Didatticamente 2011 n. 1

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BOLLETTINO DEL COLLEGIO DEI PROFESSORI DI PSICHIATRIA DELLE UNIVERSITÀ ITALIANE MED25

Psichiatria e medicina L’

attuale dibattito sull’applicazione della Legge Gelmini e sui conseguenti nuovi schemi di intesa tra Regione e Università, anche in relazione al fatto che debba esistere “non solo una stretta connessione, ma una vera e propria compenetrazione” tra l’attività assistenziale ospedaliera e quella didattico scientifica (Corte costituzionale 71/2001) (pag. 5), offre lo spunto per sottolineare il ruolo di imprescindibile centralità della disciplina psichiatrica, tanto nel campo medico generale quanto nell’attività didattico-formativa.

A dimostrazione del ruolo di snodo centrale e trasversale della psichiatria nella medicina parlano i risultati degli studi effettuati sui frequent attenders dei servizi di medicina generale. I dati dimostrano come dal 30% al 50% di questi pazienti presentino per lo più sintomi psichiatrici e/o veri e propri disturbi mentali, come disturbi psicosomatici, disturbi d’ansia e depressione maggiore1. La World Health Organization (WHO), in uno studio inerente le proiezioni per l’anno 2020 di mortalità e disabilità per malattia, identifica la depressione maggiore come seconda causa di DALY (Disability-Adjusted Life Year). Kupfer2, in un recente articolo pubblicato su JAMA, ha sottolineato, tra i goals nella stesura del DSM V, quello di favorire un’ulteriore integrazione della psichiatria nella medicina, facilitando il

riconoscimento diagnostico delle sindromi psichiatriche ed enfatizzando l’importanza di occuparsi dei pazienti con disturbo mentale in tutti i contesti clinici, a prescindere dalla specialità. Malattie mediche/chirurgiche e psichiatriche non solo talvolta coesistono, ma molto spesso contribuiscono a determinarsi, o ad aggravarsi vicendevolmente, o si manifestano le une con i sintomi delle altre. La comorbilità medicopsichiatrica rappresenta un fattore di complessità nella gestione clinica dei pazienti; nel caso di patologie croniche rappresenta un rischio di minor aderenza al trattamento e ha un notevole impatto prognostico, di ordine organizzativo e di tipo economico, in quanto incide sulla disabilità e sulla frequenza di ricorso all’assistenza sanitaria3. Nonostante siano numerosi gli studi in letteratura che descrivono quali fattori si associano ad alti livelli di consumo dei servizi di medicina generale, siamo ancora lontani dall’avere un modello di healthcare consumption. Di grande interesse la rewiev di Gili3 che propone quattro pathways per analizzare, sistematicamente, le variabili che possono influenzare la modalità di consumo dei servizi sanitari. Le principali sono la presenza di un disturbo mentale, che ha conseguenze negative sulla percezione del benessere soggettivo, ovvero del “well being”, il cui declino si associa a un aumento del consumo dei servizi sanitari, l’età, che favorisce l’insorgenza di malattie croniche, quindi disabilitanti, che compromettono l’autonomia del paziente e incidono sulla qualità della vita, e infine il livello culturale-educazionale, che influenza le modalità in cui si affronta la malattia. Infine va tenuto presente il ruolo sempre più fondamentale della Psichiatria di Liaison (PdL), che vede in costante e progressiva evoluzione le sue modalità operative, basti pensare all’importanza

che va assumendo la psiconcologia. Se per lo psichiatra i dati riportati fanno parte del suo bagaglio culturale (pag. 4), è oggi assolutamente necessario che siano conosciuti e condivisi con i colleghi delle altre discipline mediche e con gli amministratori dei nostri policlinici e delle agenzie di politica sanitaria. La complessità dell’agire psichiatrico sottolinea l’importanza di un rapporto di collaborazione tra medicina e psichiatria, unite da un elemento comune, la relazione medico-paziente, nucleo imprescindibile dell’alleanza terapeutica, base relazionale sulla quale costruire un progetto terapeutico che miri ad ottimizzare i risultati delle cure, ad arginare il rischio di discontinuità farmacologica e a sostenere l’aderenza terapeutica, sia in ambito medico generale, principalmente nel caso di patologie a decorso cronico, che in psichiatria, costituendo la continuità terapeutica uno dei capisaldi della buona pratica clinica. Alberto Siracusano Presidente del Collegio dei Professori di Psichiatria Direttore del Dipartimento di Neuroscienze, Cattedra di Psichiatria, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, Roma BIBLIOGRAFIA

1. Weissman MM, Neria Y, Gameroff JJ, et al. Positive screens for psychiatric disorders in primary care: a long-term follow-up of patients who were not in treatment. Psychiatr Serv 2010; 61: 151-9. 2. Kupfer DJ, Regier DA. Why all of medicine should care about DSM. JAMA 2010; 303. 3. Gili M, Albert Sese A, Bauza N, et al. Mental disorders, chronic conditions and psychological factors: a path analysis model for healthcare consumption in general practice. Intern Rev Psychiatr 2011; 23: 20-7.

IN QUESTO NUMERO

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Psichiatria e medicina Alberto Siracusano

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La responsabilità professionale dello psichiatra

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Una variante genetica predisponente a comportamenti impulsivi Laura Bevilacqua

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Rapporti con le strutture del Servizio Sanitario Nazionale Qualche domanda sull’ANVUR

Realizzato con il contributo di

A colloquio con Giuseppe Novelli

Giorgio Santacroce

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La responsabilità professionale dello psichiatra Cosa chiede la giustizia alla psichiatria?

Giorgio Santacroce Presidente della Corte di Appello di Roma

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fruttando un’immagine suggestiva, si può dire che nei listini della “borsa del diritto” il titolo “responsabilità del medico psichiatra” viene segnalato in continuo e forte rialzo, e, a rivelarlo è la presenza di una corposa letteratura che continua ad arricchirsi di pubblicazioni nelle quali lo studio dei problemi relativi alla colpa professionale dello psichiatra viene sviscerato e approfondito sia con riferimento alle peculiarità tipiche che contraddistinguono l’attività da lui svolta rispetto ad altri ambiti di specializzazione medica, sia riguardo ai dati specifici forniti dalle singole realtà cliniche e medico-legali. Ai contributi di una dottrina pressoché compatta nel contrastare con fermezza ogni tentativo di restaurare obblighi di vigilanza e protezione dei malati di mente (considerato non rispettoso dei principi ispiratori della riforma Basaglia del 1978), si aggiunge quello che è stato definito da qualcuno “l’altalenante iter giudiziario” di molti casi di patologie psichiatriche, che hanno dato luogo sia a esiti assolutori che a pronunce di condanna, a conferma e riprova “dell’incertezza esistente all’interno della stessa magistratura su quali siano gli obblighi specifici dello psichiatra e gli standard di corretta professionalità” del suo operare dopo l’avvento della legge n. 180 del 1978. L’esame di molte sentenze dei giudici di merito e di quelli di legittimità non consente infatti di individuare delle linee interpretative uniformi, restando tuttora incerta la definizione dei contenuti esatti della condotta professionale dell’operatore di salute mentale e non essendo facile adattare all’accertamento della responsabilità civile e/o penale dello psichiatra i criteri e gli standard probatori utilizzati in via generale dalla giurisprudenza in tema di responsabilità professionale per così dire “ordinaria” degli altri operatori sanitari, soprattutto per quanto concerne la metodologia applicabile alle perizie e alle consulenze tecniche medico-legali, le cui valutazioni finali sono poi quelle che condizionano le decisioni dei giudici. La differenza tra la terapia psichiatrica e la terapia delle malattie fisiche – ha osservato più di uno studioso – è data dal fatto che, nella stragrande maggioranza dei casi, il disturbo psichico non è semplicemente una malattia che cambia il corso dell’esistenza, ma è il cambiamento stesso dell’esistenza. A differenza delle malattie fisiche, la malattia mentale si manifesta spesso con comportamenti abnormi e assolutamente imprevedibili, che si riverberano all’esterno della sfera fisica del paziente, rendendo non facilmente separabili l’aspetto della cura da quello della prevenzione della sua aggressività. Non a caso si è soliti affermare che il folle non agit sed agitur. Da qui una forte e motivata preoccupazione della categoria in tutti quei casi in cui si discute di omessa attivazione di misure protettive di sorveglianza fisica o di errata rimodulazione e modifica del trattamento farmacologico di contenimento, utili a scongiurare in via preventiva e d’urgenza il pericolo di gesti auto o etero-lesivi del paziente. Ma da qui anche i fermi rilievi critici a cui vengono sottoposte alcune sentenze di condanna emesse nei confronti dello psichiatra per omicidio o lesioni personali colpose avallate dalla corte di cassazione, accusata di non prestare ossequio – al di là di mere formule di facciata e di un’adesione puramente nominalistica (e, quindi, sostanzialmente apparente) – ai rassicuranti ed equilibrati parametri indicati nella nota pronuncia delle Sezioni Unite Penali del 10 l uglio 2002 (meglio nota come “sentenza

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L’esame di molte sentenze dei giudici di merito e di quelli di legittimità non consente di individuare delle linee interpretative uniformi, restando tuttora incerta la definizione dei contenuti esatti della condotta professionale dell’operatore di salute mentale e non essendo facile adattare all’accertamento della responsabilità civile e/o penale dello psichiatra i criteri e gli standard probatori utilizzati in via generale dalla giurisprudenza in tema di responsabilità professionale per così dire “ordinaria” degli altri operatori sanitari, soprattutto per quanto concerne la metodologia applicabile alle perizie e alle consulenze tecniche medico-legali, le cui valutazioni finali sono poi quelle che condizionano le decisioni dei giudici.


Franzese”), salutata coralmente (e forse un po’ esageratamente) come un “fondamentale contributo all’etica e alla razionalità del processo penale”, di cui si evocano si gli enunciati della “certezza processuale” e della “elevata probabilità logica” (della serie: nessuno può essere condannato se non risulti colpevole del reato contestatogli “aldilà di ogni ragionevole dubbio”, come si esprime l’art. 533 co. 1 c.p.p. nella sua formulazione più recente), ma non se ne applicano poi i reali contenuti. Con la sentenza Franzese, le Sezioni Unite Penali della Cassazione hanno praticamente riscritto la teoria della causalità omissiva, offrendo una chiave di lettura del testo dell’art. 40 cpv. c.p. diversa da quella comunemente accolta, aggiungendo all’affermazione che “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo” le parole “se il compimento dell’attività omessa avrebbe impedito con certezza o quasi certezza il verificarsi dell’evento”.

Sul rapporto tra giudice e psichiatra La preoccupazione dei medici psichiatri è pienamente condivisibile specie di fronte al carattere enigmatico e a talune ambiguità terminologiche della legge n. 180 (tanto per dirne una, l’art. 34, che consente il TSO, fa riferimento in modo generico e assai elastico ad “alterazioni psichiche” che richiedono “urgenti interventi terapeutici”, lasciando così al sanitario un’ampia discrezionalità di valutazione). Va da sé che l’ambiguità della terminologia legislativa è destinata a provocare un aumento del rischio per il medico psichiatra, chiuso tra l’incudine di un giudizio severo “quando fa” e il martello di un giudizio altrettanto severo, se non addirittura più severo, “quando non fa”: il che può favorire il suo arroccamento su posizioni difensive nell’intento di evitare ogni forma di sovraesposizione, nella deprecabile ottica di quella medicina difensiva che tutti sanno quanto possa essere perniciosa, risolvendosi nella restrizione di fatto degli spazi dell’attività professionale. Sul versante più squisitamente giuridico, si è fatto notare che la psichiatria non è in grado di indicare precise categorie nosografiche di disturbi psichici come modelli a cui debba, sempre e comunque, corrispondere un preciso e determinato istituto giuridico, sia esso rappresentato nel codice penale dal vizio totale e/o parziale di

mente, o dalle previsioni del codice civile in tema di interdizione e di inabilitazione. Il che comporta certamente una maggiore responsabilità del giudice e, aggiungerei, anche del perito e del medico curante, impegnandoli a una più stretta collaborazione tra loro, finalizzata alla tutela della malattia mentale. Sul piano più diretto del rapporto tra giudice e psichiatria vanno tenute presenti soprattutto le implicazioni del nuovo approccio sanitario al trattamento dei malati di mente postulato dalla disciplina introdotta dalla legge n. 180 del 1978 (nuovo, s’intende, rispetto al previgente sistema del 1904 che era incentrato su un modello custodialistico-segregante fondato sulla previsione di un intervento di pubblica sicurezza come strumento di difesa sociale contro lo stereotipo dell’aprioristica – e, quindi, presunta – pericolosità sociale del disturbato mentale): un approccio – è il caso di dire – che ha dato luogo a una vera e propria svolta (qualcuno l’ha definita “epocale” e ha parlato addirittura di “rivoluzione copernicana”) nella cura e nella percezione sociale della malattia mentale rispetto al passato, perché ha collocato il trattamento sanitario obbligatorio in una prospettiva terapeutico-sanitaria d’emergenza, attribuendogli funzioni squisitamente curative, e ha cercato di valorizzare, per quanto possibile, la libera partecipazione del paziente al percorso terapeutico. Senza voler ripetere cose che tutti sanno ma al solo scopo di mettere a fuoco il nocciolo della questione che qui interessa, è noto che il contenuto della riforma Basaglia, la quale ha previsto una nuova disciplina dei trattamenti sanitari volontari e obbligatori, è stato pedissequamente riprodotto nella legge n. 833 del dicembre 1978, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, che ha sancito il principio che i trattamenti sanitari sono di regola volontari e che la loro applicazione obbligatoria in condizioni di degenza si giustifica solo come extrema ratio, cui si può ricorrere soltanto in presenza di “alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici (art. 34 comma 4 l. n. 833I 1978), nel caso in cui gli stessi non vengano accettati dall’infermo e in assenza di adeguate misure extraospedaliere (“il trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale può prevedere che le cure vengano prestate in condizioni di degenza solo se...”: dice il 4° comma dell’art. 34).

TSO, Basaglia e normativa ln questo modo si è data attuazione alla regola generale posta dall’art. 32 comma 2 della Costituzione, secondo il quale i trattamenti sanitari sono volontari, stante la previsione per i trattamenti sanitari obbligatori di un’espressa riserva di legge (“Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”). Nel sistema della Costituzione, infatti, i trattamenti sanitari obbligatori imposti per legge costituiscono un’ipotesi residuale da utilizzare solo dopo che tutte le altre strade di cura sono state inutilmente battute. E la dimostrazione più evidente è offerta proprio dalla legge Basaglia, che configura la disposizione dei TSO da parte del sindaco come un rimedio del tutto eccezionale, destinato ad esaurirsi nello spazio e nel tempo strettamente necessari a fronteggiare una manifestazione acuta ed incontrollata del malessere psichico. Allo stesso modo è significativo che si prescriva che durante il TSO debba essere posta in essere ogni iniziativa utile a ricercare il consenso dell’infermo di mente. In quest’ottica non serve assolutamente soffermarsi sul cammino e sull’evoluzione della normativa psichiatrica italiana, analizzando in dettaglio le tappe che hanno scandito l’abbandono dello stereotipo del “folle comunque pericoloso” (leggi: malato di mente = pericoloso per sé e per gli altri) e il superamento del modus operandi del medico psichiatra come gestore della custodia, una sorta di “braccio sanitario della pubblica sicurezza”, con compiti di polizia (così cfr. Cass., Sez. ll, 11 maggio 1990, Manuali, in Cass. pen. mass. ann., 1991, p. 68). È a tutti noto che la legge Basaglia ha abrogato espressamente tutte le fattispecie penali contravvenzionali figlie del precedente modello manicomiale-custodialistico (artt. 714, 715 e 716 c.p., dai quali è stato espunto ogni riferimento ai malati di mente) e ha trasformato l’originaria obbligazione di risultato dello psichiatra in un’obbIigazione di mezzi. Non è neppure il caso di indugiare più di tanto su eventuali ed astratte ipotesi di omissione dolosa imputabili allo psichiatra, con riferimento agli addebiti di omissione di soccorso (art. 593 cp.) e di abbandono di persone incapaci (art. 591 c.p.), perché in caso di omissione di soccorso l’obbligo di intervenire a tutela dell’incolumità dell’incapace malato di mente è posto direttamente dalla legge e consiste nel “dare immediato avviso all’autorità” e nel “prestargli l’assistenza occorrente”, mentre nel secondo caso l’obbligo di intervento trova la sua fonte nel rapporto di natura contrattuale instauratosi tra il medico e il paziente, essendo il medico tenuto ad adempiere i doveri inderogabili che derivano dalla sua professione. L’idea di uno psichiatra che interrompa deliberatamente l’assistenza di un paziente ovvero ometta sempre intenzionalmente di adottare le cautele necessarie a evitare il suo stato di abbandono è più una remota ipotesi di scuola che una situazione riscontrabile nella realtà, essendo difficile configurare il dolo che è proprio di questi delitti in casi di semplice inerzia del sanitario, trasformando in dolosa una condotta che di per sé è inequivocabilmente colposa (cfr. Marra-Pezzetto, La responsabilità dello psichiatra nella giurisprudenza successiva alla l. n. 180 dei 1978, in Cass., pen. Mass. Ann., 2006, p. 3433). Una nuova visione della malattia mentale Il dato di fatto ormai acquisito sul quale tutti concordano e dal quale bisogna prendere le mosse è dunque la fisionomia assunta dai rapporto medico-paziente dopo l’avvento della legge Basaglia. Il punto nevralgico della legge è senz’altro una nuova visione della malattia mentale e, di conseguenza, un nuovo approccio terapeutico nei suoi riguardi. Il malato di mente non va più considerato un irrecuperabile da confinare in un apposito ambiente, ma una persona libera – al pari di qualsiasi altro malato “normale” – di partecipare volontariamente alle cure, non più sottoposto né sottoponibile quindi a quella sorveglianza assidua che caratterizzava il precedente regime manicomiale. Nel nuovo sistema, infatti, l’accento si è spostato dalla protezione della società dal disturbato mentale alla necessità di predisporre strutture e servizi territoriali che gli consentano di vivere il suo momento di crisi all’interno degli ambienti e dei rapporti che ne sostanziano resistenza e di mantenere sotto ogni profilo i contatti con la collettività, compreso quello dell’esercizio del diritto di Didatticamente

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elettorato che prima era sospeso durante la degenza in manicomio. Il problema giuridico (ma a questo punto sarebbe forse meglio dire: il problema giudiziario) investe il come questa nuova filosofia di intervento è destinata ad incidere sui presupposti essenziali della responsabilità civile e penale del medico per omesso impedimento di un evento auto o etero-lesivo commesso da un paziente. Si tratta di stabilire, in altre parole, come si atteggia oggi, alla luce dell’impianto della legge n. 180 del 1978, la cosiddetta posizione di garanzia del medico, e, più in generale, se sia configurabile tuttora la titolarità in capo al medico psichiatra di una posizione di garanzia e, in caso di risposta affermativa, quale portata abbia e quale sia la tipologia di obblighi che debbono connotarla. Accogliendo istanze più o meno esplicite di responsabilizzazione della classe medica sotto l’aspetto etico e de-

dia dell’integrità di questi beni ritenuti di primaria importanza per la persona”. Ad onta del suo contenuto vagamente eticizzante, il tema della posizione di garanzia occupa un posto di assoluta centralità nei contesto dell’accertamento del nesso di causalità dei reati colposi, perché si àncora a una fonte precisa, che è quella già richiamata dell’art. 40 cpv., secondo la quale “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”. Ancorando la posizione di garanzia a una fonte formale (com’è l’art. 40 capov. del codice penale) si mira a scongiurare l’eventualità che l’obbligo di agire del medico per impedire l’evento venga fatto discendere dall’osservanza di meri doveri etici, religiosi o sociali, o anche di semplici doveri di deontologia professionale, a riprova che la responsabilità penale c.d. omissiva è presidiata da un’espressa previsione di legge.

ontologico, la giurisprudenza è orientata da tempo a riconoscere in capo a qualsiasi medico una posizione di garanzia che fa rientrare nel modello delle c.d. posizioni di controllo su fonti di pericolo. Come titolare di un’obbligazione di mezzi e solo eccezionalmente di risultato (il medico non garantisce la guarigione, ma è tenuto a predisporre i mezzi perché essa si verifichi o per attenuarne comunque gli effetti), il medico va considerato penalmente responsabile non solo quando l’azione doverosa omessa avrebbe sicuramente impedito il verificarsi dell’evento lesivo verificatosi in concreto, ma anche quando sarebbe valsa a evitare o quanto meno a ridurre con un certo margine di probabilità il pericolo di lesione della vita o dell’integrità fisica del paziente o altrui. La tematica della posizione di garanzia si ricollega al disposto dell’art. 32 della Costituzione e trova il suo fondamento – come ha chiarito la Corte di cassazione anche di recente (Sez. IV., 17 novembre 2005, n. 7661, in Dir. pen. e proc., 2006, p. 1272) – nei principi solidaristici dettati dalla stessa carta costituzionale negli artt. 2, 32, 41 comma 2, che impongono “una tutela rafforzata e privilegiata di determinati beni – non essendo i titolari di essi in grado di proteggerti adeguatamente – con l’attribuzione a determinati soggetti della qualità di “garanti” della salvaguar-

Ciò premesso, occorre domandarsi se la mutata prospettiva introdotta dalla legge Basaglia abbia lasciato sussistere in capo al medico psichiatra una posizione di garanzia in funzione neutralizzatrice del pericolo di atti auto e etero-lesivi da parte del paziente, nel senso che si possono e si debbono tuttora individuare profili di colpa in una eventuale condotta omissiva del medico, ferma restando beninteso la necessità di accertare in ogni caso l’esistenza di un nesso di causalità materiale tra questa omissione e l’evento che ii medico aveva l’obbligo giuridico di impedire. La risposta non può che essere affermativa, come non hanno mancato di rilevare del resto recenti sentenze della Cassazione (Sez. IV, 14 novembre 2007, n. 10795, Poni, cit., con nota di Baraldo e in Riv. it. med. leg., 2008, p. 1419, con nota di Fiori-Buzzi; Id., Sez. IV, 4 marzo 2004, in Dir. pen. e proc., 2004, p. 1143, con nota di Iadecola), che hanno dedicato ampio spazio alla posizione di garanzia dello psichiatra, indicata come presupposto essenziale della responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, quale che esso sia, evidenziando che importa poco se il disvalore di questo evento sia delittuoso come nel caso di atti eteroaggressivi o semplicemente antigiuridico ma non punito dall’ordinamento attuale, come nel caso del suicidio. L’aspetto più rilevante di queste sentenze è dato dal fatto

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che esse non solo appaiono rispettose dei principi ispiratori della legge Basaglia (che, peraltro, i giudici mostrano a volte di lodare ed enfatizzare con un entusiasmo forse eccessivo, ignorando le prospettive di riforma che vengono avanzate da più parti), ma tengono conto soprattutto del contenuto della prestazione demandata allo psichiatra, specialista più di ogni altro onerato di scelte difficili, proprio perché nella sua attività è spesso in gioco l’incolumità fisica dello stesso paziente o di terze persone. Le decisioni ricordate sono esplicite nel senso che il problema della responsabilità penale dello psichiatra (per omicidio o lesioni personali colpose in caso di atti autolesivi del paziente; per concorso colposo in delitto doloso nel caso di omicidio o lesioni personali dolose cagionate ai danni di terzi) non può essere affrontato in termini rigidamente dogmatici, estremizzando se così si può dire l’avvenuto abbandono della precedente concezione custodia-

Riesce difficile pensare che lo psichiatra, accanto al dovere ordinario e istituzionale di curare il paziente non abbia anche quello di prevenire condotte auto ed eterolesive che possono essere estrinsecazione o comunque una conseguenza della patologia di cui è affetto. listica, arrivando a negare in radice la configurabilità di qualsiasi responsabilità di questo sanitario fuori dai casi di TSO, assicurandogli una curiosa e singolare patente di impunità per il suicidio del proprio assistito e per la commissione da parte sua di condotte eterolesive, che sono poi i casi più frequenti esaminati dai giudici. Viene spontaneo osservare che l’idea di buona parte della dottrina medico-legale che le auto-lesioni e la sop-


pressione della propria vita sono comportamenti che possono suscitare interrogativi di ordine etico, ma sono di per sé privi di rilevanza penale (fuori, s’intende, dei casi di mutilazione fraudolenta della propria persona a fini assicurativi e di istigazione e aiuto al suicidio previsti rispettivamente dagli artt. 642 e 580 c.p.), il che porterebbe ad escludere la configurabilità di una responsabilità colposa del sanitario, non appare assolutamente sostenibile in presenza di soggetti incapaci di fatto di provvedere alla salvaguardia della propria incolumità, dei quali il medico abbia omesso il controllo sottovalutando il rischio della loro potenziale pericolosità per un presumibile errore diagnostico o un travisamento dei segni clinici. Allo stesso modo non può dirsi che i gesti omicidiari siano frutto di una libera scelta del malato di mente a cui il medico è fondamentalmente estraneo, perché la cronaca è piena di casi di schizofrenici e psicopatici spinti al delitto da impulsi im-

ne sussiste la concreta possibilità, avuto riguardo alla loro potenziale idoneità dannosa – condotte auto ed eterolesive che possono essere estrinsecazione o comunque una conseguenza della patologia di cui è affetto e, dunque, quando la malattia, in determinate fasi, riveli uno stato di pericolo che lascia prefigurare gesti inconsulti, superando la presunzione civilistica di non pericolosità del malato. ll suicidio, soprattutto, è un atto che la psichiatria non può non mettere in conto, visto che le statistiche epidemiologiche rivelano che la malattia psichiatrica costituisce il più importante fattore di rischio del suicidio e che, in particolare, secondo i più recenti studi epidemiologici, più del 90% delle persone che si suicidano presentano una malattia psichiatrica diagnosticabile al momento dell’atto: generalmente depressione, ma anche abuso di alcolici o di stupefacenti, disturbi bipolari e schizofrenia. Va da sé, quindi, che la giustificazione talora addotta da-

chiatra significa affermare oltretutto che il contenuto della sua posizione di garanzia non può essere deteriore rispetto a quella degli altri medici, i quali tutti sono chiamati a sempre maggiori doveri professionali di aggiornamento scientifico e di specializzazione, in ragione della progressiva complessità della scienza medica e in generate della società moderna. Come operatore pratico del diritto penale, abituato a una lettura il più possibile obiettiva dei dati normativi vigenti, sia pure con la consapevolezza che essi non sono esenti da zone d’ombra e persistenti ambiguità, credo di poter rispondere cosi alla domanda che da il titolo a questa relazione. È pacifico che, fuori dal TSO, lo psichiatra, al pari di ogni altro medico, generico o specialista, non ha poteri coercitivi, salvo in caso di situazioni di pericolo non tempestivamente fronteggiabili che giustificherebbero financo

Fare il mestiere per il quale si è preparati e valorizzarlo nel proprio codice professionale. Sono questi i tratti che qualificano l’onestà di ogni lavoro. Anche quello dello psichiatra.

provvisi e irrefrenabili, o, come si dice, da “allucinazioni uditive imperative” a cui non sanno resistere. Il che vuol dire che, anche quando non ricorrono i presupposti per un trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera (cfr. art. 2 comma 2 I. n. 180), stride palesemente con la realtà la premessa del ragionamento logico-giuridico di chi, esasperando i principi della legge Basaglia, continua tenacemente a porre sullo stesso piano il malato di mente e la persona “normale”, sull’assunto preconcetto che il paziente, fuori dei casi di TSO (che, peraltro, non interviene quasi mai con tempestività a causa dei tempi burocraticamente non brevi dell’attivazione della procedura di ricovero coatto), è persona capace di autodeterminarsi e non socialmente pericolosa.

Cura, vigilanza, protezione Riesce difficile pensare che lo psichiatra, accanto al dovere ordinario e istituzionale di curare il paziente così come postulato in via generale dalla legge Basaglia, non abbia anche quello di prevenire – s’intende nei limiti in cui

gli psichiatri che non è facile prevedere se e quando ci sarà un “passaggio all’atto” auto o eterolesivo deve indurre il medico solo a una maggiore cautela, specie riguardo ai casi di atti eterolesivi, per i quali la giurisprudenza è portata ad esigere un controllo probatorio di maggior rigore rispetto agli atti autolesivi, mostrando di richiamare implicitamente il criterio della colpa grave dettato dall’art. 2236 del codice civile. lntendiamoci. Quello della vigilanza e della protezione è senz’altro un obbligo accessorio e nettamente autonomo rispetto all’obbligazione fondamentale dei medico (diagnostica, curativa, riabilitativa). Ma è un obbligo necessario con finalità eminentemente preventive e di sicurezza concomitante ai progressivo imporsi del diritto del paziente a tutelare il proprio spazio di libertà. I francesi parlano in proposito di securité corporelle, sottolineando che il medico, nell’impegnarsi alla prestazione sanitaria, assume l’obbligazione accessoria di sovrintendere sulla sicurezza del proprio assistito. Pretenderla anche per lo psi-

l’adozione da parte sua di misure provvisorie di contenzione non previste dalla legge, stante la ricorrenza dell’esimente dello stato di necessità, reale o putativo che sia (art. 54 c.p.). Quello che i giudici chiedono allo psichiatra coscienzioso è di ridurre al massimo il pericolo di eventi lesivi per il paziente e per gli altri, attivandosi caso per caso con gli strumenti terapeutici che ha a disposizione e con ogni altro accorgimento di vario genere, secondo gli ordinari canoni di prudenza e di diligenza. Come è stato ben evidenziato in uno scritto recente, se si ha in cura una persona che presenti un concreto pericolo di suicidio, la posizione di garanzia del medico comporta l’obbligo di apprestare un cordone di cautele aggiuntive e integrative, tra cui, a puro titolo di esempio, ne vengono suggerite alcune: come quella di invitare il personale infermieristico in caso di ricovero volontario ad attuare la massima sorveglianza, collocando il malato in stanze poste al piano terra oppure con finestre protette da inferriate, fornendogli posate e bicchieri di plastica anziché in vetro o in metallo, assicurandosi che non ci siano in giro corde e lacci idonei a favorire l’impiccagione. Nel caso in cui il paziente volesse uscire dalla struttura è opportuno mettere a sua disposizione personale qualificato e informato che lo possa accompagnare tenendolo costantemente d’occhio ed evitando di lasciarlo solo. Fuori dei casi di ricovero occorre prendere iniziative che coinvolgano i familiari, rendendoli edotti dei rischi che si possono presentare e soilecitandoli a verificare che la cura farmacologica sia rigorosamente rispettata. Tutto questo non implica affatto un ritorno al passato, a un’ideologia del controllo, come qualcuno vuole insinuare. Dirò qualcosa di più: non risolve neppure interamente la tematica che ci siamo posti. Ne resta fuori, tanto per dirne una, il susseguirsi di diversi medici psichiatrici nell’arco di una giornata: una situazione, questa, che, ai fini dell’individuazione della posizione di garanzia, può creare non pochi e non facili problemi di individuazione, al momento dell’evento, del vero destinatario dell’obbligo giuridico di protezione e, quindi, dell’obbligo giuridico di impedire l’evento. Chiudo con una citazione, che forse lppocrate avrebbe condiviso. Nel romanzo La peste di Albert Camus, il dottor Rieux, impegnato contro il flagello, confessa a un giornalista che gli chiede che cosa gli dà la forza di lottare: l’onestà. “Che cosa è l’onestà’?”, gli chiede il giornalista. E Rieux risponde: “Che cosa sia in genere non lo so, ma, nel mio caso, so che consiste nel fare il mio mestiere”. Fare il mestiere per il quale si è preparati e valorizzarlo nel proprio codice professionale. Sono questi i tratti che qualificano l’onestà di ogni lavoro. Anche quello dello psichiatra. • Didatticamente

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Una variante genetica predisponente a comportamenti impulsivi ... comportamenti quali l’impulsività presentano caratteristiche di ereditarietà che hanno suggerito la ricerca dei geni implicati nei processi neurobiologici sottostanti. L’impulsività è un fenomeno complesso in cui fattori ambientali e genetici interagiscono a molteplici livelli. Fino ad oggi solo un esiguo numero di geni è stato associato al comportamento impulsivo, probabilmente a causa della complessità del fenotipo e della diversità tra la tipologia dei campioni o le metodologie utilizzate.

Laura Bevilacqua Laboratory of Neurogenetics, NIAAA, NIH, Rockville MD, USA e Scuola di Dottorato di Ricerca in Neurobiologia dei disturbi affettivi, Università di Pisa, Italia

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impulsività è considerata l’incapacità di prevedere le conseguenze delle proprie azioni ed in alcune circostanze costituisce una dimensione adattativa della personalità che ci permette di non perdere occasioni preziose. Il comportamento impulsivo nasce dal venir meno della capacità inibitorie del nostro cervello e del mantenimento di un delicato equilibrio che ha come scopo l’adattamento all’ambiente. L’impulsività è una caratteristica importante di molte patologie psichiatriche fra cui il Disturbo Antisociale e il Disturbo Borderline di Personalità, il Disturbo Esplosivo Intermittente, il Disturbo da Deficit di Attenzione ed Iperattività, il Disturbo della Condotta nel bambino, il Disturbo Bipolare, la tossicodipendenza, il suicidio ed alcune forme di comportamento violento e criminale. Queste patologie e comportamenti quali l’impulsività presentano caratteristiche di ereditarietà che hanno suggerito la ricerca dei geni implicati nei processi neurobiologici sottostanti. L’impulsività è un fenomeno complesso in cui fattori ambientali e genetici interagiscono a molteplici livelli. Fino ad oggi solo un esiguo numero di geni è stato associato al comportamento impulsivo, probabilmente a causa della complessità del fenotipo e della diversità tra la tipologia dei campioni o le metodologie utilizzate. In questo studio con l’aiuto di tecniche di sequenziamento di nuova generazione, si è cercato di identificare varianti genetiche rare funzionali e quindi geni con un ruolo causale nell’eziologia di comportamenti impulsivi gravi. Si è scelto di analizzare una popolazione caso/controllo finlandese, essendo quella finlandese una popola-

zione fondatrice. Si ritiene che i Finlandesi discendano da due ondate migratorie, una risalente a 4000 ed una a 2000 anni fa. Il relativo isolamento di questo popolo nel corso della storia non ha modificato il pool genetico tanto che vi è un numero limitato di mutazioni per malattie geneticamente determinate. Le regioni codificanti di quattordici geni implicati nel metabolismo e meccanismo di azione dei neurotrasmettitori serotonina e dopamina sono state sequenziate in 96 maschi finlandesi autori di reati violenti ed in 96 controlli maschi di origine finlandese. I casi sono stati reclutati in carcere dove i soggetti presi in esame scontavano pene conseguenti a reati di omicidio, aggressioni e percosse o comportamenti incendiari. Per la gravità dei reati commessi questi individui sono stati valutati da un team di psichiatri forensi. I casi, fenotipicamente estremi, sono stati diagnosticati come affetti da Disturbo Antisociale e/o Borderline di Personalità e/o Disturbo Esplosivo Intermittente. Tutti i casi erano affetti da un Disturbo da Uso di Alcol. Le analisi hanno portato all’identificazione di un codone di stop (una variante genetica che interrompe la traduzione di RNA in proteina), HTRZB *20, nel gene HTR2B codificante il recettore 2B della serotonina. È stato possibile dimostrare che il recettore 2B della serotonina è espresso in almeno tredici aree del cervello umano adulto e che i portatori, eterozigoti, di questa variante esprimono una quantità pari a metà del recettore 2B. HTRZB *20 è stato quindi genotipizzato in una popolazione più ampia, anch’essa dalle caratteristiche descritte sopra, composta da 228 casi e 295 controlli. HTR2B *20 era tre volte più frequente negli autori di reati violenti rispetto ai controlli (p = 0.007) e co-segrega con patologie quali Disturbo Antisociale di Personalità in otto famiglie (p = 0.013). I 17 casi portatori eterozigoti per *20 sono stati condannati per crimini non premeditati commessi sotto influenza alcolica. L’associazione non è dovuta a stratificazione etnica. In un ampio campione epidemiologico, anch’esso analizzato per il codone di stop, è stata riscontrata una significativa riduzione delle performance al Working Memory Digit Span Forward and Backward Test nei maschi, ma non nelle femmine, portatrici di *20 ma normali dal punto di vista cognitivo. Inoltre HTR2B Q20* è stato genotipizzato su scala mondiale in > 3100 soggetti di diverse etnie ed in 5581 Finlandesi. HTR2B *20 (frequenza allelica 0.012) è stato identificato esclusivamente nella popolazione finlandese.

I dati di questo studio tuttavia non escludono che in altre popolazioni siano presenti diverse varianti funzionali nel gene HT RZB capaci di modulare il comportamento impulsivo. Indici di impulsività sono stati misurati nel topo mockout per il gene Hrr2b. I topi Htr2b ‘I’ si presentano più impulsivi dei topi Wild Type al Delay Discounting Task e presentano una risposta alterata a test di novelty seeking, come riscontrato anche nell’uomo. Questo studio dimostra le potenzialità dell’utilizzo di tecniche di sequenziamento di nuova generazione in popolazioni fondatrici e la possibilità di identificare e tracciare gli effetti di varianti alleliche rare in patologie complesse. Infine suggerisce un ruolo per il gene HT R2B nell’impulsività, fenotipo intermedio di molte patologie psichiatriche. • Bevilacqua L, Doly S, Kaprio J, et al. A population-specific HTR2B stop codon predisposes to severe impulsivity. Nature 2010; 468: 1061-6.

La World Psychiatric Association (WPA) ha recentemente pubblicato con la Wiley-Blackwell tre volumi sui rapporti tra la depressione e varie malattie fisiche (il diabete, le malattie cardiovascolari e i tumori). Sulla base di questi volumi sono stati prodotti tre set di slide. Le slide sono state tradotte in 16 lingue, compreso l’italiano, e sono disponibili sul sito web della WPA (www.wpanet.org). 6

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La WPA ha inoltre prodotto un Educational Module sulle patologie fisiche nelle persone con disturbi mentali. La prima parte del modulo è stata pubblicata nel fascicolo di febbraio 2011 della rivista World Psychiatry. La seconda parte sarà pubblicata nel fascicolo di giugno 2011 della stessa rivista. L’intero modulo è disponibile sul sito web della WPA.


Rapporti con le strutture del Servizio Sanitario Nazionale Linee di indirizzo del Collegio dei Professori universitari di I Fascia di Psichiatria Riunione del 18 febbraio 2011 in Roma

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a collocazione delle Cliniche Psichiatriche Universitarie nell’ambito delle strutture del Servizio Sanitario Nazionale e i rapporti con le Aziende Ospedaliere e Territoriali mostrano, nelle diverse Regioni Italiane una notevole eterogeneità, come è stato molto bene evidenziato nella ricerca condotta dal prof. Furlan e dai suoi collaboratori: si va da una situazione in cui le Cliniche Psichiatriche sono inserite nel Dipartimento di Salute Mentale (DSM) e nelle Aziende Territoriali ad una situazione in cui le Cliniche, inserite nelle Aziende Ospedaliere, non partecipano, se non in piccola parte, all’assistenza psichiatrica territoriale.

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Il Collegio degli psichiatri universitari, pur tenendo conto del progressivo sviluppo delle autonomie regionali in materia di sanità, ha ritenuto opportuno definire le seguenti linee di indirizzo generali, nell’ambito della regolamentazione dei rapporti tra Istituzioni Universitarie con compiti assistenziali e le strutture del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). 1. Le funzioni delle cliniche psichiatriche universitarie si realizzano essenzialmente nell’assistenza clinica, nella didattica dei corsi di laurea (triennali e magistrali) e delle scuole di specializzazione, e nella ricerca scientifica. Svolgono quindi un ruolo fondamentale e obbligatorio nella formazione dei medici, degli psichiatri e dei laureati nelle professioni sanitarie che svolgeranno la professione nelle strutture del SSN. 2. In questa prospettiva le cliniche psichiatriche esercitano parte della loro attività assistenziale, territoriale e ospedaliera, nell’ambito di DSM, e un’attività clinica non territoriale collegata alle proprie funzioni di didattica e di ricerca. Hanno sede istituzionale preferibilmente nelle Aziende Ospedaliero-Universitarie e, ove esistenti, afferiscono ai Dipartimenti Assistenziali Integrati, di cui possono assumere la direzione. Nel rispetto della legislazione regionale, le cliniche universitarie stabiliscono rapporti collaborativi con i DSM e le strutture dell’Azienda Territoriale, attraverso specifici protocolli d’intesa con le Aziende interessate, nell’ambito di convenzioni tra Università e Regioni. Nei protocolli di intesa vengono tutelate l’autonomia e la libertà di ricerca della componente universitaria, insieme alla possibilità di sperimen-

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tare e innovare nella clinica e nell’organizzazione dell’assistenza. Alle cliniche psichiatriche universitarie che svolgono parte dell’attività clinica nell’ambito del DSM, è assegnata almeno una delle Unità Operative Complesse che compongono il DSM; sono quindi dotate di un servizio di diagnosi e cura, di un centro di salute mentale e di strutture riabilitative residenziali, che rispondono alle necessità assistenziali di uno specifico territorio e del relativo bacino di utenza. Per gli utenti di questo territorio, le unità operative a direzione universitaria assicurano la presa in carico, il trattamento e il ricovero. Di norma, il direttore del DSM è nominato dal Direttore Generale dell’Azienda Territoriale tra i direttori delle unità operative complesse che fanno parte del DSM. Nei DSM in cui insiste un’unità operativa a direzione universitaria, il direttore del DSM è nominato dal Direttore Generale su indicazione o comunque in accordo con il Rettore e con il Preside della Facoltà di Medicina. Qualora l’unità operativa a direzione universitaria sia inserita nell’ambito di un’Azienda Ospedaliera (la maggior parte dei casi), il DSM è interaziendale, e il direttore del DSM è nominato dai Direttori Generali delle due Aziende, in accordo con il Rettore e con il Preside della Facoltà di Medicina. Il numero dei posti letto nei servizi di diagnosi e cura e nelle strutture residenziali, la dotazione di personale, le strutture territoriali e le funzioni assistenziali delle unità operative a direzione universitaria che fanno parte del DSM, sono definite in rapporto alla popolazione del territorio di competenza e sono commisurate a quelle a direzione non universitaria, e comunque non inferiori a queste. Resta inteso che la dimensione delle strutture universitarie dipende anche da altre esigenze, di carattere assistenziale, didattico e scientifico, come il numero di consulenze in ospedale, il trattamento di specifiche patologie, la numerosità degli studenti e degli specializzandi, l’entità dei finanziamenti per la ricerca. Le cliniche psichiatriche universitarie sviluppano, nell’ambito delle proprie funzioni, specifiche competenze ad alta specializzazione su determinate aree di interesse clinico, anche attraverso l’attivazione di servizi di psichiatria di consultazione, la psicooncologia, i trapianti d’organo, la psichiatria d’urgenza, i disturbi depressivi e le condotte suicidarie, i disturbi dell’alimentazione, casi complessi con comorbilità somatiche. Tali attività sono “sovraterritoriali” e, in relazione a queste, le cliniche psichiatriche universitarie dispongono di letti aggiuntivi, per ricovero ordinario e/o day hospital, oltre ai letti previsti per il territorio di competenza. Le scuole di specializzazione in psichiatria, secondo quanto previsto dagli ordinamenti didattici, regolano la formazione degli iscritti con le frequenze nelle strutture universitarie e territoriali che fanno parte della rete formativa. Per le proprie competenze nel campo della didattica e della formazione, la psichiatria universitaria assume un ruolo specifico di coordinamento nella pianificazione dell’attività for mativa del DSM. • Didatticamente

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Qualche domanda sull’ANVUR A colloquio con Giuseppe Novelli Abbiamo rivolto alcune domande al Prof. Novelli, illustre genetista e scienziato di grandissime qualità, Preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia di Roma Tor Vergata, che è stato nominato componente del Direttivo dell’Agenzia Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario e degli Enti di Ricerca (ANVUR). È tra l’altro Membro AERES (Francia). Quali sono i compiti dell’ANVUR? L'ANVUR è un ente pubblico e vigilato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) incaricato dei seguenti compiti: a. esecuzione di un programma di valutazione esterna della qualità delle attività delle università e degli enti di ricerca pubblici e privati destinatari di finanziamenti pubblici; b. indirizzo delle attività di valutazione demandate ai nuclei di valutazione interna degli atenei e degli enti di ricerca; c. valutazione dell’efficienza e dell’efficacia dei programmi pubblici di finanziamento e di incentivazione alle attività di ricerca e di innovazione. La legge 240/2010 all’articolo 5, attribuisce all'ANVUR il compito di indicare i criteri per realizzare una valutazione delle politiche di reclutamento ex post e delle strutture di didattica e di ricerca suggerendo un modello premiante dei comportamenti migliori e disincentivante di quelli peggiori capace di avere ricadute concrete sul finanziamento. Infatti una quota non superiore al 10% del fondo di funzionamento ordinario sarà correlata a “meccanismi di valutazione delle politiche di reclutamento degli atenei elaborati proprio dall’Anvur in base a diversi indicatori. Quali criteri verranno adottati per l’attività di valutazione? Sono da definire, ma naturalmente abbiamo esperienze consolidate internazionali e in parte nazionali con l’esperienza del CIVR. Certamente dovranno essere adottati strumenti innovativi ma anche flessibili che tengano conto dei seguenti parametri fondamentali: successo nei progetti presentati, numero e qualità dei prodotti (pubblicazioni, brevetti, joint-projects, ecc.); produttività e improduttività.

Naturalmente bisognerà adattare i criteri ai diversi settori disciplinari e tenere conto delle diverse tipologie culturali e scientifiche dei singoli Enti di ricerca. E per quanto concerne valutazione e finanziamenti? A regime il sistema di valutazione dovrebbe rappresentare il riferimento per la quota parte premiante del FFO del Ministero e poi secondo me costituire un elemento di valutazione da parte dei revisori di progetti o per l’accesso ai progetti su grande scala (come in Francia dove l’AERES, l’omologo francese dell’ANVUR) è oggi

NEWSLETTER del COLLEGIO DEI PROFESSORI DI PSICHIATRIA

Presidente: Alberto Siracusano, Roma Segretario: Secondo Fassino, Torino Tesoriere: Diana De Ronchi, Bologna

Anno II, gennaio-giugno 2011 Registrazione del Tribunale di Roma ISSN 2038-4645

un riferimento standard. Nello specifico (medicina) bisognerà poter disporre finalmente di una valutazione unica, riconosciuta, che possa essere presa in considerazione anche per le valutazioni da parte del Ministero della Salute e dalle regioni per quanto attiene ai rapporti tra policlinici universitari e sistema salute regionale. La qualità dei policlinici deve emergere in modo chiaro e netto su livelli indiscutibili di qualità rispetto agli altri enti ospedalieri. I parametri che saranno scelti dall’ANVUR potranno essere utili anche a questo scopo. •

Il Pensiero Scientifico Editore Via San Giovanni Valdarno 8 00138 Roma Tel. (+39) 06 862821 Fax: (+39) 06 86282250 E-mail: pensiero@pensiero.it Internet: http://www.pensiero.it

Direttore Responsabile: Giovanni Luca De Fiore Redazione: Manuela Baroncini Progetto grafico: Antonella Mion Stampa: Arti Grafiche Tris srl, Roma Prezzo: Fascicolo singolo € 10,00

LE IMMAGINI IN QUESTO NUMERO RIPRODUCONO OPERE DI JAUME PLENSA (1955): Dialogue, 2009 (p. 1); Autorretrato, 2006 (p. 2); Latent I, 2007 (p. 3); Twins I e II, 2009 (p. 4); Sho 3, 2007 (p. 5); Anonymous, 2005 (p. 6, in alto); Heart of trees, 2007 (p. 6, in basso); Twenty-nine palms, 2007 (p. 7, in alto); God, sex?, 2002 (p. 7, in basso).

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