rischio molto alto (adenocarcinoma dello stomaco e del pancreas) • Rischio alto (carcinoma del polmone, linfoma, tumori ginecologici, vescica e testicolo)

Punteggio di rischio 2 1

Fattori di rischio “infiammatori” • Conta piastrinica prechemioterapia ≥ 350,000/μL • Emoglobina < 10g/dL o uso di fattori di crescita eritrocitari (eritropoietine, darbepoetina) • Conta leucocitaria prechemioterapia >11,000/μL

1 1 1

macologica ma non dovrebbero essere usati come monoterapia a meno che la profilassi farmacologica non sia controindicata.

Dosaggio in ambito perioperatorio Nei pazienti oncologici chirurgici la EBPM sc ad alto dosaggio (ad esempio enoxaparina 4000 unità di anti-Xa, dalteparina 5000 unità di anti-Xa) una volta al giorno, o ENF 5000 U sc (tre volte al giorno) (tid) sono raccomandate [I, A]. Durata della profilassi Due studi randomizzati, prospettici hanno dimostrato che nei pazienti oncologici sottoposti a chirurgia addominale o pelvica maggiore la profilassi con una EBPM fino a 30 giorni dopo l’intervento può ridurre il rischio di TEV del 60% senza aumentare il rischio di sanguinamento25,26.

Fattori di rischio correlati al paziente Indice di massa corporea ≥ 35 kg/m2

1

Incidenza di TEV • Categoria a basso rischio (punteggio = 0): 0,5% • Categoria a rischio intermedio (punteggio = 1-2): 2% • Categoria ad alto rischio (punteggio ≥ 3): 7%

Raccomandazione – I malati di cancro sottoposti a chirurgia maggiore addominale o pelvica dovrebbero ricevere in ospedale e dopo la dimissione la profilassi postoperatoria con EBPM sc fino ad un mese dopo l’intervento [I, A]. Pazienti medici

operatorio e più di tre volte il rischio di embolia polmonare fatale rispetto ai pazienti che si sottopongono a interventi chirurgici per malattie benigne13. In aggiunta al rischio associato al cancro, un ampio gruppo di pazienti presenta ulteriori fattori di rischio per trombosi, quali l’età, l’immobilità prolungata, l’obesità e i cateteri venosi centrali.

Tromboprofilassi farmacologica Una metanalisi di profilassi peri-operatoria ha dimostrato una ridotta incidenza di TEV in pazienti che hanno ricevuto la profilassi con eparina (13,6%) rispetto ai pazienti senza profilassi (30,6%)14. Gli approcci terapeutici utilizzati per la prevenzione della TEV post-chirurgico includono calze a compressione, basse dosi di eparina non frazionata (ENF) per via sottocutanea (sc) (5000 UI somministrata quotidianamente ogni 8-12 h, iniziando 1-2 ore prima dell’intervento), e più di recente le eparine a basso peso molecolare (EBPM) sc. Diversi studi suggeriscono che nei pazienti con cancro EBPM ed ENF sembrano essere ugualmente efficaci e sicuri15-24. Fondaparinux è risultato essere almeno efficace quanto EBPM nella prevenzione della tromboembolia venosa in un trial prospettico, in doppio cieco, randomizzato, che includeva pazienti ad alto rischio chirurgico addominale, la maggior parte dei quali con malattia maligna. Tuttavia, questo era solo una analisi di sottogruppo post hoc, quindi tale dato richiede la conferma in studi futuri23.

Pazienti medici ospedalizzati Tre trial clinici di elevata qualità, in “pazienti medici ospedalizzati”, che includevano anche pazienti oncologici, hanno dimostrato che la profilassi riduce di circa il 50-60% il rischio di TEV senza aumentare il sanguinamento maggiore27-29. I bassi tassi di sanguinamento osservato con EBPM e fondaparinux nei tre studi medici principali supportano la sicurezza della tromboprofilassi nei pazienti oncologici ricoverati in ospedale.

Raccomandazione – È consigliata la profilassi con ENF, EBPM o fondaparinux nei pazienti oncologici ricoverati allettati e/o con una complicanza acuta medica [I, A].

Profilassi in pazienti ambulatoriali in chemioterapia palliativa per malattia localmente avanzata o metastatica Recentemente sono stati riportati due studi clinici, lo studio ProTechT e lo studio OncoSave30,31. Complessivamente sono stati arruolati più di 4000 pazienti a ricevere nadroparina o placebo (PROTECHT), oppure semuloparina o placebo (ONCOSAVE) in pazienti affetti da carcinoma del polmone, gastrointestinale, testa-collo, neoplasie ginecologiche in stadio localmente avanzato o metastatico. Questi due studi hanno dimostrato una riduzione del 50-60% del rischio di sviluppare TEV. L’incidenza degli eventi nei pazienti trattati con placebo è risultata relativamente bassa (intorno al 4%).

Raccomandazione – Nei pazienti oncologici sottoposti a chirurgia maggiore è raccomandato l’utilizzo di EBPM o di ENF. I metodi meccanici come la compressione pneumatica possono essere aggiunti ad una profilassi far-

Raccomandazione – La profilassi estesa, di routine per i pazienti ambulatoriali in fase avanzata trattati con chemioterapia non è raccomandata, ma può essere diCASCO — Vol 1, n. 2, ottobre-dicembre 2011

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scussa e considerata per i pazienti considerati ad alto rischio [II, C]. Considerare la EBPM o il warfarin [International Normalised Ratio (INR) ~ 1,5] nei pazienti affetti da mieloma multiplo che ricevono talidomide e desametasone o talidomide più chemioterapia32,33 [II, B].

Profilassi nei pazienti oncologici trattati con chemioterapia adiuvante e/o terapia ormonale La profilassi nei pazienti oncologici trattati con chemioterapia adiuvante e/o terapia ormonale non è raccomandata [I, A]. Cateteri venosi centrali (CVC) Negli anni Novanta due studi clinici randomizzati in aperto hanno suggerito un ruolo della profilassi con warfarin o EBPM nei pazienti con un catetere venoso centrale (CVC)34,35. Quattro studi recenti hanno valutato che l’incidenza di TEV CVC correlata è bassa in generale, circa il 3-4%, e che non c’è alcuna differenza statisticamente significativa tra i pazienti sottoposti o meno a tromboprofilassi36-39.

Raccomandazione – La profilassi di routine per evitare TEV CVC correlate non è raccomandata [I, A]. Trattamento del TEV in pazienti con tumori solidi

Trattamento nella fase acuta Lo scopo del trattamento del TEV può essere riassunto come segue: 1. Evitare EP (embolia polmonare) fatale 2. Evitare le recidive di TEV 3. Evitare le complicanze a lungo termine del TEV o della EP come la sindrome post-trombotica e l’ipertensione polmonare tromboembolica cronica. Il trattamento standard iniziale di un episodio acuto di TEV nei pazienti oncologici e non oncologici consiste nella somministrazione di EBPM sc a dosi secondo il peso corporeo: 200 U/kg od (200 unità di anti-Xa per Kg di peso corporeo somministrata una volta al giorno [od]) (dalteparina per esempio) o 100 U/kg (100 unità di anti-Xa per Kg di peso corporeo) somministrati due volte al giorno (enoxaparina) o ENF per via endovenosa (iv) in infusione continua. ENF viene prima somministrato come bolo di 5000 UI, seguito da infusione continua, quasi 30.000 UI in 24 h, per raggiungere e mantenere un tempo di tromboplastina parziale attivata (aPTT) di 1,5-2,5 volte il valore basale. Nei pazienti con grave insufficienza renale (clearance della creatinina <25-30 ml) ENF iv o EBPM con monitoraggio attività anti Xa è raccomandato [I, A]. Terapia trombolitica Il trattamento trombolitico deve essere considerato per uno specifico sottogruppo di pazienti quali quelli con embolia polmonare che presentano una grave disfunzione del ventricolo destro, e per i pazienti con una trombosi massiva dell’asse ilio-femorale con rischio di cangrena dell’arto, lì 42

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dove la decompressione venosa rapida e il restauro del flusso sono prioritari. L’urochinasi, la streptochinasi e l’attivatore tissutale del plasminogeno possono essere utilizzati a tale scopo [II A].

Trattamento a lungo termine In accordo al trattamento standard, la fase iniziale della terapia è seguita da un trattamento con anticoagulante orale con antagonisti della vitamina K (VKA) somministrato per 3-6 mesi (range di INR 2-3). I VKA vanno intrapresi entro 24 ore dall’inizio della somministrazione della terapia eparinica (ENF o EBPM). Una dose piena di eparina è continuata per almeno 5 giorni e sospesa quando il “range” terapeutico dell’anticoagulante orale si mantiene per almeno 2 giorni consecutivi. Tuttavia, la terapia anticoagulante orale con VKA può essere problematica in pazienti con cancro. Interazioni tra VKA e farmaci, malnutrizione e disfunzione del fegato possono portare ad ampie fluttuazioni dell’INR. Nei pazienti oncologici, il possibile beneficio di EBPM per la prevenzione di recidive di TEV è stato studiato in almeno due studi clinici randomizzati40,41. Nel più grande studio 676 pazienti con cancro e TEV sintomatica acuta, dopo il trattamento iniziale con la EBPM dalteparina alla dose di 200 UI per chilogrammo di peso corporeo per via sottocutanea una volta al giorno per 5-7 giorni, sono stati randomizzati a continuare con la stessa dose di dalteparina per 1 mese, seguita da 75-80% della dose iniziale di dalteparina per altri 5 mesi, o a ricevere un VKA per 6 mesi (target INR 2,5)40. Il tasso di tromboembolia venosa ricorrente a 6 mesi è risultato pari al 17% nel gruppo VKA e del 9% nel gruppo dalteparina. Non c’era alcun aumento significativo del tasso di sanguinamento maggiore tra i due bracci. Questo studio ha chiaramente dimostrato che dalteparina è più efficace di un anticoagulante orale con VKA nel ridurre il rischio di tromboembolia venosa ricorrente senza aumentare il rischio di sanguinamento. Un altro piccolo studio ha confermato che la EBPM è più efficace per la prevenzione della TEV recidivato rispetto al warfarin42. I risultati di tutti i suddetti studi clinici randomizzati dimostrano che in questi pazienti il trattamento a lungo termine per 6 mesi con il 75-80% (cioè 150 U/kg od) della dose iniziale di EBPM è sicuro e più efficace del trattamento con VKA. Questo programma a lungo termine della terapia anticoagulante è consigliato nei pazienti con tumore [I, A]. Terapia anticoagulante nei pazienti con recidiva di TEV I pazienti che sviluppano recidive del TEV durante un’adeguata terapia anticoagulante devono essere controllati per escludere la progressione della malattia. I malati di cancro hanno un rischio tre volte maggiore di TEV ricorrente e di sanguinamento durante il trattamento anticoagulante con VKA, rispetto ai pazienti senza cancro43. I pazienti in terapia anticoagulante a lungo termine con VKA, che sviluppano TEV quando INR è nel range sub-terapeutico possono essere ritrattati con ENF o EBPM fino al rag-


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giungimento di un INR stabile tra 2,0 e 3,0 con VKA. Se la recidiva del TEV si verifica durante un INR nel range terapeutico ci sono due opzioni teoriche: 1. o passare ad un altro metodo di anticoagulazione, come Eparina non-frazionata per via sottocutanea con mantenimento del range terapeutico (rapporto aPTT 1,52,5), o con una EBPM con la dose adattata al peso, 2. o aumentare l’INR (ad un target di 3,5). Quest’ultima opzione può risultare molto pericolosa per il rischio di sanguinamento. EBPM a dosaggio pieno (200 U/kg una volta al giorno) può essere reimpostata nuovamente nei pazienti con una recidiva di TEV mentre riceve una dose ridotta di anticoagulazione EBPM o VKA come terapia a lungo termine. La seconda recidiva del TEV si verifica nel 9% dei pazienti in cui venga praticata quest’ultima strategia terapeutica, che risulterebbe anche ben tollerata, con poche complicanze emorragiche44 [II, B].

L’uso di un filtro cavale Nel più grande trial volto a valutare l’efficacia dei filtri cavali, dopo 2 anni di follow-up non vi era alcuna differenza significativa nella sopravvivenza o di EP sintomatica in pazienti (n = 400) randomizzati a ricevere una terapia anticoagulante standard da sola vs la terapia anticoagulante in aggiunta ai filtri cavali45.

Raccomandazione – L’utilizzo di filtro cavale dovrebbe essere considerato nei pazienti con recidiva di embolia polmonare nonostante la terapia anticoagulante adeguata o con una controindicazione alla terapia anticoagulante (cioè sanguinamento attivo e profondo, trombocitopenia prolungata). Una volta che il rischio di sanguinamento è ridotto, i pazienti con filtri cavali dovrebbero ricevere o riprendere la terapia anticoagulante in modo da ridurre il rischio di recidiva di trombosi venosa profonda degli arti inferiori [II, A]. Controindicazione alla terapia anticoagulante Controindicazioni alla terapia anticoagulante sono il sanguinamento attivo, incontrollabile; emorragia cerebrovascolare attiva, le lesioni intracraniche o spinali ad alto rischio di sanguinamento, la pericardite, l’ulcera peptica attiva o altre ulcere gastrointestinali, l’ipertensione maligna grave, incontrollata; il sanguinamento attivo (>2 unità trasfuse in 24 ore); oppure il sanguinamento cronico clinicamente significativo; la trombocitopenia (<50.000/mm3), la grave disfunzione piastrinica; recenti operazioni ad alto rischio di sanguinamento. Anticoagulazione e prognosi dei pazienti con cancro Non vi è evidenza per raccomandare l’utilizzo della terapia anticoagulante al fine di influenzare la prognosi dei pazienti con cancro [I, B]. •

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Tumori e terapie di supporto

Terapia di supporto nei tumori maligni gastrointestinali

Luca Faloppi Stefano Cascinu Oncologia medica AOU Ospedali Riuniti Umberto I Università Politecnica delle Marche Ancona

L

e cure palliative, definite come una attiva e totale presa in carico del paziente, hanno una rilevanza cruciale nei pazienti affetti da cancro gastrointestinale. Negli ultimi anni, il trattamento di supporto dei pazienti oncologici è notevolmente migliorato, soprattutto grazie ad un approccio multimodale che comporta interventi chirurgici, trattamenti endoscopici, supporto nutrizionale, terapia medica e infermieristica.

Ascite L’ascite è l’anomalo ed eccessivo accumulo di liquido nella cavità addominale (peritoneo). L’ascite maligna può essere una manifestazione dello stadio terminale in una grande varietà di tumori ed è associata ad una significativa morbilità. L’ascite può essere un segno di recidiva della malattia o una modalità di presentazione dei tumori gastrointestinali, in particolare dello stomaco, del colon e del pancreas1-3. È noto che circa il 50% dei pazienti con ascite maligna si presenta con tale manifestazione fin dalla diagnosi iniziale4,5. L’insorgenza e la progressione della ascite maligna sono associate al peggioramento della qualità della vita (QoL) e ad una prognosi infausta6. La sopravvivenza mediana dei pazienti con tumore gastrointestinale ed ascite maligna è di 14 mesi ed è inferiore all’1% a 1 anno1. L’ascite maligna in sé non è una malattia, ma è solo un sintomo, quindi la migliore terapia è quella di trattare direttamente il cancro. Tuttavia, in molti casi, la malattia si presenta in stadio molto avanzato. In questi casi, l’unica strategia applicabile è rappresentata dalle cure palliative, con l’obiettivo di ridurre i sintomi associati all’ascite. Diversi studi hanno dimostrato che la paracentesi e l’uso di diuretici, seguiti dal confezionamento di shunt peritoneovenosi e dalla chemioterapia sistemica o intraperitoneale, rappresentano la modalità più comune nella gestione dei pazienti affetti da ascite7-9. Tuttavia, pochi studi prospettici randomizzati sono stati condotti per confrontare le diverse opzioni di trattamento. Attualmente non ci sono dati a sostegno dell’efficacia dei diuretici nei pazienti con ascite maligna. Complessivamente, in questi casi, i diuretici possiedono un’efficacia del

43%9. Va comunque precisato che la causa più frequente di ascite da tumori gastrointestinali avanzati è la carcinosi peritoneale. I diuretici o altri farmaci, in genere, non aiutano a ridurre questo tipo di ascite maligna, in quanto non è causata da un aumento della pressione venosa. Anche se i diuretici possono aiutare alcuni pazienti, il rischio di grave disidratazione, in una popolazione molto fragile, come quella di pazienti sottoposti a cure palliative per una neoplasia avanzata, spesso supera il beneficio. Pertanto, in tale contesto, l’unica soluzione efficace è rappresentata dalla paracentesi palliativa10. La paracentesi è una procedura utilizzata per rimuovere grandi quantità di liquido libero dalla cavità addominale, tramite una puntura asettica eseguita con una cannula collegata ad un sacchetto di drenaggio. Le potenziali complicanze della paracentesi sono rappresentate da infezioni, soprattutto peritoniti, perforazione intestinale o di altri visceri, disidratazione e perdita di proteine, pertanto il trattamento non è indicato in caso di ascite di lieve o moderata entità che non provoca alcuna sintomatologia. Attualmente non esiste un consenso sulla quantità di liquido da drenare e sulle azioni di sostegno finalizzate a prevenire le complicanze della paracentesi stessa9. I risultati di uno studio prospettico su 44 pazienti e 48 paracentesi eseguite hanno suggerito che un significativo miglioramento dei sintomi si ottiene togliendo qualche litro di ascite (media 5,3 litri; mediana 4,9 litri)11. Circa il 90% dei pazienti, affetti da ascite, riferisce un buon controllo dei sintomi, tuttavia il beneficio spesso è solo temporaneo, il che rende necessario ripetere la procedura diverse volte. Di conseguenza, in pazienti che richiedono paracentesi frequenti e dove l’aspettativa di vita è maggiore di quattro settimane, il posizionamento di un drenaggio peritoneale permanente esterno potrebbe rappresentare una soluzione migliore. In rari casi, la chirurgia può essere necessaria per il controllo dell’ascite. Tale opzione comporta il posizionamento di uno shunt permanente utile per drenare il liquido ascitico direttamente dall’addome in una grossa vena. Inizialmente utilizzato per l’ascite intrattabile causata dalla cirrosi epatica, questo dispositivo è stato applicato anche nel trattamento dell’ascite neoplastica. I principali sistemi utilizzati sono lo shunt di Denver e LeVeen12,13. Le principali controindicazioni per l’utilizzo dello shunt sono la presenza di ascite emorragica e di liquido ascitico con un contenuto proteico superiore a 4,5 g/l, a causa del rischio di occlusione della derivazione stessa. Altre controindicazioni sono rappresentate dalla presenza di ascite saccata, dalle malattie emorragiche, CASCO — Vol 1, n. 2, ottobre-dicembre 2011

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dall’insufficienza cardiaca e renale. Anche se i dati a nostra disposizione sono pochi, l’uso di shunt, non sembra aumentare il rischio di metastatizzazione14. Comunque il tasso di risposta nei pazienti con ascite da neoplasia del tratto gastrointestinale, trattati con dispositivi di derivazione, è molto basso (10-15%). Soprattutto a causa della cattiva prognosi di questi pazienti, l’inserimento di shunt venoso peritoneale è controindicato da molti autori9. In generale, il posizionamento dovrebbe essere riservato a pazienti con ascite da tumori non gastrointestinali e in ogni caso, con un’aspettativa di vita superiore a 3 mesi. Recentemente, catumaxomab, un anticorpo trifunzionale che attiva simultaneamente i linfociti T e le cellule immunitarie accessorie per distruggere le cellule tumorali bersaglio che esprimono come antigene epiteliale di superficie la molecola di adesione cellulare (Ep-CAM), è stato sottoposto per l’approvazione alle autorità europee per il trattamento dell’ascite maligna causata da tumori epiteliali metastatici Ep-CAM-positivi15. Catumaxomab ha mostrato un beneficio clinicamente rilevante nei pazienti con recidiva di ascite maligna a causa di carcinomi di diversa origine e ha presentato uno spettro tipico di eventi avversi, principalmente legati alla sua modalità di azione immunologica, che comunque si sono dimostrati ben controllabili. La somministrazione intraperitoneale di catumaxomab può essere considerata come una nuova promettente terapia per l’ascite maligna. D’altra parte, è stato dimostrato che il rilascio del fattore di crescita vascolare endoteliale (VEGF), da parte delle cellule tumorali è un fattore importante nel promuovere la secrezione di liquido intraperitoneale. Inoltre studi recenti hanno dimostrato che bloccare VEGF può interrompere la produzione di ascite causata da metastasi peritoneali. L’applicazione intraperitoneale di anticorpi anti-VEGF, quali bevacizumab, che è già in uso come farmaco per via endovenosa in una grande varietà di tumori, potrebbe essere un modo efficace per prevenire l’accumulo locale di liquidi. Futuri studi clinici dovrebbero valutare rigorosamente l’efficacia di questa terapia mirata per il trattamento dell’ascite maligna16. Ostruzione gastrointestinale La gestione dell’occlusione intestinale nei pazienti con neoplasia gastrointestinale avanzata comprende chirurgia, trattamenti endoscopici e terapia medica. Un’attenta valutazione del singolo paziente dovrebbe essere eseguita per scegliere il trattamento più appropriato per gestire i sintomi. In caso di occlusione gastrointestinale alta, una chirurgia palliativa con la creazione di gastro-digiunostomie può essere presa in considerazione per bypassare l’ostacolo e ripristinare la continuità gastrointestinale. Tuttavia, i pazienti con malattia avanzata o quelli in condizioni generali compromesse e con una breve aspettativa di vita non sono spesso candidati ad intervento chirurgico e richiedono una gestione alternativa per alleviare la sintomatologia. Un’altra opzione nel trattamento della ostruzione dello svuotamento gastrico è rappresentata dall’inserimento di stent metallici auto-espandibili. Queste procedure endoscopiche, poco invasive, sono 46

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utili nei pazienti con malattia avanzata non candidati a chirurgia. Recenti studi mostrano alte percentuali di successo (circa il 90%) in termini di risoluzioni dei sintomi ed aumento dell’apporto dietetico per l’inserimento di stent. Le complicanze gravi sono rare e comprendono: collasso dello stent (8-11%), perforazione intestinale (1%) e migrazione dello stent (1%)17,18. L’uso di stent è una valida opzione anche nella gestione di occlusioni maligne del colon o nel trattamento palliativo della disfagia in pazienti con neoplasia esofagea. La decompressione con sondino naso-gastrico e l’idratazione per via endovenosa rappresentano il trattamento ospedaliero iniziale dell’occlusione intestinale con lo scopo di ridurre le secrezioni, il vomito, il dolore e la distensione addominale e per evitare la disidratazione. L’uso a lungo termine del sondino naso-gastrico non è generalmente indicato: infatti, oltre a causare disagio per i pazienti può causare complicazioni. Il trattamento medico è un’opzione efficace per la gestione dei sintomi di occlusione intestinale inoperabile: gli agenti più utili sono analgesici, farmaci antisecretori e antiemetici. La via di scelta nella somministrazione di farmaci nei pazienti con occlusione intestinale è la via endovenosa. Gli analgesici oppiacei, come la morfina, sono il trattamento di scelta per controllare il dolore. Inoltre, gli anticolinergici possono essere somministrati per controllare meglio il dolore di tipo colico. Il vomito può essere controllato attraverso l’uso di antiemetici, quali metoclopramide, e farmaci che riducono la secrezione gastro-intestinale, come scopolamina butilbromuro e octreotide. L’octreotide è un analogo sintetico della somatostatina con gli stessi effetti biologici, ma una maggiore specificità e maggior durata di azione. L’octreotide diminuisce la secrezione di acqua ed elettroliti da parte dell’epitelio intestinale e sopprime la secrezione gastrointestinale e pancreatica. Inoltre, l’octreotide riduce il flusso ematico mesenterico ed inibisce la motilità intestinale. L’octreotide può essere somministrato per via sottocutanea in bolo o per infusione endovenosa. Due studi randomizzati hanno confrontato octreotide e scopolamina butilbromuro nei pazienti con occlusione intestinale neoplastica non operabile: l’octreotide ha dimostrato di essere più efficace e più rapido nella riduzione delle secrezioni gastrointestinali, della nausea e del numero di episodi di vomito19,20. I corticosteroidi, come il desametasone, possono essere associati ad altri farmaci antiemetici per ridurre l’edema peritumorale al fine di migliorare il controllo del vomito. L’idratazione per via endovenosa è importante per evitare i sintomi di disidratazione. La somministrazione di 1000-1500 ml/die è efficace per ridurre sintomi come nausea e sonnolenza. Ostruzione biliare La prolungata ostruzione biliare, causata da neoplasie primitive o secondarie del tratto gastroenterico, che interessano l’albero biliare, si manifesta con attacchi ricorrenti di colangite, ittero e prurito, e comporta, solitamente, malassorbimento, malnutrizione e progressiva insufficienza epatica. L’ostruzione biliare può essere trattata con un inter-


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vento chirurgico, con il posizionamento di un drenaggio biliare percutaneo o con l’inserimento di uno stent biliare per via endoscopica. Prima di considerare qualsiasi tipo di procedura è importante stabilire che l’ittero sia causato da ostruzione del sistema biliare piuttosto che da un esteso interessamento tumorale del fegato. Diversi studi randomizzati21-24 hanno confrontato la palliazione chirurgica verso quella endoscopica di ittero ostruttivo maligno. La maggior parte dei pazienti studiati aveva un cancro non operabile al pancreas. Nel complesso, sia l’inserimento dello stent per via endoscopica che il bypass chirurgico sembrano essere efficaci. A vantaggio della procedura endoscopica vi sono comunque la riduzione della durata della degenza in ospedale e la più bassa morbilità e mortalità correlata alla procedura. I fattori principali che determinano la scelta dell’approccio più corretto sono lo stadio del tumore e lo stato di salute generale del paziente25. Il by-pass chirurgico dovrebbe essere considerato in pazienti relativamente giovani, in buona salute e quando gli studi di imaging non mostrano alcuna evidenza definitiva di non resecabilità. Il posizionamento di uno stent biliare dovrebbe invece essere utilizzato in pazienti con una massa tumorale grande, con significative comorbilità ed in assenza di ostruzione duodenale. Diversi tipi di stent biliari sono disponibili per la palliazione endoscopica. Alcuni studi randomizzati e controllati26-28 mettono a confronto lo stent metallico auto-espandibile e stent di plastica. In generale, gli stent di plastica sono stati associati ad una maggiore incidenza di colangite e di occlusione e un tasso di ospedalizzazione più lunga rispetto a stent metallici. Sebbene la gestione endoscopica dell’ostruzione biliare maligna presenti una più bassa morbilità e mortalità rispetto al bypass chirurgico e al drenaggio percutaneo25,29,30, tale procedura rappresenta un’importante fonte di complicazioni, che spesso influenzano la prognosi. Le complicazioni del posizionamento di uno stent possono essere suddivise in precoci (complicazioni legate alla colangiopancreatografia retrograda endoscopica come ad esempio, pancreatite, colangite, perforazione) e tardive (ad esempio, la migrazione, la rottura e l’occlusione dello stent)31,32. L’occlusione dello stent con conseguente sviluppo di colangite rimane il problema più significativo dell’endoprotesi biliare. La bile è normalmente sterile, tuttavia, con la perdita della funzione di barriera dello sfintere di Oddi, come avviene con il posizionamento dello stent, il sistema biliare è rapidamente colonizzato da batteri intestinali. Vari approcci per prolungare la pervietà degli stent (ad esempio, modificando la superficie dello stent con un rivestimento polimerico, somministrazione di antibiotici e di agenti mucolitici) hanno dato risultati promettenti in vitro, tuttavia, nessuno ha dimostrato di prolungare la vita costantemente nella pratica clinica con gli stent. Anoressia e cachessia Nei pazienti affetti da neoplasie del tratto gastrointestinale, una malnutrizione progressiva è comunemente osser-

vata durante il corso della malattia. Essenzialmente, questo è il risultato di due meccanismi principali: anoressia, cioè un ridotto apporto nutrizionale a causa di sintomi legati alla malattia primaria o di effetti collaterali del trattamento, e cachessia, una sindrome metabolica complessa causata da trasmettitori di natura endogena e citochine rilasciate dalle cellule tumorali. L’anoressia è abbastanza usuale in pazienti affetti da neoplasia gastroenterica e può trovare diverse cause. Il tumore primario può essere responsabile di stenosi del tratto gastrointestinale e conseguente disfagia, come nei tumori della giunzione esofago-gastrica. Inoltre, i pazienti con carcinosi peritoneale possono presentare alterazioni della motilità intestinale con conseguente nausea e vomito e quindi ridotto apporto nutrizionale. Anche gli effetti collaterali della terapia sistemica possono essere responsabili di anoressia: alterazioni del gusto, nausea e vomito sono comuni tossicità della chemioterapia, e possono portare ad un’alimentazione ridotta. La cachessia è una sindrome caratterizzata dalla perdita di peso corporeo (>10%), bilancio energetico negativo e perdita di muscolatura scheletrica. In questi pazienti si osservano importanti alterazioni metaboliche ed ormonali oltre ad un cambiamento nella composizione corporea. Citochine, come TNF-α, IL-6 e l’interferone-γ sono tutti possibili mediatori di questo incrementato catabolismo proteico. Dal punto di vista clinico la cachessia si manifesta con perdita di peso ed in particolare con riduzione del tessuto adiposo sottocutaneo e riduzione della massa muscolare, in presenza di normali livelli di proteine plasmatiche. Alterazioni ormonali, come aumento di livelli sierici di insulina e cortisolo sono frequentemente osservate con conseguenti modifiche nel metabolismo dei carboidrati, tra cui intolleranza al glucosio ed aumento della gluconeogenesi. Anoressia e cachessia possono avere effetto sinergico negativo sullo stato dei pazienti, in termini di qualità della vita, morbilità e sopravvivenza. Un adeguato supporto nutrizionale è quindi una componente essenziale del trattamento palliativo dei pazienti con neoplasia gastrointestinale avanzata. Una prima valutazione dello stato nutrizionale e dell’apporto energetico deve essere eseguita all’inizio della malattia e ripetuta poi nel corso del trattamento. Una supplementazione della dieta con l’uso di integratori nutrizionali, ad alto valore calorico e alti livelli di proteine, è consigliato come primo passo nel supporto nutrizionale dei pazienti oncologici. Un’alimentazione con sondino naso-gastrico può essere presa in considerazione se il supporto nutrizionale è necessario solo per brevi periodi mentre l’utilizzo di PEG (gastrostomia percutanea endoscopica) è indicato in caso di ostruzione gastrointestinale superiore o quando un supporto nutrizionale è necessario per periodi più lunghi. La nutrizione parenterale (NP) è indicata quando la nutrizione enterale non è possibile, come nella occlusione intestinale o in presenza di patologie intestinali che compromettano la digestione. La NP può aiutare a stabilizzare il peso del paziente, attenuare il deterioramento dello stato nutrizionale e migliorare la qualità della vita33. Tuttavia, l’uso della nutrizione parenterale nei pazienti con neoplasia in cure palliaCASCO — Vol 1, n. 2, ottobre-dicembre 2011

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tive ed aspettativa di vita breve (aspettativa di vita <3 mesi e Karnofsky performance status < 50%) è molto controverso34 e dovrebbe essere discusso con il paziente e la famiglia. Nelle ultime fasi della vita, un’idratazione con 10001500 ml di soluzione salina isotonica è generalmente sufficiente. Diarrea La diarrea, definita come aumento dell’emissione della quantità giornaliera di feci (in genere > 200 g) con diminuzione della loro consistenza e aumento della frequenza di scarica dell’alvo, è un problema comune e significativo tra i pazienti con tumore gastrointestinale. In particolare, la diarrea indotta da chemioterapia può essere grave ed associata a complicanze potenzialmente letali come la disidratazione o alterazioni elettrolitiche. Tuttavia, la chemioterapia non è l’unica causa di diarrea nei pazienti con tumore gastrointestinale ed un’attenta analisi dei possibili agenti causali può portare ad una gestione più accurata del problema, aiutando a prevenire complicanze potenzialmente gravi. Gli agenti chemioterapici comunemente utilizzati nel trattamento del cancro colorettale e di altre neoplasie gastrointestinali, come 5-fluorouracile (5-FU), capecitabina ed irinotecan, sono frequentemente causa di diarrea. In studi clinici randomizzati di fase III, questi agenti sono risultati associati a diarrea nel 50-80% dei pazienti se usati da soli o in combinazione. Inoltre, l’incidenza di diarrea di grado 3 o 4 raggiunge il 30%, specialmente con l’uso di irinotecan35. Alla patogenesi della diarrea indotta da chemioterapia contribuiscono sia un danno diretto alla mucosa intestinale, con conseguenti anomalie dell’ assorbimento e della secrezione di fluidi nel piccolo intestino, sia le infezioni batteriche opportunistiche. Anche fattori genetici possono aumentare il rischio e la gravità della diarrea indotta da chemioterapia. Per esempio, è ben noto come la somministrazione di 5-FU a pazienti con deficit di DPD (Diidropirimidina Deidrogenasi) può portare a grave diarrea, mucosite e pancitopenia, mentre i polimorfismi genetici che influenzano UGT (UDP-glucoronosyltransferase) sono associati ad un aumentato rischio di diarrea dopo il trattamento con irinotecan. Anche gli agenti anti-EGFR (Epidermal Growth Factor Receptor), come cetuximab e panitumumab, comunemente usato nel trattamento del cancro colorettale, possono essere associati a diarrea che raramente presenta caratteri di gravità con un tasso di 1-2% di tossicità di grado 3-436. La radioterapia dell’addome e della pelvi può portare a enterite acuta o proctite, causando diarrea e tenesmo. Altre comuni cause di diarrea nei pazienti con tumore gastrointestinale sono: sub-occlusioni intestinali, che si manifestano con stipsi alternata a diarrea, insufficienza pancreatica con sindromi da malassorbimento, resezioni del colon che comportano una riduzione della capacità di assorbimento intestinale di acqua, e sindrome da carcinoide. La gestione dei pazienti affetti da tumore gastrointestinale con diarrea si basa sulla reidratazione, che può essere eseguita sia per via orale sia attraverso infusione parenterale 48

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di liquidi, e sull’utilizzo di farmaci antidiarroici. La loperamide, un oppioide con attività locale a livello intestinale, rappresenta il farmaco di scelta in quanto può ridurre la motilità intestinale e ridurre i movimenti intestinali, senza effetti sistemici. La loperamide è solitamente iniziata alla dose di 4 mg, seguita da 2 mg ogni due ore o dopo ogni emissione di feci non formate. L’octreotide è un analogo della somatostatina che viene utilizzato in caso di diarrea grave o persistente. L’octreotide presenta diverse azioni di tipo antidiarroico, tra cui una riduzione della secrezione di alcuni ormoni, come il VIP (peptide intestinale vasoattivo), il prolungamento del tempo di transito intestinale e lo stimolo ad un maggiore assorbimento di liquidi ed elettroliti. Tale farmaco si è dimostrato più efficace della loperamide a dosaggi standard nel trattamento della diarrea indotta da chemioterapia37. Il dosaggio ottimale dell’octreotide non è ben definito. Le attuali linee guida di trattamento consigliano una dose iniziale di 100-150 mg per via sottocutanea (sc) o per via endovenosa (iv) tre volte al giorno. Le dosi potrebbero essere aumentate a 500 mg sc/iv tre volte al giorno o per infusione continua ev 25-50 mg/ora. Pazienti non complicati, con diarrea di grado 1 o 2 e senza altri sintomi, possono essere gestiti in modo conservativo, con idratazione orale e loperamide, mentre quelli con diarrea grave o con sintomatologia associata (ad esempio crampi addominali, nausea, vomito, febbre, sepsi, neutropenia o sanguinamento) dovrebbero essere ricoverati in ospedale e trattati aggressivamente con octreotide, fluidi per via endovenosa, antibiotici ed un adeguato work-up diagnostico. • Bibliografia 1. Runyon BA. Care of patients with ascites. N Engl J Med 1994; 330: 337-42. 2. Parsons SL, Watson SA, Steele RJ. Malignant ascites. Br J Surg 1996; 83: 6-14. 3. Runyon BA, Hoefs JC, Morgan TR. Ascitic fluid analysis in malignancy-related ascites. Hepatology 1988; 8: 1104-9. 4. Garrison RN, Kaelin LD, Galloway RH, Heuser LS. Malignant ascites: clinical and experimental observations. Ann Surg 1986; 203: 644-51. 5. Parsons SL, Lang MW, Steele RJC. Malignant ascites: a 2 year review from a teaching hospital. Eur J Surg Oncol 1996; 22: 237-9. 6. Ayantunde AA, Parsons SL. Pattern and prognostic factors in patients with malignant ascites: a retrospective study. Ann Oncol 2007; 18: 945-9. 7. Rosenberg SM. Palliation of malignant ascites. Gastroenterol Clin N Am 2006; 35: 189-9. 8. Ringenberg QS, Doll DC, Loy TS, et al. Malignant ascites of unknown origin. Cancer 1989; 64: 753-5. 9. Becker G, Galandi D, Blum HE. Malignant ascites: systematic review and guideline for treatment. Eur J Cancer 2006; 42: 58997. 10. Pockros PJ, Esrason KT, Nguyen C, et al. Mobilization of malignant ascites with diuretics is dependent on ascitic fluid characteristics. Gastroenterology 1992; 103: 1203-6. 11. McNamara P. Paracentesis: an effective method of symptom control in the palliative care setting? Palliative Med 2000; 14: 62-4. 12. LeVeen HH, Christoudias G, Ip M, et al. Peritoneovenous shunting for ascites. Ann Surg 1974; 180: 580-91.


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Gestione eventi avversi

Le vampate di calore in terapia antitumorale per carcinoma mammario

Martina Nunzi Silvia Sabatini SC di Oncologia Azienda Ospedaliera di Terni

Introduzione Da una recente analisi sistematica condotta in 187 paesi è emerso che l’incidenza globale di carcinoma della mammella è aumentata dal 1980 al 2010, passando da 641.000 casi a 1.643.000 casi, con un tasso annuale di incremento del 3,1%. Il numero delle morti per carcinoma mammario è passato da 250.000 nel 1980 a 425.000 nel 2010 con un tasso annuale di incremento dell’1,8%1. Se ne deduce che il numero delle donne lungosopravviventi dopo una diagnosi di carcinoma mammario è in costante aumento e tali pazienti arrivano a rappresentare più del 40% di tutte le donne lungosopravviventi dopo diagnosi di tumore. Molte di queste pazienti sono destinate a sperimentare una serie di sintomi e complicanze a lungo termine delle terapie antineoplastiche, tra cui vampate di calore, fatigue, insonnia, artromialgie, alterazioni neurocognitive, neuropatie, aumento di peso, disfunzioni sessuali, ansia e depressione. Tali sintomi, che possono impattare anche pesantemente sulla qualità di vita delle donne, rendono ragione dell’utilizzo da parte di queste pazienti di tutta una serie di terapie specifiche, sia farmacologiche che non farmacologiche. Definizione e incidenza Le vampate di calore sono estremamente comuni nelle donne con diagnosi di carcinoma mammario; due terzi di tutte le pazienti ne sono interessate e il 60% di esse descrive l’entità di tale sintomo come moderata o severa2. Diverse sono le ragioni che spiegano questa alta incidenza. La maggior parte delle donne alle quali viene diagnosticato un carcinoma mammario è in post-menopausa ed alcune interrompono bruscamente la terapia ormonale sostitutiva. La disfunzione ovarica chemio-indotta e le procedure terapeutiche di soppressione ovarica causano spesso una menopausa precoce. Infine, tale sintomo è un effetto collaterale comune delle terapie endocrine, che causano uno stato di deprivazione estrogenica; circa il 40-67% delle donne in terapia con tamoxifene e il 35-37% di quelle in terapia con inibitori dell’aromatasi riferiscono vampate di calore. Tale sintomatologia viene spesso descritta come un episodio di sensazione di intenso calore, accompagnato da rossore e sudorazione che interessano il volto e il torace, spesso asso50

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ciati anche a cardiopalmo e stato di ansia. Ogni episodio dura dai 3 ai 10 minuti e può ricorrere nell’ambito della giornata con una frequenza variabile; è stato dimostrato che la frequenza e l’intensità delle vampate di calore sono maggiori nelle pazienti con diagnosi di carcinoma mammario, rispetto alla popolazione di donne sane in menopausa spontanea, e contribuiscono a peggiorare la qualità di vita3. Fisiopatologia La fisiopatologia delle vampate di calore non è ancora del tutto nota; è stata ipotizzata una disfunzione del nucleo termoregolatore, essenziale nella regolazione dell’omeostasi e della temperatura corporea interna che viene mantenuta nell’ambito di un range denominato zona termoregolatoria. La sudorazione interviene quando la temperatura interna oltrepassa il limite superiore della zona termoregolatoria, mentre se si va al di sotto del limite inferiore interviene il brivido. È stato dimostrato che le donne con vampate di calore hanno una ristretta zona termoregolatoria, e ciò renderebbe ragione della maggiore facilità di oltrepassare il range di omeostasi corporea, con la conseguente comparsa del sintomo. Inoltre, il declino dei livelli estrogenici tipico della menopausa determina un aumento dei livelli di norepinefrina che porta ad una up-regolazione dei recettori ipotalamici della serotonina, coinvolti nella regolazione della temperatura corporea; ciò determina un ulteriore abbassamento del limite superiore della zona termoregolatoria. La rapidità della riduzione degli estrogeni, piuttosto che il loro livello assoluto condiziona l’insorgenza della sintomatologia. Ciò renderebbe ragione della maggiore frequenza e intensità delle vampate di calore nel caso di una menopausa indotta artificialmente o prematuramente, rispetto alla menopausa naturale e spontanea4. Modalità di trattamento L’obiettivo principale della terapia delle vampate di calore nelle pazienti che hanno ricevuto o che sono in trattamento per il tumore della mammella è quello di mantenere un’adeguata qualità di vita, che possa anche garantire, qualora in atto, la compliance al trattamento stesso e quindi la sua efficacia. Si può infatti verificare l’interruzione precoce della terapia antitumorale come conseguenza della comparsa di effetti collaterali che peggiorano la qualità di vita. Nel corso degli anni molte modalità terapeutiche, sia farmacologiche che non farmacologiche, sono state oggetto di studio. L’analisi critica dei risultati degli studi in questo settore non dovrebbe prescindere da alcune considerazioni di


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ordine metodologico, data la possibilità di arrivare a false conclusioni, ciò a causa della difficoltà di misurare un sintomo intangibile e soggettivo come la vampata di calore, della nota difficoltà nella misurazione dei parametri inerenti la qualità di vita dei pazienti e della eterogeneità delle modalità di trattamento, anche non farmacologico, con tutti i limiti che gli studi sulle terapie alternative ancora possono avere. Allo scopo di dare una risposta a questi quesiti, dieci anni orsono è stata prodotta una metanalisi coinvolgente circa 1000 pazienti. Nell’ambito di questo studio, gli autori hanno validato come strumento di misurazione delle vampate di calore un diario giornaliero compilato autonomamente dalle pazienti, (NCCTG Hot Flash Diary) in cui veniva riportata la frequenza giornaliera delle vampate, nonché uno score che prendeva in considerazione anche la loro severità. Tale strumento di misurazione è riuscito a correlarsi con la valutazione di altri sintomi potenzialmente connessi con le vampate, tipo l’insonnia e la sudorazione, e con la valutazione della qualità di vita. Inoltre, esso è riuscito a discriminare in maniera statisticamente significativa le differenze di efficacia dei trattamenti oggetto dei vari studi confrontati con il placebo. Gli autori hanno inoltre osservato in molti studi sulle vampate di calore un sostanziale effetto placebo. In media, si ha con il placebo una diminuzione della frequenza e dell’entità del sintomo di circa il 20-30%. Circa un paziente su 4 nel braccio placebo riporta una riduzione del 50% del sintomo. Infine, è stato calcolato a 50 pazienti per braccio il numero minimo di pazienti che uno studio randomizzato di fase III dovrebbe avere per dimostrare in maniera significativa l’efficacia di un farmaco nel ridurre le vampate di calore5. Tutte queste informazioni dovrebbero guidare sia chi si accinge ad interpretare in maniera critica uno studio riguardante una modalità di trattamento delle vampate di calore, sia chi un tale studio vuole ideare. Terapia farmacologica

Terapie non ormonali I farmaci studiati appartengono alla categoria degli agenti neuroattivi, in grado di interferire con i sistemi responsabili dell’alterazione del centro termoregolatore ipotalamico. Tra questi, quelli per i quali è stata dimostrata l’efficacia, in termini di riduzione della frequenza e gravità delle vampate di calore, in studi di confronto verso il placebo, sono gli inibitori del re-uptake della serotonina (SSRI), la gabapentina, pregabalin e la clonidina. Inibitori del re-uptake della serotonina (SSRI) Tra gli SSRI, sono stati valutati per la terapia delle vampate di calore la venlafaxina, il citalopram e la fluoxetina. Nell’ambito degli studi randomizzati, l’efficacia della venlafaxina è stata confrontata verso il placebo, verso altri farmaci (clonidina e gabapentina) e verso trattamenti non convenzionali (agopuntura). Lo studio verso placebo ha randomizzato 229 pazienti, con storia di tumore della mammella, a ricevere tre dosi giornaliere di venlafaxina (37,5 mg, 75 mg, 150 mg) o placebo per 4 settimane. L’obiettivo prin-

cipale dello studio è stato valutare l’attività mediana giornaliera delle vampate di calore, intesa come numero delle vampate e lo score che combina il numero con la severità del sintomo (hot flash score). Su 191 donne valutabili vi è stata una riduzione dello score mediano rispetto al basale del 27% con il placebo, del 37% con venlafaxina 37,5 mg, 61% con venlafaxina 75 mg e 61% con venlafaxina 150 mg (p<0,001). La venlafaxina ha dimostrato inoltre di migliorare in maniera significativa la qualità di vita e la depressione. Gli autori concludono che la venlafaxina può alleviare le vampate di calore e raccomandano la dose di 75 mg/die, poiché si è dimostrata significativamente più efficace rispetto alla dose di 37,5 mg/die ed egualmente efficace e meglio tollerata rispetto alla dose di 150 mg/die6. Il ruolo positivo della venlafaxina viene confermato anche negli studi di confronto con la clonidina. In uno studio randomizzato in doppio cieco, 80 pazienti con anamnesi positiva per carcinoma mammario sono state randomizzate a ricevere venlafaxina alla dose di 37,5 mg x 2/die o clonidina alla dose di 0,075 mg x 2 /die per 4 settimane; l’obiettivo principale è stata la valutazione della frequenza delle vampate di calore al termine del trattamento rispetto al basale. Nelle 64 pazienti valutabili vi è stata una riduzione della frequenza del 57% nel braccio di terapia con la venlafaxina verso una riduzione del 37% nel braccio di terapia con la clonidina (p=0,025)7. In uno studio randomizzato in doppio cieco, recentemente pubblicato, su 102 pazienti, è stata confrontata la venlafaxina alla dose di 75 mg/die verso la clonidina alla dose di 0,1 mg/die verso il placebo per 12 settimane di terapia. L’obiettivo principale è stata la valutazione al termine del trattamento dell’hot flash score giornaliero. Nelle 80 donne valutabili è emersa una riduzione dello score di circa il 45% dei 2 trattamenti verso il placebo (p=0,03), senza nessuna differenza tra clonidina e venlafaxina (p=0,58), sebbene la venlafaxina abbia dimostrato una maggiore rapidità nel primo mese di trattamento, nel raggiungimento dell’effetto desiderato8. La venlafaxina è stata inoltre confrontata con la gabapentina in uno studio randomizzato della durata di 12 settimane, con crossover programmato. La venlafaxina è stata somministrata alla dose di 75 mg/die e la gabapentina alla dose di 900 mg/die (graduale incremento della dose a partire da 300 mg/die). L’obiettivo principale è stato quello di valutare la preferenza delle donne nei confronti di uno dei due trattamenti in studio. Delle 56 donne valutabili sulle 66 randomizzate, 38 (68%) hanno preferito la venlafaxina (p=0,01). Tuttavia, la riduzione dell’hot flash score rispetto al basale è stata del 66% per entrambi i trattamenti (p < .001)9. La terapia con la venlafaxina si può associare ad effetti collaterali tra cui, secchezza delle mucose, nausea, inappetenza, stipsi e disfunzioni sessuali. L’incremento graduale della dose (37,5 mg/die x 7 giorni, poi 75 mg/die) sembra migliorare la tollerabilità del farmaco, ma va sottolineato che la valutazione degli effetti collaterali in questo setting di pazienti potrebbe non essere accurata a causa del breve periodo di osservazione (4-12 settimane di terapia negli studi sopracitati). CASCO — Vol 1, n. 2, ottobre-dicembre 2011

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Tra gli altri SSRI studiati nel trattamento delle vampate di calore, ci sono anche il citalopram e la fluoxetina. Il citalopram confrontato con il placebo si è dimostrato un agente efficace e ben tollerato in uno studio che ha randomizzato 254 donne in menopausa di cui solo un terzo con storia di neoplasia mammaria10. Per quanto riguarda la fluoxetina, sebbene moderatamente efficace rispetto al placebo, non viene oggi considerata come farmaco di prima scelta in quanto interferisce in maniera significativa con il tamoxifene per la sua potente azione inibitoria del CYP2D6. Gabapentina Il ruolo della gabapentina nel migliorare le vampate di calore è stato valutato verso placebo sia in donne in menopausa fisiologica che in donne con storia di neoplasia mammaria. Queste ultime sono state oggetto di uno studio randomizzato in doppio cieco di confronto tra placebo, gabapentina 300 mg/die e gabapentina 900 mg/die per 8 settimane. L’obiettivo principale è stato il decremento percentuale dell’hot flash score al termine della terapia rispetto al basale. Nelle 347 pazienti valutabili delle 420 randomizzate si è avuta una riduzione dell’hot flash score del 15% nel gruppo del placebo, del 31% nel gruppo assegnato alla gabapentina 300 mg/die e del 46% in quello con lo stesso farmaco a 900 mg/die; soltanto la dose maggiore di gabapentina è stata associata a un significativo decremento dell’hot flash score. Tra gli effetti collaterali del farmaco sono stati segnalati sonnolenza e astenia ed essi sono stati la causa più frequente di interruzione del trattamento al dosaggio di 900 mg/die. Una simile percentuale di interruzione del trattamento si è verificata nel braccio con dosaggio di 300 mg/die, questa volta a causa dell’inefficacia della terapia11. Pregabalin In considerazione dell’efficacia dimostrata per la gabapentina, anche il pregabalin, simile per il meccanismo d’azione, è stato oggetto di valutazione. In uno studio randomizzato, il pregabalin al dosaggio di 75 mg x 2/die e 150 mg x 2/die è stato confrontato con il placebo per 6 settimane di terapia. L’obiettivo principale dello studio è stata la valutazione della riduzione dell’hot flash score rispetto al basale. Sono state arruolate 207 donne, delle quali sono state giudicate valutabili 163. Alla sesta settimana di terapia la percentuale di riduzione dell’hot flash score è stata del 50% con il placebo, del 65% con pregabalin a 75 mg x2 e del 71% con pregabalin a 150 mg x 2/die (p=0,009 e p=0,007 dei bracci con il pregabalin verso il placebo). Il trattamento è stato ben tollerato sebbene una maggiore tossicità si sia verificata con il dosaggio più alto del farmaco12. Clonidina Dato il razionale fisiopatologico della vampata di calore, coinvolgente il meccanismo noradrenergico, anche la clonidina è stato oggetto di numerosi studi nel corso degli anni. Sebbene le singole esperienze abbiano riportato una riduzione delle vampate di calore del 15-20% rispetto al pla52

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cebo, la metanalisi comprendente 10 studi non ha confermato un reale beneficio di questo farmaco, peraltro gravato da significativi effetti collaterali (secchezza delle mucose, stipsi e sonnolenza)13.

Terapie ormonali Numerosi trial randomizzati hanno dimostrato che la terapia estrogenica sostitutiva riduce marcatamente la frequenza e l’intensità delle vampate di calore, tuttavia, il rischio correlato al cancro della mammella non rende questa terapia raccomandabile, soprattutto nel setting delle donne lungosopravviventi dopo diagnosi di carcinoma mammario. Anche per quanto riguarda la terapia con agenti progestinici (medrossiprogesterone acetato), sono stati prodotti dati di efficacia, ma la sicurezza è ancora da dimostrare. Terapie non farmacologiche L’utilizzo di terapie non farmacologiche per il trattamento delle vampate di calore trova un reale gradimento nelle pazienti con questo sintomo, in quanto potrebbe far evitare gli effetti collaterali e i costi di una terapia farmacologica. Tali modalità di trattamento comprendono l’assunzione di vitamine e integratori dietetici, l’agopuntura, le tecniche di rilassamento e yoga e alcuni cambiamenti nello stile di vita, atti a mantenere bassa la temperatura corporea. L’assunzione di fitoestrogeni, derivati della soia e dalla vitamina E non è raccomandata in quanto non se ne è dimostrata l’efficacia in studi clinici randomizzati verso placebo. Risultati discordanti sono emersi dagli studi condotti sull’agopuntura. Una recente metanalisi di 11 studi (5 controllati con placebo) ha fallito nel confermare il beneficio nel trattamento delle vampate di calore. Tuttavia, uno studio successivo di confronto verso la venlafaxina (75 mg/die), che ha coinvolto 50 pazienti, ha mostrato non solo un beneficio equivalente delle due modalità terapeutiche al termine delle 12 settimane di terapia, ma anche un effetto “carry over” della sola agopuntura a due mesi dal termine del trattamento, in assenza di effetti collaterali14. Riguardo i cambiamenti dello stile di vita, sebbene non siano supportati da evidenze scientifiche, vengono consigliati dalla North American Menopause Society, in quanto in grado di offrire sollievo, in assenza di controindicazioni e costi. È quindi utile consigliare alle donne di individuare ed evitare le cause scatenanti le vampate di calore come l’assunzione di bevande calde e contenenti caffeina, cibi speziati e piccanti, l’abitudine al fumo di tabacco, frequentare ambienti molto caldi ed indossare abiti pesanti, soprattutto durante il sonno15. Conclusioni Le vampate di calore continuano a rappresentare un sintomo frequente e importante nelle donne lungosopravviventi dopo diagnosi di neoplasia mammaria, tale da poterne alterare la qualità di vita. Da ciò è derivato l’interesse ad individuare terapie efficaci. Numerose sono state le modalità di trattamento oggetto di studio, che permettono di proporre alle pazienti terapie personalizzate in base alla severità del sintomo e la possibilità, qualora un’opzione fallisca,


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di proporne una diversa. Tuttavia andrebbero sottolineate alcune criticità. Innanzitutto, nel loro complesso, gli studi sulle terapie farmacologiche rendono difficile un’interpretazione chiara e univoca dei risultati, in quanto appaiono disomogenei per gli end-point utilizzati, la durata del trattamento, che è comunque sempre troppo breve, la numerosità del campione, che a volte è insufficiente, e per l’eterogeneicità della popolazione (tipologia della menopausa, concomitante ormonoterapia per tumore della mammella). Per una corretta interpretazione dei risultati va inoltre nuovamente sottolineato il significativo effetto placebo riportato in questi studi, da considerare anche nel caso di risposte aneddotiche riscontrate con un nuovo farmaco in sperimentazione. Infine, appare ragionevole riflettere sul reale beneficio clinico della terapia farmacologica per le pazienti, in quanto, seppure nella maggior parte dei casi vi sia il raggiungimento della significatività statistica per la riduzione delle vampate di calore, a volte, in termini assoluti, ciò si traduce nella riduzione di pochi eventi giornalieri, senza un reale miglioramento sulla qualità di vita, parametro peraltro non sempre riportato. Quindi, nella scelta della terapia, deve essere discusso con la paziente il rapporto costo-beneficio, cercando di valutare quanto la qualità di vita è alterata dalle vampate e quanto ciò giustifichi un approccio farmacologico, tenuto conto anche dei possibili effetti collaterali. • Bibliografia 1. Forouzanfar MH. Breast and cervical cancer in 187 countries between 1980 and 2010: a systematic analysis. Lancet 2011; 378: 1461-84. 2. Carpenter JS. Hot flashes in postmenopausal women treated for breast carcinoma: prevalence, severity, correlates, management and relation to quality of life. Cancer 1998; 82: 1682-91.

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Il punto su...

Sedazione palliativa

Guglielmo Fumi SC di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera di Terni

Definizione (cosa) Si definisce sedazione palliativa (SP) quell’atto medico con cui, per controllare sintomi altrimenti intollerabili per il paziente e refrattari ad ogni altro idoneo trattamento, si riduce intenzionalmente la vigilanza del malato con mezzi farmacologici, provocando un abbassamento del livello di coscienza variabile fino all’abolizione stessa della coscienza. Va precisato che il contesto riguarda la fase finale della vita. Su questa linea si ritrovano le raccomandazioni di varie società scientifiche, fra cui la SICP (Società Italiana di Cure Palliative), la EAPC (European Association for Palliative Care), la SECPAL (Sociedad Española de Cuidados Paliativos) e altre ancora. La precedente espressione “sedazione terminale” è stata recentemente sostituita da quella più adeguata di “sedazione palliativa” (Palliative Sedation Therapy), anche per ovviare al possibile equivoco circa l’irreversibilità dell’intervento sedativo e una sua possibile relazione causa-effetto circa il terminare della vita. Tale atto trova quindi indicazione nel caso di sintomi cosiddetti “refrattari” e di forte impatto negativo sulla qualità di vita del paziente. Ma quand’è che un sintomo può essere definito refrattario? Quando non risulta controllato adeguatamente malgrado gli sforzi tesi ad identificare un trattamento che sia tollerabile, efficace, praticato da un esperto e che non comprometta lo stato di coscienza. Il clinico dovrà quindi assicurarsi che ogni ulteriore intervento terapeutico non possa recare sollievo o sia gravato da effetti collaterali intollerabili, o sia inadatto a controllare il sintomo in un tempo accettabile. È necessario che la diagnosi di refrattarietà del sintomo nella fase finale della vita, e la conseguente indicazione alla SP, siano espressione d’intesa della equipe curante e quindi condivisa; solo così la comunicazione al paziente e ai familiari (nonché agli operatori dei turni di lavoro successivi) di quanto deciso potrà risultare efficace. Indicazioni (quando fare) Le indicazioni ad iniziare la SP, giudicata l’aspettativa di vita compresa fra poche ore e pochi giorni, sono per lo più riferibili: a. all’insorgere di eventi acuti, che comportino una situazione di morte imminente; 54

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1. distress respiratorio refrattario ingravescente, con sensazione di morte imminente per soffocamento, accompagnato da crisi di panico; 2. sanguinamenti massivi, giudicati non passibili di trattamento chirurgico o altri mezzi, in particolare i sanguinamenti esterni e visibili, soprattutto a carico delle vie digestive e respiratorie. In questi casi la sedazione si può configurare come trattamento di emergenza a causa dell’ineluttabilità della morte e dell’estrema sofferenza psico-fisica del malato. b. A situazioni di progressivo aggravamento del sintomo fino alla sua refrattarietà al migliore trattamento possibile. Sintomi refrattari sono descritti in ogni condizione di malattia neoplastica maligna, più spesso associati a neoplasie del testa collo, polmone, tratto gastro-enterico, mammella. I sintomi riportati più frequentemente quali refrattari sono la dispnea (35-50% dei casi) e il delirio iperattivo (3045% dei casi). La nausea e il vomito incoercibile in caso di occlusione intestinale sono rilevati nel 25% dei casi. L’irrequietezza psicomotoria e l’ansia in fase terminale sono riportati quale indicazione alla SP nel 20% dei malati ricoverati in hospice. Il dolore refrattario è riportato raramente (5%). Una minoranza di pazienti necessita di SP per un particolare quadro sintomatico refrattario non fisico, definito genericamente come stato di distress psicologico o esistenziale o mental anguish. I principali elementi costitutivi del distress psicologico riportati in letteratura sono: a. perdita del senso e del valore della vita (61%); b. sensazione di dipendenza e di essere di peso per gli altri (48%); c. ansia, panico, paura della morte (33%); d. desiderio di controllare il tempo della propria morte (24%); e. senso di abbandono (22%). Ancora: perdita della speranza, delusione, distruzione dell’identità personale e rimorso. In letteratura il dato di prevalenza della SP nel distress psicologico è molto variabile (0,4-16%), a causa delle diverse definizioni e dei criteri d’inclusione utilizzati. La scelta di sedare un malato sofferente psicologicamente è sicuramente più problematica di quella motivata dalla presenza di sintomi prevalentemente fisici; la scarsità di sistemi valutativi clinici e psicologici standardizzati, specialmente nella fase finale della vita, accentua il disagio degli operatori. Talvolta il malato con distress esistenziale si presenta vigile, consapevole e con un buon controllo dei sintomi fisici, rendendo ancor


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più complessa la decisione di ricorrere alla sedazione; a maggior ragione in questi casi andranno utilizzati percorsi multidisciplinari, includendo anche professionisti della psichiatria, dell’etica e figure di supporto spirituale. La partecipazione di questi ultimi, se pure nella pratica ancora sporadica, non viene più fortunatamente considerata “anomala” nella vita dei reparti, risultando gli stessi operatori preziosi anche nella gestione dell’inevitabile stress emozionale dei sanitari e dei familiari dei pazienti. Tecniche (come fare) Va sottolineato come le definizioni di SP della SICP e EACP escludano le sedazioni occasionali (terapie ansiolitiche, modulazione del sonno). Una distinzione controversa è anche tra sedazione intermittente (legata ad andamenti irregolari della intensità di un sintomo refrattario) e continua, a seconda che lo schema terapeutico consenta o meno al malato delle fasi di ripresa della coscienza, così come poco utile risulta differenziare tra sedazione superficiale e profonda. Tali distinzioni sfumano di importanza quando ci si richiami all’obiettivo stesso della SP, cioè il controllo della sofferenza con una riduzione della vigilanza proporzionale all’intensità (leggi: adeguata al controllo) del sintomo refrattario. Ad oggi la letteratura è concorde nel consigliare il midazolam come prima scelta in tutti i contesti, e, come alternative, altre benzodiazepine, antipsicotici, barbiturici. Vengono segnalati anche anestetici generali (tiopental, propofol), ma di stretta pertinenza anestesiologica. Le dosi di midazolam (come degli altri sedativi) variano ampiamente, non esistendo teoricamente dosi massimali. Nella pratica si consiglia una prima fase di induzione della sedazione (o titolazione), in cui si somministrano boli ripetuti (1-5 mg) fino al raggiungimento del livello di sedazione desiderata, ed una successiva di mantenimento (circa il 50% del dosaggio orario usato nella fase di titolazione), a mezzo di infusione continua e prevedendo l’attuazione di boli aggiuntivi ed il possibile variare della velocità di infusione; il paziente andrà quindi monitorato attentamente per individuare il corretto trattamento. L’aloperidolo risulta prezioso nei casi di delirio, specie in associazione, ma è un blando sedativo e non andrebbe usato in monoterapia per indurre la SP. Riguardo alle terapie concomitanti in atto al momento della sedazione bisognerà valutare caso per caso. In linea di

massima andranno sospesi, se ancora assunti, quei farmaci corredo pressoché costante nella gran parte dei pazienti (es. antipertensivi, statine, antiaggreganti, ecc.) retaggi di terapie domiciliari assolutamente ingiustificate in fase terminale. I farmaci considerati ancora utili andranno somministrati per via parenterale (o sostituiti con altri somministrabili in tal modo). Gli oppiacei non vanno sospesi in corso di SP, in quanto i sedativi possono mascherare le reazioni fisiche del sintomo dolore, ancora avvertibile per livelli di coscienza non completamente abolita. Per quanto l’effetto sedativo delle fasi iniziali di una terapia con oppiacei possa essere talora prezioso, in linea generale gli oppiacei non vanno somministrati a scopo sedativo, potendosi ottenere anche effetti paradossi. La prosecuzione della nutrizione artificiale o della idratazione in atto all’induzione della SP solleva ulteriori perplessità etiche e medico-legali. Mantenere tali supporti, riducendo la quantità di liquidi nelle 24 ore può essere un buon compromesso; peraltro ogni difficoltà a reperire accessi venosi, così come un quadro anasarcatico o un rantolo grossolano possono costituire indicazioni a ridurre drasticamente le infusioni. Andranno altresì evitati accertamenti diagnostici non funzionali alla gestione corretta della terminalità, anche per evitare l’effetto confondente sui familiari. Considerazioni deontologiche, medico-legali: consenso informato? Il processo comunicativo connesso alla SP, prezioso ed irrinunciabile, va visto all’interno dell’intero processo di cura, nell’intento di favorire il più possibile una effettiva partecipazione del malato e della famiglia alle decisioni. I sanitari tutti dovrebbero sforzarsi di raggiungere un adeguato livello di comunicazione, ben prima del precipitare dei sintomi che potrebbero impedirlo; oltre ad essere un dovere deontologico, questo potrà offrire elementi preziosi per concordare scelte terapeutiche rispettose della volontà del paziente stesso. Il consenso informato alla sedazione andrebbe, per quanto possibile, costantemente ricercato, meglio se in presenza dei familiari; in generale non è raccomandata l’adozione di un modulo specifico o l’apposizione della firma. Se il malato non è mentalmente capace o non vuole partecipare alle decisioni, la decisione può essere assunta dai sanitari curanti ricorrendo al giudizio sostitutivo, basato su volontà e de-

Alcuni farmaci sedativi. Farmaco

Compatibilità

Induzione

Mantenimento

Midazolam 1° scelta

Oppiacei, sol. fisiologica o glucosata

Bolo: 1-5 mg (0,01-0,07 mg/kg) ripetibile oppure 0,5-1 mg/h

1-20 mg/h (sc, ev, ret)

Lorazepam

Oppiacei, sol. fisiologica o glucosata

Bolo: 2-4 mg (0,05 mg/kg) ripetibile (q 2-4h)

0,25-1 mg/h (sc, ev)

12,5-50 mg

50-150 mg/24h (ev, im, ret)

2-5 mg

5-100 mg/24h (sc, ev)

Bolo 100-200 mg

10-20 mg/h (sc, ev, im)

Clorpromazina Aloperidolo Fenobarbital

Oppiacei, midazolam, sol. fisiologica o glucosata

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sideri espressi in precedenza dal malato ai suoi cari o all’equipe curante. Dati recentemente pubblicati indicano una relazione statisticamente significativa tra il livello di consapevolezza (diagnosi e prognosi) alla presa in carico in hospice e quello di partecipazione alla decisione di attuare la sedazione, così come un maggiore livello di vigilanza al momento dell’inizio della procedura. Dilemma bioetico La possibile anticipazione della morte legata alla SP è uno degli aspetti sentiti come problematici sul piano etico, sebbene le evidenze scientifiche non suffraghino tale ipotesi. La giustificazione morale della SP può far riferimento alla dottrina del doppio effetto, secondo cui è moralmente lecito attuare un trattamento che abbia un intento positivo e un possibile o prevedibile effetto negativo (ipotetica abbreviazione della vita), purché quest’ultimo non sia intenzionalmente ricercato, non sussistano alternative terapeutiche, vi sia proporzionalità fra gravità del sintomo ed intervento intrapreso. Posta l’impossibilità ad ottenere dati da studi controllati per l’evidente non eticità degli stessi, i dati forniti da studi osservazionali comparativi non confermano un’anticipazione della morte nei pazienti sedati, indicando al contrario una tendenza al prolungamento della sopravvivenza. Alla luce di questi dati non sembrerebbero emergere particolari dilemmi etici e si potrebbe anche non “scomodare” la dottrina del doppio effetto. Dalle revisioni della letteratura risulta una durata media della SP pari a circa tre giorni. Le maggiori società scientifiche legate alla palliazione sono concordi nel ritenere la SP nettamente distinta sia sul piano etico che sul piano clinico dalla eutanasia e dal suicidio medicalmente assistito. La distinzione risulta evidente sul piano: a. dell’intenzione: dare sollievo vs procurare la morte b. della procedura: uso di farmaci sedativi per il controllo dei sintomi vs uso di farmaci letali c. del risultato: sollievo dalla sofferenza vs morte immediata. Conclusioni La corretta gestione della terapia di supporto nel paziente oncologico, particolarmente negli stadi avanzati di malattia, rappresenta un impegno cui l’oncologo non può

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sottrarsi. Il corteo di sintomi che prende progressivamente forma man mano che la malattia sfugge al controllo delle terapie causali richiede attenzione, conoscenza e competenze che possono (dovrebbero) far parte del patrimonio culturale dell’oncologo, anche quando coadiuvato dalla figura del palliativista. Il “passaggio di consegne” alle cure palliative esclusive infatti non può che essere graduale, nell’ottica del concetto di simultaneous care che va affermandosi, nell’intento di offrire una reale globalità di cura. Buona parte dei pazienti ricoverati nelle nostre oncologie versa in condizioni di terminalità, e lenire i loro sintomi è nostro compito. Non sempre purtroppo una pur attenta gestione riesce nell’intento, e l’unica arma in nostro possesso per sollevare dalla sofferenza diventa la sedazione individuabile quindi, alla luce di quanto detto, come un puro atto terapeutico ad elevatissima valenza etica. • Bibliografia di riferimento 1. Raccomandazioni della SICP sulla Sedazione Terminale/Sedazione Palliativa. Rivista Italiana di Cure Palliative 2008; n.1. 2. Morita T, Tsuneto S, Shima Y. Definition of sedation for symptom relief: a systematic literature review and a proposal for operational criteria. J Pain Sympt Manage 2002; 24: 447-53. 3. SIAARTI. Le cure di fine vita e l’anestesista rianimatore: raccomandazioni per l’approccio al morente. Minerva Anestesiol 2006; 72: 927-63. 4. Morita T. Palliative sedation to relieve psycho-existential suffering of terminally ill cancer patients. J Pain Sympt Manage 2004; 28: 445-50. 5. Kohara H, Ueoka J, Takeyama H, et al. Sedation for terminally ill patients with cancer with uncontrollable physical distress. J Palliat Med 2005; 8: 20-5. 6. Cowan JD, Walsh D. Terminal sedation in palliative medicine definition and review of the literature. Support Care Cancer 2001; 9: 403-7. 7. Sykes N, Thorns A. The use of opioids and sedatives at the end of life. Lancet Oncol 2003; 4: 312-8. 8. Rietjens JA, van Zuylen L, van Veluw H, et al. Palliative sedation in a specialized unit for acute palliative care in a cancer hospital: comparing patients dying with and without palliative sedation. J Pain Symptom Manage 2008; 36: 228-34. 9. Maltoni M, Pittureri C, Scarpi E, et al. Palliative sedation therapy does not hasten death: results from a prospective multicenter study. Ann Oncol 2009; 20: 1163-9. 10. De Graeff A, Dean M. Palliative sedation in the last weeks of life; a literature review and recommendations for standards. J Pall Med 2007; 10: 67-85.


Casi clinici

Abiraterone: che fatigue?

Enzo Ballatori

Fausto Roila

Docente di Statistica Medica, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università di L’Aquila

SC di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera di Terni

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uesta rubrica si occupa di fisiopatologia degli studi clinici. In questa occasione, siamo lieti di essere nel campo di una buona fisiologia, in quanto, a nostro avviso, lo studio riportato sinteticamente nella scheda 2 (studio A) è pressoché ineccepibile. Resta, però, da spiegare l’apparente discrepanza di risultati circa l’effetto dell’abiraterone sulla fatigue (affaticamento) rispetto allo studio che è stato presentato in forma di extended abstract all’ECCO 2011 (studio B, v. scheda riepilogativa). Infatti, nessun effetto sulla fatigue era stato evidenziato nello studio A, mentre nell’altro (oggetto del presente commento) emerge un deciso beneficio di abiraterone anche su questo aspetto. Del resto, non sembrano sussistere nemmeno diretti benefici per il marketing, dato che i risultati dello studio A sono di per sé sufficienti a cambiare la pratica clinica, malgrado gli eventi avversi correlati ai mineralcorticoidi fossero più frequenti nel gruppo di trattamento che in quello di controllo: ritenzione di fluidi ed edema (31 vs 22%), ipertensione (10 vs 8%), ipocalcemia (17 vs 8%). Il primo punto da osservare è che, come è uso comune negli studi di Good Clinical Practice (GCP), l’effetto di abiraterone sulla fatigue è stato valutato nello studio A con gli NCI-Common Toxicity Criteria (NCI-CTC), mentre nello studio B con il Brief Fatigue Inventory (BFI), somministrato ai pazienti nel corso dello studio A con finalità dichiaratamente esplorative. L’NCI-CTC valuta la fatigue come: 1. leggera, cioè compatibile con le attività della vita quotidiana, 2. moderata, che produce difficoltà nel fare alcune attività quotidiane, 3. grave, che interferisce pesantemente nelle attività quotidiane, 4. disabilitante. Invece, il BFI è composto da 10 item: il primo a risposta binaria, mentre per gli altri, la risposta va collocata su una scala a 11 punti, da 0 a 10. Il primo item mira ad accertare se il soggetto ha fatigue o meno, il secondo il livello della fatigue al momento della rilevazione, il terzo il livello “usuale” di fatigue nelle ultime 24 ore, il quarto il peggior livello nelle ultime 24 ore, dal quinto al decimo se, nelle ultime 24 ore, la fatigue ha interferito con 6 aspetti della qualità di vita (v. scheda riepilogativa)1.

Non sarebbe da meravigliarsi se due strumenti volti a valutare i livelli dello stesso concetto danno luogo a diversi ri-

sultati: ciò è accaduto perfino con i due più usati questionari per la misura della qualità di vita (il QLQ-C30 dell’EORTC e il FACT-G), che, somministrati agli stessi pazienti, hanno fornito risultati che presentavano deboli correlazioni nella misura dei livelli delle stesse dimensioni2. Nel nostro caso, però, la determinante più importante della diversità dei risultati è la metodologia della valutazione: nello studio A si è semplicemente misurata l’incidenza della fatigue e della fatigue severa nell’intero periodo di osservazione. Nello studio B, invece, sono stati selezionati due gruppi di pazienti che avevano al basale un livello non inferiore a 5 (su un massimo di 10) a. dell’intensità massima di fatigue nel giorno precedente (maxF), b. dell’interferenza media della fatigue con i 6 aspetti della vita quotidiana considerati dal BFI, intF). I pazienti sono stati seguiti nel tempo per valutare l’evoluzione differenziale della fatigue nel gruppo trattato con abiraterone rispetto al gruppo di controllo. Vi sono critiche ai risultati dello studio B che concernono la scelta e l’uso dello strumento adoperato per valutare la fatigue, il BFI. Omissione. Quando si misura il livello di un concetto, le più importanti dimensioni da valutare sono incidenza, intensità, durata e rilevanza (cioè, impatto sulla qualità di vita). Nel BFI manca la valutazione della durata: un conto è soffrire di fatigue costantemente tutto il giorno, un conto è soffrirne a tratti, peraltro, con intensità differenti. In altre parole, ben diversa è la condizione dei pazienti in cui l’intensità massima di fatigue registrata nel questionario si riferisce all’intera giornata, da quella dei pazienti che ne hanno sofferto, anche molto, ma per brevi periodi della giornata. Validazione. Poche sono le versioni linguistiche validate del BFI: filippino, giapponese, cinese (Cina Popolare e Taiwan), coreano, tedesco, oltre che inglese, mentre 13 sono i paesi partecipanti allo studio. Quindi, il BFI non è stato validato in tutti i paesi in cui è stato condotto lo studio. La carenza più importante, però, è la insufficiente validazione cui è stato sottoposto il BFI. Com’è noto, un questionario psicometrico va validato per affidabilità, validità, responsività. L’affidabilità si articola in coerenza interna e riproducibilità. La coerenza interna consiste nel verificare che le due parti in cui può essere suddiviso il questionario, comunque scelte, sono in accordo nel valutare lo stesso dominio; di norma la si CASCO — Vol 1, n. 2, ottobre-dicembre 2011

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valuta con l’indice α di Cronbach. La riproducibilità è l’attitudine dello strumento a fornire all’incirca la stessa misura in caso di stabilità del contesto: la si valuta con tecniche di tipo test-retest, ossia facendo compilare lo stesso questionario due (o più volte) allo stesso paziente, a distanza di tempo, e misurando il grado di accordo tra le risposte fornite. La validità è la capacità dello strumento di misurare ciò per cui è stato progettato; in assenza di gold standard (e questa è la norma), esiste tutta una gamma di prove che attesta da vari punti di vista la validità di un questionario (validità di contenuto, v. discriminante, v. legata al criterio, e così via). La responsività (al cambiamento) è l’attitudine di un questionario di percepire (attraverso gli score che fornisce) i mutamenti delle condizioni del paziente nel tempo4.

Il BFI non è stato mai validato né per riproducibilità, né per responsività3. Sono due lacune importanti, ma la seconda è particolarmente grave, dato che nel lavoro sintetizzato nella scheda di riferimento, è stato proprio usato per seguire l’andamento della fatigue dei pazienti nel tempo. Nello studio A, è stato altresì usato il FACT-P (un altro strumento della serie FACIT, ideata da David Cella, v. scheda 2) per la misura della qualità di vita nei pazienti con carci-

noma prostatico, di cui, però, non sono stati riportati i risultati (o almeno, non ancora). Non è chiaro perché la scelta sia ricaduta sul BFI quando esiste il questionario FACTF (una sottoscala di 13 item, quindi semplice quasi quanto il BFI) specifico per la valutazione della fatigue che, non solo è più omogeneo al FACT-P, ma soprattutto ha subito un ben più robusto processo di validazione. Ad esempio, la valutazione della sua responsività lo ha messo in grado di individuare il cambiamento minimo clinicamente significativo3. Definizione. Nell’abstract dello studio B si parla di miglioramento e di peggioramento della fatigue, senza precisare come tali mutamenti siano stati determinati. È sufficiente un decremento anche di lievissima entità nel punteggio, o, invece, è necessario che lo score si abbassi oltre una prestabilita quantità? Ovviamente, i risultati dell’analisi dipendono da tale scelta, che, peraltro, è del tutto soggettiva. Tutto sommato, tali critiche hanno un moderato impatto sull’attendibilità dei risultati per via della randomizzazione.

SCHEDA RIEPILOGATIVA

Sternberg CN, Scher HI, Molina A, et al. Fatigue Improvement/Reduction with Abiraterone Acetate in Patients with Metastatic CastrationResistant Prostate Cancer (mCRPC) Post-Docetaxel: Results From the COU-AA-301 Phase 3 Study. Eur J Cancer 2011; 47 (Suppl. 3): 488-9, abstr. 7015 Basandosi sui dati dello studio sintetizzato nella successiva scheda 2, in cui ai pazienti era stato anche somministrato il questionario Brief Fatigue Inventory (BFI), al basale (cioè prima dell’inizio del trattamento), e dopo ogni ciclo di terapia di 28 giorni, è stato retrospettivamente valutato l’effetto dell’abiraterone sulla fatigue. Sono stati investigati due aspetti della fatigue: l’intensità massima (item 3: peggior fatigue nelle precedenti 24 ore) e la sua interferenza con aspetti della vita quotidiana (item 4.a: attività in generale, 4.b: umore, 4.c: capacità di camminare, 4.d: lavori usuali, 4.e: relazioni, 4.f: apprezzamento della vita), misurata calcolando la media

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della interferenza della fatigue sui 6 aspetti. Sono stati considerati eleggibili, separatamente, i pazienti che, al basale, presentavano uno

score ≥5 (su un massimo di 10) della peggior fatigue o dell’interferenza media della fatigue sulla vita quotidiana.

Risultati Pazienti

A+P

PL + P

P<

• randomizzati

797

398

384

186

ns

221 (58)

75 (40)

0,0001

BFI: Intensità • eleggibili • migliorati, n. (%) §

• tempo al miglioramento* (Me , gg)

59

194

0,012

• tempo alla progressione* (P25&, gg)

232

139

0,002

189

92

ns

103 (55)

35 (38)

0,010

57

113

ns

281

139

0,001

BFI: Interferenza • eleggibili • migliorati §

• tempo al miglioramento* (Me , gg) &

• tempo alla progressione* (P25 , gg)

A = abiraterone, PL = placebo, P = prednisone; ns = non significativo; *della fatigue; §mediana; &25° percentile.

Conclusioni Abiraterone ritarda la progressione della fatigue e produce miglioramenti

negli score della fatigue rispetto al basale; inoltre, migliora la fatigue più rapidamente del placebo.


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Sebbene non sufficientemente validato, il BFI misura comunque qualcosa di attinente alla fatigue e, anche se manca la valutazione della durata della fatigue nelle 24 ore precedenti e non è chiaro come siano stati definiti il miglioramento e il peggioramento, pur tuttavia i risultati si riferiscono a due gruppi randomizzati e concludono che, nel controllare la fatigue, almeno in alcune sue dimensioni, l’abiraterone è più efficace del placebo. Ciò che invece rende inaccettabili i risultati dello studio B sono le limitazioni inerenti alla metodologia usata. In particolare: Arbitrarietà. La scelta di selezionare i pazienti che, al basale, avevano score della fatigue (maxF, intF) non inferiori a 0,5 è puramente arbitraria. Infatti, si sarebbero potuti considerare altri cut-off, come ad esempio un cut-off di 0,2 o 0,3 (considerando così i pazienti che soffrivano un po’ di affaticamento), ovvero di 0,7 o 0,8 (individuando i pazienti con una forte fatigue che interferiva pesantemente sulla loro vita quotidiana). Per ogni scelta si sarebbero ottenuti risultati diversi.

SCHEDA 2

de Bono JS, Logothetis CJ, Molina A, et al. Abiraterone and Increased Survival in Metastatic Prostatic Cancer. N Engl J Med 2011; 364: 1995-2005 Studio randomizzato, doppio cieco, controllato con placebo, condotto in 147 centri di 13 paesi, volto a valutare l’effetto sulla sopravvivenza di abiraterone acetato (AA) + prednisone (P) vs placebo (PL) + P in pazienti affetti da carcinoma della prostata metastatico, in progressione di malattia, dopo trattamento con docetaxel e con ECOG performance status (PS) ≤ 2. Criteri di esclusione: livelli anormali di transaminasi, metastasi epatiche, gravi malattie concomitanti. Randomizzazione I pazienti prima di essere randomizzati in rapporto 2:1 a ricevere, rispettivamente, AA + P o PL + P, furono stratificati rispetto ai seguenti caratteri: - ECOG PS: 0-1 vs 2; - livello del peggior dolore nelle precedenti 24 ore, valutato con il

La motivazione della scelta degli autori, che manca nell’abstract, diventa così cruciale non solo per chiarire le finalità dello studio, ma anche ai fini dell’interpretazione dei risultati. Una seconda scelta arbitraria ci sembra quella di considerare cicli di chemioterapia di 28 giorni (al termine di ciascuno dei quali è stato compilato il BFI), quando in realtà abiraterone e prednisone sono farmaci che si assumono ogni giorno, in modo continuativo nel tempo. Un effetto importante di tale scelta è l’imprecisione delle valutazioni del tempo al miglioramento e del tempo alla progressione della fatigue (nell’abstract non è stata definita la progressione della fatigue): se fossero stati fissati cicli di terapia di 21 o di 14 giorni, l’imprecisione sarebbe diminuita. Entrambi questi elementi di arbitrarietà probabilmente rispondono ad istanze pratiche e non hanno nessun supporto teorico (questo aspetto è decisamente negativo per lo studio): nel primo caso la scelta di un cut-off superiore a 0,5 non avrebbe probabilmente consentito l’analisi perché sarebbe stato individuato un sottogruppo troppo esiguo di pa-

Brief Pain Inventory-short form 0-3 (dolore non clinicamente rilevante) vs 4-10 (dolore grave); - numero di precedenti chemioterapie: 1 vs 2; - tipo di evidenza di progressione: solo incremento di PSA vs evidenza radiografica. Endopint Primario: Overall Survival (OS) Secondari: risposta obiettiva (lesioni tessuti molli), risposta sul PSA (decremento ≥ 50%, confermato dopo 4 settimane), tempo alla progressione del PSA (almeno il 25% di incremento rispetto al basale). Altri endpoint usati a fini di una valutazione esplorativa: - valutazione dell’impatto della malattia/trattamento sulla vita quotidiana del paziente eseguita con il Functional Assessment of Cancer Therapy-Prostate (FACT-P); - punteggio di fatigue, valutato con il Brief Fatigue Inventory (BFI); - conta di cellule tumorali circolanti; - informazioni sulle risorse consumate. Dimensione del campione Assumendo un hazard ratio di morte

dell’80% per il gruppo di trattamento rispetto a quello di controllo, fissato un livello di significatività del 5% (test bidirezionale), 1158 avrebbero consentito di individuare con l’85% di probabilità una differenza significativa. Fu pianificata un’analisi ad interim. Risultati di efficacia Furono reclutati 1195 pazienti, 797 nel gruppo di trattamento (AA + P) e 398 in quello di controllo (PL + P). All’analisi ad interim risultò che la riduzione di rischio nel gruppo di trattamento fu del 35,4% (hazard ratio: 0,65, 95%CI: 0,54-0,77; P < 0,001): sopravvivenza mediana di 14,8 mesi nel gruppo di trattamento e di 10,9 mesi in quello di controllo. Anche per la buona tollerabilità del trattamento, fu allora consentito il passaggio dei pazienti del gruppo di controllo al trattamento con abiraterone (cross over). Safety Tutti gli eventi avversi vennero valutati applicando gli NCI-Common Toxicity Criteria. Il più comune evento avverso fu la fatigue, che ebbe un’analoga incidenza e severità nei due gruppi. •

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zienti, mentre, nel secondo caso, fissare cicli di terapia di durata inferiore a 28 giorni avrebbe richiesto una più frequente somministrazione dei questionari. Confronto. Mediante gli NCI-CTC, nello studio A è stata considerata la presenza (o meno) di fatigue (di qualunque livello) e di fatigue severa in tutti i pazienti randomizzati ai due trattamenti, nell’intero periodo di tempo dello studio, e si è visto che non vi è alcuna differenza. Nello studio B, invece, sono stati selezionati i pazienti con maxF e intF non inferiori a 0,5 e solo per questi è stato valutato l’andamento delle fatigue nel tempo: non sono stati pertanto considerati gli altri pazienti. Nel confronto tra i risultati ottenuti occorre tener conto che potrebbero essersi presentati vari inconvenienti, tra cui uno particolarmente grave: i pazienti non considerati (quelli che presentavano un cut-off inferiore a 0,5) potrebbero aver avuto un incremento di fatigue, nei periodi successivi al basale, in misura più marcata nel gruppo di trattamento con abiraterone rispetto al gruppo di controllo; se così fosse accaduto, tale evento sarebbe sfuggito all’analisi riportata nello studio B. D’altronde, se assumiamo che i due metodi di valutazioni (NCI-CTC e BFI) diano luogo a risultati abbastanza concordanti, la situazione descritta potrebbe essere vicina a quella reale, in quanto, in tal modo, si ricomporrebbe il quadro esposto nello studio A (nessuna differenza tra abiraterone e placebo): a compensare la maggiore efficacia di abiraterone nei pazienti che avevano una almeno discreta fatigue, ci sarebbe la presenza di una maggiore insorgenza di fatigue o di un suo peggioramento, rispettivamente in coloro che non l’avevano o la percepivano lieve nel gruppo dei soggetti trattati con abiraterone. Le conclusioni dello studio B, pertanto, potrebbero essere parziali ed irrealistiche. In secondo luogo, data l’arbitrarietà della scelta del cut-off, nessuno può garantire che i pazienti con livelli di fatigue immediatamente inferiori a quelli stabiliti dal cutoff (ad es., 0,45) si comportino in modo analogo a quello dei pazienti osservati. In conclusione, a nostro avviso, l’effetto specifico di abiraterone sulla fatigue non appare sufficientemente provato e, quindi, non resta che accogliere il verdetto di parità tra abiraterone e placebo sancito nello studio A. • Bibliografia 1. Mendoza TR, Wang XS, Cleeland CS, et al. The rapid assessment of fatigue severity in cancer patients: use of the Brief Fatigue Inventory. Cancer 1999; 85: 1186-96. 2. Holzner B, Kemmler G, Sperner-Unterweger B, et al. Quality of life measurement in oncology: a matter of the assessment instrument? Eur J Cancer 2001; 37: 2349-56. 3. Minton O, Stone P. A systematic review of the scales used for the measurement of cancer-related fatigue (CRF). Ann Oncol 2009; 20: 17-25. 4. Apolone G, Ballatori E, Mosconi P, Roila F. Misurare la qualità di vita in Oncologia. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 1997; pp. XII + 112. 60

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Statistica per concetti

Randomizzazione

Nel lavoro sintetizzato nella scheda 2 compare un uso per certi versi non comune della randomizzazione. Pertanto, si è deciso di dedicare a questo argomento la presente rubrica, discutendo, alla fine, le peculiarità della randomizzazione adoperata.

L

a randomizzazione, operazione fondamentale nelle scienze sperimentali, può definirsi come l’allocazione rigorosamente casuale delle unità sperimentali ai gruppi di trattamento. L’avverbio “rigorosamente” indica che l’assegnazione casuale delle unità sperimentali ai trattamenti è eseguita in base ad un metodo ben preciso, e non con il significato di “senza un criterio”, che l’aggettivo “casuale” ha spesso nel linguaggio comune. Ad esempio, dovendo randomizzare 16 pazienti a due terapie, A e B, si può ricorrere alle tavole di numeri aleatori, costruite con una procedura di estrazione casuale di numeri (gioco del lotto): è sufficiente immaginare una fila di 16 pazienti, leggere 8 numeri di due cifre ciascuno compresi tra 01 e 16, e decidere di assegnare i corrispondenti pazienti al trattamento A; per differenza gli altri verranno assegnati a B. Ad es., se i primi 8 numeri letti sono 09, 04, 12, 01, 05, 14, 16, 08, i pazienti che, nell’ordine della fila occuperanno i posti 1, 4, 5, 8, 9, 12, 14, 16 verranno assegnati ad A, gli altri a B.

Qualunque sia il metodo seguito (tavole aleatorie, generazione di numeri pseudo-casuali mediante computer), la randomizzazione deve essere sempre – riproducibile, nel senso che, una volta descritto il procedimento, chiunque lo applichi ottenga sempre lo stesso risultato (quindi, il lancio di una moneta non può essere utilizzato per randomizzare); – imprevedibile, cioè che non sia quasi mai possibile prevedere a quale trattamento verrà assegnata la prossima unità. Infatti, se il medico sperimentatore sapesse a quale trattamento verrà assegnato il successivo paziente, potrebbe essere condizionato nella decisione di reclutarlo (ad es., se sa che il paziente sarà randomizzato al trattamento più tossico, potrebbe non proporre l’ingresso nello studio ad un paziente defedato, malgrado egli soddisfi i criteri di selezione). Gli scopi più importanti della randomizzazione sono: a. produrre un accettabile bilanciamento dei gruppi di trattamento rispetto ai fattori prognostici noti e sconosciuti; b. fornire una seconda base logica al test statistico che verrà usato per la valutazione di efficacia/tollerabilità differenziali.


| Statistica per concetti | Randomizzazione

Per quanto concerne il punto (a), la randomizzazione non garantisce il perfetto bilanciamento dei gruppi sperimentali in relazione ai fattori prognostici (anzi, è quasi impossibile che lo ottenga), ma assicura che, con alta probabilità, non si verifichi uno sbilanciamento tale da poter attribuire ad esso, e non alla diversa efficacia/tollerabilità dei trattamenti, il risultato significativo conseguito. Ad esempio, 400 pazienti siano randomizzati a due bracci di trattamento: 200 ad A e 200 a B. La presenza di diabete mellito sia un importante fattore prognostico e siano 80, tra i 400, i pazienti diabetici. Se ce ne fossero 40 in un braccio e 40 nell’altro, il diabete non avrebbe alcuna influenza sul risultato. Randomizzando i pazienti, questa parità è un evento quasi impossibile da ottenere, ma la probabilità che si verifichi uno sbilanciamento tale da poter attribuire ad esso, e non alla diversa efficacia/tollerabilità, dei trattamenti il risultato osservato è nulla (ad es., meno di 30 diabetici in un gruppo e, quindi, più di 50 nell’altro ha probabilità pari a 0 di verificarsi).

Per quanto riguarda l’obiettivo (b), vi è da premettere che l’inferenza statistica normalmente usata per l’analisi dei risultati, è basata sul modello di popolazione, cioè sul concetto che i gruppi a confronto siano campioni estratti da popolazioni. Nella ricerca clinica, l’unico (debole) elemento che possa far riguardare i gruppi sperimentali come campioni è la consecutività dell’arruolamento. Quando i bracci di trattamento non possono essere considerati campioni casuali, a giustificare la validità dei risultati ottenuti interviene il principio di randomizzazione che, in prima approssimazione, può essere così schematizzato. La risposta (ossia ciò che si osserva su ogni paziente al termine dello studio) dipende dal trattamento e dal paziente. Sotto l’ipotesi nulla di uguale efficacia dei trattamenti (ossia, se i trattamenti sono ugualmente efficaci), la risposta dipende solo dal paziente. Il paziente viene allora randomizzato al trattamento con la sua risposta. Se fosse vera l’ipotesi nulla, non sarebbe da attendersi uno squilibrio sostanziale tra i due gruppi rispetto alla risposta, perché, essendo stati i pazienti

randomizzati, un forte squilibrio ha probabilità nulla di presentarsi (v. quanto esposto nel punto (a)). Quindi, se si verifica uno squilibrio importante, non resta che respingere l’ipotesi nulla al livello di significatività precisato e riconoscere ai trattamenti una diversa efficacia. La randomizzazione fu introdotta nel campo delle scienze agrarie negli anni ’20 del secolo scorso e, successivamente, fu estesa ad altri settori di ricerca. In medicina fu applicata alla fine degli anni ’40 e, prima di allora, ogni studio clinico comparativo prestava il fianco a serie obiezioni. Ad esempio, volendo confutare l’idea che il salasso – pratica allora correntemente usata – potesse essere utile nella cura della polmonite, il grande clinico francese Pierre Alexandre Louis nel 1835 pubblicò un lavoro in cui un rilevante numero di pazienti affetti da polmonite furono divisi in due gruppi: tutti furono esposti alle stesse condizioni ambientali (dieta, condizioni igieniche, arieggiamento delle camere di degenza), ma una metà venne curata con salasso, che fu negato all’altra metà. Avendo osservato un all’incirca uguale numero di morti nei due gruppi, al termine dell’articolo, egli concluse che “le polmoniti guariscono da sole, né più né meno di quelle salassate”. La critica decisiva mossa a tale studio fu che i due gruppi non erano rassomiglianti per tutte le caratteristiche atte ad influenzare il decesso, per cui poteva essere accaduto che il gruppo dei salassati fosse stato in peggiori condizioni dell’altro e, quindi, che solo l’efficacia del salasso avesse consentito di ottenere una simile mortalità. Ragionamento inoppugnabile, senza randomizzazione: il salasso è restato nella pratica clinica fino alla fine dell’’800.

Per concludere, commentiamo i dettagli della randomizzazione così com’è stata usata nel lavoro riportato nella scheda riepilogativa. Rapporto di randomizzazione 2:1. Di norma, è conveniente che i due gruppi siano ugualmente numerosi perché, a parità di tutte le altre condizioni, la varianza dello stimatore della statistica test è minore, e, quindi, è più facile accorgersi della diversa efficacia dei trattamenti (cioè, è più probabile che il test risulti significativo se i trattamenti sono diversamente efficaci). Si sceglie una soluzione diversa (ad es., randomizzazione 2 a 1) se il nuovo farmaco ha dato prove consistenti del suo valore in precedenti studi di fase 2, così da privare, per motivi etici, un minor numero di pazienti del trattamento

potenzialmente più utile. Ovviamente, tale scelta si paga con una maggiore numerosità dei pazienti in studio. Randomizzazione stratificata. Quando esistono alcuni fattori (possibilmente pochissimi) che sono fortemente correlati con la risposta, i pazienti possono essere prima classificati rispetto a tali fattori e poi, in ogni gruppo così formato, randomizzati ai trattamenti. In tal modo, rispetto ai fattori di stratificazione, il bilanciamento dei gruppi è perfetto, e non solo approssimativo come invece avviene con la sola operazione di randomizzazione. Nello studio, sono stati considerati 4 fattori di stratificazione, ciascuno con 2 livelli. In totale, quindi, sono stati costituiti 16 gruppi di pazienti, e la randomizzazione è avvenuta all’interno di ciascuno di essi. La raccomandazione è non eseguire la randomizzazione stratificata, o, se proprio la si ritiene necessaria, considerare uno o due fattori, non solo perché la complessità è complice dell’errore, ma anche per evitare di imporre vincoli ad un’operazione che per sua natura dovrebbe essere lasciata del tutto libera nel conseguimento dei suoi obiettivi. Randomizzazione a blocchi. Un blocco di randomizzazione è un insieme di indicazioni circa la randomizzazione di un relativamente piccolo numero di pazienti. Ad esempio, se la randomizzazione avviene a blocchi di 12, essendo 2:1 il rapporto di assegnazione dei pazienti ai due trattamenti, ogni blocco di randomizzazione indica quali siano (dei 12) gli 8 pazienti destinati a ricevere il trattamento attivo e quindi quali i 4 che saranno trattati con placebo. In tal modo i due trattamenti sono perfettamente bilanciati, nel loro rapporto, ogni 12 pazienti arruolati. Negli studi multicentrici è necessario procedere con la costruzione di blocchi di randomizzazione, per fare in modo che in ogni centro sia all’incirca nello stesso rapporto il numero dei pazienti che ricevono i trattamenti a confronto. È pero indispensabile che i blocchi non siano eccessivamente piccoli per impedire il più possibile la prevedibilità della randomizzazione. Enzo Ballatori CASCO — Vol 1, n. 2, ottobre-dicembre 2011

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Questioni aperte

Il secondo gradino nella terapia del dolore da cancro: dalla ricerca alla pratica clinica Carla Ida Ripamonti Elena Bandieri* Struttura Semplice Dipartimentale Cure di Supporto al Paziente Oncologico Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori, Milano *Unità di Cure Palliative, Azienda USL Modena

N

el 1986 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha pubblicato le linee guida di trattamento del dolore da cancro1 basate su una scala farmacologica a tre gradini sequenziali costituiti da non-oppioidi (I° gradino), oppioidi “deboli” (II° gradino) e oppioidi “forti” (III° gradino). Nella seconda edizione del 19962 la terminologia è stata cambiata sostituendo la parola “gradino” al tipo di farmaco in relazione alla intensità del dolore: gli oppioidi deboli sono indicati per il trattamento del dolore lieve-moderato e gli oppioidi forti per il trattamento del dolore moderato-severo. Mentre l’uso dei farmaci non oppioidi e degli oppioidi forti è ampiamente accettato, l’utilità clinica degli oppioidi deboli (codeina+paracetamolo, diidrocodeina, idrocodone, tramadolo ± associato al paracetamolo e propossifene) continua ad essere in discussione. La prima criticità riguarda la loro efficacia clinica che non è stata dimostrata in maniera definitiva attraverso evidenze inconfutabili3. Dalla metanalisi condotta da Grond et al.4 sul confronto tra efficacia analgesica di oppioidi deboli e placebo emerge che 10/16 studi clinici randomizzati (RCTs) mostrano la superiorità degli oppioidi. Tuttavia 14/16 sono studi a dose singola e non ci sono conferme sulla loro efficacia rispetto al placebo in studi a lungo 62

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termine. Recentemente il tramadolo, alle dosi di 1 ed 1,5 mg/Kg ogni 6 ore, è stato confrontato al placebo in 36 pazienti con dolore neuropatico5. Nei 18 pazienti trattati con tramadolo vi erano significativi miglioramenti della intensità del dolore, del Karnofsky, del sonno e significativi più frequenti effetti collaterali come nausea, vomito e stipsi. In una metanalisi su 13 RCTs che confrontavano FANS o paracetamolo con gli oppioidi deboli, è emerso che non esiste una chiara differenza nell’efficacia dei farmaci del II° gradino rispetto a quelli del I° somministrati da soli6. Il report sul trattamento del dolore da cancro della Agency of Health – Care Research and Quality (AHRQ) riporta la stessa conclusione negativa7. In una più recente revisione sistematica8 sono stati selezionati 23 studi di comparazione tra FANS in monoterapia e in associazione con oppioidi. Tra gli studi in cui il II° gradino era coinvolto, solo in due vi è un marginale beneficio antalgico con l’aggiunta dell’oppioide debole. In uno studio effettuato su 75 pazienti9 è stata confrontata l’efficacia e la tollerabilità di 10 mg di ketorolac per os vs 600 mg di paracetamolo + 60 mg di codeina per 7 giorni. Entrambi i trattamenti sono stati efficaci; paracetamolo + codeina hanno dato un sollievo del dolore superiore (2550%) nei giorni 2-4. In uno studio condotto su 164 pazienti10 sono stati confrontati 50 mg di diclofenac per os vs 50 mg di diclofenac + 40 mg di codeina ogni 8 ore. L’aggiunta della codeina riduceva l’intensità del dolore rispetto al solo diclofenac, con una differenza <25%, e una sovrapponibile tollerabilità. Gli autori sottolineano le limitazioni metodologiche relative agli studi

selezionati per eterogeneità di casistiche, di outcome e per la durata. L’analisi degli studi di confronto tra farmaci del II° gradino mostra la paucità di studi in generale ed in particolare di RCTs che sono di basso livello qualitativo. In un RCT viene confrontata la efficacia analgesica e gli effetti collaterali del tramadolo orale vs idrocodone e vs codeina in 177 pazienti11. Nessuna differenza statisticamente significativa nella efficacia analgesica dei 3 farmaci in studio si è evidenziata; tuttavia l’uso del tramadolo produceva una significativa più alta percentuale di vomito, vertigini, perdita di appetito e astenia. In un successivo RCT12 in 118 pazienti sono state confrontate l’analgesia e la tollerabilità di 2 dosi di idrocodone/paracetamolo (25 o 50/2500 mg/die) e di 2 dosi di tramadolo (200 o 400 mg/die). La riduzione del dolore era evidente dopo assunzione della doppia dose di oppioide, ma non una differenza significativa nell’analgesia. I pazienti trattati con tramadolo presentavano una significativa maggiore incidenza di nausea, vomito, vertigini, mancanza di appetito ed astenia. Il tramadolo per via rettale è stato confrontato con il tramadolo per via orale in 60 pazienti oppioide-naïve, non più responsivi ai non oppioidi in un RCT13. Non si sono riscontrate differenze significative di efficacia analgesica e tollerabilità tra le due vie di somministrazione. Gli studi condotti relativi al “salto” del II° gradino (cioè al passaggio dai non oppioidi agli oppioidi forti) presentano molte limitazioni metodologiche. Si segnalano gli unici due RCTs14,15 condotti su pazienti terminali naïve agli oppioidi, anche se i risultati non sono conclusivi sia per la scarsa numerosità e rappresentatività del campione sia per la relativa bassa potenza statistica. Marinangeli et al.14, su una casistica di 100 pazienti con dolore di intensità moderata (VAS < 6), hanno documentano che nei pazienti trattati direttamente con oppioidi forti rispetto a quelli trattati secondo la scala OMS si ottiene una significativamente


| Questioni aperte | Il secondo gradino nella terapia del dolore da cancro: dalla ricerca alla pratica clinica

maggiore riduzione dell’intensità del dolore, un miglioramento delle condizioni generali, un maggior grado di soddisfazione per il trattamento ricevuto ed una maggiore stabilità del fabbisogno analgesico. Il profilo di tossicità è risultato comparabile tra i due gruppi, eccetto che per l’incidenza della nausea significativamente più frequente nel gruppo trattato con oppioidi forti (315 vs. 437 episodi). Maltoni et al.15 su 54 pazienti con dolore di intensità lieve-moderata hanno mostrato che il salto del II° gradino consente una riduzione significativa del numero dei giorni con un’intensità del dolore ≥ 5 (22,8 vs. 28,6%) o con un’intensità ≥ 7 (8,6 vs. 11,2%) ma un incremento dell’incidenza di anoressia e stipsi di grado III/IV. Va sottolineato che la profilassi lassativa era usata meno in questo gruppo. In uno studio prospettico e multicentrico su 110 pazienti consecutivi oppioide-naïve con dolore moderato-severo, Mercadante et al.16 hanno valutato la efficacia e la tollerabilità della somministrazione di morfina orale a rilascio normale alla dose di 15 mg al dì (10 mg die nei pazienti > 70 anni) e titolata secondo il bisogno per 4 settimane. Il trattamento è risultato efficace e ben tollerato dalla maggior parte dei pazienti che hanno raggiunto una dose media di morfina di 45 mg alla quarta settimana. Solo 12 pazienti sono usciti dallo studio a causa di una scarsa risposta analgesica o altre cause. Questi studi suggeriscono che il salto del II° gradino e l’uso di basse dosi di morfina a normale rilascio possono essere considerate strategie terapeutiche emergenti e di facile applicabilità con risultati validi quando si faccia una titolazione accurata della dose necessaria, si monitorizzi e si prevengano i possibili effetti avversi. Inoltre tale strategia deve essere considerata di prima scelta quando il dolore e/o le condizioni cliniche del paziente peggiorano rapidamente rendendo necessario un pronto intervento analgesico con oppioidi forti somministrati attraverso

vie personalizzate17. A conclusione ci sentiamo di affermare che la discussione circa il ruolo del II° gradino deve rimanere aperta per varie ragioni, essendo esso ampiamente utilizzato nella pratica clinica18 nonostante: 1. l’evidenza della letteratura circa il trattamento del dolore da cancro con il II° gradino sia limitata e basata principalmente su studi a dose singola e pochi RCTs di scarsa qualità metodologica, 2. la durata temporale limitata (30-40 giorni) dell’efficacia analgesica19, 3. l’effetto tetto, in cui la curva doserisposta non è lineare ma a campana, 4. la disponibilità sul mercato nazionale di preparati a base di codeina solo in associazione a dosaggio fisso con paracetamolo per cui non è possibile raggiungere la dose massima efficace di codeina senza somministrare dosaggi tossici di paracetamolo (3-4 gr/die), 5. la massima dose efficace non è stata dimostrata in tutti gli oppioidi del II° gradino. Proponiamo di fare luce su questo tema pianificando RCTs indipendenti, su casistica ampia e rappresentativa di pazienti oncologici, che consentano di acquisire evidenze scientifiche trasferibili alla pratica clinica accompagnati ad una formazione del personale sanitario ancora purtroppo legato a timori e falsi miti circa il tempestivo utilizzo degli oppioidi forti, come emerge essere necessario nella pratica clinica. • Bibliografia 1. World Health Organization. Cancer pain relief. Geneve, Switzerland, World Health Organization, 1986. 2. World Health Organization. Cancer pain relief. 2nd edition. Geneve, Switzerland, World Health Organization, 1996. 3. Ripamonti CI, Bandieri E, Roila F. Management of cancer pain: ESMO Clinical Practice Guidelines. Ann Oncol 2011; 22 (suppl 6): vi69-vi77. 4. Grond S, Radbruch L. Weak opioids. Meta-analysis for the therapy of chronic pain. Der Schmerz 1998; 12: 142-55. 5. Arbaiza D, Vidal O. Tramadol in the treatment of neuropathic cancer pain: a double-blind, placebo-controlled study.

Clin Drug Investig 2007; 27: 75-83. 6. Eisenberg E, Berkey CS, Carr DB, et al. Efficacy and safety of nonsteroidal antiinflammatory drugs for cancer pain: a meta-analysis. J Clin Oncol 1994; 12: 2756-65. 7. Agency for Healthcare Research and Quality. Evidence Report/Technology Assessment: Number 35, 2001. 8. McNicol E, Strasses S, Goudas L, et al. Nonsteroidal anti-inflammatory drugs, alone or combined with opioids, for cancer pain: a systematic review. J Clin Oncol 2004; 22: 1975-92. 9. Carlson RW, Borrison RA, Sher HB, et al. A multiinstitutional evaluation of the analgesic efficacy and safety of ketorolac, tromethamine, acetaminophen plus codeine, and placebo in cancer pain. Pharmacotherapy 1990; 10: 211-6. 10. Strobel E. Drug therapy in severe tumor pain: comparative study of a new combination preparation versus diclofenac-Na. Fortsch Med 1992; 110: 411-4. 11. Rodriguez RF, Bravo LE, Castro F, et al. Incidence of weak opioids adverse events in the management of cancer pain: a double-blind comparative trial. J Palliat Med 2007; 10: 56-60. 12. Rodriguez RF, Castillo JM, Castillo MP, et al. Hydrocodone/acetaminophen and tramadol chloridrate combination tablets for the management of chronic cancer pain: a double-blind comparative trial. Clin J Pain 2008; 24: 1-4. 13. Mercadante S, Arcuri E, Fusco F, et al. Randomized double-blind, double-dummy crossover clinical trial of oral tramadol versus rectal tramadol administration in opioid-naive cancer patients with pain. Support Care Cancer 2005; 13: 702-7. 14. Marinangeli F, Ciccozzi A, Leonardis M, et al. Use of strong opioids in advanced cancer pain: a randomized trial. J Pain Symptom Manage 2004; 27: 409-16. 15. Maltoni M, Scarpi E, Modonesi C, et al. A validation study of the WHO analgesic ladder: a two-step vs three-step strategy. Support Care Cancer 2005; 13: 888-94. 16. Mercadante S, Porzio G, Ferrera P, et al. Low morphine doses in opioid-naive cancer patients with pain. J Pain Symptom Manage 2006; 31: 242-7. 17. National Comprehensive Cancer Network (NCCN). Clinical Practice Guideline in Oncology. Adult Cancer Pain V.I. 2009. 18. Sichetti D, Bandieri E, Romero M, et al. Impact of setting of care on pain management in patients with cancer: a multicenter cross-sectional study. Ann Oncol 2010; 21: 2088-93. 19. De Conno F, Ripamonti C, Sbanotto A, et al. A clinical study on the use of codeine, oxycodone, dextropropoxyphene, buprenorphine, and pentazocine in cancer pain. J Pain Symptom Manage 1991; 6: 423-7. CASCO — Vol 1, n. 2, ottobre-dicembre 2011

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Progetti in corso

Il Progetto HuCare (Humanization of Cancer Care in Italy)

Intervista a Rodolfo Passalacqua e Caterina Caminiti* Oncologia Medica Istituti Ospitalieri di Cremona *UO Ricerca e Innovazione Azienda Ospedaliera di Parma

Come nasce e perché il progetto HuCare? Il progetto HuCare, Humanization in Cancer Care, vuole promuovere la umanizzazione dell’assistenza offerta ai pazienti oncologici in Italia. La letteratura dimostra che una proporzione considerevole di pazienti con cancro sviluppa disagio psicologico (ansia e/o depressione) in conseguenza della malattia o delle cure, che spesso i pazienti non ricevono informazioni sufficienti circa i diversi aspetti della loro malattia e delle cure per una impreparazione dei sanitari a comunicare in modo efficace. Inoltre, i malati e le loro famiglie si trovano ad affrontare difficoltà di natura sociale che richiedono supporti specifici (ad es. alloggio, trasporto, intervento dell’assistente sociale), problemi essenziali che però frequentemente rimangono irrisolti, anche perché raramente segnalati dagli utenti stessi. La dimensione psicosociale della malattia risulta strettamente correlata alla dimensione medica: di fatti, è stato dimostrato che influenza molteplici aspetti quali i sintomi, la capacità di affrontare la malattia, il coinvolgimento decisionale del paziente, il suo grado di soddisfazione e l’adesione terapeutica.

Quali sono gli obiettivi e come si sviluppa il progetto? Il progetto intende migliorare lo stato psicosociale dei pazienti 64

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attraverso l’implementazione negli ospedali di interventi di dimostrata efficacia, selezionati già da una taskforce dell’AIOM sin dal 2006. Le tre grandi aree su cui si è intervenuto sono: il miglioramento della comunicazione e della relazione tra paziente e operatori sanitari, la soddisfazione dei bisogni informativi dei malati, il rilevamento tempestivo e routinario del disagio psicologico e dei bisogni sociali, un nuovo ruolo degli infermieri di oncologia. Lo studio, che si è appena concluso, ha avuto la durata di tre anni, e ha visto la partecipazione di 33 oncologie situate prevalentemente in Lombardia. La metodologia seguita è quella descritta in letteratura per gli studi di implementazione, in cui fondamentalmente si attua un’attenta analisi del contesto di ogni centro e un diretto coinvolgimento di tutti gli operatori, al fine di identificare le barriere all’introduzione degli interventi previsti e condividere le possibili soluzioni da adottare. Durante l’attuazione dello studio sono stati forniti ai centri diversi tipi di supporto da parte di infermieri, psicologi e sociologi del Gruppo di Coordinamento del progetto e strumenti di lavoro indispensabili per favorire il cambiamento. Per i centri partecipanti, il progetto ha rappresentato una grande opportunità di intraprendere un processo di miglioramento verso l’umanizzazione dell’assistenza, ponendo al centro anche i bisogni informativi e psicosociali dei pazienti.

Relativamente alla prima grande area, in che modo il progetto HuCare vuole favorire la comunicazione medicopaziente?

Fondamentalmente attraverso due interventi di dimostrata efficacia: la formazione alla comunicazione per gli oncologi e per gli infermieri e la lista di domande per i pazienti. La letteratura dimostra che le abilità comunicative dei professionisti sanitari possono essere apprese, e che l’effetto della formazione perdura nel tempo. Il progetto ha previsto un corso di formazione per oncologi finalizzato al miglioramento delle loro competenze comunicative. Per quanto riguarda invece la lista di domande, bisogna considerare che i pazienti sono spesso reticenti a fare domande al medico. È stato dimostrato che l’uso di una lista di possibili domande consegnata al paziente prima della visita con l’oncologo porta a un miglioramento della comunicazione secondo indicatori oggettivi e soggettivi. Il progetto ha previsto l’uso presso tutti i centri di una lista di domande validata in Italia secondo le indicazioni della letteratura.

Una ulteriore area critica sembra essere, come dicevate, quella dell’informazione al paziente e della sua educazione Nonostante la maggior parte dei pazienti oncologici desideri ricevere informazioni accurate sui diversi aspetti dalle malattia, troppo spesso questo bisogno rimane inascoltato. Si sa che le informazioni devono essere date non solo dal medico ma anche dall’infermiere che è spesso anche la figura più vicina al malato. Il progetto mira a garantire la corretta informazione ed educazione dei pazienti tramite l’attuazione di un percorso fatto da tre interventi specifici: 1. l’infermiere di riferimento, incaricato di accogliere il paziente in reparto, analizzare e rispondere al suo bisogno, orientarlo e assicurare che segua tutte le procedure previste dal protocollo; 2. istituzione del PIS (Punto Informativo e di Supporto), ossia uno spazio fisico gestito da personale infermieristico specializzato al quale deve essere garantito l’accesso a tutti i nuovi


| Progetti in corso | Il Progetto HuCare (Humanization of Cancer Care in Italy)

pazienti almeno per un primo colloquio; 3. la formazione per infermieri ossia l’attuazione di un programma formativo rivolto agli infermieri dei centri aderenti al fine di migliorare la relazione col paziente e la gestione dei bisogni informativi.

Che ruolo hanno le terapie di supporto nel contesto di una cura più umana alla persona sofferente di tumore? Quando parliamo di cure più umane ci riferiamo in buona parte anche a terapie di supporto. Molte delle cure psicosociali sono di “supporto” alle cure tradizionali antineoplastiche. Basti pensare al sostegno psicologico per ridurre l’ansia e la depressione, ma anche al ruolo chiave del’informazione e dell’educazione dei malati e dei familiari. Un malato istruito e adeguatamente informato è in grado di gestire molto meglio gli effetti collaterali della terapia: dalla nausea/vomito alle complicanze intestinali (talora molto gravi e

pericolose per la vita) a quelle infettive. Ma non solo, come riportato in vari studi, l’informazione ha anche lo scopo di preparare i pazienti al loro percorso di cura, favorire l’adesione terapeutica, aiutarli ad adeguarsi alla nuova situazione e ove possibile facilitare la guarigione. Per tale motivo, nel nostro progetto HuCare è stata introdotta la figura dell’infermiere di riferimento, che fornisce indicazioni e consigli, soprattutto riguardo aspetti attinenti alla vita quotidiana, come i sintomi, la gestione degli effetti collaterali del trattamento, le questioni familiari, ecc., dedicando al paziente il tempo necessario e utilizzando il linguaggio appropriato alle sue capacità di comprensione, contribuendo così anche a rinforzare e chiarire quanto riferito dall’oncologo durante la visita.

Nella vostra esperienza, con quale frequenza il malato soffre disagi evitabili per la mancata somministrazione di terapie specifiche?

Almeno 1/3 dei pazienti con cancro ha disagi che potrebbero essere evitabili o nettamente ridotti nelle loro conseguenze se adeguatamente trattati. Quello che rileviamo più spesso è la mancata educazione dei malati e dei caregivers alla prevenzione e gestione delle complicanze. Faccio 2 esempi: un malato che arriva in ospedale dopo 3-4 giorni di diarrea e stomatite da chemioterapia, con grave disidratazione e squilibrio elettrolitico oppure un altro caso in cui insorge febbre dopo 8-10 giorni dalla terapia (dovuta al calo dei globuli bianchi), senza aver iniziato cure tempestive. Le conseguenze spesso gravissime di entrambe queste situazioni (purtroppo frequenti nella pratica clinica) sarebbero ridotte o annullate solo con una migliore informazione e comunicazione fra sanitari e fra loro e i pazienti. • Il Progetto HuCare è svolto in collaborazione con l’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM).

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11-13-EMD-2011-IT-6173-PU Deposito AIFA: AIFA: 23/ 11/03/ 2011 ONCO-1025827-0000-EMD-PU-01/2014 Deposito 02/ 2012


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