CASCO 1 - 2012

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Periodico trimestrale riservato alla classe medica edito in collaborazione con Via Vitorchiano 151 – 00189 Roma Tel 06 36 19 11 – Fax 06 36 380 311 www.univadis.it Numero verde 800 23 99 89

Vol 2, n. 1, gennaio-marzo 2012

In questo numero EDITORIALE

4 Anno 2 N. 1 – gennaio-marzo 2012 Registrazione del Tribunale di Roma in corso Direzione scientifica: Fausto Roila Enzo Ballatori Gruppo editoriale: Claudia Caserta Sonia Fatigoni Guglielmo Fumi Azienda Ospedaliera di Terni Il Pensiero Scientifico Editore Via San Giovanni Valdarno 8 00138 Roma Tel 06 862 821 – Fax 06 862 82 250 Internet: www.pensiero.it Stampa: Arti Grafiche Tris, Roma giugno 2012 Direttore responsabile: Giovanni Luca De Fiore Redazione: Manuela Baroncini Progetto grafico: Antonella Mion Prezzo: Fascicolo singolo €15,00

Formazione delle linee guida: il caso della terapia antiemetica (e non solo) Enzo Ballatori Fausto Roila

Enzo Ballatori, Fausto Roila

LINEE GUIDA E PRATICA CLINICA

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Uso ottimale dei fattori di crescita granulocitari nel supporto alla chemioterapia dei tumori solidi Marco Danova Martina Torchio Antiemetici: le linee guida ASCO Fausto Roila Sonia Fatigoni

TUMORI E TERAPIE DI SUPPORTO

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Terapia ormonale del carcinoma della mammella: complicanze e trattamento Enzo Galligioni

GESTIONE EVENTI AVVERSI

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Eventi avversi da bevacizumab Claudia Caserta

I contenuti pubblicati dalla rivista rispecchiano le opinioni degli Autori e non necessariamente quelle dell’Editore o della MSD Italia S.r.l. Ogni farmaco menzionato deve essere usato in accordo con il relativo riassunto delle caratteristiche del prodotto fornito dalla ditta produttrice.

Occorre riflettere in generale sull’attuale sistema di formazione delle linee guida, e, soprattutto, se l’indipendenza dei singoli membri del panel sia sufficientemente garantita

In copertina: Otto Freundlich, Kosmisches Auge (Oeil cosmique), 1921-22.

IL PUNTO SU...

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Diagnosi e trattamento del dolore neuropatico nel malato oncologico Guglielmo Fumi

CASI CLINICI – STATISTICA PER CONCETTI

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Gli studi di non inferiorità Enzo Ballatori

USO DEI FARMACI IN INDICAZIONI NON APPROVATE

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Chemio-radioterapia nei carcinomi del testa-collo: prevenzione della mucosite orale con palifermin Fausto Roila


Editoriale

Formazione delle linee guida: il caso della terapia antiemetica (e non solo)

O

ltre ad utilissime informazioni sul management di alcuni effetti indesiderati delle terapie antineoplastiche, sull’uso dei fattori di crescita e sulla diagnosi e trattamento del dolore neuropatico, questo numero di CASCO presenta

numerosi spunti di riflessione. Tra questi, di rilievo è il parziale disaccordo tra le linee guida sui farmaci antiemetici pubblicate di recente dall’ASCO e quelle dell’ESMO-MASCC, malgrado una parte consistente dei membri delle rispettive Consensus Conference fosse la stessa. Le conseguenze del disaccordo sono evidenti, quando si pensi, ad esempio, alla implementazione delle linee guida nelle singole realtà ospedaliere per la creazione di percorsi assistenziali: in tali casi si impone una scelta senza che vi siano criteri oggettivi per decidere quale considerare. Ma ciò che più interessa sono le cause che hanno prodotto il disaccordo. Di norma, quando ciò si verifica si può pensare che la ricerca clinica, sui cui risultati si basa la formazione delle linee guida, sia di non eccelsa qualità, ma anche che l’indipendenza di tutti i membri del panel dall’industria sia solo apparente. La qualità della ricerca sui farmaci antiemetici sarà focalizzata nel prossimo numero. In questa sede occorre riflettere in generale sull’attuale sistema di formazione delle linee guida, e, soprattutto, se l’indipendenza di giudizio dei singoli membri del panel sia sufficientemente garantita, ai fini sia della tutela del paziente, sia delle naturali esigenze di risparmio del servizio sanitario nazionale. Spesso, infatti, sono chiamati a far parte del gruppo che procede alla stesura delle linee guida i massimi esperti del settore che, proprio in quanto tali, sono anche coinvolti nella ricerca clinica sponsorizzata. È vero che spesso sono prese a garanzia dell’indipendenza di giudizio alcune misure, come la disclosure dei conflitti di interesse e l’astensione dal voto (ma non dalla discussione) su argomenti che sono stati oggetto di ricerca del singolo componente del panel, ma tali precauzioni ci sembrano francamente deboli, forse perché siamo cresciuti in una civiltà che evitava i conflitti di interesse e non cercava alcun compromesso per convivere con loro.

Enzo Ballatori Fausto Roila

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Linee guida e pratica clinica

Uso ottimale dei fattori di crescita granulocitari nel supporto alla chemioterapia dei tumori solidi

Marco Danova Martina Torchio Medicina Interna e Oncologia Medica Azienda Ospedaliera di Pavia, Ospedale Civile di Vigevano marco_danova@ospedali.pavia.it

Introduzione La neutropenia è la principale tossicità dose-limitante di molti regimi chemioterapici e la neutropenia severa, definita come un numero assoluto di neutrofili inferiore a 500 per mm3, determina un consistente aumento del rischio d’infezione. Neutropenia febbrile (FN) è definita la presenza di una temperatura corporea orale approssimativamente intorno a 38,5°C o più elevata, presente per più di un’ora, e sviluppatasi contestualmente ad una neutropenia con meno di 500 neutrofili per mm3 1-4. Il rischio di sviluppare una FN dipende dal grado e dalla durata della neutropenia chemioterapia (CT)-indotta e da un certo numero di fattori pazienterelati6,7. Essa è associata significativamente a morbilità, con conseguente incremento dei costi, non ultimo, un aumento della mortalità7,8, e frequentemente costringe il clinico a ridurre la dose o ad allungare gli intervalli di tempo interposti tra ogni ciclo CT 9. Queste modifiche della dose rappresentano la principale causa di fallimento terapeutico nei pazienti portatori di tumori chemiosensibili10,11. I fattori di crescita granulocitari ricombinanti (rG-CSF) giocano un ruolo chiave nella sopravvivenza, nella proliferazione e nella differenziazione dei granulociti12. Sperimentazioni cliniche hanno dimostrato che l’rG-CSF riduce l’incidenza e la gravità della mielotossicità e delle complicanze connesse13, rendendo così possibile effettuare il programma terapeutico in modo completo alla dose chemioterapica pianificata14. Precedenti raccomandazioni dell’ASCO e dell’EORTC hanno proposto che la profilassi primaria potrebbe essere introdotta per prevenire la FN nei pazienti che presentano un alto rischio calcolato su età, storia clinica, caratteristiche della malattia, e potenziale mielotossicità del regime chemioterapico9,15. Inizialmente venne suggerito che la somministrazione ritardata di rG-CSF potesse essere effettuata al pari di una somministrazione precoce-anticipata, ponendo così l’interrogativo se la terapia con rG-CSF potesse fungere meglio come supporto piuttosto che come profilassi5. Le linee guida più recenti16-20 stabiliscono chiaramente che una profilassi primaria dovrebbe essere considerata quando il rischio atteso di FN supera il 20%. Per contro, i precedenti dati raccolti sull’rG-CSF nel supporto

della neutropenia indicavano come spesso i pazienti ricevessero un trattamento con rG-CSF per una durata di tempo ridotta rispetto ai 10-11 giorni di terapia evidenziati in studi sperimentali21. Se da una parte questo riduce la spesa dei farmaci, dall’altra però è stato suggerito come un uso limitato a pochi giorni possa determinare una protezione subottimale per FN, portando ad un aumento dell’ospedalizzazione22. In questo ambito, uno studio non randomizzato ha recentemente valutato differenti schedule di somministrazione dell’rG-CSF in pazienti con neoplasia mammaria che ricevevano una CT dose-dense. Gli autori indicavano la necessità di effettuare trial randomizzati prospettici più ampi per confrontare l’efficacia di una schedula breve versus standard per quanto riguarda la prevenzione della FN, il ritardo nella somministrazione terapeutica ed i costi23. Tuttavia, nonostante la presenza sia di evidenze biologicoprecliniche forti sia di linee guida, la pratica clinica corrente non è ancora completamente omogenea. Questo è stato recentemente sottolineato anche in un ampio studio osservazionale sulle tendenze nell’impiego dell’rG-CSF dopo l’introduzione delle linee guida ASCO ed EORTC24,25. Il lavoro che viene presentato in queste pagine ha avuto come finalità quella di definire, utilizzando una specifica metodologia, i livelli di concordanza riguardo questioni controverse, in modo da creare una base per un miglioramento del consenso tra oncologi clinici nella pratica clinica sull’uso ottimale dell’rG-CSF nel supporto alla CT. Parte dei risultati ottenuti sarà utilizzata per implementare le nuove linee guida sull’utilizzo dei fattori di crescita emopoietici dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica che verranno presentate al prossimo Convegno Nazionale di Roma. Metodi Il progetto, si è basato sull’impiego della nota “NominalGroup-Tecnique”, un metodo di consenso formale di gruppo sviluppato per organizzare giudizi soggettivi e sintetizzarli con un’evidenza condivisa26. Si basava su una serie di incontri regionali di “Gruppi di Esperti”27 identificati tra Oncologi Medici attivamente coinvolti nell’ambito della somministrazione della CT e dei fattori di crescita emopoietici, reclutati da Ospedali Generali, Universitari e Centri Oncologici di cinque Regioni italiane selezionate (Lombardia, Lazio, Campania, Puglia, Liguria) appropriatamente distribuite sul territorio italiano e considerate rappresentative dell’intera nazione, in termini di numero di pazienti e di trattamenti somministrati. È stato formato un gruppo di lavoro per Campania, Puglia e Liguria, mentre due gruppi di lavoro riCASCO — Vol 2, n. 1, gennaio-marzo 2012

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spettivamente per Lombardia e Lazio, a causa dell’alto numero di Centri specialistici deputati al trattamento della patologia tumorale. Gli incontri venivano strutturati per discutere e stabilire un algoritmo decisionale sui seguenti argomenti d’interesse comune: selezione dei pazienti candidati a somministrazione di rG-CSF; fattori correlati ad un aumento del rischio di FN; regimi di CT associati ad un aumentato rischio di FN; tempistica e durata di somministrazione dell’rG-CSF; utilizzo in terapia dell’rG-CSF e/o degli antibiotici nella neutropenia severa senza febbre; utilizzo di rG-CSF e/o antibiotici nella terapia della FN; impatto della somministrazione terapeutica non convenzionale di rG-CSF sul ricovero per tossicità da CT e sull’intervallo di tempo tra i cicli. L’evidenza scientifica disponibile dalla letteratura pubblicata (effettuando ricerca su PubMed con termini come: G-CSG, FN, tumori solidi, profilassi, linee guida), riguardante ciascun argomento selezionato, veniva graduata in termini di livello di evidenza, come riportato dall’US Department of Health and Human Science, Public Health Service, Agency for Health Care Policy and Research nel 199228. L’evidenza veniva successivamente suddivisa in due livelli: alta (1a ed 1b) e bassa (2a,2b,3 e 4), come suggerito dal National Comprehensive Cancer Network (NCCN). L’evidenza finale per uno specifico trattamento o procedura, o per le modalità della sua implementazione, veniva codificata secondo le linee guida NCCN29. Durante gli incontri regionali, la discussione veniva focalizzata verso specifiche situazioni cliniche giudicate di grande rilevanza e capaci di suscitare il maggior interesse. Un gruppo di “moderatori” moderava la discussione, dando a ciascun esperto in sequenza l’opportunità di esprimere il proprio punto di vista. Ciascun partecipante presentava il proprio lavoro. Il gruppo di “facilitators” aveva inoltre il compito di sintetizzare tutte le presentazioni per ogni area d’interesse. Quando l’impiego di un trattamento o di una procedura era supportato da un livello di evidenza scientifica elevato, la raccomandazione veniva considerata appropriata. Invece, quando non era disponibile un’evidenza elevata a riguardo del trattamento o della procedura in oggetto, la raccomandazione veniva definita appropriata solo se veniva raccolto un ampio consenso. Nell’incontro finale plenario, tutti i partecipanti venivano divisi in commissioni mediche definite per le varie aree d’interesse nell’ambito dell’impiego terapeutico e profilattico dell’rG-CSF. I moderatori davano un punteggiograding alle evidenze descritte in precedenza, sintetizzavano i punti principali, così veniva raggiunto un consenso per ciascuna di queste aree. Risultati

Profilassi

Selezione dei pazienti per rG-CSF Una delle più frequenti tossicità da CT è il decremento nella conta dei leucociti, specialmente della linea granulocitaria neutrofila. Le infezioni batteriche sono la causa principale di morbilità nei pazienti divenuti neutropenici dopo 6

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una CT antineoplastica, ed una metanalisi ha mostrato che una specifica profilassi antibiotica con fluorochinoloni riduce sostanzialmente la mortalità in pazienti portatori di neoplasie ematologiche con neutropenia non febbrile 30. La neutropenia stessa non è associata a sintomi e non interferisce con la Quality of Life (QoL) ma, quando è complicata dalla febbre, si associa a morbilità e mortalità significative1. Kuderer et al. usarono un database ottenuto da 115 Centri specialistici americani per studiare i fattori di rischio correlati a mortalità nei pazienti oncologici adulti ospedalizzati con FN tra il 1995 ed il 200031. Durante questo periodo, il tasso di mortalità ospedaliera sul totale di 41.779 pazienti adulti oncologici era del 9,5%. Pazienti senza alcuna comorbilità maggiore avevano un tasso di mortalità del 2,6%, mentre la presenza di 1, 2, 3 o 4 comorbilità era associata ad un rischio aumentato di mortalità (10,3; 21,4; 38,6; 50,6% rispettivamente). Fattori di rischio significativi indipendenti per mortalità in pazienti con FN erano (odds ratio, OR, in parentesi) batteriemia Gram- (4,92), batteriemia Gram+ (8,29), candidiasi (2,55), aspergillosi (3,48), ipotensione (2,12), ipovolemia (1,52), polmonite (3,28), patologia polmonare (3,94), nefropatia (3,16), malattia cerebrovascolare (3,26), epatopatia (2,89), embolia polmonare (1,94), scompenso cardiaco congestizio (1,27), altre cardiopatie (1,58), leucemia (1,47), neoplasia polmonare (1,18) ed età superiore a 65 anni (1,12)3. Alcuni autori hanno notato come la FN possa anche ridurre la sopravvivenza nei pazienti oncologici, specialmente negli anziani31, perché ritarda la somministrazione del regime CT completo e può così compromettere l’outcome del trattamento. Se è vero che l’incidenza di FN è largamente determinata dal profilo di tossicità ematologica del rispettivo regime CT, i fattori di rischio per aumento della mortalità da FN aumentano anche l’incidenza di FN durante la CT programmata15. Tutte le più recenti linee guida pratiche pubblicate sull’utilizzo dei fattori di crescita mieloidi16-20 iniziano con una valutazione del rischio di FN CT-indotto. L’assegnazione del rischio considera un numero di parametri che includono il tipo e lo schema di agenti CT (come terapia ad alte dosi, ad intensità di dose e a dose standard), i fattori di rischio del paziente e la finalità del trattamento (curativo o adiuvante, palliativo finalizzato ad allungare la sopravvivenza nella malattia avanzata). Basandosi sui fattori di rischio CT- e paziente-relati, i pazienti sono stati comunemente assegnati ai gruppi ad alto, medio e basso rischio di FN. Sono correntemente disponibili varie formulazioni di rG-CSF e sono state testate differenti strategie di utilizzo dell’rG-CSF per ridurre la durata e l’incidenza della FN e delle complicanze associate in pazienti oncologici sottoposti a CT. rG-CSF può essere utilizzato in profilassi primaria (immediatamente dopo il primo ciclo di CT in pazienti naive che non hanno esperienza di precedenti episodi di FN), in profilassi secondaria (immediatamente successiva ai cicli, dopo un episodio di FN) o in terapia (dopo l’insorgenza di FN al fine di ridurre la sua durata e migliorare l’esito dell’infezione). rG-CSF è stato introdotto anche per aumentare l’intensità di dose (la quan-


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tità di CT per dose) e la densità di dose (per accorciare l’intervallo tra cicli di trattamento). L’utilizzo profilattico di rGCSF è stato valutato nel 2002 in una metanalisi di otto trial clinici controllati randomizzati comprendenti 1144 pazienti32; filgrastim è stato impiegato in cinque trial, mentre lenograstim in tre studi. Il rischio medio di FN nei gruppi di controllo era pari a 51% (range 7-77%) e del 32% (range 0-63%) nel gruppo trattato con rG-CSF (OR 0,38; 95% CI 0,29-0,49). Il rischio d’infezione documentata dopo l’impiego di rG-CSF, in profilassi, era significativamente ridotto (OR 0,51; 95% CI 0,36-0,73) ma la mortalità infezione-relata non era modificata significativamente (OR 0,6; 95% CI 0,3-1,22). Una metanalisi approfondita ha concluso che rG-CSF profilattico aveva un effetto trascurabile o nullo sulla mortalità. È altresì vero che una profilassi riduceva il tasso di infezioni e di episodi di FN in pazienti che ricevevano CT antitumorale o venivano sottoposti a trapianto di cellule staminali rispetto a coloro che ricevevano placebo o nessun trattamento33. Alla fine, nel medesimo anno dello studio precedente, è stata eseguita una revisione sistematica con metanalisi dei trial clinici controllati randomizzati per verificare il valore di una profilassi primaria sulla FN e sulla mortalità in pazienti adulti sottoposti a CT. È stato riportato come rG-CSF in profilassi possa ridurre il rischio di FN e di morti precoci, includendo la mortalità infezione-relata, mentre incrementa l’intensità di dose relativa di CT e l’incidenza del dolore muscoloscheletrico. Nonostante ciò, questi autori ritennero insufficienti tali dati per poter quantificare l’impatto di rG-CSF sulla sopravvivenza globale e libera da malattia34. Così, basandosi sull’evidenza e sulle linee guida disponibili35, la questione pratica è: come possiamo selezionare i pazienti per una profilassi primaria in accordo con il loro livello (alto, medio o basso) di rischio di FN?

Fattori di rischio di FN paziente-correlati I fattori paziente-relati possono far incrementare il profilo di rischio complessivo di un paziente, spostandolo in una categoria ad alto rischio di FN, per la quale è routinariamente raccomandato l’uso di rG-CSF in profilassi. Una revisione della letteratura durante la compilazione delle linee guida EORTC ravvisò come l’età avanzata (in particolare superiore a 65 anni) fosse il fattore paziente-relato più consistentemente associato ad un aumento del rischio di FN. Altri fattori di rischio relati al paziente includevano uno stadio avanzato di malattia, precedenti episodi di FN, difetto nell’impiego di rG-CSF e assenza di profilassi antibiotica9. Così, i fattori di rischio paziente-relati, in modo particolare l’elevato rischio nei pazienti anziani, potrebbero essere inseriti nell’assegnazione del rischio globale di FN prima della somministrazione di ogni ciclo di CT. I fattori di rischio pazienterelati definiti nelle più recenti linee guida NCCN20 sono basati su un recente modello di rischio validato sviluppato da un ampio studio, prospettico, controllato, nazionale36. Furono valutati per complicanze neutropeniche intercorse nel primo ciclo di CT 3468 pazienti che iniziavano un nuovo regime di CT per tumori solidi e limfomi (su 115 sedi selezionate in modo casuale). I fattori di rischio identificati sono

stati successivamente validati in un campione casualmente selezionato di pazienti; i fattori associati al più elevato rischio di complicanze neutropeniche includevano agenti mielosoppressivi (≥2), i tipi di CT, la riduzione di più dell’85% della dose di CT rispetto alla dose pre-pianificata, tipo di tumore ed uso non pianificato di rG-CSF. I fattori associati a rischio medio-basso erano: tipo di tumore, disfunzione epatica o ridotta funzionalità renale, anamnesi positiva per CT o radioterapia, (condizioni intercorrenti neutropenia/infezioni, ferite aperte), storia di diabete mellito o chirurgia recente, altre terapie concomitanti36,20. Infine, le linee guida ASCO definiscono alcuni fattori clinici che predispongono all’aumento delle complicanze, dalla neutropenia prolungata, includendo l’età del paziente superiore a 65 anni, un perfomance status (PS) ridotto, precedenti episodi di FN, precedente trattamento con radiazioni ad ampio campo, somministrazione combinata di CT e radioterapia (RT), citopenia causata da infiltrazione tumorale del midollo osseo, stato nutrizionale scarso, presenza di ferite aperte o infezioni in atto, tumore avanzato-metastatico, altre comorbilità severe. In alcune situazioni, la profilassi primaria con rG-CSF è spesso appropriata anche nel caso di regimi CT il cui rischio stimato di FN è inferiore al 20%15.

Regimi CT associati ad aumentato rischio di FN In aggiunta ai fattori di rischio del paziente, particolari regimi CT sono associati ad un aumentato rischio di FN e questo deve essere tenuto in considerazione quando si valuta il livello di rischio globale del paziente. Prima del 2006, la profilassi primaria con rG-CSF era raccomandata per i regimi CT associati ad un elevato rischio relativo di FN del 40%37. È altresì vero che i dati hanno mostrato come il beneficio clinico era ottenuto al più basso livello di rischio38,39. Negli studi che sono stati recentemente aggiornati19 è stato steso un elenco dei regimi CT pubblicati, dettagliato in termini di dosaggi standard, indicazioni per tipo tumorale (e stadio-setting di malattia) e gli schemi terapeutici sono stati classificati in accordo alla proporzione di pazienti che hanno sviluppato FN (senza l’impiego di rG-CSF). In assenza di circostanze speciali (regimi ad intensità/densità di dose) la maggior parte dei regimi impiegati ha un rischio di FN inferiore al 20%. Vogel et al. hanno studiato l’effetto di pegfilgrastim in uno studio controllato randomizzato, in doppio cieco, in pazienti con neoplasia mammaria a vari stadi di malattia trattate con docetaxel38. Pazienti trattate con pegfilgrastim avevano una più bassa incidenza di FN (temperatura corporea ≥38,2°C e conta assoluta di neutrofili < 500 cellule/mm3) confrontate con pazienti riceventi placebo (1 versus 17% rispettivamente p<0,001) e con minore incidenza di ospedalizzazioni FN-relate (1 versus 14% rispettivamente p<0,001). In realtà, i tassi d’infezione, di mortalità infezione-relata e di sopravvivenza non erano riportati. TimmerBonte et al. confrontarono l’effetto dell’rG-CSF versus nonrG-CSF in uno studio open-label, randomizzato, con 175 pazienti affetti da neoplasia polmonare a piccole cellule, che ricevevano antibiotici per via orale per la prevenzione della FN. rG-CSF riduceva significativamente l’incidenza di FN da CASCO — Vol 2, n. 1, gennaio-marzo 2012

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32 a 18% (RR 0,57; 95% CI 0,34-0,97). L’incidenza di FN al primo ciclo era del 24%; questi dati furono usati per proporre l’efficacia di rG-CSF in profilassi nei regimi CT il cui rischio predittivo di FN è approssimativamente del 20%39. Le linee guida dell’NCCN20 raccomandavano l’uso di rG-CSF per pazienti ad alto rischio (>20%) di FN (formalmente fu riconosciuta un’incidenza di FN superiore a 40%)15 che ricevevano un trattamento ad intento curativo, terapia adiuvante o trattamento volto a prolungare la sopravvivenza e migliorare la QoL. Inoltre, se vi fossero trattamenti alternativi ma egualmente efficaci che non richiedessero rG-CSF, questi andrebbero impiegati. Per i regimi CT con rischio di FN del 10-20%, dovrebbe essere riservata particolare attenzione alla valutazione di quelle caratteristiche del paziente che aumentano il rischio complessivo di FN. Ambiti speciali includono il mantenimento dell’intensità di dose pianificata nei cicli CT standard o l’impiego di uno schema a densità di dose. La profilassi contro la FN con rG-CSF è stata impiegata con successo per prevenire la riduzione di dose o il ritardo di dose nei pazienti oncologici. rG-CSF non è stato raccomandato dall’ASCO nel mantenimento dell’intensità di dose, ad eccezione dei tumori nei quali il decremento dell’intensità di dose potrebbe compromettere l’outcome a lungo termine (per esempio tumori a cellule germinali). Le linee guida EORTC seguono questa raccomandazione specificando che l’rG-CSF dovrebbe essere usato solo se il regime CT ad intensità di dose o a densità di dose porta un beneficio di sopravvivenza9. Le linee guida ASCO raccomandano che i regimi dose-dense dovrebbero essere impiegati solo all’interno di trial clinici prospettici appropriatamente disegnati15 volti a definire l’impatto clinico dell’impiego di intensità di dose più elevate nel trattamento dei tumori solidi chemiosensibili o se supportati da convincenti dati di efficacia40. Infine, le più recenti linee guida ESMO pubblicate concordano con le altre linee guida, che la profilassi primaria è ragionevole solo se la probabilità di FN è approssimativamente intorno al 20% o se la riduzione di dose può essere detrimentale per l’outcome clinico17.

Tempi e durata di somministrazione di rG-CSF La somministrazione di rG-CSF dovrebbe essere continuata ed il filgrastim dovrebbe essere continuato finché la conta assoluta di neutrofili abbia raggiunto l’intervallo di normalità41. La tempistica di somministrazione di rG-CSF ha un impatto significativo sulla gravità e sulla durata della neutropenia. In aggiunta, l’efficacia di rG-CSF è ridotta quando la somministrazione è ritardata oltre i quattro giorni dalla fine della CT42,43. Tutte le evidenze supportanti l’efficacia di rG-CSF sono basate su schedule di trattamento nelle quali il fattore di crescita veniva somministrato iniziando da 1 a 3 giorni dopo il termine delle CT34. Vi è evidenza che supporta la superiorità di pegfilgrastim nei confronti del placebo e la non inferiorità di pegfilgrastim rispetto a filgrastim38,44,45. Inoltre, è stato descritto come pegfilgrastim sia superiore a filgrastim nella profilassi, in particolare quando la somministrazione di filgrastim non viene effettuata secondo linee guida46,47. Infine, l’impiego di pegfilgrastim con CT a densità 8

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di dose appare applicabile sia per quanto riguarda l’efficacia che per quanto riguarda la sicurezza48. Trattamento

Uso terapeutico di rG-CSF/ o antibiotici in pazienti con grave neutropenia senza febbre La somministrazione di rG-CSF in pazienti apiretici con neutropenia severa non ha dimostrato un impatto significativo sul tasso di ospedalizzazione, numero di giorni in ospedale, durata del trattamento con antibiotici parenterali, numero di infezioni coltura-positive49. In alcuni ambiti clinici, una riduzione dell’intensità di dose pianificata (correlata all’incidenza di neutropenia nel 70% dei casi)50,51 potrebbe essere significativamente detrimentale in termini di efficacia del trattamento antineoplastico52,53. Non vi è evidenza consistente che supporti l’uso di schedule non convenzionali di somministrazione di rG-CSF con lo scopo di rispettare l’intensità di dose CT programmata15,53. L’efficacia di una profilassi con fluorochinoloni nel ridurre la mortalità di pazienti con neutropenia a CT-indotta è correlata al tipo di tumore (tumori solidi e linfomi versus neoplasie ematologiche e trapianto di cellule staminali) ed è probabilmente correlata al tipo di fluorochinolone impiegato (levofloxacina versus altri farmaci)54,55. Nonostante l’efficacia profilattica è importante notare come l’uso di fluorochinoloni in pazienti neutropenici apiretici può portare ad un aumento del tasso di infezione causato da organismi fluorochinoloni-resistenti56.

Uso terapeutico di rG-CSF/ o antibiotici in pazienti con neutropenia febbrile In accordo con l’indice di rischio sviluppato dalla Multinational Association for Supportive Care in Cancer (MASCC), i pazienti con FN sono classificati in categorie a basso od alto rischio57. I pazienti con FN e basso rischio di complicanze (MASCC score ≥21) possono essere efficacemente trattati con antibiotici orali58. L’aggiunta di rG-CSF al trattamento antibiotico ha dimostrato di contribuire ad una riduzione statisticamente significativa del 30% delle ospedalizzazioni, ed al 48% di riduzione della mortalità infezione-relata ai limiti della significatività statistica14.

Impatto terapeutico della somministrazione non convenzionale di rG-CSF sul ricovero per tossicità e sul timing di riciclo della CT Alcuni regimi CT utilizzati nei tumori solidi sono basati sulla somministrazione di farmaci citotossici in schedule non convenzionali e, anche in questi programmi CT, episodi neutropenici possono minare il mantenimento della schedula pianificata e può essere gestito con differente strategia incluso l’impiego di rG-CSF.

Regime CT basati sulla somministrazione di farmaci nei giorni 1 e 8 ogni 21 giorni Le raccomandazioni cliniche stabiliscono che l’uso profilattico di rG-CSF, se indicato, dovrebbe essere somministrato dopo il giorno 9 in questo tipo di schedula. Come con-


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seguenza, la schedula di trattamento potrebbe essere modulata al fine di evitare che il nadir dei neutrofili cada nell’ottavo giorno del regime. Se la schedula di trattamento contempla un farmaco che è associato con una più alta incidenza di nadir precoce dei neutrofili rispetto ad altri, questa tossicità potrebbe essere meglio gestita se questo stesso farmaco fosse somministrato nell’ottavo giorno invece che al primo. Questa ipotesi potrebbe essere certamente ragionevole solo in quelle schedule basate sulla combinazione di agenti antitumorali per i quali altri fattori (ad esempio farmacocinetica, farmacodinamica, azioni ciclo-specifiche) non apportano alcuna modifica. Per esempio, nel regime gemcitabina/docetaxel per la neoplasia polmonare, docetaxel induce un precoce nadir dei neutrofili che si può collocare in un intervallo di tempo successivo all’infusione della CT intercorrente tra la quinta e l’ottava giornata di ciclo. La sua somministrazione nel primo giorno può precludere l’infusione di gemcitabina nel giorno 8. Dall’altro lato se docetaxel fosse somministrato nel giorno 8 gemcitabina potrebbe essere infusa sia il giorno 1 che il giorno 8. La comparsa del nadir dei neutrofili dovrebbe essere attesa nel giorno 10-15 e così sarebbe gestita più semplicemente59,60 e se un farmaco associato ad una elevata tossicità ematologica induce un nadir neutrofilico ritardato, allora potrebbe essere somministrato nel giorno 1 rispetto al giorno 8 perché il nadir atteso si verificherà dopo il giorno 8. Per esempio, nel regime carboplatino/vinorelbina, carboplatino può essere somministrato nel giorno 1 e vinorelbina nei giorni 1 e 8, perché l’insorgenza di neutropenia è attesa dopo il giorno 8. La profilassi della neutropenia, se indicata, può essere effettuata con l’impiego di rG-CSF iniziato nel giorno 961.

Regimi settimanali Non vi sono al momento studi di fase tre che abbiano valutato il ruolo di rG-CSF somministrato fra il giorno 2 e 7 in termini di fattibilità del trattamento ed incidenza di neutropenia o FN nei regimi settimanali. Uno studio di fase III62 ed uno studio sperimentale cross-over63 hanno mostrato che la somministrazione di rG-CSF immediatamente prima l’infusione CT (48 ore prima della CT) è associata ad una tossicità ematologica più elevata. Nello studio di De Wit et al., un’incidenza più alta di tossicità fu osservata solo per la linea megacariocitica62, mentre lo studio di Tjan-Heijnen et al. registrò una tossicità aumentata sia sulla linea leucocitaria che sulla piastrinica63. Lo studio cross-over di Timmer-Bonte et al. ha confermato che i cicli CT somministrati dopo un intervallo libero da trattamento con rG-CSF di 2 giorni sono associati con un nadir piastrinico più severo, confrontato con cicli di CT infusi con un intervallo libero da rG-CSF di 5 giorni39. Non fu registrata differenza in termini di tossicità neutrofilica tra un intervallo libero da rG-CSF a 2 ed a 5 giorni. Nonostante le evidenze disponibili non raccomandino l’uso di rG-CSF immediatamente prima della CT, rG-CSF è stato somministrato tra il giorno 1 ed il giorno 8 in vari regimi settimanali. In particolare, rG-CSF è stato somministrato tra il giorno 2 ed il giorno 5, ed il numero di dosi somministrate andava da una a tre64-67. Nella pratica clinica, nei re-

gimi settimanali rG-CSF è prescritto al fine di evitare ritardi nella CT nel giorno 8 a causa della neutropenia. Per esempio, nei regimi settimanali CT/RT somministrati in pazienti con tumori testa-collo, l’11-20% dei soggetti necessitano di modificazioni del trattamento programmato a causa della neutropenia68,69. In sintesi, le evidenze disponibili non consigliano l’impiego di rG-CSF fra il giorno 2 ed il 7 nei regimi settimanali15,61. Infine, la fattibilità e l’attività di un regime settimanale con rG-CSF supportato con una somministrazione short-term (da 1 a 3 giorni) richiedono una valutazione più completa. Certamente, quando rG-CSF è somministrato nei regimi settimanali, sarebbe auspicabile non somministrarlo nello stesso giorno della CT ma potrebbe essere iniziato dopo 24 ore dalla CT e dovrebbe essere sospeso 72 ore prima della somministrazione CT successiva. Conclusioni È importante utilizzare rG-CSF per supportare una CT in pazienti con tumori solidi e con un rischio sostanziale di FN, in accordo con le raccomandazioni internazionali e al fine di sfruttare al massimo il beneficio clinico70-72. Tuttavia la tempistica e la modalità di somministrazione rimangono tutt’oggi una questione aperta, come testimonia l’estrema eterogeneità d’impiego nel panorama della pratica clinica. Così come appare controversa la questione sull’esistenza di possibili differenze tra la forma standard di rG-CSF e la forma peghilata: sembrerebbero comparabili in efficacia9,73, anche se è stato recentemente evidenziato che il lenograstim sembrerebbe più efficace nel ridurre l’incidenza di FN in pazienti con mieloma multiplo sottoposti a processo di mobilizzazione delle cellule staminali emopoietiche74,75. Un approfondimento sui vari tipi di rG-CSF potrebbe implementare la conoscenza sugli effetti di rG-CSF e non ultimo sull’outcome dei pazienti, anche alla luce della disponibilità sul mercato di nuovi rG-CSFs: i biosimilari. In futuro sarebbe opportuno condurre trial clinici opportunamente disegnati per confrontare le diverse formulazioni di rG-CSFs, e per implementare la valutazione multifattoriale dei pazienti a rischio di sviluppare FN per i quali sia necessario intraprendere una CT76. • Bibliografia 1. Caggiano V, Weiss RV, Rickert TS, et al. Incidence, cost and mortality of neutropenia hospitalization associated with chemotherapy. Cancer 2005; 103: 1916-24. 2. Courtney DM, Aldeen AZ, Gorman SM et al. Cancer-associated neutropenic fever: clinical outcome and economic costs of emergency department care. Oncologist 2007; 12: 1019-26. 3. Kuderer NM, Dale DC, Crawford J, et al. Mortality, morbidity, and cost associated with febrile neutropenia in adult cancer patients. Cancer 2006; 106: 2258-66. 4. Elting LS, Lu C, Escalante CP, et al. Outcomes and cost of outpatient or inpatient management of 712 patients with febrile neutropenia. J Clin Oncol 2008; 26: 606-11. 5. Cameron D. Management of chemotherapy-associated febrile neutropenia. Br J Cancer 2009; 101 (suppl.): 18-22. 6. Even C, Taillade L, Spano JP, et al. Febrile neutropenia in adult patients with solid tumors: a review of literature toward a rationale and optimal management. Bull Cancer 2010; 97: 547-57. CASCO — Vol 2, n. 1, gennaio-marzo 2012

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Linee guida e pratica clinica

Antiemetici: le linee guida ASCO

Fausto Roila Sonia Fatigoni SC Oncologia Medica Azienda Ospedaliera Terni

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distanza di circa 1 anno e mezzo dalla pubblicazione delle linee guida MASCC/ESMO sulla profilassi della nausea e del vomito in pazienti sottoposti a chemioterapia e/o radioterapia anche l’ASCO ha pubblicato le sue raccomandazioni1,2. Di 14 autori delle linee guida ASCO 5 hanno firmato anche quelle MASCC/ESMO. Ne consegue che molte delle raccomandazioni sono simili. L’unica differenza importante è che le linee guida ASCO hanno abolito la distinzione fra vomito acuto e vomito ritardato nelle 4 classi in cui i farmaci antitumorali sono classificati in base al potenziale emetogeno (alto, moderato, basso e minimo), come se il vomito acuto e ritardato avessero le stesse caratteristiche. Invece noi sappiamo che per valutare gli antiemetici più efficaci nella prevenzione del vomito ritardato, data la sua dipendenza dal vomito acuto, sono richiesti studi pianificati ad hoc in cui tutti i pazienti ricevano lo stesso trattamento nelle prime 24 ore e poi siano randomizzati a ricevere i diversi trattamenti per il vomito ritardato. Nella prevenzione del vomito da farmaci antitumorali ad alto potenziale emetogeno l’ASCO raccomanda una combinazione di un 5-HT3 antagonista (giorno 1), desametasone (giorni 1-3 o 1-4) e un NK1 antagonista (giorni 1-3 se aprepitant per os, giorno 1 se fosaprepitant per via endovenosa). Lo stesso regime antiemetico è raccomandato per la combinazione di adriamicina e ciclofosfamide che l’ASCO riclassifica come altamente emetogena (invece le linee guida MASCC/ESMO la considerano tale solo nelle pazienti con carcinoma della mammella). Altra differenza è che l’ASCO, pur nella totale assenza di dati, consiglia la tripletta di antiemetici anche per gli altri farmaci ad alto potere emetogeno (dacarbazina, ciclofosfamide a dosi ≥ 1,5 g, carmustina, mecloretamina, streptozotocina e actinomicina D). Inoltre non distinguendo più fra profilassi del vomito acuto e del ritardato di fatto l’ASCO raccomanda di usare aprepitant e desametasone nei giorni successivi al primo anche nei pazienti sottoposti ad adriamicina e ciclofosfamide (per MASCC/ESMO solo aprepitant nei giorni 2 e 3 dopo la chemioterapia). Nella prevenzione del vomito indotto da chemioterapia moderatamente emetogena (antracicline non in combinazione con ciclofosfamide, ciclofosfamide a dosi < 1,5 g, oxa12

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liplatino, irinotecan, carboplatino) l’ASCO come il MASCC/ ESMO raccomanda palonosetron (giorno 1) e desametasone (giorni 1-3). Questa raccomandazione è basata su uno studio che ha evidenziato un beneficio maggiore nel controllo del vomito ritardato da farmaci moderatamente emetogeni quando si usa il palonosetron (un 5-HT3 antagonista con lunga emivita) invece del granisetron nel giorno 1. Nella prevenzione del vomito da farmaci con basso potere emetogeno (ad esempio, taxani, fluorouracile, gemcitabina, mitoxantrone, pemetrexed) viene raccomandata la somministrazione di 8 mg di desametasone immediatamente prima della chemioterapia, mentre nessuna profilassi è raccomandata quando si utilizza chemioterapia di minimo potere emetogeno (ad esempio, bleomicina, vinorelbina, vinblastina, vincristina). Questa raccomandazione è basata su opinioni in quanto non c’è alcuno studio che abbia confrontato gli steroidi con il placebo o con altri farmaci antiemetici quali metoclopramide, proclorperazina, ecc. che, insieme al desametasone, vengono suggeriti dal MASCC/ ESMO nella prevenzione del vomito acuto da farmaci di basso potere emetogeno. Le linee guida dell’ASCO (ma anche quelle MASCC/ ESMO) suggeriscono un 5-HT3 antagonista più desametasone nella prevenzione dell’emesi indotta da farmaci di alto o moderato potere emetogeno nei bambini e nella profilassi dell’emesi indotta da alte dosi di chemioterapia come utilizzate nei pazienti sottoposti a trapianto di midollo. In quest’ultimo caso, pur in assenza di studi controllati, l’ASCO suggerisce di considerare anche l’aprepitant dati gli scarsi risultati ottenuti con il 5-HT3 antagonista più il desametasone. Nei pazienti sottoposti a chemioterapia per più giorni consecutivi si raccomanda l’uso di antiemetici ogni giorno di chemioterapia e per ulteriori due giorni se appropriato. In ogni caso, e questa è una differenza rispetto alle linee guida MASCC/ESMO, se il farmaco utilizzato per più giorni come nel carcinoma del testicolo è il cisplatino, le linee guida ASCO suggeriscono di utilizzare una combinazione di desametasone, aprepitant e 5-HT3 antagonista. Tale raccomandazione è però basata sui risultati ancora preliminari di alcuni studi. Nei pazienti che presentano emesi nonostante una profilassi antiemetica ottimale l’ASCO consiglia di aggiungere al ciclo successivo lorazepam, alprazolam, o olanzapina. Oppure di sostituire il 5-HT3 antagonista con alte dosi di metoclopramide o aggiungere un antagonista dei recettori della dopamina. Non essendoci alcuno studio pubblicato su


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questo problema è ovvio che la raccomandazione è basata su opinioni. Nessuna novità anche nella profilassi dell’emesi anticipatoria: utilizzare la migliore profilassi disponibile e se insorge emesi anticipatoria ricorrere a tecniche psicologiche (ad esempio: biofeedback, ecc.). Infine la profilassi dell’emesi da radioterapia è simile a quella delle linee guida MASCC/ESMO raccomandando un 5-HT3 antagonista per tutta la durata del trattamento e desametasone per i primi 5 giorni nella profilassi nella radioterapia ad alto potenziale emetogeno (irradiazione totale corporea e irradiazione totale linfonodale) e moderato potenziale emetogeno (ad esempio l’irradiazione dell’alto addome). In quest’ultimo caso l’uso del desametasone nei primi 5 giorni è opzionale. Nella radioterapia di basso po-

tenziale emetogeno (cranio, testa-collo, pelvi e regione toracica bassa) è raccomandata una profilassi o una terapia di salvataggio con un 5-HT3 antagonista, mentre nella radioterapia di minimo potenziale emetogeno (estremità e mammella) si consiglia terapia di salvataggio con un antagonista della dopamina o con un 5-HT3 antagonista. • Bibliografia 1. Roila F, Herrstedt J, Aapro M, et al. Guideline update for MASCC and ESMO in the prevention of chemotherapy- and radiotherapyinduced nausea and vomiting: results of the Perugia consensus conference. Ann Oncol 2010; 21: (Suppl. 5): 232-43. 2. Basch E, Prestud AA, Hesketh PJ, et al. Antiemetics: American Society of Clinical Oncology Clinical Practice Guideline update. J Clin Oncol 2011; 29: 4189-98.

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Tumori e terapie di supporto

Terapia ormonale del carcinoma della mammella: complicanze e trattamento

Enzo Galligioni Oncologia Medica Ospedale Santa Chiara Trento

I

l carcinoma della mammella costituisce il 29% dei tumori maligni nelle donne, con 45.000 nuovi casi in Italia nel 2011 che a seguito dell’allungamento della vita media saranno almeno 49.000 nel 2020 e oltre 51.000 nel 20301. Il carcinoma mammario è anche la prima causa di morte per tumore nelle donne, con 12.000 decessi stimati nel 2011. Dalla fine degli anni ‘80 tuttavia, la mortalità per carcinoma mammario è in continua diminuzione, grazie alla diagnosi precoce e ai progressi terapeutici che hanno portato la sopravvivenza a 5 anni da 81% nel periodo 1990-94 a 87% nel 2000-04. Analogamente anche la sopravvivenza mediana nella fase metastatica è aumentata, con la disponibilità di nuovi farmaci e migliori terapie di supporto1. Le basi della terapia sistemica del carcinoma della mammella sono costituite dalla chemioterapia, dalla terapia ormonale, dalle terapie target e dalle terapie di supporto, ma oltre all’efficacia dei farmaci è anche la capacità di gestirne gli effetti collaterali a determinare in molti casi il risultato finale del trattamento. Per quanto riguarda la chemioterapia, la maggior parte degli effetti collaterali sono comuni a quelli già discussi nei numeri precedenti, sia nel trattamento dei tumori del polmone e del tratto gastroenterico che in maniera specifica per l’emesi, la nausea ritardata, la cardiotossicità. Tratteremo in questa sede i principali effetti collaterali della terapia ormonale.

Terapia ormonale Ha un ruolo fondamentale nella terapia del carcinoma della mammella sia in fase avanzata che adiuvante. È costituita principalmente da tamoxifen (TAM) che agisce selettivamente sui recettori ormonali estrogenici, dagli inibitori delle aromatasi (AIs) che bloccano la produzione di estrogeni a livello corticosurrenalico e periferico inibendo l’enzima aromatasi e dagli LH-RH analoghi che bloccano la produzione di estrogeni ovarici inibendo l’asse ipotalamo ipofisario. Ruolo minore hanno il fulvestrant che agisce anch’esso selettivamente sui recettori estrogenici, degradandoli, e i progestinici, di uso ormai sempre più limitato. Con l’introduzione della terapia adiuvante nella strategia terapeutica del carcinoma della mammella, milioni di donne per il resto sane 14

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hanno iniziato ad usare in tutto il mondo la terapia ormonale, per periodi di almeno 5 anni, rendendo così possibile apprezzarne compiutamente non solo i benefici ma anche gli effetti collaterali. In fase adiuvante, il TAM ottiene una riduzione significativa e duratura delle recidive e della mortalità (RR 0,70, p<0,00001) nelle pazienti con recettori estrogenici positivi2. Anche gli AIs, non steroidei (anastrozolo e letrozolo) e steroidei (exemestane), sono attivi in fase adiuvante nelle pazienti in menopausa, sia come terapia iniziale (up front) che sequenziale dopo 2-3 o 5 anni di TAM. La metanalisi di questi studi ha dimostrato che gli AIs riducono ulteriormente le recidive rispetto a TAM (p<0,00001), con riduzione anche della mortalità quando iniziati dopo 2-3 anni (p = 0,02), ma non quando utilizzati up front (p = 0,10)3. Gli effetti collaterali delle terapie ormonali sono principalmente legati all’effetto estrogenico del TAM, con perdite e sanguinamenti vaginali, rischio di carcinoma dell’endometrio e complicanze tromboemboliche, mentre con gli AIs prevalgono le artralgie, le mialgie e le fratture scheletriche4. Una recente metanalisi tuttavia ha evidenziato per gli AIs anche un significativo aumento di rischio cardiovascolare, associato a maggiori alterazioni del profilo lipidico, ma con minor rischio tromboembolico5 (tabella I). Tutte queste tossicità possono avere un impatto importante sulla qualità di vita delle pazienti e portare a riduzioni spontanee di dose o ad interruzioni del trattamento, che possono arrivare fino al 31% con TAM e al 20% con gli AIS4. Tossicità cardiovascolare e sul profilo lipidico Una maggiore incidenza di eventi cardiovascolari è stata recentemente descritta per gli AIs con un aumento del rischio relativo del 26% rispetto a TAM (OR 1,26 p<0,001). In termini assoluti la differenza non è grande (3,4 vs 4,8% rispettivamente), ma il rischio è proporzionale alla durata del trattamento e riguarda tutti gli AIs, sia steroidei che non5 (tabella I). Le cause non sono chiare: c’entrano verosimilmente il mancato effetto cardioprotettivo del TAM, l’ipercolesterolemia che è maggiore con gli AIs (OR = 2,36, P <.001) e nello studio BIG 1-98 si associa a gravi eventi cardiovascolari, ed infine la presenza di sottopopolazioni a maggior rischio. Nello studio ATAC, ad esempio, l’incidenza di eventi cardiovascolari tra le pazienti con preesistente malattia cardiaca era del 17% con anastrozolo e 10% con TAM5,6.

Raccomandazioni – Nel 2008 la Food and Drug Administration (FDA) ha consigliato cautela nell’uso di ana-


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Tabella I. Tossicità da tamoxifen e inibitori delle aromatasi: metanalisi di 7 studi adiuvanti randomizzati con 30.023 pazienti5.

Tamoxifen

Inibitori aromatasi

Incidenza assoluta

Incidenza assoluta

OR Complessivo vs TAM

p

Sequenza vs up front

Eventi cardiovascolari

3,4%

4,2%

OR = 1,26 95% CI = 1,10 to 1,43

p < .001

OR = 1,15 95% CI = 0,93 to 1,41, P = .20

Eventi cerebrovascolari

1,5%

1,4%

OR = 1,01 95% CI = 0,81 to 1,26

p = .93

NS

Trombosi venose

2,8%

1,6%

OR = 0,55 95% CI = 0,46 to 0,64

p < .001

NS

Fratture scheletriche

5,2%

7,5%

OR = 1,47 95% CI = 1,34 to 1,61

p < .001

NS

Carcinoma dell’endometrio

0,5%

0,1%

OR = 0,34 95% CI = 0,22 to 0,53

p < .001

NS

Secondi tumori

4,8%

4,7%

OR = 0,98 95% CI = 0,85 to 1,14

p = .83

p=0.02*

Ipercolesterolemia**

ND

ND

OR = 2,36 95% CI = 2,15 to 2,60

p < .001

OR = 1,71 95% CI = 1,38 to 2,13, P < .001*

Morte senza recidiva

4,1%

4,2%

OR = 1,11 95% CI = 0,98 to 1,26

p = .09

OR = 0,87 95% CI = 0,77 to 0,99, p = .03*

*La terapia sequenziale può ridurre il rischio; **indagata formalmente solo in 4 studi.

strozolo adiuvante nelle pazienti con precedente malattia ischemica cardiaca. È importante quindi di monitorare la situazione cardiovascolare ed il profilo lipidico delle pazienti in trattamento con AIs, particolarmente quelle con fattori di rischio cardiovascolare, nelle quali il danno potenziale potrebbe prevalere sulla eventuale riduzione delle recidive. Fratture ossee L’effetto protettivo degli estrogeni sull’osso è abolito dagli AIs, che riducendo i livelli di estrogeni ne aumentano il riassorbimento favorendo l’osteoporosi. Questa è maggiore in presenza di osteopenia, è proporzionale alla durata del trattamento ma è reversibile al termine della terapia. La metanalisi dimostra un aumento del 47% del rischio di fratture per gli AIs rispetto al TAM4, ma non ci sono differenze significative tra AIs up front e sequenziali, come se l’effetto protettivo della precedente terapia con TAM venisse annullato dalla successiva terapia con AIs5 (tabella I).

Disturbi muscolo-articolari Dolori alle mani o ai polsi, rigidità mattutina o aggravamento di artralgie preesistenti sono i sintomi principali che compaiono nel 18-36% delle pazienti in trattamento con AIs. L’etiopatogenesi è sconosciuta ma è legata alla carenza estrogenica4. Questi disturbi sono comuni a tutti gli AIs, usati sia up front che in sequenza, sono raramente severi (<10%) e regrediscono al termine della terapia6.

Raccomandazioni – È importante informare fin da subito le pazienti sulla eventuale comparsa di questi disturbi e sul fatto che tendono a ridursi dopo i primi mesi. Per il trattamento sintomatico i farmaci antinfiammatori, vitamina D e gli analgesici ottengono buoni risultati nella maggior parte dei casi, ma talora sono necessari farmaci oppioidi, difosfonati e/o ipnotici. Possono essere utili anche l’esercizio fisico, i massaggi, e l’agopuntura. Nel caso di sintomatologia intollerabile, il passaggio ad un altro AI o a TAM consente nella maggior parte dei casi di proseguire il trattamento4.

Raccomandazioni – Tutte le pazienti candidate a terapia con AIs dovrebbero ricevere una valutazione basale della Densità Minerale Ossea (BMD) ed un successivo monitoraggio annuale. Sul piano terapeutico è raccomandato uno stile di vita attivo, con riduzione del peso (nei casi in sovrappeso) e la supplementazione di calcio e di vitamina D. L’uso dei difosfonati è raccomandato solo nelle pazienti con franca osteoporosi (T-score <-2,5), precedenti fratture o calo della BMD >5% annuo. In tali casi andrebbe corretta se necessario la deficienza di vitamina D ed instaurata una terapia con difosfonati (acido zoledronico 4 mg ogni 6 mesi), che dovrebbe proseguire per almeno 2 anni4.

Effetti ginecologici Sono in parte dovuti all’effetto estrogenico del TAM sull’apparato genitale. Le pazienti trattate con TAM per 5 anni presentano un aumento del rischio di carcinoma dell’endometrio (OR 2,58 p < 0,00001) e del corrispondente rischio di morte (p=0,0008), ma questo effetto è praticamente assente sotto i 55 anni2. Negli studi di confronto tra TAM e AIs l’incidenza assoluta di carcinoma dell’endometrio è di 0,5% e 0,1% rispettivamente, con una riduzione del rischio per AIs del 66% (OR = 0,34 p < .001)5. Anche se raro, il carciCASCO — Vol 2, n. 1, gennaio-marzo 2012

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noma dell’endometrio è un problema serio che va considerato in tutte le donne che presentano perdite o sanguinamenti vaginali sotto terapia con TAM o AIs6. Le vampate di calore sono già presenti in molte donne in menopausa, ma aumentano con la terapia ormonale, fino al 33-35% con AIs e al 38-41% con TAM (p < 0,001)6. A causa dei bassi livelli di estrogeni, le pazienti trattate con AIs soffrono spesso di secchezza e atrofia vaginale, con vaginiti, prurito, dispareunia, riduzione della libido, che possono incidere significativamente sulla qualità di vita ed indurre alla interruzione della terapia4.

Raccomandazioni – Per le pazienti in terapia con TAM è raccomandata una visita ginecologica annuale, mentre l’ecografia transvaginale e la sorveglianza endometriale sono indicate solo per le pazienti sintomatiche o ad alto rischio4. Per le vampate di calore possono essere utili modificazioni dello stile di vita, agopuntura e training autogeno, riservando ai casi più severi la terapia farmacologica con venlafaxina, citalopram, gabapentina, pregabalin7. Per l’atrofia urogenitale, le vaginiti e la secchezza vaginale, sono indicate specifiche terapie non ormonali e lubrificanti. Le creme vaginali con basse dosi di estrogeni devono essere riservate ai casi più gravi, ricordando il possibile assorbimento sistemico degli estrogeni4. Eventi tromboembolici Rappresentano una importante tossicità da TAM ma sono rari nelle donne sotto i 55 anni2,8. Con gli AIs il rischio è ridotto del 45% rispetto a TAM (OR = 0,55 P < .001), con una incidenza assoluta di 1,6% vs 2,8% rispettivamente (tabella I). Non ci sono differenze significative tra AIs up front e sequenziali, come ad indicare che il rischio associato a 2-3 anni di TAM non viene ridotto dalla successiva terapia con AIs5.

Raccomandazioni – Il TAM non dovrebbe essere usato nelle pazienti a rischio tromboembolico (obesità, malattie cardiovascolari, alterazioni lipidiche, storia personale o familiare di tromboembolismo), particolarmente se con età >55 anni8. Il rischio aumenta con la durata della terapia, che non dovrebbe superare quindi i 5 anni. Eventi cerebrovascolari Sono poco frequenti, senza differenze significative tra AIs e TAM (1,4% e 1,5% rispettivamente)5. Secondo tumore Non ci sono differenze significative per rischio di secondo tumore, sia per TAM vs placebo,2 che per AIs vs TAM (OR = 0,98, p = 0,83)5 (tabella I). Disturbi cognitivi Gli estrogeni hanno effetti positivi a livello cerebrale, ma la loro correlazione con le funzioni cognitive è complessa e poco si conosce sui possibili effetti della terapia ormonale9. In una indagine online su 1199 donne in trattamento con 16

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AIs, circa la metà riferiva un qualche grado di confusione mentale, ma solo il 2% presentava deficit cognitivi e solo il 3% aveva sospeso il trattamento4. In uno studio con anastrozolo verso placebo non sono emerse differenze per i molti parametri cognitivi valutati all’inizio, a 6 mesi e dopo 2 anni10. Anche i modesti rallentamenti mentali e riduzioni della memoria verbale, riportati negli studi ATAC, TEAM, BIG 1-98, non erano più rilevabili ad 1 anno dal trattamento4. Non sembra infine che ci sia associazione tra deficit cognitivi e ansia, depressione, astenia, sindrome menopausale11.

Raccomandazioni – L’impatto negativo degli Als sulle funzioni cognitive non è dimostrato. È sufficiente quindi avvisare le pazienti che se anche tali disturbi dovessero comparire sono destinati a regredire al termine della terapia.9 Morte senza recidiva Il rischio di morte senza recidiva è sovrapponibile per TAM e AIs valutati complessivamente (OR 1,11 p = 0,09)5 (tabella I). Questo rischio tuttavia appare ridotto del 13% (OR = 0,87 p = 0,03) per gli AIs sequenziali rispetto a TAM e agli AIs up front e potrebbe indicare una diminuzione di tossicità cumulativa. Questa potrebbe essere rilevante ad esempio per le pazienti anziane, come nello studio ATAC in cui l’età e il numero crescente di comorbilità erano associati ad un sostanziale aumento del rischio di morte senza recidiva5. Fulvestrant e LH-RH analoghi Poco c’è da aggiungere per gli LH-RH analoghi in quanto i loro effetti collaterali sono sostanzialmente sovrapponibili a quelli trattati precedentemente. Fulvestrant non possiede attività estrogenica come il TAM ed i suoi effetti collaterali consistono principalmente in nausea, vampate di calore, cefalea, dolore in sede di iniezione e talora reazioni allergiche: sono complessivamente modesti e richiedono la sospensione del trattamento in non più del 2-3% dei casi. Mancano dati di tossicità a lungo termine perché finora è stato studiato nella malattia avanzata12. Conclusioni È chiaro ormai che i benefici della terapia ormonale possono essere annullati almeno in parte dagli effetti collaterali, che richiedono ai clinici una sempre maggiore attenzione. Tra questi, assumono nuova importanza gli effetti cardiovascolari degli AIs, anche se le differenze sono modeste in termini assoluti. Qualunque conclusione sulla migliore strategia di utilizzo degli AIs è al momento prematura, ma l’aumento di sopravvivenza osservato con gli AIs sequenziali, che presentano anche una riduzione del rischio di morte senza recidiva, richiede una maggiore attenzione alla tossicità di questi trattamenti e migliori criteri predittivi, che tengano conto anche del rischio cardiovascolare ed osseo, tali da offrire la giusta terapia personalizzata ad ogni paziente. •


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Bibliografia 1. I numeri del Cancro in Italia 2011 (AIOM-AIRTUM). Intermedia Brescia, 2011. 2. Early Breast Cancer Trialists’ Collaborative Group (EBCTCG), et al. Relevance of breast cancer hormone receptors and other factors to the efficacy of adjuvant tamoxifen: patient-level metaanalysis of randomised trials. Lancet 2011; 378: 771-84. 3. Dowsett M, Cuzick J, Ingle J, et al. Meta-analysis of breast cancer outcomes in adjuvant trials of aromatase inhibitors versus tamoxifen. J Clin Oncol 2010; 28: 509-18. 4. Dent SF, Gaspo R, Kissner M, Pritchard KI. Aromatase inhibitor therapy: toxicities and management strategies in the treatment of postmenopausal women with hormone-sensitive early breast cancer. Breast Cancer Res Treat 2011; 126: 295-310. 5. Amir E, Seruga B, Niraula S, Carlsson L, Ocaña A. Toxicity of adjuvant endocrine therapy in postmenopausal breast cancer patients: a systematic review and meta-analysis. J Natl Cancer Inst 2011; 103: 1299-309. 6. Perez EA. Safety profiles of tamoxifen and the aromatase inhibitors in adjuvant therapy of hormone-responsive early breast cancer. Ann Oncol 2007; 18 (Supplement 8): viii26-viii35.

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Gestione eventi avversi

Eventi avversi da bevacizumab

Claudia Caserta SC Oncologia Medica Azienda Ospedaliera Terni

Introduzione I recenti progressi nella conoscenza della biologia e delle anomalie genetiche del cancro hanno portato all’identificazione di uno svariato numero di target molecolari, cruciali per i processi di carcinogenesi, crescita e progressione del tumore. Nell’ultimo decennio, parecchi nuovi farmaci sono stati sviluppati per inibire uno o diversi target molecolari. L’angiogenesi è uno dei processi critici per la crescita dei tumori e lo sviluppo di metastasi ed è un complesso processo “multistep” regolato dal bilancio tra fattori che stimolano l’angiogenesi e fattori che la inibiscono1. Il Vascular Endothelial Growth Factor (VEGF) è un mediatore essenziale dell’angiogenesi tumorale e l’inibizione dell’angiogenesi attraverso il blocco del VEGF è emersa come una strategia terapeutica efficace nel trattamento di diversi tipi di tumori2. Il bevacizumab è un anticorpo monoclonale, umanizzato che lega con alta affinità e neutralizza le isoforme attive del VEGF, impedendo l’attivazione del recettore del VEGF e prevenendo il segnale proangiogenetico. Negli studi clinici, il bevacizumab ha dimostrato di migliorare i risultati nel trattamento di pazienti affetti da diversi tipi di tumori, incluso il carcinoma metastatico del colonretto3,4, del polmone5,6, della mammella7, del rene8,9, il carcinoma dell’ovaio10,11 e i gliomi di alto grado12. Il bevacizumab è stato somministrato in monoterapia oppure in combinazione con la chemioterapia citotossica o con l’interferon-alfa (nel carcinoma renale). Sebbene il trattamento con bevacizumab sia complessivamente ben tollerato, dagli studi clinici che hanno incluso oltre 250.000 pazienti e dalla sorveglianza post marketing sono emersi alcuni eventi avversi specifici, prevalentemente correlati all’inibizione dell’angiogenesi e del VEGF. I più comuni effetti collaterali sono l’ipertensione arteriosa, la proteinuria, l’emorragia mucocutanea, che sono generalmente di lieve o moderata gravità e di agevole gestione clinica. In corso di terapia con bevacizumab possono verificarsi anche alcuni eventi avversi gravi e più rari, come la perforazione gastrointestinale, gli eventi tromboembolici arteriosi e venosi, lo scompenso cardiaco congestizio, la perforazione del setto nasale e la sindrome della leucoencefalopatia reversibile posteriore, che devono essere monitorati attentamente e prontamente trattati e che possono richiedere l’interruzione 18

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della terapia. Diversamente da quanto siamo abituati a fare con i farmaci chemioterapici, quando i pazienti sviluppano effetti collaterali dovuti al bevacizumab, il farmaco dovrebbe essere temporaneamente interrotto o discontinuato, piuttosto che somministrato a dose ridotta. In questo articolo verranno descritti in dettaglio i principali effetti collaterali del bevacizumab con particolare attenzione alla loro prevenzione, al monitoraggio e al trattamento. Ipertensione L’ipertensione arteriosa è il più comune evento avverso osservato nei pazienti che ricevono una terapia con bevacizumab. L’incidenza di ipertensione di qualsiasi grado in corso di terapia con bevacizumab è stata riportata nel 1535% dei pazienti nei diversi studi clinici. In una recente metanalisi, che ha incluso 12.656 pazienti da 20 studi randomizzati, l’incidenza di ipertensione nei pazienti trattati con bevacizumab è stata del 23,6% con un 7,9% di ipertensione di grado 3-413. L’incidenza di ipertensione potrebbe tuttavia essere stata sottostimata negli studi clinici a causa delle differenti definizioni e classificazioni di ipertensione usate nei diversi trial e della scarsa frequenza con cui venivano effettuate le misurazioni della pressione arteriosa tra i pazienti ambulatoriali. Inoltre, solo recentemente il sistema per la definizione e classificazione della gravità degli eventi avversi da chemioterapia usato dal National Cancer Institute è stato aggiornato in modo da riflettere più strettamente le nuove linee guida internazionali per la prevenzione, diagnosi e trattamento dell’ipertensione arteriosa14,15. Infine, i pazienti della popolazione generale potrebbero avere più comorbilità rispetto ai pazienti altamente selezionati degli studi clinici e potrebbero avere pertanto un maggiore rischio di sviluppare ipertensione in seguito alla terapia con bevacizumab. L’esatto meccanismo patofisiologico dell’ipertensione indotta da bevacizumab non è interamente conosciuto. L’inibizione del pathway del VEGF potrebbe portare ad una riduzione della sintesi di ossido nitrico e dell’attività delle prostacicline determinando un’alterazione della permeabilità vascolare, favorendo la vasocostrizione e portando ad un aumento delle resistenze periferiche e quindi della pressione arteriosa. Un altro meccanismo che potrebbe contribuire a spiegare la patogenesi dell’ipertensione indotta dal bevacizumab è la rarefazione cioè la diminuzione della densità delle arteriole e dei capillari nei tessuti normali indotta dall’inibizione del VEGF. Infine, l’inibizione del VEGF potrebbe


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causare una disfunzione dell’endotelio delle arterie che può condurre ad un aumento della rigidità delle arterie16,17. Seppure in assenza di dati da studi prospettici, alcuni aspetti che riguardano la prevenzione e il trattamento dell’ipertensione indotta dal bevacizumab dovrebbero essere enfatizzati. Il primo aspetto è la raccolta accurata dell’anamnesi patologica del paziente, con particolare attenzione alla storia familiare e personale di ipertensione arteriosa sistemica, patologie cardio e cerebrovascolari, diabete mellito, insufficienza renale cronica. Il secondo aspetto critico è quello di trattare in modo aggressivo l’ipertensione arteriosa prima di iniziare la terapia con bevacizumab. Secondo le raccomandazioni del Joint National Committe for Prevention, Detection, Evaluation and Treatment of High Blood Pressure il valore normale della pressione arteriosa dovrebbe essere <140/90 mmHg (<130/80 mmHg nel paziente con insufficienza renale)15 e questo dovrebbe essere il goal del trattamento antiipertensivo anche nei pazienti affetti da cancro prima e durante la terapia con bevacizumab. La comparsa di ipertensione arteriosa può avvenire in qualsiasi momento dopo l’inizio della terapia con bevacizumab e pertanto il monitoraggio della pressione arteriosa dovrebbe essere effettuato con frequenza settimanale o almeno prima di ogni somministrazione del farmaco (ogni 23 settimane) o anche giornaliera nei pazienti ad alto rischio (quelli con ipertensione preesistente o con altri fattori di rischio cardiovascolari). Inoltre dovrebbero essere incoraggiati cambiamenti dello stile di vita, inclusi la riduzione dell’assunzione di alcolici e cibi salati, l’astensione dal fumo di sigaretta e il consiglio a svolgere una modica attività fisica. Poiché la terapia con bevacizumab può indurre la comparsa di proteinuria, un esame delle urine dovrebbe essere eseguito prima di iniziare la terapia. La terapia antiipertensiva ottimale nei pazienti che ricevono bevacizumab non è stata definita. Nella scelta della terapia antiipertensiva dovrebbero essere considerati parecchi fattori, come la terapia farmacologica eventualmente in atto, la presenza o assenza di segni di danno agli organi bersaglio, le malattie concomitanti, il profilo di rischio del paziente, le preferenze del paziente e del medico. Molti autori suggeriscono di iniziare come prima linea della terapia antiipertensiva, in assenza di controindicazioni, un farmaco inibitore dell’enzima di conversione dell’angiotensina, poiché questi farmaci sono molto efficaci nel ridurre la pressione arteriosa e la proteinuria. Un’alternativa è rappresentata dai calcio-antagonisti (in particolare l’amlodipina o la felodipina) o dai beta-bloccanti18. Dopo l’avvio della terapia antiipertensiva è raccomandato uno stretto monitoraggio clinico del paziente e nella maggior parte dei casi si riesce a gestire con successo l’ipertensione usando una o più classi di farmaci. Se i valori della pressione arteriosa non accennano a scendere sotto 165 mmHg di pressione sistolica e 100 mmHg di pressione diastolica, si consiglia di interrompere la terapia con bevacizumab, di modificare la dose o la classe di farmaco antiipertensivo o di iniziare una terapia di combinazione e di riprendere la terapia con bevacizumab solo in caso di nor-

malizzazione dei valori di pressione arteriosa. Nei rari casi (<1%) di ipertensione di grado 3 refrattaria al trattamento antiipertensivo e di ipertensione di grado 4, la terapia con bevacizumab dovrebbe essere interrotta permanentemente19. Proteinuria La proteinuria è un evento avverso frequente nei pazienti che ricevono bevacizumab. Negli studi di fase II e III la proteinuria di ogni grado è stata osservata nel 21-35% dei pazienti. Generalmente la proteinuria è asintomatica, non è associata ad insufficienza renale e raramente richiede l’interruzione della terapia con bevacizumab. Casi di proteinuria di grado 3 o 4 (sindrome nefrosica) sono molto rari (<1%)20,21. Il meccanismo patogenetico della proteinuria non è ancora completamente chiarito. Il VEGF è probabilmente implicato nei processi di riparazione dell’endotelio glomerulare per cui l’inibizione del VEGF potrebbe interferire con l’integrità dell’endotelio glomerulare, determinare una microangiopatia trombotica e un difetto di filtrazione della barriera glomerulare renale e quindi proteinuria22. I pazienti dovrebbero eseguire un esame delle urine per la ricerca della proteinuria prima di iniziare la terapia con bevacizumab e poi ripeterlo prima di ogni somministrazione di bevacizumab. In caso di dipstick ≥ 2 + dovrebbe essere misurata la proteinuria sulla raccolta di urine delle 24 ore e in caso di proteinuria ≥ 2gr/24 ore si dovrebbe interrompere la terapia con bevacizumab fino alla riduzione del valore della proteinuria. In caso di segni e sintomi di sindrome nefrosica il trattamento con bevacizumab dovrebbe essere interrotto in maniera definitiva. Emorragia Emorragie minori, prevalentemente dalle superfici mucose come l’epistassi, sono un evento avverso comune, osservato nel 20-40% dei pazienti trattati con bevacizumab. Gli eventi emorragici gravi sono rari, ma potenzialmente fatali e nei vari studi sono stati riportati in meno del 5% dei pazienti trattati con bevacizumab. Le emorragie severe possono verificarsi nella sede del tumore, come le emorragie polmonari nei pazienti con tumore del polmone o intestinali nei pazienti con carcinoma del colon-retto, oppure in sedi non coinvolte dal tumore, come le emorragie cerebrali in pazienti senza metastasi cerebrali23. In uno studio di fase II, condotto in pazienti affetti da tumore del polmone non-microcitoma che ricevevano bevacizumab in combinazione alla chemioterapia con carboplatino e paclitaxel, è stata riportata un’incidenza del 9% di emorragia polmonare grave o fatale. L’istologia squamosa e la localizzazione centrale del tumore sono state identificate come i principali fattori di rischio associati all’emorragia polmonare24. Nei successivi studi di fase III in cui sono stati esclusi i pazienti con storia di emottisi, con istologia squamosa e con tumori che invadono i grossi vasi, l’incidenza di emorragia polmonare grave si è ridotta a meno dell’1,5%5,6. Il rischio di emorragia cerebrale potenzialmente fatale nei pazienti affetti da metastasi cerebrali non è noto poiché questi pazienti sono stati CASCO — Vol 2, n. 1, gennaio-marzo 2012

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esclusi dalla maggior parte degli studi di fase II e III. Comunque, in uno studio di fase II in cui il bevacizumab veniva somministrato da solo o in combinazione con l’irinotecan in pazienti affetti da glioblastoma, l’incidenza di emorragia cerebrale di ogni grado è stata del 2,4% nel braccio con bevacizumab e del 3,8% nel braccio del bevacizumab più irinotecan, con un solo caso di emorragia cerebrale di grado ≥3 (1,3%)12. Sebbene il meccanismo responsabile delle emorragie osservate con il bevacizumab non sia chiaro, esso è probabilmente dovuto al ruolo svolto dal VEGF sull’endotelio normale dei vasi sanguigni25. L’inibizione del VEGF potrebbe ridurre la capacità delle cellule endoteliali di rispondere ai danni indotti dai traumi e aumentare l’apoptosi delle cellule endoteliali, aumentando il rischio di sanguinamento26. I pazienti che ricevono bevacizumab devono essere attentamente monitorati per il rischio di emorragia. La maggior parte degli eventi emorragici è di lieve entità (epistassi, gengivorragie), generalmente si risolvono senza alcun trattamento specifico e non richiedono l’interruzione della terapia con bevacizumab. Nel caso di emorragie severe può essere necessario ricorrere a trasfusioni di sangue, a terapie di rianimazione, a manovre per il controllo del sanguinamento fino all’intervento chirurgico. In questi casi la terapia con bevacizumab deve essere interrotta26. Il bevacizumab dovrebbe essere usato con cautela nei pazienti con coagulopatie congenite o acquisite note, mentre la presenza di piastrinopenia indotta dalla chemioterapia non sembra aumentare il rischio di emorragia. L’uso concomitante al trattamento con bevacizumab di una terapia anticoagulante o antiaggregante a dose profilattica non sembra aumentare il rischio di emorragie gravi, mentre i pazienti sottoposti a una terapia anticoagulante o antiaggregante a dose terapeutica erano esclusi dagli studi clinici di fase III. Gli eventi tromboembolici che richiedono una terapia anticoagulante a dose terapeutica, sia con eparina a basso peso molecolare sia con warfarin, sono molto frequenti nei pazienti affetti da cancro e le complicanze emorragiche associate alla terapia anticoagulante sono più comuni in questo gruppo di pazienti. In un’analisi retrospettiva di tre studi randomizzati, placebo-controllati, che hanno coinvolto pazienti con tumore del colon-retto e del polmone, è stato analizzato il rischio di emorragia nei pazienti che avevano ricevuto una terapia anticoagulante a dose terapeutica per una complicanza tromboembolica venosa durante la terapia con bevacizumab. L’incidenza di emorragie gravi nel gruppo di pazienti che hanno ricevuto terapia con bevacizumab è stata simile rispetto a quella dei pazienti trattati con placebo (rischio globale di emorragie gravi con bevacizumab 4,1% e 4,2% con placebo)27. Tromboembolismo Nei vari studi clinici l’incidenza di eventi tromboembolici venosi nei pazienti che ricevevano bevacizumab insieme alla chemioterapia è stata estremamente variabile e comunque simile a quella riportata nei pazienti che ricevevano solo la chemioterapia (2,8%-17,3% verso 3,2%-15,2%). Tuttavia, una recente metanalisi, che ha incluso i risultati di 15 studi 20

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randomizzati per un totale di 7956 pazienti, ha rilevato un’incidenza significativamente aumentata di eventi tromboembolici venosi di ogni grado nei pazienti trattati con bevacizumab rispetto ai pazienti che non avevano ricevuto bevacizumab (11,9% verso 6,3% rispettivamente), con un rischio relativo di tromboembolia venosa pari a 1,33 nei pazienti trattati con bevacizumab rispetto ai controlli (p=0,001). E inoltre, il rischio di tromboembolia sembra indipendente dalla dose di bevacizumab somministrata28. Nel caso di un evento grave, di grado 3 o 4, la terapia con bevacizumab dovrebbe essere interrotta per due settimane e poi ripresa proseguendo la terapia anticoagulante. Anche l’incidenza di eventi trombotici arteriosi (ischemia cerebrale transitoria, ictus cerebrale, infarti del miocardio) appare aumentata nei pazienti trattati con bevacizumab. In un’analisi retrospettiva dei risultati di cinque studi randomizzati, che ha incluso 1745 pazienti con tumore metastatico del colon, della mammella e del polmone, è stata riportata un’incidenza di eventi trombotici arteriosi del 3,8% con bevacizumab più chemioterapia e dell’1,7% con chemioterapia da sola (p=0.031). La mortalità per eventi trombotici arteriosi è stata dello 0,62% nel gruppo dei pazienti trattati con bevacizumab e dello 0,26% nel gruppo della chemioterapia. In questa analisi sono risultati fattori di rischio significativi per lo sviluppo di complicanze trombotiche arteriose nei pazienti che ricevono bevacizumab una storia di pregressi eventi trombotici arteriosi e un’età ≥65 anni29. Il VEGF svolge un ruolo essenziale nel mantenere l’integrità dei vasi sanguigni e nell’indurre l’espressione di fattori antiapoptotici. Pertanto l’inibizione del VEGF può causare una maggiore vulnerabilità dell’endotelio e la conseguente esposizione dei fosfolipidi subendoteliali che può scatenare la cascata della coagulazione. Inoltre questi effetti possono essere aumentati da alcuni agenti chemioterapici. La durata della terapia con bevacizumab non sembra influenzare l’incidenza di eventi trombotici. Nello studio osservazionale BRITE non è stata riportata una differenza statisticamente significativa nell’incidenza di eventi trombotici arteriosi nei pazienti che hanno ricevuto bevacizumab per un periodo < 12 mesi o ≥ 12 mesi (2,1% verso 0,7%)30. Nel caso di un evento trombotico arterioso di qualsiasi grado, il trattamento con bevacizumab dovrebbe essere interrotto definitivamente. Particolare attenzione deve essere riservata ai pazienti che dovrebbero ricevere terapia con bevacizumab e sono ad alto rischio di sviluppare eventi trombotici arteriosi, come i pazienti di età ≥65 anni e quelli con una storia di malattie cardiovascolari o cerebrovascolari. In questi casi l’efficacia della terapia antiaggregante o anticoagulante come profilassi degli eventi trombotici arteriosi deve essere ulteriormente indagata. L’uso profilattico di basse dose di aspirina (<325mg/die) potrebbe essere considerato nei pazienti ad alto rischio, in assenza di controindicazioni29. Cicatrizzazione delle ferite Il VEGF è un mediatore essenziale di parecchi processi coinvolti nella riparazione tessutale e nella cicatrizzazione


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delle ferite31. L’inibizione del VEGF blocca la crescita e la maturazione dei vasi sanguigni cruciali nel processo di cicatrizzazione. Gli effetti del bevacizumab sulla cicatrizzazione delle ferite in seguito ad un intervento chirurgico sono stati valutati in un’analisi retrospettiva degli studi di fase II e III nei pazienti affetti da carcinoma del colon-retto32. Nei pazienti sottoposti ad un intervento chirurgico almeno 28 giorni ma non più di 60 giorni prima di iniziare la terapia con bevacizumab, non è stato evidenziato un aumento del rischio di complicanze nella cicatrizzazione delle ferite rispetto ai pazienti che avevano ricevuto solo la chemioterapia (0,5% con bevacizumab più chemioterapia verso 1,3% con chemioterapia, p=0,63). Invece, tra i pazienti sottoposti a chirurgia durante terapia con bevacizumab l’incidenza di complicanze delle ferite è stata maggiore rispetto a quella dei pazienti che ricevevano solo chemioterapia (13,3% bevacizumab più chemioterapia verso 3,4% chemioterapia, p=0,28). Gli incoraggianti risultati di questa analisi retrospettiva e di molti altri studi suggeriscono che bevacizumab può essere usato con sicurezza anche nel setting neoadiuvante e adiuvante. Per prevenire le complicanze postchirurgiche e della guarigione delle ferite è essenziale iniziare la terapia non prima di 28 giorni dalla chirurgia e interrompere la terapia con bevacizumab almeno 8 settimane prima dell’intervento chirurgico32, anche se i risultati di uno studio più recente suggeriscono che sia sufficiente e sicura anche una sospensione della terapia di solo 5 settimane33. Il rischio di complicanze può essere influenzato dall’esperienza del chirurgo e da svariati fattori correlati al paziente, quali età, sesso, stato nutrizionale, malattie concomitanti, abitudine al fumo, perdite ematiche perioperatorie, peritonite e pregressi interventi chirurgici34. Perforazione gastrointestinale La perforazione gastrointestinale è un evento avverso raro e potenzialmente fatale nei pazienti che ricevono terapia con bevacizumab. L’incidenza di questo evento è stata riportata nel 2,6-2,8% delle pazienti con carcinoma dell’ovaio10,11, è inferiore al 2% negli studi clinici randomizzati nei pazienti con carcinoma del colonretto35, mentre tra i pazienti affetti da carcinoma del polmone, mammella e rene l’incidenza di perforazione intestinale è stata inferiore all’1%5-9. Il meccanismo patogenetico della perforazione intestinale non è completamente noto ed è probabilmente multifattoriale. La perforazione dell’intestino può verificarsi nella sede del tumore, ma anche in un tratto dell’intestino lontano dalla sede del tumore e può presentarsi, sia pure con minore frequenza, anche nei pazienti che non hanno localizzazioni neoplastiche nel colonretto o nell’addome. I fattori di rischio che predispongono all’insorgenza di una perforazione intestinale in corso di terapia con bevacizumab non sono stati identificati con certezza, a causa anche del basso numero di eventi negli studi clinici. Alcuni autori hanno suggerito come fattori di rischio la presenza di carcinosi peritoneale, di occlusione intestinale, un intervento di chirurgia sull’intestino nei due mesi precedenti, una recente colonscopia, una storia di malattia diverticolare del colon, ul-

cera peptica gastrica, ascesso intraddominale, la terapia cronica con corticosteroidi35,36. I pazienti trattati con bevacizumab dovrebbero essere monitorati con attenzione per la comparsa di segni e sintomi precoci di perforazione gastrointestinale, quali vomito, stipsi e dolore addominale, e dovrebbero essere prontamente trattati. Nel caso di perforazione gastrointestinale il bevacizumab dovrebbe essere interrotto definitivamente. Perforazione del setto nasale La perforazione del setto nasale è una complicanza molto rara della terapia con bevacizumab37,38. Il suo esatto meccanismo patogenetico non è chiaro. Probabilmente la perforazione del setto nasale è favorita dalla riduzione della vascolarizzazione della mucosa nasale indotta dall’inibizione dell’angiogenesi da parte del bevacizumab che determina la necrosi e la perforazione della cartilagine nasale. Una diagnosi rapida è importante e dovrebbe essere sospettata nel caso di comparsa di sintomi nasali quali dolore, irritazione o congestione nasale, rinorrea, epistassi e croste in un paziente sottoposto a terapia con bevacizumab. Nel sospetto di perforazione del setto nasale il paziente deve essere visitato dallo specialista otorinolaringoiatra e sottoposto ad una rinoscopia anteriore. Le perforazioni del setto nasale sono di solito autolimitanti e non richiedono l’interruzione della terapia con bevacizumab. Ai pazienti si dovrebbe suggerire di evitare manipolazioni di eventuali lesioni e croste nasali, di evitare l’uso di spray nasali e l’inalazione di droghe. Scompenso cardiaco congestizio Casi di scompenso cardiaco congestizio sono stati riportati solo occasionalmente come eventi avversi associati al bevacizumab nella maggior parte degli studi che hanno coinvolto pazienti affetti da carcinoma del colonretto, del polmone, del rene e dell’ovaio. Recentemente sono stati pubblicati i risultati di una metanalisi di 5 studi randomizzati, controllati condotti con bevacizumab in pazienti affette da carcinoma metastatico della mammella39. Tutti gli studi prevedevano un braccio di controllo, rappresentato in tre studi dal placebo e in due studi dalla chemioterapia. Un totale di 3784 pazienti sono state incluse in questa analisi; tutte le pazienti avevano ricevuto una precedente chemioterapia con antracicline mentre erano escluse da questi studi le donne con una storia di ipertensione non controllata, scompenso cardiaco congestizio, angina o infarto recente. I risultati della metanalisi hanno mostrato un aumento del rischio di scompenso cardiaco nelle donne trattate con bevacizumab rispetto a quelle del braccio di controllo o placebo, con un’incidenza globale di scompenso cardiaco dell’1,6% e dello 0,4% rispettivamente. Il rischio relativo di sviluppare scompenso cardiaco congestizio è stato circa 5 volte maggiore nelle pazienti trattate con bevacizumab rispetto a quelle che non avevano ricevuto bevacizumab (RR 4,74, p=0,001). L’incidenza di scompenso cardiaco non sembra essere influenzata dalla dose di bevacizumab né dal tipo di chemioterapia concomitante somministrata. I risultati di CASCO — Vol 2, n. 1, gennaio-marzo 2012

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questa metanalisi devono essere interpretati con cautela per varie ragioni: innanzitutto perché si tratta di un’analisi retrospettiva, è una metanalisi degli studi pubblicati e non dei dati dei singoli pazienti e perché ci sono poche informazioni sui possibili fattori di rischio che predispongono allo scompenso cardiaco, come la dose cumulativa di antracicline ricevuta, la precedente radioterapia, le comorbilità cardiovascolari, l’obesità, il diabete40. La patogenesi della cardiotossicità da bevacizumab è sconosciuta. Il bevacizumab è associato con un significativo incremento del rischio di ipertensione e lo stress ipertensivo può risultare in un’ischemia dei miocardiociti. Il danno ischemico del miocardio può attivare diversi fattori proangiogenetici, tra cui il VEGF. Il VEGF è importante nella riparazione del danno del miocardio poiché determina vasodilatazione, stimola la proliferazione delle cellule endoteliali, mantiene la densità dei capillari nel miocardio e favorisce l’ipertrofia compensatoria del ventricolo sinistro40. L’inibizione del VEGF da parte del bevacizumab potrebbe promuovere, in caso di un danno del miocardio da un precedente insulto, una rapida evoluzione dall’ipertrofia compensatoria allo scompenso41. Alcuni autori suggeriscono inoltre che la cardiotossicità osservata con il bevacizumab sia reversibile dopo la sospensione della terapia42,43. Ulteriori studi prospettici dovrebbero chiarire in maniera più rigorosa il potenziale rischio di scompenso cardiaco congestizio associato alla terapia con bevacizumab, il tempo di insorgenza, l’evoluzione clinica e la reversibilità del danno miocardico e i fattori di rischio predisponenti. Sindrome della leucoencefalopatia reversibile posteriore La sindrome della leucoencefalopatia reversibile posteriore è una rara sindrome neurologica, raramente associata alla terapia con bevacizumab44,45. La presentazione clinica di questa sindrome è piuttosto complessa e caratterizzata dalla comparsa di segni e sintomi quali cefalea, crisi comiziali, alterazione dello stato mentale, disturbi della vista, cecità corticale, con o senza ipertensione arteriosa e alterazioni sulla risonanza magnetica cerebrale, che è essenziale nel sospetto clinico di questa sindrome. La terapia comprende il controllo dell’ipertensione e l’interruzione della terapia con bevacizumab, che nei casi riportati ha determinato una rapida risoluzione dei sintomi. Non è chiaro se la terapia con bevacizumab possa essere continuata dopo l’insorgenza della sindrome. • Bibliografia 1. Folkman J. Tumor angiogenesis: therapeutic implications. N Engl J Med 1971; 285: 1182-6. 2. Kerbel RS. Tumor angiogenesis. N Engl J Med 2008; 358: 2039-49. 3. Hurwitz H. Bevacizumab plus irinotecan, fluorouracil, and leucovorin for metastatic colorectal cancer. N Engl J Med 2004; 350: 2335-42. 4. Giantonio BJ. Bevacizumab in combination with oxaliplatin, fluorouracil, and leucovorin (FOLFOX4) for previously treated metastatic colorectal cancer: results from the Eastern Cooperative Oncology Group Study E3200. J Clin Oncol 2007; 25: 1539-44. 22

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Diagnosi e trattamento del dolore neuropatico nel malato oncologico

Guglielmo Fumi SC di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera di Terni

Definizione e dimensioni del problema Il “dolore neuropatico” (neuropathic pain, NP) nasce come entità nosologica nel 1994, quando viene incluso nella lista della “pain terminology” della IASP (International Association for the Study of Pain). Parliamo di una realtà di frequente riscontro nel paziente affetto da cancro (neuropathic cancer pain, NCP), stimandosi che almeno 1/3 dei casi di dolore neoplastico presenti una componente neuropatica1,2. Il NP è stato definito inizialmente come conseguenza di una lesione e/o disfunzione del sistema nervoso; tale definizione è stata ampiamente dibattuta, specie riguardo al termine “disfunzione”, considerato troppo vago. Una più recente e ampiamente condivisa definizione parla di “dolore che origina da una diretta conseguenza di una lesione o malattia che colpisce il sistema somatosensoriale” (IASP)3,4. Pur se distinto concettualmente dal dolore neuropatico cosiddetto “benigno”, la pratica clinica consolidata ed i pochi studi condotti nel NCP hanno portato a considerare sovrapponibile il trattamento di queste due entità, arricchendo di empirismo un capitolo già di per sé complesso. Il controllo di questo sintomo infatti risulta ad oggi difficile da ottenere, costituendo gran parte dei casi del cosiddetto “dolore intrattabile”, vera sfida per gli algologi; facile intuire le conseguenze sulla qualità di vita dei malati oncologici, spesso già provati pesantemente. Fisiopatolgia È dato acquisito che il dolore cancro relato sia la risultante di più meccanismi, con componenti somatica, viscerale e neuropatica in varia misura, sostenuto da eventi infiammatori, ischemici, compressivi, infiltrativi, ecc., spesso con più localizzazioni e ad eziologia varia. Ne deriva che un adeguato trattamento debba poter prevedere l’individuazione fisiopatologica delle varie componenti e l’utilizzo di strategie (farmacologiche e non) ad azione complementare5. Il NCP (tabella I) può originare da un danno a carico dei neuroni centrali (central NCP, successivo a eventi ictali, infiltrazione del midollo spinale) o periferici (peripheral NCP, infiltrazione/compressione di strutture nervose, danni da raggi, chirurgia o chemioterapia). I meccanismi in gioco vanno oltre il danno diretto, derivando anche dalla risposta 24

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infiammatoria con produzione di citochine in grado di sensibilizzare le afferenze nocicettive periferiche. In particolare, gli agenti antineoplastici agirebbero sui canali ionici (sodio, potassio, calcio) e recettori NMDA di membrana delle radici gangliari e/o dei neuroni delle corna dorsali midollari, alterando i livelli di calcio intracellulare e promuovendo percorsi che attivano lo stimolo algogeno neuropatico6. Una quota rilevante di casi di NCP risulta correlato ai trattamenti antineoplastici stessi, con sindromi associate alla chemioterapia (tabella II), alla radioterapia, a manovre chirurgiche diagnostiche o terapeutiche. L’incidenza di questi quadri risulta in crescita, legata anche alla più lunga sopravvivenza e ad un numero maggiore di trattamenti applicati. Vanno considerate anche le varie comorbilità quali la coesistenza di diabete mellito o neuropatie preesistenti (es. sciatalgie), che si aggiungono a rendere più complessa l’interpretazione ed il trattamento delle sindromi dolorose. Diagnosi Clinicamente si riscontrano molte similitudini in termini di espressione clinica fra le varie sindromi neuropatiche; in pratica, con poche eccezioni (es. s. trigeminale), una stessa combinazione di sintomi può essere osservata in varie condizioni, non necessariamente responsive agli stessi trattaTabella I. Sindromi neuropatiche più comuni nel malato oncologico.

Correlate al cancro • Neuropatie intracraniche dolorose (metastasi meningee; nevralgia glossofaringea e trigeminale) • Radiocolopatie dolorose maligne • Plessopatie (cervicale, brachiale, lombosacrale, sacrale, coccigea) • Radiocolopatie dolorose maligne • Mononeuropatie periferiche dolorose • Neuropatie sensitive paraneoplastiche Correlate ai trattamenti • Neuropatia periferica da chemioterapici (CIPN) • Neuropatie da radioterapia • Plessopatie • Fibrosi tessutale • Mucositi • Neuropatie post chirurgiche • Arto fantasma • Sindrome post-mastectomia • Sindrome post-toracotomia


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menti. Clinicamente andranno ricercati i segni indicativi di una neuropatia, una distribuzione del dolore neuro-anatomicamente correlata, anormalità sensoriali nell’area del dolore, con segni positivi (iperalgesia, allodinia, disestesie) e/o negativi (ipoestesia). Sul versante strumentale i test diagnostici più affidabili sono i “potenziali evocati laser” e la biopsia cutanea, in grado di rilevare con certezza i danni delle fibre. Nella pratica solo eccezionalmente si ricorre a tali metodiche, affidandosi per lo più ad elementi clinici. Negli ultimi 40 anni sono state validate almeno 5 scale di valutazione, nel tentativo di offrire al clinico riferimenti comuni per orientare la diagnosi di NP, anche per uniformare i criteri di inclusione in trial clinici. Caratteristica comune di questi sistemi valutativi è l’importanza assunta dai riferimenti verbali del paziente (descrizione soggettiva del sintomo), in contrasto apparente con la più tradizionale ricerca di segni neurologici della semeiotica classica. A scopo esemplificativo segnaliamo la Scheda valutativa DN4 (Doleur Neuropathique en 4 questions7). Vengono proposte 7 domande con risposta binaria (sì/no) relative alla presenza di sintomi nell’area dolente (bruciore, freddo, scossa elettrica, formicolii, punture di spillo, intorpidimento, prurito); inoltre viene ricercata la presenza/assenza di 3 elementi clinici (ipoestesia al tocco, ipoestesia alla puntura, dolore indotto o accentuato dallo strofinamento). Ogni item vale 1 punto; il cut-off per la diagnosi di NP è 4. Trattamento farmacologico Abbiamo detto di come ci si trovi più spesso davanti a sindromi dolorose ad eziopatogenesi “mista”, dovendosi quindi ricercare le varie componenti per individuare gli opportuni trattamenti ed aumentare le probabilità di successo8. Contrariamente ai luoghi comuni gli oppiacei non risultano inefficaci nel NP, ma sono spesso necessari dosaggi elevati e gravati quindi di maggiori effetti indesiderati. Ai comuni analgesici vengono affiancati i farmaci cosiddetti “adiuvanti”, non appartenenti alle categorie di analgesici

propriamente detti ma in grado di esercitare un’azione analgesica in particolari circostanze: • effetto analgesico indipendente additivo (antidepressivi, anticonvulsivanti, bifosfonati, steroidi); • controllo degli effetti indesiderati (antiemetici, lassativi, psicostimolanti, miorilassanti); • contrastare la tolleranza agli oppioidi (NMDA antagonisti, clonidina, Ca antagonisti, destrometorfano). Gli adiuvanti trovano collocazione in ciascuno dei gradini della scala analgesica WHO, da soli od in associazione. Nella pratica comune è frequente osservare un utilizzo totalmente empirico dei farmaci adiuvanti, spesso a dosaggi e per indicazioni non documentate in letteratura. Va ancora rimarcato come, data la scarsità di RCTs nel NCP, i dati facciano riferimento al trattamento di altri modelli di dolore neuropatico (es. neuropatia diabetica, post-herpetica), con valore quindi solo indicativo nei pazienti oncologici. Nel 2000 viene pubblicato il primo algoritmo di trattamenti nel NP, non essendoci fino ad allora alcun consenso in materia. Le più recenti linee guida sono state pubblicate nel 20119, persistendo però più dubbi che certezze, e con indicazioni per lo più scaturite dal confronto di pareri che non da evidenze di letteratura. Riguardo al NCP le poche evidenze suggeriscono l’utilizzo di oppioidi, associati ad adiuvanti (steroidi, antiepilettici, triciclici)10. Tutti gli adiuvanti hanno un NNT (numero di pazienti da trattare per ottenere 1 risposta significativa) di circa 3. La mancata conoscenza delle caratteristiche dei farmaci può portare ad una errata valutazione di inefficacia. Ad esempio, una titolazione troppo veloce può favorire la comparsa di effetti indesiderati; per contro, una titolazione troppo lenta, ritardando il possibile controllo del dolore, può portare a considerare inefficace prematuramente il farmaco. In tutti e due i casi il paziente sarà portato a sospendere il trattamento. La percentuale di pazienti che non risponde ad uno dei farmaci di I scelta, e che poi risponderà ad altri farmaci magari della

Tabella II. Neuropatie associate a trattamenti chemioterapici.

Chemioterapico

Tipo di neuropatia (incidenza)

Tempo di comparsa

Durata e recupero

Cronica (30%) dolore severo alle estremità; crampi e disestesie alle estremità

2-3 settimane

1-3 mesi fino a 2 anni

Cisplatino, Carboplatino

Cronica

Da 1 a 6 mesi

Recupero di vario grado in mesi o anni

Oxaliplatino

Scatenata dal freddo Acuta (90%) e cronica

Acuta: ore Cronica: 1 mese

Cronica: come cisplatino

Cronica; più frequente con schedula settimanale

Giorni

6-24 mesi: recupero completo (19%) esiti permanenti (25%)

Cronica (35%)

In qualunque momento

Recupero parziale a 2 anni nel 71% dei casi

Cronica

In qualunque momento

Recupero improbabile

Alcaloidi della Vinca

Taxani

Bortezomide Talidomide

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stessa classe, non è nota. La scelta dipenderà quindi dalla “esperienza” del clinico e dalle esigenze del paziente rispetto ai possibili effetti indesiderati. In caso di risposta parziale, dopo adeguata titolazione, si potrà considerare una terapia di combinazione, pratica ancora pressoché empirica, in carenza di adeguati dati dalla ricerca11. Analizziamo adesso le varie categorie di farmaci.

Antidepressivi Comunemente utilizzati nel dolore neuropatico, possiedono un potenziale effetto positivo sul tono dell’umore e qualità del sonno; l’effetto analgesico non sembra direttamente correlato all’azione antidepressiva, descrivendosi per lo più a dosaggi inferiori, e con più rapida comparsa. Tra gli effetti collaterali troviamo: xerostomia, sedazione, vertigini, nausea, turbe dell’accomodazione, ritenzione urinaria, stipsi; descritto anche incremento del rischio di infarto del miocardio; tali eventi sono più frequenti con i triciclici (TCAs) rispetto ai più recenti inibitori selettivi del reuptake della serotonina (SSRIs), noradrenalina (SNRIs), dopamina (NDRIs). Una revisione sistematica12 prende in considerazione 61 RCTs condotti con 20 farmaci, per un totale di 3293 pazienti adulti con dolore neuropatico (no cefalea); 31 studi confrontano TCAs vs placebo (1 su pazienti oncologici), evidenziando efficacia con NNT di 3,6. I dati più consistenti riguardano l’amitriptilina (dosaggio iniziale 10-25 mg in dose unica serale, con incrementi ogni 3-7 giorni fino ad un limite teorico di 150 mg). Meglio tollerati la venlafaxina (3 studi positivi sulla neuropatia diabetica e post-herpetica, per dosaggi tra 150 e 375 mg/die), la duloxetina (SNRI; approvata nella neuropatia diabetica a dosi fra 60 e 120 mg/die), il bupropione (NDRI; efficace nel NP di origine centrale e periferica, da 150 a 300 mg/die; più noto per l’efficacia nella disassuefazione dal fumo). Resta aperto il quesito sul possibile ruolo dei nuovi antidepressivi nella profilassi delle sindromi neuropatiche.

(gabapentina) agli oppioidi possa migliorare il controllo del NCP. Una revisione sistematica del 201015 non sembra comunque supportare l’utilizzo ad ampio raggio degli anticonvulsivanti; la gabapentina sembra egualmente efficace rispetto alla carbamazepina. Il pregabalin16 è risultato efficace (300-600 mg/die), con NNT di 3,9, e nel complesso ben tollerato (sonnolenza e vertigini quali maggiori effetti indesiderati). Gli anticonvulsivanti di seconda generazione (es. levetiracetam, topiramato) hanno per ora fornito dati discrepanti e non dovrebbero essere utilizzati nel NP.

Oppioidi maggiori Come detto in precedenza, gli oppioidi sono efficaci nel dolore neuropatico (come suggerito da studi controllati), ma più spesso sono necessari elevati dosaggi, con conseguente scarsa tollerabilità. In questo contesto andrebbe “recuperato” un farmaco quale il metadone, che fra gli oppiacei vanta una consistente documentazione di efficacia nel NCP, probabilmente grazie all’antagonismo sui recettori NMDA17,18. Secondo le linee guida AIOM del 2009, nel paziente in fase avanzata di malattia con dolore oncologico e componente neuropatica,”il trattamento con soli adiuvanti non dovrebbe essere effettuato; in caso di scarsa risposta antalgica al trattamento con oppioidi di prima linea l’aggiunta dell’adiuvante dovrebbe essere presa in considerazione”. In particolare, i dati con prove di evidenza moderata riguardano solo il gabapentin, mentre per tutti gli altri farmaci le evidenze sono di qualità inferiore. In un recente studio prospettico19, 818 pazienti oncologici con dolore neuropatico sono stati gestiti secondo scala WHO per sei mesi, utilizzando oppiacei (tramadolo, codeina, morfina) ed adiuvanti (amitriptilina 29,9%; gabapentina 29,9%; gabapentina + desametasone 19,9%; solo desametasone 20,2%). A sei mesi il dolore risultava controllato in oltre il 50% dei casi, persistendo dolore lieve o moderato nel 42% e 5% dei restanti casi.

Anticonvulsivanti Un primo studio venne pubblicato nel 1942, in cui si testa la fenitoina nella nevralgia trigeminale; successivamente la carbamazepina si dimostrerà efficace in tale particolare situazione ed altri quadri (200-600 mg/die, NNT 1,7-3,4), al costo di effetti indesiderati disturbanti quali sedazione, vertigini, confusione, turbe dell’umore, tremori, cefalea, irritabilità, astenia. Maggiormente utilizzati e con minori effetti collaterali sono i gabapentinoidi (gabapentina e pregabalin). La gabapentina (1200-3600 mg/die) è caratterizzata da proprietà antiiperalgesiche, esercitando la sua azione stimolando vie discendenti inibitrici. Può essere particolarmente utile nei casi di dolore neuropatico “bruciante” o nell’allodinia. Studi di confronto documentano efficacia simile ad amitriptilina; l’associazione con morfina o venlafaxina sembra produrre effetto additivo o sinergico. In uno dei pochi studi condotti su pazienti oncologici, l’aggiunta di gabapentina 1800 mg/die migliorava il dolore neuropatico già parzialmente controllato con oppiacei13. Secondo una recente revisione sistematica14, sembrerebbe che l’aggiunta di adiuvanti 26

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Corticosteroidi Ampiamente usati in cure palliative, con effetti favorevoli su anoressia, astenia, nausea, cenestesi. Viene descritta efficacia sul dolore oncologico, per lo più osseo; non sono presenti in letteratura revisioni sistematiche di studi comparativi tra diversi steroidi, né sull'efficacia analgesica, né sulla presenza di un rapporto diretto tra dose e risposta. Il loro utilizzo nel NCP risulta indicato, attendendosi un effetto antalgico secondario all’azione antiflogistica ed antiedemigena10.

Anestetici locali La lidocaina, in gel o patch al 5%, si è dimostrata utile (25% dei casi) nei casi di dolore neuropatico focale.

Fans Hanno un ruolo limitato nel NCP, tuttavia alcuni pazienti riferiscono beneficio dal loro utilizzo, forse in virtù del controllo della componente nocicettiva del dolore.


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Tramadolo Farmaco oppioide “debole” ad azione analgesica centrale, unita all’inibizione del reuptake della serotonina e noradrenalina; si è dimostrato utile nel dolore da cancro e nel dolore neuropatico “benigno”, in assenza di evidenze di attività nel NCP. Da segnalare la possibilità di sindrome serotoninergica quando utilizzato in associazione con SSRIs (es. fluoxetina).

Tapentadolo Di recente approvazione, possiede attività sul dolore nocicettivo ed anche nel NP da complicanze diabetiche. Non ci sono studi condotti nel dolore oncologico.

Miscellanea NMDA antagonisti (ketamina, destrometorfano), bifosfonati, capsaicina topica, clonidina, nitroderivati, baclofene, benzodiazepine, octreotide, amfetamine, caffeina, cannabinoidi (approvati in Canada nel NP da sclerosi multipla; in corso studi di fase III nel dolore intrattabile da cancro), approccio psicosociale (ipnosi, tecniche di rilassamento e training autogeno, interventi cognitivo-comportamentali), agopuntura.

Tecniche invasive Nonostante il corretto utilizzo dei presidi disponibili, un piccolo ma significativo numero di pazienti (<5%) non ottiene un sufficiente controllo del dolore e/o presenta effetti indesiderati intollerabili. In questi casi andranno considerate le tecniche invasive. Tra queste va segnalata la somministrazione per via intratecale di ziconotide (conotossina capostipite di una nuova famiglia di analgesici) da solo o associato a morfina.

Scrambler Therapy Recenti esperienze documentano la potenziale utilità di un innovativo sistema di elettrostimolazione cutanea. In uno studio di fase II randomizzato20 su 52 pazienti con NP cronico, la scrambler therapy ha ridotto di oltre il 90% il dolore, contro il 50% circa nei controlli trattati secondo le linee guida WHO. Siamo in attesa di ulteriori studi a conferma. Conclusioni Ad oggi, il controllo del dolore nel paziente oncologico rimane problematico, nonostante la crescente disponibilità di opzioni terapeutiche e le nuove disposizioni di legge orientate a semplificare la prescrizione di analgesici. È innegabile e a tratti imbarazzante il gap culturale del mondo oncologico in tal senso. Il controllo del dolore neuropatico rappresenta una sfida ancor più impegnativa, se si considera la scarsità di dati di letteratura e l’empirismo che ne consegue, con risultati incerti anche in mani esperte. Risulta irrinunciabile una svolta culturale, che spinga l’operatore on-

cologico (medico e infermiere) ad adeguare le conoscenze tecniche e a sviluppare un atteggiamento multidisciplinare, sfruttando le conoscenze anestesiologiche, chirurgiche, neurobiologiche, radioterapiche, per poter offrire finalmente al paziente competenze a 360 gradi. • Bibliografia 1. Woolf CJ, Mannion RJ. Neuropathic pain: aetiology, symptoms, mechanisms and management. Lancet 1999; 353; 1959-64. 2. Caraceni A, Portenoy RK, IASP task force. An international survey of cancer pain characteristics and syndromes. Pain 1999 82: 26374. 3. Cruccu G, Anand P, Attal N, et al. EFNS guidelines on neuropathic pain assessment. Eur J Neurol 2004; 11: 153-62. 4. Treede RD, Jensen TS, Campbell JN, et al. Neuropathic pain. Neurology 2008; 70: 1630-5. 5. Urch CE, Dickenson AH. Neuropathic pain in cancer. Eur J Cancer 2008; 44: 1091-96. 6. Jaggi AS, Singh N. Mechanisms in cancer-chemotherapeutic drugs-induced peripheral neuropathy. Toxicology 2012; 291: 1-9. 7. Bouhassira D, Attal N. Diagnosis and assessment of neuropathic pain: the saga of clinical tools. Pain 2011; 152: 74-83. 8. Vadalouca A, Raptis E, Moka E, et al. Pharmacological treatment of neuropathic cancer pain: a comprehensive review of the current literature. Pain Pract 2012; 12: 219-51. 9. Attal N, Cruccu G, Baron R, et al. EFNS Guidelines on the pharmacological treatment of neuropathic pain: 2010 revision. Eur J Neurol 2010; 17: 1113-23. 10. Portenoy RK. Treatment of cancer pain. Lancet 2011; 377: 223647. 11. Smith EM, Bakitas MA, Homel P, et al. Preliminary assessment of a neuropathic pain treatment and referral algorithm for patients with cancer. J Pain Symptom Manage 2011; 42: 822-38. 12. Saarto T, Wiffen PJ. Antidepressants for neuropathic pain. Cochrane Database Syst Rev 2007; 4. Art. No.: CD005454 13. Caraceni A, Zecca E, Bonezzi C, et al. Gabapentin for neuropathic cancer pain: a randomized controlled trial from the Gabapentin Cancer Pain Study Group. J Clin Oncol 2004; 22: 2909-17. 14. Bennett MI. Effectiveness of antiepileptic or antidepressant drugs when added to opioids for cancer pain: systematic review. Palliat Med 2011; 25: 553-9. 15. Wiffen PJ, Collins S, McQuay HJ, et al. WITHDRAWN. Anticonvulsant drugs for acute and chronic pain. Cochrane Database Syst Rev 2010; 20; (1):CD001133. 16. Moore RA, Straube S, Wiffen PJ, et al. Pregabalin for acute and chronic pain in adults. Cochrane Database Syst Rev 2009; 3:CD007076 17. Rowbotham MC, Twilling L, Davies PS, et al. Oral opioid therapy for chronic peripheral and central neuropathic pain. N Engl J Med 2003; 348: 1223-32. 18. Nicholson AB. Methadone for cancer pain. Cochrane Database Syst Rev 2007; 4: CD003971. 19. Mishra S, Bhatnagar S, Gupta D, et al. Management of neuropathic cancer pain following WHO analgesic ladder: a prospective study. Am J Hosp Palliat Care 2008-2009; 25: 44751. 20. Marineo G, Iorno V, Gandin C, et al. Scrambler therapy may relieve chronic neuropathic pain more effectively than guidelinebased drug management: result of a pilot, randomized, controlled trial. J Pain Symptom Manage 2012; 43: 87-95.

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Casi clinici – Statistica per concetti

Gli studi di non inferiorità

Enzo Ballatori Docente di Statistica Medica, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università di L’Aquila

Negli ultimi anni, gli studi di non inferiorità sono stati al centro di forti critiche sospinte soprattutto dall’abuso che se ne è fatto, sia in termini di inappropriatezza del disegno per lo specifico problema sia per la inadeguatezza dei report degli studi clinici che li hanno adottati, sia per la forzatura degli elementi di soggettività che li caratterizzano, sia per possibili violazioni degli aspetti etici. Insieme ai più rari studi di equivalenza, quelli di non inferiorità costituiscono lo strumento con cui è stata – ed è – veicolata una discreta parte della patologia della ricerca clinica. Pertanto, nel presente numero della rivista, abbiamo ritenuto opportuno fondere le due rubriche “Casi clinici” e “Statistica per concetti” non solo perché in questo caso i due titoli collimano, ma anche per avere più spazio per la discussione di questi tipi di studi, così frequenti in Oncologia, anche nel campo delle terapie di supporto.

Q

uando la Statistica perseguiva solo gli scopi della ricerca scientifica, l’ipotesi nulla traduceva simbolicamente l’ipotesi di uguale efficacia dei trattamenti. Quindi la significatività del test statistico indicava che la variabilità osservata (empirica) era così marcatamente superiore a quella teorica da far apparire come assai poco probabile che tale eccesso fosse dovuto unicamente al caso, cioè al campionamento; il che autorizzava a ritenere diversamente efficaci i trattamenti. Viceversa, l’accettazione dell’ipotesi nulla andava interpretata nel senso che non necessariamente i trattamenti a confronto erano ugualmente efficaci, ma semplicemente non vi erano sufficienti ragioni per ritenerli diversamente efficaci. Tale ragionamento ha ampliato, al campo dei fenomeni che presentano variabilità nelle loro manifestazioni individuali, il principio di confutazione di Popper: se i risultati di un esperimento contraddicono quanto previsto da una legge scientifica, questa viene confutata, perdendo così la sua validità generale, mentre risultati in accordo con essa semplicemente la rafforzano, ma non provano che sia vera in quanto si può sempre pensare all’esistenza di un esperimento, non ancora eseguito, che porterà alla sua confutazione. Successivamente la Statistica venne impiegata come strumento decisionale: fu introdotta la direzionalità dell’ipotesi alternativa, fu sviluppato il concetto di potenza e fu ampliato l’uso dell’ipotesi nulla da puntuale a composta, introducendo così anche i test di equivalenza e di non inferiorità.

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Lo studio di superiorità è in linea con la logica suddetta. In esso, l’ipotesi nulla, traducendo l’ipotesi di uguale efficacia dei trattamenti, è un’ipotesi semplice: i parametri delle popolazioni target (quelle cui vanno riferiti i risultati, cioè le popolazioni di pazienti presenti e futuri, che ricevono l’uno o l’altro dei due trattamenti a confronto) sono posti uguali tra loro. Esemplificando: se i trattamenti sono ugualmente efficaci, c’è da attendersi che, nelle popolazioni target, la percentuale di successi terapeutici sia la stessa. Invece, si definisce l’equivalenza introducendo un intervallo simmetrico intorno allo zero, detto margine di equivalenza, da –Δ a +Δ , entro cui deve cadere la differenza tra i parametri affinché i trattamenti possano ritenersi equivalenti. Operativamente, i due trattamenti si definiscono equivalenti se l’intervallo di confidenza della differente efficacia osservata ricade per intero nel margine di equivalenza, ossia è compreso tra –Δ e +Δ . Ad esempio, se la probabilità di proteggere dalla nausea ritardata fosse del 60% per la terapia antiemetica standard, si potrebbe definire un margine di equivalenza del 10%, così da considerare equivalente al trattamento standard una nuova profilassi antiemetica che ottenesse una percentuale di protezione dal 50 al 70%. Se l’intervallo di confidenza (con coefficiente 1 – α , generalmente fissato al 95%) della differenza tra la protezione fornita al gruppo di trattamento e quella relativa al gruppo di controllo ricadesse nell’intervallo [–10%, +10%], l’equivalenza sarebbe provata. Gli studi di non inferiorità costituiscono un caso particolare degli studi di equivalenza, in cui l’estremo superiore del margine di equivalenza non è più prefissato, ossia viene considerato l’intervallo ( –Δ, +∞), dove –Δ è detto margine di non inferiorità. Riprendendo l’esempio, la nuova profilassi antiemetica è detta non inferiore a quella standard se l’intervallo di confidenza (con coefficiente 1–2α , cioè del 90%, perché l’estremo superiore non ha più interesse) della differenza tra la percentuale di protezione del nuovo trattamento e quella relativa al trattamento standard non include il valore di –10%, altrimenti la non inferiorità non è dimostrata. In parole semplici, il nuovo trattamento è definito come “equivalente” rispetto al trattamento standard, anche se ha un’efficacia di “poco” superiore o inferiore; è definito, invece, come “non inferiore” anche se ha un’efficacia di “poco” inferiore a quella della terapia standard: l’essenziale è che la sua minore efficacia non ecceda quella prestabilita (cioè –Δ), altrimenti la sua non inferiorità non è provata. A parte un personale prurito epistemologico a parlarne,


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gli studi di equivalenza e di non inferiorità presentano limitazioni – sottolineate da più autori – che richiedono adeguate contromisure.

a) Conseguenze della scelta di Δ Consideriamo gli studi di non inferiorità, avvertendo che gli studi di equivalenza, pur con un diverso formalismo, conservano la stessa logica. Sia C una misura di efficacia (ad es., la percentuale di successi terapeutici) calcolata nella popolazione (target) di pazienti presenti e futuri, nelle condizioni di interesse, sottoposti al trattamento di controllo (la migliore terapia esistente) e sia T la stessa misura calcolata nella popolazione target dei pazienti che ricevono il nuovo trattamento. L’ipotesi nulla è H0: C – T ≥ Δ , mentre quella alternativa è H1: C – T < Δ , così che respingendo l’ipotesi nulla si perviene ad un verdetto di non inferiorità. Quindi, negli studi di non inferiorità, l’ipotesi nulla è che l’efficacia del trattamento di controllo sopravanzi quella della nuova terapia di una quantità non inferiore a Δ . Da come sono formulate le suddette ipotesi, si evince che Δ esprime il concetto di “differenza minima clinicamente rilevante” che è sempre alla base del calcolo della dimensione del campione, anche negli studi di superiorità. Nel contesto degli studi di equivalenza e di non inferiorità, però, si aggiunge un significato ancor più importante perché il margine Δ è connaturato a ciò che deve essere provato. Così, negli studi di superiorità, un valore esagerato di Δ conduce ad una riduzione di potenza dello studio (cioè della possibilità di accorgersi della reale differenza di efficacia dei due trattamenti), mentre negli studi di equivalenza o di non inferiorità fa correre un ulteriore rischio: quello di dichiarare “equivalente” o “non inferiore” il nuovo trattamento anche quando esso è notevolmente meno efficace del trattamento standard. L’ipotesi nulla è sempre quella che il ricercatore desidera falsificare. È allora evidente che volendo provare la non inferiorità del nuovo trattamento rispetto allo standard, possono essere adottate numerose strategie che tendano ad attutire la maggiore efficacia del trattamento di controllo. La più immediata tra queste è fissare un esagerato valore di Δ. In tal modo, diventa più facile respingere l’ipotesi nulla perché non solo costituisce un ostacolo più difficile da superare per la differenza tra C e T, ma richiede anche una dimensione campionaria ridotta che contribuisce ad impedire di scoprire la reale differente efficacia dei due trattamenti. La scelta di Δ è particolarmente delicata perché risente di un’inevitabile componente di soggettività e va discussa nel protocollo. Non solo dovrebbe essere supportata da considerazioni cliniche condivise dalla comunità scientifica, ma andrebbe anche ascoltato il paziente per indagare, magari

con tecniche di tipo standard gamble, quale sia la riduzione di efficacia, rispetto alla terapia standard, che egli considera accettabile per assicurarsi gli altri maggiori benefici del nuovo trattamento.

b) Provata efficacia del trattamento standard Un divieto assoluto all’uso degli studi di equivalenza o di non inferiorità si ha quando l’efficacia del trattamento standard non è sufficientemente provata. In tal caso, infatti, si corre il rischio di dichiarare il nuovo trattamento “equivalente” (o “non inferiore”) allo standard senza sottolineare che anch’esso potrebbe essere inefficace o poco efficace: lo studio diventa inutile ed i suoi risultati forse dannosi. Come negli studi di superiorità, in quelli di equivalenza o di non inferiorità, è particolarmente delicata la scelta del comparator, in quanto se l’efficacia del nuovo trattamento venisse confrontata con quella di un trattamento sub-ottimale, l’attestata equivalenza (non inferiorità) potrebbe comportare una inferiorità rispetto al trattamento standard. I risultati dello studio, dunque, non aggiungerebbero alcuna conoscenza utile per la pratica clinica. c) Interpretazione dei risultati Spesso la riduzione di efficacia prevista dal trattamento standard può essere più espressiva se tradotta in termini relativi. Nell’esempio sull’incidenza della nausea ritardata esposto sopra, il trattamento standard garantiva una protezione del 60%, mentre il margine di non inferiorità era fissato a –10%, considerando così non inferiore il nuovo trattamento se riusciva a proteggere almeno il 50% dei pazienti. In termini relativi, tale assunzione sembra accettabile: per essere dichiarato non inferiore, il nuovo trattamento può avere un’efficacia ridotta di circa il 16% (= 10/60) rispetto allo standard. Ora immaginiamo che l’effetto placebo sia importante (e questo è un caso frequente nelle terapie di supporto) e pari al 30% per entrambi i trattamenti. In tal caso l’efficacia “farmacologica” del trattamento standard risulta del 30% (60 – 30), mentre quella del nuovo trattamento del 20% (50 – 30), nella peggiore delle ipotesi. Quindi la reale diminuzione relativa di efficacia non è più del 16%, ma si raddoppia, diventando del 33% ([30 – 20]/30 = 10/30). C’è da chiedersi se questa reale riduzione di efficacia consenta ancora di indicare il nuovo trattamento come non inferiore rispetto allo standard. d) Criteri di valutazione dei pazienti Negli studi di superiorità, il più adottato criterio di valutazione dei pazienti è quello per intenzione a trattare (Intention To Treat, ITT): vanno valutati tutti i pazienti una volta randomizzati, indipendentemente, quindi, dal fatto che rispettassero o meno i criteri di selezione e dalla loro compliance al trattamento cui erano stati assegnati. Tale criterio, se da un lato consente di evitare distorsioni da selezione e di fornire risultati assai prossimi a quelli che si otterranno successivamente nella pratica clinica, dall’altro introduce un rumore che potrebbe celare il vero valore del trattaCASCO — Vol 2, n. 1, gennaio-marzo 2012

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mento. Ad esempio, con il criterio ITT sono valutati anche i pazienti che hanno assunto il farmaco solo una o poche volte e poi hanno cessato di assumerlo per svariate ragioni, tra cui la possibile presenza di eventi avversi. Negli studi di superiorità il rumore così prodotto è da riguardarsi come ulteriore elemento di prudenza nella valutazione comparativa, ma negli studi di equivalenza o di non inferiorità gioca, al contrario, a favore del nuovo trattamento, perché rischia di nascondere reali differenze di efficacia. Negli studi di equivalenza o di non inferiorità è dunque necessario procedere anche con la valutazione per protocol, che considera valutabili tutti i pazienti che hanno completato lo studio e sono stati trattati secondo quanto previsto dal protocollo. In conclusione, negli studi di equivalenza o di non inferiorità i pazienti andrebbero valutati secondo entrambi i criteri ed il nuovo trattamento andrebbe dichiarato equivalente o non inferiore allo standard solo se il verdetto ottenuto con la valutazione ITT concordasse con quello derivante dalla valutazione per protocol. Per inciso, anche una cattiva conduzione dello studio, che provocasse scarsa aderenza ai trattamenti, elevato numero di drop out, arruolamento prevalente di pazienti che difficilmente risponderanno, imprecisione nella registrazione degli eventi, ecc., produce rumore che è funzionale alla prova di equivalenza o di non inferiorità.

e) Aspetti etici Studi di equivalenza o di non inferiorità non dovrebbero mai essere condotti nel caso di malattie gravi, in cui la possibile diminuita efficacia del nuovo trattamento si potrebbe tradurre in morti aggiuntive. Spesso si conosce poco del nuovo trattamento, in termini di efficacia e sicurezza. Il paziente cui venisse somministrato correrebbe il duplice rischio di assumere un farmaco che non solo è verosimilmente un po’ meno efficace della terapia standard, ma che è anche meno tollerabile. Nel contesto di tali studi, l’ottenimento del consenso informato è dunque un momento assai delicato, in quanto occorre chiarire al paziente anzitutto cosa sia uno studio di equivalenza o di non inferiorità, e, soprattutto, che gli potrà essere somministrato un trattamento verosimilmente “un po’ “ meno efficace della terapia standard (che, data la sua condizione, avrebbe comunque ricevuto) e sulla cui sicurezza si sa ancora poco. In tali condizioni ci si può chiedere quale paziente possa esprimere il proprio consenso a partecipare e, per quelli che aderiscono, quali siano le motivazioni della loro decisione. Per quanto concerne le motivazioni, andrebbe esclusa quella eticamente più rilevante: il benessere dei pazienti futuri; infatti, i risultati di uno studio di equivalenza o di non inferiorità non consentono di individuare trattamenti migliori dello standard, ma solo terapie che sono di efficacia equivalente o non inferiore a quelle già esistenti. Resta così a motivare la scelta del paziente partecipante, soprattutto la fiducia che egli ha nei confronti del medico, fiducia che non deve essere in alcun modo tradita: è quindi necessario che non solo i Comitati Etici costitui30

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scano un filtro di giusta severità nei confronti di tali studi, ma anche che il medico sperimentatore valuti con estrema attenzione la sua partecipazione allo studio alla luce del reale interesse dei propri pazienti.

f ) Comunicazione dei risultati “Equivalenza” è sinonimo di uguale efficacia, ma, come si è visto, in questo contesto non è così. Non inferiorità fa pensare ad un trattamento che ha efficacia superiore o, tutt’al più uguale alla terapia standard, ma non è così. L’uso di questi termini ingenera anzitutto il rischio di veicolare una falsa informazione a vantaggio del marketing dell’industria. Inoltre, una volta dichiarato non inferiore il nuovo trattamento potrebbe fungere da comparator in un successivo studio. Se ciò si ripetesse, dopo alcuni passaggi si potrebbe giungere a sperimentare contro placebo. Esistono studi di non inferiorità che costituiscono una buona fisiologia della ricerca clinica, ma la maggior parte di essi è certamente suscettibile di critiche anche sostanziali. Vi sono alcuni argomenti che possono essere legittimamente indagati con studi di non inferiorità, quando nelle fasi precedenti, il nuovo trattamento, rispetto alla terapia standard, ha presentato un’efficacia similare o di poco inferiore, ma con alcuni vantaggi che potrebbero consistere in una migliore tollerabilità del nuovo trattamento, o in diverse e più accettabili modalità e via di somministrazione della terapia che accrescano la compliance del paziente, o, ancora, in termini di riduzione dei costi. Tutti gli altri casi dovrebbero essere valutati con un’attenzione particolare anzitutto dal medico sperimentatore prima di decidere sulla sua partecipazione allo studio, poi dai Comitati Etici. Malgrado le pesanti limitazioni esposte, alcune delle quali erano già state sottolineate in un’editoriale di 6 anni fa (Gotzsche PC. Lessons from and cautions about non inferiority and equivalence randomized trials. JAMA 2006; 295: 1172-74), c’è da chiedersi perché il peso percentuale degli studi di non inferiorità rispetto al totale della ricerca clinica comparativa sia così cresciuto. La risposta è duplice: da un lato tali studi sono funzionali agli interessi dell’industria, dall’altro la comunità scientifica e gli organismi deputati a sorvegliare sugli interessi del paziente non hanno ancora assunto i necessari atteggiamenti di giusta severità nel loro controllo. Ingenti risorse sono state impiegate dall’industria per giungere a studi di fase II i cui risultati, però, si sono rivelati non così promettenti da indurla ad investire in uno studio di superiorità di fase III, che potrebbe negare al nuovo trattamento l’ingresso nella pratica clinica. Poiché le autorità regolatorie lo consentono, l’industria procede con uno studio di non inferiorità (meno costoso) così da poter entrare sul mercato e da acquisire informazioni utili per decidere successivamente sulla programmazione di uno studio di superiorità. Questa, seppure in parte criticabile, è la fisiologia. La patologia nasce quando l’industria è ragionevolmente certa che il nuovo trattamento sia inferiore a quello standard, in


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termini di efficacia e/o di sicurezza, ma ha bisogno di entrare sul mercato per coprire le spese sostenute per lo sviluppo del farmaco. In tali casi lo studio di non inferiorità si presta meglio degli altri a possibili artifici che consentono di raggiungere gli obiettivi prefissati. Proprio a causa di questa particolare elasticità degli studi di non inferiorità, è necessario che gli altri attori del processo di ricerca clinica, dal medico sperimentatore, ai Comitati Etici, ai referee della rivista che pubblicherà i risultati, abbiano come obiettivo primario la protezione del paziente e siano attrezzati per valutare con rigore se i risultati dello studio siano accettabili o meno. Ma che tali meccanismi di protezione del paziente non siano ancora entrati in esecuzione è attestato dal grande numero di studi di non inferiorità pubblicati di recente, malgrado già 6 anni fa una ricerca abbia evidenziato le gravi carenze riscontrate in molti studi di equivalenza e di non inferiorità (Le Henanff A et al. Quality of reporting of noninferiority and equivalence randomized trials. JAMA, 2006; 295: 1147-51). Alla luce delle limitazioni degli studi di equivalenza o non inferiorità, si può costruire una check list, forse non esaustiva, ma certamente utile per valutare protocollo e risultati di tali tipi di studi. Occorre verificare che il protocollo dello studio ed il report che descrive i risultati ottenuti indichino chiaramente: 1. il tipo di studio (di equivalenza, di non inferiorità) e le ragioni di tale scelta; 2. la motivazione della scelta del comparator, sia sottolineando che è il miglior trattamento esistente, sia citando le prove della sua efficacia; 3. la definizione del margine di equivalenza o di non inferiorità, esponendo le ragioni della sua scelta, in particolare della sua accettabilità clinica; 4. le procedure che hanno portato al calcolo della dimensione del campione, tenendo conto del margine Δ; 5. i criteri di valutazione dei pazienti, ITT e per protocol, e che entrambi verranno (sono stati) usati per la valutazione di equivalenza o non inferiorità. Per chi valuta i risultati della ricerca (referee, membri delle Consensus Conference chiamati a definire le linee guida di trattamento, clinici), la prima richiesta da fare, è la disponibilità del protocollo dello studio. In verità, il protocollo è registrato, quindi è di pubblico dominio, solo che è complicato trovarlo. Sarebbe quindi necessario che l’articolo che pubblica i risultati contenga le coordinate per rintracciare agevolmente il protocollo registrato. La comparazione tra quanto riportato nel lavoro e quanto contenuto nel protocollo è importante perché potrebbe verificarsi che: – i risultati si riferiscano ad uno studio di superiorità, ma che non avendo raggiunto l’obiettivo si sia deciso di pubblicarli come fossero riferiti ad uno studio di non inferiorità.

La metodologia usata nei due tipi di studi è diversa, sia in termini di analisi statistica che nel calcolo della dimensione del campione. Programmare uno studio di un certo tipo ed utilizzare i risultati come si trattasse di uno studio di tipo diverso è del tutto inaccettabile; – l’endpoint principale dello studio sia stato scambiato con uno secondario; – la soglia Δ adottata nell’esposizione dei risultati non coincida con quella indicata nel protocollo, ma sia stata stabilita ex post, su una base di convenienza, alla luce dei risultati ottenuti. In altre parole, potrebbe essere accaduto che per il valore Δ fissato nel protocollo non sia stata raggiunta la prova di non inferiorità, mentre considerando un margine leggermente più ampio, il nuovo trattamento possa essere dichiarato non inferiore alla terapia standard. Conclusioni Il lettore si chiederà se quanto ha letto sia terrorismo metodologico o, se non lo fosse, perché si continuino a programmare e, soprattutto, ad accettare studi di equivalenza (pochi) e studi di non inferiorità (molti, troppi). A parte la mia personale idiosincrasia per tali tipi di studi (ogni volta che rifletto sulla formulazione dell’ipotesi nulla esposta al punto (a), mi sembra di trovarmi all’interno di un quadro di Escher), si potrebbe rispondere al secondo quesito con la metafora del bambino e dell’acqua sporca, in quanto esiste una metodologia rigorosa che in alcune – sebbene non frequenti – occasioni potrebbe tornare utile per raggiungere in modo economico determinati obiettivi. Quindi, gettarla via perché molti studi di non inferiorità sono stati pianificati e condotti in modo non corretto, ovvero perché tali studi si prestano particolarmente ad essere strumentalizzati per finalità di mercato, mi sembra davvero uno spreco. Si tratta quindi di esaminare caso per caso, vigilando che il disegno di equivalenza o di non inferiorità sia realmente appropriato, e verificando il rispetto di tutte le norme che garantiscono scientificità alla ricerca clinica. Questo, in fondo, è l’atteggiamento che il Comitato Nazionale per la Bioetica ha tenuto nell’esprimere un parere sulla sperimentazione clinica con disegno di non inferiorità, il 24 aprile 2009. La critica, sempre assai rigorosa, è stata così serrata che, in sede di conclusioni, ci si sarebbe atteso l’ostracismo – o almeno un anatema – verso tale tipo di studi; invece, è stata adottata la raccomandazione che “gli studi di non inferiorità siano illustrati con maggiore trasparenza ed analizzati con attenzione da parte dei Comitati Etici, che debbono vigilare in modo particolare affinché gli interessi del paziente non siano subordinati ad altri interessi, inclusi quelli commerciali e dello sponsor”. Mi sembra una posizione decisamente equilibrata e degna di un organismo di così alto prestigio. •

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Uso dei farmaci in indicazioni non approvate

Chemio-radioterapia nei carcinomi del testa-collo: prevenzione della mucosite orale con palifermin Fausto Roila SC Oncologia Medica Azienda Ospedaliera Terni

L

a mucosite è un effetto collaterale frequente e debilitante del trattamento chemioterapico e radioterapico. Inizialmente si presenta con arrossamento e bruciore del cavo orale, poi compaiono ulcere e difficoltà alla deglutizione dei cibi solidi e anche di quelli liquidi, fino, nei casi più gravi, all’impossibilità ad alimentarsi del paziente. I gradi 3 e 4 del punteggio della scala WHO della mucosite (rispettivamente, eritema e ulcerazione, non deglutisce i solidi, il grado 3, e eritema e ulcerazione e alimentazione impossibile, il grado 4) sono considerati mucositi severe e usualmente caratterizzati dalla necessità di oppiodi per controllare il dolore. La mucosite rappresenta uno dei problemi irrisolti della terapia di supporto, ed è frequentemente di grado 3 e 4 specie nei pazienti sottoposti ad alte dosi di chemioradioterapia per eseguire un trapianto di midollo e nei tumori del testa-collo sottoposti a radio-chemioterapia. Il palifermin, un membro della famiglia dei fattori di crescita fibroblastici (in particolare del fattore di crescita keratinocitico), agisce sul tessuto epiteliale esercitando un effetto protettivo dal danno sulle mucose indotto dalla radioterapia e dalla chemioterapia. Il palifermin è il primo farmaco biologico approvato per la profilassi della mucosite severa in pazienti sottoposti a trapianto autologo o allogenico per neoplasie ematologiche. In uno studio randomizzato doppio cieco

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controllato vs placebo in 212 pazienti sottoposti a trapianto autologo, il palifermin a dosi di 60 μg/kg/dose nei tre giorni prima e nei tre giorni dopo il condizionamento con irradiazione corporea totale, etoposide e ciclofosfamide, ha ridotto l’incidenza di mucosite di grado 3 e 4 dal 98% al 63% dei pazienti1. Inoltre il palifermin ha ridotto la durata mediana della mucosite di grado 3 e 4 da 9 a 3 giorni, l’incidenza della mucosite di grado 4 dal 62% al 20% e l’intensità del dolore, l’uso degli oppioidi e della nutrizione parenterale totale. Il palifermin è stato studiato anche in pazienti affetti da carcinoma del colonretto sottoposti a chemioterapia a base di fluorouracile ed in pazienti con sarcoma riceventi una chemioterapia contenente adriamicina. In pazienti trattati con fluorouracile e acido folinico per una neoplasia del colonretto, dopo un studio dose-finding di fase I che ha evidenziato possibili benefici con dosi di palifermin ≥ 10 μg/kg/dose somministrato per tre giorni consecutivi immediatamente prima del fluorouracile2, è stato condotto uno studio randomizzato, doppiocieco di fase II in 64 pazienti3. I pazienti sono stati randomizzati a ricevere placebo o palifermin 40 μg/kg/die nei tre giorni precedenti l’inizio della chemioterapia con fluoro uracile e acido folinico. Una mucosite di grado ≥ 2 era osservata nel 29% dei pazienti trattati con palifermin e nel 61% di quelli trattati con placebo al 1° ciclo di chemioterapia e, rispettivamente, nell’11% e nel 47% al 2° ciclo. Meno pazienti trattati con palifemin al 1° ciclo ricevevano una dose ridotta di chemioterapia al 2° ciclo. Anche l’irritazione della bocca e

della gola era inferiore con palifermin. Nei pazienti con sarcoma trattati con adriamicina e ifosfamide è stato eseguito uno studio doppio-cieco controllato che ha confrontato in 48 pazienti il palifermin con il placebo4. Il palifermin era somministrato in dose unica di 180 μg/kg tre giorni prima della chemioterapia. L’incidenza della mucosite di grado ≥ 2 era ridotta significativamente dall’88% al 44% così come quella di grado 3 e 4 dal 51% al 13%. In questo studio il palifermin induceva un ispessimento della mucosa orale e della lingua superiore rispetto al placebo (72% vs 31%) e maggiori alterazioni del gusto (44% vs 19%). In ambedue queste patologie il palifermin non è ancora stato approvato essendo necessari studi di fase III da eseguire in un numero maggiore di pazienti che ci permettano anche di esprimere un giudizio sull’impatto del farmaco sull’efficacia della chemioterapia. Due studi sono stati pubblicati nel 2011 in pazienti affetti da carcinoma del testa-collo. Il primo5, eseguito in pazienti trattati con radioterapia (2 Gy/die per 5 giorni alla settimana fino a 70 Gy) associata a chemioterapia con cisplatino (100 mg/m2 nei giorni 1, 22, 43) per neoplasia localmente avanzata inoperabile, ha randomizzato a ricevere palifermin (180 μg/kg) o placebo a partire da 3 giorni prima di iniziare la chemio-radioterapia e poi ogni settimana per 7 settimane. L’endpoint primario dello studio era l’incidenza di mucosite severa (grado III e IV del punteggio del WHO). Il calcolo del campione è stato effettuato partendo da un’incidenza di mucosite severa nel braccio placebo del 60%; ipotizzando di evidenziare una differenza di incidenza minima del 25%, con una potenza dello studio del 90%, sono necessari 180 pazienti, 90 pazienti per braccio. Sono entrati nello studio 188 pazienti. Le caratteristiche dei pazienti (sesso, età, sede della neoplasia, interessamento linfonodale, stadio del tumore e performance status) erano simili nei due gruppi. L’incidenza di mucosite severa era


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significativamente minore nel gruppo di pazienti sottoposti a palifermin (54% vs 69%). Anche la durata mediana (5 vs 26 giorni), il tempo mediano all’inizio della mucosite severa (47 vs 35 giorni) e la mediana dell’irritazione della bocca e della gola (1,66 vs 1,86 in un punteggio da 0 a 4) erano a favore dei pazienti che avevano ricevuto palifermin. L’incidenza di xerostomia a 4 mesi era superiore nel braccio trattato con placebo (67% vs 80%). La mediana della dose di oppiacei era ridotta (283 vs 498 mg di morfina iv). Nessuna di queste differenze era però statisticamente significativa così come non differenti erano le discontinuazioni della chemioterapia e della radioterapia tra i due gruppi di pazienti. La sopravvivenza globale mediana e la sopravvivenza libera da progressione mediana erano simili. Gli effetti collaterali non erano significativamente differenti tra i due trattamenti (98% con palifermin e 93% con placebo). Effetti collaterali con differenza superiore al 10% tra i due bracci e incidenza nel 20% almeno di pazienti erano (palifermin/ placebo) danni cutanei come rash/dermatiti al sito di irradiazione (27% vs 14%), anemia (22% vs 37%), ipokaliemia (20% vs 9%), disgeusia (19% vs 9%). Un transitorio aumento delle lipasi (17% vs 4%) e delle amilasi (53% vs 38%) erano più frequenti nei pazienti sottoposti a palifermin. In conclusione il palifermin riduce significativamente l’incidenza della mucosite severa. Inoltre ne riduce la durata, ne ritarda l’insorgenza e riduce il consumo di oppioidi, ma tali differenze non sono statisticamente significative quando aggiustate considerando i multipli test statistici eseguiti e quindi il ruolo del palifermin nelle neoplasie del testa-collo va ulteriormente definito. Il secondo studio6 è stato eseguito in pazienti operati per carcinoma squamoso del testa-collo a rischio di recidiva per cui venivano sottoposti a radioterapia (60 Gy sulla mucosa orale o orofaringea se R0 e 66 Gy se R1) più chemioterapia concomitante con cisplatino (100 mg/m2 nei giorni 1 e

22). A partire da tre giorni prima dell’inizio della radio-chemioterapia i pazienti erano randomizzati a ricevere palifermin o placebo. Inizialmente il farmaco veniva somministrato a dosi di 180 μg/kg/settimana per 7 settimane o a 180 μg/kg/settimana per 4 dosi seguito da placebo fino alla fine della chemioradioterapia. In seguito all’insorgenza nei primi dieci pazienti trattati di un grave episodio di insufficienza respiratoria, il data monitoring committee concluse che lo studio dovesse essere interrotto e ripreso con una dose più bassa di palifermin (120 μg/kg/settimana). L’endpoint primario era, anche in questo studio, la incidenza di mucosite di grado 3 e 4. Il calcolo del campione è stato eseguito considerando una incidenza di mucosite severa nei pazienti sottoposti a placebo del 60%, per dimostrare che il palafermin riduceva l’incidenza di almeno il 25% con una potenza del 90% era necessario arruolare nello studio 180 pazienti. Sono entrati nello studi 184 pazienti le cui caratteristiche sono simili nei due bracci di trattamento. Una mucosite severa era evidente nel 51% dei pazienti riceventi palifermin e nel 67% di quelli sottoposti a placebo (differenza statisticamente significativa). Per quanto riguarda gli endpoint secondari vi era un miglioramento della durata mediana della mucosite severa (4,5 vs 22,0 giorni) e del tempo mediano all’insorgenza di mucosite severa (45 vs 32 giorni) rispettivamente con palifermin e placebo. Queste differenze non erano però significative quando aggiustate considerando i multipli test statistici eseguiti. Anche la mediana dell’irritazione della bocca e della gola (1,52 vs 1,57 con palifermin e placebo, rispettivamente), l’incidenza di xerostomia (76% vs 63%), la mediana della dose totale di oppioidi (60,8 mg e 171,2 mg) e la percentuale di pazienti in cui avveniva la sospensione della somministrazione della radioterapia e della chemioterapia non erano significativamente differenti fra i due gruppi di pazienti.

La maggior parte dei pazienti ha presentato almeno un effetto collaterale (97%). Una differenza di incidenza di almeno il 5% tra i due gruppi di pazienti era osservata nel caso di (palifermin/placebo): disfagia (35% vs 21%), disidratazione (6% vs 14%), leucopenia (13% vs 21%), insonnia (5% vs 13%), fatigue (8% vs 15%) diarrea (12% vs 5%). La mediana della sopravvivenza globale e della sopravvivenza libera da progressione non era significativamente differente tra i due gruppi di pazienti, ma come nell’altro studio il numero di pazienti studiati non è sufficiente per avere garanzie che il palifermin non abbia un impatto sul trattamento antitumorale. In conclusione palifermin riduce significativamente la mucosite severa senza però determinare un significativo miglioramento degli endpoint secondari, per i quali però non era stato calcolato il campione necessario per dimostrare una riduzione significativa con palifermin. Vi è da aggiungere che in ambedue gli studi il palifermin non sembra impattare sull’irritazione della bocca e della gola che è un patient-related outcome in quanto è il paziente che attribuisce un punteggio a questo sintomo7. Quindi il beneficio sulla severità della mucosite, punteggio che viene attribuito dai medici, non è confermato da quanto riportato dai pazienti stessi. Ne consegue che la sola riduzione significativa della mucosite severa (rilevata dal medico) non permette di provare la rilevanza clinica del palifermin in pazienti sottoposti a radiochemioterapia per carcinoma del testa-collo. Pertanto più studi, su un numero più elevato di pazienti, sono necessari per definire il ruolo del palifermin nei pazienti con neoplasia del testa-collo sottoposti a radiochemioterapia. • Bibliografia 1. Spielberger R, Stiff P, Bensinger W, et al. Palifermin for oral mucositis after intensive therapy for hematologic cancer. N Engl J Med 2004; 351: 2590-8. 2. Meropol NJ, Somer RA, Gutheil J, et al. Randomized phase I trial of recombinant human keratinocyte growth factor plus CASCO — Vol 2, n. 1, gennaio-marzo 2012

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chemotherapy: potential role as mucosal protectant. J Clin Oncol 2003; 21: 1452-8. 3. Rosen LS, Abdi E, Davis ID, et al. Palifermin reduces the incidence of oral mucositis in patients with metastatic colorectal cancer treated with fluorouracil-based chemotherapy. J Clin Oncol 2006; 24: 5194-5200. 4. Vadhan-Raj S, Trent J, Patel S, et al. Single-dose palifermin prevents severe

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oral mucositis during multicycle chemotherapy in patients with cancer. A randomized trial. Ann Intern Med 2010; 153: 358-67. 5. Le Q-T, Kim HE, Schneider CJ. Palifermin reduces severe mucositis in definitive chemoradiotherapy of locally advanced head and neck cancer: a randomized, placebo-controlled study. J Clin Oncol 2011; 29: 2808-14. 6. Henk M, Alfonsi M, Foa P, et al.

Palifermin decreases severe oral mucositis of patients undergoing postoperative radiochemotherapy for head and neck cancer: a randomized, placebo-controlled trial. J Clin Oncol 2011; 29: 2815-20. 7. Bossi P, Locati LD, Licitra L. Palifermin in the prevention of head and neck cancer radiation-induced mucositis: not yet a definitive word on safety and efficacy profile. J Clin Oncol 2012; 30: 564.



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