CASCO 2 - 2012

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Periodico trimestrale riservato alla classe medica edito in collaborazione con Via Vitorchiano 151 – 00189 Roma Tel 06 36 19 11 – Fax 06 36 380 311 www.univadis.it Numero verde 800 23 99 89

Vol 2, n. 2, aprile-giugno 2012

In questo numero EDITORIALE

40 Anno 2 N. 2 – aprile-giugno 2012 Registrazione del Tribunale di Roma in corso Direzione scientifica: Fausto Roila Enzo Ballatori Gruppo editoriale: Claudia Caserta Sonia Fatigoni Guglielmo Fumi Azienda Ospedaliera di Terni Il Pensiero Scientifico Editore Via San Giovanni Valdarno 8 00138 Roma Tel 06 862 821 – Fax 06 862 82 250 Internet: www.pensiero.it Stampa: Arti Grafiche Tris, Roma ottobre 2012 Direttore responsabile: Giovanni Luca De Fiore Redazione: Manuela Baroncini Progetto grafico: Antonella Mion Prezzo: Fascicolo singolo €15,00

Outcome Research e Terapie di Supporto Enzo Ballatori Fausto Roila

Enzo Ballatori, Fausto Roila

DAI CONGRESSI

CASI CLINICI

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Focus sul congresso ASCO (Chicago) 2012 Fausto Roila Sonia Fatigoni

La deriva della ricerca sugli antiemetici Enzo Ballatori Fausto Roila

LINEE GUIDA E PRATICA CLINICA

STATISTICA PER CONCETTI

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Farmaci adiuvanti nella terapia del dolore da cancro Marco Maltoni

TUMORI E TERAPIE DI SUPPORTO

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Terapia di supporto nei tumori renali Enrico Cortesi, Denise Pellegrino, Valentina Magri, Claudia Mosillo, Alessandra Anna Prete, Roberto Iacovelli

I contenuti pubblicati dalla rivista rispecchiano le opinioni degli Autori e non necessariamente quelle dell’Editore o della MSD Italia S.r.l. Ogni farmaco menzionato deve essere usato in accordo con il relativo riassunto delle caratteristiche del prodotto fornito dalla ditta produttrice.

Le terapie di supporto possono costituire terreno privilegiato di indagine per l’Outcome Research

In copertina: Oliveto con nuvola bianca, Vincent van Gogh, 1889.

Endpoint composti Enzo Ballatori

GESTIONE EVENTI AVVERSI

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Tossicità da inibitori di mTOR Claudia Caserta Sonia Fatigoni


Editoriale

Outcome Research e Terapie di Supporto

U

n anno fa, su JAMA appariva un breve editoriale sull’Outcome Research (OR) come richiesta perentoria dal mondo reale (Krumholz HR. Real-world Imperative of Outcome Research. JAMA 2011; 306: 754-5). Richard Lehman,

che cura settimanalmente la revisione critica indipendente di articoli pubblicati su riviste mediche per conto del BMJ, arrivava a sostenere che il suddetto editoriale è una lettura essenziale per chiunque abbia a cuore il futuro della Medicina. In realtà, questo antico argomento è venuto più volte alla ribalta, destando sempre vivo interesse, per poi cadere nell’oblio, finché qualcun altro non lo ha riscoperto, generando così un ciclo a periodicità variabile. Ma stavolta è diverso. Sono maturi i tempi per cui sull’OR, cioè sulla ricerca sugli esiti dei trattamenti medici, convergano istanze diverse del paziente, del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), della conoscenza scientifica, del management sanitario. Nella sua accezione più ampia è OR ogni investigazione scientifica che genera conoscenze in grado di guidare le decisioni sulla cura della salute per ottenere risultati ottimali per le strategie di prevenzione, diagnosi, terapia e prognosi. Quindi, è OR ogni valutazione di strategie mediche nella pratica clinica quotidiana, non solo in termini di efficacia (effectiveness) e sicurezza, ma anche di costi e di impatto sulla qualità di vita del paziente. La valutazione, condotta per mezzo di uno studio clinico, può essere eseguita in una singola Unità Operativa, ovvero associandone più di una, ottenendo risultati che sebbene siano più limitati (per dimensione) di quelli della ricerca clinica sponsorizzata, sono però più vicini alla realtà del paziente. Per fare solo alcuni esempi di possibili applicazioni dell’OR, si pensi all’effetto di un management intensificato del paziente rispetto a quello standard, alla frequenza ottimale del follow-up, allo studio della relazione tra endpoint surrogati e finali, alla tossicità di medio-lungo periodo delle vaccinazioni, alla valutazione dei costi dei trattamenti rilevati sui pazienti che vengono quotidianamente gestiti, alla migliore definizione della storia naturale della malattia che li ha colpiti (ad es., tipi di malattie concomitanti o successive, ricoveri ospedalieri, trattamenti terapeutici, prognosi). L’OR si concretizza così in studi clinici non sponsorizzati, più spesso osservazionali, ma anche randomizzati, in cui vale la sola limitazione (peraltro non assoluta) di non poter testare nuovi farmaci. Oltre all’acquisizione di nuove conoscenze in campo medico, i vantaggi di studi di OR sono evidenti: — per il paziente, consente di accrescere la probabilità di ottenere i risultati che desidera per mezzo di migliori informazioni, migliori decisioni, migliore erogazione della cure; 40

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| Editoriale | Outcome Research e Terapie di Supporto

— per il SSN, permette di ottenere notevoli risparmi pur garantendo le cure più efficaci; — per il manager della sanità, oltre ad ottenere risparmi nella erogazione delle cure, può conoscere esattamente il costo dei trattamenti in relazione alla loro efficacia nei pazienti che vengono quotidianamente seguiti nella pratica clinica. L’OR non richiede risorse aggiuntive, essendo sufficiente impegnare per tale attività parte dei fondi che vengono raccolti con la ricerca sponsorizzata (mediamente, circa il 30% del budget complessivo), ottemperando così alle norme di legge sulla loro destinazione. Vantaggi indiretti vanno a ricadere anche sulle strutture che conducono studi di OR, in termini di aggiornamento e motivazione dei medici e, soprattutto, di sviluppo del Research Nursing che nel nostro paese è ancora così poco diffuso. Da ultimo, occorre avvertire che finalità e metodi dell’OR sono annoverati nell’Health Technology Assessment (HTA), mentre, a nostro avviso, l’OR ha tutto il diritto alla più completa autonomia scientifica, anche perché riteniamo che, in quanto ricerca clinica, non abbia molto a che vedere con i metodi più specifici dell’HTA. Il campo delle terapie di supporto si presta particolarmente a studi di OR, per svariate ragioni, le più importanti delle quali sono: a. la risposta è quasi sempre di tipo soft e valutabile nel breve periodo. Quest’ultima condizione semplifica notevolmente il management dello studio favorendone la fattibilità. La natura soft della risposta può essere meglio indagata attraverso un più stretto contatto con il paziente, il che è proprio specifico degli studi di OR; b. la mancanza di terapie efficaci, o comunque non sufficientemente investigate, nel controllo di una pluralità di sintomi (orphan symptoms), dal prurito al singhiozzo, dalla tosse alla dispnea, dalla tossicità cutanea a quella cardiaca rende vaste aree del campo delle terapie di supporto terreno privilegiato per studi di OR. La lettura di una rivista come CASCO, così autorevole per lo spessore scientifico dei suoi collaboratori, è anche utile per generare idee, o risvegliare interessi latenti che possono trovare una fase attuativa per mezzo di studi di OR. Data l’importanza dell’argomento, se ci sarà richiesta da parte dei Lettori, potremmo pensare all’apertura di un Forum in cui sarà possibile approfondire alcune tematiche adombrate nel presente editoriale, mettere in contatto domanda ed offerta di partecipazione a studi di OR, fornire consulenze per singoli progetti di ricerca. Enzo Ballatori Fausto Roila CASCO — Vol 2, n. 2, aprile-giugno 2012

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Dai Congressi

Focus sul congresso ASCO (Chicago) 2012

Fausto Roila Sonia Fatigoni SC Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

Fatigue Alcuni importanti lavori presentati all’ASCO riguardano il trattamento della fatigue correlata al cancro. Il primo ha valutato l’efficacia del ginseng americano, che secondo la tradizione popolare aiuta a combattere gli effetti negativi dello stress, rispetto al placebo in pazienti neoplastici con fatigue1. I pazienti entrati nello studio presentavano una fatigue ≥ 4 in una scala numerica da 1 a 10 per un periodo ≥ 1 mese. Lo studio era doppio cieco e la dose di ginseng era 2000 mg/die in due somministrazioni per 8 settimane. L’endpoint primario dello studio erano i cambiamenti del punteggio, osservati dopo 4 settimane rispetto al basale, nella scala generale del Multidimensional Fatigue Symptom Inventory (MFSI). In 364 pazienti non sono state osservate variazioni significative nella fatigue a 4 settimane, ma ad 8 settimane vi era un miglioramento significativo nella scala generale (da 10,3 a 20,0) e fisica (da 1,7 a 3,0) del MFSI, mentre non vi erano modifiche significative nelle scale psichica, emozionale e del vigore. Il ginseng non presentava effetti collaterali significativi rispetto al placebo. Come è noto al momento non vi è un trattamento standard della fatigue. Sebbene gli steroidi siano utilizzati nel controllo di questo sintomo mancano studi controllati dell’efficacia degli steroidi eseguiti con strumenti di misurazione della fatigue validati. Pazienti con punteggio della fatigue ≥ 4/10 della Edmonton Symptom Assessment Scale (ESAS) sono stati randomizzati a ricevere desametasone 4 mg os per due volte die per 15 giorni o placebo2. L’endpoint principale dello studio era la modifica del punteggio, dopo 15 giorni rispetto al basale, della scala del Functional Assessment of Chronic Illness-Fatigue (FACIT- F). In 83 pazienti valutabili la media della scala della fatigue del FACIT passava da 18 basale a 27 dopo 15 giorni (differenza significativa) mentre per il placebo rimaneva stabile (da 21 a 24). Con ESAS era evidente una differenza significativa nella scala del distress fisico ma non nel distress psicologico e dei sintomi globali. Il numero di effetti collaterali di grado ≥ 3 era superiore, ma non statisticamente significativo, con il desametasone. Altri due studi hanno valutato l’impatto del metilfenidato, un farmaco che ha dato finora risultati contrastanti in studi di piccole dimensioni. In uno studio doppio-cieco di fase II in 197 pazienti con neoplasia avanzata e con fatigue ≥ 4/10 42

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della Edmonton Symptom Assessment Scale (ESAS) il metilfenidato (5 mg ogni due ore e fino a 20 mg die se necessario) veniva confrontato con il placebo3. L’endpoint principale dello studio erano le variazioni di punteggio a 15 giorni rispetto al basale della scala del Functional Assessment of Chronic Illness-Fatigue (FACIT- F). Il metilfenidato non dava risultati diversi rispetto al placebo. Nel secondo studio, uno studio randomizzato doppio-cieco con crossover, una formulazione ritardo di metilfenidato (18 mg/die) era confrontata con placebo in 42 donne affette da carcinoma della mammella che presentavano fatigue4. L’endopoint primario dello studio erano le modifiche del punteggio della peggior fatigue del Brief Fatigue Inventory dopo 2 e 4 settimane di trattamento rispetto al basale. Anche in questo studio non vi erano differenze significative tra il metilfenidato ed il placebo; pertanto, nonostante alcuni dati contrastanti sull’efficacia del metilfenidato, gli studi più recentemente considerati sembrano escludere una sua efficacia nel controllo della fatigue correlata al cancro. In altri due studi emerge un possibile impatto della vitamina D3 nel migliorare la fatigue. Dati preliminari avevano fatto supporre un potenziale beneficio della vitamina D3 nel controllo del dolore muscolo-scheletrico, della disabilità e


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della fatigue indotta dagli inibitori dell’aromatasi. Uno studio è stato eseguito in pazienti operate di carcinoma della mammella che iniziavano una terapia adiuvante con letrozolo e che presentavano un livello di 25(OH)D ≤ 40 ng/mL5. Tutte erano sottoposte a una dose standard di vitamina D3 (600UI) e calcio (1200 mg) e sono state randomizzate a ricevere per 24 settimane 30.000UI di vitamina D3 alla settimana per os o placebo. Sono entrate nello studio 160 pazienti. Dopo 24 settimane le pazienti sottoposte a vitamina D3 presentavano una minore incidenza di eventi muscolo-scheletrici rispetto a quelle sottoposte a placebo (37% versus 51%) ed inoltre lamentavano meno fatigue, peggioramento del dolore e disabilità (42% versus 72%). Il secondo studio, sempre in pazienti con bassi livelli di 25(OH)D (≤ 32 ng/mL) che iniziavano una chemioterapia per malattia metastatica e che sono stati randomizzati a ricevere o meno 2000 UI di vitamina D3 per os per 3 mesi6. L’endpoint primario erano le modifiche del punteggio della scala della fatigue del FACIT-F. Dopo tre mesi in 69 pazienti miglioravano significativamente la fatigue ed i livelli plasmatici di vitamina D3. Neurotossicità La neuropatia periferica indotta da chemioterapia determina un impatto fortemente negativo sulla qualità di vita. Uno studio ha valutato le cadute, i deficit di performance fisico (ad esempio non riuscire a fare un quarto di miglio a piedi) e le perdite funzionali (ad esempio riuscire a fare il bagno da soli) nei pazienti con cancro che avevano partecipato ad uno studio di fase III e che presentavano un punteggio del dolore neuropatico alle braccia e alle gambe > 4 in una scala da 0 a 107. Di 421 pazienti valutati l’11,9% ha presentato una caduta recente, il 58,6% un deficit di performance fisico e il 26,6% una perdita funzionale. All’analisi multivariata questi eventi erano più frequenti negli anziani, nei pazienti con bassi livelli educazionali e in presenza di tossicità motoria. Da qui l’esigenza sempre più pressante di trattamenti della neuropatia periferica da chemioterapia attualmente mancanti. Un altro studio ha valutato incidenza e intensità della neuropatia periferica da oxaliplatino e l’eventuale associazione al grado di neuropatia acuta periferica in pazienti con carcinoma del colon retto8. In 170 pazienti sottoposti a FOLFOX o XELOX per carcinoma metastatico del colon retto una neuropatia acuta da oxaliplatino era presente nell’85,9% dei pazienti. Si manifestava soprattutto con disestesie periorali o faringolaringee che erano scatenate dal freddo. Raramente si osservavano spasmi della mandibola. Nel 21,9% dei pazienti era necessario allungare i tempi di infusione dell’oxaliplatino da 2 a 4-6 ore. La neuropatia periferica cronica si sviluppava nel 72,4% (123/170) dei pazienti; era di grado I nel 32%, di grado II nel 43% e di grado III nel 27% dei pazienti. La severità della neuropatia periferica acuta era strettamente correlata alla neuropatia periferica cronica. La neuropatia periferica indotta da taxani e platino derivati è spesso dolorosa ed il controllo del sintomo è importante per garantire la prosecuzione della terapia. In uno studio doppio cieco randomizzato con crossover i pazienti, che presentavano un punteggio di ≥ 4/10 del dolore, erano

sottoposti a duloxetina 30 mg die per una settimana e poi 60 mg per altre 4 settimane o placebo e poi, dopo una settimana di wash out, ricevevano il trattamento alternativo9. L’endpoint primario era la modifica dei punteggi del Brief Pain Inventory-Short Form. In 231 pazienti la duloxetina determinava una riduzione significativa del dolore rispetto al placebo (-1,09 versus -0,33). La duloxetina determinava una maggiore incidenza di fatigue di grado ≥ 2 (11% versus 3%). In alcuni studi pilota la acetil-L-carnitina sembra efficace nell’attenuare la neuropatia periferica da chemioterapia; purtroppo finora mancavano studi controllati. Uno studio doppio cieco ha confrontato la acetil-L-carnitina (3 grammi die per via orale per otto settimane) versus placebo in 239 pazienti10. L’endpoint primario era il miglioramento di almeno un grado della neuropatia periferica. La acetil-L-carnitina migliorava significativamente la neuropatia periferica, rispettivamente nel 50,5% e 51,6% dei pazienti sottoposti a trattamento rispetto al 24,1% e 23,1% del placebo dopo 4 e dopo 8 settimane. La acetil-L-carnitina migliorava anche la fatigue e il performance status dei pazienti. Gli effetti collaterali non erano significativamente differenti. Infine un piccolo studio ha valutato l’efficacia della lowlevel laserterapia (LLLT) (che è stata approvata nel 2002 per il trattamento del dolore) somministrata due volte alla settimana per 8 settimane rispetto a placebo due volte alla settimana per 4 settimane e poi LLLT 2 volte la settimana per altre 4 settimane11. In 20 pazienti arruolati con neuropatia periferica dei piedi (14 avevano problemi anche alle mani) la laserterapia ha migliorato la neuropatia periferica sia somministrata per 8 settimane che per 4 settimane dopo 4 di placebo. Non vi erano differenze significative tra i due gruppi sia in termini di efficacia che di tossicità. All’ASCO è stato presentato anche uno studio di prevenzione della neuropatia periferica. Questo studio è stato eseguito in 409 pazienti con cancro della mammella stadio I-III trattate in terapia adiuvante con paclitaxel settimanale. Lo studio ha confrontato la acetil-L-carnitina versus placebo somministrati per 24 settimane12. L’obiettivo primario dello studio era la prevenzione della neurotossicità da taxolo misurata con il FACT-taxane scale. Dopo 12 settimane non vi era CASCO — Vol 2, n. 2, aprile-giugno 2012

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evidenza di un beneficio della acetil-L-carnitina rispetto al placebo, mentre a 24 settimane sembra che la neurotossicità addirittura peggiori con acetilcarnitina. Nausea e vomito Nonostante i grandi progressi ottenuti nella prevenzione del vomito da chemioterapia la prevenzione della nausea rimane uno dei problemi ancora aperti della terapia antiemetica. Da dati preliminari sembra che alcune categorie poco usate di farmaci, come i cannabinoidi, possano avere maggiore efficacia contro la nausea che contro il vomito. In uno studio doppio cieco pazienti sottoposti a chemioterapia con ciclofosfamide e adriamicina che ricevevano per la profilassi dell’emesi palonosetron 0,25 mg ev + desametasone 10 mg ev prima della chemioterapia sono stati randomizzati tra dronabinolo (5 mg tre volte al giorno per 5 giorni) o placebo13. L’impatto del trattamento sul vomito non era significativamente differente tra i due trattamenti ma i pazienti che avevano ricevuto dronabinolo presentavano una significativa minore durata della nausea (numero medio di giorni di nausea 1,86 versus 3,1, rispettivamente) e una tendenza ad una maggiore protezione completa dalla nausea (37% versus 17%). Tranne una maggiore incidenza di diarrea con dronabinolo (13% versus 6%) non vi erano significative differenze negli effetti collaterali. Un altro interessante studio ha valutato l’efficacia dell’olanzapina (un antipsicotico attivo contro numerosi recettori: dopamina, serotonina, istamina e muscarinici) nel trattamento dell’emesi comparsa nonostante un’ottimale profilassi antiemetica14. 80 pazienti, sottoposti per la prima volta a chemioterapia altamente emetogena (cisplatino, ciclofosfamide e adriamicina) che sviluppavano nausea e/o vomito nonostante una profilassi dell’emesi acuta con fosaprepitant, desametasone e palonosetron e dell’emesi ritardata con desametasone 8 mg giorni 2-4, sono stati randomizzati a ricevere olanzapina (10 mg os die per tre giorni) o metoclopramide (10 mg x 3 volte die per 3 giorni). Durante i tre giorni di osservazione non ha presentato emesi il 71% dei pazienti sottoposti a olanzapina versus il 32 % di quelli riceventi metoclopramide. No nausea si otteneva nel 67% e 24% dei pazienti rispettivamente. Purtroppo dal-

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l’abstract non si riesce a capire i criteri di inclusione (vomito e nausea? solo vomito? che grado di nausea?), quindi se la distribuzione fra i due gruppi di questi sintomi molto diversi fra loro era simile, e come si possa usare come rescue una terapia per via orale in pazienti che stanno vomitando. Infine un nuovo inibitore dei recettori NK1, il rolapitant, che è stato valutato in uno studio doppio cieco di fase II in 454 pazienti sottoposti a chemioterapia altamente emetogena (cisplatino ≥ 70 mg/m2)15. Tutti i pazienti ricevevano ondansetron + desametasone ed erano randomizzati a ricevere placebo o rolapitant a dosi di 10, 25, 100 o 200 mg. La dose di 200 mg di rolapitant era quella più efficace sia in termini di risposte complete (non vomito né terapia di salvataggio), non vomito, non nausea significativa. Tale dose è stata scelta per gli studi di fase III attualmente in corso. Varie Uno studio ha valutato la vitamina B6 per la prevenzione della sindrome mani-piedi in pazienti sottoposti a terapia con capecitabina. In 77 pazienti la sindrome si è manifestata nel 26% dei trattati con piridossina e nel 20% di quelli con placebo16. La melatonina in studi pilota sembrava attenuare la perdita di peso e l’anoressia. Era necessario quindi uno studio controllato doppio cieco versus placebo per definirne l’efficacia. Questo è stato presentato all’ASCO: in 48 pazienti la melatonina 20 mg/die per 28 giorni non aumentava significativamente l’appetito, il peso del paziente e la sua qualità di vita17. Infine lo studio ZOOM, uno studio randomizzato che ha confrontato acido zoledronico 4 mg ev ogni 12 settimane con 4 mg ev ogni 4 settimane in pazienti con ≥ 1 metastasi ossea e trattati con acido zoledronico per circa 1 anno. In 425 pazienti la percentuale di eventi scheletrici (endpoint primario dello studio) era simile (0,26 versus 0,22 rispettivamente)18. • Bibliografia 1. Barton DL, et al. Phase III evaluation of American ginseng (panax quinquefolius) to improve cancer-related fatigue: NCCTG trial N07C2. J Clin Oncol 2012; 30: (suppl.), abstr. 9001. 2. Yennurajalingam S, et al. Dexamethasone for cancer-related fatigue: a double-blinded, randomized, placebo-controlled-trial. J Clin Oncol 2012; 30: (suppl.), abstr. 9002. 3. Bruera E, et al. Methylphenidate and nursing telephone intervention for cancer-related fatigue in advanced cancer patients: a double-blind randomized phase II trial. J Clin Oncol 2012; 30: (suppl.), abstr. 9023. 4. Escalante CP, et al. A randomized, double-blind, placebocontrolled crossover trial of a sustained release methylfenidate in cancer-related fatigue. J Clin Oncol 2012; 30: (suppl.), abstr. 9072. 5. Khan QJ, et al. Randomized trial of vitamin D3 to prevent worsening of muscularskeletal symptoms and fatigue in women with breast cancer starting adjuvant letrozole: the VITAL trial. J Clin Oncol 2012; 30: (suppl.), abstr. 9000. 6. Trivanovic D, et al. Vitamine D3 supplementation to improve fatigue in patients with advanced cancer. J Clin Oncol 2012; 30: (suppl.), abstr. 9097.


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7. Mohile SG, et al. Falls, physical performance deficits, and functional losses in cancer survivors with chemotherapy-induced neuropathy: a University of Rochester CCOP study. J Clin Oncol 2012; 30 (suppl.), abstr. 9014. 8. Argyriou A, et al. Incidence, characteristics, and associations of oxaliplatin-induced peripheral neuropathy in colorectal cancer patients: results of a prospective, multicenter, international study. J Clin Oncol 2012; 30: (suppl.), abstr. 9090. 9. Smith EML, et al. CALGB170601: a phase III double blind trial of duloxetine to treat painful chemotherapy-induced peripheral neuropathy. J Clin Oncol 2012; 30: (suppl), abstr. 9013. 10. Sun Y, et al. A prospective study to evaluate the efficacy and safety of oral acetyl-L-carnitine in treatment of chemotherapyinduced peripheral neuropathy. J Clin Oncol 2012; 30: (suppl.) abstr. 9017. 11. Lee JM, et al. Low-level laser therapy for chemotherapy-induced peripheral neuropathy. J Clin Oncol 2012; 30: (suppl.), abstr. 9019. 12. Hershman DL, et al. SWOG S0715: randomized placebocontrolled trial of acetyl-L-carnitine for the prevention of taxane-induced neuropathy during adjuvant breast cancer therapy. J Clin Oncol 2012; 30: (suppl.), abstr. 9018. 13. Grunberg SM, et al. Randomized double-blind evaluation of

dronabinol for the prevention of chemotherapy-induced nausea. J Clin Oncol 2012; 30: (suppl.), abstr. 9061. 14. Navari RM, et al. The use of olanzapine versus metoclopramide for the treatment of breakthrough chemotherapy-induced nausea and vomiting in patients receiving highly emetogenic chemotherapy. J Clin Oncol 2012; 30: (suppl.), abstr. 9064. 15. Fein LE, et al. Efficacy and safety of rolapitant, a novel NK-1 receptor antagonist, for the prevention of chemotherapy-induced nausea and vomiting in subjects receiving highly emetogenic chemotherapy. J Clin Oncol 2012; 30: (suppl.), abstr 9077. 16. Braik T, et al. A randomized trial to determine if vitamin B6 can prevent hand and foot syndrome in cancer patients treated with capecitabine chemotherapy. J Clin Oncol 2012, 30: (suppl.), abstr. 9085. 17. Del Fabbro E, et al. The effect of melatonin on appetite and other symptoms in patients with advanced cancer and cachexia: a double-blind placebo-controlled trial. J Clin Oncol 2012; 30: (suppl.), abstr. 9062. 18. Amadori D, et al. ZOOM: a prospective, randomized trial of zoledronic acid q 4 wk vs q 12 wk for long-term treatment in patients with bone-metastatic breast cancer after 1 yr of standard zoledronic acid treatment. J Clin Oncol 2012; 30 (suppl.), abstr. 9005.

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Linee guida e pratica clinica

Farmaci adiuvanti nella terapia del dolore da cancro*

Marco Maltoni Istituto Scientifico Romagnolo per lo Studio e la Cura dei Tumori Meldola, Forlì-Cesena

Introduzione Esistono in letteratura diverse classificazioni dello straordinariamente eterogeneo gruppo dei “farmaci adiuvanti”. Una definizione ampia di “farmaci adiuvanti” indica tutti quei farmaci che, pur non essendo antidolorifici in senso stretto, contribuiscono all’efficacia globale del trattamento analgesico, e possono esserne individuate tre categorie maggiori2 (tabella I). I farmaci del secondo gruppo esplicano la propria azione controllando al meglio possibile gli effetti collaterali degli oppioidi e consentono, quindi, l’utilizzo di dosi più elevate degli oppioidi stessi; sono quindi considerati “adiuvanti”, ma non “adiuvanti analgesici”. I farmaci del terzo gruppo, invece, incidono indirettamente sul dolore, impattando sulla condizione che quel dolore provoca o sulla soglia del dolore. Come esempio paradigmatico, un dolore da frattura patologica costale scatenato da colpi di tosse vede ridotta la propria frequenza e intensità grazie ad una ben condotta terapia sedativa della tosse. In realtà per certi farmaci adiuvanti una suddivisione netta non è applicabile, e per un determinato impatto analgesico può non essere semplice individuarne le componenti “diretta” e “indiretta” di azione.

Per l’ultimo motivo suddetto, recentemente è stata suggerita un’ulteriore categorizzazione, proprio sulle base del fatto che alcuni farmaci presentano più di un’area di azione, mentre per altri l’utilizzo è confinato ad una specifica sindrome3 (tabella II). Molti degli “adiuvanti analgesici“ multiuso hanno come utilizzo prevalente il dolore neuropatico, ma ciò che li distingue dai farmaci specifici per quel tipo di dolore è la possibile efficacia anche in altre tipologie algiche. Adiuvanti analgesici La definizione di “adiuvanti analgesici” trae spunto dalla collocazione all’interno della scala analgesica a tre gradini dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che vede come farmaci specificamente antalgici al primo gradino i Farmaci Antinfiammatori Non-Steroidei (FANS) e il paracetamolo, al secondo gradino gli oppioidi per il dolore lieve-moderato (in passato definiti “oppioidi deboli”) e al terzo gradino gli oppioidi per il dolore moderato-severo (in passato definiti “oppioidi forti”)4. Un utilizzo corretto della Scala dell’OMS classicamente in* Nel numero scorso di questa rivista è stata pubblicata una revisione sulla gestione del dolore neuropatico e sugli “adiuvanti analgesici” utilizzati in quell’ambito1: il presente articolo si propone a completamento di quello già pubblicato, con un particolare riferimento a quanto è stato di recente riportato nelle Linee Guida dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (LG-AIOM), dell’European Society for Medical Oncology (ESMO) e dell’European Association for Palliative Care (EAPC).

Tabella I. Farmaci “adiuvanti” classificati in base al meccanismo d’azione.

Effetto analgesico diretto

Azione contrastante gli effetti collaterali degli oppioidi

Effetto analgesico indiretto

Antidepressivi

Antiemetici

Antinfiammatori

Anticonvulsivanti

Lassativi

Antiedemigeni

Anestetici locali

Stimolanti la minzione

Antispastici

Corticosteroidi

Psicostimolanti

Antisecretori

Bisfosfonati

Antitussigeni

Inibitori dei recettori NMDA

Miorilassanti

Baclofen

Ansiolitici

Clonidina

Antidepressivi

Antistaminici

Antibiotici

Neurolettici

Antiacidi

Progestinici

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CASCO — Vol 2, n. 1, gennaio-marzo 2012


| Linee guida e pratica clinica | Farmaci adiuvanti nella terapia del dolore da cancro

Tabella II. Farmaci “adiuvanti analgesici” in base ad ampiezza o specificità del loro utilizzo.

Adiuvanti analgesici multiuso

Adiuvanti analgesici per il dolore neuropatico

Analgesici topici

Adiuvanti analgesici per il dolore osseo

Adiuvanti analgesici per l’occlusione intestinale

Adiuvanti analgesici per il dolore muscoloscheletrico

Antidepressivi

Anticonvulsivanti

Capsaicina

Bisfosfonati

Anticolinergici

Miorilassanti

(triciclici: amitriptilina, imipramina; duali: duloxetina, venlafaxina)

(gabapentin, pregabalin)

Corticosteroidi

Bloccanti i canali del sodio: anestetici locali, antiaritmici, alcuni altri anticonvulsivanti

Anestetici locali

Radionuclidi

Octreotide

Antidepressivi triciclici

Corticosteroidi

Corticosteroidi

(ketamina)

Miscellanea

FANS

(lidocaina, flecainamide; mexiletina; carbamazepina, lamotrigina, valproato)

Neurolettici Agonisti alfa2.adrenergici (clonidina)

NMDA inibitori

(cannabinoidi, baclofene, calcitonina, farmaci usati nel dolore mantenuto dal simpatico, anticolinesterasici)

tesa consente una gestione efficace del dolore da cancro in circa il 90% dei pazienti5. Elaborazioni successive della Scala antalgica OMS hanno inserito due ulteriori gradini (rotazione dell’oppioide e cambio della via, tecniche invasive in casi selezionati)6 (figura 1), ma l’utilizzo concomitante di “adiuvanti analgesici” in ciascuno dei gradini resta un punto fermo della Scala stessa. Fra l’altro, l’uso degli “adiuvanti analgesici” concorre a difendere la Scala da una delle accuse maggiori che le viene portata, che è quella di essere una risposta al dolore basata su un solo parametro, rappresentato dall’intensità dello

stesso, senza tenere conto di altri aspetti, quale, ad esempio, il meccanismo etiopatogenetico del dolore. Gli “adiuvanti analgesici”, invece, vengono utilizzati proprio in base al meccanismo etiopatogenetico del dolore, e in un certo senso rappresentano la componente più “raffinata” della Scala stessa nella gestione dei “dolori” o delle “componenti dolorose” del dolore oncologico. Considerando gli “oppioidi” i farmaci principali del trattamento contro il dolore da cancro, alcuni autori hanno considerato “adiuvanti analgesici” anche i farmaci del primo gradino (FANS e paracetamolo). Pur ritenendo plausibile an-

Figura 1. La Scala analgesica OMS nel XXI secolo.

Blocchi neurolitici Pompa intratecale IV, SC PCA

5% 10-20%

± adiuvanti

Oppioidi forti ± FANS/paracetamolo Oppioidi deboli ± FANS/paracetamolo

“Rotazione” degli oppioidi

75-85%

FANS/paracetamolo

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che tale approccio, in questo articolo ci si attiene alla visione consolidata, che considera i FANS e il paracetamolo alla stessa stregua degli oppioidi, facenti cioè parte dell’approccio analgesico primario, e non quindi come “adiuvanti analgesici”6. Nell’affronto del dolore oncologico, va considerato che gli “adiuvanti analgesici”, come gruppo, sono certamente analgesici meno affidabili degli oppioidi: più bassa percentuale di pazienti responsivi, NNT e NNH significativamente più ravvicinati, inizio dell’effetto antalgico più lento1,3. Molti dei dati raccolti sull’utilizzo degli “adiuvanti analgesici” sono da studi aneddotici o di ridotta qualità o su popolazioni non oncologiche. Linee guida AIOM Le raccomandazioni prodotte su questi temi nelle LGAIOM7 sul dolore da cancro riguardano tre delle tipologie di farmaci “adiuvanti analgesici” in diverse situazioni cliniche. Il primo quesito al quale le LG-AIOM7 hanno cercato di dare risposta è stato se in un paziente con dolore da cancro e componente neuropatica fosse raccomandato un trattamento con soli farmaci adiuvanti. Meccanismi neuropatici di dolore sono stati riportati presenti in circa il 40%8 dei pazienti con dolore da cancro. Il gruppo estensore delle LG-AIOM ha concluso che non vi sono evidenze tali da suggerire un trattamento con soli adiuvanti analgesici, e che anzi la raccomandazione negativa debole è quella di non effettuare tale trattamento. Senza entrare nel dettaglio della metodologia GRADE, la raccomandazione negativa debole non esclude che, in alcuni casi particolari, l’approccio in questione, se pure di norma sconsigliato, possa essere utilizzato, per esempio in presenza di un dolore specificamente neuropatico, con caratteristiche, per così dire, analoghe a quelle di un dolore neuropatico non oncologico. Sullo stesso argomento, specularmente alla prima raccomandazione riportata, un secondo quesito riportato nelle LG-AIOM pone il problema se sia raccomandabile, in caso di scarsa risposta antalgica ad un trattamento con oppioidi, la combinazione con un adiuvante, scelto fra quelli che abbiano dimostrato efficacia nel trattamento del dolore neuropatico da cancro (gabapentin) o non da cancro (oltre al gabapentin, anche pregabalin, antidepressivi triciclici [amitriptilina, imipramina] e duali [duloxetina, venlafaxina]). La raccomandazione del gruppo, sulla base di un’evidenza moderata, è positiva debole sul fatto che si debba prendere in considerazione, di norma, l’aggiunta dell’adiuvante. Secondo il gruppo, l’evidenza moderata nel dolore da cancro riguarda solo il gabapentin, mentre per tutti gli altri farmaci le evidenze sono di qualità inferiore. Pertanto, la strategia suggerita è quella di ottimizzare una terapia con oppioidi fino all’ottenimento del miglior risultato, e solo in presenza di analgesia insoddisfacente nonostante un aumento della dose di oppioidi fino a presenza effetti collaterali dose-limitante, aggiungere l’adiuvante analgesico. Tale strategia pare utilizzata nella pratica clinica (forse anche con un eccesso di prudenza) poiché è stato riportato che antidepressivi e anticonvulsivanti siano utilizzati, rispettiva48

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mente, solo nel 14% e 17% dei pazienti con cancro e dolore con componente neuropatica9. Linee guida EAPC e ESMO Analogo atteggiamento è quello suggerito dalle recenti LG-EAPC, in cui si raccomanda che gli adiuvanti analgesici per il dolore neuropatico da cancro vadano utilizzati in aggiunta agli oppioidi10. Entrambe le linee guida si basano principalmente sulla recente revisione sistematica di letteratura11 che indagava l’efficacia di antidepressivi ed antiepilettici aggiunti agli oppioidi in comparazione agli oppioidi da soli, per la gestione del dolore causato direttamente dal tumore. Erano identificati 8 studi, 5 dei quali randomizzati, per un totale di 465 pazienti. L’inserimento degli adiuvanti migliorava il controllo del dolore entro 4-8 giorni dall’aggiunta agli oppioidi; fra tutti i farmaci, l’evidenza maggiore era a carico del gabapentin. Comunque, era improbabile una riduzione del dolore maggiore di 1 in una scala numerica da 0 a 10, mentre era probabile un incremento significativo in effetti collaterali. L’efficacia dei farmaci indagati era valutata come notevolmente inferiore rispetto a quella degli stessi farmaci quando utilizzati nel dolore neuropatico non oncologico. Questo riscontro pare confermare la posizione di coloro che ritengono inadeguato il “trasferimento” di efficacia dei farmaci da un setting di pazienti in cui essa è stata dimostrata (pazienti non oncologici) ad un altro setting. La LG-EAPC raccomanda in modo forte l’inizio di terapia con un oppioide e l’aggiunta prudente e titolata di un adiuvante (gabapentin o, in alternativa, amitriptilina) in caso di risposta insoddisfacente al solo oppioide. La combinazione dei due farmaci è a rischio di maggiore frequenza di effetti collaterali centrali, per cui potrebbe essere appropriata la riduzione del dosaggio di oppioide, e comunque è necessario un attento monitoraggio dell’indice terapeutico. Un effetto positivo dovrebbe essere atteso entro una settimana, trascorsa la quale andrebbe valutato un incremento del dosaggio dell’adiuvante o, se in presenza di effetti collaterali, uno switch dello stesso. Le LG-ESMO12 in questo ambito sono contestualizzate in un paragrafo intitolato “Trattamento del dolore resistente e neuropatico”, esplicitando in questo modo che il dolore con componente neuropatica fa parte dei dolori oncologici più difficili da trattare. Anche in queste linee guida viene sottolineata la scarsità di dati nel dolore neuropatico del paziente oncologico. La raccomandazione finale stressa la opportunità di prescrivere un antidepressivo triciclico o un anticonvulsivante, che dal testo del paragrafo discorsivo si evince in associazione all’oppioide. Peculiarità della raccomandazione ESMO è che con la stessa forza (IA) si raccomanda il monitoraggio degli effetti collaterali. Corticosteroidi Un quesito delle LG-AIOM riguardava l’utilizzo dei corticosteroidi, in particolare se fosse raccomandabile il loro utilizzo per ottenere un maggiore controllo del dolore. Il loro meccanismo d’azione, in teoria, ne giustificherebbe l’utilizzo


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in molteplici situazioni: riduzione della massa tumorale (nelle neoplasie steroido-responsive) o dell’edema peritumorale con riduzione della compressione delle strutture sensibili, riduzione della concentrazione tessutale e perirecettoriale di sostanze infiammatorie algogene, riduzione di attività elettriche aberranti. La conoscenza dei meccanismi d’azione è opportuna in quanto la raccomandazione delle LG-AIOM è quella di non utilizzare i corticosteroidi a scopo antalgico di routine, ma solo in quelle situazioni in cui ci si attenda un effetto antalgico secondario proprio per l’azione antiflogistica e antiedemigena7. Bisfosfonati Nel trattamento del dolore osseo indotto dal cancro (il Cancer Induced Bone Pain degli autori anglosassoni) per i Bone-Modifying Agents, in particolare i bisfosfonati, le evidenze di letteratura, sintetizzate anche nelle recenti LGASCO13 mostrano un basso rapporto fra azione analgesica (1 su 6 trattati) ed effetti collaterali (1 su 11), tale da non consentirne la raccomandazione come utilizzo in terapia analgesica di prima linea. Le LG-AIOM, pertanto, ne raccomandano l’utilizzo a scopo antalgico non quali unici farmaci antidolorifici, ma come farmaci “adiuvanti antalgici”, all’interno della strategia terapeutica antalgica della Scala analgesica OMS7. Anche nelle LG-ESMO12 si suggerisce (IIB) che i bisfosfonati non devono essere considerati come alternativi al trattamento antalgico primario, ma fare parte di un approccio terapeutico complessivo al paziente con metastasi ossee, con la sistematica messa in atto delle opportune misure preventive dentali. Conclusioni In sintesi si può affermare che negli ultimi anni si sta accrescendo il corpo di evidenze scientifiche concernenti gli adiuvanti analgesici nel dolore cronico oncologico, e l’utilizzo sintetico di tali evidenze con linee guida e raccomandazioni ad opera delle diverse società scientifiche. Compiti ineludibili del clinico restano: la formazione e la conoscenza di tali evidenze e delle linee guida, la valutazione dell’appropriatezza della loro applicabilità o non applicabilità nel singolo paziente, un atteggiamento di disponibilità e di fattiva apertura ad un approccio multiprofessionale e multidisciplinare spesso indispensabile per la gestione ottimale dei pazienti oncologici in fase avanzata di malattia14,15. •

Bibliografia 1. Fumi G. Diagnosi e trattamento del dolore neuropatico nel malato oncologico. CASCO 2012; 2: 24-7. 2. Trentin L. Adiuvanti. In: Amadori D, Corli O, De Conno F, Maltoni M, Zucco F (eds). Libro Italiano Cure Palliative. Seconda edizione. Milano: Poletto Editore, 2007; 136-43. 3. Lussier D, Portenoy R. Adjuvant analgesics in pain management. In: Hanks G, Cherny N, Christakis N, Fallon M, Kaasa S, Portenoy R (eds). Oxford Textbook of Palliative Medicine. Fourth edition. Oxford: Oxford University Press, 2010; 706-34. 4. Maltoni M. Opioids, pain, and fear. Ann Oncol 2008; 19: 5-7. 5. Meuser T, Pietruck C, Radbruch L, et al. Symptoms during cancer pain treatment following WHO-guidelines: a longitudinal followup study of symptom prevalence, severity and etiology. Pain 2001; 93: 247-57. 6. Riley J, Ross J, Gretton S, et al. Proposed 5 step World Health Organization analgesic and side effect ladder. Eur J Pain Suppl 2007; 1 (S1): 23-30. 7. Maltoni M, Caraceni A, Pigni A, Tamburini E, Tassinari D, Trentin L, Zagonel V. Linee Guida AIOM 2012. Terapia del dolore. www.aiom.it/UrlRewriting/RewritingEngine.asp?RWdescrizione= Attivit%c3%a0+Scientifica/Linee+guida/Archivio+2010/Terapia +del+dolore&RWid=4769&RWpage=0&RWType=1&RWURL= 1 8. Caraceni A, Portenoy R. An International survey of cancer pain characteristics and syndromes. IASP Task Force on Cancer Pain. Pain 1999; 82: 263-74. 9. Berger A, Dukes E, Mercadante S, Oster G. Use of antiepileptics and tricyclic antidepressants in cancer patients with neuropathic pain. Eur J Cancer Care (Engl) 2006; 15: 138-45. 10. Caraceni A, Hanks G, Kaasa S, et al G; European Palliative Care Research Collaborative (EPCRC); European Association for Palliative Care (EAPC). Use of opioid analgesics in the treatment of cancer pain: evidence-based recommendations from the EAPC. Lancet Oncol 2012; 13: e58-68. 11. Bennett MI. Effectiveness of antiepileptic or antidepressant drugs when added to opioids for cancer pain: systematic review. Palliat Med 2011; 25: 553-9. 12. Ripamonti CI, Bandieri E, Roila F; ESMO Guidelines Working Group. Management of cancer pain: ESMO Clinical Practice Guidelines. Ann Oncol 2011; 22 Suppl 6: vi 69-77. 13. Van Posnak CH, Temin S, Yee GC, et al. American Society of Clinical Oncology Executive Summary of the Clinical Practice Guideline Update on the Role of Bone-Modifying Agents in Metastatic Breast Cancer. J Clin Oncol 2011; 29: 1221-8. 14. El-Jawahri A, Greer JA, Temel JS . Does palliative care improve outcomes for patients with incurable illness? A review of the evidence. J Support Oncol 2011; 9: 87-94. 15. Smith TJ, Temin S, Alesi ER, et al. American Society of Clinical Oncology provisional clinical opinion: the integration of palliative care into standard oncology care. J Clin Oncol 2012; 30: 880-7.

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Tumori e terapie di supporto

Terapia di supporto nei tumori renali

Enrico Cortesi, Denise Pellegrino, Valentina Magri, Claudia Mosillo, Alessandra Anna Prete, Roberto Iacovelli Università Sapienza di Roma Dipartimento di Scienze Radiologiche, Oncologiche ed Anatomo-Patologiche Unità di Oncologia Medica B

Trattamento medico del carcinoma renale metastatico Il carcinoma renale rappresenta il 2-3% delle neoplasie solide dell’adulto posizionandosi al sesto posto tra le neoplasie del sesso maschile e all’ottavo posto tra quelle del sesso femminile, in particolare i casi attesi negli USA nel sesso maschile sarebbero passati a 35.370 nel 2010 a 37.120 nel 2011 facendo balzare questa neoplasia dal settimo al sesto posto davanti i linfomi non-Hodgkin1,2. Nonostante la bassa incidenza, questa neoplasia ha assunto un ruolo importante negli ultimi anni in quanto numerosi trial clinici hanno portato all’approvazione di una moltitudine di farmaci a bersaglio molecolare con effetti positivi sull’aumento della sopravvivenza e sulle possibilità di controllo della malattia. I trattamenti ad oggi disponibili possono essere divisi in base al meccanismo d’azione in inibitori dell’angiogenesi ed in inibitori del complesso mTOR. Del primo gruppo fanno parte sunitinib, sorafenib, bevacizumab, pazopanib, axitinib e tivozanib; il secondo gruppo è invece formato da temsirolimus ed everolimus. La scelta del trattamento di prima linea nel carcinoma renale metastatico (mRCC) non può prescindere dalla definizione della categoria prognostica del paziente. Negli ultimi anni diverse scale sono state proposte ma quelle più utilizzate sono quella del Memorial Sloan Kettering Cancer Centre (MSKCC) proposta nel 1999 e più volte modificata e quella recentemente proposta da Heng nel 20093,4. Tutte queste prendono in considerazione diversi fattori tra cui: la presenza di metastasi alla diagnosi ed il numero di organi coinvolti, le alterazioni bioumorali come emocromo, LDH, calcemia e l’eventuale trattamento della malattia primaria. La definizione del numero di fattori presenti permette la classificazione dei pazienti in tre gruppi: buona, intermedia o cattiva prognosi. Nei pazienti a prognosi buona o intermedia le maggiori linee guida internazionali suggeriscono l’inizio della terapia con un inibitore dell’angiogenesi e tra questi il sunitinib e largamente considerato lo “standard of care”. Nei pazienti a prognosi cattiva uno studio clinico randomizzato di fase III ha dimostrato il vantaggio del temsirolimus rispetto all’in50

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terferon (IFN) divenendo, di fatto, lo standard per questo tipo di pazienti (tabella I)5-7. Diversa è la scelta del trattamento di seconda linea per la quale esistono evidenze che orientano sia verso la scelta di un inibitore di mTOR come l’everolimus sia verso la scelta di un secondo inibitore dell’angiogenesi8. Di fatto in questo caso la scelta è lasciata al clinico che deve tenere conto delle condizioni generali del paziente, della risposta e delle tossicità riportate nella precedente linea. In considerazione di questo, il management degli effetti collaterali legati al trattamento è un fattore fondamentale nella gestione del paziente con mRCC. In questa revisione verranno considerati gli effetti collaterali di classe legati ai trattamenti per il mRCC tralasciando quelle tossicità riscontrabili anche in altre forme di trattamento come l’astenia, la fatigue, l’anoressia, la nausea, il vomito, ecc. Effetti collaterali legati al trattamento

Sindrome mano-piede (Hand-Foot Syndrome, HFS) La sindrome mano-piede è un disturbo caratterizzato da eritema, edema, arrossamento e desquamazione delle mani e dei piedi che può essere accompagnato dalla presenza di flitteni ed ipercheratosi. Gli studi registrativi sugli inibitori del’angiogenesi nel mRCC hanno riportato come l’insorgenza di tale disturbo sia dipendente dal meccanismo d’azione del farmaco: nei pazienti trattati con inibitori delle tirosino kinasi l’incidenza è maggiore del 40% con una probabilità di Tabella I. Livelli di evidenza ed indicazioni delle maggiori società scientifiche internazionali per il trattamento di prima linea del mRCC.

Prognosi secondo MSKCC

Farmaco

EAU (LE)

NCCN (LE)

ESMO (LE)

Buona o intermedia

Sunitinib

1a

1

1a

Bevacizumab + IFNα

1b

1

1a

Pazopanib

1a

1

(1)

Sorafenib

Cattiva

2*

Citokine

1a*

1*

1*

Temsirolimus

1

1

1

LE = livello di evidenza; * = solo per pazienti selezionati.


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eventi di grado 3-4 del 10%9-11. Al contrario, tale tossicità non è riportata né per il bevacizumab, un anticorpo monoclonale contro il fattore di crescita vascolare (VEGF)12, né per gli inibitori di mTOR13,14. Uno studio osservazionale ha prospettivamente valutato l’insorgenza di HFS in 85 pazienti con mRCC trattati con sorafenib o placebo. Il 60% dei pazienti trattati con sorafenib riportava HFS e nel 63% vi era anche un’eruzione a livello del viso e dello cuoio capelluto15. Il tipo di alterazioni cutanee può essere di diversa natura a seconda del farmaco utilizzato: il sorafenib è caratterizzato da placche iper-cheratosiche simili a calli localizzate nei punti di pressione che possono essere trattate con creme a base di urea, diversamente il sunitinib è caratterizzato da desquamazione cutanea16. È ormai considerata buona norma suggerire ai pazienti di rimuovere eventuali aree ipercheratosiche o calli prima dell’inizio della terapia. Alcuni autori suggeriscono l’utilizzo di creme idrocortisoniche per i gradi G1-G2 mentre l’insorgenza di tossicità severe può richiedere anche l’utilizzo di prednisone per via orale16. Naturalmente in caso di tossicità G3 il trattamento deve essere sospeso e può essere ripreso allo stesso dosaggio dopo il primo evento, mentre deve essere ridotto come indicato dalla scheda tecnica del farmaco alla comparsa della successiva tossicità cutanea di grado 3. Nei gradi 1-2 il trattamento deve essere proseguito per quanto possibile mantenendo il dosaggio iniziale16.

Diarrea La tossicità gastrointestinale ed in particolare la diarrea è tipica degli inibitori delle tirosino kinasi. Questa è stata riportata nel 40-60% dei pazienti trattati con sunitinib sorafenib e pazopanib mentre è nettamente inferiore nei pazienti trattati con bevacizumab ed everolimus: circa 20% dei casi9-14. L’importanza di questa tossicità è legata all’impatto che può avere sulla vita quotidiana dei pazienti oltre al fatto che la sua gestione può necessitare dell’interruzione stessa del trattamento. Il trattamento della diarrea è puramente sintomatico e richiede l’utilizzo di loperamide a dosi che vanno dai 2 ai 16 mg al giorno. Il corretto apporto idro-salino deve essere comunque salvaguardato in caso di diarrea in questi pazienti. Tossicità cardiovascolare L’effetto cardiovascolare più rappresentativo dei farmaci antiangiogenici è l’ipertensione. Questa è stata riportata sia con l’utilizzo del bevacizumab (26%) che con l’utilizzo d’inibitori delle tirosino kinasi (30-40%)9-12. Una serie di metanalisi che hanno raccolto i dati degli studi di fase 2, 3 e 4 riportano un’incidenza di tossicità di grado elevato nel 10% dei casi17-19. Il management dell’ipertensione è quindi determinante per la corretta prosecuzione della terapia e, seppure siano state create delle linee guida specifiche20, il trattamento di questi pazienti ricalca quello della popolazione generale. Tuttavia, considerando il tipo di pazienti, l’obiettivo di evitare danni a lungo termine legato ad uno scarso controllo pressorio risulta meno stringente rispetto alla necessità di evitare eventi acuti e potenzialmente pericolosi per la vita del paziente. Il valore

target di pressione arteriosa dovrebbe essere al di sotto di 140/90 mmHg e pazienti con fattori di rischio come pressione sistolica > 180 mmHg, diastolica > 160 mmHg, diabete mellito, sindrome metabolica o pregresse patologie cardiache o renali dovrebbero essere riferiti allo specialista. In questi pazienti il trattamento iniziale dovrebbe prevedere l’utilizzo di diuretici tiazidici o beta bloccanti se il paziente ha meno di 60 anni d’età. In alternativa possono essere considerati anche gli ace inibitori (ad esclusione dei soggetti di razza nera) e i calcio-antagonisti20. Quando il controllo con la monoterapia non è ottimale può essere presa in considerazione la terapia d’associazione, e il paziente andrebbe indirizzato allo specialista. In caso di evento avverso serio legato all’ipertensione, si dovrebbe prendere in considerazione la possibilità di sospendere la terapia e di scegliere un trattamento alternativo. La riduzione della frazione d’eiezione cardiaca (FEV) è un’altra tossicità associata agli inibitori delle tirosino kinasi. Una recente metanalisi ha evidenziato come l’incidenza sia del 15% per una riduzione della FEV di ogni grado e del 2,6% per i gradi 3 e 4 con un rischio relativo di 1,8 e 3,3 rispettivamente21. Sebbene non vi sia un generale consenso su cosa fare per diagnosticare precocemente questa alterazione, alcuni propongono l’esecuzione di un ecocardiogramma al basale e dopo ogni ciclo per i primi quattro cicli di terapia16. Ovviamente la necessità di un follow-up cosi stringente deve essere valutata anche in base alla storia clinica del paziente e tenendo in considerazione la reversibilità di tale tossicità dopo la sospensione del farmaco.

Tossicità polmonare Per tossicità polmonare s’intende l’insorgenza di polmoniti non infettive (NIP) correlate con la somministrazione di inibitori di mTOR. Una recente metanalisi pubblicata dal nostro gruppo ha evidenziato come l’incidenza di NIP di tutti i gradi sia del 10,4% e quella di grado 3-4 del 2,4% con un rischio relativo di 31 e 8,8 volte rispettivamente22. Il meccanismo eziopatogenetico di tale tossicità non è attualmente conosciuto anche se un meccanismo d’ipersensibilità di tipo ritardato dipendente dai linfociti T è stato chiamato in causa23. Allo stesso modo non sono conosciuti fattori predisponenti, per cui l’unico elemento che può limitare l’insorgenza di tale tossicità è il precoce riconoscimento da parte del clinico di sintomi respiratori in un paziente che ha recentemente iniziato un trattamento con everolimus o temsirolimus. La diagnosi differenziale tra NIP e polmonite di origine infettiva è un fattore decisivo in quanto le infezioni possono essere un causa frequente di infiltrati polmonari. Esami colturali e un lavaggio bronco alveolare (BAL) possono essere utili per escludere un processo infettivo24. Attualmente non esiste un trattamento specifico, e i provvedimenti consigliati vanno dalla sospensione del farmaco, alla somministrazione di steroidi fino alla necessità di ricovero in terapia intensiva nei casi più gravi25. Tossicità endocrina e metabolica Il trattamento del mRCC ha portato anche alla comparsa di tossicità del tutto nuove per i farmaci antitumorali come CASCO — Vol 2, n. 2, aprile-giugno 2012

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quelle a livello endocrinologico e metabolico. Queste comprendono l’ipotiroidismo tipico degli inibitori delle tirosino kinasi e le alterazioni del metabolismo lipidico e glucidico, tipiche degli inibitori di mTOR. L’ipotiroidismo può essere distinto in “subclinico”: quando un’elevazione del TSH non si accompagna ad alterazione degli ormoni tiroidei e in “clinico” quando si verifica anche una diminuzione degli ormoni tiroidei. L’ipotiroidismo è stato riportato nel 14% dei pazienti trattati con sunitinib10, in meno del 10% dei pazienti trattati con pazopanib12, mentre non è stato riportato nello studio registrativo del sorafenib9. Un’analisi successiva degli studi di fase III e IV ha riportato un’incidenza d’ipotiroidismo in circa il 68% di pazienti trattati con sorafenib, di cui il 6% ha necessitato di terapia sostitutiva26. La diagnosi clinica d’ipotiroidismo non è agevole poiché il sintomo più frequente, l’astenia, non è distinguibile dall’astenia data dal trattamento. Tuttavia l’esecuzione di esami di laboratori può facilitare la diagnosi ed orientare il trattamento che dovrebbe essere instaurato nei pazienti sintomatici e con valori di TSH > 10MLU/l e naturalmente nei pazienti con ipotiroidismo clinico16. Di estrema importanza è il corretto timing della misurazione della funzionalità tiroidea: nei pazienti trattati con sunitinib questa dovrebbe essere misurata al giorno 1 e al giorno 28 di ogni ciclo in modo da vedere l’effetto del farmaco e l’eventuale risoluzione dopo il periodo di sospensione. Negli altri trattamenti questa dovrebbe essere somministrata ogni 28 giorni16. Le alterazioni metaboliche maggiormente osservate nei pazienti in trattamento per mRCC sono: iperglicemia, ipertrigliceridemia, ipercolesterolemia. Queste sono state riportate in corso di trattamento con everolimus e temsirolimus ma anche nei pazienti trattati con pazopanib. Circa il 50% dei pazienti trattati con temsirolimus e il 20% di quelli trattati con everolimus hanno avuto un aumento della glicemia con una percentuale di eventi avversi di grado 3-4 del 12%13,14. L’ipercolesterolemia e l’iperlipemia sono state riportate nel 4% e 14% dei pazienti trattati con temsirolimus e nel 76% e 71% dei pazienti trattati con everolimus, mentre gli eventi avversi di grado serio sono stati in generale inferiori al 5% per entrambi i farmaci13,14. In accordo con le maggiori linea guida, il diabete dovrebbe essere gestito con la dieta e la modificazione dello stile di vita27. Nei pazienti che necessitano di trattamento medico la scelta del farmaco deve essere effettuata tenendo in considerazione le controindicazioni che questi possono avere nei pazienti affetti da mRCC. Le sulfaniluree e le biguanidi sono controindicate in caso di grave compromissione epatica, mentre le biguanidi, gli inibitori delle alfa-glicosidasi nel caso di compromissione polmonare. Il trattamento dovrebbe essere iniziato con un farmaco sensibilizzante all’insulina come la metformina o un inibitore dell’alfa glicosidasi, mentre le sulfaniluree possono essere aggiunte in caso di scarso controllo glicemico. L’inizio del trattamento insulinico dovrebbe essere lasciato allo specialista. I valori target di glicemia sono di 110 mg/dl a digiuno e di 140 mg/dl dopo il pasto16. 52

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La valutazione del profilo lipidico dovrebbe essere inclusa nella valutazione iniziale del paziente candidato a ricevere un mTOR inibitore. Pazienti con valori iniziali al di sopra della norma dovrebbero ricevere un trattamento specifico con statine in caso d’ipercolesterolemia e fibrati in caso d’ipertrigliceridemia, ed essere rivalutati ogni 6 settimane. Naturalmente la riduzione di cibi ad alto contenuto lipidico e l’incremento dell’attività fisica, in accordo alle condizioni cliniche, devono essere suggeriti. Al momento le schede tecniche non forniscono indicazioni precise circa la riduzione di dose del farmaco o la sua sospensione in caso di tossicità metabolica16. •

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Casi clinici

La deriva della ricerca sugli antiemetici

Enzo Ballatori

Fausto Roila

Docente di Statistica Medica, Facoltà di Medicina e Chirurgia Università di L’Aquila

SC di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

N

ell’editoriale di apertura del n.1/2012 di CASCO, abbiamo sollevato il problema di come le linee guida di trattamento antiemetico, predisposte dalle più importanti società scientifiche (ASCO, MASCC+ESMO), presentino discrepanze in più punti, malgrado diversi componenti di un panel facessero parte anche dell’altro. Senza dubbio, ciò è dovuto anche alla scarsa qualità dei lavori pubblicati che lascia aperti ampi spazi di soggettività nella valutazione e nell’interpretazione dei risultati. Di recente, siamo stati coinvolti nel tentativo di eseguire un aggiornamento telematico delle linee guida MASCC/ESMO e uno degli argomenti di disaccordo è quello di annoverare l’olanzapina, un farmaco antipsicotico, tra le profilassi antiemetiche per i pazienti trattati con chemioterapia di alto e moderato/alto potere emetogeno solo sulla base dei risultati del lavoro riportato nella scheda. In verità, nella storia degli antiemetici, che un farmaco antipsicotico (o presunto tale) abbia mostrato una buona attitudine a prevenire nausea e vomito indotti da chemioterapia (Chemotherapy Induced Nausea and Vomiting, CINV) è già accaduto: lo zofran (ondansetron) prese tale nome perché inizialmente fu messo a punto per controllare la sintomatologia schizoide, dove si dimostrò inefficace; successivamente fu impiegato come antiemetico, e fu un successo. Come si noterà, nell’analisi degli endpoint secondari, il risultato eclatante è la capacità dell’olanzapina di controllare la nausea nella fase ritardata (giorni 2-5 dalla somministrazione della chemioterapia, v. scheda), centrando così l’obiettivo che oggi è il più importante della profilassi antiemetica. Inoltre, il costo dell’olanzapina è decisamente inferiore a quello del trattamento antiemetico standard. I punti di discussione sono due (li anticipiamo affinché il lettore possa formarsi una sua valutazione scorrendo il testo): a. se la scadente qualità del lavoro oscuri del tutto il suddetto risultato o se, malgrado tale cattiva qualità, ci sia qualcosa di reale nel potere antiemetico dell’olanzapina; b. se la cattiva qualità dell’unico studio finora prodotto consenta comunque di inserire nelle linee guida l’olanzapina tra i farmaci antiemetici. Oltre due decenni di ricerca clinica sui farmaci antiemetici, maturati nell’ambito dell’Italian Group for Antiemetic Research (IGAR), ci hanno permesso di chiarire alcuni meccanismi

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necessari per comprendere meglio il ruolo dei singoli farmaci. In una breve premessa, ne esponiamo due particolarmente attinenti lo studio in discussione, fiduciosi che saranno utili anche per valutare gli altri lavori che vengono attualmente pubblicati sull’argomento. Premessa per una ricerca scientifica sugli antiemetici

1. Relazione tra nausea e vomito Sebbene correlati, la nausea (N) e il vomito (V) sono due fenomeni distinti. Infatti, quasi sempre i pazienti che vomitano hanno anche nausea, mentre vomita solo una parte dei pazienti che ha nausea. Partendo da questa osservazione, mediante adeguate analisi statistiche, siamo riusciti a dimostrare che esistono almeno due tipi di nausea, una concomitante al vomito (N1), l’altra indipendente da esso (N2)1. Ora, mentre il processo fisiopatologico che dallo stimolo conduce al vomito è abbastanza ben conosciuto, dei meccanismi che inducono la nausea non associata al vomito si conosce ben poco. Inoltre, è verosimile che N2 sia in realtà una pluralità di tipi di nausea diversi: il sintomo è lo stesso, ma vi possono essere differenti percorsi che conducono da vari stimoli alla nausea. Da tale premessa, è subito evidente che l’effetto di un trattamento antiemetico sulla nausea può essere mediato dal vomito. In altre parole, la significativamente maggiore efficacia sulla nausea di una nuova terapia antiemetica, rispetto a quella standard, può essere unicamente dovuta alla sua maggiore capacità di controllare il vomito (e, quindi, la nausea ad esso concomitante), ma che non abbia alcun effetto sulla nausea indipendente dal vomito. È questo il caso degli antagonisti dei recettori 5-HT3 (5-HT3 r.a.) in confronto alla metoclopramide (entrambi aggiunti al desametasone): il loro maggiore effetto sulla nausea è semplicemente imputabile alla loro straordinaria capacità di prevenire il vomito (e quindi la nausea ad esso associata), mentre non sembrano avere un grande effetto sugli altri tipi di nausea. Sotto un profilo clinico tutto ciò ha un’importante conseguenza: in ogni ricerca sui nuovi agenti antiemetici, andrebbe individuato esattamente il loro ruolo, in particolare la loro capacità di controllare la nausea indipendente dal vomito. Infatti, se il nuovo farmaco è più efficace dello standard nel controllo del vomito, ma non di N2, nella combinazione antiemetica andrebbe introdotto un trattamento che specificamente abbia attitudine a controllare la nausea indipendente dal vomito; se tale trattamento non esiste, va fatto ogni sforzo per metterlo a punto.


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Queste considerazioni assumono grande rilevanza quando si pensi che oggi il vomito è abbastanza ben controllato, mentre è la nausea ad avere il maggiore impatto sulla qualità di vita del paziente, soprattutto se perdura nel tempo: più che la severità della nausea, ad impattare negativamente sulla qualità di vita del paziente è la sua durata2. Eppure, tale dimensione della nausea non viene per nulla considerata (come nel lavoro riportato nella scheda) o viene valutata in modo assai poco accurato.

Il ruolo dell’olanzapina Il lavoro riassunto nella scheda può essere visto come un paradigma della scadente qualità dell’attuale ricerca clinica sui trattamenti antiemetici. In pratica, contiene quasi tutto quello che non dovrebbe essere fatto in uno studio sugli antiemetici. Elenchiamo i problemi da cui è affetto, avvertendo che non sono esposti in ordine di gravità, perché la costruzione di una graduatoria sarebbe assai ardua.

2. Effetto di trascinamento della risposta nella fase acuta sull’emesi ritardata Il vomito ritardato, ossia quello che interviene dopo la 24a ora dalla somministrazione della chemioterapia, non esiste nel modello animale. Come conseguenza, l’emesi (nausea e/o vomito) ritardata (osservabile nell’uomo) ha un meccanismo fisiopatologico diverso da quello dell’emesi acuta, ossia da quella riscontrabile entro il primo giorno dalla somministrazione della chemioterapia. Questa è la ragione principale per cui, in tutte le linee guida di terapia antiemetica, l’emesi ritardata viene tenuta distinta da quella acuta. Studiando i fattori prognostici della nausea e del vomito ritardati (giorni 2-5, oppure giorni 2-8, dalla somministrazione della chemioterapia), ci si rese subito conto che il più importante tra loro è la protezione dalla nausea e dal vomito acuti, rispettivamente3. In altre parole, la protezione dalla nausea ritardata fu trovata assai superiore nei pazienti protetti dalla nausea acuta rispetto a quelli che, invece, ne avevano sofferto. Analogamente, la protezione dal vomito ritardato fu notevolmente superiore tra i pazienti che non vomitarono nelle prime 24 ore dalla chemioterapia che tra gli altri. Dal punto di vista della ricerca clinica ciò comporta che, per studiare l’effetto di un nuovo trattamento antiemetico sull’emesi ritardata, è necessario che i pazienti ricevano la stessa profilassi dell’emesi acuta, altrimenti la sua maggiore efficacia sull’emesi ritardata potrebbe essere imputabile alla maggiore protezione ottenuta nella fase acuta. Questa ovvia raccomandazione che compare nelle linee guida per la ricerca sugli antiemetici4, messe a punto durante la prima Consensus Conference (Perugia, 1997) ed approvate in seduta plenaria, fu più volte disattesa, come nel caso degli studi sull’aprepitant, per cui l’effetto di aprepitant sull’emesi acuta è eclatante, mentre quello sull’emesi ritardata resta ancora una zona grigia della ricerca sui farmaci antiemetici. Come corollario, se la profilassi dell’emesi acuta ha dato un diverso risultato per le terapie a confronto, è sempre necessario analizzare se la loro efficacia differenziale nella fase ritardata si conserva aggiustando per la protezione riscontrata nell’emesi acuta. Nel caso che, aggiustando per l’emesi acuta, il nuovo farmaco non mostri più una maggiore efficacia sull’emesi ritardata, si può concludere che l’iniziale significatività della differenza di efficacia contro l’emesi ritardata era puramente illusoria, in quanto dovuta alla maggiore efficacia contro l’emesi acuta che trascina i suoi effetti nella fase ritardata.

1. L’endpoint principale dello studio Come endpoint principale dello studio è stata scelta la Risposta Completa (Complete Response, CR) ossia la protezione dal vomito e il mancato ricorso alla terapia antiemetica di salvataggio (rescue) nei giorni 1-5 successivi alla somministrazione della chemioterapia. La Risposta Completa è un endpoint composto, discusso in forma critica nella rubrica “Statistica per concetti”. In questa sede aggiungiamo qualche specifica informazione. Da quanto esposto nella premessa emerge la complessità del campo della ricerca sugli antiemetici: nausea e vomito sono correlati, la nausea ed il vomito ritardati dipendono dai risultati ottenuti nella fase acuta. Probabilmente ad un oncologo che non amava spremersi troppo le meningi o ad un dirigente di una casa farmaceutica tendente alla schematizzazione, qualche anno fa è venuto in mente che, in fondo, dal punto di vista della pratica clinica, quello che importava era che il nuovo farmaco proteggesse dall’emesi in tutto il periodo in cui questa è massimamente virulenta. Quindi, senza pensarci troppo, ha convinto anche altri che tutta quella complessità di correlazioni era scarsamente utile e, introducendo la CR, ha risolto il problema con un aberrante pragmatismo. Se è vero che nausea e vomito sono correlati, se è vero che l’emesi ritardata è prodotta da un meccanismo fisiopatologico diverso da quello che induce emesi acuta, se è vero che i dati ottenuti con una ricerca clinica non sono resi disponibili ai ricercatori, la soluzione adottata è evidentemente pessima in quanto non consente più di individuare il ruolo del nuovo farmaco, necessario ai fini della decisione clinica. In altre parole, in uno studio siffatto non sapremo più se il nuovo farmaco agisce soprattutto nella fase acuta o in quella ritardata, né, oltre che a prevenire il vomito, abbia anche un qualche effetto sulla nausea da esso indipendente. Ma vi è di più. Il mancato ricorso alla terapia di salvataggio non solo non valuta affatto la intensità e la durata della nausea, che pertanto potrebbe essere presente anche nei soggetti che non richiedono il rescue, ma soprattutto è legata ad un elemento di incertezza che la rende del tutto inaccurata. Infatti, il paziente che ha una nausea forte e prolungata nel tempo non sempre è in grado di ottenere un rescue, in quanto non sempre riesce a contattare il proprio medico o l’oncologo. Quindi, vi possono essere più pazienti che non hanno ricevuto la terapia di salvataggio non perché non ne avessero bisogno, ma per ragioni connesse all’efficienza assistenziale. Combinando una risposta obiettiva (no vomito), con CASCO — Vol 2, n. 2, aprile-giugno 2012

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una che dipende anche da circostanze occasionali (il rescue) si può ottenere solo un pasticcio e non la valutazione scientifica del valore di un farmaco. Evitare l’uso di risposte composte era una richiesta contenuta nelle linee guida di ricerca sugli antiemetici4, approvate dalla Consensus Conference di cui facevano parte anche quei ricercatori che oggi la usano correntemente. Non sempre l’industria ha interesse che il ruolo di un nuovo farmaco antiemetico sia rigorosamente individuato, ma accettare la CR come endpoint primario, da parte di uno Steering Committee che è pagato dall’industria, lascia intravvedere un’abdicazione dai canoni della ricerca scientifica a vantaggio di interessi personali più immanenti. Si noti che non solo le autorità regolatorie non hanno evidentemente idea di cosa sia la ricerca sugli antiemetici, ma soprattutto è grave che nessuna voce si sia mai levata da parte dei più autorevoli ricercatori del settore per condannare questa pratica insensata.

2. Effetto di trascinamento Lo studio ha mostrato che la protezione dalla nausea ritardata nel gruppo dell’olanzapina (OPD) è significativamente superiore rispetto a quella osservata nel gruppo dell’aprepitant (APD): 69% vs 38%.

Però, anche la risposta completa nella fase acuta è stata trovata superiore, sebbene non significativamente, nel gruppo OPD (97% vs 87%). Ciò avrebbe dovuto indurre a valutare l’effetto sulla nausea ritardata aggiustando per quello riscontrato nella fase acuta, così da evidenziare che tale differenza non sia unicamente imputabile alla maggiore efficacia dell’olanzapina nella prevenzione della nausea acuta. Comunque, il risultato, pur sorprendente come livello, è puramente indicativo sia perché la protezione dalla nausea è un endpoint secondario (lo studio non è stato progettato per una sua specifica valutazione), sia in quanto l’efficacia di un antiemetico nella fase ritardata va sempre valutata tenendo costante, in entrambi i bracci, la profilassi dell’emesi acuta.

3. Studio open Si tratta di uno studio open label, inammissibile quando le risposte considerate sono di tipo soft, perché in tal modo non viene controllata la distorsione da informazione. In particolare è di tipo soft la nausea, perché la sua valutazione è su base puramente soggettiva; quindi la risposta fornita dal paziente potrebbe essere modificata dalla conoscenza del trattamento che sta ricevendo. Pertanto, tutti i risultati esposti vanno presi con estrema cautela (si noti che la nau-

SCHEDA RIEPILOGATIVA

Navari RM, Gray SE, Kerr AC. Olanzapine versus aprepitant for the prevention of chemotherapy-induced nausea and vomiting: a randomized phase III trial. J Support Oncol 2011; 9: 188-95. Scopo dello studio Confrontare l’efficacia dell’olanzapina rispetto all’aprepitant, entrambi combinati con palonosetron e desametasone, nella prevenzione della nausea e del vomito indotti da chemioterapia (ChemotherapyInduced Nausea and Vomiting, CINV). Pazienti Di età ≥18 anni, con diagnosi confermata di cancro, sottoposti per la prima volta alla chemioterapia, destinati a ricevere cisplatino in dose ≥70 mg/m2, o ciclofosfamide ≥600 mg/m2, o doxorubicina ≥50 mg/m2, trattati in day hospital in tre centri. Furono esclusi i pazienti con nausea

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e/o vomito nelle 24 ore precedenti la somministrazione della chemioterapia, e che negli ultimi 30 giorni avevano ricevuto un farmaco antipsicotico.

1) al giorno 5 i pazienti furono richiesti di registrare giornalmente in una diary card il numero di episodi di vomito e conati, nonché l’intensità massima del livello di nausea su un Trattamenti analogo visivo lineare (10 cm). Un OPD: giorno 1: olanzapina (10 mg os) infermiere di ricerca telefonò una + palonosetron (0.25 mg iv) + volta al giorno per ricordare alla desametasone (20 mg iv) paziente di compilare la diary card e giorni 2-4: olanzapina (10 mg os al dì) per informarsi su eventuali eventi APD: giorno 1: aprepitant (125 mg os) avversi. + palonosetron (0.25 mg iv) + Endpoint desametasone (12 mg iv) giorni 2-3: aprepitant (80 mg os al dì); Endpoint primario: Risposta Completa giorni 2-4: desametasone (4 mg due (Complete Response, CR): no vomito volte al dì). e no terapia di salvataggio (rescue antiemetic treatment) nel periodo Procedure di valutazione 0-120 ore dalla somministrazione Per la valutazione della tollerabilità della chemioterapia differenziale dei due trattamenti fu Endpoint secondari: usata la scala MDASI (M. D. Anderson a. CR nella fase acuta (giorno 1) Symptom Inventory), che rileva b. CR nella fase ritardata (giorni 2-5) presenza ed intensità dei più comuni c. No nausea nella fase acuta, eventi avversi dei pazienti con cancro. in quella ritardata e nell’intero Dall’inizio della chemioterapia (giorno periodo.


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sea è anche parte integrante della Risposta Completa). A nostro giudizio, è sufficiente il mancato ricorso alla doppia cecità per considerare inaccettabili i risultati dello studio a causa della loro scarsa affidabilità.

4. La disuguaglianza di Bonferroni Per valutare il cambiamento degli score dei sintomi tra i cicli di chemioterapia e tra i giorni di ciascun ciclo, furono costruiti 19 modelli di analisi della varianza con misure ripetute e, per tener conto dei confronti multipli, il livello di significatività fu abbassato all’1% (v. sez. “Analisi statistica” della scheda). In realtà non è affatto chiaro come gli autori abbiano proceduto, ma se avessero eseguito un solo confronto per modello, il livello di significatività sarebbe dovuto essere ben inferiore all’1% (circa 0.05/19 = 0.0026) per la disuguaglianza di Bonferroni: la procedura adottata è infattibile perché, con un livello di significatività così basso, non si sarebbe potuto evidenziare alcunché, come di fatto è avvenuto. Ma il punto più delicato è che, avendo scelto come endpoint principale la Risposta Completa per l’intero periodo (giorni 1-5), fra i trattamenti non solo è stato confrontato tale risultato, ma sono stati anche eseguiti confronti di CR per il giorno 1 e per i giorni 2-5. Il che vuol dire che sullo

Dimensione del campione Lo studio fu disegnato per scoprire una differenza tra i due regimi del 15%. Fissato un livello di significatività del 5%, 111 pazienti per braccio furono necessari per scoprire una differenza con l’80% di probabilità. Tale numero fu aumentato per tenere conto di un tasso di drop out del 10%.

stesso materiale sperimentale sono stati eseguiti 3 confronti indipendentemente l’uno dall’altro, per cui, per la disuguaglianza di Bonferroni, si sarebbe dovuto abbassare il livello di significatività per ciascun confronto a circa l’1,7% per mantenere al 5% il livello di significatività complessivo (v. “Statistica per concetti” nel n. 1 della rivista). Ciò comporta anche che il calcolo della dimensione del campione avrebbe dovuto tener conto dell’abbassamento del livello di significatività. Anche se si trattasse di un lavoro scientifico, il “così fan tutti” non potrebbe certo costituire un’attenuante, ma, semmai, un ulteriore segno del degrado dell’attuale ricerca sugli antiemetici.

5. Disegno dello studio e dimensione del campione Non è stato precisato se lo studio è di superiorità, di non inferiorità o di equivalenza. Sembrerebbe trattarsi di uno studio di superiorità, ma in tal caso la differenza minima clinicamente rilevante è stata fissata al 15%: l’olanzapina dovrebbe fornire un risultato in termini di risposta completa nei giorni 1-5 del 15% superiore al trattamento standard (aprepitant + 5HT3 antagonista + desametasone, APD), il che pare francamente esagerato. Inoltre, nel calcolo della dimensione del campione, non

di analisi della varianza con misure ripetute per valutare il cambiamento degli score dei sintomi tra i cicli di chemioterapia e tra i giorni all’interno di ciascun ciclo. Poiché furono costruiti 19 modelli, il livello di significatività fu abbassato all’1% come aggiustamento per confronti multipli.

Risultati Randomizzati 247 pazienti, valutati Analisi statistica 241 (OPD: 121; APD: 120) per almeno Oltre alla usuali statistiche descrittive un ciclo di chemioterapia. Furono per presentare le caratteristiche dei trattati con cisplatino 50 pazienti nel pazienti, furono calcolate le frequenze braccio OPD e 44 nel braccio APD. delle tossicità severe e degli eventi Nel primo ciclo di chemioterapia, avversi. Furono determinate la il 97% dei pazienti nel braccio OPD e percentuale delle CR e quella dei l’87% in quello APD ottennero una pazienti che non soffrirono di nausea CR nella fase acuta; rispettivamente nella fase acuta, in quella ritardata e il 77% e il 73% sia nella fase ritardata nell’intero periodo. Furono altresì (giorni 2-5), sia nell’intero periodo calcolate media, mediana e deviazione (giorni 1-5). Nessuna di tali differenze standard della massima intensità di fu significativa. ciascun sintomo registrato nella Considerando la protezione completa MDASI. Infine, fu costruito un modello dalla nausea, nella fase acuta furono

protetti la stessa percentuale di pazienti nei due bracci (87%), ma nella fase ritardata non ebbe nausea il 69% dei pazienti trattati con olanzapina (braccio OPD), mentre fu il 38% nel braccio APD. Tali risultati sono uguali a quelli relativi all’intero periodo. Le differenze in termini di protezione completa dalla nausea nella fase ritardata e nell’intero periodo sono risultate significative (P < 0,01). Nei cicli successivi al primo, sia la CR, sia la protezione dalla nausea non furono significativamente diverse da quelle riscontrate nel primo ciclo, né furono significativamente diverse per sesso, tipo e stadio di malattia (dati non mostrati). I punteggi di severità degli eventi avversi rilevati con l’MDASI non furono significativamente diversi tra i due gruppi e decrescono nei cicli successivi. In nessun ciclo fu presente un sintomo con un grado di tossicità 3 o 4. •

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è precisato il punto di partenza cioè la CR nei giorni 1-5 ottenibile con APD, ma con semplici calcoli si ottiene il 72,4%. Quindi, l’assunzione è che olanzapina riesca a portare la CR nei giorni 1-5 dal 72,4 (valutato con APD) all’87,4%. All’adozione di una soglia troppo alta, a parità di livello di significatività e di potenza, corrisponde una numerosità troppo bassa, che, con alta probabilità, rende lo studio incapace di evidenziare una differenza meno rilevante. In conclusione, lo studio appare sottodimensionato.

6. Analisi ad interim Risultati preliminari di questo studio relativi ai primi 50 pazienti arruolati sono stati presentati all’ASCO 2010 (J Clin Oncol 2010; 28: 641s; abst. 9020). È stata quindi condotta un’analisi ad interim che riteniamo non pianificata perché nel testo dell’articolo non se ne fa menzione. Un’analisi ad interim non pianificata rovina completamente la metodologia dello studio, perché altera il livello di significatività prefissato (v. “Statistica per concetti” nel n. 1 della rivista), che dovrebbe essere ridotto in conseguenza dell’analisi ad interim, ma, così facendo, si sarebbe dovuta aumentare la dimensione dello studio che, altrimenti, risulta ancora più sottodimensionato. Inoltre, essa potrebbe provocare imbarazzo quando, ad esempio, il nuovo trattamento fosse trovato significativamente superiore a quello standard: in tal caso lo studio dovrebbe essere interrotto per motivi etici, ma nessuno può assicurare che tale differenza non si riassorba nel prosieguo dell’arruolamento. Sorge allora la domanda: ma perché si fa? La risposta è ovvia: per partecipare ad un congresso, cioè per soldi o per vanità accademica, non certo nell’interesse della scienza o del paziente. 7. La valutazione degli eventi avversi Di norma, in uno studio randomizzato per gruppi paralleli, si valuta la sicurezza differenziale dei trattamenti a confronto riportando tutti gli eventi avversi che si sono presentati ed eseguendo, per ciascuno di loro, un test statistico per il confronto tra due frequenze: se si raggiunge la significatività vuol dire che, per ragioni note o sconosciute, uno dei trattamenti sembra mostrare una maggiore tendenza a produrre quel determinato evento. Sebbene non sia una prova definitiva che ciò realmente accada (per via della disuguaglianza di Bonferroni), il trattamento va ulteriormente studiato per cercare una spiegazione dell’accaduto. Se gli eventi avversi sono riportati su una scala di gravità, anche tale dimensione va valutata o dicotomizzando il carattere (ad es., considerando solo i gradi 3 e 4 di severità) ovvero confrontando le intensità medie di gravità, ma solo nei pazienti colpiti da tale evento indesiderato. Nel lavoro è stata seguita una procedura del tutto anomala, apparentemente per ragioni di semplicità. È stata utilizzata la scala MDASI (M. D. Anderson Symptom Inventory) che, a detta degli autori, costituisce un “sistema flessibile per la valutazione dei sintomi dei pazienti con cancro” e consiste in un core di 13 sintomi, valutati per presenza ed intensità, più 6 sintomi che interferiscono nella vita quotidiana. 58

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Tale scala non sembra essere specifica per la ricerca sulla tollerabilità di trattamenti antiemetici, né tantomeno di antipsicotici, in quanto prevede sintomi che con questi farmaci non hanno nulla a che fare (ad es., dolore, fatigue, disturbi del sonno, problemi di memoria, ecc.), mentre mancano quelli specifici e consolidati (singhiozzo, vampate di calore, mal di testa, diarrea, costipazione, ecc.). In aggiunta, sono riportate le medie degli score per ciascun sintomo, considerando anche i pazienti che non ne hanno sofferto. In tal modo, poiché l’incidenza di ciascun sintomo di norma è bassa, i valori medi si appiattiscono e non possono che risultare praticamente uguali. Infine ci si sarebbe atteso un maggior dettaglio su sonnolenza e sedazione spesso indotte dall’olanzapina, che avrebbero persino potuto indurre il paziente a non compilare la diary card, inducendo nel ricercatore una confusione tra omissione ed assenza di nausea e vomito. Può darsi che gli autori abbiano posto in essere un sistema di controlli sulla compilazione della diary card, per cui, su quest’ultimo punto, sospendiamo il giudizio. Però, non ci resta che concludere che la tollerabilità dei trattamenti non è stata studiata.

8. Qualità di vita Una valutazione dell’impatto differenziale dei trattamenti, sulla vita quotidiana del paziente, sarebbe stata particolarmente utile perché si sta confrontando una terapia antiemetica standard con un farmaco antipsicotico. Infatti, potrebbe accadere che: a. l’emesi non controllata dai due diversi tipi di farmaci potrebbe avere un impatto differente sulla vita del paziente (in tal caso si dovrebbe usare il FLIE, Functional Living Index – Emesis); b. l’olanzapina potrebbe avere effetti collaterali che impattano maggiormente sulla vita del paziente (per testare questa ipotesi si potrebbe scegliere tra QLQ-C30 e FACT-G). Conclusioni Il sonno della ragione genera mostri. Pur essendo stato introdotto in un diverso contesto, l’aforisma ci sembra appropriato in quanto l’allontanamento della ricerca clinica dai canoni della ricerca scientifica è un fatto preoccupante che lascia intravvedere un futuro in cui i risultati della ricerca perderanno sempre più di credibilità, lasciando sempre più spazio al marketing dell’industria, con gravi conseguenze per la conoscenza e, quindi, per il paziente. Quando la dimensione della discussione di uno studio supera il numero di pagine del lavoro pubblicato, c’è qualcosa che non va. La nostra attitudine mentale in difesa della buona qualità della ricerca clinica da sola non basta a giustificare tale osservazione. Quindi, accertata la scadente qualità del lavoro esaminato, proviamo a rispondere alle due domande iniziali, sperando che collimino con il giudizio del lettore. Cominciamo con la seconda. A nostro giudizio, per quanto esposto, lo studio non può essere considerato ai fini della modificazione delle linee guida esistenti, anche perché costituirebbe un precedente troppo pericoloso. Non siamo, però, affatto certi che, malgrado le cri-


| Casi clinici | La deriva della ricerca sugli antiemetici

tiche sopra esposte, il nostro punto di vista prevalga. La risposta alla prima domanda è più articolata: malgrado gli enormi difetti evidenziati, si tratta pur sempre di uno studio randomizzato i cui risultati hanno mostrato una impressionante maggiore efficacia di OPD, rispetto alla terapia antiemetica standard, nel controllo della nausea ritardata, cioè proprio sull’endpoint che oggi è considerato il più importante nella ricerca sugli antiemetici. D’altro canto, però, le sue limitazioni non consentono di considerare affidabili i risultati ottenuti. In conclusione, l’olanzapina potrebbe avere un ruolo nella terapia antiemetica: si tratta di definirlo con una ricerca condotta in modo metodologicamente corretto. Ad esempio, visto che il suo ipotetico punto forte è il controllo della nausea ritardata, si potrebbe programmare uno studio doppio cieco, controllato. A tutti i pazienti verrebbe somministrata la terapia antiemetica standard (ad es., APD), e, in ag-

giunta, un braccio riceverebbe come profilassi della nausea ritardata olanzapina e l’altro placebo. Ma, per favore, cerchiamo di evitare analisi ad interim! • Bibliografia 1. De Angelis V, Ballatori E, Tonato M, et al. On the relationship between nausea and vomiting in patients undergoing chemotherapy. Support Care Cancer 1994; 2: 171-6. 2. Ballatori E, Roila F, Ruggeri B, et al. The impact of chemotherapyinduced nausea and vomiting on health-related quality of life. Support Care Cancer 2007; 15: 179-85. 3. Roila F, Boschetti E, Tonato M, et al. Predictive factors of delayed emesis in Cisplatin-treated patients and antiemetic activity and tolerability of Metoclopramide or Dexamethasone. Am J Clin Oncol (CCT) 1991; 14: 238-42. 4. Morrow GR, Ballatori E, Groshan S, et al. Statistical considerations in the design, conduct and analyses of antiemetic trials. An emerging consensus. Support Care Cancer 1998; 6: 261-5.

Statistica per concetti

Endpoint composti

S

i ha un endpoint composto quando più endpoint semplici vengono combinati in un’unica risposta. Esempio 1: in cardiologia si considera fallimento di una profilassi anticoagulante o antiaggregante piastrinica il presentarsi di un evento ischemico maggiore, quale ad esempio, infarto del miocardio, ictus ischemico, claudicatio intermittens, angina pectoris. L’utilità nel considerare un unico endpoint sta nella possibilità di arruolare, in un clinical trial, un minor numero di pazienti, ovvero di attendere un minor tempo per accertare il fallimento di una terapia. Il razionale consiste nel considerare l’efficacia di una profilassi nella prevenzione di un

qualunque evento ischemico grave di circolo arterioso su base trombotica. La giustificazione sta nel fatto che se considerassimo un solo evento (ad es., l’infarto del miocardio) trascureremmo gli altri eventi su base ischemica, ottenendo così un’immagine solo parziale dell’efficacia di un determinato trattamento. Esempio 2: i QALY (QualityAdjusted Life Years). Solo due sono gli endpoint di efficacia di una terapia: durata della sopravvivenza e qualità di vita. Tali due endpoint possono essere sintetizzati in uno solo aggiustando la sopravvivenza per qualcosa di attinente la qualità di vita, cioè assegnando a ciascun periodo di sopravvivenza un peso

ottenuto considerando la qualità annessa a quelle determinate condizioni di salute. Tale sintesi può avvenire con diverse tecniche, di cui la più diffusa è quella basata sui QALY, in cui la sopravvivenza è aggiustata per la qualità di vita, misurata con appositi strumenti. Ad esempio, poniamo uguale a 1 la qualità di vita di un anno trascorso in buone condizioni di salute, uguale a 0,5 la qualità di un anno trascorso in poltrona, uguale a 0,2 la qualità di un anno trascorso a letto. Un paziente che sopravvivesse 3 anni, di cui uno in buone condizioni, uno in poltrona, uno a letto sarebbe da considerare come se sopravvivesse 1 x 1 + 0,5 x 1 + 0,2 x 1 = 1,7 anni in condizioni di buona salute. L’importanza dei QALY è dovuta non solo alla possibilità di valutare più compiutamente l’efficacia di una terapia, ma anche perché ormai è parte integrante dello strumento di costo-efficacia con cui l’autorità regolatoria di diversi paesi valuta la sostenibilità, per la spesa sanitaria, dell’adozione di un nuovo farmaco. CASCO — Vol 2, n. 2, aprile-giugno 2012

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| Statistica per concetti | Endpoint composti

Considerare diverse risposte al trattamento è spesso necessario sia per finalità conoscitive, sia per la decisione clinica, in particolare, per la costruzione di scenari che saranno poi utilizzati per attuare la decisione clinica condivisa con il paziente. Gestire, però, una pluralità di risposte introduce elementi di notevole complessità a causa delle correlazioni esistenti tra gli endpoint semplici che, se da un lato consentono di acquisire nuove conoscenze sugli effetti del trattamento sulla patologia in oggetto, dall’altro costituiscono un ostacolo all’efficacia della comunicazione dei risultati. Quando si vuole privilegiare quest’ultimo aspetto, gli endpoint semplici vengono combinati in un unico endpoint composto. Esempio 3: il beneficio clinico. Quando l’effetto di un trattamento è valutato in relazione alla sua capacità di controllo dei sintomi, si può costruire un endpoint composto chiamato “beneficio clinico”. Ad esempio, per un paziente, ottenere da un trattamento un miglioramento di oltre il 10% (cut-off), che duri per un certo periodo di tempo, in almeno 4 delle seguenti 5 risposte, senza un peggioramento della quinta, è considerato un beneficio clinico: – riduzione del dolore – diminuzione del consumo di analgesici – aumento ponderale – performance status (PS) – miglioramento dell’appetito Esempio 4: la risposta alla terapia antiemetica. Negli ultimi anni, sempre più spesso, l’efficacia dei trattamenti antiemetici è valutata attraverso endpoint composti, quali, ad esempio, la “Risposta completa” (Complete Response, CR): assenza di vomito e non uso del trattamento di salvataggio (evidentemente contro la nausea), o la “Protezione completa” (Complete Protection, CP): assenza di

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vomito, non uso della terapia antiemetica di salvataggio, massima intensità di nausea inferiore a mm 25 in un analogo visivo lungo 100 mm. Mentre nei primi due esempi l’uso di un endpoint composto appare ben supportato da validi motivi, negli ultimi due non può dirsi altrettanto. Per quanto concerne il “beneficio clinico”, non sembrano esservi ragioni né di necessità, né di utilità clinica per il suo impiego. Infatti, in sede di presentazione dei risultati è comunque necessario mostrare gli effetti del trattamento sui singoli endpoint semplici e sarebbe anche molto utile studiare le correlazioni tra gli effetti. Ma è soprattutto la soggettività della scelta sia dei singoli endpoint sia del predeterminato cutoff (10%) a destare sospetti circa un suo uso a prevalenti fini di marketing. Ad esempio, se è già noto che una chemioterapia A migliora l’appetito e riduce il dolore, proprietà che la chemioterapia B non ha, quasi certamente il beneficio clinico sarà più frequente nei pazienti trattati con A che in quelli che hanno ricevuto B. Sorge, però, il dubbio che, assumendo come endpoint principale il beneficio clinico, la chemioterapia B sia il comparator giusto: l’uso di un corticosteroide potrebbe dare migliori risultati, in quanto accresce l’appetito e controlla il dolore meglio di A. Il beneficio clinico è un endpoint surrogato più della qualità di vita che della sopravvivenza che andrebbe comunque valutata. Inoltre, com’è evidente dall’esempio 3, alcuni endpoint richiedono una valutazione soggettiva o del medico (PS) o del paziente (intensità del dolore) che imporrebbero uno studio in doppio cieco, cosa che è abitualmente disattesa. Infine, sotto un profilo metodologico, possono esservi distorsioni da confondimento, dovute alla correlazione tra gli endpoint. Ad esempio, intensità del dolore e PS:

l’efficacia del trattamento sul dolore potrebbe essere l’unica causa del miglioramento delle condizioni generali del paziente; in tal caso, però, risulterebbero significativi entrambi gli effetti, ma quello sul PS potrebbe essere puramente illusorio. Da ultimo, quasi sempre non è definita la rilevanza clinica del miglioramento del beneficio clinico, in quanto esso non è stato mai validato, anche perché le variabili che lo compongono variano in relazione al contesto in cui viene utilizzato. Nella ricerca sugli antiemetici, l’uso di un endpoint composto nasconde il ruolo reale del trattamento, impedendo di indagare su un terreno di notevole rilevanza clinica. Più precisamente, nel caso che l’endpoint principale sia la Risposta completa (CR) nei primi 5 giorni successivi alla somministrazione della chemioterapia, constatando che con il trattamento A si ottiene una CR significativamente superiore a quella ottenuta con B, non sappiamo se A sia più efficace di B nel prevenire il vomito, o la nausea, o entrambi, né è dato di conoscere se A controlla meglio di B nausea e/o vomito nella fase acuta o in quella ritardata o in entrambe (v. “Casi clinici”). Non solo tale conoscenza è clinicamente rilevante, perché ha immediate ripercussioni sulla pratica clinica, ma è utile anche ad orientare le future ricerche sugli antiemetici. Ad esempio, se il trattamento A si dimostrasse più utile di B nel prevenire il vomito, ma non la nausea, sarebbe opportuno somministrarlo in combinazione con un altro farmaco avente una già provata efficacia contro la nausea, come potrebbe essere l’olanzapina, se il suo valore nel prevenire la nausea ritardata fosse accertato con un trial metodologicamente corretto. In conclusione, gli endpoint composti andrebbero evitati, a meno che non vi siano solide ragioni (come negli esempi 1 e 2) che ne giustifichino la scelta. Enzo Ballatori


Gestione eventi avversi

Tossicità da inibitori di mTOR

Claudia Caserta Sonia Fatigoni SC Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

Introduzione Una promettente strategia nella terapia antitumorale di diversi tipi di neoplasie è rappresentata dall’inibizione di mTOR, acronimo di mammalian target of rapamycin. Si tratta di una proteina, serina/treonina chinasi intracellulare, identificata nei mammiferi come bersaglio dell’antibiotico macrolide rapamicina. mTOR è essenziale nella patogenesi dei tumori umani perché svolge un ruolo centrale nella regolazione dei processi di crescita, proliferazione e sopravvivenza delle cellule, principalmente attraverso la via di trasduzione del segnale che coinvolge PI3K/AKT, perché è responsabile dei processi di controllo della trascrizione e sintesi proteica ed è inoltre coinvolta nel processo metastatico e nell’angiogenesi tumorale1. Gli inibitori di mTOR sono una classe di farmaci utilizzati inizialmente come immunosoppressori per prevenire le reazioni di rigetto nei trapianti d’organo, che hanno poi mostrato di possedere attività antitumorale grazie all’inibizione della proliferazione cellulare e dell’angiogenesi. La rapamicina, o sirolimus, è il prototipo degli inibitori di mTOR, mentre i farmaci oggi utilizzati in oncologia sono i suoi derivati, meno tossici e più efficaci, temsirolimus ed everolimus. Sia temsirolimus che everolimus agiscono legandosi ad una proteina intracellulare, FKBP-12, e formando un complesso che inibisce la proteina mTOR2. Temsirolimus è un farmaco somministrato per via endovenosa, alla dose settimanale di 25 mg, ed è indicato nel trattamento di prima linea di pazienti con carcinoma renale avanzato a prognosi sfavorevole3. In ematologia è indicato nel trattamento di pazienti adulti con linfomi a cellule mantellari refrattario e/o recidivante4, alla dose di 175 mg una volta alla settimana per 3 settimane, seguita da dosi settimanali di 75 mg; questo dosaggio più elevato impiegato nel linfoma a cellule mantellari comporta anche una maggiore incidenza di effetti collaterali, tali da richiedere spesso riduzioni di dose. Everolimus, farmaco biodisponibile per via orale alla dose di 10 mg al giorno, è indicato per il trattamento di pazienti con carcinoma renale avanzato in progressione durante o dopo terapia con agenti anti-VEGFR (sunitinib e/o sorafenib)5,6 e nel trattamento dei pazienti con tumori neuroendocrini (NET) pancreatici in progressione dopo terapia con analoghi della somatostatina7,8.

In questo articolo verranno descritti in dettaglio i principali effetti collaterali specifici della classe di farmaci inibitori di mTOR, come everolimus e temsirolimus, con particolare attenzione alla loro prevenzione, monitoraggio e trattamento. Occorre sottolineare che, muovendoci in un settore di completa assenza di dati da studi prospettici, controllati, la nostra trattazione sugli aspetti che riguardano la prevenzione e il trattamento degli eventi avversi da everolimus e temsirolimus ha lo scopo di fornire alcuni suggerimenti pratici, per lo più derivanti da osservazioni ed esperienze cliniche quotidiane2,9. Sarebbe necessario, infatti, condurre degli studi prospettici per studiare la patogenesi, al momento in gran parte sconosciuta, i fattori di rischio e il trattamento degli eventi avversi specifici di questa nuova classe di farmaci antitumorali per cercare di ridurre il più possibile l’impatto negativo del trattamento antitumorale sulla qualità di vita del paziente. Principali effetti collaterali Dagli studi clinici randomizzati che hanno incluso diverse centinaia di pazienti e dalla sorveglianza postmarketing, sono emersi alcuni eventi avversi specifici di questa classe di farmaci antitumorali, prevalentemente correlati all’attività immunosoppressiva e all’inibizione dell’angiogenesi. Complessivamente il profilo di tollerabilità di everolimus e di temsirolimus appare accettabile, poiché gli eventi avversi osservati negli studi clinici sono stati prevalentemente di entità lieve-moderata e la percentuale di eventi avversi di grado 3-4 è risultata bassa. Anche la frequenza con cui nei diversi studi clinici è stato necessario interrompere temporaneamente o sospendere definitivamente la terapia o ridurre la dose del farmaco a causa di eventi avversi è stata bassa. Per esempio, nello studio RECORD-16, studio di fase III randomizzato, placebocontrollato, di everolimus in 416 pazienti affetti da carcinoma renale metastastico in progressione dopo almeno una precedente terapia anti-VEGFR, solo il 10% dei pazienti ha interrotto in maniera definitiva il trattamento a causa degli effetti collaterali (con polmonite, dispnea, fatigue come cause più comuni), il 35% ha richiesto un’interruzione temporanea della terapia per la comparsa di eventi avversi e il 7% almeno una riduzione di dose. Nello studio randomizzato di temsirolimus nel trattamento di prima linea dei pazienti con carcinoma renale metastatico a cattiva prognosi3, soltanto il 7% dei pazienti ha interrotto il trattamento definitivamente per la comparsa di eventi avversi, il 66% ha richiesto il rinvio di una somministrazione e il 23% una riduzione di dose. Tra gli effetti collaterali caratteristici della classe di farmaci inibitori di mTOR vi sono la mucosite e la stomatite, la diarrea, CASCO — Vol 2, n. 2, aprile-giugno 2012

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il rash cutaneo, le infezioni, la polmonite interstiziale non infettiva, le anomalie metaboliche (iperglicemia e dislipidemie). La frequenza degli effetti collaterali caratteristici di questa classe di farmaci è riportata nella tabella I, con le percentuali riscontrate negli studi di fase III condotti con temsirolimus ed everolimus come singoli farmaci. Mucosite L’infiammazione della mucosa del tratto gastroenterico superiore ed inferiore è un evento avverso molto comune tra i paziente in terapia con gli inibitori di mTOR everolimus e temsirolimus. La mucosite può coinvolgere tutto il sistema digerente, dalla mucosa del cavo orale alla mucosa intestinale, provocando disagi significativi per il paziente nell’alimentazione, a causa della presenza di sintomi quali dolore e/o bruciore alla bocca e alla lingua, xerostomia, alterazioni del gusto e disturbi dell’alvo come la diarrea. La stomatite viene definita come un’infiammazione della mucosa del cavo orale, della superficie interna della labbra e della lingua; può essere associata ad eritema, edema, presenza di lesioni ulcerate rotonde simili a lesioni aftose, sensazione di bruciore, secchezza e raramente sanguinamento.

È importante, al momento di iniziare la terapia con everolimus o temsirolimus, avvertire il paziente della possibilità di sviluppare mucosite del cavo orale, stomatite ed ulcere; educare il paziente ad un’accurata igiene orale impiegando per esempio sciacqui con bicarbonato di sodio o colluttori che non contengano alcool, iodio, perossido di idrogeno o derivati del timo; educare il paziente alla prevenzione di eventuali focolai infettivi (ad esempio malattie parodontali e granulomi); consigliare di evitare cibi particolarmente acidi, piccanti o salati. Occorre incoraggiare i pazienti a segnalare tempestivamente all’oncologo la presenza di più di tre lesioni nel cavo orale, di lesioni che persistono per più di tre giorni o che interferiscono con l’assunzione di cibo e bevande. Nelle mucositi di grado ≥2 possono essere utili soluzioni per uso topico a base di corticosteroidi o di lidocaina o morfina o nei casi più gravi farmaci per uso sistemico (steroidi, codeina, morfina), oltre che farmaci antiacidi. Gli antifungini, preferibilmente per uso topico, dovrebbero essere riservati solo al trattamento delle micosi conclamate e non impiegati a scopo profilattico. Farmaci antivirali, come l’aciclovir, andrebbero utilizzati solo in caso di infezione erpetica confermata. Nelle forme più gravi (grado 3) è consigliato conside-

Tabella I. Frequenza degli effetti collaterali di temsirolimus ed everolimus.

Tossicità

Temsirolimus

Everolimus

Studio Hudes3 NEJM 2007

Studio Hess4 JCO 2009

Studio Motzer6 Cancer 2010

Studio Yao7 NEJM 2011

Stomatitea

20% (1% G3-G4)

35% (6% G3-G4)

44% (<5% G3-G4)

64% (7% G3-G4)

Diarrea

27% (1% G3-G4)

44% (7% G3-G4)

30% (1% G3-G4)

34% (3% G3-G4)

42% (5% G3-G4) 19% (1% G3-G4) 11% (1% G3-G4) 14% (0% G3-G4)

35% (7% G3-G4) 26% (4% G3-G4) 13% (0% G3-G4) 15% (0% G3-G4)

29% (1% G3-G4) 14% (<1% G3-G4) 13% (<1% G3-G4)

49% (<1% G3-G4) 15% (0% G3-G4) 10% (0% G3-G4) 12% (<1% G3-G4)

Iperglicemia

26% (11% G3-G4)

11% (11% G3-G4)

57% (15% G3-G4)

13% (5% G3-G4)

Ipercolesterolemia

24% (1% G3-G4)

17% (0% G3-G4)

77% (4% G3-G4)

non riportata

Iperlipemia

27% (4% G3-G4)

9% (2% G3-G4)

73% (<1% G3-G4)

non riportata

Polmonitib

8% (2% G3-G4)

15% (11% G3-G4)

14% (4% G3-G4)

17% (2% G3-G4)

Infezionic

27% (5% G3-G4)

28% (9% G3-G4)

37% (10% G3-G4)

23% (2% G3-G4)

Cutanea – Rash – Prurito – Secchezza cutanea – Alterazione unghie

non riportata

a. comprende stomatite aftosa, ulcere della bocca e della lingua; b. comprende malattia polmonare interstiziale, infiltrazione polmonare, emorragia polmonare alveolare, alveolite, tossicità polmonare; c. comprende polmoniti, aspergillosi, candidasi e sepsi.

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rare l’interruzione temporanea della terapia fino al recupero della tossicità almeno ad un grado 1 e quindi riprendere il farmaco a una dose ridotta, mentre nelle forme di grado 4 è necessario sospendere definitivamente la terapia. Nei pazienti che presentano diarrea vengono consigliate le misure generali di trattamento sintomatico, cercando di evitare fibre o altri alimenti che favoriscono la motilità intestinale e di favorire cibi che la rallentano (per esempio banane, mele, riso), mantenendo un’adeguata idratazione, per via orale o parenterale, somministrando loperamide alla dose standard o oppiacei. Nei casi di diarrea di grado 3-4 è consigliabile interrompere il trattamento e/o ridurre la dose del farmaco fino al recupero della tossicità ad un grado ≤1. Rash cutaneo Lesioni cutanee maculo-papulari, eritematose e/o pruriginose sono frequentemente osservate in corso di trattamento con inibitori di mTOR e solitamente sono di lieve entità e non clinicamente rilevanti. Alcuni consigli generali da dare ai pazienti che iniziano una terapia con everolimus o temsirolimus sono evitare l’esposizione alla luce diretta del sole, usare creme ad alta protezione solare, evitare creme e lozioni contenenti alcool e detergenti antibatterici. In caso di rash di grado lieve si può consigliare l’uso frequente, almeno due volte al giorno, di creme idratanti, saponi e lozioni all’avena e shampoo antiforfora. In caso di desquamazione di grado 1-2 può essere utile applicare una crema contenente idrocortisone all’1%; nei casi più gravi si può tentare una terapia steroidea sistemica (per esempio con prednisone 25mg/die) e in caso di prurito terapia con antistaminici (H1 antagonisti). Infezioni A causa della loro attività immunosoppressiva, gli inibitori di mTOR possono favorire l’insorgenza o la riattivazione di infezioni batteriche, virali ed anche fungine, come faringiti, riniti, infezioni delle vie urinarie, follicoliti, infezioni delle alte vie aeree e polmoniti. Nei pazienti trattati con everolimus sono stati riportati casi di aspergillosi, candidiasi e riattivazioni di epatite B. In genere una minoranza di queste infezioni sono di grado 3-4, anche se in casi eccezionali è stata riportata la morte dei pazienti in trattamento. Per tale motivo, deve essere eseguita un’attenta valutazione dei possibili segni/sintomi di localizzazione infettiva e, nel sospetto di infezione, l’inizio del trattamento deve essere rapido. Nei pazienti che presentano un’infezione micotica, è indispensabile la completa risoluzione prima di iniziare una terapia con inibitori di mTOR; nei pazienti che presentano una positività per HBV (sia HbsAg che HBcAb) deve essere presa in considerazione una terapia preventiva per evitare la riattivazione dell’epatite B. Nei casi di tossicità di grado ≥2 è consigliabile interrompere il trattamento e/o ridurre la dose del farmaco fino al recupero della tossicità ad un grado ≤1. Polmoniti interstiziali La polmonite interstiziale è definita come la comparsa de novo di infiltrati polmonari ad una TC del torace ad alta ri-

soluzione, di cui si possa escludere un’eziologia infettiva o neoplastica. Nei diversi studi clinici, le polmoniti vengono riportate come un effetto collaterale comune. L’eziopatogenesi della polmonite non infettiva è sconosciuta. Dal punto di vista clinico, i pazienti possono essere asintomatici o presentare sintomi respiratori come tosse e dispnea e in alcuni casi febbre che rende più difficile la diagnosi differenziale nei confronti di possibili complicanze infettive. Le alterazioni radiologiche sono eterogenee e alla TC variano dalla presenza di diffuse lesioni a vetro smerigliato, più frequentemente localizzate nei lobi inferiori, a multipli addensamenti periferici alveolari, fino all’interessamento interstiziale diffuso con ispessimento dei setti interlobulari. Dato che in genere le polmoniti non infettive presentano un decorso favorevole, non è raccomandato un monitoraggio strumentale in pazienti asintomatici. Nei pazienti sintomatici è necessario eseguire una TC del torace ad alta risoluzione e una broncoscopia con broncolavaggio alveolare per la diagnosi differenziale con una polmonite infettiva. La terapia più adeguata per le polmoniti interstiziali da inibitori di mTOR non è standardizzata: viene impiegata terapia con corticosteroidi ed eventualmente l’interruzione del trattamento con l’inibitore di mTOR e successiva riduzione della dose del farmaco fino al recupero della tossicità ad un grado ≤1; nei pazienti con polmoniti di grado 3-4 può essere considerata la somministrazione di una terapia antibiotica nel sospetto di una sovrainfezione batterica e nei casi più gravi la sospensione permanente della terapia poiché sono stati descritti, sia pure raramente, dei casi fatali. Anomalie metaboliche Ipercolesterolemia, ipertrigliceridemia e iperglicemia sono le anomalie metaboliche più frequentemente osservate in corso di trattamento con everolimus e temsirolimus. L’iperglicemia è un effetto collaterale molto comune sia di everolimus che temsirolimus, per cui viene raccomandata una determinazione dei valori di glicemia a digiuno prima dell’inizio del trattamento, sia nei pazienti diabetici che non, e successivamente un monitoraggio periodico, in modo tale da poter iniziare e/o adeguare un trattamento con ipoglicemizzanti orali o insulina. I pazienti diabetici al basale sono maggiormente predisposti a sviluppare iperglicemia nel corso del trattamento ed è perciò importante ottimizzare il controllo della glicemia prima di iniziare la terapia. Bisogna ricordarsi di avvisare il paziente a riportare ogni aumento del volume o della frequenza della diuresi. In caso di iperglicemia di grado ≥2 è necessario adattare la dose o iniziare terapia con farmaci ipoglicemizzanti orali (per esempio metformina come terapia iniziale), passare a nuovi farmaci quando non sia raggiunto o mantenuto il traguardo di una glicemia normale e aggiungere l’insulina nei pazienti che non raggiungano il controllo glicemico previsto. Le alterazioni del metabolismo dei lipidi, in particolare l’ipertrigliceridemia e l’ipercolesterolemia, rappresentano un effetto di classe degli inibitori di mTOR. L’incidenza di eventi di grado 3-4 è risultata ridotta, mentre la maggior parte dei casi è stata di grado lieve-moderato. Nonostante gli effetti delCASCO — Vol 2, n. 2, aprile-giugno 2012

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l’iperlipidemia non si ripercuotano immediatamente sullo stato di salute del paziente oncologico, essendo spesso la sua aspettativa di vita troppo breve perché possano svilupparsi danni d’organo indotti dalla iperlipidemia, è comunque buona norma ottenere un quadro lipidico prima dell’inizio della terapia, consigliare al paziente alcuni interventi sulla dieta e sullo stile di vita, soprattutto nei pazienti sovrappeso e/o ad alto rischio per patologie cardiovascolari, aumentare la dose nei pazienti già in trattamento o iniziare una terapia con farmaci ipolipemizzanti. Gli acidi grassi omega-3 e la niacina possono essere usati come integratori alimentari per abbassare i livelli di trigliceridi. Studi di farmacocinetica hanno stabilito che non vi sono interazioni clinicamente significative tra everolimus e ipocolesterolemizzanti, come atorvastatina e pravastatina. • Bibliografia 1. Schmelzle T, Hall MN. TOR, a central controller of cell growth. Cell 2000; 103: 253-62. 2. Eisen T, Stemberg CN, Robert C, et al. Targeted therapies for renal cell carcinoma: review of adverse management strategies. J Nat Cancer Inst 2012; 104: 93-113.

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smau PREMIO I N N O VA ZIONE ICT

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