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Periodico trimestrale riservato alla classe medica edito in collaborazione con Via Vitorchiano 151 – 00189 Roma Tel 06 36 19 11 – Fax 06 36 380 311 www.univadis.it Numero verde 800 23 99 89

Primavera 2014

In questo numero EDITORIALE

4 Primavera 2014 Registrazione del Tribunale di Roma in corso Direzione scientifica: Fausto Roila Enzo Ballatori Gruppo editoriale: Claudia Caserta Sonia Fatigoni Guglielmo Fumi Azienda Ospedaliera di Terni

Finalmente il NICSO Fausto Roila, Enzo Ballatori

È nato il Network Italiano per le Cure di Supporto in Oncologia (NICSO) che apporterà a CASCO ulteriori possibilità Fausto Roila, di sviluppo. Enzo Ballatori

TUMORI E TERAPIE DI SUPPORTO

IL PUNTO SU

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Terapia di supporto nelle neoplasie neuroendocrine funzionanti Nicola Fazio, Francesca Spada

CASI CLINICI

24

GESTIONE EVENTI AVVERSI

Il Pensiero Scientifico Editore Via San Giovanni Valdarno 8 00138 Roma Tel 06 862 821 – Fax 06 862 82 250 Internet: www.pensiero.it Stampa: Arti Grafiche Tris, Roma marzo 2014 Direttore responsabile: Giovanni Luca De Fiore Redazione: Manuela Baroncini Progetto grafico: Antonella Mion Prezzo: Fascicolo singolo €15,00

11

14

Tossicità cardiovascolare da ormonoterapia Fausto Roila, Sonia Fatigoni Tossicità dei nuovi farmaci nel tumore della mammella: everolimus, pertuzumab e ado-trastuzumab emtansine Silvia Sabatini, Martina Nunzi

I contenuti pubblicati dalla rivista rispecchiano le opinioni degli Autori e non necessariamente quelle dell’Editore o della MSD Italia S.r.l. Ogni farmaco menzionato deve essere usato in accordo con il relativo riassunto delle caratteristiche del prodotto fornito dalla ditta produttrice.

In copertina: Paul Sérusier, Le Talisman, 1888

Il breakthrough cancer pain: valutazione e trattamento Guglielmo Fumi Agopuntura e fatigue Enzo Ballatori, Fausto Roila

STATISTICA PER CONCETTI

28

Test statistici ed intervalli di confidenza Enzo Ballatori


Editoriale

I

Finalmente il NICSO

l 14 febbraio 2013 è nato ufficialmente a Milano il Network Italiano per le Cure di Supporto in Oncologia (NICSO), la prima associazione ONLUS che si occupa

della terapia di supporto ai pazienti oncologici a tutto campo, e cioè della prevenzione e del trattamento dei sintomi e degli effetti collaterali delle terapie antitumorali (chirurgia, radioterapia e terapia medica in senso lato), a partire dalla diagnosi e dalla terapia specifica del tumore o delle sue metastasi, fino alle fasi terminali della malattia e ai problemi riabilitativi dei lungo sopravviventi. L’idea di

3. Agevolare la pubblicazione dei risultati ottenuti dai singoli studi clinici su riviste internazionali. 4. Costruire un sito web aggiornato. Il NICSO non si pone in alternativa ad altre associazioni e società scientifiche nazionali, ma vuole svolgere un ruolo di integrazione e crescita nell’ambito della ricerca scientifica e nella formazione continua sulle terapie di supporto. Il prossimo passo del NICSO è l’organizzazione del primo Congresso, che si terrà il 12 maggio 2014 a

costituire tale associazione è antica, ma si è concretizzata

Roma, presso l’aula Bignami dell’Università la Sapienza.

durante un incontro tra quattro colleghi avvenuto a fine

Durante il congresso si svolgeranno le elezioni per le

giugno 2013 a Berlino, in occasione del Congresso

nomine dei dirigenti dell’associazione e verranno costituiti

MASCC: Carla Ripamonti, Paolo Bossi, Andrea Antonuzzo

i gruppi di lavoro destinati a diventare l’asse portante

e Fausto Roila. In una prima riunione, tenutasi a Milano

dell’associazione. Invitiamo pertanto tutti i colleghi che

durante il Congresso AIOM cui hanno partecipato circa 40

leggono questa rivista a partecipare a questo primo

oncologi, organizzata per cercare di capire l’interesse del

incontro. Parallelamente, verranno poste in essere le

mondo oncologico per una simile associazione,

procedure per il riconoscimento del NICSO da parte del

i partecipanti hanno convenuto che era giunto il momento

MASCC, e il contributo italiano alla riuscita del convegno

di coinvolgere tutti coloro che operano con il paziente

internazionale di Miami 2014 del MASCC sarà sottolineato

neoplastico (oncologi, ematologi, radioterapisti, internisti,

in un piccolo ma importantissimo spazio autonomo del

psicologi, infermieri, e così via) in una associazione

NICSO.

multidisciplinare finalizzata a migliorare la qualità di vita del paziente neoplastico. Ed è nato il NICSO.

Con la nascita di NICSO si aprono le porte ad una serie di iniziative culturali, scientifiche, di ricerca che auspichiamo

Gli obiettivi del NICSO sono: 1. Potenziare la formazione continua circa il ruolo e la pratica delle terapie di supporto in oncologia. 2. Stimolare e supportare la ricerca scientifica, specie quella indipendente, sulle terapie di supporto effettuata insieme con gruppi europei interessati specificamente a tale settore. Da questo punto di vista il NICSO ha già contatti con altri gruppi europei simili

4

possano permettere a tutti coloro che hanno a cuore la qualità di vita del paziente neoplastico di dare un contributo fattivo alla diffusione dell’importanza delle terapie di supporto in Italia. Ovviamente, CASCO vede in NICSO la possibilità di uno sviluppo ulteriore della rivista che, con il tempo, potrebbe anche caratterizzarsi come rivista dell’associazione.

federati al MASCC quali ad esempio l’AFSOS in Francia,

Fausto Roila,

un altro gruppo in Germania, e così via.

Enzo Ballatori

CASCO — Primavera 2014


Tumori e terapie di supporto

Terapia di supporto nelle neoplasie neuroendocrine funzionanti Nicola Fazio Francesca Spada Unità Tumori Gastrointestinali e Neuroendocrini Istituto Europeo di Oncologia Milano

Riassunto Le neoplasie neuroendocrine (NEN) rappresentano un gruppo di neoplasie relativamente rare e piuttosto eterogenee dal punto di vista biologico e clinico; pertanto la loro gestione richiede la definizione di una strategia terapeutica in ambito multidisciplinare. Sul piano clinico le NEN vengono distinte in funzionanti e non funzionanti in relazione alla presenza o meno di una sindrome correlata alla immissione in circolo da parte del tumore di una o più sostanze. Nelle NEN funzionanti gli analoghi della somatostatina (SSA) rappresentano la terapia di scelta nella stragrande maggioranza dei casi. Per la sindrome da carcinoide (SC) ulteriori opzioni sono rappresentate dall’interferone (IFN), dalla terapia radio recettoriale (PRRT), da trattamenti locoregionali quali la chemio-/embolizzazione epatica (TACE/TAE) e la chirurgia citoriduttiva. Sul piano sperimentale si stanno studiando SSA ad ampio spettro, quali il pasireotide, o farmaci che agiscono sul metabolismo del triptofano come il telotristat. La sindrome associata alla NEN e la tossicità dei farmaci anti-tumorali utilizzati possono influenzare negativamente la qualità di vita (QoL) dei pazienti con NEN. Tale parametro è stato studiato nel tempo, anche con questionari specifici. Tuttavia, tali strumenti devono ancora essere validati da studi longitudinali. Questo articolo tratterà la terapia di supporto delle NEN funzionanti e gli strumenti di valutazione della QoL nei pazienti con NEN. Parole chiave. Tumori neuroendocrini, NEN, NEN funzionanti, sindrome da carcinoide, analoghi della somatostatina, QoL.

Summary

Supportive cares in neuroendocrine neoplasms. Neuroendocrine neoplasms (NENs) are low-incidence malignancies. They are biologically and clinically heterogeneous and should be managed within a multidisciplinary team. The clinical classification includes two main groups: functioning and non functioning neoplasms, based on the presence or absence of a clinical syndrome related to one or more circulating hormones produced by the neoplasm. Supportive care has a crucial role in functioning NENs.

In the vast majority of cases, somatostatin analogs (SSAs) represent the treatment of choice for functioning NENs, especially in carcinoid syndrome (CS). In clinical practice patients with CS resistant to SSAs could be treated with interferon (IFN), peptide receptor radio-therapy (PRRT) or liver locoregional treatments . Broad spectrum SSAs, such as pasireotide, or drugs that affect the metabolism of tryptophan as telotristat are currently under investigation. NEN-associated syndromes and toxicity related to the anti-cancer therapies can adversely affect the quality of life (QoL) of patients with NEN. This parameter has been studied over time, even with specific questionnaires. However these tools have not been validated by specific longitudinal studies. This article focuses on supportive care of functioning NEN and QoL assessment tools in patients with NEN. Key words. Neuroendocrine neoplasms, functioning NEN, carcinoid syndrome, somatostatin analogs, QoL, supportive care, neuroendocrine tumors.

Introduzione Le neoplasie neuroendocrine (NEN) originano dal sistema neuroendocrino diffuso e, pertanto, possono insorgere in qualsiasi distretto corporeo. Nei due terzi dei casi nascono nel tratto gastroenteropancreatico (GEP), in particolare nel piccolo intestino1. La loro incidenza rimane bassa (< 5 nuovi casi/anno x 100.000 abitanti) per quanto in rapidissima ascesa nelle ultime tre decadi1. Tuttavia, a causa della loro più favorevole prognosi rispetto ai carcinomi delle stesse sedi, le GEP NEN hanno una prevalenza relativamente alta, con 35 casi/100.0001. Essendo eterogenee sul piano clinico e biologico le NEN possono essere trattate con terapie tra loro molto diverse, che richiedono l’expertise di differenti figure specialistiche (oncologo medico, chirurgo, medico nucleare, endocrinologo, gastroenterologo, radiologo interventista, nutrizionista, radioterapista, patologo). È cruciale che tali figure si parlino nell’ambito di un team multidisciplinare che stabilisca una strategia terapeutica globale adatta al singolo paziente. La corretta strategia terapeutica si basa sulle caratteristiche del tumore (il grading secondo la classificazione istopatologia OMS, lo staging secondo il TNM, l’espressione dei recettori della somatostatina alle metodiche di imaging funzionale, l’evolutività radiologica di neoplasia) e sull’inquadramento clinico del paziente (sintomatologia, comorbilità)2-6. Sul piano clinico le NEN vengono distinte in due gruppi: funzionanti e non funzionanti, in relazione alla presenza o meno di una sindrome clinica correlata alla produzione ed imCASCO — Primavera 2014

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| Tumori e terapie di supporto | Terapia di supporto nelle neoplasie neuroendocrine funzionanti

missione in circolo di una o più sostanze ormonali. La terapia della sindrome rappresenta un elemento importante nell’ambito del trattamento anti-tumorale globale, talora influendo sul controllo della prognosi anche più del trattamento anti-tumorale diretto. Sindrome da carcinoide La sindrome da carcinoide (SC) è classificata come tipica, caratterizzata da diarrea, dolore addominale e flushing (95% dei casi), e correlata al rilascio in circolo di serotonina, e atipica (5%), in cui il quadro clinico è variabile, per la varietà di sostanze bioattive secrete (serotonina, tachichinine, callicreine e prostaglandine). La SC tipica è presente nel 15-20% dei pazienti affetti da NEN digiuno-ileale con metastasi epatiche. In meno del 5% dei casi viene causata da NEN ovariche o retroperitoneali, senza localizzazioni epatiche. La diarrea ha un andamento cronico, è prevalentemente secretoria, non migliora con il digiuno ed è associata a squilibri elettrolitici. Le feci sono solitamente acquose, in relazione all’ipermotilità e all’ipersecrezione7,8. Il dolore addominale si manifesta in circa metà dei pazienti con SC: può essere intermittente e crampiforme oppure sordo e non si attenua con la defecazione. Il flushing è il sintomo più frequente, che si può accentuare con l’assunzione di cibo e alcol, con l’esercizio fisico e gli stati emotivi. Le caratteristiche del flushing sono particolari: viso, collo e parte superiore del tronco assumono un colorito rosso con pelle tipicamente asciutta9. Il flushing può essere associato ad ipotensione transitoria e broncocostrizione. La SC atipica è caratterizzata da rossore prolungato, broncocostrizione, cefalea, lacrimazione, dispnea ed ipotensione. Circa il 5% dei carcinoidi bronchiali si associa a SC atipica per la produzione di 5-idrossitriptofano ed istamina anziché serotonina10. La cardiopatia da carcinoide è uno degli aspetti più diffusi e critici della SC, presente nel 10-20% dei pazienti al momento della diagnosi. La SC provoca ispessimento delle valvole cardiache, alterandone la funzione, con fibrosi cardiaca e conseguente insufficienza cardiaca destra11. Fino al 50% dei decessi correlati alla SC sono dovuti all’insufficienza cardiaca. La crisi da carcinoide (CC) è la manifestazione estrema della SC, è pericolosa per la vita ed è infatti considerata un’emergenza oncologica. È indotta dal massiccio rilascio in circolo di amine dopo anestesia, procedure interventistiche o assunzione di farmaci. Le caratteristiche principali sono: ipotensione (raramente ipertensione), tachicardia, dispnea e disfunzione del sistema nervoso centrale11.

La terapia della sindrome da carcinoide nelle NEN funzionanti Gli analoghi della somatostatina (SSA) rappresentano la terapia di scelta per la SC12-14. Sono analoghi sintetici della somatostatina nativa, che ha un’emivita di circa due-tre minuti e, pertanto, non utilizzabile in clinica. Più dell’80% delle NEN, soprattutto di basso grado, 6

CASCO — Primavera 2014

esprime sulla superficie di membrana cellulare i recettori della somatostatina (SSTR)12,13. Octreotide e lanreotide sono gli SSA approvati in Italia e in uso clinico. Hanno elevata affinità per due dei 5 sottotipi recettoriali della somatostatina (SSTR-2 e SSTR-5), soprattuto per il 2, e sono disponibili nella forma a rapido rilascio (octreotide sottocute) e in quella a lento rilascio (octreotide intramuscolare long acting repeatable, LAR, e lanreotide preparazione iniettabile)15,16. Dosi standard di octreotide a rapido rilascio vanno da 0,1 a 0,5 mg sottocute da 1 a 3 volte al dì. Vengono usate al bisogno nel caso di un non completo controllo della sindrome in pazienti in trattamento con formulazioni a lento rilascio, talora embricati con analoghi a lento rilascio nella fase iniziale (fase di induzione/sensibilizzazione) e raramente come terapia cronica (es. insulinomi). La formulazione di octreotide LAR ha dosaggi da 10, 20 e 30 mg, e viene somministrata per via intramuscolare una volta ogni 4 settimane. La formulazione di lanreotide preparazione iniettabile ha dosaggi da 60, 90 e 120 mg e viene somministrata per via sottocutanea profonda una volta ogni 4 settimane. Circa il 40% delle SC in trattamento con la massima dose di SSA a lento rilascio non è completamente controllata. In questi casi possono essere presi in considerazione un aumento della dose, una riduzione degli intervalli di somministrazione o l’aggiunta di octreotide sottocute (rescue)17. Gli effetti collaterali degli SSA sono rari ed includono diarrea, bradicardia, iperglicemia, ipotiroidismo, colelitiasi. Dal punto di vista regolatorio nelle GEP NEN funzionanti la prescrizione è soggetta a compilazione di piano terapeutico attraverso la nota AIFA 4018.

La terapia della crisi da carcinoide La CC è considerata un’emergenza oncologica. Il trattamento della CC è basato in primo luogo sulla reintegrazione idro-elettrolitica, sull’uso dell’octreotide e sulla correzione dell’acidosi metabolica, intervenendo simultaneamente sul controllo della diarrea19,20. In secondo luogo occorre identificare l’evento precipitante, come sepsi, sanguinamento o malattie virali. Corticosteroidi, antibiotici ed octreotide in infusione continua rappresentano presidi terapeutici aggiuntivi21,22. Nei pazienti con elevato rischio di sviluppare la CC (pazienti con elevata quantità di malattia o nei quali la SC è di difficile controllo con la terapia medica) può essere utile l’octreotide endovena in via profilattica nel periodo preoperatorio (50-150 microgrammi/ora). Allo stesso modo si può intervenire profilatticamente in pazienti che debbano sottoporsi a procedure interventistiche, quali la (TAE) o interventi chirurgici23,24. L’ipotensione intraoperatoria è di difficile gestione farmacologica e talvolta richiede manovre invasive. La pressione arteriosa deve essere controllata con l’infusione di colloidi ed octreotide (300-500 mcg endovena) somministrati immediatamente. Nel postoperatorio, inoltre, può essere necessaria una continua lenta somministrazione di octreotide endovena20,23.


| Tumori e terapie di supporto | Terapia di supporto nelle neoplasie neuroendocrine funzionanti

Trattamento della sindrome da carcinoide resistente agli SSA Il trattamento della SC resistente ad octreotide LAR 30 mg/4 settimane o lanreotide preparazione iniettabile 120 mg/4 settimane può richiedere approcci diversi. Nella pratica clinica, come sopra esposto, si ricorre in primo luogo all’utilizzo di octreotide rescue sottocute e/o all’aumento della dose o modifica della schedula dell’analogo in formulazione a lento rilascio17. Ulteriori presidi sono l’IFN25-27, la PRRT28, la TACE/TAE29 o la chirurgia citoriduttiva30,31. Sul piano sperimentale si stanno studiando SSA ad ampio spettro, quali il pasireotide, o farmaci che intervengono sul metabolismo del triptofano, quali il telotristat. Pasireotide (PAS) È un SSA che si lega ai sottotipi recettoriali 1, 2, 3 e 5 della somatostatina. In particolare ha mostrato un’affinità 30-40 volte maggiore rispetto ad octreotide sui sottotipi 1 e 5. Un recente studio di fase II pubblicato ha riportato che il PAS a 600-900 microgrammi sottocute x 2/die in pazienti con SC non controllata da octreotide LAR al massimo dosaggio ha ricondotto al controllo il 27% dei 45 pazienti trattati32. Un successivo studio di fase III che ha confrontato PAS LAR 60 mg/4 settimane con octreotide LAR 40 mg/4 settimane in pazienti con SC non controllata da OCT LAR 30 mg/4 settimane è stato chiuso in anticipo, dopo che una analisi ad interim ne ha verificato la non raggiunta efficacia. I due farmaci hanno mostrato un simile profilo di tossicità, con maggiore probabilità di iperglicemia per il PAS33. Telotristat Un farmaco promettente per il controllo della SC è il telotristat etiprate (TE), inibitore orale dell’enzima triptofanoidrossilasi (TPH) che riduce la produzione di serotonina. Sulla base di favorevoli risultati di studi di fase II è attualmente in corso un trial clinico di fase III, in confronto con placebo, per studiare l’effetto del TE a 250 e 500 mg34 (figura 1). Il TE è un pro-farmaco disegnato specificamente per ottenerne una maggiore esposizione sistemica senza attraversare la barriera ematoencefalica e allo scopo di estenderne il potenziale utilizzo a tutte quelle condizioni cliniche in cui l’iperserotoninemia possa esserne la causa, come nella SC. In studi di Fase 2 TE ha dimostrato di fornire un beneficio clinico per i pazienti con NEN funzionante e SC. Nello specifico, i tumori carcinoidi sono per lo più derivati da cellule enterocromaffini (EC) del piccolo intestino, e spesso producono e rilasciano grandi quantità di serotonina che è ritenuta essere responsabile della grave diarrea ed eventuale danno cardiaco valvolare e fibrosi mesenterica nei pazienti con SC. L’inibizione della TPH dovrebbe portare ad una riduzione dei livelli periferici di serotonina nei pazienti che sono affetti da SC e quindi ad un complessivo miglioramento della sintomatologia. Un inibitore periferico della TPH, come il TE, dovrebbe alleviare i sintomi dovuti ad un eccesso di serotonina senza effetti collaterali a livello del sistema nervoso centrale.

Come detto sopra gli SSA rappresentano lo standard di trattamento per i pazienti affetti da SC. Tuttavia tali farmaci possono indurre un meccanismo di tachifilassi con conseguente ricorrenza dei sintomi. Pertanto il TE potrebbe risultare efficace nei pazienti con SC non più controllata dall’SSA o controllarla ab initio meglio che con l’SSA. Terapia di supporto di altre sindromi associate a NEN

Sindrome di Cushing Tale sindrome comprende un complesso di sintomi/segni e condizioni cliniche, quali la facies lunare, l’ipertensione arteriosa, il diabete, l’acne, l’irsutismo, le striae rubre, la “gobba di bufalo”, le irregolarità mestruali. L’insorgenza può essere anche molto rapida. Nelle NEN la causa è rappresentata dalla produzione di ACTH ectopico. Il primo passo terapeutico è la prescrizione di inibitori della steroidogenesi, quali il metirapone ed il ketoconazolo, oppure il mitotane, da soli o in combinazione35. Opzioni aggiuntive possono essere gli SSA, da soli o associati alla cabergolina, che è un inibitore dei recettori della dopamina. Gastrinoma Nella sindrome di Zollinger-Ellison, caratterizzata da diarrea, ipergastrinemia da gastrinoma, ulcere duodenali e ipercloridria, la terapia principale è rappresentata dall’inibitore della pompa protonica (PPI). Si possono raggiungere dosi anche molto elevate (come 60 mg al dì di omeprazolo). Gli SSA possono essere utili in alcuni casi in aggiunta ai PPI.

Figura 1. Target d’azione del telotristat.

TP (Triptofano)

TELOTRISTAT Triptofano idrossilasi (TPH) 5-HTP (5-idrossitriptofano) Decarbossilasi 5-HT (5-idrossitriptamina o serotonina) Monoaminossidasi

5-HIAA (5-idrossiindolacetico)

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Insulinoma L’ipoglicemia da insulinoma può essere affrontata in modo acuto o cronico. Nel primo caso si ricorre a infusioni endovenose di destrosio e/o intramuscolari di glucagone oltre che a reintegrazione di potassio. Nel secondo si usa il diazossido, 3-8 mg/Kg/die per os ogni 8-12 ore fino a una dose totale di 1200 mg. Alle dosi più alte il diazossido causa nausea e ritenzione liquida. VIPoma La diarrea secretoria da VIPoma richiede un approccio acuto basato su reintegrazione idroelettrolitica ed SSA sottocute ed uno cronico con modulazione di dose e schedula degli SSA. Laddove possibile dovrebbe essere valutata la rimozione chirurgica della neoplasia. Glucagonoma Il diabete, accompagnato dalle cosiddette 4 D (dermatosis, depression, diarrhea, deep venous thrombosis) rappresenta il quadro clinico del glucagonoma. La dermatosi (eritema necrolitico migrante) e il calo ponderale sono i segni più frequenti. L’SSA rappresenta la terapia medica di scelta. Somatostatinoma La triade colelitiasi, iperglicemia e steatorrea fa porre il sospetto di somatostatinoma, una neoplasia delle cellule D del

pancreas. Calo ponderale e dolore addominale si associano al quadro clinico. L’SSA può essere utile nel controllo di diarrea, perdita di peso e diabete.

Qualità di vita La terapia medica delle NEN comprende una varietà di opzioni sistemiche quali gli SSA, l’IFN, la chemioterapia e, più recentemente, i farmaci a bersaglio molecolare (tabella I). Tali farmaci possono causare una varietà di effetti collaterali che possono sommarsi alla sintomatologia causata dalla malattia stessa ed incidere negativamente sulla qualità della vita (QoL). Pertanto oltre al controllo dei sintomi della SC e dei parametri biochimici, la terapia delle NEN include anche il miglioramento globale della QoL36. Tale parametro è stato ampiamente studiato nel tempo. Lo strumento più comunemente utilizzato è il questionario QLQ C30, dell’Organizzazione Europea per il Trattamento e la Ricerca del Cancro ( EORTC ). Esso non è specifico per pazienti con NEN e considera vari aspetti generali correlati alla QoL. Si tratta di 30 domande che valutano lo stato fisico, psicologico e sociale del paziente con tumore. Esistono due questionari specifici per i pazienti con NEN. Il primo è l’EORTC QLQ GI NET21 e valuta i sintomi gastrointestinali, gli eventuali fattori correlati al tumore, i problemi psicosociali, gli effetti collaterali del trattamento e altri eventi (ad esempio la presenza di dolore osseo, la ses-

Tabella I. Opzioni di trattamento nelle NEN metastatiche nel mondo.

Farmaco

Stato di approvazione Controllo dei sintomi

Controllo della crescita tumorale Ben diff. PNET

Ben. Diff. NET

• • •

– Streptozotocina (STZ)

FDA 1982

– 5-FU (+ STZ)

– Doxorubicina (+STZ)

– Temozolomide

—*

– Everolimus

FDA 2011; EMA 2011

– Sunitinib

FDA 2011; EMA 2010

Interferone Alfa2b

Analoghi della somatostatina: – Octreotide s.c. – Octreotide LAR – Lanreotide prep. iniettabile Chemioterapia:

Targeted therapies:

NET: tumore neuroendocrino; PNET: tumore neuroendocrino del pancreas; 5-FU: 5-fluorouracile; *prescrivibile in Italia con la legge 648/96 “qualora non si ritenga di praticare la streptozotocina”; FDA: Food and Drug Administration; EMA: European Medicines Agency.

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sualità, la perdita di peso e di informazione/comunicazione nei pazienti con NET GI)37-39. L’altro questionario è chiamato The Norfolk QoL NET questionnaire e valuta la frequenza dei sintomi, la loro gravità, le attività della vita quotidiana, l’impatto psicologico della somministrazione degli SSA e lo stato psicologico in generale dei pazienti39,40. È stato recentemente pubblicato uno studio di confronto di questi due questionari in 29 pazienti con diagnosi di NET39. Fatta eccezione per l’aspetto cardiovascolare, c’è stata una forte correlazione tra le voci dei due questionari e i punteggi totali delle due prove39. I punteggi correlavano anche con la quantità di malattia e i livelli di serotonina39. A differenza dell’EORTC QLQ GI NET21 quello di Norfolk QoL NET affronta anche l’impatto del trattamento con SSA39. I risultati sono promettenti, anche se questi strumenti specifici QoL NET devono ancora essere validati da studi longitudinali. Le differenze tra i pazienti con NEN rispetto a quelli con un altro tipo di tumore o alla popolazione sana emerse da studi osservazionali riguardano la valutazione dello stato fisico, del ruolo familiare e sociale, dello stato emotivo, l’affaticamento, l’insonnia, la diarrea, la salute mentale, la presenza o assenza di uno stato depressivo e di dolore, la stato di salute globale e della QoL generale37,40-46. In uno studio di Haugland et al.45, il più grande divario tra i pazienti e la popolazione generale è stato osservato negli aspetti relativi alla limitazione del ruolo fisico come la capacità di svolgere le attività della vita quotidiana, con punteggi medi più bassi di 25 punti per i pazienti con NEN. Oltre a queste valutazioni (estrapolate dai questionari generali) indagini specifiche per l’ansia e la depressione mostrano anche che fino al 40% dei pazienti con NEN mostrano depressione lieve o moderata se confrontati coi soggetti sani46. Analizzando i vari aspetti, i pazienti con NEN hanno una peggiore QoL rispetto alla popolazione generale41,45,47. Negli studi fatti in pazienti con NEN si è riscontrata una forte correlazione tra il miglioramento dei sintomi e il miglioramento della QoL, misurata utilizzando diversi strumenti39. In particolare la QoL è peggiore nei pazienti che hanno la SC48. Questa osservazione sembra sottendere anche una stretta correlazione tra QoL e burden di malattia39. Conclusioni La terapia di supporto delle NEN funzionanti è volta al trattamento della sindrome. La SC rappresenta la sindrome più nota associata alle NEN ed è trattata in primis con gli SSA. Analoghi della somatostatina a largo spettro, come il pasireotide, e farmaci che agiscono sul metabolismo del triptofano, come il telotristat, sono in fase di sperimentazione per coprire i casi resistenti agli SSA. Le altre sindromi vengono trattate prevalentemente con gli SSA, ma esistono farmaci specifici diversi dagli SSA. Il controllo della sindrome è cruciale nel paziente con NEN, influendo talora sulla prognosi globale anche più della terapia anti-tumorale stessa. La ricerca nell’ambito delle NEN ha portato al migliora-

mento del controllo della crescita tumorale. Tuttavia non è ancora chiaro se le terapie migliorino anche la QoL. È necessario includere nel disegno dei trial clinici la valutazione della QoL per validare gli strumenti. • Bibliografia 1. Yao JC, Hassan M, Phan A, et al: One hundred years after carcinoids: epidemiology of and prognostic factors for neuroendocrine tumors in 35,825 cases in the United States. J Clin Oncol 2008; 26: 3063-72. 2. Pape UF, Berndt U, Mueller-Nordhorn J, et al. Prognostic factors of long-term outcome in gastroenteropancreatic neuroendocrine tumours. Endocr Relat Cancer 2008; 15: 10,83,97. 3. Ekeblad S, Skogseid B, Dunder C, Oberg K, Eriksson B. Prognostic factors and survival in 324 patients with pancreatic endocrine tumor treated at a single institution. Clin Cancer Res 2008; 14: 7798-80. 4. Panzuto F, Nasoni S, Falconi M, et al. Prognostic factors and survival in endocrine tumor patients: comparison between gastrointestinal and pancreatic localization. Endocr Relat Cancer 2005; 12: 1083-92. 5. Bettini R, Boninsegna L, Mantovani W, et al. Prognostic factors at diagnosis and value of WHO classification in a monoinstitutional series of 180 non-functioning pancreatic endocrine tumors. Ann Oncol 2008; 19: 903-8. 6. Franko J, Feng W, Yip L, Genovese E, Moser AJ. Non-functional neuroendocrine carcinoma of the pancreas: incidence, tumor biology, and outcomes in 2,158 patients. J Gastrointest Surg 2010; 14: 541-8. 7. Modlin IM, Kidd M, Latich I, et al. Current status of gastrointestinal carcinoids. Gastroenterology 2005; 128: 1717-51. 8. Van der Lely AJ, de Herder WW. Carcinoid syndrome: diagnosis and medical management. Arq Bras Endocrinol Metab 2005; 49: 850-60. 9. Vinik AI, McLeod MK, Fig LM, et al. Clinical features, diagnosis, and localization of carcinoid tumors and their management. Gastroenterol Clin North Am 1989, 18: 865-96. 10. Kulke MH, Mayer RJ. Carcinoid tumors. N Engl J Med 1999; 340: 859-68. 11. Anthony LB. Practical guide to supportive care of patients with functional neuroendocrine tumors. Semin Oncol 2013; 40: 45-55. 12. Oberg K, Kvols L, Caplin M, et al. Consensus report on the use of somatostatin analogs for the management of neuroendocrine tumors of the gastroenteropancreatic system. Ann Oncol 2004; 15: 966-73. 13. Demirkan BH, Eriksson B. Systemic treatment of neuroendocrine tumors with hepatic metastases. Turk J Gastroenterol 2012; 23: 427-37. 14. Modlin IM, Pavel M, Kidd M, et al. Review article: somatostatin analogues in the treatment of gastroenteropancreatic neuroendocrine (carcinoid) tumours. Aliment Pharmacol Ther 2010; 31: 169-88. 15. Rubin J, Ajani J, Schirmer W, et al. Octreotide long-acting formulation versus open-label subcutaneous octreotide acetate in malignant carcinoid syndrome. J Clin Oncol 1999; 17: 600-6. 16. Caron P. Somatuline Autogel, a new formulation of lanreotide for the treatment of acromegalic patients. Ann Endocrinol 2002; 63 (2 pt3): 2S19-24. 17. Ludlam WH, Anthony L. Safety review: dose optimization of somatostatin analogs in patients with acromegaly and neuroendocrine tumors. Adv Ther 2011; 28: 825-41. 18. Legge 648/96. 19. Kvols LK, Martin JK, Marsh HM, Moertel CG. Rapid reversal of carcinoid crisis with a somatostatin analogue. N Engl J Med 1985; 313: 1229-30. CASCO — Primavera 2014

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Gestione eventi avversi

Tossicità cardiovascolare da ormonoterapia

Fausto Roila Sonia Fatigoni Struttura Complessa di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

RIASSUNTO Recentemente è stata oggetto di valutazione la tossicità cardiovascolare da ormonoterapia nei pazienti oncologici. Nel cancro della prostata localmente avanzato o metastatico, gli LHRH agonisti aumentano la morbilità in conseguenza di una sindrome metabolica (aumento della massa grassa, del colesterolo e dei trigliceridi e riduzione della sensibilità all’insulina). In questi pazienti, dovrebbero essere raccomandate le linee guida per la prevenzione della sindrome metabolica. Nonostante ciò, l’impatto degli LHRH agonisti sulla mortalità cardiovascolare non è chiaramente dimostrato. In pazienti con tumore della mammella manca una evidenza chiara di morbilità cardiovascolare degli inibitori dell’aromatasi. Infatti, l’aumentata morbilità cardiovascolare dimostrata negli studi di valutazione di questi farmaci rispetto al tamoxifene potrebbe essere la conseguenza dell’effetto cardioprotettivo del tamoxifene piuttosto che della cardiotossicità degli inibitori dell’aromatasi. Parole chiave. Cardiotossicità, ormonoterapia, LHRH agonisti, inibitori dell’aromatasi.

SUMMARY

Cardiovascular toxicity induced by hormonal therapy Recently, cardiovascular toxicity induced by hormonal therapy in cancer patients has been evaluated. In locally advanced or metastatic prostate cancer LH-RH agonists increased cardiovascular morbidity as consequence of a metabolic syndrome (increase of fat mass, cholesterol and triglycerides and decrease of insuline sensitivity). In these patients the international guidelines to prevent a metabolic syndrome should be recommended. Despite this, the impact of LH-RH agonists on cardiovascular mortality is not clearly demonstrated. In breast cancer patients a clear evidence of cardiovascular morbidity of the aromatase inhibitors is lacking. In fact, the increased cardiovascular morbidity shown in the studies evaluating these drugs with respect to tamoxifen could be the conseguence of the cardioprotective effect of tamoxifen more than to aromatase inhibitors cardiotoxicity. Key words. Cardiotoxicity, hormonal therapy, LH-RH agonists, aromatase inhibitors.

Recentemente è stata posta l’attenzione del mondo oncologico alla possibile tossicità cardiovascolare, sia in termini di morbilità che di mortalità, della terapia ormonale in pazienti affetti da carcinoma della prostata e della mammella. Nel carcinoma della prostata i farmaci oggetto di valutazione sono stati gli LHRH agonisti, analoghi dell’ormone liberatore delle gonadotropine, farmaci utilizzati sia nella malattia metastatica che, in associazione alla radioterapia, nella malattia localmente avanzata. Gli LHRH agonisti utilizzati sono la triptorelina, la leuprorelina ed il goserelin acetato. Tali farmaci agli inizi degli anni ’90, in virtù di una loro apparente assenza di tossicità cardiovascolare, sono diventati il trattamento standard del carcinoma prostatico sostituendo gli estrogeni che determinavano manifestazioni trombotiche nel 30% dei pazienti. Al momento non vi sono segnalazioni di tossicità cardiovascolare da degarelix, l’unico LHRH antagonista in commercio; ovviamente il tempo trascorso dall’uso nella pratica clinica è breve considerando che le segnalazioni di una possibile cardiotossicità da LHRH agonisti sono iniziate intorno al 2005, quindi circa 15 anni dopo la loro commercializzazione. Gli LHRH agonisti inducono cardiotossicità aumentando il rischio di una sindrome metabolica: infatti provocano obesità (ad un anno dall’inizio del trattamento vi è un incremento del 2% del peso corporeo, un aumento del 10% della massa corporea grassa ed una diminuzione del 3% della massa corporea magra), insulino-resistenza (che si associa ad obesità ed è un fattore di rischio indipendente del diabete e delle malattie cardiovascolari) e, già tre mesi dopo l’inizio del trattamento, aumento del 10% del colesterolo totale, del 25% circa dei trigliceridi e del 8-11% delle lipoproteine ad alta densità (HDL)1. Ma quali sono i dati a supporto del rischio cardiovascolare da LHRH agonisti? Prima di tutto gli studi, purtroppo sono quasi tutti retrospettivi, che evidenziano una correlazione non solo con la morbilità ma anche con la mortalità cardiovascolare. In uno studio basato su di una coorte di 73.196 uomini (dati amministrativi del SEER-Medicare) sono stati valutati pazienti trattati per carcinoma prostatico localmente avanzato osservati per 9 anni2. Il rischio di eventi cardiovascolari nei pazienti trattati con LHRH era significativamente superiore (HR 1,16 per malattie coronariche, HR 1,11 per infarto del miocardio) così come il rischio di mortalità cardiovascolare (HR 1,16) rispetto a coloro che non ricevevano LHRH agonisti. In un altro studio retrospettivo che ha usato i dati del registro tumori dell’Arizona sono stati valutati 2378 pazienti con carcinoma della prostata sottoposti a brachiterapia di cui 464 avevano ricevuto LHRH agonisti per un breve periodo di CASCO — Primavera 2014

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tempo prima della radioterapia3. A 10 anni la sopravvivenza globale era del 44% per i pazienti non sottoposti a LHRH agonisti e del 20% per coloro che li avevano ricevuti. La sopravvivenza cancro-specifica era rispettivamente 89% versus 81%. I pazienti trattati con LHRH agonisti morivano di più per cause cardiovascolari. Un altro studio, che ha utilizzato il database del CAPSURE, ha identificato 3262 pazienti affetti da carcinoma della prostata sottoposti a prostatectomia radicale e 1630 sottoposti a brachiterapia o altre terapie locali4. Gli LHRH agonisti erano stati somministrati per una mediana di 4,1 mesi a 1015 pazienti. Nei pazienti di età superiore o uguale a 65 anni sottoposti a prostatectomia radicale e LHRH agonisti la mortalità cardiovascolare a 5 anni era significativamente superiore (5,5% versus 2%, HR 2,6). Un altro studio ha analizzato la mortalità per infarto del miocardio in 1372 pazienti con carcinoma della prostata arruolati in tre studi randomizzati eseguiti tra il 1995 ed il 2001, in cui i pazienti erano sottoposti o meno a LHRH agonisti associati a radioterapia5. La mortalità cardiovascolare per infarto era superiore, ma non significativamente, in chi aveva ricevuto LHRH agonisti anche per un breve periodo. Infine, più recentemente, è stata pubblicata una revisione sistematica degli effetti collaterali maggiori da LHRH agonisti in pazienti con carcinoma della prostata6. È stato evidenziato un aumento del 20% della morbilità e del 17% della mortalità cardiovascolare rispetto a chi non aveva ricevuto LHRH agonisti. Vi sono altri studi che sembrano escludere un aumento di mortalità cardiovascolare indotta da LHRH agonisti. In tre studi del RTOG che hanno arruolato 900, 456 e 1554 pazienti la mortalità cardiovascolare non era significativamente differente fra coloro che erano sottoposti o no a LHRH agonisti (8,4% con versus 11,4% senza, 14,0% con versus 11,0% senza rispettivamente e 5,9% con 28 mesi di LHRH agonisti versus 4,8% con 4 mesi di tale terapia)7. In un altro studio dell’EORTC eseguito in 985 pazienti con carcinoma della prostata la mortalità era 17,9% con LHRH somministrati immediatamente dopo la diagnosi e 19,7% con LHRH somministrati dopo la comparsa di sintomi o complicanze8. In conclusione non vi è una chiara e convincente dimostrazione che gli LHRH agonisti incrementino significativamente la mortalità cardiovascolare dei pazienti affetti da carcinoma della prostata. Questo probabilmente è la conseguenza del fatto che tali farmaci aumentano di poco il rischio di avere una malattia cardiovascolare. Ad esempio se il rischio di avere un infarto del miocardio con LHRH agonisti è aumentato dell’11%, il rischio di mortalità cardiovascolare con LHRH agonisti è sicuramente ben al di sotto dell’11% e potrebbe essere evidenziato solo studiando un ampio numero di pazienti. Sono pertanto necessari studi prospettici per determinare il rischio di mortalità cardiovascolare con tale trattamento. In ogni caso è bene conoscere e trattare le alterazioni metaboliche dei pazienti affetti da carcinoma della prostata trattati con LHRH agonisti ed in assenza di evidenze specifiche per tali pazienti si raccomanda di seguire le linee guida per lo screening ed il trattamento definite per la popolazione 12

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generale9. In particolare si raccomanda che per lo screening tutti i pazienti che iniziano un trattamento con LHRH agonisti eseguano un dosaggio delle lipoproteine basali, che dovrebbe essere ripetuto dopo un anno di trattamento e poi ogni 5 anni o come clinicamente indicato. Inoltre bisogna assegnare un valore target del LDL basandosi sui maggiori fattori di rischio e cercare di rispettare tale valore. Per quanto riguarda l’insulino-resistenza si consiglia di eseguire una glicemia a digiuno prima dell’inizio del trattamento e ripeterla ogni anno. Il trattamento comprende la sospensione del fumo di sigarette, il trattamento dell’ipertensione e interventi sullo stile di vita quali la ridotta assunzione di grassi saturi e colesterolo, l’aumento dell’attività fisica, il controllo del peso corporeo, basse dosi di ASA in pazienti con rischio cardiovascolare ≥ 10% e l’uso di statine per l’iperlipemia se lo stile di vita fallisce nel raggiungere il valore target di LDL. Inoltre si consiglia di considerare il rischio cardiovascolare degli LHRH agonisti rispetto al beneficio nel pianificare tale terapia e questo specie in pazienti con malattia localmente avanzata che hanno anni di vita davanti a loro. Interessante inoltre è uno studio recentemente pubblicato che ha esaminato 155 lavori in lingua inglese, di tipo medico e psicosociale, che hanno valutato l’attenzione rivolta agli effetti collaterali degli LHRH agonisti (depressione, fatigue, sterilità, vampate di calore, sindrome metabolica, rischio di fratture, ecc.)10. In tali lavori spesso gli effetti collaterali più stressanti fra cui la sindrome metabolica non venivano descritti accuratamente. Era evidente una strategia di marketing in cui ripetute pubblicazioni davano simili informazioni sugli effetti collaterali che erano descritti sotto una luce quasi sempre positiva. Inoltre le pubblicazioni sponsorizzate dall’industria farmaceutica mascheravano possibili alternative agli LHRH agonisti che sebbene poco studiate (estradiolo per via parenterale) sembrano poco tossiche. Nelle pazienti affette da carcinoma della mammella gli inibitori dell’aromatasi (letrozolo, anastrozolo ed exemestane) sono considerati il trattamento di scelta in post-menopausa con recettori ormonali positivi sia nella fase metastatica che come terapia adiuvante. Gli studi hanno evidenziato un trend verso una maggiore incidenza di tossicità cardiovascolare di grado 3 e 4 degli inibitori dell’aromatasi rispetto al tamoxifene che, avendo un impatto favorevole sul profilo lipidico, ha un effetto cardioprotettivo. Le cause di questa possibile aumentata tossicità cardiovascolare degli inibitori dell’aromatasi non sono chiare. È stato ipotizzato che sia la conseguenza di una riduzione dell’estradiolo circolante e/o di un’alterazione del metabolismo lipidico. Di fatto però nel solo studio in cui il letrozolo è stato confrontato con il placebo per 5 anni, dopo i primi 5 anni di tamoxifene, non vi erano differenze nella frequenza degli eventi cardiaci11. Quindi non si sa con certezza se gli inibitori dell’aromatasi determinano un aumentato rischio di cardiotossicità o questo si evidenzia perché il tamoxifene ha un effetto cardioprotettivo. Sulla base di questi dati è stata di recente pubblicata una metanalisi di 7 studi randomizzati tra inibitori dell’aromatasi e tamoxifene che ha considerato quasi 20.000 pazienti12. La differenza nella percentuale di eventi cardiovascolari era si-


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gnificativamente superiore con gli inibitori dell’aromatasi (RR 1,31) ma l’aumento assoluto era modesto (0,52%) ed il numero dei pazienti da trattare per osservare un evento cardiovascolare era alto (189). Invece gli eventi tromboembolici erano significativamente superiori con il tamoxifene (differenza assoluta 1,17%, RR 0,53 e numero di pazienti da trattare 85) così come superiori erano gli eventi cerebrovascolari (RR 0,84) che però, data la scarsa incidenza, non erano statisticamente significativi. In conclusione possiamo affermare che l’uso degli inibitori dell’aromatasi in pazienti con carcinoma della mammella è relativamente sicuro e che i rischi sono inferiori ai benefici. Non di meno va sempre considerato che, dopo 10 anni di un loro uso come terapia adiuvante, sia stato dimostrato solo un aumento della sopravvivenza libera da progressione e non un aumento della sopravvivenza globale. • Bibliografia 1. Saylor PJ, Keating NL, Smith MR. Prostate cancer survivorship: prevention and treatment of the adverse effects of androgen deprivation therapy. J Gen Intern Med 2009; 24 (Suppl 2): 389-94. 2. Keating NL, O’Malley AJ, Smith MR. Diabetes and cardiovascular disease during androgen deprivation therapy for prostate cancer. J Clin Oncol 2006; 24: 4448-56. 3. Beyer DC, McKeough T, Thomas T. Impact of short course hormonal therapy on overall and cancer specific survival after permanent prostate brachytherapy. Int J Radiat Oncol Biol Phys 2005; 61: 1299-305.

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Gestione eventi avversi

Tossicità dei nuovi farmaci nel tumore della mammella: everolimus, pertuzumab e ado-trastuzumab emtansine

Silvia Sabatini, Martina Nunzi Struttura Complessa di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

RIASSUNTO Recentemente 3 nuovi farmaci sono stati approvati per il trattamento delle pazienti affette da carcinoma della mammella metastatico. Si tratta dell’everolimus (inibitore di mTOR), indicato per il trattamento di pazienti con malattia endocrinoresponsiva, HER2 negativa, in progressione dopo un inibitore dell’aromatasi non steroideo, il pertuzumab (anticorpo monoclonale anti HER2/HER3), indicato come terapia di prima linea nelle pazienti con carcinoma mammario metastatico HER2 positivo, in associazione a trastuzumab e taxani, e l’ado-trastuzumab emtansine (anticorpo anti-HER2 coniugato con un chemioterapico), approvato nelle pazienti precedentemente trattate, sempre con carcinoma mammario metastatico HER2 positivo. L’obiettivo di questo articolo è quello di descrivere i più importanti effetti collaterali di questi nuovi farmaci e le principali raccomandazioni per la loro gestione nella pratica clinica. Parole chiave. Tumore della mammella metastatico, everolimus, pertuzumab, ado-trastuzumab emtansine, tossicità.

SUMMARY

Toxicity of new drugs in breast cancer: everolimus, pertuzumab and ado-trastuzumab emtansine Recent studies in metastatic breast cancer have led to the approval of 3 new drugs: everolimus (mTOR inhibitors), indicated in estrogen receptor-positive, HER2-negative metastatic disease, in progression after therapy with a non steroidal aromatase-inhibitor; pertuzumab (HER2/HER3 antibody) approved in association with trastuzumab and taxanes for firstline treatment of HER2-positive metastatic disease and ado-trastuzumab emtansine (antibody chemotherapy conjugate), in HER2-positive metastatic patients in progression after trastuzumab and taxanes. The aim of this article is to review the most relevant toxicity associated with these drugs and their management. Key words. Metastatic breast cancer, everolimus, pertuzumab, ado-trastuzumab emtansine, toxicity.

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Introduzione Il tumore della mammella è la neoplasia più frequente nelle donne. In Europa rappresenta la principale causa di morte correlata al cancro nelle donne, essendosi registrati, nel 2008, 332.000 nuovi casi e 89.000 decessi. Pertanto, nonostante la progressiva riduzione della mortalità che si è ottenuta negli ultimi anni grazie alla diagnosi precoce e all’introduzione di nuove terapie nei vari stadi della malattia, rimane alto l’impegno nel migliorare ulteriormente la sopravvivenza delle pazienti con tumore della mammella1-3. Con questo obiettivo, recentemente tre nuovi farmaci hanno ricevuto l’indicazione in Europa per il trattamento del carcinoma mammario avanzato: l’everolimus, il pertuzumab e l’ado-trastuzumab emtansine (TDM-1). Ruolo di mTOR nel tumore della mammella Un ruolo importante nella patogenesi del tumore della mammella è svolto da mTOR, acronimo di mammalian target of rapamycin, identificato nei mammiferi come bersaglio dell’antibiotico macrolide rapamicina. È una proteina, serina/treonina chinasi intracellulare, essenziale nella regolazione dei processi di crescita, proliferazione e sopravvivenza delle cellule; essa agisce attraverso la via di trasduzione del segnale che coinvolge PI3K/AKT, a loro volta responsivi ai segnali inviati dall’attivazione dei recettori per gli estrogeni e dei recettori di altri fattori di crescita (HER family, IGFR). Una aberrante attivazione del pathway di mTOR si verifica spesso nel tumore della mammella, con conseguente coinvolgimento nei meccanismi di oncogenesi, angiogenesi e resistenza ai farmaci, soprattutto l’endocrino-resistenza. Da ciò nasce il razionale dell’impiego degli inibitori di mTOR nelle pazienti con tumore della mammella endocrino-resistenti4.

Impiego clinico dell’everolimus L’everolimus è un inibitore selettivo di mTOR che agisce legandosi alla proteina intracellulare FKBP-12, formando un complesso che inibisce l’attività di mTOR complex-1 (mTORC1), principale responsabile della stimolazione della proliferazione cellulare5. L’everolimus è indicato nella malattia avanzata con stato recettoriale ormonale positivo, HER2 negativa, in combinazione con exemestane, in donne in postmenopausa, in assenza di malattia viscerale sintomatica, dopo recidiva o progressione a seguito di trattamento con un inibitore dell’aromatasi non steroideo (anastrozolo o letrozolo). La registrazione del farmaco nel tumore della mammella è avvenuta sulla base dei risultati dello studio BOLERO-2, studio clinico di fase III, multicentrico, randomizzato, doppio


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cieco, placebo-controllo, condotto in 742 pazienti, in postmenopausa, affette da carcinoma mammario avanzato, ER positivo, HER2 negativo, resistenti a terapia con inibitori dell’aromatasi non steroidei. Le pazienti sono state randomizzate con rapporto 1:2 a ricevere placebo + exemestane (braccio di controllo) o everolimus + exemestane (braccio sperimentale). L’exemestane è stato somministrato alla dose di 25 mg/die per os continuativamente e l’everolimus alla dose di 10 mg/die per os continuativamente. Il trattamento è stato proseguito fino a progressione di malattia o tossicità grave. L’obiettivo primario dello studio era la sopravvivenza libera da progressione (PFS) valutata dallo sperimentatore. Gli obbiettivi secondari erano la sopravvivenza globale, la percentuale di risposta globale, la percentuale di beneficio clinico, la tossicità e la qualità di vita. Il trattamento sperimentale con everolimus + exemestane, confrontato con quello di controllo, ha determinato un miglioramento della PFS di 4,6 mesi, passando da 3,2 mesi nel braccio di controllo a 7,8 mesi nel braccio sperimentale (HR 0,45; CI 95 %, 0,38-0,54; p < 0,0001). Per quanto riguarda la sopravvivenza globale, i risultati non sono ancora maturi, anche se c’è un trend a favore del braccio sperimentale6.

Tossicità da everolimus Nelle pazienti con tumore della mammella avanzato ER positivo, HER2 negativo, in progressione durante la terapia con inibitori dell’aromatasi non steroidei, il cross con altri agenti ormonoterapici è senza dubbio una strategia efficace e, tra le varie opzioni, la combinazione everolimus/exemestane rappresenta una valida scelta, sebbene determini un aumento della tossicità rispetto alla sola terapia ormonale. L’everolimus è un farmaco che ha già ricevuto l’indicazione per il trattamento di pazienti con carcinoma renale avanzato in progressione durante o dopo terapia con agenti antiVEGFR e per il trattamento dei pazienti con tumori neuroendocrini pancreatici in progressione dopo terapia con analoghi della somatostatina; pertanto, ne sono già noti i principali effetti collaterali, la loro prevenzione e gestione. Dall’analisi dello studio BOLERO 2, è emerso che gli effetti collaterali di grado 3 e 4 più frequenti sono risultati la stomatite, l’iperglicemia e la polmonite non infettiva, verificatisi rispettivamente nell’8%, nel 4% e nel 3% delle pazienti. Frequenti, ma di minore gravità, sono risultati il rash cutaneo, le infezioni virali, batteriche e micotiche, le dislipidemie, la fatigue e l’anoressia con calo ponderale significativo6. In considerazione, pertanto, della non trascurabile tossicità, nella scelta della terapia con everolimus bisogna tenere conto delle comorbilità della paziente, con particolare attenzione alla presenza di diabete mellito non controllato e di malattie polmonari con insufficienza respiratoria preesistente e comunque della presenza di un performance status non ottimale. Nel momento in cui si decide di iniziare la terapia con everolimus è importante informare la paziente della possibile comparsa degli effetti collaterali, invitando le pazienti diabetiche ad un maggior controllo della glicemia ed incoraggiando tutte le pazienti ad una accurata igiene del cavo orale, privilegiando l’uso di soluzioni con bicarbonato di sodio e che non contengano al-

cool, iodio, perossido di idrogeno e derivati del timo e favorendo la prevenzione di possibili focolai infettivi preesistenti (malattie del parodonto, granulomi). In presenza di tossicità di grado 3, viene richiesta la sospensione dell’everolimus fino al recupero e comunque al raggiungimento di un grado ≤ 1, la successiva riduzione della dose, l’avvio di terapie mirate e l’esecuzione di esami strumentali diagnostici. Nel caso di tossicità di grado 4 va considerata la sospensione definitiva dell’everolimus. Pertanto, è fondamentale programmare un monitoraggio clinico ravvicinato della paziente che inizia il trattamento e incoraggiare la paziente stessa a segnalare tempestivamente all’oncologo la presenza di sintomi sospetti, ad esempio dolore al cavo orale che persista da più di tre giorni, con difficoltà nell’assunzione di cibi e bevande, la comparsa di tosse e dispnea o il peggioramento di sintomi respiratori preesistenti. Un’altra variabile da considerare nella scelta della terapia è l’età della paziente, sia per il performance generalmente inferiore nella paziente anziana rispetto a quella giovane, sia per la maggior presenza di comorbilità respiratorie, cardiovascolari e metaboliche e maggiore uso di terapie concomitanti che possono peggiorare la tollerabilità alla terapia con l’everolimus. Tuttavia, nello studio BOLERO2, i criteri di inclusione non hanno previsto restrizioni per l’età avanzata e sono state arruolate 164 pazienti con età ≥ 70 anni, di cui 121 nel braccio sperimentale. I risultati hanno evidenziato un vantaggio in PFS in tutte le pazienti, indipendentemente dall’età. Inoltre, nel gruppo delle pazienti più anziane, la percentuale di eventi avversi che hanno richiesto la riduzione o la sospensione dell’everolimus è risultata simile a quella della popolazione giovane7. Pertanto, l’età avanzata di per sé non rappresenta un criterio di esclusione alla terapia di combinazione con everolimus/exemestane anche se è fortemente consigliata la selezione in base alle comorbilità, il monitoraggio clinico degli effetti collaterali e il loro tempestivo trattamento. Ruolo dei recettori della famiglia HER nel tumore della mammella La famiglia dei recettori del fattore di crescita epiteliale umano (HER family) rappresenta un gruppo di quattro recettori transmembrana (HER 1, HER 2, HER 3, HER 4), con attività tirosin-chinasica intracellulare, in grado di partecipare ai normali meccanismi di crescita cellulare, sopravvivenza e differenziazione. Il recettore HER2 svolge inoltre un ruolo importante nello sviluppo e nei meccanismi di riparazione del tessuto miocardico8. L’attivazione del recettore inizia con il legame del ligando con la sua porzione extracellulare; ciò determina il clivaggio proteolitico del dominio extracellulare e l’eterodimerizzazione tra due differenti membri della famiglia HER o l’omodimerizzazione tra due molecole dello stesso recettore. Il 15-20% dei casi di tumore della mammella è caratterizzato da una amplificazione genica e/o iperespressione dell’HER2. Nel sottotipo HER2 positivo, svolge un ruolo importante soprattutto l’eterodimerizzazione HER2-HER3, con conseguente aumento della proliferazione cellulare; ciò determina, nelle pazienti con neoplasia HER2 positiva, una prognosi peggiore, anche dopo chemioterapia, rispetto alle paCASCO — Primavera 2014

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zienti con malattia HER2 negativa9. Nelle pazienti con malattia HER2 positiva, l’associazione della chemioterapia con il trastuzumab, un anticorpo monoclonale rivolto contro HER2, ha migliorato in maniera significativa la sopravvivenza, tanto da diventare lo standard terapeutico sia in fase precoce che avanzata di malattia. Tuttavia, soprattutto nella fase avanzata, è frequente la comparsa di resistenza o refrattarietà al trattamento con conseguente necessità di sviluppare nuovi farmaci anti- HER210.

Impiego clinico del pertuzumab Il pertuzumab è un anticorpo monoclonale umanizzato ricombinante diretto contro il dominio extracellulare (dominio IV) dell’HER2, nell’epitopo deputato alla eterodimerizzazione recettoriale che conseguentemente viene impedita. Si ha pertanto l’interruzione della trasduzione del segnale, che avviene essenzialmente attraverso la via delle protein chinasi attivate dai mitogeni (MAP chinasi) e fosfoinositide 3-chinasi (PI3K), ma con un meccanismo complementare a quello del trastuzumab, anticorpo monoclonale umanizzato ricombinante che si lega sempre al dominio extracellulare di HER2, ma in un epitopo differente (dominio II), quello deputato al clivaggio proteolitico del recettore. Entrambi gli anticorpi sono inoltre capaci di svolgere una attività antitumorale attraverso l’induzione della citotossicità cellulo-mediata anticorpo dipendente (ADCC). Gli studi su modelli animali e poi gli studi clinici di terapia neoadiuvante nel carcinoma mammario hanno dimostrato la presenza di attività antitumorale del pertuzumab in monoterapia, che viene però potenziata dalla combinazione con il trastuzumab, in virtù della loro azione complementare11-13. Il pertuzumab è indicato in associazione con trastuzumab e docetaxel in pazienti affette da carcinoma mammario HER2 positivo, non operabile, metastatico o localmente recidivato, non trattate in precedenza con terapia anti-HER2 o chemioterapia per la malattia avanzata. I risultati dello studio CLEOPATRA sono quelli che hanno consentito la registrazione del farmaco. Si tratta di uno studio clinico di fase III, multicentrico, randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo, condotto in 808 pazienti affette da carcinoma mammario HER2 positivo non operabile, metastatico o localmente recidivato, non precedentemente sottoposte a chemioterapia o terapia biologica per la malattia metastatica. Le pazienti sono state randomizzate con rapporto 1:1 a ricevere placebo + trastuzumab + docetaxel (braccio di controllo) o pertuzumab + trastuzumab + docetaxel (braccio sperimentale). Il pertuzumab/placebo è stato somministrato alla dose fissa di 840 mg totali seguiti da 420 mg totali ev, ogni 3 settimane; il trastuzumab alla dose di 8 mg/Kg seguiti da 6 mg/Kg ev, ogni 3 settimane, entrambi fino a progressione di malattia o tossicità grave. Il docetaxel è stato somministrato a una dose di 75 mg/m2 ev, ogni 3 settimane per almeno 6 cicli. L’obiettivo primario dello studio era la sopravvivenza libera da progressione (PFS), valutata da un comitato di revisione indipendente e definita come il periodo di tempo trascorso dalla data di randomizzazione alla data della progressione di malattia o decesso per qualsiasi causa. 16

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Gli obiettivi secondari dello studio erano la sopravvivenza globale, la PFS valutata dallo sperimentatore, la percentuale di risposte obiettive e la tollerabilità, monitorata da una commissione indipendente e con una valutazione distinta tra la tossicità generale e quella cardiaca. Il trattamento sperimentale con pertuzumab, confrontato con quello di controllo, ha determinato una riduzione significativa del rischio di progressione, aumentando la PFS come da valutazione del comitato di revisione indipendente, di 6,1 mesi, passando da 12,4 mesi nel braccio di controllo a 18,5 mesi nel braccio sperimentale (HR 0,62; CI 95%, 0,51-0,75; p < 0,001)14. I dati sulla sopravvivenza globale non sono maturi. Tuttavia, ad una seconda analisi ad interim, con follow up mediano di 30,1 mesi nel braccio di controllo e 29,7 mesi in quello sperimentale, il numero di decessi nel gruppo del placebo è risultato maggiore rispetto a quello di controllo: 154/406 (38%) vs 113/402 (28 %), (HR 0,66, 95 % CI 0,52-0,84; p = 0,0008)15. Tossicità del pertuzumab

Reazioni correlate all’infusione Essendo un anticorpo monoclonale, il pertuzumab è stato associato a reazioni di ipersensibilità/anafilassi durante o subito dopo l’infusione. Sono stati descritti principalmente sintomi da sindrome da rilascio di citochine (febbre, brividi, ipotensione, dispnea, rash cutaneo), raramente reazioni anafilattiche. Per tale motivo, è raccomandata l’osservazione del paziente nei 60 minuti successivi la prima infusione del pertuzumab. In presenza di una reazione durante l’infusione, la stessa deve essere rallentata o interrotta e devono essere somministrate le terapie mediche appropriate, fino alla completa risoluzione dei segni e dei sintomi. Il trattamento deve essere definitivamente interrotto in caso di anafilassi. Nello studio CLEOPATRA, la prima dose del pertuzumab è stata somministrata il giorno prima della somministrazione di trastuzumab e docetaxel, per permettere la valutazione delle reazioni associate all’infusione. La frequenza delle reazioni all’infusione è stata del 9,8% nel gruppo trattato con placebo e del 13% nel gruppo trattato con pertuzumab. Le reazioni più comuni sono state febbre, brividi, cefalea, astenia e vomito. La frequenza complessiva di eventi da ipersensibilità, tutti di grado lieve-moderato, durante l’intera durata del trattamento è stata del 9,1% tra le pazienti trattate con placebo e del 10,8% tra le pazienti trattate con pertuzumab. Reazioni anafilattiche si sono verificate in 2 pazienti del gruppo trattato con placebo e 4 pazienti del gruppo trattato con pertuzumab14. Diarrea e rash cutaneo Come già descritto precedentemente, il pertuzumab impedisce l’eterodimerizzazione tra i membri della famiglia HER, tra cui HER1 (EGFR), con conseguente comparsa di diarrea e rash cutaneo, come accade per i farmaci inibitori delle tirosin-chinasi. Nello studio CLEOPATRA, si è manifestata diarrea nel 66,8% delle pazienti trattate con pertuzumab e nel 46,3% delle pazienti trattate con placebo. La maggior parte degli eventi è stata di gravità da lieve a moderata e si è manifestata


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in concomitanza della terapia con docetaxel. La diarrea di grado 3-4 è stata segnalata nel 7,9% delle pazienti nel braccio sperimentale e nel 5% delle pazienti nel braccio di controllo. Tutti i casi di diarrea sono stati trattati con esito positivo secondo le linee guida già esistenti per tale effetto collaterale. Anche il rash cutaneo si è verificato maggiormente nelle pazienti trattate con pertuzumab (45,2% rispetto al 36,0%); la maggior parte degli eventi è stata di entità lieve, ad insorgenza precoce e responsiva alle terapie standard14.

Cardiotossicità Tutti i farmaci anti-HER2 possono determinare una tossicità cardiaca. Due sono considerati gli eventi più importanti: la disfunzione ventricolare sinistra asintomatica, caratterizzata dal riscontro ecocardiografico di una riduzione della frazione di eiezione ventricolare sinistra (LVEF) di un valore ≥ 10 punti rispetto al basale o in termini assoluti di un valore < 50%, e l’insufficienza cardiaca congestizia. Per tale motivo, tutte le pazienti in trattamento devono essere sottoposte a valutazione ecocardiografica basale e quindi a monitoraggio clinico ad ogni ciclo ed ecocardiografico ogni 3 cicli. Non è prevista una riduzione della dose, ma solo una eventuale sospensione momentanea o permanente del farmaco. In particolare, la sospensione temporanea del trattamento deve essere effettuata nel caso di: evidenza di segni e sintomi suggestivi di insufficienza cardiaca congestizia, diminuzione della LVEF fino a meno del 40% o LVEF compresa tra 40%-45% associata a una diminuzione di ≥10 punti al di sotto del valore basale. La terapia può essere ripresa quando la LVEF ritorna a valori > 45% o 40-45% ma con una riduzione di <10 punti al di sotto del valore basale. La sospensione definitiva va considerata se non vi è alcun miglioramento entro le 3 settimane. Al momento non si conoscono fattori di rischio specifici per la tossicità cardiaca da pertuzumab, tuttavia il precedente trattamento con antracicline e la radioterapia sulla parete toracica vanno considerati come tali. Inoltre, non si conoscono i dati della cardiotossicità nelle pazienti escluse dallo studio registrativo per le seguenti comorbilità: valore basale della LVEF ≤50%, anamnesi di insufficienza cardiaca congestizia, diminuzioni della LVEF fino a <50% durante la terapia adiuvante precedente con trastuzumab, ipertensione non controllata, infarto miocardico recente, grave aritmia cardiaca che necessiti di trattamento o precedente esposizione ad una dose cumulativa di doxorubicina > 360 mg/m2 o equivalente. Un aspetto importante che è emerso dallo studio CLEOPATRA è che l’associazione pertuzumab/trastuzumab non ha aumentato gli eventi di tossicità cardiaca, nemmeno nel sottogruppo di pazienti con età ≥ 65 anni14,16. Tale evidenza si è mantenuta anche alla seconda analisi dei dati dello studio, eseguita nel maggio 2012, ad un anno dalla prima15. Neutropenia febbrile Dall’analisi dello studio registrativo è emerso che le pazienti trattate con pertuzumab, trastuzumab e docetaxel sono state a maggior rischio di sviluppare una neutropenia

febbrile rispetto alle pazienti trattate con placebo, trastuzumab e docetaxel. Poiché la conta dei neutrofili al nadir è risultata simile nei due gruppi, probabilmente la più alta incidenza di neutropenia febbrile nel braccio sperimentale può essere associata alla più elevata incidenza di mucosite e diarrea. L’incidenza di neutropenia febbrile di grado 3-4 è stata del 13,8% nelle pazienti trattate con pertuzumab e del 7,6% nelle pazienti non trattate con il farmaco in studio. Alla sospensione del docetaxel, non si è registrato alcun evento nel braccio di trattamento con il pertuzumab. I decessi imputabili a reazioni avverse serie sono stati il 3% nel braccio di controllo e il 2% nel braccio sperimentale e tutti riferibili a complicanze della neutropenia febbrile o comunque ad eventi infettivi14.

Impiego clinico del TDM-1 L’ado-trastuzumab emtansine (TDM-1) è un farmaco antineoplastico costituito dall’anticorpo monoclonale trastuzumab, coniugato con un agente citotossico, un derivato della maitansina (DM-1). Il meccanismo d’azione del TDM-1 comprende quindi quello tipico del trastuzumab e quello del DM-1, capace di danneggiare i microtubuli cellulari con conseguente arresto delle mitosi e induzione dell’apoptosi. Il DM-1 viene veicolato dal trastuzumab solamente nelle cellule che iperesprimono l’HER2 con conseguente aumento dell’indice terapeutico e riduzione dell’esposizione alle cellule normali17. Il TDM-1 è indicato in monoterapia in pazienti con carcinoma mammario HER2 positivo, non operabile o metastatico, precedentemente trattati con trastuzumab e taxani, separatamente o in combinazione. Lo studio che ha permesso la registrazione del farmaco è stato lo studio EMILIA, di fase III, multicentrico, internazionale, randomizzato, in aperto, condotto in 991 pazienti affette da carcinoma mammario HER2 positivo non operabile, localmente avanzato o metastatico, precedentemente sottoposte a terapia con trastuzumab e taxani. Le pazienti sono state randomizzate con rapporto 1:1 a ricevere lapatinib e capecitabina (braccio di controllo) o TDM-1 (braccio sperimentale). Il lapatinib è stato somministrato alla dose di 1250 mg totali per os continuativi in associazione alla capecitabina alla dose di 1000 mg/m2 ogni 12 ore, per os per 14 giorni ogni 21. Il TDM-1 è stato somministrato alla dose di 3,6 mg/kg ev, ogni 3 settimane. Il trattamento è stato proseguito fino a progressione di malattia o tossicità grave. Gli obiettivi primari dello studio erano la PFS, valutata da un comitato di revisione indipendente e definita come il periodo di tempo intercorso dalla data di randomizzazione alla data della progressione di malattia o decesso per qualsiasi causa, la sopravvivenza globale, definita come il periodo di tempo intercorso dalla data di randomizzazione alla data del decesso per qualsiasi causa e la tollerabilità. Il trattamento sperimentale con TDM-1, confrontato con quello di controllo, ha determinato un aumento della PFS di 3,2 mesi, passando da 6,4 mesi nel braccio di controllo a 9,6 mesi nel braccio sperimentale (HR 0,65; CI 95%, 0,55-0,77; p < 0,001). Il vantaggio del trattamento sperimentale si è mantenuto anche sulla sopravvivenza gloCASCO — Primavera 2014

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bale, con 30,9 mesi nel braccio sperimentale rispetto ai 25,1 mesi nel braccio di controllo (HR 0,68; CI 95%, 0,55-0,85; p < 0,001)18. Tossicità del TDM-1

Trombocitopenia La trombocitopenia è uno degli effetti collaterali più frequenti riscontrati durante il trattamento con TDM-1. In particolare, dall’analisi sulla tollerabilità e sicurezza, che ha valutato 882 pazienti arruolate nei 7 studi di fase I-III di terapia con TDM-1 nella malattia avanzata, la piastrinopenia di ogni grado si è verificata nel 28,7% dei casi19. Ad oggi non è nota con certezza l’eziopatogenesi della piastrinopenia, anche se studi in vitro sembrano ipotizzare una interferenza con i microtubuli dei megacariociti, con il blocco della loro capacità di rilasciare le pro-piastrine e il conseguente arresto nella formazione delle piastrine20. La comparsa della trombocitopenia è precoce, già al giorno 8 del primo ciclo, ma reversibile. La maggior parte dei casi è di grado 1 e 2; nello studio EMILIA, il 12,9% delle pazienti in trattamento con TDM-1 ha sviluppato una trombocitopenia di grado 3 e 4. La piastrinopenia può favorire l’epistassi ma raramente è stata associata a sanguinamenti maggiori. È raccomandata la valutazione della conta piastrinica basale e prima di ogni ciclo di terapia, in quanto si tratta di un effetto collaterale dose-limitante. In particolare, in caso di piastrinopenia di grado 3 la terapia va interrotta e poi ripresa a dose piena quando i valori risultano ≥ 75000/mm3; per piastrinopenia di grado 4 la terapia va interrotta e ripresa a dose ridotta alla risalita delle piastrine ≥ 75000/mm3, fino alla sospensione definitiva del farmaco al ripresentarsi dell’effetto collaterale di grado 4, nonostante la riduzione della dose. Nello studio EMILIA, il 2% delle pazienti in trattamento con TDM-1 ha dovuto interrompere il trattamento per la trombocitopenia18,21. Incremento delle transaminasi Anche questo effetto collaterale è piuttosto frequente e ad eziopatogenesi ancora incerta. È descritto come un aumento precoce, transitorio, cumulativo delle transaminasi, prevalentemente di grado 1 e 2 e che riguarda principalmente le AST. Nello studio EMILIA, il 4,3% delle pazienti in trattamento con TDM-1 ha sviluppato un aumento delle transaminasi (AST) di grado 3 e 4. In generale, gli eventi epatici di grado ≥ 3 non sono stati associati a un esito clinico sfavorevole, tuttavia la possibilità di un grave danno epatico va considerata come rischio potenziale. Sul totale delle 882 pazienti arruolate in tutti gli studi con il TDM1, sono stati riscontrati 3 casi di iperplasia nodulare rigenerativa del fegato (NRH). La NRH è una rara patologia epatica, diagnosticabile soltanto attraverso il prelievo bioptico, caratterizzata da una diffusa trasformazione benigna del parenchima epatico in piccoli noduli rigenerativi ed associata a ipertensione portale. Pertanto, la diagnosi di NRH deve essere ipotizzata in quelle pazienti con sintomi clinici di ipertensione portale e/o pattern similcirrotico alla TC del fegato, anche se con transaminasi nella norma19. È raccomandata la valutazione basale delle transa18

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minasi e prima di ogni ciclo di terapia in quanto anche questo effetto collaterale è dose-limitante. In particolare, in caso di alterazioni delle transaminasi di grado 3 il trattamento va interrotto fino ad un grado ≤ 2 e ripreso ad una dose ridotta; la comparsa del grado 4 determina l’interruzione definitiva del farmaco18,21.

Neurotossicità La capacità della componente citotossica del farmaco di danneggiare i microtubuli è responsabile della possibile comparsa di neuropatia periferica. Principalmente tale effetto collaterale si manifesta con un quadro di lieve entità e prevalentemente di tipo sensoriale. Tuttavia il monitoraggio clinico deve essere effettuato prima di ogni ciclo di terapia e il trattamento va sospeso temporaneamente nelle pazienti che manifestano una neuropatia periferica di grado 3 o 4. Reazioni relate all’infusione La componente monoclonale del farmaco può causare reazioni di ipersensibilità/anafilassi durante o subito dopo l’infusione. Nella maggior parte dei casi sono state descritte reazioni di lieve entità, ma si deve considerare che gran parte della popolazione arruolata negli studi era già stata trattata con trastuzumab e che sono state escluse a priori tutte le pazienti che avevano presentato una reazione grave all’infusione del trastuzumab. Cardiotossicità Come per il trastuzumab anche con il TDM-1 vi è un ipotetico rischio di cardiotossicità, costituita prevalentemente dalla disfunzione ventricolare sinistra asintomatica o dall’insufficienza cardiaca congestizia. Tuttavia, gli eventi cardiaci significativi sono risultati poco frequenti; in particolare, nelle 882 pazienti arruolate nei 7 studi con TDM-1 nella malattia avanzata, gli eventi cardiaci sono stati l’1,5% e prevalentemente di grado 1 e 2; soltanto 3 pazienti hanno dovuto interrompere definitivamente il trattamento19. Al momento non è possibile stabilire se la limitata cardiotossicità sia una caratteristica del TDM-1 o sia dovuta al fatto che la maggior parte della popolazione valutata era già stata sottoposta al trattamento con trastuzumab e quindi selezionata. Questo aspetto potrà essere chiarito dai risultati dello studio MARIANNE che confronta in 1092 pazienti con malattia avanzata una prima linea di chemioterapia con trastuzumab e taxani o TDM-1 e pertuzumab o TDM-1 e placebo. Nella pratica clinica, tutte le pazienti devono essere sottoposte a valutazione ecocardiografica basale e possono iniziare il trattamento in presenza di valori di LVEF ≥ 50%. Inoltre è richiesto un monitoraggio ecocardiografico ogni 3 mesi durante tutto il periodo della terapia. Il trattamento con TDM-1 deve essere sospeso definitivamente se la LVEF risulta <40% e non migliora al controllo a 3 settimane, se la LVEF è compresa tra 40 e 45% con contestuale riduzione > 10 punti rispetto al basale e non migliora al controllo a 3 settimane e se compare uno scompenso cardiaco congestizio sintomatico; la sospensione può essere temporanea se LVEF è compresa tra 40 e 45% con contestuale riduzione di > 10 punti rispetto al basale e mi-


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gliora al controllo a 3 settimane; non è necessaria la sospensione per valori di LVEF > 45% o per valori compresi tra il 40 e 45% con riduzione < 10 punti rispetto al basale. Come per il pertuzumab, anche per il TDM-1 non si conoscono i dati della cardiotossicità nelle pazienti escluse dagli studi per le seguenti comorbidità: LVEF < 50% al basale, anamnesi positiva per insufficienza cardiaca congestizia, grave aritmia cardiaca in trattamento, storia di infarto del miocardio o angina instabile nei 6 mesi precedenti la randomizzazione18,21. • Bibliografia 1. Autier P, Boniol M, La Vecchia C, et al. Disparities in breast cancer mortality trends between 30 European countries: retrospective trend analysis of WHO mortality database. BMJ 2010; 341: c3620. 2. Senkus E, Kyriakides S, Cardoso F, et al. Primary Breast Cancer: ESMO Clinical Practice Guidelines for diagnosis, treatment and follow up. Ann Oncol 2013; 24 (Suppl 6): vi7-vi23. 3. Cardoso F, Harbeck N, Fallowfoed L, et al. Locally recurrent or metastatic breast cancer: ESMO Clinical Practice Guidelines for diagnosis, treatment and follow up. Ann Oncol 2012; 23 (Suppl 7): vi11-vi19. 4. Yardley DA. Combining mTOR inhibitors with chemotherapy and other targeted therapies in advanced breast cancer: rationale, clinical experience, and future directions. Breast Cancer 2013; 7: 7-22. 5. Efeyan A, Sabatini DM. mTOR and cancer: many loops in one pathway. Curr Opin Cell Biol 2010; 22: 169-76. 6. Baselga J, Campone M, Piccart M, et al. Everolimus in postmenopausal hormone-receptor-positive advanced breast cancer. N Engl J Med 2012; 366: 520-9. 7. Pritchard KI, Burris HA, Ito Y, et al. Safety and efficacy of everolimus with exemestane vs. exemestane alone in elderly patients with HER2-negative, hormone receptor positive breast cancer in BOLERO-2. Clinical Breast Cancer 2013; 13: 421-32. 8. Sawyer DB, Zuppinger C, Miller TA, Eppenberger HM, Suter TM. Modulation of anthracycline-induced myofibrillar disarray in rat ventricular myocytes by neuregulin-1 beta and anti-erbB2: potential mechanism for trastuzumab associated cardiotoxicity. Circulation 2002; 105: 1551-4. 9. Slamon DJ, Clark GM, Wong SG, Levin WJ, Ullrich A, McGuire WL. Human breast cancer: correlation of relapse and survival with amplification of the HER-2/neu oncogene. Science 1987; 235, 177-82.

10. Wonga H, Leunga R, Kwongb A, et al. Integrating molecular mechanisms and clinical evidence in the management of trastuzumab resistant or refractory HER-2+ metastatic breast cancer. Oncologist 2011; 16: 1535-46. 11. Franklin MC, Carey KD, Vajdos FF, et al. Insights into ErbB signaling from the structure of the ErbB2-pertuzumab complex. Cancer Cell 2004; 5: 317-28. 12. Scheuer W, Friess T, Burtscher H, et al. Strongly enhanced antitumor activity of trastuzumab and pertuzumab combination treatment on HER2-positive human xenograft tumor models. Cancer Res 2009; 69: 9330-6. 13. Gianni L, Pienkowski T, Im YH, et al. Efficacy and safety of neoadjuvant pertuzumab and trastuzumab in women with locally advanced, inflammatory, or early HER2-positive breast cancer (NeoSphere): a randomised multicentre, open-label, phase 2 trial. Lancet Oncol 2012; 13: 25-32. 14. Baselga J, Cortes J, Kim SB, et al. Pertuzumab plus trastuzumab plus docetaxel for metastatic breast cancer. N Engl J Med 2012; 366: 109-19. 15. Swain MS, Kim S-B, Cortés J, et al. Pertuzumab, trastuzumab, and docetaxel for HER2-positive metastatic breast cancer (CLEOPATRA study): overall survival results from a randomized, double-blind, placebo-controlled, phase 3 study. Lancet Oncol 2013; 14: 461-71. 16. Miles D, Baselga J, Amadori D, et al. Treatment of older patients with HER2-positive metastatic breast cancer with pertuzumab, trastuzumab, and docetaxel: subgroup analyses from a randomized, double-blind, placebo-controlled phase III trial (CLEOPATRA). Breast Cancer Res Treat 2013; 142: 89-99. 17. Lewis Phillips GD, Li G, Dugger DL, et al. Targeting HER2positive breast cancer with trastuzumab-DM1, an antibody cytotoxic drug conjugate. Cancer Res 2008; 68: 9280-90. 18. Verma S, Miles D, Gianni L, et al. Trastuzumab emtansine for HER2-positive advanced breast cancer. N Engl J Med 2012; 367: 1783-91. 19. Diéras V, et al. Proc SABCS 2012; Abstract P5-18-06. 20. Thon JN, Devine MT, Jurak Begonja A, et al. High-content livecell imaging assay used to establish mechanism of trastuzumab emtansine (T-DM1)-mediated inhibition of platelet production. Blood 2012; 120: 1975-84. 21. Peddi PF, Hurvitz SA. Trastuzumab emtansine: the first targeted chemotherapy for treatment of breast cancer. Future Oncol 2013; 9: 1-10.

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Il punto su...

Il breakthrough cancer pain: valutazione e trattamento

Guglielmo Fumi Struttura Complessa di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

Riassunto Tra i sintomi che più frequentemente affliggono il malato oncologico, il dolore rappresenta sicuramente il più importante per prevalenza ed effetti invalidanti. Il breakthrough pain (BTP, nel paziente oncologico spesso indicato anche come breakthrough cancer pain o BTcP) si configura come una sorta di “dolore nel dolore” proponendosi con caratteristiche (intensità, tempi di insorgenza, durata) che si discostano dal cosiddetto dolore di fondo, e pertanto richiede un inquadramento ed un trattamento a parte, dedicato, rappresentando una ulteriore sfida per l’oncologo ed il terapista del dolore. Numerosi composti si sono resi disponibili negli ultimi anni per questa indicazione, ma un corretto utilizzo di questi farmaci “di nicchia” necessita di conoscenze non sempre diffuse nel mondo oncologico. Parole chiave. Dolore episodico intenso, fentanyl transmucosale, oppioidi, morfina a pronto rilascio.

Summary

Assessment and treatment of breakthrough cancer pain Therefore BTcP needs a specific diagnosis and treatment, that represents an important challenge for oncologists and pain therapists. In recent years several drugs have been achieved for the treatment of BTcP, but it is important to improve the oncologist knowledge about the diagnosis and the correct use of the drugs. Key words. Breakthrough cancer pain, transmucosal fentanyl, rapid onset opioids, immediate-release morphine sulfate.

Definizione Nonostante non vi sia pieno accordo circa la definizione e le diverse tipologie e sottogruppi, il breakthrough pain (BTcP) viene definito come una “esacerbazione dolorosa transitoria, di intensità severa o intollerabile, che dura da secondi a poche ore, che interviene su un dolore di base sufficientemente controllato da terapia con oppioidi” (…something breaks through beyond...)1. In una accezione più ampia può definirsi come ogni temporanea esacerbazione dolorosa che compare in una situazione di dolore persistente altrimenti stabile2. 20

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Gli elementi di consenso racchiusi in una recente revisione sull’argomento3 individuano: • il termine da utilizzare: “breakthrough pain”. • Le diverse possibili eziologie: – causato direttamente dal cancro – causato indirettamente dal cancro (es. legate ai trattamenti chirurgici, chemio-radioterapici) – non sicuramente correlabile alla malattia neoplastica (malattie intercorrenti, eziologia imprecisata, ecc.). • I meccanismi fisiopatologici dello stimolo doloroso (somatico, viscerale, neuropatico, misto). • Le possibili tipologie e sottotipi: – dolore incidente, scatenato da atti volontari (es. dolore ai tentativi di alimentazione in caso di mucosite severa; dolore ai movimenti legato a presenza di metastasi ossee) o involontari, prevedibili o meno (es. distensione di visceri, eventi ischemici, colpi di tosse, spasmi vescicali o tenesmo rettale) – dolore spontaneo o idiopatico (da alcuni ritenuto l’unico “vero” BTcP) scollegato da stimoli individuabili e perciò non preventivabili – dolore da “fine dose”, legato al risolversi dell’effetto dell’analgesico utilizzato; andrebbe considerato a parte in quanto indicazione a rivedere la terapia analgesica di fondo (terapia around the clock - atc). Dalla stessa revisione emergono punti di persistente disaccordo, riguardo ad esempio la necessità di una terapia di fondo con oppiacei (normalmente almeno 60 mg morfina o equivalenti/die) come prerequisito, e/o di un dolore di fondo sostanzialmente controllato. Il BTcP si caratterizza per l’intensità elevata (dolore severo o intollerabile, Verbal Numeric Rate - VNR: 7-10), la rapidità nell’insorgenza e nel raggiungimento dell’acme (in media 5’, con range da 10’’a 180’), la durata limitata (1530’, range da 1’’ a 24h), la comparsa sporadica (0-5 episodi nelle 24h)4. Dimensioni del problema I pazienti oncologici che sperimentano dolore significativo (VNR: 4-10) sono un numero cospicuo (60-90%), ed il sintomo può essere presente in ogni stadio di malattia e per lunghi periodi. Il dolore severo (VNR: 7-10) si è dimostrato interferire con le comuni attività del paziente (appetito, sonno, relazioni, senso di benessere) e sulla qualità di vita propria e dei familiari5,6. Il BTcP è un sintomo comune, interessando tra il 65 e l’85% della popolazione oncologica che lamenta dolore.


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Sembra che i pazienti con BTcP, comparati a quelli senza BTcP, abbiano un dolore di fondo più severo e meno responsivo agli oppioidi, un maggior deficit funzionale e stress psicologico, oltre a comportare un più alto impatto economico7,8. Formulazioni di oppiacei disponibili e terapia del BTcP Le caratteristiche del BTcP ricordate sopra rendono intuibile come sia richiesto un intervento farmacologico a rapida comparsa d’effetto, in grado di raggiungere in breve tempo elevati livelli ematici, ed infine a rapido wash out, in modo da avere farmaco disponibile in tempi e quantità strettamente necessari per “coprire” l’accesso doloroso ed ovviare a possibili fenomeni di accumulo. Tra le formulazioni di oppioidi disponibili, i “long acting opioids (morfina solfato e ossicodone a rilascio prolungato, idromorfone, metadone, fentanyl e buprenorfina TTS) presentano una latenza di 1-3 ore nella comparsa dell’analgesia ed una durata d’azione di 12 ore o più; gli “short acting opioids (morfina soluzione, ossicodone, buprenorfina, tramadolo, codeina) presentano una latenza di 30-40’ nella comparsa dell’analgesia ed una durata d’azione di circa 4 ore o più. Da alcuni anni si sono resi disponibili i cosiddetti “ROO”, rapid onset opioids (nella pratica si tratta di varie formulazioni di fentanyl a rapido assorbimento), che vantano una comparsa d’azione inferiore ai 15’ ed una durata inferiore alle 2 ore, caratteristiche che in varia misura corrispondono a quelle considerate ideali per il trattamento del BTcP. Nel 1999 veniva pubblicato uno studio randomizzato in doppio cieco su 133 pazienti, che confrontava fentanyl citrato transmucosale orale (OFTC) con morfina ev nel trattamento del dolore postoperatorio, dimostrandosi una paragonabile rapidità di comparsa dell’effetto analgesico (circa 5’) e simile durata (morfina ev 2-10 mg vs OFTC 200-800 mcg)9. OFTC (sistemi da 200, 400, 600, 800, 1200 e 1600 mcg) è concepito per la somministrazione oromucosale e come tale va messo in bocca, appoggiato contro la guancia, e poi mosso all’interno della bocca servendosi dell’apposito applicatore, per massimizzare l’esposizione mucosale al prodotto. L’unità va consumata nell’arco di circa 15 minuti, rimuovendola all’ottenimento del beneficio o alla comparsa di effetti indesiderati. Successivamente due studi in doppio cieco controllati, in pazienti con BTcP, hanno dimostrato la superiorità di fentanyl pastiglie orodispersibili (formulazioni da 100, 200, 400, 600 e 800 mcg) rispetto al placebo10,11. Le pastiglie vanno collocate in bocca (di norma contro la guancia; non devono essere succhiate, masticate o ingerite), e trattenute per un periodo sufficiente per consentirne lo scioglimento, che generalmente avviene in 14-25 minuti. Eventuali residui possono essere deglutiti. Ancora, venivano introdotte in commercio due formulazioni di fentanyl come spray nasale (formulazioni da 50, 100 e 200 mcg ad erogazione) e spray nasale con pectina (formulazioni da 100 e 400 mcg ad erogazione). In uno studio 114 pazienti tolleranti agli oppioidi (terapia di fondo pari a 60 mg o più di morfina o equivalente) con BTcP sono stati trattati con fentanyl spray nasale vs placebo, con intensità del do-

lore significativamente ridotta con il farmaco attivo12. In uno studio multicentrico randomizzato, in aperto, cross-over, il fentanyl spray nasale è stato confrontato con il fentanyl OFTC in 139 pazienti con BTcP; il tempo mediano per ottenere una riduzione significativa del dolore è stato di 11’ con lo spray nasale e 16’ con OFTC13. Essendo lo studio mal pianificato per rispondere al quesito se vi siano differenze di efficacia fra le varie formulazioni di fentanyl per il BTcP tali risultati non possono considerarsi conclusivi. Uno studio in doppio cieco, randomizzato, multicentrico, ha confrontato fentanyl/pectina spray nasale (FPNS) con morfina ad immediato rilascio (IRMS) in 110 pazienti con BTcP tolleranti agli oppioidi. Il FPNS ha mostrato significativa superiorità nella Pain Intensity Difference (PID) a 15 minuti dall’assunzione (end point primario) e nella rapidità di insorgenza del pain relief, con buona tollerabilità14. Prima dell’utilizzo gli spray necessitano di una manovra di “attivazione”, di non sempre immediata comprensione; la somministrazione deve avvenire con paziente in posizione eretta. Veniva poi approvata una quarta formulazione di fentanyl transmucosale sotto forma di compresse a rapida disgregazione sublinguale (100, 200, 300, 400, 600 e 800 mcg); in uno studio multicentrico randomizzato di fase 3, su 131 pazienti oncologici con BTcP, il fentanyl sublinguale ha comportato un miglioramento significativo rispetto al placebo della PID a 10, 30 e 60 minuti dalla somministrazione15,16. Un altro studio multicentrico, in aperto, non randomizzato, ha testato efficacia e tollerabilità a lungo termine del fentanyl sublinguale; 139 pazienti, trattati per una mediana di 149 giorni, mantenevano indici di soddisfazione positivi a 6 e 12 mesi, valutati mediante BPI (brief pain inventory), PGEM (patients’ global evaluation of medication) e DAPOS (depression, anxiety and positive outlook scale)17. Negli USA sono inoltre disponibili due ulteriori formulazioni, come spray sublinguale e film orosolubile, sulla base di studi di confronto con placebo18,19. Una recente revisione sistematica della letteratura ha valutato sei studi randomizzati circa l’utilizzo di fentanyl spray nasale, OFTC, pastiglie orosolubili, e morfina a immediato rilascio nel BTcP. Pur nei limiti dello strumento statistico utilizzato (mixed treatment comparison o network meta-analysis), i ROO risultano i farmaci a potenziale migliore efficacia20. Effetti indesiderati e modalità d’uso Le diverse formulazioni di fentanyl transmucosale sono normalmente ben tollerate, presentandosi gli effetti indesiderati tipici degli oppioidi (sonnolenza, nausea, vomito, stipsi, vertigini, ecc.); effetti collaterali seri, incluso casi di morte sono stati segnalati per utilizzo in pazienti non tolleranti agli oppioidi, o a seguito di dosaggi impropri, legati ad errata supposizione di bioequivalenza fra le varie formulazioni, con il risultato di overdose fatali. Questi farmaci non dovrebbero essere utilizzati in soggetti che non siano già in trattamento stabile con oppioidi (tolleranti), come riportato peraltro in tutte le schede tecniche. La somministrazione concomitante con un inibitore del CYP3A4 (es claritromicina, ketoconazolo) può aumentare le concentrazioni plasmatiche di fentanyl e CASCO — Primavera 2014

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conseguentemente la tossicità; per contro, gli induttori del CYP3A4 (es. carbamazepina, fenitoina) possono ridurne le concentrazioni plasmatiche e l’efficacia analgesica. I pazienti andrebbero istruiti a non usare contemporaneamente differenti formulazioni di ROO, ed il numero di dosaggi di fentanyl disponibili al paziente in ogni momento dovrebbe essere ridotto al minimo, onde evitare confusione e potenziale sovradosaggio. Normalmente è consigliato l’utilizzo di ROO per non più di quattro episodi di BTcP nelle 24 ore; una necessità superiore dovrebbe far riconsiderare la diagnosi stessa di BTcP e la strategia terapeutica nel suo complesso (revisione della terapia atc, considerazione di terapie adiuvanti, farmacologiche e non). Quale scegliere? Tutti gli agenti ROO disponibili si sono mostrati efficaci nel BTcP. La scelta della singola formulazione dovrà basarsi sulla esperienza del medico, considerando i vantaggi/svantaggi dei differenti modi di somministrazione, la presunzione di compliance, le preferenze espresse dal paziente. Nelle varie formulazioni i costi sono uguali per i diversi dosaggi, e per lo più confrontabili (cpr sublinguali: 8,50 euro per 1 cpr; OFTC e pastiglie buccali: 9,68 euro a pastiglia; Spray nasale +/– pectina: 9,68 euro ad erogazione). Una valutazione di accettabilità delle diverse vie di somministrazione di analgesici in caso di BTcP condotta nel 2004 riporta le preferenze rispetto alla formulazione orale (88%), nasale (68%), sublinguale (75%) e buccale (63%)21-24. Alcuni vantaggi comuni alle diverse formulazioni sono: by pass del metabolismo di primo passaggio epatico; rapida com-

parsa d’azione; utilizzo in pazienti impossibilitati ad assumere per via orale; altre caratteristiche sono riassunte in tabella I. Le linee guida delle varie società scientifiche (European Society of Medical Oncology, European Association of Palliative Care, Associazione Italiana di Oncologia Medica) indicano i ROO come farmaci di scelta per la gestione del BTcP e suggeriscono di effettuare in ogni caso la opportuna titolazione (iniziando sempre dal dosaggio più basso) per individuare la corretta dose. Diversa è la posizione del NICE (National Institute for Health and Care Excellence, UK), che ritiene che i dati disponibili siano ricavati da studi di qualità non elevata e con basso numero di pazienti, lamentando l’assenza di valutazioni costo-beneficio e di analisi puntuali degli effetti indesiderati e della qualità di vita; in conclusione il beneficio prodotto dai ROO non viene ritenuto di sufficiente rilevanza clinica da giustificarne un utilizzo in prima battuta nel BTcP (anche per i costi elevati) e raccomanda ancora la morfina ad immediato rilascio come prima scelta, nonostante i più lunghi tempi di insorgenza dell’effetto25. Va segnalata la comparsa in letteratura di segnalazioni circa la possibilità di “saltare” la titolazione, utilizzando dosi di fentanyl proporzionali al dosaggio di oppiacei della terapia di fondo (rescue dose intorno al 15% della dose totale delle 24h), calcolate sulla scorta dei dati di biodisponibilità delle varie formulazioni26. In realtà la maggioranza degli studi non sembra mostrare una relazione convincente fra la dose efficace di oppioidi transmucosali e la dose di oppioidi atc, per cui tale pratica andrebbe utilizzata con estrema cautela e solo da soggetti con notevole esperienza.

Tabella I. Alcune caratteristiche delle varie formulazioni di ROO.

Agente

Biodisponibilità

T Max

Vantaggi

Svantaggi

OFTC

50%

20-40’

Vantaggi comuni + possibile interrompere l’assunzione in caso di effetti indesiderati

• Difficoltà in caso di mucositi o xerostomia • Assorbimento variabile • Non immediata comprensione d’uso • Confondibile dai bambini con un lecca-lecca (lollipop) • Tempo di dissoluzione lungo • Potenziale cariogeno

Pastiglie buccali

65%

35-45’

Vantaggi comuni

• Difficoltà in caso di mucositi o xerostomia • Incompleta dissoluzione delle pastiglie • Perdita d’efficacia per ingestione delle compresse

Compresse sublinguali

54%

30-60’

Vantaggi comuni + migliore assorbimento rispetto ai prodotti transmucosali

• Difficoltà nell’estrarre le compresse dal blister • Difficoltà in caso di mucositi o xerostomia

Spray nasale

89%

12-15’ Vantaggi comuni + può essere somministrato da un caregiver

• Non immediata comprensione d’uso • Possibili irritazioni locali • Potenzialmente inutilizzabile in caso di riniti • I vasocostrittori nasali possono ridurre l’assorbimento • Dose assorbita variabile • Quantità limitata (0,2ml)

Spray nasale con pectina

ca 70%

19-21’

T Max: tempo per raggiungere il picco di concentrazione ematica.

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Va infine ancora sottolineata la necessità di una corretta diagnosi differenziale fra l’esacerbazione di un dolore di fondo non ben controllato, che necessita di assunzione di short acting opioids (SAO) e retitolazione della terapia atc, e gli episodi di BTcP, da gestire al bisogno con i ROO. Viene accettata la possibilità di utilizzo di SAO in caso di BTcP scatenato da manovre “prevedibili” quali ad esempio la toletta mattutina del paziente, assumendo il farmaco circa 30 minuti prima. Ancora, per i pazienti in trattamento con infusione endovenosa continua di morfina secondo i criteri della PCA (Patient Controlled Analgesia), la somministrazione della rescue dose programmata di morfina rappresenta di norma la terapia di scelta Conclusioni Il BTcP costituisce un problema importante per entità e frequenza nei pazienti oncologici, risultando una fonte di ulteriore sofferenza. Gli elementi chiave per una adeguata gestione comprendono anzitutto lo sforzo diagnostico, che comporta la ricerca di un corretto inquadramento della sintomatologia dolorosa del paziente, una corretta gestione della terapia analgesica around the clock, e quindi l’indagine per la presenza di BTcP. Una valutazione approssimativa seguita da prescrizioni frettolose non farà altro che confondere le idee al paziente e sottoporlo a terapie improprie e potenzialmente pericolose. • Bibliografia 1. SvendsenKB, Andersen S, Arnason S, et al. Breakthrough pain in malignant and non-malignant diseases: a review of prevalence, characteristics and mechanisms. Eur J Pain 2005; 9: 195-206. 2. Mercadante S, Radbruch L, Caraceni A, et al.; Steering Committee of the European Association for Palliative Care (EAPC) Research Network. Episodic (breakthrough) pain: consensus conference of an expert working group of the European Association for Palliative Care. Cancer 2002; 94: 832-9. 3. Haugen DF, Hjermstada MJ, Hagen N, Caraceni A, Kaasaa S, on behalf of the European Palliative Care Research Collaborative (EPCRC). Assessment and classification of cancer breakthrough pain: a systematic literature review. Pain 2010; 149: 476-82. 4. Bennett D, Burton AW, Fishman S, et al. Consensus panel recommendations for the assessment and management of breakthrough pain. Part I. Assessment Pharmacol Ther 2005; 30: 296-301. 5. Van den Beuken, Van Everdingen MH, de Rijke JM, et al. High prevalence of pain in patients with cancer in a large populationbased study in The Netherlands. Pain 2007; 132: 312-20. 6. European Pain in Cancer Survey, European Association of Palliative Care: Half of European cancer patients have moderate to severe pain: one in five patients does not receive treatment. J Pain Palliat Care Pharmacother 2007; 21: 51-3. 7. Caraceni A, Martini C, Zecca E, et al. Breakthrough pain characteristics and syndromes in patients with cancer pain. An international survey. Palliat Med 2004; 18: 177-83. 8. Apolone G, Bertetto O, Caraceni A, et al. Pain in cancer. An outcome research project to evaluate the epidemiology, the quality and the effects of pain treatment in cancer patients. Health Qual Life Outcomes 2006; 4: 7.

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Casi clinici

Agopuntura e fatigue

Enzo Ballatori Statistico medico, Spinetoli

Fausto Roila SC di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

Riassunto L’articolo Molassiotis A, Bardy J, Finnegan-John J, et al. Acupuncture for cancer-related fatigue in patients with breast cancer: a pragmatic randomized controlled trial. J Clin Oncol, 2012; 30: 4470-6 è stato sintetizzato nella scheda e discusso in questa rubrica, focalizzando i difetti in esso contenuti, in particolare, la randomizzazione 3:1 e la possibile presenza di bias da selezione, la mancata adozione di tecniche di cecità, l’insufficienza del periodo di osservazione, la rilevanza clinica dei risultati ottenuti, l’analisi statistica condotta. Parole chiave. Agopuntura, fatigue, randomizzazione, distorsione da selezione, distorsione da informazione, analisi della covarianza.

Summary

Per valutare la fatigue esistono numerosi strumenti, validati in molti paesi, e proposti in forma di questionari autosomministrati, come il Multidimensional Fatigue Inventory (MFI), il Brief Fatigue Inventory (BFI), il Fatigue Severity Scale (FSS), il modulo per la valutazione della Fatigue del Functional Assessment of Cancer Therapy (FACT-F), che può essere usato indipendentemente dal questionario generale (FACT-G), il Fatigue Symptom Inventory (FSI), che valuta anche la durata del sintomo, e così via. Vi è ampio accordo sul fatto che quando si valutano comparativamente due terapie tese a controllare un sintomo la cui intensità è valutabile solo soggettivamente, occorre ricorrere a tecniche di cecità perché la conoscenza del trattamento somministrato potrebbe alterare, anche di molto, la risposta fornita dal paziente. Il lavoro sintetizzato nella scheda è complessivamente ben confezionato, ma presenta alcuni problemi rilevanti ed altri minori che impediscono di accettare senza riserve le conclusioni.

Acupuncture and fatigue The paper Molassiotis A, Bardy J, Finnegan-John J, et al. Acupuncture for cancer-related fatigue in patients with breast cancer: a pragmatic randomized controlled trial. J Clin Oncol, 2012; 30: 4470-76 was first summarized (see “Scheda”), and subsequently discussed focusing on its shortcomings, like randomization 3:1 and possible selection bias, the lack of blindness, the insufficient period of observation, the clinical relevance of the obtained results, and the performed statistical analysis. Key words. Acupuncture, fatigue, randomization, selection bias, information bias, covariance analysis.

Molta ricerca clinica è stata condotta sulla fatigue: si calcola che in oltre 170 studi, incentrati su interventi terapeutici, la fatigue sia stato l’endpoint principale o uno degli endpoint secondari (Bower JE. Treating cancer-related fatigue: the search for intervention that target those most in need. J Clin Oncol 2012; 30: 4449-50, editoriale). Si tratta, però, di una ricerca clinica sparsa, cioè vertente su innumerevoli possibili rimedi, che vanno dal cortisone1, al ginseng2, all’agopuntura (v. scheda), generalmente testati contro placebo. Malgrado nei lavori pubblicati questi trattamenti siano risultati quasi sempre efficaci, ancora non esiste una terapia standard contro la fatigue, probabilmente sia perché è modesto il loro effetto, sia perché mancano studi comparativi e di combinazione. 24

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a. Mancata adozione di tecniche di cecità Come attuare la cecità quando il trattamento è l’agopuntura? La risposta viene da lontano, da uno dei primi trial volti a provare l’esistenza dell’effetto placebo (anni ’60, ci scusiamo con il lettore per l’imprecisione del ricordo). Alcune decine di pazienti tutti sofferenti di mal di schiena furono randomizzati a ricevere l’agopuntura, una pressione dell’ago (ma senza infiggerlo), nulla. I risultati furono che i primi due trattamenti ottennero una riduzione del dolore superiore a quella riscontrata nel gruppo di controllo, ma paragonabile tra loro. Si potrà obiettare sulla scarsa potenza dello studio, ma certo l’effetto dell’agopuntura, in quel contesto, non fu comunque esaltante. Non è chiaro il motivo per cui, nello studio considerato, ai pazienti del gruppo di controllo non venne praticata una finta agopuntura; certo, non per ragioni etiche, in quanto, nel consenso informato, si sarebbe potuto scrivere che i ¾ dei pazienti sarebbero stati sottoposti ad agopuntura, mentre ad ¼ di loro sarebbe stato infisso l’ago ad una profondità non utile per risultare efficace. Infatti, non solo sapere di ricevere un trattamento potenzialmente attivo potrebbe indurre di per sé una risposta positiva, ma lo stesso contatto con l’operatore avrebbe potuto migliorare la fatigue del paziente. b. Randomizzazione 3:1 e distorsione da selezione Non abbiamo mai visto una randomizzazione 3:1 al di


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SCHEDA

Molassiotis A, Bardy J, FinneganJohn J, et al. Acupuncture for cancer-related fatigue in patients with breast cancer: a pragmatic randomized controlled trial. J Clin Oncol 2012; 30: 4470-6. Si tratta di una sperimentazione clinica controllata condotta su donne affette da carcinoma mammario, con fatigue persistente e almeno moderata, in cui le partecipanti furono randomizzate nel rapporto 3:1 a ricevere, rispettivamente, 6 sedute settimanalmente di agopuntura o un libretto illustrativo sul management della fatigue. Per selezionare le pazienti con i suddetti livelli di fatigue fu considerato un valore non inferiore a 5 di un analogo visivo a 10 punti, messo a punto dallo stesso gruppo di studio, che si correla con una scala psicometrica di misura della fatigue (r = 0,75). Furono considerate eleggibili anche le pazienti con recidiva locale, ma vennero escluse quelle con metastasi a distanza. Intervento. Tutte le pazienti ricevettero le cure usuali per la fatigue. Mancando uno standard, queste vennero decise dai medici che le seguivano. La pazienti del gruppo sperimentale furono sottoposte a 6 sedute settimanali di agopuntura della durata di 20’ ciascuna raccomandando agli agopunturisti di agire su 3 punti precisati, ma non vincolandoli ad essi. Gli aghi furono infissi ad una profondità variabile da 1 a 2,5 cm, ed ogni conversazione tra paziente ed agopunturista fu tenuta al minimo. Furono coinvolti 12 agopunturisti con almeno 2 anni di esperienza clinica. Il rapporto di randomizzazione 3:1 fu scelto per consentire altri studi sull’utilità di una successiva agopuntura o di una ago-pressione

autosomministrata dalla paziente. Le valutazioni furono eseguite dopo 6, 10 e 18 settimane, ma quelle relative a 10 e 18 settimane sono riportate in un altro lavoro. Outcome. La differenza del punteggio complessivo del Multidimensional Fatigue Inventory (MFI) dopo 6 settimane, rispetto al basale, fu considerata come endpoint primario. L’MFI è un questionario psicometrico autosomministrato, composto da 20 item, in grado di valutare la fatigue in generale (punteggio complessivo), ma anche le singole dimensioni della fatigue fisica, mentale, l’attività e la motivazione. Come endpoint secondari furono valutate, oltre le sottoscale dell’MFI, anche l’ansia e la depressione, usando il questionario Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS, con 14 item), nonché la qualità di vita misurata con il Functional Assessment of Cancer TherapyGeneral (FACT-G) ed il modulo per il carcinoma mammario (FACT-B). Analisi statistica. L’endpoint primario fu analizzato con modelli di analisi di covarianza, assumendo il punteggio dell’MFI alla sesta settimana come variabile dipendente, il punteggio basale come covariata e il trattamento come fattore. Anche per gli endpoint secondari fu usata un’analisi similare con strategie di Last Observation Carried Forward (LOCF) per dare una valutazione ai missing values così da assoggettare i risultati ad un’analisi di sensibilità. Furono anche usati t-test per confronti tra medie di entrambi i gruppi. Il costante ricorso a procedure parametriche fu giustificato con il teorema centrale del limite, per cui, indipendentemente dalla distribuzione di partenza, nel caso di grandi campioni, le distribuzioni

campionarie degli stimatori tendono alla normale. La dimensione del campione, descritta in un precedente lavoro, fu fissata in 320 pazienti, 240 nel gruppo di trattamento ed 80 in quello di controllo. Risultati. Furono randomizzati 302 pazienti, 227 al trattamento sperimentale e 75 alle usuali cure potenziate dalla distribuzione di un libretto sulla fatigue. La valutazione finale dell’endpoint primario non fu rinviata al centro sperimentatore da 10 pazienti del gruppo di controllo (13,3%) e da 46 pazienti del gruppo di trattamento (20,3%). In quest’ultimo, 9 pazienti non furono trattati e 53 ebbero un numero di sedute inferiore a 6. Questi ultimi furono comunque valutati con il criterio LOCF in base al principio di intenzione a trattare. In conclusione l’analisi fu eseguita su 181 pazienti nel gruppo sperimentale e 65 in quello di controllo. Per l’endpoint primario, la differenza tra l’effetto (punteggio complessivo della fatigue alla sesta settimana meno lo stesso punteggio al basale) nel gruppo di agopuntura vs quello di controllo fu –3,11 (dati non aggiustati per il basale: –3,72 nel gruppo di agopuntura e –0,62 in quello di controllo), con un intervallo di confidenza al 95% che va da –3,97 a –2,25 (P<0.001). I risultati furono accompagnati da una conservativa analisi di sensibilità condotta ipotizzando, per i pazienti che non completarono le 6 settimane previste di agopuntura, che nessun miglioramento dell’MFI si sarebbe registrato dall’ultima osservazione eseguita alla sesta settimana. I risultati, sebbene alquanto attenuati, restarono significativi. Analogamente, risultati significativi a favore dell’agopuntura si ottennero anche per gli endpoint secondari. •

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| Casi clinici | Agopuntura e fatigue

fuori di un contesto in cui il trattamento attivo era noto avere una straordinaria efficacia in confronto a quello standard, ma non sembra questo il caso, e comunque mai quando la risposta è di tipo soft (non la sopravvivenza, per intenderci). Il risultato è che il gruppo di controllo consta di soli 65 pazienti: è vero che c’è una randomizzazione, è vero che si sta valutando la differenza con il basale, ma quando si tratta con piccoli numeri tutto può accadere, anche per solo effetto del caso e, comunque, i risultati sono poi difficilmente generalizzabili. Gli autori giustificano la randomizzazione 3:1 con il fatto che i risultati presentati si riferiscono ad uno spezzone di una ricerca più articolata, per cui, complessivamente, questo era il rapporto di randomizzazione più indicato. Il quadro peggiora avendo constatato che circa il 13% dei pazienti del gruppo di controllo ed il 20% di quelli trattati non sono stati valutati. Nel lavoro non c’è alcuna spiegazione, né v’è traccia di un tentativo volto alla loro identificazione in relazione a determinate caratteristiche connesse alla fatigue (come, ad es., la durata pregressa del sintomo, l’età, lo stadio della malattia, le loro attività abituali prima di ammalarsi, il supporto familiare, e così via).

c. Che succede dopo? La fatigue è un sintomo di norma assai persistente, per cui valutare l’efficacia dell’agopuntura dopo sole 6 settimane di trattamento, senza curarsi di ciò che accade dopo, apre la porta a numerosi possibili scenari di cui non sappiamo nulla (come ad es., un peggioramento della fatigue per i soggetti che hanno ricevuto l’agopuntura, oppure un loro sostanziale miglioramento). Si noti che l’agopuntura è stata praticata una volta a settimana (20’ a seduta), per 6 settimane, senza un serio studio preliminare sull’ottimizzazione del timing e della durata del trattamento. In altre parole, non è noto se facendo più sedute settimanali migliora la risposta osservata o meno, né se praticando l’agopuntura per più di 6 settimane, il sintomo migliora ulteriormente, o no. d. Risultato significativo, ma clinicamente rilevante? Lo strumento utilizzato, l’MFI, consta di 20 item. La risposta al trattamento è valutata come differenza tra il punteggio complessivo dell’MFI dopo 6 settimane e il basale. La differenza media tra i due bracci è stata pari a 3,10 a favore dell’agopuntura, ma non è dato di sapere quale sia l’interpretazione clinica di tale decremento, cioè quanto sia stato rilevante per il paziente. e. Studio pragmatico Quando s’incontra l’aggettivo “pragmatico” associato ad uno studio clinico, si percepisce un pericolo dovuto al rumore introdotto in eccesso da qualche variabile che non si è voluto, o non si è riusciti, a controllare. La mente rimanda ai celebri studi pragmatici “GISSI” in cui decine di migliaia di pazienti furono arruolati non solo per percepire una piccola differenza di efficacia, ma anche per tener conto del rumore introdotto dalla pratica clinica lasciata volutamente libera (ad eccezione del trattamento in studio). Quindi, per fare in 26

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modo che il rumore non sovrasti il segnale, uno studio pragmatico in genere si basa su un ampio numero di pazienti arruolati, mentre, nel nostro caso, sono meno di 250. Ma cos’ha di pragmatico lo studio? Dov’è l’eccesso di rumore non controllato? Anzitutto il trattamento sperimentale, eseguito da 12 agopunturisti diversi, che non è stato standardizzato (e forse non poteva esserlo). Tre punti di infissione sono stati indicati, ma poi l’agopunturista è stato lasciato libero di operare come meglio credeva nell’interesse del paziente. Quindi, i pazienti del gruppo sperimentale hanno ricevuto trattamenti diversi, dando luogo ad una probabilmente debole riproducibilità (non necessariamente in negativo), nel caso lo studio fosse replicato con altri agopunturisti. In secondo luogo, le altre terapie contro la fatigue, consistenti sia in farmaci, sia in raccomandazioni in termini di mutamento di stili di vita, sono state lasciate libere, per cui una maggiore insistenza su di esse nei pazienti che settimanalmente erano sottoposti ad agopuntura potrebbe aver contribuito alla positività del risultato. Si badi bene, non è detto che una maggiore insistenza vi sia stata, ma che poteva esserci semplicemente perché nel braccio sperimentale il paziente è venuto più spesso a contatto con la struttura sanitaria. Vi sono anche obiezioni minori che possono essere sollevate allo studio in esame. Una di queste riguarda l’uso dell’analisi di covarianza che, com’è noto, poggia su due ipotesi, una delle quali è la normalità della distribuzione dell’errore. A prima vista, è abbastanza inverosimile che una valutazione condotta con scale di Likert a 10 punti possa essere ritenuta normale (il punteggio va da 1 a 10 ed è discreto, cioè non varia con continuità, mentre la curva normale è continua ed asintotica; in un questionario psicometrico, inoltre, la distanza tra 1 e 2, ad esempio, non è uguale a quella che c’è tra 3 e 4, o tra 9 e 10). Per giustificare l’ipotesi di normalità, gli autori fanno appello al teorema centrale del limite, per cui, semplificando, qualunque sia la distribuzione di partenza, al tendere di n (dimensione del campione) all’infinito, essa converge ad una normale. Purtroppo, però, si tratta solo di un teorema limite, che se assicura la convergenza alla normale quando n tende all’infinito, non garantisce la validità per campioni di qualche centinaio di unità. In negativo, se la pretesa degli autori di poter trattare come normali variabili che non lo sono mediante il ricorso al teorema centrale del limite (vecchio di quasi un secolo: Lindeberg, 1922) fosse stata considerata accettabile, non ci sarebbero state le successive innovazioni nella Statistica, come i test non parametrici per scale ordinali (l’MFI è una di queste), come il tentativo di normalizzare distribuzioni che non lo sono attraverso opportune trasformazioni matematiche dei dati (ad es., la trasformazione radice, o quella logaritmica), come l’introduzione di modelli lineari generalizzati per dati che, appunto, hanno una distribuzione differente da quella normale. Il ragionamento degli autori è comunque vecchio, in quanto, oggi, una tale assunzione andrebbe provata a posteriori mediante l’analisi dei residui, che, invece, non è stata condotta. Ci si chiede infine perché non sia stato usato uno stru-


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mento più semplice e a portata di mano (nel senso che qualunque software statistico è in grado di calcolarlo), come un test non parametrico (ad es., il test U di Mann-Whitney) per il confronto tra due mediane nel caso di dati ordinali. Il presupposto c’era: la randomizzazione, che assicura un buon bilanciamento dei dati ivi incluso il punteggio basale dell’MFI, rende inutile aggiustare per tale variabile. In conclusione, sarebbe stato sufficiente eseguire un test U sulla risposta alla sesta settimana per valutare l’efficacia differenziale dei due trattamenti. Certo, l’effetto sul lettore sarebbe stato forse meno impressivo. Conclusioni È difficile usare metodi scientifici per valutare l’efficacia delle medicine alternative che, a differenza della medicina occidentale, hanno un approccio olistico che coinvolge categorie trascendenti, facendo riferimento non solo all’atto materiale del trattamento, ma invocando anche proiezioni in un universo astrale, considerato un tutt’uno con il paziente. È difficile, ma occorre tentare per individuare possibili benefici in esse contenuti. Sotto questo profilo, il lavoro esaminato è lodevole, sebbene inficiato da diversi problemi che forse potevano essere evitati con una migliore pianificazione dello studio. Randomizzazione 3:1. La ricerca clinica è un’attività complessa. A nostro avviso, è sempre opportuno cercare di evitare di aggiungere ulteriore complessità raggruppando studi aventi diverse finalità in un’unica ricerca. In altre parole, è sempre auspicabile porsi una pluralità di domande, ma non necessariamente le risposte vanno ottenute con un solo studio. Distorsione da selezione. Nel braccio di controllo il 13% dei pazienti non ha restituito l’MFI compilato, nel braccio di trattamento il 20%. La differenza non è significativa, ma sarebbe stato opportuno approfondire le ragioni della mancata risposta. Se consideriamo che la dimensione del campione è già esigua (soprattutto nel braccio di controllo), che numerosi pazienti del gruppo sperimentale non hanno avuto il trat-

tamento (correttamente sono stati ugualmente valutati in accordo al principio di intenzione a trattare) o lo hanno avuto incompleto, e che il trattamento non è stato lo stesso per tutti i pazienti trattati, a nostro avviso l’approfondimento sulle cause dei drop out sarebbe stato più che opportuno. Oltre che alla sesta settimana, i pazienti sono stati valutati anche alla decima e alla diciottesima settimana: è veramente increscioso non avere informazioni su come siano andate successivamente le cose. La fatigue è un sintomo persistente, per cui sarebbe opportuno conoscere la sua dinamica anche oltre il periodo considerato (18 settimane, cioè quattro mesi e mezzo): speriamo di apprendere dai prossimi lavori che si sia proseguito nel monitoraggio dei pazienti anche una volta terminato lo studio. A nostro avviso, la mancata adozione di tecniche di cecità nella somministrazione del trattamento del gruppo sperimentale è un importante elemento che rende poco affidabili le conclusioni dello studio, anche perché va ad aggiungersi agli altri problemi sopra esaminati, in particolare a quelli che rendono “pragmatico” lo studio (diversi agopunturisti con una differente preparazione, mancata standardizzazione dell’agopuntura, mancato controllo delle altre terapie somministrate contro la fatigue). Auspichiamo che vengano condotti ulteriori studi sull’effetto dell’agopuntura come terapia per la fatigue, magari anche per altri tipi di neoplasie, possibilmente in confronto e/o in aggiunta ad altri trattamenti già trovati efficaci nell’attenuare questo sintomo così distruttivo. • Bibliografia 1. Yennurajalingam S, Frisbee-Hume S, Palmer JL, et al. Reduction of cancer-related fatigue with dexamethasone: a double-blind randomized, placebo-controlled trial in patients with advanced cancer. J Clin Onc 2013; 31: 3076-82. 2. Barton DL, Liu H, Dakhil SR, et al. Wisconsin ginseng (Panax quinquefolius) to improve cancer-related fatigue: a randomized, double blind trial, N07C2. J Natl Cancer Inst 2013; 105: 1230-7.

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Statistica per concetti

Test statistici ed intervalli di confidenza

Riassunto Dopo aver presentato i concetti alla base degli intervalli di confidenza, sono state sottolineate le differenze con i test statistici, mostrando che non solo sono strumenti concettualmente distinti, ma anche che non possono ritenersi, in generale, equivalenti. Parole chiave. Intervalli di confidenza, test statistici, inferenza sulla frequenza.

Summary

Confidence intervals and statistical test After showing the basic concepts of the confidence intervals, the differences between the confidence intervals and statistical tests were highlighted, also showing that their results are not ever equivalent. Key words. Confidence intervals, statistical test, inference on the proportions.

Durante le prove orali di un concorso per l’ammissione ad un dottorato di ricerca, un professore ordinario della mia materia chiese al candidato se conoscesse un metodo alternativo al test per il confronto tra due frequenze per provare l’ipotesi nulla di uguale efficacia dei trattamenti, nel caso di risposta binaria. Dopo una lunga esitazione del candidato, sentii fornire la risposta dallo stesso docente: costruire un intervallo di confidenza per la differenza tra due frequenze e vedere se comprende lo zero; in caso affermativo si accetta l’ipotesi nulla, in caso negativo la si respinge. Sobbalzai. Successivamente, purtroppo, ritrovai la stessa affermazione in una dispensa di Epidemiologia. Dato che negli ultimi 3 numeri di CASCO la rubrica è stata incentrata su vari aspetti dei test statistici, questo lontano ricordo mi ha indotto ad affrontare l’argomento della differenza tra test statistici ed intervalli di confidenza in questo numero della rubrica, nella convinzione – basata sull’esperienza – che non sempre i medici, nella loro preparazione nelle discipline a contorno della metodologia della ricerca clinica, sono seguiti da 28

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docenti del tutto affidabili. Come al solito, pur cercando di rendere la lettura di questa nota quanto più possibile indipendente da ogni specifica pre-conoscenza, per riuscire a restare negli spazi stabiliti ci sarà bisogno di fare riferimenti ai contenuti di “Statistica per concetti” esposti nei numeri 5 e 6 di CASCO. Gli intervalli di confidenza Esempio. In uno studio di fase 2, condotto su 100 pazienti, la percentuale di successi terapeutici ottenuta con il nuovo trattamento è del 60%. Questa è la migliore stima che si può fornire della percentuale di successi che potremmo osservare nella popolazione target (cioè la migliore stima del parametro il cui valore è sconosciuto). Essa prende il nome di “stima puntuale”.

La stima puntuale fornisce la massima informazione sul valore del parametro in quanto con il numero dedotto dalle osservazioni si stima un numero sconosciuto. Il suo problema, però, è che la probabilità che essa coincida con il parametro è, in generale1, pari a zero (v. CASCO 5: Stime e loro variabilità). 1. È sempre uguale a zero quando lo stimatore è rappresentato da una variabile casuale continua, può essere non nulla quando lo stimatore è una variabile casuale discreta.

Esempio (prosec.). La migliore stima della percentuale di successi nella popolazione target, P, cioè nella popolazione di tutti i pazienti presenti e futuri affetti da quella certa malattia, simili a quelli osservati (per criteri di eleggibilità ed esclusione) e che ricevano il nuovo trattamento è pari al 60% (massima informazione sul parametro). Però, la probabilità che la stima coincida con il parametro è pari a zero. Si può allora considerare un intervallo entro cui cada il valore di P, ad esempio, tra il 58% e il 62%. In tal caso la probabilità che P vi sia compreso è maggiore di zero, ma, così facendo, si è rinunciato a fornire il massimo dell’informazione. Naturalmente possiamo considerare un intervallo più ampio, diciamo tra il 55% e il 65%: l’informazione diminuisce (perché il parametro può assumere un qualunque valore di tale intervallo: rispetto al caso precedente, ne sappiamo di meno), ma la probabilità che P sia interno a tale intervallo è ben maggiore. Il caso estremo è rappresentato dall’intervallo compreso tra 0 e 100%: la probabilità che P vi sia compreso è uguale a 1 (cioè è certo che P vi cada), ma il contenuto di informazione è pari a zero (è stato inutile eseguire lo studio, in quanto tale informazione era nota anche prima di condurlo).

L’intervallo di confidenza è un compromesso tra le due situazioni estreme (massima informazione, ma probabilità nulla che sia vera; informazione nulla ma probabilità 1 che sia vera). Più precisamente, l’intervallo di confidenza ha il significato di intervallo, costruito intorno alla stima puntuale, in cui, con alta probabilità, cade il valore del parametro. Convenzionalmente, tale “alta probabilità” viene fissata al 95% ed è detta “coefficiente dell’intervallo”, sebbene non siano rarissimi i casi in cui si fissino altri valori, ad esempio 99% o 90%. L’intervallo di confidenza viene costruito a partire: a) dalla stima puntuale, b) dal corrispondente stimatore, c) dall’errore standard dello stimatore (v. CASCO 5). Esempio (prosec.). I dati sono: n = 100, f = 0,6. Sapendo che nel caso dei “grandi” campioni (come nel nostro caso)


| Statistica per concetti | Test statistici ed intervalli di confidenza

la frequenza relativa si distribuisce normalmente, stimandone l’errore standard, si può calcolare che, con il 95% di probabilità, la percentuale di successi nella popolazione target è compresa tra il 50,4% e il 69,6%. Se l’intervallo di confidenza fosse ritenuto poco informativo (perché troppo ampio), sarebbe necessario aumentare il numero dei pazienti osservati. Se ne avessimo arruolati 400, anziché 100 (sempre con f = 0,6), l’intervallo di confidenza al 95% sarebbe stato compreso tra il 57,6% e il 62,4%: ben più informativo del precedente!

Gli intervalli di confidenza, come l’errore standard e i test statistici, sono strumenti per valutare l’imprecisione della stima, ossia la sua variabilità dovuta unicamente al caso, cioè al campionamento. Tali strumenti, quindi, non possono valutare l’inaccuratezza della stima, ossia la variabilità indotta da distorsioni sistematiche. Ad esempio, se per motivi, noti o sconosciuti, uno studio clinico fosse basato su pazienti in mediamente migliori condizioni rispetto a quelli che si presentano all’osservazione nella pratica clinica, un intervallo di confidenza, così come un test statistico, non potrebbe comunque mai essere riferito alla totalità dei pazienti, ma solo ai pazienti in condizioni analoghe a quelle degli arruolati nello studio (questo è il principale problema delle stime ottenute con gli studi di fase II che possono dar luogo a risultati entusiasmanti, spesso, però, destinati ad essere vanificati nella successiva fase III). In sede di pianificazione di uno studio osservazionale o sperimentale (come, ad es., uno studio di fase II), la dimensione dello studio viene fissata o in relazione alla potenza del test statistico che sarà successivamente usato per il confronto con un dato esterno, o all’imprecisione massima tollerabile, cioè all’ampiezza massima dell’intervallo che si reputa ancora informativa sul valore del parametro. Nell’esempio, per n = 100, se l’intervallo f ±10% fosse considerato poco informativo, si dovrebbe aumentare la dimensione dello studio

fino a giungere ad un intervallo che si reputa informativo (ad es., f ±3%). Intervalli di confidenza e test statistici A ben guardare, la tecnica di costruzione di un test statistico è simile a quella che è alla base degli intervalli di confidenza (v. CASCO 6), e ciò può aver indotto l’equivoco di cui si è parlato in premessa, ma non sono strumenti equivalenti. Le differenze sostanziali sono due, una di natura concettuale, la seconda più tecnica, ma decisamente più importante. Premettiamo che due sono le aree di interesse dell’inferenza statistica: la stima dei parametri e la prova delle ipotesi. Gli intervalli di confidenza appartengono alla prima area, mentre i test statistici, che appartengono alla seconda, si propongono un diverso obiettivo: provare l’ipotesi che il parametro assuma un determinato valore. Quindi, sono due strumenti, concettualmente differenti, che rispondono ad esigenze diverse. La seconda differenza è che entrambi gli strumenti poggiano sul valore dell’errore standard, ma, mentre gli intervalli di confidenza, in generale, richiedono una sua stima, i test statistici si basano sull’errore standard calcolato sotto l’ipotesi nulla. Ci sono casi in cui i due metodi producono lo stesso valore per l’errore standard (quando, ad esempio, nel test il valore ipotizzato per il parametro non ha influenza sul valore stimato dell’errore standard, come nell’inferenza sulla media) – e, in questo caso, il collega citato in premessa avrebbe potuto aver ragione – ma non è così nei problemi di inferenza relativi alle frequenze. Infatti, nel caso della frequenza relativa – come anche nel caso del confronto tra due frequenze – l’errore standard stimato non coincide con quello calcolato sotto l’ipotesi nulla e quindi l’intervallo di confidenza ed il test statistico potrebbero dar luogo a risultati contrastanti.

+ dexamethasone vs metoclopramide + dexamethasone + diphenhydramine in prevention of cisplatin-induced emesis. Lancet 1992; 340: 96-9), l’intervallo di confidenza (al 95%) della differenza dell’incidenza della nausea acuta tra i due gruppi (stima puntuale della differenza = 0,116 = 11,6%) era compreso tra 0,8% e 22,4% (lasciando così intravvedere una significatività della differenza, in quanto tale intervallo non include lo zero). Il livello di significatività del test statistico era, invece, risultato pari a 0,051, quindi superiore al 5%, per cui non si può concludere che i due trattamenti abbiano una diversa efficacia nella prevenzione della nausea acuta. In tali casi a chi dare retta? Senza dubbio al test statistico in quanto lo studio è specificamente programmato per basarsi su di esso: gli intervalli di confidenza hanno solo il ruolo di aggiungere un’informazione – pur importante, ma non decisiva – sulla dimensione dell’effetto. Enzo Ballatori

Ad esempio, nel nostro lavoro sugli antiemetici (IGAR, Ondansetron CASCO — Primavera 2014

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MELTIN’POT in collaborazione con SALUTE DONNA Onlus e SOCIETÀ ITALIANA DI PSICO ONCOLOGIA

FOTOGRAFIA ENRICO COSTANTINI

presentano

TRATTO DA UNA STORIA VERA

Regia di

Insieme ANNAMARIA LIGUORI

EURIDICE AXEN

GIORGIA WURTH

NICOLAS VAPORIDIS

Con la partecipazione di

MONICA SCATTINI BRANI MUSICALI DI MARCO CARTA SOGGETTO DAVID FRATINI SCENEGGIATURA DAVID FRATINI E ANNAMARIA LIGUORI DIRETTORE DELLA FOTOGRAFIA LEONE ORFEO FONICO DI PRESA DIRETTA TULLIO MORGANTI MONTAGGIO FEDERICO MUSICHE ANTONELLO SORRENTINO COSTUMI LUDOVICA LA MANNA DIRETTORE DI PRODUZIONE BEATRICE MOSELE PRODUTTORI ESECUTIVI NICOLA LIGUORI E TOMMASO RANCHINO PROGETTO A CURA DI PRO FORMAT COMUNICAZIONE PRODOTTO DA MELTIN’POT PER SALUTE DONNA ONLUS E SIPO REALIZZATO GRAZIE AL SUPPORTO NON CONDIZIONATO DI MSD

SOCIETÀ ITALIANA DI PSICO ONCOLOGIA


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Prima della prescrizione, consultare il riassunto to delle caratteristiche del prodotto accluso.. *CINV=Nausea e vomito indotti dallaa cchemioterapia hemioterapia **Triplice Terapia=EMEND, UN 5 5-HT3 -HT3 antagonista, antagonista, e un corticosteroide.

www.msd-italia.it www.contattamsd.it ontattamsd.it info@contattamsd.it info @ contattamsd.it www.univadis.it w w w.univadis.it J - 02 / 2015 Materiale Materiale depositato depositato presso presso l’AIFA l’AIFA ilil 15.02.2013 15.02.2013 ONCO-1072176-0000-EMD-J-02/2015 ONCO-1114371-0000-EMD-PU-03/2016 O NCO -1114371- 0000 - EMD - PU - 03 / 2016


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