CASCO 3 - 2012

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Periodico trimestrale riservato alla classe medica edito in collaborazione con Via Vitorchiano 151 – 00189 Roma Tel 06 36 19 11 – Fax 06 36 380 311 www.univadis.it Numero verde 800 23 99 89

Vol 2, n. 3, luglio-settembre 2012

In questo numero EDITORIALE

72 Anno 2 N. 3 – luglio-settembre 2012 Registrazione del Tribunale di Roma in corso Direzione scientifica: Fausto Roila Enzo Ballatori Gruppo editoriale: Claudia Caserta Sonia Fatigoni Guglielmo Fumi Azienda Ospedaliera di Terni Il Pensiero Scientifico Editore Via San Giovanni Valdarno 8 00138 Roma Tel 06 862 821 – Fax 06 862 82 250 Internet: www.pensiero.it Stampa: Arti Grafiche Tris, Roma marzo 2013 Direttore responsabile: Giovanni Luca De Fiore Redazione: Manuela Baroncini Progetto grafico: Antonella Mion Prezzo: Fascicolo singolo €15,00

Cresce l’interesse per le terapie di supporto Fausto Roila, Enzo Ballatori

Fausto Roila, Enzo Ballatori

DAI CONGRESSI

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Le novità dell’ESMO 2012 sulla terapia di supporto Fausto Roila, Sonia Fatigoni

TUMORI E TERAPIE DI SUPPORTO

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Trattamento dei tumori testa-collo: standard di terapia ed effetti secondari Cristiana Bergamini, Lisa Licitra

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Profilassi e trattamento della costipazione da oppiacei Guglielmo Fumi

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Tossicità cutanea da inibitori di BRAF Sonia Fatigoni, Claudia Caserta

CASI CLINICI

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GESTIONE EVENTI AVVERSI

83

Prevenzione con GnRH analogo della menopausa precoce chemio-indotta nelle donne con diagnosi di carcinoma mammario Silvia Sabatini, Martina Nunzi

I contenuti pubblicati dalla rivista rispecchiano le opinioni degli Autori e non necessariamente quelle dell’Editore o della MSD Italia S.r.l. Ogni farmaco menzionato deve essere usato in accordo con il relativo riassunto delle caratteristiche del prodotto fornito dalla ditta produttrice.

I riscontri positivi sulla rivista attestano la crescente attenzione dell’oncologia medica italiana verso le terapie di supporto

In copertina: Willem de Kooning, Seated Woman, 1940 ca.

Esegesi di un abstract Enzo Ballatori, Fausto Roila

STATISTICA PER CONCETTI

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Introduzione alla logica del test statistico nel modello di popolazione Enzo Ballatori


Cresce l’interesse per le terapie di supporto

Editoriale

I

riscontri positivi sulla rivista, che ci giungono da molte parti, attestano una crescente attenzione dell’Oncologia medica italiana nei confronti delle problematiche inerenti le terapie di supporto e palliative, in linea con l’attuale tendenza a livello europeo, resa evidente da due aspetti: a. Analizzando i lavori presentati all’ultimo Congresso ESMO (Vienna, 2012; v. articolo sulle novità dell’ESMO), si può osservare non solo che si tratta di abstract originali – e non la pura riproposizione di quanto presentato all’ASCO tre o quattro mesi prima, come accadeva qualche anno fa – ma anche che il loro contenuto non è di minore rilevanza rispetto a quello degli abstract presentati all’ASCO. b. L’ASCO ha pubblicato tre linee guida sulle terapie di supporto (antiemetici, fattori di crescita eritrocitari e granulocitari), mentre le linee guida sulle terapie di supporto e palliative pubblicate dall’ESMO si contano ormai sulle dita di due mani, comprendendo, oltre quelle dell’ASCO, mucosite, cardiotossicità, stravasi di farmaci antitumorali, tromboembolismo, neutropenia febbrile, dolore da cancro e, nel 2013, anche tossicità cutanea. Tre sono gli argomenti inerenti la prevenzione della tossicità da farmaci trattati in questo numero. Anzitutto si fa il punto sulla prevenzione della fertilità con GnRH agonisti in donne in premenopausa sottoposte a chemioterapia. È un argomento su cui cominciano ad apparire dati di un certo interesse e a cui il mondo oncologico dovrebbe guardare con maggiore attenzione, anche eseguendo studi osservazionali su ciò che avviene nella pratica clinica. Il secondo argomento concerne un problema spesso dimenticato dall’oncologo: la prevenzione della stipsi da oppiacei. Qualche anno fa, uno studio italiano dimostrò che meno del 30% dei pazienti sottoposti a farmaci oppiacei per il dolore da cancro riceveva una profilassi con lassativi. Oggi abbiamo a disposizione nuovi

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farmaci, che non hanno però destato grande interesse nella comunità oncologica tant’è vero che non ci risulta ci siano stati interventi a congressi su tale aspetto. Infine, la prevenzione e il trattamento della tossicità da BRAF e MEK-inibitori per anticiparne la conoscenza in relazione al loro prossimo ingresso nel mercato, avendo i due farmaci dimostrato, in studi controllati, un importante impatto sul melanoma maligno metastatico. In questo numero si affronta anche una tematica importante e poco conosciuta, quale quella sulle terapie di supporto nei pazienti in trattamento per carcinoma del testa-collo, una delle patologie in cui le terapie di supporto sono essenziali per consentire al paziente un’accettabile qualità di vita. In tema di antiemetici, è osservazione comune che la maggior parte dei pazienti, che malgrado la profilassi standard presentino un primo episodio di vomito (o nausea), continui successivamente a vomitare (o ad avere nausea). In un abstract presentato all’ultimo congresso ASCO (v. Scheda) sono riportati i risultati comparativi relativi all’effetto di una seconda profilassi antiemetica con olanzapina o con metoclopramide, somministrata dopo il primo episodio di vomito o all’insorgenza della nausea, avente per obiettivo la prevenzione del vomito e della nausea successivi. Poiché l’abstract esaminato lascia intravvedere alcuni problemi inerenti la programmazione dello studio e l’analisi dei risultati, se ne discute nella rubrica Casi clinici. Infine, poiché nella quasi totalità degli studi clinici sono usati test statistici, è opportuno che il clinico ne conosca la logica per valutare appieno i risultati di una ricerca clinica. Un’introduzione a tale argomento, che sacrifica il rigore alla massima comprensibilità, è presentata nella rubrica Statistica per concetti. Fausto Roila Enzo Ballatori


Dai Congressi

Le novità dell’ESMO 2012 sulla terapia di supporto

Fausto Roila Sonia Fatigoni SC Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

I

l primo lavoro che ci piace commentare è riferito ad uno studio francese che ha valutato l’uso del warfarin (1 mg al giorno) e dell’eparina a basso peso molecolare (enoxaparina 4000 UI/die o dalteparina 2500 UI/die o nadroparina 2850 UI/die), somministrati per i primi tre mesi dopo il posizionamento di un catetere venoso centrale (CVC), nella profilassi delle trombosi venose profonde (TVP) rispetto alla non profilassi1. Attualmente in questi pazienti una profilassi delle TVP indotte dal CVC non è raccomandata dalle più importanti associazioni oncologiche internazionali. Infatti, i risultati di 4 recenti studi randomizzati, 3 dei quali in doppio cieco, non hanno dimostrato differenze statisticamente significative tra pazienti sottoposti e non sottoposti a profilassi. In questi studi l’incidenza di TVP sintomatica era generalmente bassa, circa il 3-4% dei pazienti, mentre l’incidenza di TVP in pazienti asintomatici era del 12-18%. D’altra parte due vecchi studi randomizzati, non in doppio cieco, avevano suggerito un possibile ruolo del warfarin e dell’eparina a basso peso molecolare come profilassi delle TVP correlate al CVC. Lo studio francese, che randomizzava i pazienti 2:1 a ricevere o meno una delle due profilassi, ha arruolato 420 pazienti di cui 407 valutabili. L’incidenza di TVP correlate al CVC era significativamente più bassa in pazienti sottoposti ad una profilassi con uno dei due farmaci anticoagulanti (8,1% [22/272] versus 14,8% [20/135], rispettivamente). Non si evidenziava inoltre alcuna differenza tra l’efficacia del warfarin e dell’eparina a basso peso molecolare. Riguardo agli effetti collaterali la profilassi della TVP non aumentava significativamente i sanguinamenti, anche se si evidenziava una piastrinopenia di grado 3-4 in 24 pazienti sottoposti a profilassi. La compliance con il trattamento non era ottimale in quanto circa un terzo dei pazienti non ha ricevuto il trattamento fino a 90 giorni dopo il posizionamento del CVC come da protocollo. Questo studio è importante ma presenta alcune limitazioni. La prima è che si tratta di uno studio non in doppio cieco e la cecità è importante per evitare un bias di selezione. Infatti conoscendo il trattamento ricevuto dai pazienti, i ricercatori potrebbero eseguire più ecodoppler delle vene degli arti superiori e del collo o più venografie nei pazienti asintomatici non sottoposti a profilassi identificando così più TVP correlate al CVC. La maggiore incidenza di TVP nei pazienti non sottoposti a profilassi aumenterebbe quindi la

possibilità di evidenziare una incidenza significativamente superiore rispetto ai pazienti sottoposti a profilassi. Il secondo problema è che questo studio monocentrico ha richiesto 11 anni per essere completato, un tempo molto lungo in cui molte cose potrebbero essere cambiate: ad esempio il ricercatore che ha valutato la presenza delle TVP o l’introduzione di nuove e più avanzate strumentazioni che hanno permesso una maggiore sensibilità nell’identificare la presenza o meno della TVP correlata al CVC. Infine gli autori, che hanno valutato l’efficacia della profilassi mettendo insieme i risultati ottenuti con il warfarin e con l’eparina a basso peso molecolare (separando tali risultati, la differente incidenza di TVP correlata al CVC rispetto al braccio di controllo non è statisticamente significativa), hanno confrontato separatamente l’incidenza dei sanguinamenti rispetto al braccio di controllo, e tale operazione non è certo metodologicamente corretta. In conclusione i risultati dello studio di Lavau-Denes dovrebbero essere confermati da altri studi randomizzati in doppio cieco prima di modificare le attuali raccomandazioni delle associazioni internazionali. Un altro studio degno di essere citato è uno studio italiano di fase II che ha valutato l’attività dell’aprepitant nella prevenzione del prurito indotto dagli inibitori dei recettori del fattore di crescita dell’epidermide (EGFR)2*. Circa la metà di questi pazienti in genere presenta prurito. Sebbene questo sintomo solo raramente determini modificazioni delle dosi o la sospensione dell’inibitore EGFR, il prurito ha un impatto fortemente negativo sulla qualità di vita dei pazienti. Il prurito con gli inibitori dell’EGFR può essere anche dovuto al rash acneiforme papulo-pustoloso presente nel 25%-90% dei pazienti e alla secchezza della cute presente nel 12-35%. In questi casi ovviamente un appropriato trattamento del rash e l’utilizzo di creme idratanti potrebbero controllare il sintomo. Negli altri casi va fatto un trattamento sintomatico del prurito. I recettori coinvolti nell’insorgenza di questo sintomo non sono stati ben definiti; infatti ad eccezione dei recettori per l’istamina, non si conosce il ruolo dei recettori della serotonina, degli oppioidi, dell’acido gamma aminobutirrico e della sostanza P. Al momento non sono stati pubblicati studi controllati che abbiano valutato l’attività di farmaci per contrastare il prurito indotto da inibitori dell’EGFR. Molti dei dati disponibili derivano da case report o dalla descrizione di alcuni pazienti. *La MSD precisa che Emend (aprepitant) non è attualmente approvato in questa indicazione in Italia. La MSD non raccomanda l’utilizzo dei propri farmaci nelle indicazioni non autorizzate. CASCO — Vol 2, n. 3, luglio-settembre 2012

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Per quanto riguarda la terapia è accettato l’uso di antistaminici non sedativi (ad esempio loratadina) per controllare il prurito durante il giorno e l’uso di antistaminici sedativi (ad esempio difenidramina o idrossizina) per controllare il prurito notturno. Le dosi di questi farmaci vanno mantenute più basse possibile per evitare eventi avversi specie nei pazienti anziani in cui possono causare anche effetti collaterali anticolinergici gravi. In alternativa, in caso di fallimento degli antistaminici, è possibile utilizzare farmaci anticonvulsivanti (gabapentina e pregabalina) la cui attività è stata evidenziata solo nella popolazione generale. Anche gli steroidi come trattamento topico, non per via sistemica, possono essere raccomandati (triamcinolone acetonide, fluticasone propinato). Recentemente è stato osservato che la terapia con farmaci inibitori dell’EGFR induce l’accumulo di mastociti nelle lesioni cutanee da essi provocate e che la sostanza P attivi tali mastociti attraverso i recettori NK1 causando il rilascio di sostanze pruriginose. È stato pertanto ipotizzato che l’aprepitant, un inibitore dei recettori NK1, possa bloccare la degranulazione dei mastociti. Negli ultimi anni sono state pubblicate le prime segnalazioni dell’attività dell’aprepitant che ha ridotto il prurito causato da erlotinib, il prurito sine materia di due pazienti neoplastici sottoposti a chemioterapia ed il prurito refrattario di pazienti con linfoma cutaneo. Le dosi del farmaco, utilizzato a giorni alterni, erano 125 mg la prima e 80 mg quelle successive per 3 settimane. All’ESMO il Dr. Santini ha presentato i risultati di uno studio di fase II che ha valutato l’attività dell’aprepitant nel trattare il prurito indotto da inibitori dell’EGFR in 45 pazienti con prurito severo (VAS ≥ 7); 24 dei quali erano refrattari al trattamento standard e 21 mai precedentemente trattati. I pazienti con prurito refrattario avevano ricevuto per almeno una settimana steroidi e/o antistaminici. In ambedue i gruppi aprepitant era somministrato a dosi di 125 mg il giorno 1 e 80 mg il giorno 3 e 5. La causa del prurito era erlotinib in 16 pazienti, cetuximab in 23, sunitinib in 3 e lapatinib, imatinib e gefitinib in 1 paziente. L’intensità del prurito diminuiva in una settimana del 93% nei pazienti refrattari e del 100% nei pazienti non pretrattati. L’aprepitant era efficace indipendentemente dall’inibitore EGFR usato. Solo 6 pazienti hanno presentato una recidiva del prurito dopo una mediana di 7 giorni. L’aprepitant non determinava effetti collaterali. Va considerato che l’aprepitant, che è un inibitore del coenzima CYP3A4, può avere una interazione con gli inibitori EGFR, in primis il gefitinib ma anche l’erlotinib metabolizzati dal CYP3A4. Questo è uno studio importante che mostra l’attività dell’aprepitant contro il prurito indotto da differenti farmaci inibitori dell’EGFR e in differenti tipi di pazienti (pretrattati e non). Dovrebbero essere eseguiti studi clinici randomizzati in doppio cieco in una larga popolazione di pazienti per definire l’efficacia, la tollerabilità e il place in therapy dell’aprepitant. Uno studio registrativo sponsorizzato dall’azienda produttrice del farmaco sarebbe benvenuto da questo punto di vista. Un altro studio italiano interessante ha riguardato i risultati di una metanalisi degli studi che hanno utilizzato analo74

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ghi LHRH per sopprimere temporaneamente la funzione ovarica con la speranza di ridurre il rischio di menopausa precoce nelle pazienti con carcinoma della mammella in pre-menopausa sottoposte a chemioterapia3. È noto il rischio di menopausa precoce corso dalle donne sottoposte a chemioterapia con conseguente perdita della fertilità e comparsa di sintomi menopausali soggettivi (vampate di calore, sudorazione e perdita della libido) e oggettivi (osteoporosi, accidenti cardiovascolari, disfunzioni cognitive e atrofia dei genitali). La menopausa precoce è influenzata dall’età della paziente (le ovaie diventano più sensibili ai farmaci chemioterapici nelle donne in pre-menopausa di maggiore età), dal tipo di chemioterapia (i farmaci alchilanti e le antracicline sono i farmaci più tossici sulle ovaie) e dalla durata della chemioterapia (e quindi dalla dose cumulativa dei farmaci chemioterapici somministrati). Finora non si sono rese disponibili strategie raccomandate per prevenire la menopausa precoce indotta dalla chemioterapia. Numerosi studi di fase II hanno comunque suggerito il possibile uso di agonisti LH-RH. Nel 2006, l’ASCO ha pubblicato raccomandazioni sulla preservazione della fertilità nei pazienti di ambedue i sessi; nelle donne la soppressione della funzione ovarica con agonisti LHRH veniva allora considerata un metodo controverso per mantenere la fertilità. Questa raccomandazione era basata sui risultati di piccoli studi randomizzati oltre che di quelli di fase II. Va aggiunto che nel 2011 una Cochrane review, che ha considerato 4 studi controllati che hanno arruolato 154 pazienti, concludeva che i farmaci LHRH agonisti erano efficaci nel proteggere la persistenza delle mestruazioni e dell’ovulazione nelle donne in pre-menopausa dopo la chemioterapia senza però dimostrare significative differenze nelle gravidanze riscontrate in queste pazienti. Almeno altri 4 studi sono stati pubblicati dopo la Cochrane review, tutti eseguiti in donne affette da carcinoma della mammella e sottoposte a chemioterapia. Tre di questi studi erano risultati negativi ed uno positivo. La metanalisi presentata dalla Dr.ssa Del Mastro ha considerato 8 studi controllati includenti 803 donne in pre-menopausa sottoposte a chemioterapia che sono state randomizzate a ricevere o no analoghi LHRH (6 studi in pazienti con carcinoma della mammella e 2 studi in pazienti con linfoma). L’endpoint della metanalisi era l’incidenza di menopausa precoce dopo la fine della chemioterapia. I risultati dimostrano che gli analoghi LHRH riducono significativamente il rischio di pre-menopausa precoce. D’altronde la significativa eterogeneità tra gli studi indica la necessità di ulteriori studi controllati di conferma dell’effetto positivo degli analoghi LHRH. Pertanto i risultati della metanalisi sono suggestivi di un beneficio, ma rimangono molti problemi aperti fra cui conoscere qual è la percentuale di pazienti con mantenimento della funzione ovarica e qual è la percentuale di donne con preservazione della fertilità a lungo termine. A queste domande si può rispondere solo con studi che abbiano una durata di follow up molto più lunga. Nella metanalisi la ripresa della funzione ovarica è stata valutata tra 6 e 36 mesi dopo la fine della chemioterapia. Inoltre è necessario conoscere


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meglio l’interazione degli agonisti LHRH con la chemioterapia (sebbene sia noto che non vi erano differenze nei risultati di almeno 3 studi controllati tra la chemioterapia ± la soppressione ovarica con agonisti LHRH) ed il possibile effetto detrimentale della non induzione di menopausa con la chemioterapia (spesso i pazienti con amenorrea indotta dalla chemioterapia hanno una prognosi migliore). Da questo punto di vista è assolutamente necessario che gli studi riportino la sopravvivenza mediana a 5 anni nei due bracci. Vanno infine segnalati i potenziali vantaggi della preservazione della funzione ovarica con agonisti LHRH rispetto alle strategie di criopreservazione. Gli agonisti LHRH non richiedono un partner maschio, sono semplici da somministrare, non ritardano l’effettuazione della chemioterapia, sono meno invasivi e meno costosi. Passiamo ora ad analizzare due studi in cui è stata valutata l’efficacia di un fattore di crescita granulocitario (G-CSF) per ridurre la neutropenia febbrile. Il primo, uno studio francese multicentrico, osservazionale, prospettico, in pazienti che avevano presentato al ciclo precedente una neutropenia indotta da chemioterapia e non avevano ricevuto fattori di crescita, ha verificato l’incidenza di neutropenia febbrile nei cicli successivi4. I pazienti erano arruolati nello studio con qualsiasi grado di neutropenia, sia con che senza febbre, purché la neutropenia avesse impattato negativamente sul ciclo successivo in termini di riduzione di dose, ritardo nella somministrazione della chemioterapia o necessità di somministrare G-CSF. Di 625 pazienti inseriti nello studio 548 erano valutabili. Il 16,1% di questi pazienti ha presentato neutropenia febbrile e il 76,3% neutropenia di ogni grado. Il 44,5% ebbe un ritardo nella somministrazione del ciclo di chemioterapia successivo, il 22,3% una riduzione di dose e l’85,0% ricevettero G-CSF. Nei cicli successivi neutropenia febbrile era evidente nello 0,3-0,7% dei pazienti, neutropenia di ogni grado nell’11,3-20,3% dei pazienti, mentre un ritardo nella chemioterapia era osservato nel 5,2-8,0% dei pazienti, una riduzione della dose nel 3,5-4,9% e l’uso profilattico di G-CSF era eseguito nel 71,8-75,4%. In conclusione i G-CSF hanno una significativa efficacia nel ridurre l’incidenza di neutropenia febbrile. Il secondo studio, uno studio russo randomizzato in doppio cieco di fase III di non inferiorità eseguito in pazienti affette da carcinoma della mammella sottoposte a chemioterapia, ha confrontato l’efficacia e la tollerabilità di lipegfilgrastim, un G-CSF ricombinante glicosilato e peghilato, con il pegfilgrastim, un G-CSF peghilato5. Lo studio ha riportato l’efficacia dei due trattamenti in termini di conta del numero assoluto di neutrofili. La dose era 6 mg per ambedue i farmaci somministrati per via sottocutanea il giorno due dopo la chemioterapia. Il nadir della conta dei neutrofili era

simile tra i due trattamenti mentre il lipegfilgrastim riduceva significativamente il tempo al ripristino della conta assoluta dei neutrofili. (da 7,4 a 5,8 giorni). Gli autori sottolineano nelle conclusioni i tempi inferiori del lipegfilgrastim (riduzione di 1,6 giorni) nel ripristinare la conta dei neutrofili. Quanto questo si traduca in benefici per il paziente rispetto al pegfilgrastim non è chiaro. L’ultimo studio, uno studio inglese, ha valutato retrospettivamente un gruppo di 146 pazienti diabetici sottoposti a chemioterapia di prima linea per carcinomi del colon retto e dell’apparato genitale femminile metastatici6 rispetto ad un gruppo di controllo di altri 146 pazienti non diabetici con caratteristiche simili di età, di sede di malattia e tipo di chemioterapia. I pazienti diabetici presentavano più comorbilità (45% versus 60%) e un maggior rischio di ricovero d’urgenza (per un processo infettivo nel 41% dei pazienti o per difficoltà nel controllo della glicemia nel 17%), di interruzione precoce della chemioterapia, e una possibilità inferiore di essere sottoposti ad una chemioterapia di seconda linea. I risultati di questo studio descrivono le caratteristiche di una popolazione di pazienti con cancro (i diabetici) generalmente poco studiata. Per confermare quanto osservato in questo studio retrospettivo sono necessari altri studi che valutino prospetticamente le problematiche dei pazienti diabetici sottoposti a chemioterapia. • Bibliografia 1. Lavau-Denes S, Lacroix P, Maubon A, et al. Prophylaxis of catheter-related deep vein thrombosis in cancer patients with low-dose warfarin, low molecular weight heparin, or control: a randomized, controlled, phase III study. Ann Oncol 2012; 23 (Suppl 9): ixe29, abstr. 15460_PR. 2. Santini D, Guida FM, Schiavon G, et al. Aprepitant is active in the management of biological therapies-related severe pruritus: a phase-II study. Ann Oncol 2012; 23 (Suppl 9): ix500-501, abstr. 1550PD. 3. Del Mastro L, Levaggi A, Poggio F, et al. Role of temporary ovarian suppression obtained with GNRH analog in reducing premature ovarian failure induced by chemotherapy in premenopausal cancer patients: a meta-analysis of randomized studies. Ann Oncol 2012; 23 (Suppl 9): ix501, abstr. 1551PD. 4. Freyer G, Jovenin N, Yazbek G, et al. G-CSF as secondary prophylaxis of chemotherapy-induced neutropenia in patients with solid tumors: results of a prospective, observational study. Ann Oncol 2012; 23 (Suppl 9): ix499-500, abstr. 1547PD. 5. Gladkov OA, Bondarenko IM, Elsaessere R, et al. Absolute neutrophil counts in a study of lipegfilgrastim compared with pegfilgrastim in patients with breast cancer who are receiving chemotherapy. Ann Oncol 2012; 23 (Suppl 9): ix500, abstr. 1548PD. 6. Seligmann JF, Young A, Heath G, et al. Treating diabetic patients with chemotherapy: single centre experience of toxicity and outcomes. Ann Oncol 2012; 23 (Suppl 9): ix500, abstr. 1549PD.

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Tumori e terapie di supporto

Trattamento dei tumori testa-collo: standard di terapia ed effetti secondari Cristiana Bergamini Lisa Licitra SSD Oncologia medica dei Tumori della testa e del collo, Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori, Milano

tamenti appaiono decisamente inferiori nei pazienti con stato nutrizionale ottimale, così come la possibilità di portare a termine la terapia rispettando dosi e tempi indicati. Si pone quindi la duplice necessità di identificare precocemente i pazienti a rischio di sviluppare una malnutrizione e quelli che sono già malnutriti. Nella pratica clinica si utilizzano semplici parametri anamnestici e biochimici:

I

l tumore del distretto cervicofacciale (Head and Neck, HN) è la sesta neoplasia per frequenza nella popolazione mondiale, con un’incidenza media di oltre 560.000 nuovi casi nel mondo e 300.000 morti annui circa1. Tale neoplasia racchiude un gruppo eterogeneo di tumori maligni, in cui vengono coinvolte differenti sottosedi, con simili fattori di rischio, ma andamento clinico talora differente e trattamenti spesso diversificati. Per tale motivo, il trattamento del tumore HN necessita di una buona collaborazione tra le diverse figure mediche coinvolte (oncologo, radioterapista, chirurgo, nutrizionista, terapista del dolore, riabilitatore, assistente sociale), soprattutto per la capacità di prevenire e ridurre le complicazioni legate alle terapie, affinché la realizzazione dei trattamenti avvenga in modo ottimale. All’interno delle cure proponibili, si cercherà di omologare la terapia di supporto, in relazione alle condizioni generali del paziente, all’intento curativo o palliativo dei trattamenti e alle tossicità attese e manifeste. La terapia di supporto deve tenere pertanto conto degli aspetti qui di seguito indicati, poiché giudicati fondamentali nella gestione del paziente HN: 1. nutrizione 2. infezioni 3. tossicità in field RT 4. stomatite 5. dolore. Nutrizione Nel paziente con neoplasia HN si instaura, ancor più che in altri pazienti, una correlazione stretta e reciproca tra depressione immunitaria, insorgenza del tumore, complicanze relative al trattamento del tumore stesso, malnutrizione. Inoltre, mucosite, dermatite, disfagia importanti portano ad una progressiva riduzione dell’introito calorico e dei liquidi da assumere, creando condizioni che possono pregiudicare la continuità del trattamento e l’esito dello stesso. La malnutrizione di origine neoplastica è sempre correlata ad una prognosi scadente e, ancor più nei pazienti HN, produce un significativo impatto sulla sopravvivenza; è ormai noto che il calo ponderale e il ridotto introito di macronutrienti, in corso di RT, rappresentano fattori prognostici sfavorevoli per l’outcome del paziente2. Diversamente, le complicanze dei trat76

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Malnutrizione Parametro

Lieve

Moderata

Grave

Calo ponderale, su peso abituale (%)

5-10

11-20

>20

18,4-17

16,9-16

<16

3,5-3

2,9-2,5

<2,5

Transferrina (mg/dl)

200-150

149-100

<100

Prealbumina (mg/dl)

22-18

17-10

<10

1500-1200

1199-800

<800

Body Mass Index, BMI (kg/m2) Albumina (g/dl)

3

Linfociti (N/mm )

Il parametro principale è la perdita di peso. In generale si accetta come significativo di malnutrizione un calo ponderale involontario > 10% del peso abituale negli ultimi 6 mesi oppure > 5% in 1 mese. Nel paziente malnutrito deve essere pianificato un intervento nutrizionale adeguato e personalizzato. I medesimi parametri potranno essere utilizzati per il monitoraggio settimanale del paziente. In presenza di funzione intestinale adeguata, il supporto nutrizionale avverrà per via enterale, prediligendo la somministrazione orale se praticabile o, alternativamente, attraverso sonda nasogastrica (SNG). Qualora il tempo previsto della nutrizione artificiale sia superiore a 30 giorni, potrà essere proposta una gastrostomia per via endoscopica (Percutaneous Endoscopic Gastrostomy – PEG) o mediante tecnica radiologica o una digiunostomia (quest’ultima da preferirsi unicamente nell’eventualità di un intervento chirurgico di salvataggio che comporti un pull-up gastrico). La nutrizione per via enterale è da preferirsi a quella parenterale per il mantenimento dell’integrità anatomofunzionale della mucosa intestinale, per il migliore utilizzo dei substrati nutritivi, per la facilità e la sicurezza di impiego e per i minori costi. La scelta tra posizionamento di SNG o gastrostomia deve essere attentamente vagliata e decisa in collaborazione con il paziente. Il SNG viene prescritto quando il supporto nutrizionale è richiesto per un breve periodo di tempo, ma può essere ri-


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mosso inavvertitamente, ha un impatto psicologico maggiore (per alterazione dell’immagine corporea), presenta complicazioni quali il decubito, la sinusite e la polmonite da aspirazione3. La gastrostomia viene impiegata quando è richiesta una nutrizione enterale per un periodo più lungo (> 30 giorni). Essa può complicarsi con infezioni peristomiche4 e addominali, dislocazioni5, necrosi ischemica dell’epitelio gastrico (Sindrome del buried bumper), RGE, polmonite da aspirazione, raramente peritonite ed impianto del neoplasia (1-2% dei casi6). Il rischio infettivo può ridursi grazie alla somministrazione preventiva di antibiotici (es. ciprofloxacina o amoxicillina – ac. clavulanico) nelle 24 ore antecedenti la procedura e nelle 48 ore successive. È molto più confortevole per il paziente, mantenendosi nascosta alla vista. La rialimentazione dopo allestimento della gastrostomia avviene dopo 24 ore previa valutazione RX dell’eventuale pneumoperitoneo. Questo intervallo deve essere previsto per evitare ritardi o interruzioni del trattamento CT-RT pianificato. Ulcera gastrica o duodenale ne sono una controindicazione assoluta. Alcuni autori concludono che la PEG sia più efficace rispetto al SNG quale canale di nutrizione. Tuttavia, la gastrostomia conferisce un peggioramento nel recupero deglutitorio nei pazienti HN, a completamento del trattamento CT-RT, per necessità riabilitative più prolungate7. Accanto alla nutrizione, si rende necessaria un’adeguata stima del fabbisogno idrico, che in un paziente adulto è pari a 1400 ml/mq/die. La necessità di idratazione del paziente trova giustificazione in diverse cause: perdite idrosaline da chemioterapia (iponatremia da CDDP), emesi e/o diarrea protratti, ridotto apporto idroelettrolitico dovuto all’algia, stomatite, disfagia da cause meccaniche, anoressia. Le soluzioni disponibili forniscono il fabbisogno di azoto metabolicamente attivo (L-amminoacidi), di energia (glucosio) e di elettroliti. In caso di anamnesi positiva per abuso alcolico, il paziente denutrito può essere a rischio di sviluppare l’encefalopatia di Wernicke, riconducibile ad un deficit di vitamina B1 a causa di un’alimentazione incongrua o un ridotto assorbimento. In caso di nistagmo, oftalmoplegia, atassia, stato confusionale, bisogna ricorrere prontamente alla somministrazione parenterale di tiamina, allo scopo di prevenire il danno neurologico irreversibile. Nella miopatia alcolica è necessario un monitoraggio seriato della kalemia. A scopo antianoressizzante è proponibile l’associazione megestrolo acetato e olanzapina che, determinando il miglioramento del peso, dell’appetito, della nausea e della QoL, si è dimostrata efficace nell’anoressia cancro-indotta. Oltre alla malnutrizione correlata alla malattia e ai trattamenti, è nota anche una malnutrizione a lungo termine quale sequela della neoplasia HN, correlata alla perdita muscolare, alla cachessia e al distress psicosociale ed emozionale. Trattasi di una “wasting syndrome”, verosimilmente ascrivibile ad un complesso stato metabolico e a disfunzioni endocrinologiche, mediate da fattori correlati all’ospite e al tumore, per la secrezione di citochine, quali IL-1b, IL-6, TNF-a, ed IFN, che concorrono nell’amplificazione del quadro flogistico.

Infezioni Nei pazienti HN esiste uno stato di immunodepressione preesistente, che aumenta il rischio di infezioni. A ciò, si aggiungano: la depressione midollare indotta dalla CT (es. leuconeutropenia e linfopenia), l’uso di steroidi come antiedemigeni, antiemetici ed antianoresizzanti, il danno mucoso chemoradioindotto con conseguente interruzione della barriera mucosa chimicofisica, l’uso di cateteri venosi centrali (CVC), le difficoltà deglutitorie del paziente con aumentato rischio di polmonite ab ingestis, la malnutrizione caloricoproteica. Questi scenari condizionano una maggiore suscettibilità alle infezioni, con pericolo di disseminazione settica, nonché conseguenze negative sulla durata e sulla continuità del trattamento oncologico. Alla luce di questo, ne deriva che le infezioni del paziente HN sono specifiche per questo setting di pazienti e, come tali, richiedenti protocolli personalizzati.

Infezioni CVC-correlate (CR-BSI, Catheter-Related Bloodstream Infection) L’uso di device chirurgici, quali ad esempio i dispositivi intravascolari a lunga permanenza, hanno migliorato la qualità di vita dei pazienti oncologici, ma hanno fatto emergere una notevole varietà di complicazioni, soprattutto di tipo infettivo, batterico e fungino. L’incidenza di infezioni CVC-relate (batteriemie, infezioni del CVC exit – site e del tunnel sottocutaneo) è stimata di 2,8-14 episodi/1000 cateteri. Le terapie antibiotiche differiscono a seconda del patogeno responsabile.

Infezione da Stafilococco aureo – In caso di CVC a breve termine con documentata CR-BSI da Stafilococco aureo, la rimozione del catetere deve essere immediata. – In caso di CVC a permanenza e CR-BSI da Stafilococco aureo è proponibile la rimozione del CVC ed una terapia antimicrobica per 4-6 settimane, ma è opzionale una terapia antibiotica a minore durata (14 giorni) in caso di negatività dell’ecocardiogramma transesofageo e in assenza di diabete, immunodepressione e neutropenia8. – In caso di CR-BSI da Stafilococco aureo in CVC a lunga permanenza e controindicazioni maggiori alla rimozione (es. assenza di accessi venosi periferici, diatesi emorragica, PD controindicante nuovo impianto), il CVC viene mantenuto in sede e il paziente viene avviato ad una terapia antibiotica sistemica e alla lock therapy per 4 settimane8. – In caso di documentata CR-BSI la cui batteriemia è associata alla colonizzazione intraluminale del CVC, la daptomicina è efficace, per l’elevata capacità di penetrazione del biofilm e per la rapida attività battericida. Associata alla terapia sistemica, in caso di flogosi dell’emergenza del catetere, è proponibile la lock therapy nel CVC con 4-5 ml di soluzione di ringer lattato, in cui è stata diluita daptomicina (5 mg/ml) e gentamicina (4 mg/ml); in caso di emocoltura positiva per germi Grampositivi, si procederà poi con la successiva sospensione della gentamicina. CASCO — Vol 2, n. 3, luglio-settembre 2012

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Infezione da Enterococchi – In caso di CVC a breve termine, la rimozione del catetere deve essere raccomandata. – In caso di CVC infetti a lungo termine, è proponibile una terapia antibiotica ad hoc per 10-14 giorni; la rimozione è consigliata solo in caso di infezione del sito di inserzione, suppurazione, tromboflebite, endocardite, batteriemia persistente, sepsi8.

Infezioni da Gram negativi – I pazienti con possibile CR-SBI possono ricevere terapia antibiotica di copertura per i Gram negativi per 10-14 giorni, ma se il paziente è critico, settico o neutropenico o il CVC è sito in femorale, allora la rimozione è raccomandata. Nel paziente critico e/o con patogeno Gram negativo MDR si consiglia una terapia antibiotica a 2 farmaci di differente classe, con successiva dose-escalation alla terapia antibiotica più appropriata in caso di esiti colturali validi. La durata della terapia antibiotica varia da 7 a 14 giorni8.

Infezioni da Candida species Il catetere deve essere rimosso, sia in caso di CVC a breve che a lunga permanenza. La terapia antimicotica è raccomandata in tutti i casi, per 4-6 settimane, fino a 14 giorni dopo l’evidenza di colture ematiche negative8. Si segnala inoltre che le infezioni del CVC si accompagnano a manifesta trombosi del catetere nel 10-15% delle CR-BSI e a trombosi subclinica nel 30-70% delle CR-BSI8,9.

Infezioni respiratorie Nei pazienti ospedalizzati con infezioni acquisite in comunità, sono raccomandati: l’esame dell’espettorato, le emocolture e l’esame radiologico del torace (seppure negativo per focolai broncopneumonici nel 30% circa dei casi). Si ricordi che, data l’anergia tipica dei pazienti HN, segni e sintomi possono essere assenti, pur in presenza di infezione. Non di rado infatti il paziente è normotermico e con conta leucocitaria nella norma, pur in presenza di sicure infezioni polmonari o sistemiche. In presenza di empiema, la terapia antibiotica dovrà essere utilizzata in associazione a procedure di drenaggio. In caso di MRSA, la daptomicina non è consigliata, in quanto inibita dal surfactante polmonare. Si propone pertanto vancomicina o linezolid. Neutropenia febbrile Nel paziente neutropenico febbrile (ANC < 500/mm3 e TC 38°C), è indicata terapia antibiotica, diversificata e adattata al rischio intrinseco di complicazioni, alla durata della neutropenia, alle caratteristiche del paziente, alle comorbilità (es. BPCO), al compenso emodinamico raggiunto. In particolare, le opzioni riguardano la monoterapia versus la terapia di combinazione. Il regime terapeutico potrà contenere un chinolonico (eventualmente associato ad amoxicillina-clavulanato o ad un aminoglicoside) oppure un aminoglicoside associato ad una penicillina di III generazione (es. piperacillina). In caso di sepsi è ipotizzabile l’uso di: ceftriaxone-cefotaxime78

CASCO — Vol 2, n. 1, gennaio-marzo 2012

cefepime-ceftazidina. Contestualmente, si provvederà a colture microbiologiche di tutti i possibili siti infettivi. In caso di mancata risposta dopo 48-72 ore, si provvederà alla modifica del regime terapeutico, anche in assenza di conferme microbiologiche. Le ragioni di questa inefficente risposta possono dipendere dalla resistenza alla terapia antibiotica impostata, da una febbre non infettiva, dalla presenza di un patogeno non batterico, dal sottodosaggio della terapia antibiotica. La durata ottimale non è nota (10-14 giorni), ma viene valutata empiricamente sulla scorta della raggiunta sterilità delle emocolture, della normalizzazione della proteina C reattiva e, soprattutto, della risoluzione dei segni e dei sintomi infettivi.

Infezioni fungine Le infezioni fungine invasive sono la maggiore causa di morbilità e mortalità; i funghi più comuni che causano infezioni invasive sono Aspergillus e la Candida Albicans. Il mancato riconoscimento di un’infezione fungina sistemica, documentata all’emocoltura, espone il paziente ad un rischio mortale, per disseminazione viscerale. In tutti i casi, il trattamento antifungino avverrà per via endovenosa, di durata non inferiore a 14 giorni. Infezioni cutanee – In caso di ascesso, si propone incisione e drenaggio; la tasca del CVC infetta va fatta guarire per seconda intenzione ed eventualmente si discute l’opportunità di una terapia antibiotica aggiuntiva. – La terapia antibiotica sistemica, invece, è raccomandata in caso di siti infettivi multipli, cellulite, comorbilità o immunodepressione, o area di difficile drenaggio. La terapia, empirica, proposta è con ß-lattamici, verso Stafilococchi ß -emolitici, per 10 giorni. – In caso di MRSA, l’opzione terapeutica include vancomicina, daptomcina, linezolid, clindamicina. La terapia è raccomandata per 14 giorni.

MRSA Lo stafilocco aureo è uno dei patogeni Gram positivi più frequentemente coinvolto nelle infezioni ospedaliere e circa il 45% degli Stafilococchi aurei isolati in UK sono meticillinoresistenti (MRSA)10. Le infezioni MRSA sono dunque infezioni emergenti; le sindromi cliniche associate all’MRSA includono le infezioni della cute e dei tessuti molli, batteriemie ed endocarditi, polmoniti, infezioni ossee e articolari ed infezioni del SNC. In caso di documentata MRSA, è proponibile una terapia antibiotica con daptomicina e vancomicina, che, in quanto inibenti o riducenti la sintesi del biofilm prodotto dagli Stafiloccocchi, sono battericidi o clindamicina, linezolid e tigacillina, che sono batteriostatici, e, come tali, non usati nella terapia empirica. Gram negativi La terapia antibiotica empirica di copertura per i Gram negativi dipende dall’aggressività del patogeno. In linea generale, sono proponibili: cefalosporine di IV generazione, car-


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bapenemici, o ß-lattamici, con o senza aminoglicosidi. In caso di patogeni MDR come lo Pseudomonas aeruginosa, in caso di sepsi e/o neutropenia, si propone una terapia antimicrobica di associazione e successiva dose-escalation ad antibiogramma disponibile.

Tossicità in field RT I trattamenti chemoradianti nel paziente HN sono gravati da frequenti effetti avversi severi, locali e sistemici, che possono inficiare il regolare prosieguo delle cure. In particolare, la dermatite da raggi è riscontrata nella maggior parte dei pazienti sottoposti a RT, con vari gradi di manifestazione; l’incidenza delle reazioni cutanee severe dipende, infatti, dalla dose totale di RT, dalla dose per frazione, dalla durata totale del trattamento, dal tipo di energia, nonché dall’estensione dell’area da irradiare. È inoltre riconosciuto che l’aggiunta della CT alla RT aumenta gli effetti acuti, soprattutto quando abbinata a regimi di frazionamento alterato. Le abitudine igienicosanitarie del paziente durante il trattamento contribuiscono sicuramente alla tolleranza alle radiazioni, che è infatti ridotta in caso di tabagismo persistente, abuso alcolico e denutrizione. Peraltro, in caso di fumo attivo in corso di RT, si apprezza una riduzione del controllo locoregionale e della sopravvivenza11. Diabete, preesistenti malattie del collagene ed ipersensibilità cutanea congenita predispongono ad un’esacerbazione delle tossicità cutanee attese, con eventi avversi più severi e talora difficili nella loro gestione. Tossicità cutanea La reazione epiteliale di un collo irradiato consta di 4 fasi consecutive: 1. eritema; 2. desquamazione secca; 3. desquamazione umida; 4. necrosi. La severità di questa reazione dipende dalla dose di RT, dall’energia impiegata e dai volumi di trattamento. L’uso di piani multipli tangenziali dell’IMRT contribuisce ad un aumento di tossicità cutanea, rispettivamente del 19% e del 27%, con e senza maschera, rispetto alla RT convenzionale12. Il trattamento locale prevede protocolli destinati alla cura delle ustioni, quindi l’uso topico quali sostanze come fitostimolina, acido ialuronico e connettivina, creme idratanti, idrogel e garze aderenti a base di alluminio; ma si propongono anche farmaci sistemici antalgici, anche oppiacei. In caso di reazioni cutanee indotte dal cetuximab è fondamentale un’accurata igiene della cute con detergenti a PH neutro (preferibili al sapone in quanto irritante la pelle), poiché una pulizia adeguata della cute, se effettuata correttamente, ha una valenza profilattica. In specifiche fasi di trattamento, si utilizzeranno farmaci ad hoc in funzione della tossicità manifesta: – prurito: sedativi antistaminici; – eritema: antisettici topici (es. creme a base di clorexidina o triclosan) ed emulsioni antinfiammatorie (es. trolamina o acido ialuronico); – secchezza della pelle: oli e creme idratanti;

– rash acneiforme: esordito tipicamente dopo 3-5 settimane dall’avvio del trattamento RT39, generalmente distribuito in aree ricche di ghiandole sebacee, beneficia di creme a base di perossido di zinco o metronidazolo e di antibiotici a base di eritromicina, clindamicina o doxiciclina; – ulcerazioni, ragadi e paronichia: saponi antisettici e approcci topici con idrocolloidi; – in caso di dermatite da raggi, l’uso di steroidi non è controindicato, se utilizzati per un periodo limitato. Tuttavia, taluni ne sconsigliano l’uso, poiché, interferendo con le reazioni citotossiche cellulomediate anticorpo-dipendenti, esacerbano l’acne e le altre tossicità cutanee. Sono altresì controindicati: l’esposizione solare, l’uso di sostanze irritanti (es. profumi, deodoranti, lozioni alcoliche), cerette.

Nausea Il 30%-60% dei pazienti sottoposti a radioterapia ha esperienza della nausea e del vomito, che correla alla sede di irradiazione. L’irradiazione del distretto testa e collo, infatti, si associa a stimolazione del tronco encefalico e, a partire da una dose superiore a 30 Gy, la nausea può essere manifesta. Il paziente beneficia di metoclopramide, steroide ed anti-HT3. La xerostomia e la percezione di secrezioni mucose molto dense e appiccicose concorrono al peggioramento dell’emesi. Oltre alla corretta idratazione orale, un parziale beneficio può essere ottenuto dall’uso di farmaci procinetici (es. levosulpiride) ed anticinetosici, quale la scopolamina, di umidificatori e di aspiratori a muro per la rimozione meccanica delle secrezioni stesse. Osteonecrosi mandibolare L’osteonecrosi mandibolare è un evento raro (<1% dei casi), che può essere evitato con la prevenzione. Essa avviene, in fase pre-RT, attraverso l’esecuzione di un’ortopantomografia ed una successiva valutazione odontoiatrica per eventuali provvedimenti. L’estrazione preventiva di granulomi e denti inclusi, la cura delle carie e delle malattie parodontali, l’impiego di gel fluororati deve avvenire prima della radioterapia, al fine di evitare l’insorgenza di complicazioni dentarie (l’ascesso, in primis), in corso di RT, con conseguente necessità di sospensione della RT. In assenza di adeguata bonifica del cavo orale, sono altresì attese parodontopatie nel follow-up. Stomatite La stomatite è una condizione di frequente riscontro in ambito oncologico. Seppure attesa, è una complicazione spesso debilitante ed interferente con l’alimentazione e la QoL del paziente. In quanto tale, richiede una cura adeguata per limitarne la severità e consentire la prosecuzione del percorso terapeutico, garantendo maggiore continuità nel suo svolgimento. Può essere indotta dalla chemioterapia di induzione (68% di pazienti trattati con TPF13), dalla RT esclusiva (fino al 66%14 dei casi), dalla CT concomitante alla RT, dalla CT palliativa (fino al 40% di pazienti a seconda degli studi), dalla target therapy15. CASCO — Vol 2, n. 3, luglio-settembre 2012

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La combinazione della chemioradioterapia, soprattutto se in concomitanza, è superiore alla sola RT per un vantaggio assoluto di sopravvivenza a 5 anni del 4-5%, per riduzione del 12% del rischio di morte nel setting adiuvante, per miglioramento dell’8% del controllo locale a 5 anni16. Soprattutto tale beneficio è apprezzabile quando l’associazione della CT alla RT avviene con il cisplatino17. Questo tuttavia, ha comportato un aumento delle tossicità riscontrate18, soprattutto in termini di stomatite, ma anche di disfunzioni ipofaringolaringee (per fissità cordali e turbe deglutitorie), feeding-tube dependence, e morte non malattia relata. La stomatite chemioradioindotta di grado severo (3 e 4) è apprezzabile in percentuali variabili tra il 22%-89%, a seconda delle casistiche. Anche l’impiego del’IMRT non è esente dall’aumento della stomatite per l’aggiunta di “hot spots” che possono esacerbare la mucosite rispetto ai trattamenti 3D conformazionali19. Il trattamento della mucosite può avvenire con ripetuti sciacqui del cavo orale con acqua e bicarbonato, collutori antisettici a base di benzidamina o citrosodina, i quali permettono di eliminare le secrezioni mucose e di restaurare il PH fisiologico, prevenendo così possibili superinfezioni; la prevenzione delle infezioni micotiche avviene con sciacqui ripetuti con antifungini ad uso topico 3 volte/die. Nel caso in cui la mucosite sia dovuta ad una micosi locale si propone prosecuzione del trattamento locale con antifungini, cui può essere associata, in casi refrattari alla terapia, la terapia antifungina orale per os. Il dolore legato alla mucosite deve essere alleviato dalla masticazione di piccoli volumi di ghiaccio tritato e da soluzioni contenenti xylocaina viscosa associata a idrossido di alluminio in rapporto 1:2, che forniscono analgesia momentanea a livello locale, onde introdurre alimenti e/o liquidi. Può essere necessario aggiungere farmaci come FANS e oppiacei. E, poiché la mucosite limita notevolmente il tipo di alimentazione nel paziente sottoposto a CT-RT, si suggerisce altresì di: – evitare alcol e fumo – evitare cibi e sostanze irritanti – assumere alimenti ad alto contenuto calorico e proteico, di consistenza soffice (tipo zuppe, budini, dessert morbidi, composti a base di latte, gelati) associati ad un’abbondante idratazione per os (1500-2000 ml/die). L’obiettivo sarebbe di assumere fino a 35 kcal/kg di peso corporeo/die, con 1-2,5 g/kg/die di proteine – utilizzare miscele a composizione alimentare completa e simile alla dieta naturale equilibrata per contenuto in macronutrienti (glucidi pari al 45-60%, protidi 15-20%, lipidi 30-40%), elettroliti e oligoelementi – non trascurare l’assunzione di fibrina alimentare insolubile (es. lignite, cellulosa) e soprattutto solubile (es. pectine, gomma di guar). Queste formulazioni sono disponibili in formulazioni gradevoli (vaniglia, cioccolato, frutti di bosco), hanno buona palatabilità, ma possono essere somministrate anche tramite SNG. 80

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Dolore Nel paziente oncologico, il dolore è uno dei sintomi più rilevati, noto da tempo per la severa compromissione della qualità di vita in caso di mancato controllo. Gli studi dimostrano che la prevalenza del dolore nel paziente oncologico è stimata del 33% dopo trattamento curativo, in percentuali variabili tra il 24%-60% durante trattamenti attivi palliativi e nel 62%-86% in caso di malattia avanzata. Anche nel paziente HN, il dolore può essere correlato alla malattia, ai trattamenti o ad entrambi. La valutazione del dolore è spesso inadeguata: il 25% del dolore infatti è sottotrattato, per inosservanza alle linee guida, mancata somministrazione di analgesici a giusti dosaggi o di farmaci adiuvanti, riluttanza del paziente o della famiglia all’uso di oppiacei, mancata attenzione al break through pain, paura dell’assuefazione, perdita delle capacità intellettive con conseguente controllo algico inadeguato. Per tale motivo, anche nel paziente HN, il dolore deve essere interpretato come una malattia nella malattia. Per l’impostazione della terapia antalgica, innanzitutto, è necessario credere al paziente che lamenta dolore. La comunicazione è infatti una normale manifestazione comportamentale, che sottintende una spiccata componente emotiva, istintiva e logico-razionale, ma che è fortemente suscettibile di modifiche in presenza di fattori disturbanti, quali il dolore. Per tale motivo, l’intensità del dolore e l’esito del trattamento non possono essere valutati unicamente mediante scale visuo-analogiche (VAS), verbali (VRS) o numeriche (NRS), ma anche tramite altri parametri non facilmente riproducibili, quali l’espressione facciale, i movimenti corporei, la verbalizzazione e la vocalizzazione, i cambiamenti delle interazioni interpersonali, le modifiche dell’attività di routine. Secondariamente, si devono valutare le caratteristiche del dolore (intensità, sede, irradiazione, qualità per es. urente, lancinante, ecc.), il pattern temporale (acuto, subacuto, cronico, continuo, intermittente, incidente o stabile), i fattori peggiorativi e migliorativi, l’impatto sull’attività quotidiana. La necessità di rapido avvio ad un’adeguata terapia antalgica consente al paziente di riprendere il controllo della propria vita, con una favorevole ricaduta in termini di miglioramento della qualità di vita. La terapia, tuttavia, deve essere formulata tenendo conto di vari parametri: – la scala WHO a 3 gradini: 1.FANS (naprossene, diclofenac, indometacina) e paracetamolo; 2.oppioidi deboli (tramadolo, codeina, destroprossifene, tapentadolo) + FANS; 3.oppioidi forti (es. morfina, metadone, ossicodone, buprenorfina, fentanil) +/- FANS; – il PS, l’età, la compliance del paziente, il suo stato psicologico (talora, la sofferenza del paziente è dettata non solo dal dolore, ma anche altri fattori, es. sociofamiliari ed economici) e neurologico, il rischio di dipendenza psichica (che non è secondario alla morfina, ma ad una sindrome comportamentale);


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– la difficoltà di assunzione del farmaco per via orale; – le alterazioni metaboliche o d’organo concomitanti; – l’assunzione o meno di concomitante terapia psichica o psichiatrica. Nel caso di algia severa, la morfina rimane il farmaco di prima scelta, quale misura di riferimento per l’equianalgesia. Nelle malattia la cui componente algica è fortemente neurotrasmissiva, l’esperienza del break through pain appare più evidente. La transitoria esacerbazione del dolore che occorre acutamente in un dolore stabilmente controllato necessita infatti dell’uso di farmaci a rapida azione e basso accumulo, quali il fentanil nasale o transmucoso orale (con l’esclusione di pazienti in trattamento radiante sulle mucose coinvolte nell’assorbimento). In caso di dolori refrattari (più spesso ad eziologia neuropatica) e nel periodo di fine vita, è consigliabile l’uso di antidepressivi triciclici (es. amitriptilina, imipramina, desipramina) ed inibitori del re-uptake della serotonina, anticonvulsivanti (es. carbamazepina, fenitoina, acido valproico, clonazepam, gabapentin o pregabalin), anestetici locali (es. lidocaina sottocute, uso controverso per risultati contrastati) e persino barbiturici ad uso sistemico (es. propofol), poiché concorrono ad un effetto analgesico diretto e indiretto e riducono la soglia di percezione del dolore. Altrettanta rilevanza riveste il ruolo dello steroide, che è spesso consigliato, in virtù dei suoi effetti antinfiammatori ed antiedemigeni, oltre che per il suo beneficio antiemetico, antianoresizzante e psicostimolante (antagonizzando l’azione degli oppiacei stessi). La radioterapia ha un’efficacia specifica nel miglioramento del dolore causato dalla metastasi ossee, grazie al suo effetto decompressivo, di stabilizzazione e di fissazione delle fratture, di prevenzione degli eventi scheletrici. Una revisione sistematica della letteratura riguardo all’uso della RT nel dolore osseo mostra che il dolore è completamente controllato ad 1 mese post-trattamento nel 27% dei pazienti20. Nei pazienti con metastasi ossee, i bifosfonati rappresentano una classe di farmaci da utilizzarsi a scopo sintomatico; in virtù delle loro caratteristiche fisico-chimiche, infatti, hanno effetto sul controllo del dolore, sulla riduzione dei farmaci analgesici, sulla riparazione ossea e sulla riduzione delle complicazioni scheletriche. L’uso dei bifosfonati è infatti consigliato quale coadiuvante della terapia medica, in caso di ipercalcemia e necessità di riduzione degli eventi scheletrici. Un’esperienza singolare nel paziente HN è il dolore manifesto durante l’infusione della vinorelbina. La vinorelbina, un alcaloide della vinca, dimostra la efficacia in un largo spettro di tumori solidi, tra i quali il tumore testa e collo e, durante la sua infusione, si può assistere ad una recrudescenza severa del dolore, nella sede di malattia (più spesso, intracranica), con effetto reversibile. Tale algia può essere prevenuta con un’adeguata profilassi antalgica: ketorolac e morfina in fase preinfusionale rappresentano infatti una ragionevole profilassi del dolore associato al trattamento.

Modulazione dei trattamenti A fronte di tossicità mucosali o sistemiche attese o manifeste, è sempre necessario modulare l’aggressività oncologica dei trattamenti sulla scorta del rischio oncologico del singolo paziente, delle chance di guarigione definitiva, della compliance del paziente e della presenza di un adeguato care giver. Solo un’accurata valutazione del paziente, delle sue comorbilità e del suo assetto nutrizionale permette un’adeguata pianificazione del trattamento, che, alla luce di tutti i fattori sopraindicati, deve essere sempre finalizzato al raggiungimento del controllo locale o alla guarigione della malattia, a fronte di limitate o ragionevoli tossicità. Ad esempio, nel paziente anziano e/o compromesso per PS e comorbilità, potrebbe essere strategica la scelta di effettuare la sola RT, con astensione della CT concomitante, se ciò fosse finalizzato alla massimizzazione dei benefici attesi dal trattamento radiante e al risparmio degli effetti collaterali potenzialmente interferenti con la completa realizzazione della RT. Sulla scorta dell’esperienza clinica e dell’aderenza alle linee guida, è quindi possibile selezionare i pazienti ed offrire loro trattamenti “personalizzati”, attraverso il potenziamento di un approccio di terapia di supporto integrata, poiché solo ottimizzando la terapia antitumorale per il singolo paziente, è possibile amplificare le probabilità di efficacia e minimizzare le tossicità. • Bibliografia 1. Parkin DM, Bray F, Ferlay J, Pisani P. Global cancer statistics, 2002. CA Cancer J Clin 2005; 55: 74-108. 2. Lin A, Jabbari S, Worden FP, et al. Metabolic abnormalities associated with weight loss during chemoradiation of head and neck cancer. Int J Radiot Oncol Bil Phys 2005; 63: 1413-8. 3. Lees J. Nasogastric and percutaneous endoscopic gastrostomy feeding in head and neck cancer patients receiving radiotherapy treatment at a regional oncology unit. A two years study. Eur J Cancer Care 1997; 6: 45-9. 4. Mantsopoulos K, Zenk J, Konturek PC, Iro H. Local infection after percutaneous endoscopic gastrostomy in ENT tumor patients: evaluation of the influence of the abdominal thickness and other parameteres. Med Sci Monit 2010; 16: CR 116-23. 5. Silas AM, Pearce LF, Lestina LS, et al. Percutaneous radiologic gastrostomy versus percutaneous endoscopic gastrostomy: a comparison of indications, complications and outcomes in 370 patients. Eur J Radiol 2005; 56: 84-90. 6. Wilhelm SM, Ortega KA, Stellato TA. Guidelines for identification and management of outpatient percutaneous endoscopic gastrostomy tube placement. Am J Sur 2010; 199: 396-400. 7. Sadasivan A, Faizal B, Kumar M. Nasogastric and percutaneous endoscopic gastrostomy tube use in advanced head and neck cancer patients: a comparative study. J Pain Palliat Care Pharmacother 2012; 26: 226-32. 8. Mermel LA, Allon M, Bouza E, et al. Clinical practice guidelines for the diagnosis and management of intravascular catheter related infection: 2009 update by the Infectious Diseases Society of America. Clin Infect Dis 2009; 49: 1-45. 9. van Rooden CJ, Rosendaal FR, Barge RM, et al. Central venous catheter related thrombosis in hematology patients and prediction of risk by screening with Doppler-ultrasound. Br J Haematol 2003; 123: 507-12. CASCO — Vol 2, n. 3, luglio-settembre 2012

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Gestione eventi avversi

Prevenzione con GnRH analogo della menopausa precoce chemio-indotta nelle donne con diagnosi di carcinoma mammario

Silvia Sabatini, Martina Nunzi SC Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

Introduzione Nonostante l’età media di diagnosi di carcinoma della mammella sia 61 anni, circa il 35% di tutte le nuove diagnosi riguarda donne con età inferiore ai 54 anni e il 12% delle pazienti è più giovane di 45 anni1. Le terapie adiuvanti per il carcinoma mammario sono gravate dalla possibile comparsa di effetti collaterali in grado di influenzare la qualità di vita delle pazienti sia a breve che a lungo termine. In particolare, per le giovani donne in età fertile, una delle conseguenze più temute delle terapie riguarda il rischio di una menopausa precoce, con la derivante perdita della fertilità e tutte le manifestazioni connesse, sia soggettive (vampate, sudorazione, perdita della libido) che oggettive (osteoporosi, patologie cardiovascolari, disfunzioni cognitive, atrofia genitale). Le giovani donne con carcinoma mammario considerano la menopausa precoce e le sue conseguenze come la maggiore causa di stress della loro esperienza di malattia, tale da influenzare le loro decisioni terapeutiche in una percentuale non trascurabile di casi2. Il danno gonadico della chemioterapia è determinato dalla parziale o totale distruzione della riserva ovarica, con conseguente insufficienza temporanea o definitiva. La chemioterapia può avere un effetto tossico diretto e indiretto. Quello diretto è caratterizzato dall’induzione dell’apoptosi sull’ovocita primordiale. L’effetto indiretto comprende il danno sulle cellule della granulosa, con alterazione del reclutamento e maturazione dei follicoli e il danno sull’endotelio vascolare dello stroma ovarico con conseguenti alterazioni anatomiche caratterizzate dall’ispessimento e la proliferazione dei piccoli vasi e dai depositi di collagene3-5. L’entità del danno dipende dall’agente chemioterapico e dall’età della paziente. Tra gli agenti chemioterapici sono considerati ad alto rischio di tossicità ovarica gli alchilanti come la ciclofosfamide, a rischio intermedio le antracicline e i taxani e a basso rischio il 5 fluorouracile e il metotrexate. In particolare, per quanto riguarda i regimi chemioterapici, la combinazione di ciclofosfamide orale, metotrexate e 5-fluorouracile (CMF classico), è quella maggiormente associata al più alto rischio di insufficienza ovarica, che può raggiungere il 90% nelle donne con più di 40 anni6. Le combinazioni di nuova generazione con antracicline e taxani risultano essere meno tossiche per l’ovaio; infatti, circa l’85% delle donne con età uguale o inferiore ai 40 anni trattate con questi farmaci sperimenta la ripresa del ci-

clo mestruale entro i 12 mesi dalla fine della chemioterapia, mentre l’utilizzo del docetaxel per periodi più prolungati è associato a un più alto rischio di menopausa7,8. L’età rappresenta l’altra variabile nel danno ovarico. Le donne con età inferiore ai 35 anni hanno un rischio di menopausa precoce di circa il 10%; tale rischio aumenta al 50% nelle donne tra i 35 e i 40 anni, per arrivare all’85% nelle donne con più di 40 anni9. Nelle pazienti più giovani la percentuale di amenorrea chemio-indotta è più bassa in quanto nelle loro gonadi vi è un più alto numero assoluto di ovociti primordiali. Tuttavia, nelle giovani donne, pur in assenza di amenorrea chemio-indotta, si verifica comunque una riduzione della riserva ovarica, con una maggiore probabilità che sperimentino durante la loro vita una menopausa precoce10,11. L’impiego sequenziale del tamoxifene sembra contribuire al ritardo nel recupero delle mestruazioni, sebbene con un meccanismo d’azione ancora incerto. Infine, per quanto riguarda la terapia con il trastuzumab, non è stata riportata alcuna segnalazione di danno ovarico conseguente all’impiego prolungato12. La ripresa del ciclo mestruale si ha generalmente entro i 6-7 mesi, anche se sono descritti casi di ripresa fino a 24 mesi dal termine della chemioterapia. Generalmente, la ripresa del ciclo mestruale è considerato un marker surrogato della funzione ovarica. Tuttavia, la ripresa delle mestruazioni non è l’indice esatto della reale riserva ovarica della donna, parametro questo sicuramente più attendibile per valutare con esattezza la funzione ovarica, ma più difficile da misurare. Una serie di test sono stati nel tempo sperimentati per determinare una migliore stima della riserva ovarica; i dati migliori si sono avuti con il dosaggio dei livelli di ormone antiMulleriano, e la conta ecografica dei follicoli antrali. Utilizzo del GnRH analogo a scopo gonado-protettivo in corso di chemioterapia

Razionale d’uso del GnRH analogo Negli ultimi anni è stato dimostrato molto interesse nel valutare il ruolo dell’impiego del GnRH analogo nel prevenire la menopausa precoce e l’infertilità. Il razionale d’uso di tale agente si basa su alcune ipotesi, non sempre valutate sperimentalmente sull’ovocita umano e tuttora oggetto di dimostrazione13.

Interruzione della secrezione dell’FSH Gli agenti alchilanti causano un aumento della distruzione dei follicoli in fase di maturazione, con una conseguente riduzione della concentrazione plasmatica degli ormoni sessuali. Ciò porta, tramite un feedback negativo, ad un auCASCO — Vol 2, n. 3, luglio-settembre 2012

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mento della secrezione di FSH, che determina un maggiore reclutamento dei follicoli primordiali, che, maturandosi, diventano sensibili all’azione tossica dei chemioterapici. Tale circolo vizioso porta ad una rapida deplezione della riserva follicolare ovarica. Il GnRH analogo, bloccando la secrezione dell’FSH da parte dell’ipofisi, interrompe il circolo vizioso, determinando la preservazione dei follicoli allo stato primordiale.

Riduzione della perfusione utero-ovarica La perfusione utero-ovarica è dipendente dalla concentrazione degli estrogeni. Lo stato ipoestrogenico, determinato dalla desensibilizzazione ipofisaria dipendente dal GnRH analogo, induce una riduzione della perfusione e pertanto una minore esposizione dell’ovaio all’azione tossica dei chemioterapici.

Attivazione intra-ovarica dei recettori del GnRH È oggetto di studio la possibilità che gli ovociti esprimano sulla loro superficie i recettori per il GnRH. L’attivazione di tali recettori (GnRH-IR, GnRH-IIR) potrebbe determinare una riduzione dell’attività proapoptotica ad opera degli agenti chemioterapici.

Up-regolazione della sfingosina-1-fosfato Si ipotizza che il GnRH analogo sia in grado di up-regolare la produzione intragonadica della molecola anti-apoptotica sfingosina-1-fosfato. Tale molecola si è dimostrata in grado di bloccare l’apoptosi degli ovociti, quando essi sono esposti a radiazioni ionizzanti o a chemioterapici come la adriamicina.

Protezione della cellula staminale indifferenziata della linea germinale È del 2004 la scoperta dell’esistenza di cellule staminali della linea germinale nell’ovaio dei ratti, in grado di rinnovare continuamente, anche dopo la nascita dell’individuo, il pool dei follicoli primordiali. Si potrebbe pertanto ipotizzare un effetto protettivo del GnRH analogo sulla cellula staminale, la quale sarebbe in grado di produrre de novo altri follicoli, in sostituzione degli ovociti maturi distrutti dalla chemioterapia, con la conseguente ripresa dell’ovulazione.

Impiego clinico del GnRH analogo Nonostante il razionale biologico ancora totalmente da dimostrare nell’uomo, il desiderio delle giovani pazienti di mantenere la fertilità e prevenire la menopausa precoce, unitamente alla disponibilità del trattamento e all’elevata compliance d’uso, ha portato alla valutazione clinica dell’efficacia del GnRH analogo nel preservare la funzione ovarica in corso di chemioterapia. I primi risultati derivanti dagli studi di fase II hanno suggerito una riduzione dell’incidenza dell’amenorrea con l’uso del GnRH analogo durante la chemioterapia. Tuttavia, i successivi studi di fase III, condotti sulle giovani donne con diagnosi di carcinoma mammario in trattamento chemioterapico (neo)adiuvante, hanno prodotto dati contrastanti. 84

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Nel 2010, all’ASCO Annual Meeting, sono stati presentati da Leonard i dati preliminari dello studio OPTION (Ovarian Protection Trial in Estrogen Negative), nel quale sono state arruolate 227 pazienti in premenopausa, con diagnosi di carcinoma mammario con recettori ormonali negativi, sottoposte a chemioterapia adiuvante con un regime contenente antracicline/ciclofosfamide ± taxani per almeno 6-8 cicli. Le pazienti sono state randomizzate a ricevere in concomitanza alla chemioterapia il goserelin verso nessun trattamento. Dai risultati non è emersa nessuna differenza in termini di ripresa del ciclo mestruale nei i due gruppi14. Anche i risultati dello studio ZORO (ZOladex Rescue of Ovarian Function), pubblicati nel 2011, hanno evidenziato il mancato vantaggio dell’uso del GnRH analogo nel prevenire la menopausa precoce in corso di chemioterapia. In questo trial sono state arruolate 60 pazienti con diagnosi di carcinoma mammario con recettori ormonali negativi, in premenopausa, con età compresa tra i 26 e i 47 anni. Le pazienti sono state randomizzate a ricevere il goserelin insieme alla chemioterapia neoadiuvante con un regime contenente antracicline/ciclofosfamide ± taxani verso la sola chemioterapia. Il goserelin è stato somministrato alla dose di 3,6 mg ogni 28 giorni a partire da due settimane prima dell’inizio della chemioterapia, fino all’ultimo ciclo di trattamento. L’obiettivo dello studio era quello di dimostrare la protezione ovarica da parte del goserelin, espressa dal maggior numero di pazienti con una ripresa del ciclo mestruale normale a 6 mesi dal termine della chemioterapia neoadiuvante. Lo studio non ha evidenziato differenze tra i due gruppi, infatti si è verificata una ripresa regolare del ciclo mestruale nel 70% delle pazienti trattate con il goserelin verso il 56,7% delle pazienti nel braccio di controllo con una differenza del 13,3%, non significativa15. In accordo con questi risultati, ci sono poi quelli dello studio di Munster pubblicati nel 2012, nel quale sono state arruolate 49 pazienti con diagnosi di carcinoma mammario stadio I-III, con recettori ormonali negativi o positivi, di età compresa tra i 21 e i 44 anni, in pre-menopausa. Le pazienti sono state randomizzate a ricevere la triptorelina insieme alla chemioterapia (neo)adiuvante con un regime contenente antracicline/ciclofosfamide ± taxani verso la sola chemioterapia. La triptorelina è stata somministrata alla dose di 3,75 mg ogni 28 giorni da 4 a 1 settimana prima della chemioterapia fino alla fine del trattamento. Le pazienti con recettori ormonali positivi hanno ricevuto il trattamento con tamoxifene per 5 anni. A differenza degli studi precedenti, le pazienti sono state stratificate per l’età (<35, 35-39, >39 anni), lo stato recettoriale, il regime chemioterapico utilizzato (EC x 4, EC x 4 → paclitaxel, FEC x 6) e per la terapia ormonale. L’obiettivo dello studio era quello di dimostrare l’effetto protettivo ovarico della triptorelina in corso della chemioterapia, espresso come maggior numero di pazienti con una ripresa del ciclo mestruale nei due anni successivi al termine della chemioterapia, ripresa definita dalla comparsa di almeno 3 cicli in 6 mesi con livelli di FSH <40 mIU/ml. Lo studio è stato interrotto precocemente per futilità dopo aver arruolato 49 pazienti delle 124 previste. La ripresa del ciclo mestruale si è verificata nel 90% delle donne trattate nel braccio di controllo


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e nell’88 % delle pazienti nel gruppo trattato con triptorelina (p= .36)16. Risultati positivi dell’uso del GnRH analogo provengono invece da 2 studi, pubblicati nel 2009 e nel 2011. Nello studio di Badawy, 80 pazienti con diagnosi di carcinoma della mammella, di età inferiore ai 40 anni, sono state randomizzate a ricevere chemioterapia secondo schema FAC per 6 cicli, più o meno goserelin 3,6 mg sottocute somministrato ogni 28 giorni a partire da due settimane prima dell’inizio della chemioterapia, per 6 mesi. L’obiettivo dello studio è stato quello di valutare il tasso di ripresa del ciclo mestruale e dell’ovulazione (misurata attraverso ecografie seriate); durante e dopo il trattamento sono state anche effettuate misurazioni ripetute di FSH, LH, estradiolo e progesterone. La percentuale di ripresa spontanea delle mestruazioni e dell’ovulazione entro gli 8 mesi dal termine del trattamento è stata significativamente superiore nel gruppo trattato con GnRH analogo ( 89,7% e 69,2%), rispetto a quella del gruppo di controllo (33,3% e 25,6%). A 6 mesi dal termine del trattamento, le concentrazioni medie di FSH e LH sono risultate significativamente superiori nel gruppo di controllo, mentre il dosaggio del progesterone è stato superiore nel gruppo trattato con GnRH analogo17. Questo studio è indubbiamente uno studio positivo in termini di risultati, tuttavia appare utile sottolineare lo scarso numero di pazienti arruolate e l’assenza di dati relativi all’endocrino-responsività delle pazienti e al conseguente impiego di tamoxifene. Uno tra gli studi più importanti e meglio condotti in tale ambito è sicuramente quello pubblicato da Del Mastro nel 2011 su JAMA. In questo studio, 282 donne dai 18 ai 45 anni con diagnosi di carcinoma mammario, sottoposte a chemioterapia neo- e adiuvante (CMF, antracicline, antracicline e taxani), sono state randomizzate a ricevere o meno triptorelina 3,75 mg i.m. ogni 4 settimane, a partire dalla settimana precedente la chemioterapia, fino all’ultimo ciclo. Le pazienti endocrino-responsive hanno inoltre ricevuto tamoxifene per 5 anni e, nel caso di ricomparsa del ciclo mestruale durante i 12 mesi di osservazione, hanno riassunto la triptorelina a scopo adiuvante per altri 2 anni; ciò, al fine di non privare le pazienti di un’adeguata terapia endocrina, nell’ipotesi che la ricomparsa delle mestruazioni possa interferire con la sopravvivenza delle pazienti stesse. L’obiettivo primario dello studio è stato quello di comparare nei 2 gruppi l’incidenza di menopausa precoce, intesa come assenza di mestruazioni e valori di FSH e estradiolo da post-menopausa ad 1 anno dalla fine della chemioterapia. La scelta dell’intervallo di 1 anno differenzia questo dagli altri studi, nei quali il periodo di osservazione è stato di 3-6 mesi. Il tasso di menopausa precoce è risultato essere del 25,9% nel gruppo di controllo verso l’8,9% nel gruppo trattato con GnRH analogo. Il numero di pazienti da trattare (NNT) per prevenire una manopausa precoce è stato di 6. La ricomparsa delle mestruazioni si è avuta nel 49,6% di pazienti nel gruppo di controllo, verso il 63,3% del gruppo trattato. Il tempo medio di ricomparsa del ciclo mestruale non è stato raggiunto nel gruppo di controllo verso 6,7 mesi nel gruppo di pazienti trattate con triptorelina. Ad un’analisi per sottogruppi, è emerso un tasso di meno-

pausa precoce più alto nelle pazienti endocrino-responsive in terapia con tamoxifene. Non vi sono state differenze significative in recidive o morti nei 2 bracci18. In aggiunta agli studi di fase III, si vuole ricordare anche la produzione di due metanalisi sull’argomento. La prima, ad opera della Cochrane Collaboration, pubblicata nel 2011, ha analizzato i dati di 4 studi, con un totale di sole 154 pazienti, affetti sia da carcinoma della mammella che da linfoma; i risultati della metanalisi sono a favore dell’uso del GnRh analogo, dimostratosi avere un effetto protettivo sia sulla ripresa delle mestruazioni (RR 1,90, IC 1,30-2,79) che sull’ovulazione (RR 2,70, IC 1,52-4,79), sebbene non vi siano differenze riguardo al tasso di gravidanze successive. Gli autori hanno concluso che l’uso del GnRH analogo si è dimostrato efficace nel proteggere la funzionalità ovarica durante la chemioterapia, ma che sono risultate deficitarie le informazioni sul mantenimento della fertilità a lungo termine19. La seconda metanalisi, presentata dalla Del Mastro all’ultimo congresso ESMO, ha raccolto i dati provenienti da 8 studi randomizzati, con un arruolamento complessivo di 803 pazienti, affette sia da carcinoma mammario che da linfoma. Dall’analisi combinata dei dati, il tasso di insufficienza ovarica precoce chemio-indotta è risultato statisticamente inferiore nel gruppo di donne trattate con GnRH analogo rispetto ai controlli (OR 0,49, IC 0,35-0,69); tuttavia, la presenza di una significativa eterogeneità degli studi considerati nella metanalisi ha portato gli autori a ritenere necessari ulteriori studi al fine di confermare il benefico effetto del GnRH analogo20. Conclusioni La menopausa precoce e la perdita della fertilità rappresentano temibili effetti collaterali della chemioterapia per le giovani donne con diagnosi di neoplasia mammaria, tali da condizionare la compliance ai trattamenti e la loro qualità di vita. Da ciò l’interesse ad individuare una prevenzione efficace, attraverso metodiche non invasive, potenzialmente tollerabili e sicure. La temporanea soppressione della funzione ovarica in corso di chemioterapia ad opera del GnRH analogo è stata valutata in numerosi studi da cui sono derivati risultati contrastanti, sebbene con un trend a favore del suo impiego. La difficoltà a valutare nel loro insieme i risultati di questi studi deriva dalla loro eterogeneità, riscontrata in differenti aspetti: in termini di caratteristiche della popolazione arruolata, soprattutto per quanto riguarda l’età mediana delle pazienti; in termini di outcome considerati, poiché in alcuni studi si è valutato il ruolo del GnRH analogo nel prevenire l’amenorrea mentre in altri nel favorire la ripresa del ciclo mestruale regolare; in termini di durata del follow up che è variata dai 6 ai 24 mesi e infine per quanto riguarda il tipo di chemioterapia utilizzata, con diverse dosi di ciclofosfamide e differenti regimi. Inoltre, anche negli studi in cui si è dimostrato un vantaggio nell’impiego del GnRH analogo, mancano i risultati del follow up a lungo termine per confermare il mantenimento nel tempo della funzione ovarica e della fertilità. Vi è inoltre ancora da dimostrare definitivamente se il mantenimento della funzione ovarica nelle donne con diagnosi di carcinoma mammario ormono-responsivo possa avere un CASCO — Vol 2, n. 3, luglio-settembre 2012

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effetto detrimentale. Ad oggi, infatti, i dati disponibili dimostrano un miglioramento della prognosi nelle pazienti endocrino-responsive che ottengono l’amenorrea con la chemioterapia adiuvante; da ciò il dubbio che la ripresa della normale funzionalità ovarica possa influire negativamente sulla sopravvivenza di tali pazienti. Per quanto riguarda invece la possibilità che la somministrazione concomitante della chemioterapia e del GnRH analogo possa inficiare l’efficacia del trattamento adiuvante, i dati prodotti sembrano sufficienti ad escludere tale interferenza negativa. Nonostante le considerazioni suddette, l’utilizzo in tale setting del GnRH analogo rimane interessante per alcuni suoi vantaggi. Unitamente alla ottima tollerabilità, poiché sono scarsi se non assenti gli effetti collaterali, quando confrontato con le altre metodiche di preservazione della fertilità come la criopreservazione dell’embrione o la criopreservazione degli ovociti o di tessuto ovarico, tale approccio terapeutico si è dimostrato essere semplice da somministrare, non invasivo e relativamente poco costoso; inoltre, non richiede né stimolazioni ormonali, potenzialmente pericolose nelle donne con carcinoma mammario endocrino-responsivo, né ritardi nell’inizio della chemioterapia, né la presenza di un partner maschio. Infine, se efficace, il GnRH analogo è in grado di preservare non solo la fertilità, ma l’intera funzione ovarica e ciò, soprattutto per le donne che non desiderano gravidanze, può rivestire un’importanza maggiore. • Bibliografia 1. SEER Stat Fact Sheets: breast. Surveillance, Epidemiology and Results Web site. http://seer.cancer.gov/statfacts/html/breast.html. Accessed June, 2011. 2. Partridge AH, Gelber S, Peppercorn J, et al. Web-based survey of fertility issue in young women with breast cancer. J Clin Oncol 2004; 22: 4174-83. 3. Familiari G, Caggiati A, Nottola SA, et al. Ultrastructure of human ovarian primordial follicles after combination chemotherapy for Hodgkin’s disease. Hum Reprod 1993; 6: 20807. 4. Meirow D, Dor J, Kaufman B, et al. Cortical fibrosis and bloodvessels damage in human ovaries exposed to chemotherapy. Potential mechanism of ovarian injury. Hum Reprod 2007; 22: 1626-33. 5. Oktem O, Oktay K. A novel ovarian xenografting model to characterize the impact of chemotherapy agents on human primordial follicle reserve. Cancer Res 2007; 67: 10159-62. 6. Fornier MN, Modi S, Panageas KS, et al. Incidence of chemotherapy-induced, long-term amenorrhea in patients with breast carcinoma age 40 years and younger after adjuvant anthracycline and taxane. Cancer 2005; 104: 1575-9.

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Gestione eventi avversi

Profilassi e trattamento della costipazione da oppiacei

Guglielmo Fumi SC Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

Dimensioni del problema La costipazione rappresenta uno dei più frequenti problemi nel paziente in trattamento con oppiacei ed in particolare nel paziente oncologico in fase avanzata, presentandosi con prevalenza fin quasi al 90% dei casi (range nelle varie statistiche variabile fra 15% ed 87%). Nella popolazione generale sana (Europa occidentale) la prevalenza di stipsi è intorno al 10-20%1. Nonostante la frequenza del sintomo e il disagio che ne deriva, questo problema è spesso sottostimato dal clinico, con conseguente mancato o inadeguato trattamento. Si stima che circa il 50% dei pazienti con stipsi da oppiacei non raggiunga un soddisfacente controllo del sintomo; va aggiunto che la stipsi non è l’unico effetto indesiderato digestivo legato alla assunzione di oppiacei (nausea, secchezza delle fauci, crampi addominali). In alcuni casi, l’accentuazione del già elevato livello di sofferenza del paziente oncologico può indurre il paziente a ridurre o addirittura interrompere l’assunzione di analgesici oppiacei, venendo vissuta la stipsi invalidante anche più del dolore2,3. Del resto, dalla letteratura non si ricavano dati esaustivi circa valutazione, diagnosi e trattamento della stipsi, in carenza di studi di confronto fra le diverse categorie di lassativi o fra combinazioni degli stessi; ancora più carenti sono gli studi controllati nel paziente oncologico in fase di terapia palliativa (solo 10 secondo una recente revisione sistematica), per cui si deve di necessità far riferimento alle raccomandazioni degli esperti4. Definizione e fisiopatologia La costipazione è il passaggio, infrequente e difficoltoso, di scarse quantità di feci dure. Tale definizione, proposta dall’European Consensus Group on Constipation in Palliative Care, vuole considerare sia l’aspetto oggettivo e misurabile del sintomo, sia la percezione soggettiva del paziente rispetto alla costipazione5. La complessa innervazione del tratto gastroenterico consta di un sistema interamente integrato nella parete del tubo digerente (Sistema Nervoso Enterico - ENS), cui si aggiungono afferenze estrinseche (prevalentemente di tipo simpatico) e vie discendenti centrali, intervenendo nella regolazione della motilità, toni sfinterici, secrezioni, flusso ematico. In particolare la motilità è controllata dal plesso mienterico, sito fra la

muscolatura liscia longitudinale e circolare, che coordina l’attività contrattile e propulsiva grazie ad un delicato equilibrio fra neurotrasmettitori quali acetilcolina, noradrenalina e VIP. Gli oppioidi inibiscono il rilascio di questi trasmettitori, interferendo con i meccanismi suddetti. Recettori per oppiacei (mu, k e delta) sono stati individuati nel tratto gastroenterico; in particolare recettori mu si riscontrano nei neuroni del plesso mienterico e della sottomucosa, oltre che nella lamina propria. Studi su uomo ed animali documentano una alterazione della motilità intestinale a seguito anche della sola somministrazione intratecale di morfina, con entità non correlate ai dosaggi, suggerendo interazioni fra SNC e ENS6. Diversamente da altri effetti collaterali la stipsi non va incontro a tolleranza, persistendo per tutta la durata della terapia con oppiacei. In clinica raramente ci si trova davanti ad una stipsi esclusivamente legata alla somministrazione di oppiacei; più spesso, molti elementi concorrono nel determinare il disturbo, fra cui fattori dietetici, immobilizzazione, altri farmaci ad azione costipante, disturbi metabolici e/o neuromuscolari, dolore alla defecazione, comorbilità varie, in particolare nel paziente oncologico in fase avanzata (tabella I). Tabella I. Cause comuni di costipazione in pazienti con malattia avanzata.

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Agenti farmacologici

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Disordini metabolici

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Ipostenia, disordini neurologici

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Anomalie strutturali

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Anoressia

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Cause ambientali

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Dolore associato alla defecazione

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Altri fattori

analgesici oppioidi, antiacidi, antiepilettici, 5-ht3 antagonisti, antidepressivi, chemioterapici, ferro per somministrazione orale, ecc. disidratazione, ipercalcemia, ipokaliemia, uremia, diabete, ipotiroidismo miopatie, tumori cerebrali, compressione midollare, infiltrazione dei nervi sacrali, disfunzione autonomica masse pelviche, fibrosi attinica, fissurazioni anali dolorose ridotto apporto di cibo, liquidi, fibre mancanza di privacy e comfort dolore anorettale, dolore osseo o altro dolore non controllato età avanzata, inattività, ridotta mobilità, allettamento, depressione, sedazione

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Valutazione Abitualmente si considera “normale” una frequenza di evacuazioni non inferiore a 3 per settimana e non superiore a 3 nelle 24 ore. Gli sforzi di oggettivare il sintomo stipsi si scontrano nella pratica con la variabilità nella percezione soggettiva del concetto di regolarità dell’alvo. Distensione addominale, flatulenze, crampi, sensazione di evacuazione incompleta vengono spesso riferiti anche in presenza di una frequenza dell’alvo considerabile adeguata per la tipologia del paziente, aumentando la difficoltà del clinico ad adottare soluzioni efficaci7. Gli elementi soggettivi possono essere raccolti per mezzo di scale validate, come la semplice Bowel Function Index (BFI)8, con sole 3 voci (facilità di defecazione, sensazione di evacuazione incompleta e un giudizio soggettivo sulla stipsi), o le più articolate PAC (Patient Assessment of Constipation)SYM e PAC-QOL. Riguardo agli elementi più propriamente obiettivabili, ci si può rivolgere alla Bristol Stool Chart (che valuta la consistenza e forma delle feci in 7 tipologie), o valutare il tempo di transito intestinale facendo ingerire al paziente una o più capsule contenenti microsfere radiopache che vengono liberate nel tubo digerente, individuabili poi a mezzo di Rx standard a tempi definiti. Questi strumenti, preziosi nell’ambito di studi clinici controllati, nella pratica oncologica trovano poco spazio; più utili risulteranno una attenta anamnesi (clinica, dietetica, comportamentale, farmacologica) ed un esame obiettivo accurato, comprendente la valutazione del cavo orale, la qualità della peristalsi, l’esplorazione rettale. Profilassi e trattamento della stipsi

Lassativi Le varie sostanze ad azione lassativa possono essere classificate, fra l’altro, in base ad una azione prevalentemente propulsiva o tesa a ridurre la consistenza delle feci (tabella II). Tabella II. Attività delle varie categorie di lassativi.

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Principalmente ammorbidenti

Paraffina liquida Lassativi formanti massa Lassativi osmotici – polietilenglicole (Macrogol) – lattulosio, sorbitolo – lassativi salini Docusato sodico Lassativi naturali

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Principalmente stimolanti la peristalsi

Antrachinonici (es. Senna) Polifenoli (es. Bisacodile; Sodio Picosolfato)

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Antagonisti periferici dei recettori per oppiacei

Metilnaltrexone, Naloxone

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• Lubrificanti. Es. olio di vaselina, miscela di paraffine che non viene assorbita e con azione lubrificante; può ostacolare l’assorbimento di vitamine liposolubili e causare polmoniti lipidiche ab ingestis nei pazienti defedati; (l’olio di oliva possiede proprietà analoghe). Indicato solo per brevi periodi. • Lassativi formanti massa (bulk producers). Si tratta di fibre vegetali (mucillagini, psillio, gomme vegetali, stercula), polisaccaridi (policarbofili) o derivati della cellulosa (metil-, carbossimetil-cellulosa). L’azione lassativa non è pronta (12-24 ore o più), basandosi sulla capacità delle fibre di legare acqua ed aumentare la massa fecale; non sono indicati nella costipazione da oppiacei, così come quando sussista il rischio di occlusione intestinale, evento che può paradossalmente essere causato dagli stessi prodotti in assenza di adeguato apporto di liquidi • Lassativi osmotici. Agiscono favorendo la ritenzione di acqua nella massa fecale; può essere necessario un tempo variabile (anche più giorni) per l’inizio della azione lassativa dei prodotti. In considerazione del riassorbimento di acqua a livello colico, andrebbero utilizzati in associazione con lassativi stimolanti. – Polietilenglicole (Macrogol): usato come catartico nelle preparazioni intestinali per l’efficacia (agisce in poche ore) e la scarsa dispersione di sali e liquidi; disponibile anche in formulazioni insapori. – Lattulosio: disaccaride sintetico, idrolizzato a livello colico in prodotti osmoticamente attivi. Agisce in 24-48 ore, alla dose di 15-30 ml/die. – Lassativi salini: miscele di sali scarsamente assorbite (es. solfato di magnesio), con notevole effetto osmotico, distensione della parete intestinale ed induzione della peristalsi; azione rapida (< 3 ore). • Surfattanti. Docusato sodico o calcico. • Lassativi naturali (prugne, uva passa, fichi, ribes, sedano, erbe varie). I pochi studi condotti, per lo più su popolazioni geriatriche, sembrerebbero indicare vantaggi rispetto ai lassativi convenzionali, sia in termini di efficacia, costo e semplicità di assunzione9. Può essere razionale mantenerli in terapia se già assunti dal paziente, sostituendoli successivamente quando inefficaci. • Lassativi ad azione stimolante. Definiti impropriamente irritanti, esercitano principalmente una azione sulla motilità intestinale. Derivati della senna, bisacodile, olio di ricino. L’azione si evidenzia in 6-10 ore. Il bisacodile non è attivo in caso di ostruzione biliare; inoltre la assunzione di antiacidi può anticiparne la azione a livello del digerente prossimale. • Antagonisti periferici dei recettori per oppiacei. Il razionale si basa sulla azione selettiva diretta verso i recettori intestinali da parte di antagonisti oppioidi non in grado di agire a livello centrale (vedi avanti), contrastando la stipsi ed altri effetti periferici (prurito, ritenzione urinaria), senza interferire con l’analgesia. Si è già sottolineata la carenza di studi di confronto fra i vari tipi di lassativi. Una recente revisione sistematica10 ha


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analizzato 7 studi con 616 partecipanti; 4 studi valutavano lattulosio, senna, sali di magnesio, paraffina liquida, con risultati non conclusivi. Più significativi i risultati della analisi combinata di tre studi (320 pazienti ricoverati in hospice) con il metilnatrexone, un antagonista degli oppiodi non in grado di attraversare la barriera ematoencefalica; il farmaco si è dimostrato superiore al placebo nell’indurre una evacuazione entro 4 ore dalla somministrazione sottocutanea, al costo di effetti collaterali per lo più contenuti (dolore colico, flatulenza, vertigini) e senza compromettere il controllo del dolore11. È segnalato il rischio di indurre una perforazione intestinale in pazienti fragili e con fattori predisponenti (ostruzione intestinale, fecalomi). Mancano studi di confronto rispetto a terapie lassative convenzionali adeguatamente condotti. Gli autori concludono che il metilnatrexone è efficace, suggerendone però l’utilizzo solo nei casi di insuccesso dei comuni lassativi, in attesa di studi indipendenti e con un più ampio numero di pazienti. La prescrizione di metilnaltrexone a carico del SSN è limitata alla costipazione indotta da oppiacei in soggetti con malattia in stato terminale che rispondano contemporaneamente alle seguenti caratteristiche: terapia continuativa con oppiacei della durata di almeno due settimane e resistenza al trattamento con lassativi per più di tre giorni. Negli ultimi anni si è resa disponibile l’associazione ossicodone PR/naloxone (OxyN) in rapporto fisso 2/1 (5/2,5 mg, 10/5 mg, 20/10 mg, 40/20 mg). Naloxone è un antagonista puro già utilizzato per via parenterale come antidoto nel trattamento delle intossicazioni acute da analgesici narcotici; somministrato per via orale è in grado di bloccare i recettori degli oppioidi solo a livello intestinale, prevenendo e contrastando l’insorgenza della stipsi indotta da oppioidi. A causa del marcato metabolismo di primo passaggio, la biodisponibilità di naloxone per os è inferiore al 3%, tale da rendere improbabile un effetto sistemico clinicamente rilevante. L’efficacia dell’associazione OxyN è stata valutata principalmente in tre RCT di fase III in doppio cieco, condotti su 1727 pazienti totali di età ≥18 anni affetti da dolore cronico non neoplastico di grado da moderato a grave. Da tali studi emerge una sostanziale equivalenza analgesica dell’associazione OxyN (massima dose testata 80/40 mg/die) rispetto al solo ossicodone PR, con miglioramento della funzione intestinale valutata a mezzo BFI. Il primo era disegnato per valutare la non inferiorità analgesica; negli altri due studi, un numero significativamente minore di pazienti in terapia combinata ha avuto bisogno di ricorrere a lassativi di salvataggio rispetto al braccio trattato con il solo ossicodone (il 40-60% in meno) ma tale necessità non è stata, comunque, eliminata completamente dall’aggiunta di naloxone. Uno studio recentemente pubblicato (fase II randomizzato, doppio cieco)12 ha confrontato l’associazione OxyN (max 80/40 mg/die) vs ossicodone PR in 185 pazienti con dolore da cancro. I risultati sono in linea con quanto già emerso negli studi succitati, indicando la possibile estensione di utilizzo nel paziente neoplastico. Una funzione epatica compromessa può ridurre l’effetto di primo passaggio, incrementando i livelli ematici di naloxone.

Va ricordato come i dati ottenuti da popolazioni con dolore non oncologico non possano essere trasferiti tout court ai pazienti in fase avanzata di malattia oncologica, particolarmente fragili e potenzialmente esposti a maggiori rischi di effetti indesiderati. Indicazioni per la pratica clinica Non è banale riproporre al paziente indicazioni di carattere generale, suggerendo modifiche dello stile di vita (laddove possibile) in grado di ridurre o prevenire la stipsi: incrementare l’apporto di fibre e liquidi, stimolare la mobilizzazione; favorire il comfort e la privacy, ad esempio aiutando il paziente a recarsi in bagno per evacuare; trattare le cause di dolore alla defecazione; agire sui disordini metabolici ed elettrolitici o su trattamenti farmacologici concomitanti in grado di determinare stipsi. È utile precisare come i pazienti maggiormente compromessi abbiano spesso notevoli difficoltà ad assumere anche piccole quantità di alimenti e bevande, per cui potrebbe rivelarsi poco realistico mirare ad un incremento sostanziale dell’apporto di fibre e liquidi. Similmente, promuovere l’esercizio fisico può risultare impraticabile nel paziente in fase di cure palliative esclusive13. In assenza di controindicazioni (ad esempio diarrea, occlusione intestinale), ogni paziente che intraprenda un trattamento con oppiacei dovrebbe contestualmente avviare una profilassi con lassativi, da proseguirsi per tutto il periodo di assunzione di oppioidi, oltre ad essere istruito sulle misure generali di cui sopra. Su questa indicazione di massima concordano tutte le società scientifiche che si siano confrontate sul tema della stipsi. Gli oppioidi (sia i cosiddetti “deboli” che i “maggiori”) possono produrre vari gradi di costipazione, in assenza di una sicura correlazione tra dose ed entità della stipsi; i dosaggi dei vari lassativi comunque andranno titolati in base al risultato ottenuto piuttosto che riferendosi al dosaggio degli oppioidi. Non vi sono dati convincenti a supporto che i sistemi transdermici siano meno costipanti rispetto ai composti assunti per via orale. Si è già sottolineata la carenza di studi di confronto fra i vari tipi di lassativi; sulla scorta dei dati disponibili, alcune società scientifiche (fra le altre: MD Anderson Cancer Center; European Consensus Group on Constipation in Palliative Care; Società Italiana di Cure Palliative) hanno sviluppato degli algoritmi comportamentali di riferimento14-16. Come prima linea di trattamento viene suggerita l’associazione di uno stimolante (es. senna cpr 12 mg, 1-6/die - o bisacodile cpr 5 mg, 1-3 cpr la sera) e di un softener (es. polietilenglicole, 1-3 bustine distribuite nella giornata, fino a 8 per brevi periodi). Gli agenti formanti massa, come già detto, sono abitualmente controindicati nella stipsi da oppiacei, così come nei pazienti non in grado di assumere alti volumi di liquidi. In caso di inadeguata risposta, individuata come una frequenza di evacuazioni inferiore a 3 alla settimana per almeno 14 giorni, persistente dopo l’incremento dei dosaggi, potrà essere aggiunto un altro lassativo osmotico, dopo aver escluso la presenza di fecalomi o di possibili eventi occlusivi, ed aver disposto una rettoclisi/supposte di glicerina. In caso CASCO — Vol 2, n. 3, luglio-settembre 2012

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di ulteriore fallimento, andrà considerato l’utilizzo di metilnatrexone sc (0,15 mg/kg a giorni alterni), da alcuni suggerito già in seconda linea, o la possibile “rotazione” all’associazione ossicodone PR/naloxone. Va evidenziato tuttavia come gli studi con ossicodone/naloxone abbiano testato dosaggi fino ad un massimo di 80/40 mg/die, che costituisce un limite piuttosto “stretto” considerando le necessità antalgiche dei pazienti oncologici, e lasciando incertezza sui possibili effetti sistemici del naloxone a dosaggi più elevati. L’utilizzo continuativo del naloxone agirebbe per lo più come misura profilattica, mentre l’azione del metilnatrexone (somministrato per via sottocutanea a giorni alterni) consta sostanzialmente nell’indurre una “reazione da astinenza” a livello dei recettori per oppiacei dell’intestino, con effetti potenzialmente più bruschi. Siamo in attesa di risultati di studi di fase III che indagano il metilnaltrexone per via orale, così come l’attività di altri muantagonisti sempre per via orale. Negli Stati Uniti è disponibile l’Alvimopan, un antagonista dei recettori per oppiacei assunto per via orale, approvato sulla base di due studi (670 pazienti non oncologici) che sembrano mostrare efficacia (0,5 mg x2/die) con effetti indesiderati simili al placebo17. In pazienti neutropenici o piastrinopenici le manovre di rimozione manuale dei fecalomi e rettoclisi andranno considerate caso per caso. Negli ultimi giorni di vita, con il progressivo scadere delle condizioni generali, i lassativi potranno ragionevolmente essere sospesi. Conclusioni La costipazione indotta da oppioidi rappresenta un problema clinico importante per prevalenza, difficoltà di gestione ed impatto sulla qualità di vita e la compliance verso i trattamenti analgesici stessi, con comprensibile amplificazione nel caso di pazienti oncologici. Ad oggi non vi è un reale consenso su come valutare e trattare la stipsi, in assenza di dati convincenti dalla letteratura, e in attesa dei risultati di studi in corso su nuove categorie di lassativi (antagonisti dei recettori per oppiacei di nuova generazione, procinetici, secretagoghi, agonisti serotoninergici). Purtroppo spesso il clinico sottostima questo sintomo, rinunciando a seguire le poche indicazioni della letteratura e lasciando la possibile soluzione all’improvvisazione del paziente. • Bibliografia 1. Pappagallo M. Incidence, prevalence and management of opioid bowel disfunction. Am J Surgery 2001; 182. 2. Potter J, Hami F, Bryan T. Symptoms in 400 patients referred to palliative care services: prevalence and patterns. Palliat Med 2003: 310-4.

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3. Sykes NP. The relationship between opioid use and laxative use in terminally ill cancer patients. Palliat Med 1998; 12: 375-82. 4. Bader S, Weber M, Becker G. Is the pharmacological treatment of constipation in palliative care evidence based? A systematic literature review. Schmerz 2012; 5: 568-86. 5. Larkin PJ, Sykes NP, Centeneo C, et al. The management of constipation in palliative care: clinical practice recommendations. Palliat Med 2008; 22: 796-807. 6. Brock C, Olesen SS, Olesen AE. Opioid-Induced Bowel Dysfunction: pathophysiology and management drugs 2012; 72: 1847-65. 7. Bruera E, Suarez-Almazor M, Velasco A, et al. The assessment of constipation in terminal cancer patient admitted to a palliative care unit: a retrospective rewiew. J Pain Symptom Manage 1994; 9: 515-9. 8. Rentz AM, Yu R, Muller-Lissner S, et al. Validation of the Bowel Function Index to detect clinically meaningful changes in opioidinduced constipation. J Med Econ 2009; 12: 371-83. 9. Hale EM, Smith E, James St. Pilot study of the feasibility and effectiveness of a natural laxative mixture Geriatr Nurs 2007; 28: 104-11. 10. Candy B, Jones L, Goodman ML, et al. Laxatives or mrthylnaltrexone for the management of constipation in palliative care patients. Cochrane Database Syst Rev 2011 Jan 19. 11. Thomas J, Karver S, Cooney GA. Methylnaltrexone for opioidinduced constipation in advanced illness. N Engl J Med 2008; 358: 2332-43. 12. Ahmedzai SH, Nauck F, Bar-Sela G, et al. A randomized, doubleblind, active-controlled, double-dummy, parallel-group study to determine the safety and efficacy of oxycodone/naloxone prolonged-release tablets in patients with moderate/severe, chronic cancer pain. Palliat Med 2012; 26: 50-60. 13. Cheng CW, Kwok A, Bian ZX. A cross-sectional study of constipation and laxative use in advanced cancer patients: insights for revision of current practice. Support Care Cancer pub online 01 June 2012. 14. Caraceni A, Hanks G, Kaasa S, et al. Use of opioid analgesics in the treatment of cancer pain: evidence-based recommendations from the EAPC. Lancet Oncol 2012; 13: 58-68. 15. Gruppo Italiano per la Costipazione Indotta da Oppioidi. Raccomandazioni per il trattamento della costipazione indotta da oppioidi. La Rivista Italiana di Cure palliative 2009; 1: 7-22. 16. Librach SL, Bouvette M, De Angelis C, et al. Canadian Consensus Development Group for Constipation in Patients with Advanced Progressive Illness. Consensus recommendations for the management of constipation in patients with advanced, progressive illness. J Pain Symptom Manage 2010; 40: 761-73. 17. Webster L, Jansen JP, Peppin J, et al. Alvimopan, a peripherally acting mu-opioid receptor (PAM-OR) antagonist for the treatment of opioid-induced bowel dysfunction: results from a randomized, double-blind, placebo-controlled, dose-finding study in subjects taking opioids for chronic non-cancer pain. Pain 2008; 137: 428-40.


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Tossicità cutanea da inibitori di BRAF

Claudia Caserta Sonia Fatigoni SC Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

Introduzione Nel corso dell’ultimo anno sono stati pubblicati i risultati di alcuni importanti studi clinici sull’impiego di una nuova classe di farmaci antitumorali, gli inibitori di BRAF, nel trattamento dei pazienti affetti da melanoma metastatico. I risultati di questi studi hanno dimostrato un aumento significativo della sopravvivenza libera da progressione (PFS) e della sopravvivenza globale (OS), dopo più di 20 anni in cui non vi era stata alcuna novità in questo campo. BRAF è una serina-treonina protein-chinasi che appartiene alla famiglia delle RAF chinasi di cui fanno parte anche ARAF e CRAF, coinvolte nella cascata di trasduzione del segnale delle mitogen-activated protein-kinase (MAPK). Circa il 50% dei melanomi presenta una mutazione di BRAF: nell’80%90% dei casi è presente la mutazione V600E e nel 10-20% la mutazione V600K; altre mutazioni sono molto rare. La mutazione determina l’attivazione di BRAF che è responsabile della fosforilazione ed attivazione delle proteine MEK 1 e 2 che attivano, a loro volta, ERK, effettore finale della cascata delle MAPK, con conseguente stimolo alla proliferazione e all’aumento della sopravvivenza delle cellule tumorali (figura 1). L’impiego di vemurafenib e dabrafenib, agenti che bloccano il pathway di MAPK in pazienti con melanoma e mutazione BRAF V600E, è stato associato in due studi randomizzati di fase III con un prolungamento della sopravvivenza globale e della sopravvivenza libera da progressione in pazienti non pretrattati con melanoma metastatico. Il primo studio randomizzato ad essere stato pubblicato1 ha confrontato il vemurafenib, alla dose di 960 mg x 2/os/die, con la dacarbazina, somministrata alla dose di 1000 mg/m2/ev ogni 3 settimane, come terapia di prima linea in 675 pazienti affetti da melanoma metastatico con mutazione V600E. Un’analisi ad interim, condotta con un follow-up mediano di 3,8 mesi per il vemurafenib e 2,3 mesi per la dacarbazina, ha evidenziato una OS a 6 mesi (valutata su 672 pazienti) dell’84% con vemurafenib verso 64% con dacarbazina, una PFS (valutata su 549 pazienti) di 5,3 mesi verso 1,6 mesi e un tasso di risposte obiettive (valutata su 439 pazienti) del 48% verso 5% rispettivamente. Il secondo studio pubblicato nel 20122 ha confrontato, con un disegno identico al precedente, un altro inibitore di BRAF, il dabrafenib, somministrato alla dose di 150 mg x

2/os/die, con la dacarbazina (1000 mg/m2/ev ogni 3 settimane) come terapia di prima linea in 250 pazienti affetti da melanoma con mutazione V600E, con malattia misurabile e stadio IV o III non resecabile. L’obiettivo primario dello studio era la valutazione della PFS da parte degli investigatori, che è risultata di 5,1 mesi per il dabrafenib verso 2,7 mesi per la dacarbazina; gli obiettivi secondari erano la valutazione, da parte di una commissione indipendente, della PFS (che è risultata di 6,7 verso 2,9 mesi rispettivamente), della OS (risultata a vantaggio del dabrafenib, anche se è necessario un follow-up più lungo) e delle risposte obiettive (50% verso il 4% rispettivamente, con una durata mediana della risposta di 5,5 mesi con il dabrafenib). In entrambi gli studi è stato permesso il crossover dal braccio con la dacarbazina a quello con l’inibitore di BRAF in caso di progressione di malattia e dopo la prima analisi ad interim dei dati. In un altro studio randomizzato di fase III recentemente pubblicato, è stato valutato il ruolo del trametinib, un inibitore selettivo di MEK, alla dose di 2 mg/os/die, verso la chemioterapia con dacarbazina (1000 mg/m2/ev ogni 3 settimane) o con paclitaxel (175 mg/m2/ev ogni 3 settimane) in 322 pazienti con melanoma metastatico o stadio IIIC non resecabile con mutazione BRAF V600E o V600K. In questo studio i pazienti potevano aver ricevuto una precedente terapia, ad esclusione di inibitori di BRAF, di MEK ed ipilimumab e per

Figura 1. Via di trasduzione del segnale delle MAP kinasi. EGFR Recettore di crescita cellulare

RAS Membrana cellulare P RAF P MEK P ERK

Nucleo cellulare

Fattori di trascrizione P Proliferazione cellulare

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i pazienti nel braccio della chemioterapia è stato permesso il crossover al trattamento sperimentale dopo una documentata progressione di malattia. La PFS è risultata di 4,8 mesi con il trametinib verso 1,5 mesi con la chemioterapia, la sopravvivenza mediana a 6 mesi è stata dell’81% con il trametinib e del 67% con la chemioterapia; il tasso di risposte obiettive, parziali o complete, è stato del 25% verso l’8% rispettivamente (la percentuale di stabilità di malattia è risultata del 56% verso 31%), con una durata media della risposta di 5,5 mesi con il trametinib. Nonostante questi risultati, il 50% dei pazienti trattati con inibitori di BRAF o MEK ha una progressione di malattia entro 6-7 mesi dall’inizio della terapia. Sono stati descritti parecchi meccanismi responsabili della resistenza agli inibitori di BRAF attraverso la riattivazione del pathway di MAPK, inclusa l’up-regulation del pathway mediata da un’altra proteina chinasi, la cancer Osaka thyroid kinase (COT); lo sviluppo de novo di mutazioni di NRAS o di MEK; la dimerizzazione o lo splicing alternativo di BRAF V600 mutato. Inoltre, altre vie diverse dal pathway di MAPK mediate da recettori tirosin-chinasi, come platelet derived growth factor receptor , insulinlike growth factor 1 receptor, e hepatocyte growth factor receptor, sono state associate con la resistenza agli inibitori di BRAF e MEK. Nuove strategie terapeutiche sono necessarie per superare questi meccanismi di resistenza e una possibile strategia potrebbe essere quella di combinare un inibitore di BRAF con un inibitore di MEK. Recentemente è stato pubblicato uno studio di fase I-II4 che ha valutato l’attività e la sicurezza della combinazione di trametinib (1 o 2 mg/os/die) con dabrafenib (150 mg/os/die) in pazienti con melanoma metastatico e mutazione BRAF V600. La PFS nel braccio della combinazione di dabrafenib con trametinib alla dose di 2 mg/die è stata di 9,4 mesi verso 5,8 mesi con il solo dabrafenib e il tasso di risposte complete o parziali è stato del 76% nel braccio della combinazione verso 54% con dabrafenib da solo. Tutti questi studi necessitano di un follow-up più lungo, per la combinazione con trametinib siamo in attesa dei risultati degli studi di fase III, ma resta innegabile il ruolo importante di questi nuovi farmaci nel trattamento del melanoma metastatico. Principali tossicità da inibitori di BRAF Nello studio di fase III che ha valutato il vemurafenib verso la dacarbazina1, nel braccio del vemurafenib circa il 5% dei pazienti ha riportato una tossicità di grado 2 o superiore (tabella I). Gli eventi avversi più frequenti sono stati la tossicità cutanea (con un 18% di carcinomi squamosi e cheratoacantomi), le artralgie e la fatigue; in un 12% circa dei pazienti si è verificata una reazione cutanea da fotosensibilità di grado 2-3; circa il 38% dei pazienti ha presentato reazioni avverse tali da richiedere una riduzione di dose o la sospensione del farmaco. Nello studio che ha confrontato il dabrafenib con la dacarbazina2, gli eventi avversi più frequenti associati alla terapia con dabrafenib sono risultati la tossicità cutanea (ipercheratosi, papillomi, eritro-disestesia palmo-plantare), la 92

CASCO — Vol 2, n. 3, luglio-settembre 2012

febbre, la fatigue, la cefalea e le artralgie. Nel gruppo del dabrafenib il 3% circa dei pazienti ha presentato reazioni di fotosensibilità. Una riduzione della dose di dabrafenib è stata necessaria nel 28% dei pazienti e il 3% ha dovuto sospendere il farmaco a causa di eventi avversi. Nella tabella I sono riportati gli eventi avversi di grado ≥2 che si sono verificati in più del 5% dei pazienti. Gli eventi di grado 3-4 sono poco frequenti. Non compaiono in questa tabella quattro casi di carcinoma basocellulare della cute, un caso di micosi fungoide di grado 1 e due nuovi melanomi cutanei primitivi, che si sono sviluppati durante il trattamento con dabrafenib. Riguardo al trametinib3, le principali tossicità sono state rash cutaneo, diarrea, edemi periferici, fatigue e dermatite acneiforme, mentre non si è osservata la comparsa di nuove lesioni proliferative cutanee. La tabella I riporta gli effetti collaterali di tutti i gradi che si sono verificati in almeno il 15% dei pazienti in uno dei due bracci. Non compaiono in questa tabella la tossicità cardiaca, che si è manifestata con una riduzione della frazione d’eiezione del ventricolo sinistro nel 7% dei pazienti, e gli effetti collaterali relativi alla vista (offuscamento della vista e corioretinopatia in un solo paziente) che si sono verificati nel 9% dei pazienti. Gli eventi avversi hanno portato alla riduzione della dose del trametinib nel 27% e alla sua sospensione nel 35% dei pazienti. Nello studio di combinazione di dabrafenib e trametinib4, sono state evidenziate delle differenze di tossicità rispetto al dabrafenib da solo. È stata riportata, infatti, una riduzione dell’incidenza di lesioni proliferative cutanee come carcinomi squamosi e cheratoacantomi (19% con dabrafenib verso 2% con dabrafenib più trametinib 1 mg e 7% con dabrafenib più trametinib 2 mg, rispettivamente), riduzione della frequenza di papillomi, ipercheratosi, rash cutaneo (36%, 20% e 27% rispettivamente), eventi avversi caratteristici dell’inibitore di BRAF. Si è invece registrato un aumento di altri eventi avversi come edemi periferici (17% verso 24% e 29% rispettivamente), ipertensione (4% verso 4% e 9% rispettivamente), tossicità cardiaca e oculare, caratteristiche dell’inibitore di MEK. Nel braccio di terapia che ha valutato la combinazione di dabrafenib 150 mg/die e trametinib 2 mg/die (150/2), gli eventi collaterali più frequenti sono risultati febbre (71%), brividi (58%), astenia (53%), nausea (44%), vomito (40%), diarrea (36%). L’evento di grado 3-4 più frequente è risultato, invece, la neutropenia (11%). Il 58% dei pazienti ha dovuto ridurre la dose, nella maggior parte dei casi per la febbre. Tossicità cutanea La principale e più caratteristica tossicità degli inibitori di BRAF e di MEK è quella cutanea; una tossicità simile a quella che si verifica con gefitinib ed erlotinib, gli inibitori dell’epidermal growth factor receptor (EGFR) che svolge un ruolo chiave nella regolazione dell’omeostasi dell’epidermide5. Il blocco di BRAF porta ad un’attivazione paradossa delle MAPK nelle cellule senza mutazione di BRAF, con induzione di lesioni proliferative cellulari. Questo è stato riportato anche in uno studio prospettico, osservazionale, pubblicato di recente6 che ha valutato la tossicità cutanea su 43 pazienti arruolati nello studio di fase I/II con dabrafenib.


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Tabella I. Principali tossicità degli inibitori di BRAF.

Tossicità

Cutanea Rash

VEMURAFENIB Studio Chapman1 NEJM 2011

DABRAFENIB Studio Haushild2 Lancet 2012

TRAMETINIB Studio Flaherty3 NEJM 2012

DABRAFENIB + TRAMETINIB Studio Flaherty4 NEJM 2012 Dose 150/1

Dose 150/2

10% G2 8% G3

NRa

19% G2 8% G3-G4

20% 0% G3-G4

27% 0% G3-G4

Cr Cutaneo squamocellulare

12%

4%

NR

2% 2% G3

7% 5% G3

Cheratoacantoma

2% G2 6% G

2%

NR

Ipercheratosib

5% G2 1% G3

12% G2 <1% G3 <1% G4

NR

13% 0% G3

13% 0% G3

NR

6% G2 2% G3

NR

NR

NR

6% G2 1% G3

NR

NR

NR

NR

NR

NR

9% G2 1% G3

NR

NR

7% G2 1% G3

1% G2 0% G3

2% G2 1% G3

46% 6% G3-G4

44% 2% G3-G4

Vomito

3% G2 1% G3

1% G2 0% G3

1% G2 1% G3

43% 4% G3-G4

40% 2% G3-G4

Diarrea

5% G2 <1% G3

NR

6% G2 0% G3-G4

26% 0% G3-G4

36% 2% G3-G4

NR

NR

1% G2 0% G3

17% 2% G3-G4

22% 0% G3-G4

<1% G2, 0 G3, <1% G4

0 G2, <1% G3, 0% G4

NR

NR

11% G3-G4

NR

0 G2, <1% G3

NR

NR

NR

Altro Alopecia

8% G2

NR

1% G2 <1% G3

9% 0% G3-G4

5% 0% G3-G4

Astenia

NR

3% G2 0% G3

NR

NR

NR

Artralgia

18% G2 3% G3

5% G2 <1% G3

NR

44% 0% G3-G4

27% 0% G3-G4

Brividi

NR

NR

NR

50% 2% G3-G4

58% 2% G3-G4

Edemi periferici

NR

NR

4% G2 1% G3

24% 0% G3-G4

29% 0% G3-G4

Fatigue

11% G2 2% G3

5% G2 1% G3

5% G2 4% G3

57% 2% G3-G4

53% 4% G3-G4

Febbre

NR

8% G2 3% G3

NR

69% 9% G3-G4

71% 5% G3-G4

Ipertensione

NR

NR

Palmo-plantarec Prurito Dermatite acneiforme Gastroenterica Nausea

Stipsi Ematologica Neutropenia Trombocitopenia

Mal di testa

4% G2 <1% G3

5% G2 0% G3

3% G2

4%

9%

12% G3

0% G3-G4

2% G3-G4

NR

37% 2% G3-G4

29% 0% G3-G4

aNR = non riportato; bipercheratosi comprende anche papillomi cutanei; cpalmo-plantare include ipercheratosi palmo-plantare, eritrodisestesia palmo-plantare.

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Riguardo alla gestione della tossicità cutanea, è importante sottolineare che non ci sono delle raccomandazioni basate su studi clinici, ma solo sull’opinione degli esperti. Inoltre bisogna ricordare che tali farmaci non sono ancora in commercio in Italia e che il loro utilizzo è finora avvenuto e sta avvenendo solo all’interno degli studi clinici e dei programmi di uso compassionevole. Per quanto riguarda il rash cutaneo, molto frequente sia con gli inibitori di BRAF da soli che in combinazione con gli inibitori di MEK, alcuni semplici consigli pratici derivano dall’esperienza con gli inibitori di EGFR. Viene raccomandata, in generale, una profilassi dei gradi 3-4, limitando l’esposizione al sole e solo con l’impiego di creme protettive; possono essere utilizzate creme emollienti senza alcool applicate due-tre volte al giorno per ridurre la secchezza cutanea; in caso di rash associato a prurito, si può ricorrere a steroidi topici a basso dosaggio (creme con idrocortisone all’1-2,5%) e/o antistaminici per via orale, riservando l’impiego degli steroidi per via sistemica solo ai casi più severi; nel caso di rash acneiforme, può essere preso in considerazione l’utilizzo di una terapia antibiotica, ad esempio con doxiciclina o minociclina7; non viene raccomandato, invece, l’uso della terapia antibiotica come profilassi, in quanto non ci sono dati di sicurezza e di efficacia. Nel trattamento dell’eritro-disestesia palmo-plantare, possono essere impiegate creme a base di urea al 20%, antidolorifici/antinfiammatori e si può ricorrere alla sospensione temporanea del farmaco per i gradi più severi, riprendendo poi la terapia ad una dose più bassa, quando la tossicità si sia ridotta ad un grado ≤18. Più frequente è la semplice ipercheratosi di alcune regioni del palmo della mano e della pianta del piede, per la quale possono essere impiegate creme all’urea. Uno degli aspetti più caratteristici della tossicità cutanea da inibitori di BRAF è lo sviluppo di cheratoacantomi e di carcinomi squamosi della cute, che insorgono in genere da 2 a 14 settimane dopo l’inizio del farmaco. Il meccanismo patogenetico non è del tutto noto, ma l’ipotesi più probabile è che il blocco della chinasi BRAF porti ad un potenziamento delle MAPK nelle cellule BRAF wild-type, accelerando così la crescita di lesioni cutanee preesistenti1, probabilmente attraverso mutazioni attivanti di RAS5,6,8,9. Non è ancora chiaro, invece, se le condizioni di immunosoppressione e di infezione da papilloma virus (HPV) possano avere un ruolo nello sviluppo della tossicità cutanea5,6,8,9. La riattivazione delle MAPK potrebbe essere anche una delle vie di sviluppo di resistenza all’inibizione di BRAF da parte delle cellule di melanoma. Nel lavoro che ha confrontato dabrafenib verso dacarbazina2, gli autori spiegano la minore incidenza di questo tipo di tossicità con dabrafenib rispetto a quella registrata nello studio con vemurafenib verso dacarbazina, con l’elevata specificità di dabrafenib per BRAF mutato; le concentrazioni raggiunte da dabrafenib sarebbero, secondo gli autori, meno capaci di attivare i dimeri BRAF e CRAF wild-type, portando a minori effetti tossici cutanei. La combinazione di inibitori di BRAF e di inibitori di MEK porta ad una riduzione dell’incidenza di lesioni proliferative 94

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cutanee, probabilmente perché trametinib attenua l’attivazione della via MAP chinasi indotta da dabrafenib4,9, così come ritarda l’insorgenza della resistenza dipendente da questa via. I pazienti in trattamento con inibitori di BRAF dovrebbero essere sottoposti ad un’attenta valutazione basale (comprendente anche l’esame della regione genitale ed anale per il rischio di papillomi) e poi ad un attento monitoraggio periodico, con l’escissione delle lesioni sospette. Conclusioni Gli inibitori di BRAF sono farmaci molto promettenti, perché per la prima volta dopo anni hanno portato a risultati positivi ed incoraggianti nel trattamento dei pazienti affetti da melanoma metastatico. I dati derivanti dagli studi clinici sono tutti molto recenti e diversi studi sono ancora in corso, per cui nel prossimo futuro si andranno ad arricchire le nostre conoscenze sul meccanismo d’azione di questi farmaci, sul reale impatto nella pratica clinica quotidiana, sulle strategie terapeutiche per superare le resistenze farmacologiche, sull’incidenza, gestione e prevenzione degli effetti collaterali emergenti. Gli inibitori di BRAF sono farmaci complessivamente ben tollerati e interessanti anche nel loro profilo di tossicità, soprattutto per lo stimolo nell’indurre la formazione di lesioni proliferative cutanee, che sono state segnalate recentemente. I dati che si stanno via via accumulando dovrebbero fornire maggiori evidenze per il monitoraggio e la gestione di questi nuovi eventi avversi. • Bibliografia 1. Chapman PB, Hauschild A, Robert C, et al. Improved survival with vemurafenib in melanoma with BRAF V600E mutation. N Engl J Med 2011; 364: 2507-16. 2. Hauschild A, Grob JJ, Demidov LV, et al. Dabrafenib in BRAFmutated metastatic melanoma: a multicentre, open-label, phase 3 randomized controlled trial. Lancet 2012; 380: 358-65. 3. Flaherty KT, Robert C, Hersey P, et al. Improved survival with MEK inhibition in BRAF-mutated melanoma. N Eng J Med 2012; 367: 107-14. 4. Flaherty KT, Infante JR, Daud A, et al. Combined BRAF and MEK inhibition in melanoma with BRAF V600 mutations. N Eng J Med 2012; 367: 1694-703. 5. Manousaridis I, Mavridou S, Goerdt S, et al. Cutaneous side effects of inhibitors of the RAS/RAF/MEK/ERK signalling pathway and their management. J Eur Acad Dermatol Venereol 2013; 27: 11-8. 6. Anforth RM, Blumetti TC, Kefford RF, et al. Cutaneous manifestations of dabrafenib (GSK2118436): a selective inhibitor of mutant BRAF in patients with metastatic melanoma. Br J Dermatol 2012; 167: 1153-60. 7. Lemech C, Arkenau HT. Novel treatments for metastatic cutaneous melanoma and the management of emergent toxicities. Clin Med Insights Oncol 2012; 6: 53-66. 8. Mattei PL, Alora-Palli MB, Kraft S, et al. Cutaneous effects of BRAF inhibitor therapy: a case series. Ann Oncol 2013; 24: 530-7. 9. Su F, Viros A, Milagre C, et al. RAS mutation in cutaneous squamous-cell carcinomas in patients treated with BRAF inhibitors. N Eng J Med 2012; 366: 207-15.


Casi clinici

Esegesi di un abstract

Enzo Ballatori

Fausto Roila

Docente di Statistica Medica, Facoltà di Medicina e Chirurgia Università di L’Aquila

SC di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

U

n abstract presentato ad un convegno si riferisce ad un lavoro non ancora pubblicato ed ha lo scopo di dare tempestiva notizia alla comunità scientifica di un’avvenuta scoperta, o comunque di informare sui risultati di un’analisi di dati, fornendo al contempo informazioni su natura e caratteristiche dello studio in modo di consentire una prima valutazione della qualità dell’evidenza dimostrata. L’interpretazione di un abstract comprende due aspetti diversi: a. cercare di risalire al lavoro originale per valutarlo; b. evidenziare le lacune presenti nell’abstract che non consentono una piena valutazione dello studio. Sviluppiamo tali punti con riferimento ad un abstract, presentato all’ASCO 2012 (v. scheda), sull’efficacia differenziale di due trattamenti nell’arrestare nausea e vomito indotti da chemioterapia (CINV), qualora tali fenomeni sopravvengano malgrado la profilassi antiemetica somministrata. Vorremmo rassicurare il lettore che la scelta dell’abstract non è legata a questioni personali nei confronti dell’autore (v. CASCO 4: semplicemente non ci troviamo d’accordo sul modo di fare ricerca sugli antiemetici), né tantomeno si vuole prendere di mira l’olanzapina (OLN); anzi riteniamo che questo farmaco da lungo tempo sarebbe stato collocato tra gli antiemetici, se gli studi che ne hanno investigato l’efficacia fossero stati programmati adeguatamente. Punti di criticità dello studio Da quanto si può desumere dall’abstract, lo studio cui si riferisce presenta diversi pregi (campo di interesse mai esplorato finora, randomizzazione originale ed appropriata, uso del doppio cieco), ma anche alcuni importanti punti di criticità che possono compromettere l’interpretazione dei risultati e, quindi, mettere in discussione la loro utilità nella pratica clinica. 1. Scelta del comparator. Le linee guida internazionali di terapia antiemetica, in caso di vomito e/o nausea severa dopo la somministrazione della profilassi standard, raccomandano di evitare la via orale e di somministrare gli antiemetici per via parenterale. Infatti, in quelle condizioni, non solo ci sono problemi di assorbimento di farmaci per os, ma talvolta è l’assunzione stessa del farmaco a scatenare successivi episodi di vomito. Essendo OLN somministrata per via orale, si comprende che la scelta del

comparator vada a ricadere tra i farmaci somministrabili per la stessa via, altrimenti sarebbe stato problematico – e forse non etico – mantenere la pur necessaria doppia cecità. Non ci sono evidenze sull’efficacia della metoclopramide (METO) – peraltro usata a dosaggi non elevati – nelle circostanze dello studio, e probabilmente una supposta di proclorperazina otterrebbe maggior successo. Quindi le conclusioni dello studio vanno interpretate nel senso che OLN è più efficace di METO, ma quest’ultimo non è il trattamento standard (ve ne sono sicuramente di più efficaci); inoltre, se METO fosse inefficace, si sarebbe provato solo che l’efficacia di OLN è superiore a quella di un placebo. 2. Eterogeneità dei pazienti. Sono stati messi insieme pazienti trattati con chemioterapia altamente emetogena (HEC, cisplatino a dosi superiori a 70 mg/mq), con pazienti sottoposti a chemioterapia di inferiore potere emetogeno (MEC, doxorubicina a dosi > 50 mg/mq + ciclofosfamide a dosi > 600 mg/mq). Nell’abstract non sono riportate le frazioni di pazienti sottoposti all’uno o all’altro dei due regimi chemioterapici. Data la grande differenza in termini di potere emetogeno dei due tipi di chemioterapia, non è possibile stabilire a quale tipo di trattamento si possano riferire i risultati. In altre parole, la significativa efficacia differenziale dei due trattamenti potrebbe essere dovuta solo alla maggior efficacia di OLN nei pazienti sottoposti a MEC, ma non in quelli trattati con HEC, o viceversa, ovvero la maggior efficacia di OLN si riscontrerebbe in tutti i pazienti, sia che siano stati trattati con MEC che con HEC. È evidente come tale incertezza possa ripercuotersi sulla pratica clinica. Malgrado le linee guida di ricerca sui farmaci antiemetici1 raccomandino di eseguire uno studio tenendo abbastanza costante il potere emetogeno della chemioterapia (come, ad esempio, è accaduto nei lavori che hanno preceduto l’autorizzazione di aprepitant), come si vede, ancora oggi si continua a disattendere tale raccomandazione. 3. Periodo di osservazione. Dai risultati (non ancora pubblicati) di un nostro recente studio su nausea e vomito ritardati indotti da chemioterapia contenente antracicline, è emerso che non solo l’incidenza di CINV restava alta nei primi 5 giorni, ma neanche al 6° giorno subiva una diminuzione sostanziale. Quindi, il periodo di tre giorni dall’evento ci sembra davvero esiguo. Potrebbe essere accaduto, infatti, che, finché è stata somministrata, OLN abbia avuto un notevole effetto, mentre potrebbe esserci stata una recrudescenza dell’emesi dal momento della sua sospensione. Inoltre, nella programmazione dello studio CASCO — Vol 2, n. 3, luglio-settembre 2012

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SCHEDA

The use of olanzapine versus metoclopramide for the treatment of breakthrough chemotherapyinduced nausea and vomiting (CINV) in patients receiving highly emetogenic chemotherapy 2012 ASCO Annual Meeting Abstract No: 9064 Citation: J Clin Oncol 30, 2012 (suppl; abstr 9064) Author(s): Rudolph M. Navari, Cindy K Nagy, Sarah E Gray; Indiana University School of Medicine South Bend, South Bend, IN; University of Notre Dame, Notre Dame, IN

Methods: a double blind, randomized phase III trial was performed for the treatment of breakthrough CINV in chemotherapy naïve patients receiving highly emetogenic chemotherapy (HEC) (cisplatin, >70 mg/m2, or doxorubicin, >50 mg/m2 and cyclophosphamide, > 600mg/m2 ) comparing OLN to Metoclopramide (METO). Patients who developed breakthrough emesis or nausea despite prophylactic dexamethasone (12 mg IV), palonosetron (0.25 mg IV), Background: olanzapine (OLN) has and fosaprepitant (150 mg IV) pre chemotherapy and dexamethasone been shown to be a safe and effective agent for the prevention of (8 mg p.o. daily, days 2-4) post CINV. OLN may also be an effective chemotherapy were randomized to rescue medication for patients who receive OLN, 10 mg orally daily for develop breakthrough CINV despite three days or METO, 10 mg orally TID for three days. Patients were having received guideline directed monitored for emesis and nausea CINV prophylaxis.

non si fa riferimento al tempo di insorgenza della CINV preso in considerazione: potrebbe essere il 1° o il 2° giorno, ma, dato che non è precisato, anche il 5° o il 6°, quando cioè l’emetogenicità della chemioterapia inizia a diminuire spontaneamente. In quest’ultimo caso, la pur significativa differenza a favore di OLN si rivelerebbe effimera sotto un profilo clinico perché, comunque, la CINV diminuirebbe indipendentemente dalla terapia antiemetica somministrata. 4. Impatto sulla qualità di vita. Esiste un solo strumento specifico per valutare l’impatto della CINV sulla vita quotidiana del paziente: il Functional Living Index for Emesis (FLIE). Non essendo menzionato nell’abstract, si può arguire che non sia stato usato. Eppure il suo impiego, pur richiedendo una maggiore rigidità del disegno dello studio, avrebbe consentito di evidenziare se la CINV che OLN è riuscita ad evitare (rispetto a METO) sia rilevante o meno per il paziente. Lacune presenti nell’abstract 1. Scopo dello studio. È verosimile (ma nell’abstract non è esplicitamente specificato) che al primo episodio di vomito, o al presentarsi della nausea, successivamente alla chemioterapia, il paziente assuma il trattamento cui è stato randomizzato. Quindi, non è uno studio sulla terapia di salvataggio (rescue antiemetic treatment), perché al primo episodio di vomito o alla prima nausea, la maggioranza dei 96

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for the 72 hours after taking OLN or METO. Eighty patients (median age 56 yrs, range 38-79; 43 females; ECOG PS 0,1) consented to the protocol and all were evaluable. Results: during the 72 hours observation period, 30 of 42 (71%) patients receiving OLN had no emesis compared to 12 of 38 (32%) patients with no emesis for patients receiving METO (p<0.01). Patients without nausea (0, scale 010, M.D. Anderson Symptom Inventory) during the 72 hours observation period was: OLN: 67% (28 of 42); METO 24% (9 of 38) (p<0.01). There were no Grade 3 or 4 toxicities. Conclusions: OLN was significantly better than METO in the control of breakthrough emesis and nausea in patients receiving HEC. •

pazienti non avrebbe chiesto il rescue. Per la stessa ragione, non è nemmeno uno studio su nausea e vomito irrefrenabili. Non è uno studio sull’emesi (nausea e/o vomito) ritardata, perché il primo episodio di emesi può presentarsi anche nella fase acuta. È uno studio di difficile classificazione, ma potenzialmente rilevante sotto un profilo clinico. Di fatto non sappiamo cosa accada ai pazienti dopo il primo episodio di vomito o dopo la prima nausea: alcuni continueranno ad avere emesi, in altri, invece, tali manifestazioni cesseranno spontaneamente. L’ipotesi degli autori è che, in gran parte dei pazienti, dopo un primo episodio di emesi, ve ne siano altri e quindi i trattamenti in studio sono diretti a prevenirli. Mentre il vomito è un dato oggettivo, non altrettanto può dirsi per la nausea: è sufficiente una nausea lieve per ricorrere al trattamento o, invece, la valutazione della severità della nausea necessaria per far ricorso al trattamento è stata demandata al paziente? Ai fini della valutazione della qualità dello studio, sarebbe importante conoscere quanti pazienti, nei due bracci, hanno assunto il farmaco in studio in seguito a un episodio di vomito e quanti, invece, alla presenza di nausea; in quest’ultimo caso anche la severità e la durata andrebbero indicati. Ci si trova quindi di fronte a pazienti che potrebbero aver reagito diversamente alla nausea: alcuni avranno sopportato un pò di tempo prima di prendere il farmaco, altri lo avranno preso alle prime avvisaglie. Non è mai opportuno che l’assunzione del trattamento in stu-


| Casi clinici | Esegesi di un abstract

dio risenta di una componente di soggettività del paziente. Ci auguriamo, quindi, che nel lavoro originale siano esplicitamente descritti i criteri (speriamo rigidi) in base ai quali il paziente avrebbe dovuto assumere o meno il trattamento. 2. Endpoint principale. L’abstract non dà informazioni sugli endpoint dello studio così come sono stati previsti dal protocollo. L’importanza di conoscere almeno l’endpoint principale è fondamentale a fini valutativi perché, altrimenti, i risultati esposti potrebbero essere visti come conseguenza di un procedimento di analisi intensiva che abbia portato a presentare solo quelli più favorevoli al nuovo trattamento. Al riguardo, non si dimentichi che, se i due trattamenti sono ugualmente efficaci, eseguendo 20 test statistici ci si attende che uno sia significativo per puro effetto del caso (v. CASCO, n. 1, Statistica per concetti). Auspichiamo che, nel lavoro originale, risulti come endpoint principale la protezione dal vomito: se non fosse così, i risultati riportati nell’abstract perderebbero molto della loro attendibilità. 3. Dimensione dello studio. Uno studio comparativo basato su soli 80 pazienti valutati è inusuale. Nell’abstract non c’è traccia di come sia stata calcolata la dimensione del campione, né tantomeno è presente una riflessione sulla potenza del test utilizzato per il confronto. Abbiamo fatto alcune simulazioni, tenendo ferma la percentuale dei successi tra i pazienti trattati con METO (32%). Ipotizzando un incremento del 20%, cioè portando al 52% la frazione attesa dei successi con OLN, con la potenza del test sarebbe stata solo del 35%; ovviamente, se il delta fosse stato fissato pari al 15%, la potenza sarebbe stata assai inferiore. In questo tipo di studi, occorre stimare preliminarmente quanti saranno i pazienti non protetti da CINV, cioè quanti pazienti concorreranno realmente al confronto finale. In conclusione, per quanto concerne la dimensione del campione, lo studio sembra sia stato mal programmato ed è solo per la straordinaria maggiore efficacia di OLN rispetto a METO che la differenza è risultata significativa. 4. Test statistico. Mentre sono riportati i livelli di significatività del test utilizzato per il confronto tra i due gruppi di pazienti, non è riportato il tipo di test usato. Nelle circostanze dello studio, nessuno avrebbe obiettato per l’uso di uno z-test o dell’equivalente test chi-quadrato (v. “Statistica per concetti”). In tal caso, però, il livello di significatività sarebbe risultato P < 0,001, e non P < 0,01 com’è invece riportato nell’abstract. Escludendo il test di Fisher dell’esatta probabilità, che va usato nel caso in cui una frequenza sia nulla, o vi siano più frequenze piccolissime (e non è il nostro caso), resta il chi-quadrato con la correzione di Yates che approssima meglio del chi-quadrato il risultato del test esatto di Fisher. Ma, anche in questo caso, il livello di significatività sarebbe risultato inferiore all’1% (un per mille). Probabilmente, vi è stata una svista nel riportare il livello di significatività; tuttavia è sempre dove-

roso indicare a quale test fa riferimento il livello di significatività, perché, per uno specifico problema, spesso esistono più test diversi, ma non tutti sono ugualmente ammissibili, perché ciascuno di loro è condizionato dalle ipotesi su cui si basa. 5. Valutazione degli eventi avversi. Gli autori insistono ad usare la scala MDASI, che fu introdotta per valutare genericamente gli effetti della malattia sul paziente e, come tale, non è affatto specifica per CINV. Rispetto a questa scala, non sono state trovate tossicità maggiori (grado 3 e 4) nei due gruppi. Quando il lavoro sarà pubblicato, sarà interessante osservare se l’incidenza delle tossicità di grado inferiore sia la stessa nei due bracci e, in caso affermativo, si potrà discutere di come questo si concili con la maggiore efficacia di OLN rispetto a METO. Infatti data la superiorità di OLN, se gli eventi avversi avessero la stessa distribuzione nei due bracci, significherebbe che la scala MDASI non è idonea a valutare la tossicità nella ricerca sugli antiemetici. Discussione Un breve abstract, come quello esaminato, fornisce alcune informazioni sul lavoro che sta riassumendo, ma molti altri aspetti importanti non sono menzionati. Malgrado i difetti del lavoro e le lacune (comuni ad ogni abstract), sembrerebbe che OLN possa aspirare ad avere un ruolo importante tra gli antiemetici tradizionali. Occorre però sospendere il giudizio finché il lavoro definitivo non sarà pubblicato. È questa la ragione per cui un abstract non può essere considerato ai fini della formazione di linee guida. Infatti, da un lato l’esposizione dei metodi non è esaustiva, dall’altro il sistema di peer review di un congresso non dà sufficienti garanzie, anche perché è comunque eseguito su un riassunto e non sul lavoro per esteso. La maggiore difficoltà nel preparare un buon abstract risiede nella necessità di fornire al lettore le informazioni indispensabili per comprendere e valutare il lavoro originale, contemperandola con la brevità richiesta dall’occasione. Sempre più numerosi sono gli abstract presentati a congressi e, anche per questo, sempre minore è lo spazio lasciato a disposizione degli autori per sintetizzare il lavoro compiuto. Se questo trend non si arresta, l’abstract avrà il solo compito di comunicare che un certo studio è stato eseguito, lasciando troppo poco spazio per consentirne una valutazione soddisfacente, sebbene preliminare, della ricerca. È nostra opinione che occorra ripensare al meccanismo di presentazione degli abstract ai congressi, anche invitando gli autori dei lavori ritenuti più rilevanti a fornire un extended abstract (ad esempio, di un paio di pagine), ai fini di una più accurata valutazione dello studio. • Bibliografia 1. Morrow GR, Ballatori E, Groshan S, Olver I. Statistical considerations in the design, conduct and analyses of antiemetic trials. An emerging consensus. Support Care Cancer 1998; 6: 261-5.

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Statistica per concetti

Introduzione alla logica del test statistico nel modello di popolazione

Il test statistico viene utilizzato in quasi tutti gli studi clinici, sia per valutare l’efficacia e la sicurezza di un nuovo trattamento rispetto allo standard, sia, nella programmazione dello studio, per determinarne la dimensione. Pertanto, è importante fornire gli elementi per approfondire la logica e le procedure del test statistico, ai fini di accrescere la consapevolezza del clinico rispetto alle potenzialità e ai limiti di tale strumento che ha un così importante ruolo nella ricerca clinica, e, quindi, indirettamente, anche nell’esercizio della pratica clinica. L’argomento è semplice, ma piuttosto lungo da trattare compiutamente. Pertanto la sua esposizione è stata suddivisa in più parti, sempre limitando gli aspetti tecnici e privilegiando quelli concettuali. In questo numero si delinea la logica del test statistico, introducendo altresì alcuni concetti che saranno importanti per la piena comprensione delle parti successive.

I

n uno studio clinico longitudinale prospettico randomizzato a gruppi paralleli, di superiorità1, vengono confrontate due terapie: A (il nuovo trattamento) e B (la terapia standard, ossia la migliore terapia esistente). L’obiettivo non è quello di osservare cosa accada nei due gruppi di pazienti arruolati, bensì di riferire i risultati ottenuti alle due popolazioni da cui i due gruppi di pazienti (campioni) provengono. Le due popolazioni target sono indefinite, cioè non numerabili, in quanto composte da tutti i pazienti presenti e futuri2, affetti dalla patologia di interesse, che verranno trattati, rispettivamente, con A e con B. Dovendo decidere se A sia preferibile a B, oggetto di ricerca è la differenza tra due parametri, cioè due indici statistici calcolati nelle popolazioni, dal valore sconosciuto. Sebbene la logica della procedura che sarà esposta sia generalizzabile a parametri qualsiasi, nel seguito, per fissare le idee, si farà riferimento a due frequenze (caso molto comune: la percentuale dei successi terapeutici nella popolazione dei pazienti presenti e futuri trattati con A, PA, e la percentuale dei successi tra i pazienti presenti e futuri trattati con B, PB). Lo strumento con cui si giunge alla decisione se ritenere uguali o diversi i 98

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parametri delle due popolazioni target si chiama test statistico e, come ogni altro problema di inferenza statistica, si risolve mettendo insieme due fonti di conoscenza: una empirica, basata su quanto osservato nei due campioni di pazienti, l’altra teorica, fornita dal calcolo delle probabilità. Stime e loro variabilità Nel caso del confronto tra due frequenze, si chiamano stime (dei parametri) le frequenze relative di successi osservati nei due bracci di trattamento, fA e fB. Esempio. Nel lavoro discusso nella rubrica “Casi clinici”, si consideri la protezione dal vomito. I parametri sono le percentuali di pazienti che sono protetti dal vomito nella popolazione di pazienti presenti e futuri (nelle condizioni previste dallo studio) trattati con olanzapina (OLN, trattamento A), PA, e nella popolazione di pazienti trattati con metoclopramide (METO, trattamento B), PB. Tali parametri sono sconosciuti, ma, dai campioni di pazienti osservati, se ne possono ottenere le stime: fA = 0,71 = 71% (30/42) e fB = 0,32 = 32% (12/38). Tali dati costituiscono la fonte di conoscenza empirica, cioè quel che si è osservato.

La risposta al trattamento, ossia ciò che si osserva su ciascun paziente al

termine dello studio, dipende non solo dal trattamento, ma anche dal paziente. Ciò implica che se replicassimo lo stesso studio su altrettanti pazienti, otterremmo risultati differenti perché diversi sarebbero i pazienti arruolati. Si chiama universo dei campioni l’insieme di tutti i possibili campioni diversi, della stessa numerosità e generati dalla stessa operazione di scelta casuale, che possono essere ottenuti da ciascuna delle due popolazioni target. Al variare del campione nell’universo dei campioni, le stime variano perché, in ogni campione, diversi sono i pazienti coinvolti nello studio. Riepilogando, – PA e PB sono i parametri (numeri sconosciuti) – fA e fB le corrispondenti stime (numeri noti): costituiscono la fonte di conoscenza empirica – le stime variano nell’universo dei campioni, da campione a campione, ma solo perché diversi sono i pazienti che costituiscono ciascun campione. La misura di tale variabilità, fonte di conoscenza teorica, è ottenuta per mezzo del calcolo delle probablità. Malgrado fA e fB siano le migliori stime, rispettivamente, di PA e PB, esse non coincidono con i corrispondenti parametri, ma tale mancata coincidenza è dovuta unicamente al caso, cioè al campionamento, e non anche all’effetto di errori sistematici, cioè al fatto che i due gruppi a confronto siano diversi non solo per il trattamento, ma anche per altre caratteristiche sistematiche, rilevabili sui singoli pazienti, come ad es., l’età, la prevalenza di malattie concomitanti, altri fattori prognostici. Lo studio è comparativo, quindi si è interessati a decidere se la differenza PA – PB possa essere ritenuta uguale a zero (trattamenti ugualmente efficaci), ovvero se vi siano ragioni valide per escludere tale possibilità (trattamenti diversamente efficaci). La decisione dipende non solo dall’ordine di grandezza della differenza tra le stime, fA – fB, ma anche dalla variabilità delle stime nell’universo dei campioni, nel senso che, se tale variabilità (dovuta al caso) fosse alta (ad es., superiore a fA – fB), la differenza osservata sarebbe compatibile con essa e, quindi, non ci sarebbero elementi per


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dichiarare diversamente efficaci i due trattamenti. Se, invece, la variabilità delle stime fosse inferiore (ad esempio, fosse un terzo della differenza fA – fB), allora qualcosa deve essere accaduto per ottenere un così alto valore della differenza fA – fB; poiché l’unico fattore sistematico che viene considerato è il trattamento3, non resta che concludere che, con alta probabilità, i due trattamenti sono diversamente efficaci. La misura della variabilità delle stime dovuta al campionamento prende il nome di errore standard (ES). Nel caso del confronto tra frequenze, trattandosi di stime corrette4, l’ES della differenza tra le frequenze misura quanto distano, in media, le stime fA – fB (una per ciascun campione dell’universo) dal valore sconosciuto del parametro, PA – PB. Nell’espressione dell’ES, però, compare il valore del parametro e, quindi, l’unica cosa che si può fare è calcolare una stima dell’ES, che indichiamo con ES°, con cui confrontare la differenza fA – fB. Per semplicità di esposizione ne omettiamo la formula, inessenziale per la descrizione della logica del test. Esempio (prosec.). La migliore stima di PA – PB è fA – fB = 0,71 – 0,32 = 0,39: nel gruppo dei pazienti trattati con OLN è stato riscontrato il 39% di successi terapeutici in più rispetto al gruppo dei pazienti che hanno ricevuto METO. Si tratta, ora, di confrontare questo risultato con la misura della variabilità delle stime dovuta al campionamento, ossia con la stima dell’ES. Essendo, in base alla formula omessa, ES° = 0,112, si evince che la differenza tra le stime è quasi 3,5 volte superiore alla variabilità che ci si sarebbe attesa per puro effetto del campionamento e, quindi, non resta che concludere che i due trattamenti, con altissima probabilità, sono diversamente efficaci: dato il segno della differenza fA – fB, OLN è significativamente più efficace di METO.

Discussione Come si è visto, ogni test statistico si basa sull’assunto (cruciale) che tutte le circostanze sistematiche differenti dal trattamento siano ben bilanciate tra i due gruppi. Se così non fosse, la significatività del risultato potrebbe

essere imputata allo sbilanciamento di una o più caratteristiche tra i gruppi sperimentali e non al trattamento. Ad esempio, il trattamento A è risultato significativamente più efficace di B, ma nel braccio A la percentuale dei pazienti in età superiore a 70 anni è molto inferiore che nel braccio B; in tal caso la maggior efficacia di A potrebbe essere imputata alla minore anzianità dei pazienti dello stesso gruppo, e non ad una reale maggiore efficacia del trattamento A. La randomizzazione assicura che è assai improbabile che uno sbilanciamento sostanziale possa presentarsi, ma, se ci fosse, occorrerebbe procedere, oltre che con il test, anche con una più complessa analisi multifattoriale, aggiustando l’effetto del trattamento per la caratteristica trovata squilibrata nei due gruppi. Come si può osservare, il test statistico è uno strumento per il controllo del solo errore accidentale (quello dovuto al campionamento), non anche per il controllo di errori dovuti a circostanze sistematiche che, invece, si ottiene mediante un’adeguata programmazione degli esperimenti. Come corollario a quanto esposto, va sottolineata la debolezza dei risultati ottenuti con il test negli studi osservazionali, dove la sua applicazione avviene in presenza di differenti caratteristiche che connotano i due gruppi a confronto. Ad esempio, trovare che siano maggiormente le donne a trarre beneficio da un determinato trattamento (il test per il confronto di efficacia tra uomini e donne è risultato significativo) potrebbe anche indicare che la significatività della differenza sia invece riconducibile alle diverse caratteristiche dei due gruppi (diversa composizione per età, per prevalenza di patologie concomitanti, e così via). Pertanto, negli studi osservazionali, il risultato di un test statistico serve solo a rilevare genericamente un eccesso di variabilità, ma non costituisce una prova che il risultato dipenda realmente dal carattere considerato per la costruzione dei gruppi a confronto. Infine ci sembra opportuno sottolineare che in tutte le scienze sperimentali, e quindi anche nella

ricerca clinica, è impossibile procedere ad una vera e propria operazione di campionamento, perché questo richiederebbe la conoscenza dell’elenco di tutte le unità della popolazione (base del campionamento). Infatti, nelle scienze sperimentali non si può costruire la base del campionamento perché le popolazioni target sono indefinite, comprendendo queste anche unità che attualmente non fanno parte della popolazione (i “pazienti futuri”, nella ricerca clinica). Pertanto, la validità dei risultati del test costruito sulla base del modello di popolazione è condizionata al postulato empirico che i gruppi sperimentali siano campioni estratti a sorte dalle corrispondenti popolazioni target. In altre parole, occorre fare in modo che non vi siano circostanze che possano invalidare tale postulato. Nella ricerca clinica ciò è (almeno parzialmente) ottenuto con la perentoria richiesta che i pazienti siano arruolati consecutivamente nello studio. Il rispetto di tale procedura è quanto di meglio si possa fare per rendere i gruppi sperimentali simili a campioni casuali, perché, così operando, si evita la presenza di caratteristiche distorcenti. Al riguardo si rifletta sulla nocività dell’esistenza di più protocolli aperti sulla stessa patologia in uno stesso centro. Enzo Ballatori Note 1. Uno studio di superiorità è programmato per dimostrare la superiorità del nuovo trattamento rispetto alla terapia standard (v. “Gli studi di non inferiorità”, in CASCO, n. 3). 2. Futuri, in quanto se A sarà trovato più efficace/tollerabile di B, A sarà prescritto anche ai pazienti che si ammaleranno in futuro. 3. Si ricordi che la randomizzazione riesce ad eliminare o a ridurre l’effetto di altre circostanze sistematiche sui risultati dello studio (v. CASCO, n. 2, Statistica per concetti). 4. Una stima si dice corretta se la media di tutte le stime dell’universo dei campioni coincide con il parametro. Se una stima è corretta, il suo scostamento dal parametro è dovuto unicamente al caso, ossia al campionamento (cioè al fatto di considerare, di volta in volta, pazienti diversi): non vi sono circostanze sistematiche che influiscono su tale discrepanza. CASCO — Vol 2, n. 3, luglio-settembre 2012

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Prima della prescrizione, consultare il riassunto riassunto delle caratteristiche del prodotto o accluso. accluso. *CINV=Nausea e vomito indotti ndotti dalla dalla cchemioterapia hemioterapia **Triplice Terapia=EMEND, END, a 5-HT3 5-HT3 antagonista, antagonista, e un corticosteroide. ide.

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3- 0000 - EMD - PU - 02 / 2015 Materiale Materiale depositato depositato presso presso l’AIFA l’AIFA ilil 28.02.2013 28.02.2013 ONCO-1072653-0000-EMD-PU-02/2015


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