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BOLLETTINO DEL COLLEGIO DEI PROFESSORI DI PSICHIATRIA DELLE UNIVERSITÀ ITALIANE MED25
Formazione medica specialistica Al Sig. Ministro dell’Università e della Ricerca Scientifica Al Prof. Giuseppe Pizza Al Sen. Guido Viceconte All’Avv. Vincenzo Nunziata Al Prof. Alessandro Schiesaro Al Dott. Daniele Livon Ai Componenti la Commissione Parlamentare “Cultura” Ai Componenti la Commissione Parlamentare “Affari Sociali” E p.c. Al Sig. Ministro della Salute Roma, 18 settembre 2011 Abbiamo appreso in data 16 settembre u.s. dell’emendamento del Ministero della Salute all’AC 4274, con il quale si modifica drammaticamente la formazione specialistica di area medica. Il Collegio dei Professori del SSD MED/25 Psichiatria esprime all’unanimità sconcerto per tale emendamento che di fatto stravolge l’attuale percorso formativo specialistico che poneva al centro della formazione l’acquisizione graduale dell’autonomia gestionale sotto la guida di docenti universitari, nel pieno rispetto dell’apprendimento progressivo e tutorato delle conoscenze, delle abilità e dei comportamenti relazionali. Il Collegio dei Professori del SSD MED/25 Psichiatria sottolinea inoltre con preoccupazione come l’accorciamento del percorso formativo dei futuri psichiatri produrrà – a causa dell’incompleta acquisizione delle competenze psicoterapeutiche collocate negli ultimi anni di corso e caratterizzanti le attitudine alla prescrizione farmacologica insieme alla programmazione riabilitativa – gravi conseguenze sulla qualità, appropriatezza ed eticità delle cure specialistiche sia nell’area della psichiatria che nell’area della psichiatria di liaison e della medicina psicosomatica. Tali effetti negativi saranno subito a loro volta causativi di peggioramento del rapporto costi/risultati con aumento dei ricoveri e aggravio degli aspetti economici. Appaiono infatti irrealizzabili alla luce di questo emendamento quegli step formativi e valutativi che avevano consentito la modernizzazione, in chiave internazionale, del percorso specialistico post laurea. Mancherà una reale verifica dell’apprendimento delle competenze e delle capacità cliniche; il Docente ed il Tutore non potranno valutare giornalmente la progressione dello specialista in formazione attraverso valutazioni complete e scrupolose in itinere.
Lo specializzando appare altresì nell’emendamento divenire un dipendente a tempo definito del Servizio Sanitario Nazionale, senza quelle garanzie che la riforma delle Scuole di Specializzazione aveva sottolineato come indispensabili (rete formativa con docenti con definiti compiti didattici e requisiti scientifici). L’emendamento infatti recita: “A partire dal terzo anno di corso … (gli specializzandi vengono inseriti)… all’interno delle attività ordinarie delle unità operative delle aziende sanitarie ...”. Non esistono quindi garanzie sugli aspetti formativi, né sulle valutazioni dell’operato svolto dagli specializzandi. In molti casi gli specializzandi potrebbero coprire ruoli vuoti dovuti a carenza di organico. Tutto ciò, peraltro, rischia di avere conseguenze rilevanti sul piano delle garanzie per il cittadino utente del SSN, il quale ha il pieno diritto di esigere che i processi diagnostici e terapeutici a cui verrà sottoposto vengano effettuati da personale medico che, essendo in formazione, agisca, per quanto in autonomia, sotto una costante e stretta supervisione da parte dei rispettivi docenti. L’utilizzo dei medici specializzandi come sostanziale sostitutivo di personale specialistico già formato, che sembra costituire la ratio occulta dell’emendamento per sopperire alle carenze di organico del SSN, costituisce dunque un potenziale rischio per gli utenti e una facilmente immaginabile fonte di ulteriore contenzioso medico legale, peraltro con una ingiusta sovraesposizione del medico in formazione in sede penale e civile, e con inimmaginabili riflessi in tema di responsabilità da parte delle amministrazioni. E occorre anche considerare l’assenza di conformità del provvedimento con le disposizioni formative Europee in materia di specializzazione. Questo emendamento cancella con poche righe il lungo lavoro condotto in questi ultimi anni, in risposta alle direttive Europee, dai Collegi, dalle Società scientifiche di tutti i settori scientifico-disciplinari e dal Ministro dell’Università e della Ricerca Scientifica attraverso l’Osservatorio sulle Scuole di Specializzazione. Un percorso formativo specialistico carente/insufficiente verrebbe pagato ad alto prezzo dalle generazioni future, anche in termini di salute pubblica. Ci uniamo alla richiesta di Andrea Lenzi Presidente del Consiglio Universitario Nazionale, il quale sottolinea la necessità che le Scuole di Specializzazione “Restino nell’ambito dei percorsi della formazione universitaria con un contatto stretto fra specializzandi e Atenei per mantenere il «pieno valore a livello europeo» del titolo”. Il Collegio dei Professori del SSD MED/25 Psichiatria auspica che il Sig. Ministro dell’Università e della Ricerca
Scientifica intervenga con forza contro questo emendamento all’AC 4274 proposto dal Ministro della Salute che cancella di fatto l’apprendimento progressivo e tutorato delle conoscenze e delle abilità degli Specializzandi. Il Collegio infine invita il Sig. Ministro dell’Università e della Ricerca Scientifica a concordare altresì con il Ministro della Salute un percorso che garantisca una formazione specialistica post laurea di livello Europeo con acquisizione graduale dell’autonomia gestionale sotto la guida di docenti universitari in un rapporto stretto fra Specializzandi ed Atenei. Nel ringraziarVi per l’attenzione, inviamo distinti ossequi. Il Collegio dei Professori di Psichiatria di prima fascia Alberto Siracusano Presidente del Collegio
IN QUESTO NUMERO
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Formazione medica specialistica
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Art. 13 del Disegno di Legge in materia di formazione medica specialistica
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Intercollegio: sulla formazione medica specialistica
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Più psichiatria per la formazione del futuro medico Secondo Fassino, Giovanni Abbate Daga
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Autonomia e consenso all’atto medico Francesco D’Agostino
Realizzato con il contributo di
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XVI LEGISLATURA
N. 2935
Intercollegio: sulla formazione medica specialistica
DISEGNO DI LEGGE
presentato dal Ministro della Salute (FAZIO) di concerto con il Ministro per i Rapporti con le Regioni e per la Coesione territoriale (FITTO) e con il Ministro dell’Economia e delle Finanze (TREMONTI) (V. Stampato Camera n. 4274)
Approvato dalla Camera dei deputati il 28 settembre 2011 Trasmesso dal Presidente della Camera dei deputati alla Presidenza il 29 settembre 2011
Delega al Governo per il riassetto della normativa in materia di sperimentazione clinica e per la riforma degli ordini delle professioni sanitarie, nonché disposizioni in materia sanitaria. Art. 13. (Disposizioni in materia di formazione medica specialistica) 1. Con accordo stipulato in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, su proposta dei Ministri della salute e dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono definite le modalità, anche negoziali, per l’inserimento dei medici in formazione specialistica, ammessi al biennio conclusivo del corso, all’interno delle aziende del Servizio sanitario nazionale costituenti la rete formativa di cui all’articolo 35 del decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 368, e successive modificazioni, comunque senza mutamento della natura giuridica del rapporto di formazione specialistica e fermo restando che il relativo contratto non può dare in alcun modo diritto all’accesso ai ruoli del predetto Servizio sanitario nazionale né all’instaurazione di alcun rapporto di lavoro con lo stesso. La valutazione finale del medico in formazione specialistica resta di competenza della scuola di specializzazione. 2. L’inserimento dei medici in formazione specialistica nelle aziende del Servizio sanitario nazionale avviene su base volontaria, non può dare luogo a indennità, compensi o emolumenti comunque denominati, diversi anche sotto il profilo previdenziale da quelli spettanti a legislazione vigente ai medici specializzandi, e comporta la graduale assunzione delle responsabilità assistenziali secondo gli obiettivi definiti dall’ordinamento didattico del relativo corso di specializzazione. 3. L’accordo di cui al comma 1 disciplina altresì la partecipazione del medico in formazione alle attività ordinarie delle unità operative di assegnazione, nonché le modalità per consentire l’applicazione delle nuove disposizioni anche ai medici in formazione alla data dell’accordo medesimo. 4. All’attuazione dei commi 1, 2 e 3 si provvede nei limiti delle risorse e secondo le procedure previste dalla legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. • 2
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ggi, Lunedì 26 Settembre c.a., si è riunito l’Intercollegio dei Professori di Medicina, Area 06, unitamente al Rettore dell’Università “La Sapienza” di Roma, Prof. Luigi Frati, al Presidente del CUN Prof. Andrea Lenzi, al Presidente della Conferenza dei Presidi delle Facoltà di Medicina e Chirurgia, Prof. Eugenio Gaudio e al Coordinatore Osservatorio MIUR, Prof. Aldo Pinchera. È stata esaminata l’ultima versione del testo dell’emendamento intitolato “Disposizioni in materia di formazione medico specialistica”. All’unanimità è stato espresso dissenso sul contenuto di tale testo che stravolge il processo formativo dello specializzando. Viene espresso pieno accordo sull’O.d.G. elaborato nell’incontro tra il Ministro Fazio, il Presidente della Commissione Parlamentare On. Giuseppe Palumbo, la relatrice del provvedimento On. Melania De Nichilo ed il Presidente della Conferenza permanente dei Presidi delle Facoltà di Medicina e Chirurgia, Prof. Eugenio Gaudio, che impegni il Governo, in relazione alla disciplina per la costituzione della rete formativa delle Scuole di Specializzazione dell’area medica, sui seguenti punti – permanenza delle Scuole nell’ordinamento universitario, con contratto-tipo proposto dal Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca; – attivazione-accreditamento di una rete formativa, individuata in ogni Regione con atto congiunto Università-Regione, che dia luogo ad una effettiva professionalizzazione, riservando agli specializzandi una quota delle attività a loro responsabilità, progressivamente individuate dal Consiglio della Scuola;
– accreditamento delle singole strutture per far parte della rete formativa fondato sulla effettiva qualità e quantità delle specifiche attività; – che lo specializzando nell’acquisire progressivamente le prescritte abilità professionali debba svolgere atti medici e - per lo specifico settore - anche chirurgici in prima persona esprimendo peraltro la preoccupazione che l’attività di specializzazione sia utilizzata impropriamente per vicariare le piante organiche delle strutture ospedaliere e impegnando il Governo perché nei decreti attuativi si tengano in massima considerazione le esigenze degli specializzandi, che debbono avere una formazione professionalizzante in analogia con i paesi europei, e non debbono comunque essere utilizzati come “forza lavoro” di qualificazione iniziale a decremento delle piante organiche ospedaliere. Alla luce di ciò si ritiene che l’emendamento in questione possa essere modificato come segue:
Emendamento
1.
2.
3.
4.
Art. (Disposizioni in materia di formazione medico specialistica) Con accordo stipulato in sede di Conferenza permanente tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, su proposta dei Ministri dell’istruzione, dell’università e della ricerca e della salute, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono definite le modalità, anche negoziali, per l’inserimento dei medici in formazione specialistica ammessi almeno al biennio conclusivo del corso, all’interno delle aziende del Servizio sanitario nazionale costituenti la rete formativa, da istituire in ogni Regione con atto congiunto Università-Regione. L’inserimento dei medici in formazione specialistica nelle aziende del Servizio sanitario nazionale avviene su delibera del Consiglio della Scuola, sentita la componente studentesca facente parte del Consiglio stesso, non può dar luogo a indennità o corrispettivi, comunque denominati, diversi da quelli spettanti a legislazione vigente e comporta la graduale assunzione delle responsabilità assistenziali secondo gli obbiettivi definiti dall’ordinamento didattico del relativo corso di specializzazione, come approvati dal Consiglio della Scuola. L’accordo di cui al comma 1 disciplina altresì la partecipazione del medico in formazione alle attività ordinarie delle unità operative di assegnazione, nonché le modalità per consentire l’applicazione delle nuove disposizioni anche ai medici attualmente in formazione alla data dell’accordo medesimo; le strutture facenti parte della rete formativa debbono riservare almeno il 20% delle attività ordinarie alla diretta responsabilità dei medici in formazione. Dall’attuazione dei commi 1, 2 e 3 non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Nicola Basso Presidente Intercollegio Associazione nazionale dei Professori universitari delle facoltà mediche
Più psichiatria per la formazione del futuro medico
Secondo Fassino, Giovanni Abbate Daga con la collaborazione di Giulia Notaro e Luisa Ottone
Sezione di Psichiatria Dipartimento di Neuroscienze, Università di Torino
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a pratica medica per la medicina di base e specialistica nel futuro prossimo sembra orientarsi con decisione verso un approccio alla persona che ha una malattia, e sempre meno ad un malato o ad un organo malato. Gli aspetti biologico-genetici, quelli psicologici e quelli socio-culturali appaiono interconnessi e inseparabili nei percorsi diagnostici, di cura e di prevenzione. Le modalità di coping nei confronti della malattia sono specifiche per ogni tipo di personalità, come insieme di aspetti geneticobiologici (temperamento), e di aspetti di memoria e apprendimento relazionale (carattere)1,2. La personalità condiziona il processo patogenetico e la prognosi3. Questi orientamenti appaiono determinanti ai fini dell’efficacia degli interventi, in considerazione degli aspetti etici e persino in termini di economia sanitaria. Su questi temi hanno fornito evidenze 450 contributi di ricercatori e clinici riuniti a Torino nel 2009 per il 20th World Congress on Psychosomatic Medicine4. Borrel-Carrio F et al.5 hanno riassunto in cinque punti la complessità dei sistemi in medicina: 1. Un’alterazione biochimica non provoca direttamente una malattia. 2. Vi è un significato dei sintomi per il paziente che influenza i meccanismi dello stress. 3. Adottare il ruolo di malato non è necessariamente associato alla presenza di un problema biologico. 4. Il successo della maggior parte delle terapie biologiche è influenzato dai fattori psicosociali e le relazioni interpersonali hanno effetti biologici6-9. 5. I pazienti sono influenzati dal modo in cui sono esaminati e il modo in cui i ricercatori sono coinvolti nello studio dipende dai pazienti.
Il modello biopsicosociale per la nuova medicina Il modello biopsicosociale (BPS) supera l’illusione di modelli causativi unidirezionali e lineari e adotta il modello della complessità, non solo per la psichiatria10, ma per la medicina11. A supporto della medicina BPS si sono aggiunte le osservazioni di E. Kandel, psichiatra e neurobiologo, premio Nobel della medicina nel 2000 per gli studi sulla plasticità sinaptica, sui meccanismi cellulari, molecolari e genetici della memoria8, sulla complessità dell’interazione geneambiente. I geni non spiegano da soli tutte le varianti delle malattie. Un importante contributo è quello dei fattori so-
a. valutazione di fattori psicosociali che influenzano la vulnerabilità individuale (eventi di vita, stress cronico e carico allostatico, benessere e attitudini legate allo stato di salute), b. valutazione dei correlati psicologici della malattia medica (disturbi psichiatrici, sintomi psicologici, comportamento di malattia, qualità della vita), c. applicazione di terapie psicologiche alla malattia medica (modificazioni dello stile di vita, trattamento della comorbilità psichiatrica, comportamento anomalo di malattia). La sintomatologia depressiva clinicamente rilevante si riscontra nel 42% dei pazienti affetti da cancro16, nel 34% dei pazienti affetti da ictus17, nel 32% dei pazienti affetti da Morbo di Parkinson18, nel 27% dei pazienti affetti da diabete19, nel 23% dei pazienti affetti da patologie cardiache20. A livello mondiale (WHO, 2007), pazienti con diagnosi ICD-10 di depressione e patologie croniche (asma, angina, artrite e diabete) hanno evidenziato punteggi significativamente inferiori di condizioni generali di salute rispetto ai pazienti con le stesse patologie ma senza depressione. d. Medically unexplained symptoms (MUS). La prevalenza di pazienti che soffrono di sintomi somatici spesso cronici di cui però non si riescono a trovare plausibili cause mediche (i cosiddetti MUS) è molto alta negli ambulatori medici, soprattutto della medicina di base; da un terzo alla metà dei pazienti della medicina di base presenta MUS21 e circa il 40% ha sindromi psichiatriche non riconosciute o disturbi psichici subclinici21-23. Un esempio importante del ruolo clinico e sociale dell’associazione fra aspetti psicologici e malattie mediche è il rapporto fra depressione e patologie cardiovascolari, due fra i disturbi più diffusi nel mondo occidentale. Due lavori di metanalisi hanno esaminato il valore predittivo della depressione nell’insorgenza di patologie cardiovascolari24,25. Entrambe le metanalisi sono state effettuate sulla letteratura del periodo 1966-2000 sul rischio di sviluppare patologie cardiovascolari in un arco di tempo di 4 anni in soggetti di comunità senza disturbi cardiaci ma “esposti” a depressione. ll rischio relativo è stato stimato in un range da 0,98 a 3,5, con un rischio medio di 1,64, superiore a quello determinato dall’esposizione a fumo passivo (pari a 1,25). I risultati quindi affermano l’esistenza di un rischio importante di vulnerabilità a malattie cardiache in presenza di depressione, con una relazione dose-risposta, poiché i soggetti con depressione maggiore hanno fatto registrare un rischio quasi doppio rispetto ai soggetti con umore normale. L’associazione è risultata significativa anche invertendo i termini del rapporto, ossia analizzando la comparsa di depressione dopo l’episodio infartuale cardiaco acuto, stimata in un range dal 6% al 41% sia nel primo mese sia dopo 3 anni26. I pazienti che sviluppano depressione dopo l’infarto hanno, rispetto agli altri pazienti infartuati, un rischio più elevato di avere ulteriori episodi infartuali nel tempo ma soprattutto un rischio da 2 a 2,5 volte maggiore di mortalità cardiaca sia nel breve sia nel lungo periodo, indipen-
ciali e dello sviluppo. Questi ultimi modificano l’espressione genica, non nel senso di una modifica nella sua sequenza, ma perché incidono sulla funzione trascrizionale del gene, verso la formazione di specifiche proteine. Come una combinazione di geni contribuisce al comportamento, anche quello sociale, così questo agisce sul cervello modificando l’espressione genica e quindi la funzione delle cellule. Ciò spiega come le relazioni significative, come quella medico-paziente, producono cambiamenti nel comportamento e nelle cellule (e viceversa), presumibilmente attraverso l’apprendimento, producendo cambiamenti nell’espressione genica. Studiando numero di sintomi fisici e presenza di disturbi psicopatologici in una coorte di 1000 pazienti afferenti a quattro cliniche nordamericane di medicina di base è emerso chiaramente che la probabilità di avere un disturbo psicopatologico aumenta in modo esponenziale in rapporto all’incremento di sintomi fisici12. In alcune patologie croniche (diabete, malattia aortocoronarica, cardiomiopatia dilatativa congestizia, asma, artrosi, broncopneumopatia cronica ostruttiva e artrite reumatoide)13 è stato riscontrato un rapporto dose-risposta in associazione ad ansia e depressione: pazienti affetti da patologie croniche e con comorbilità psicopatologica accusano maggiori sintomi fisici rispetto ai pazienti con le stesse patologie mediche ma senza psicopatologia. All’interno di un progetto epidemiologico europeo, un gruppo di ricercatori ha analizzato il database relativo a oltre 20.000 soggetti adulti della contea di Norfolk e ha riscontrato cifre allarmanti per quanto riguarda il rapporto fra disturbi psicologici e ricoverati ospedalieri per asma su un periodo di 7 anni. Corretto per età, sesso, livello socioeconomico, salute fisica e stile di vita, il rischio di essere ricoverato per disturbi asmatici acuti è più elevato del 40% nei soggetti con disturbi dell’umore, del 30% in coloro con almeno due circostanze avverse nell’infanzia (separazione materna per oltre un anno, divorzio dei genitori, lungo periodo di disoccupazione forzata dei genitori, tossicodipendenza o alcolismo in uno dei genitori, abuso fisico, ecc.) e ancora del 30% per i soggetti con esperienze negative di supporto ricevuto da persone affettivamente vicine14. Le macroaree di Novach et al.15 (si veda grafico in basso) rivestono particolare interesse clinico e di ricerca nei seguenti ambiti:
Il modello BPS è una prospettiva diagnostica e di ricerca ma anche terapeutica fondata sulla relazione tra paziente e clinico: si deve accordare più importanza al paziente nel processo clinico e trasformare il ruolo del paziente da passivo oggetto di studio a soggetto e co-protagonista dell’atto clinico.
Il Modello Biopsicosociale I punti nodali della rete (Engel 1979)
PSICOLOGICO PSICO/COMPORTAMENTALE
PSICO/BIOLOGICO Psicobiologia dello sviluppo Basi genetiche del comportamento Influenze ambientali Psicofisiologia Stress Psicobiologia
BIOLOGICO
BIOPSICOSOCIALE Patologia acuta Patologia cronica Dolore Disturbi dell’umore Dipendenze
Comportamenti salutari (dieta) Motivazione al cambiamento Acquisizione di comportamenti Psicodinamica Stili di personalità Psicologia di sviluppo
COMPORTAMENTALE SOCIALE/COMPORTAMENTALE
SOCIALE/BIOLOGICO
Determinanti di salute familiari/sociali/culturali/economici Disparità nell’assistenza sanitaria Effetti della relazione medico-paziente Classe sociale, status
Conseguenze biologiche dell’isolamento sociale e povertà Effetti protettivi del supporto sociale, del capitale sociale, della religiosità e dell’adesione della comunità
SOCIALE/CULTURALE/ECONOMICO Novach et al, 2007
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dentemente dagli altri fattori di rischio e dalla mortalità di valutazione della depressione (questionario autosomministrato o intervista). In particolare, il rischio diventa significativo non immediatamente (nei primi 6-12 mesi) ma su periodi di tempo più lunghi27, implicando l’esistenza di fattori psicosociali di adattamento che vanno oltre la psicopatologia in senso stretto. La serietà del rischio costituito dalla presenza di depressione è data anche dal fatto che nei pazienti depressi il tasso di rischio non è specifico solo per la mortalità cardiaca ma anche per tutte le altre cause di morte, come evidenziato in un recente survey epidemiologico molto accurato su oltre 61.000 soggetti di popolazione generale28. Le ragioni di questo stretto legame fra depressione, patologie cardiovascolari e mortalità sono tante e chiamano in causa meccanismi multipli e complessi, come fattori biologici (ipertensione, ipercolesterolemia, dislipidemia, sedimentazione di placche nelle arterie, processi infiammatori, bassa variabilità del battito cardiaco, tossicità cardiaca degli antidepressivi), stile di vita (fumo, consumo di alcol, scarsa attività fisica, obesità) e comportamento di malattia (scarsa aderenza al trattamento, scarsa attenzione per le proprie condizioni di salute29). Anche la teoria immunologica della depressione supporta l’importanza del modello BPS per la medicina e non solo per la psichiatria. Da poco più di dieci anni si sta affiancando l’ipotesi secondo cui il meccanismo proinfiammatorio coinvolto in numerose patologie mediche (diabete di tipo 2, artrite reumatoide, epatite C, oltre appunto ai disturbi cardiovascolari – tutti con elevata comorbilità depressiva) sia anche all’origine della depressione maggiore in soggetti predisposti. Secondo la “teoria immunologica della depressione” le citochine proinfiammatorie – in particolare le interleuchine di tipo (alfa, beta e 6, e il tumor necrosis factor (TNFalfa) – sono responsabili non solo delle reazioni acute in risposta ai pericoli tossici ma anche di molti aspetti della depressione maggiore, come l’iperattività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrenale, l’alterazione del metabolismo della serotonina e i sintomi neurovegetativi (diminuzione degli interessi e del piacere, rallentamento psicomotorio, riduzione dell’appetito, alterazione del ritmo sonno-veglia, isolamento sociale30,31). In questo caso, quindi, il fenomeno clinico è dovuto a un insieme di fattori cardiologici, comportamentali, psicologici, depressivi, immunitari, alimentari, ecc. talmente complesso e intricato che parlare di associazione semplice di eventi singoli (infarto e depressione, depressione e comportamento di malattia, infarto e comportamento di malattia) non e solo riduttivo ma anche fuorviante in sede terapeutica.
Proiezione disabilità e peso di malattia dal 2002 al 2030 Già al presente la depressione è la prima causa di disabilità al mondo e nei soli Stati Uniti richiede annualmente 83 miliardi di dollari32. La cura della depressione nei pazienti affetti da malattie somatiche negli anni migliora i sintomi somatici e anche i risparmi: i pazienti diabetici con supporto psichiatrico rispetto ai pazienti curati con le cure usuali, in 5 anni, costano al sistema sanitario americano circa 4000 $ in meno a paziente13. Estrapolando i dati attuali in proiezione, è possibile delineare uno scenario per il 2030 con le 10 cause principali di DALY (Disability Adjusted Life Years: anno di vita in salute compromesso dalla malattia) nel mondo nei paesi ricchi e in quelli poveri33. Anche in questo caso, si nota come i fattori biologici e sociologici si intreccino reciprocamente. Nel mondo, le prime tre cause di DALY sono costituite da HIV/AIDS, depressione maggiore e ischemia del miocardio. Ma la situazione cambia notevolmente a seconda del livello economico dei paesi considerati. Fra le prime cinque cause principali, infatti, nei paesi ricchi compaiono depressione maggiore (al primo posto) seguita da ischemia del miocardio e malattie neurodegenerative come l’Alzheimer e subito dopo abuso di alcol (4°) e diabete mellito (5°), ossia malattie connesse strettamente ad alcuni comportamenti legati alla personalità e stile di vita e/o con importante carico oggettivo e soggettivo sui parenti/caregivers. Nei paesi poveri, invece, le prime tre cause sono HIV/AIDS, fattori perinatali e depressione maggiore, a cui seguono dissenteria e malaria, ossia malattie legate a fattori sociali e biologici causati dalla povertà. 4
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La dinamica delle malattie nel mondo è difficilmente spiegabile secondo il modello biomedico tradizionale se non si tiene conto dell’intervento determinante dei fattori psicosociali, ossia delle caratteristiche socioeconomiche delle varie realtà geopolitiche e dei modelli di comportamento collettivo. Ciò spiega il motivo per cui nei paesi in via di sviluppo la prevalenza delle patologie e le cause maggiori di disabilità e di morte sono differenti da quelle dei paesi sviluppati. Nel complesso i disturbi neuropsichiatrici da soli con i comportamenti intenzionalmente autolesivi costituiranno da qui al 2020 il 26% di tutte le cause di disabilità nei paesi occidentali34. Il dato è elevato e non vengono considerati i fattori psicosomatici connessi alle malattie organiche11. La situazione italiana è in linea con i dati mondiali dei paesi occidentali. In definitiva, un approccio BPS è cruciale nel curare i pazienti con malattie somatiche e contribuisce al trattamento terapeutico e/o alla riabilitazione da specifici interventi complessi, quali sempre più spesso vengono proposti grazie ai progressi continui della scienza medica (trapianti d’organo, protesizzazione, fecondazione artificiale, ecc.). Un approccio BPS alla medicina può pertanto offrire un’importante opportunità ai futuri medici per comprendere modelli causativi complessi e sviluppare nuovi approcci integrati alle cure. Per una medicina più efficace occorre includere nella formazione del giovane medico la capacità di valutare e trattare anche fattori psicosociali e familiari. La medicina BPS migliora la qualità e l’efficacia dei trattamenti, modifica i costi diretti ed indiretti dell’assistenza e fornisce conoscenze al medico per far fronte alla sofferenza, alla cronicità dei disturbi e alla morte, riducendo il burn out. Inoltre il modello BPS di Engel fornisce strumenti di ricerca moderni ed efficaci che includono variabili afferenti a diversi settori della medicina35,36. 1. È considerata l’esperienza soggettiva del paziente accanto ai dati oggettivi biomedici: è essenziale l’approccio alla persona e non soltanto alla malattia. La ricerca psicosomatica ha fornito un modello più integrato, mostrando che paura, rabbia, negligenza e attaccamento hanno effetti fisiologici e di sviluppo su tutto l’organismo. 2. I fenomeni clinici sono osservabili secondo due processi: • causalità circolare: una serie di circoli di feedback sostengono uno specifico pattern comportamentale nel tempo; • causalità strutturale: c’è una gerarchia di relazioni causa-effetto unidirezionali – cause necessarie, precipitanti, forze di mantenimento e combinazioni di eventi. 3. Le cure mediche sono centrate sulla relazione. Il modello BPS è una prospettiva diagnostica e terapeutica fondata sulla relazione paziente-clinico. Insegnare la medicina BPS Pertanto insegnare agli studenti la medicina BPS – anche per la ricerca – ha due principali significati: 1. introduce un modello causale circolare delle conoscenze mediche che vorrebbe essere più naturalistico e comprensivo del modello riduzionistico semplicemente lineare. I fenomeni clinici sono osservabili secondo processi di causazione circolare e strutturale gerarchica. Il modello di causalità circolare descrive come una serie di circoli di feedback sostengano uno specifico pattern di comportamento nel tempo. La complessità della medicina è un tentativo di capire queste proprietà e le loro interrelazioni che possono essere cambiate da un adeguato intervento (supporto famigliare e medico per la schizofrenia; controlli per la depressione e per il livello di colesterolo dopo un infarto). 2. Sottolinea che le cure mediche sono centrate sulla relazione, anche come fattore biologico. La recente scoperta dei mirror neurons9 conferma la processazione neurobiologica dei meccanismi relazionali. Il modello BPS è una prospettiva diagnostica e di ricerca ma anche terapeutica fondata sulla relazione tra paziente e clinico: si deve accordare più importanza al paziente nel pro-
cesso clinico e trasformare il ruolo del paziente da passivo oggetto di studio a soggetto e co-protagonista dell’atto clinico. A questo riguardo le abilità di un clinico comprendono il mandato etico non solo di cercare di scoprire quello che concerne il paziente, ma anche di influenzare il comportamento del paziente. Spesso il medico deve considerare e non nascondere i correlati psicosociali di sintomi somatici non spiegati per rompere il circolo di medicalizzazione e di iatrogenesi. I compiti relazionali del medico in ogni ambito della sua attività dovrebbero riguardare la propensione a creare fiducia, a sviluppare empatia, coltivare la curiosità del paziente, educare le emozioni, utilizzare intuizioni “informate”, comunicare con competenza prove cliniche, riconoscere gli errori, ecc. Il medico dovrebbe essere capace di una continua verifica di se stesso semplicemente perché la sua performance non è sempre la stessa. In conclusione, il rinnovamento e la modernizzazione della medicina devono considerare che il linguaggio della psichiatria ed il linguaggio della biologia coinvolgono due diversi livelli di discorso quando lavorano con un paziente. Il futuro medico (clinico e ricercatore) con una preparazione BPS deve essere quindi concettualmente bilingue. La dinamica delle malattie nel mondo è difficilmente spiegabile secondo il modello biomedico tradizionale se non si tiene conto dell’intervento determinante dei fattori psicosociali, ossia delle caratteristiche socioeconomiche delle varie realtà geopolitiche e dei modelli di comportamento collettivo. Ciò spiega il motivo per cui nei paesi in via di sviluppo la prevalenza delle patologie e le cause maggiori di disabilità e di morte sono differenti da quelle dei paesi sviluppati. E spiega anche il motivo per cui i maggiori fattori di rischio per mantenimento nel tempo dei sintomi, disabilità e morte sono di tipo comportamentale; ciò ci impone una prospettiva di indagine e di intervento di natura multifattoriale. È quindi il momento di promuovere una mirata formazione alla ricerca e all’insegnamento nella direzione della nuova medicina, di per sé BPS4. Attualmente nell’ordinamento del curriculum di studi solo l’insegnamento della psichiatria sembra in grado di proporre, attuare e coordinare questa formazione multidisciplinare basata sulla conoscenza degli intrecci biologici, psicologici e relazionali coinvolti nei processi che regolano la salute e la patologia dell’individuo.
È necessaria più psichiatria nel curriculum formativo del nuovo medico Shapiro37 ha proposto per i giovani medici un modello di educazione all’empatia “to learn to walk at least a mile in the patient’s shoes”. Questo sottolinea il bisogno di un paradigma epistemologico che aiuti i tirocinanti a sviluppare la tolleranza all’imperfezione, in sé e negli altri e ad accettare di condividere la vulnerabilità emotiva e la sofferenza; questo per fornire un fondamento psicologicamente solido per lo sviluppo della vera empatia. Viene posta enfasi sulla concettualizzazione delle relazioni tra empatia e etica dell’imperfezione al fine di considerare la paura della vulnerabilità e degli altri ma allo stesso tempo il desiderato obiettivo di aiutare chi è malato. L’autrice, in un successivo recente articolo,38 si chiede se gli attuali modelli di preparazione dei giovani medici promuovano di fatto una sorta di alessitimia professionale, densa di conseguenze circa l’appropriatezza dell’attività di diagnosi e cura degli stessi. La maggioranza della formazione medica continua a non considerare il regno delle emozioni, e di fatto favorisce il distacco e la distanza dalle emozioni. Sono possibili ora modelli teoretici e concettuali per sviluppare modi di comprendere, partecipare e in definitiva lavorare con le emozioni durante la formazione medica.
Si rende quindi necessaria una formazione, maggiormente psicologica, in campo medico, che consideri anche le interazioni emotive tra la personalità del medico e quella del paziente, qualunque sia la sua malattia. Nel 1962 Guardini, filosofo, una delle figure nella storia culturale del XX secolo si chiedeva “Quali sono i tratti essenziali della personalità del medico?” “...La serietà della coscienza di responsabilità. L’acutezza vigile dell’attenzione. La trasparenza della dedizione personale. La forza di concentrazione. L’impegno dell’autoformazione”39. L’esperienza del medico – il saper fare – e l’abilità relazionale – il saper essere – rappresentano i più importanti aspetti etici della persona, della personalità del medico. Gli interventi psicologici nella pratica medica sono sempre più necessari tanto che Schnyder40, Presidente dell’International Federation for Psychotherapy, nella sua relazione al 20° World Congress on Psychosomatic Medicine (Turin 2009), si domanda: tutti i medici sono – devono diventare – psicoterapeuti? Oggi, i medici hanno un ruolo importante sia nella comprensione del paziente che nel tentativo di alleviare i loro dolori, quindi il modello BPS è necessario per definizione. Dato l’aumento dei tagli economici nella maggior parte dei sistemi sanitari, l’aumento delle psicoterapie efficaci dovrebbe focalizzarsi su quelle che si possono apprendere facilmente, che sono convenienti dal punto di vista finanziario e che sono limitate nel tempo. La prevenzione primaria può ritardare l’insorgenza delle
“Quali sono i tratti essenziali della personalità del medico?” “...La serietà della coscienza di responsabilità. L’acutezza vigile dell’attenzione. La trasparenza della dedizione personale. La forza di concentrazione. L’impegno dell’autoformazione”. malattie psichiatriche41. È quindi indispensabile rinforzare la preparazione psichiatrica dei medici che potrebbe contribuire alla riallocazione delle risorse e alla promulgazione di nuove politiche sanitarie di prevenzione. I disturbi mentali sono considerati il più grande problema sociale della Gran Bretagna. A fronte di 2 milioni e 500 mila pazienti affetti da disturbi d’ansia o depressiva solo un quarto riceve una terapia e solo il 4% (100 mila) usufruisce di una psicoterapia. Curare i pazienti consentirebbe un vantaggio economico notevole sia come qualità di vita sia come maggior capacità lavorativa42. Nel 2030 sono previsti negli Stati Uniti costi di oltre 100 miliardi di dollari per la salute mentale e oltre la metà riguarderà pazienti con più di 60 anni. La migliore prevenzione di queste malattie, oltre alla rimozione di fattori di rischio dietetici e sociali e all’esercizio fisico, sembra essere una buona formazione ed educazione nei confronti della malattia mentale43 attuata dal medico di base. Con l’aumento dell’incidenza e della prevalenza delle disturbi mentali, i medici dovranno confrontarsi con un aumentato numero di pazienti durante la loro pratica clinica e questo richiederà medici più preparati ed esperti sia a livello ospedaliero che sul territorio. Sarà inevitabile la necessità di avere specialisti maggiormente preparati e questi giocheranno un ruolo cruciale non solo nel ridurre il peso della malattia mentale, ma anche nel trasmettere la conoscenza e le loro abilità ai tirocinanti, studenti e agli staff multidisciplinari44. Un progetto di integrazione fra medici di medicina generale e psichiatri è avviato da qualche anno45 negli USA per offrire la possibilità di compiere un tirocinio integrato fra le due specialità. I medici di medicina generale hanno un ruolo crescente nella diagnosi e nella gestione della malattia mentale, ma non sempre la diagnosticano e la trattano efficacemente. I pazienti spesso ricevono un trattamento minimale o addirittura nessuna cura per la loro patologia e spesso non sono inviati allo specialista. Anche per questo motivo, i pazienti con malattia mentale non trattata utilizzano il servizio sanitario con maggiore frequenza rispetto alla popolazione generale. Il progetto avviato è indirizzato
alla risoluzione di queste problematiche per sviluppare una sinergia fra il servizio psichiatrico e la medicina di base. I medici che hanno terminato questo internato sono in grado di praticare con perizia entrambe le specialità, ma i dati dello studio di Warner et al.45 hanno sottolineato come siano comunque carenti nell’integrazione dei due approcci. Lieberman e Rush profeticamente nel 1996 in un’editoriale dell’AJP sostenevano che la psichiatria si sarebbe dovuta ridefinire sia sulle basi dei suoi fondamenti scientifici, e ancor più secondo le forze sociali ed economiche. Questo processo di ridefinizione potrebbe alterare i ruoli e cambiare le basi attualmente riconosciute della psichiatria46. Dopo 15 anni, in considerazione delle pressanti domande sul senso della professione psichiatrica oggi47, delle acquisizioni importanti delle neuroscienze sul ruolo biologico della relazione8,9,48 in ogni processo patologico è necessario rivedere e riformulare il curriculum formativo del nuovo medico. Ci sono sempre maggiori evidenze in tutti i campi medici che la cura di mente e persona è essenziale per la cura del corpo, poiché non c’è salute senza salute mentale49. È necessario per il medico dei prossimi decenni quindi un nuovo modello di formazione che consideri maggiormente gli aspetti psicopatologici della malattia: non solo mens sana in corpore sano, ma anche corpus sanus in mente sana4. Ulteriore impulso per una pratica medica che consideri gli aspetti psicologici e psicopatologici precedenti o conseguenti di ogni malattia è fornito dalle evidenze scientifiche che confermano come i processi patologici siano intrinsecamente BPS: diagnosi e trattamenti dovranno quindi esserlo. Economizzare sulla qualità dei trattamenti (es. solo farmaci, solo chirurgia, solo trattamenti somatici) risulta in effetti opposto all’appropriatezza delle cure, all’etica, e ai principi di adeguati indici economici. Attualmente l’insegnamento della psichiatria nel curriculum del medico rappresenta la più favorevole occasione di studiare e fare esperienza sui modi psicoterapeutici di fare il medico, ma è a tutti evidente la marcata inadeguatezza dei crediti formativi riservata alla psichiatria in confronto a tutte le altre discipline ritenute necessarie per il medico di oggi e del futuro prossimo. •
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Anno II, numero 2, luglio-dicembre 2011
5
Autonomia e consenso all’atto medico
Francesco D’Agostino Professore di Filosofia del Diritto Università di Roma Tor Vergata Già presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica
1.
Essendo tormentosamente incerto lo statuto epistemologico della bioetica,
non può di conseguenza che essere tormentosamente vago ogni discorso in tema di autonomia che voglia avere nella bioetica il proprio quadro di riferimento. La prova di quanto detto sta nel fatto che nella maggior parte dei casi i bioeticisti contrappongono indebitamente la categoria di autonomia (che ha un’altissima e complicatissima tradizione filosofica, oltre che giuridica) a quella di paternalismo, che possiede invece, tutt’al più, una connotazione sociologico-culturale. Che tale contrapposizione sia fragile si rende evidente quando si riflette come non di rado un atteggiamento paternalistico venga assunto dal medico curante non contro la volontà del paziente, ma a partire da una sua volontà esplicita e indubbiamente autonoma e come al converse il pieno esercizio dell’autonomia da parte di un malato richieda un previo, paziente lavoro paternalistico, come quello che svolge il medico quando, per acquisire il consenso del paziente, procede ad informarlo: elementari nozioni di teoria della comunicazione ci spiegano infatti che quando la comunicazione non è simmetrica (e questo è evidentemente il caso che si manifesta tipicamente nelle situazioni di rilievo bioetico) il comunicatore assume un ruolo inevitabilmente paternalistico, dovendo elaborare strategie – che lui solo è in grado di determinare e porre in essere – adeguate a far giungere a destinazione il “messaggio” oggetto della comunicazione, strategie nei confronti delle quali il destinatario è – almeno nel breve periodo – “indifeso”.
2.
Ponendo una antinomia tra autonomia e paternalismo e dando a questa antinomia una profonda rilevanza bioetica, i bioeticisti hanno compiuto un grave errore. La crisi del paternalismo medico e il relativo affermarsi dell’autonomia come valore bioeticamente prioritario non hanno prima facie ragioni bioetiche, ma strettamente sociologico-culturali: dipendono infatti dal complessificarsi della medicina e dal suo inevitabile riferimento ad una molteplicità di parametri, non tutti di rilievo strettamente scientifico. Il paternalismo è condannabile, non perché intrinsecamente carente di eticità, ma perché inevitabilmente miope; e l’autonomia è da apprezzare, non come espressione di orgoglio illuministico, ma come imprescindibile possibilità di integrazione di un processo decisionale. Resta fermo però (anche se purtroppo molti me6
Didatticamente
Anno II, numero 2, luglio-dicembre 2011
dici e molti bioesibilità di convinLa crisi del paternalismo medico e il relativo ticisti non semcere l’altro che affermarsi dell’autonomia come valore brano rendersi questa imposiconto della rilebioeticamente prioritario non hanno prima facie zione sia razionavanza di questo e meriti ubbiragioni bioetiche, ma strettamente sociologico- ledienza punto) che il conspontanea testo nel quale va culturali: dipendono infatti dal complessificarsi (non potrà mai comunque infarla condividella medicina e dal suo inevitabile riferimento cioè quadrata la decidere e accettare ad una molteplicità di parametri, non tutti sione terapeutica dalla persona cui non è quello delviene imposta per di rilievo strettamente scientifico. la soddisfazione ragioni di princidel narcisismo pio: per questa raautonomistico del paziente, bensì quello della realizzazione gione chi vuole imporre agli altri il proprio arbitrio deve di (nei limiti del possibile) del suo bene terapeutico. necessità percorrere le vie della violenza).
3.
Una elementare riflessione sulla categoria filosofica dell’autonomia renderà ragione di quanto appena detto. Prendendo sia pure in modo non tecnico come punto di riferimento il pensiero di Kant, possiamo immediatamente rilevare come l’autonomia si contrapponga decisamente all’arbitrio. Con questo termine Kant non indica, come molti potrebbero ritenere, una volontà incoerente o peggio ancora carente di senso, ma semplicemente una volontà soggettiva, un gusto, che non ha il dovere di motivare eticamente se stessa, perché è radicata appunto nella dimensione più privata – e quindi assolutamente insindacabile – della soggettività della persona. Ne segue che l’arbitrio è certamente comunicabile (esiste anzi in tutti noi una notevole propensione a comunicare e a descrivere agli altri i nostri gusti, senza in genere renderci contro dell’ assoluto disinteresse dei nostri ascoltatori nei nostri confronti); ma non è propriamente argomentabile né può mai acquisire una giustificata dimensione normativa. Un soggetto può naturalmente imporre ad un altro il proprio arbitrio, ma – se di arbitrio propriamente si tratta – non avrà mai la pos-
4.
Ben diversa invece è la volontà caratterizzata dall’autonomia. Nell’autonomia Kant vede il bene morale, che nella sua prospettiva coincide, come è noto, con la buona volontà. Ne segue che essere autonomi significa per Kant avere una volontà buona: ma nessuna volontà può davvero essere buona se è imposta al soggetto dall’esterno (anche se con le migliori intenzioni). Come fonte della buona volontà non può quindi essere né un imperativo esterno, così come non può nemmeno essere l’arbitrio, per la sua costitutiva incapacità di autogiustificarsi universalmente. L’imperativo categorico – la cui formulazione più semplice, come è noto, è fa il bene – presuppone l’oggettività del bene: presuppone cioè che a) il bene esista e b) che esso possa essere voluto nella sua oggettività. Ciò che distingue la teoria kantiana dell’autonomia dalle precedenti teorie oggettivistiche della morale è che per essere autenticamente buono il soggetto non deve limitarsi a fare oggettivamente ciò che è bene, ma deve volerlo, assumendo cioè su di sé il peso non indifferente dell’autonomia. Nello stesso tempo, però, non
è possibile, kantianamente, volere autonomamente il male. Ciò che è male, infatti, può certamente essere il contenuto di una volontà arbitraria, ma non di una volontà autonoma: il male infatti è sempre decisione per la particolarità, per la contingenza, in definitiva per se stessi, contro gli altri; non può quindi assumere la forma universale della legge morale. Di qui l’ultimo – e decisivo – corollario: se, kantianamente, nessun soggetto avrà mai la certezza nelle singole circostanze della sua vita di aver voluto autenticamente il bene (poiché nella determinazione della volontà si possono sempre inserire elementi particolaristici ed egoistici, capaci di inquinarla), sarà sempre possibile avere però la certezza in singoli casi di non essersi comportati moralmente, cioè autonomamente: questo avverrà ogni qual volta il contenuto della volontà si sarà determinato arbitrariamente (anche se, ovviamente, la volontà arbitraria non solo per essere tale andrà ritenuta immorale: il più delle volte sarà da ritenere moralmente adiafora).
5.
Al di fuori della prospettiva kantiana non esiste una adeguata teoria filosofica dell’autonomia. Al di fuori di questo orizzonte, il termine ha una propria legittimità d’uso solo all’interno della teoria ottocentesca del diritto privato: in questa prospettiva, si assume di norma come giuridicamente valida – cioè produttiva di effetti giuridici – la volontà di soggetti capaci di intendere e di volere e non sottoposti ad alcuna forma di violenza o costrizione. Non è forse inutile sottolineare che proprio perché ci stiamo riferendo al diritto privato l’autonomia della volontà per i giuristi può rilevare solo in ambiti non qualificabili eticamente (Benedetto Croce parlava, non inesattamente, dell’ambito dell’economico). L’impegno matrimoniale, ad esempio, vincola i coniugi giuridicamente, se assunto in piena autonomia dalle parti, ma non garantisce la sussistenza tra di essi di un amore coniugale (nel senso etico dell’espressione). Utilitaristi e libertari usano spesso il termine autonomia come sinonimo di insindacabilità dell’autodeterminazione: il che è indubbiamente corretto, a condizione che l’ambito in cui l’autodeterminazione si manifesta sia – per tornare ad usare l’espressione crociana – economico e non etico. Qui si colloca la differenza radicale tra la prospettiva libertario e quella liberale. Per i libertari, il fatto che una scelta sia autonoma la rende per l’appunto insindacabile, perché non si dà altro valore per i libertari se non quello dell’autodeterminazione. Per la tradizione liberale, invece, l’autonomia è un valore, solo se dialetticamente connesso al suo corretto determinarsi. La differenza può essere esemplificata nel modo più semplice facendo riferimento alla teoria della democrazia: per un coerente pensiero libertario (ma, riconosciamolo, la coerenza è rara in questo universo di discorso) andrebbe qualificato come democratico un voto assolutamente libero a favore di un partito totalitario. Per il pensiero liberale, invece, un voto strutturalmente libero non può che avere per oggetto un partito o un movimento dichiaratamente aperto al riconoscimento della libertà: chi votasse sia pur liberamente contro la libertà non potrebbe legittimamente qualificare autonoma la propria scelta elettorale, che meriterebbe piuttosto di essere qualificata come arbitraria.
6.
Applicando alla bioetica queste considerazioni, ne deriva che l’autonomia del paziente non può avere contenuto arbitrario e che, se ad arbitrio si riducesse, non dovrebbe vincolare deontologicamente ed epistemologicamente il medico. È ben possibile – anzi è frequente – che un soggetto rivolga al medico richieste “arbitrarie” (nel senso kantiano del termine): ad esempio un atleta può ben chiedere la somministrazione di sostanze dopanti. Il rifiuto che il medico dovrebbe opporre a tali richieste potrebbe avere in prima battuta una motivazione strettamente giuridica (nel caso in cui l’atleta voglia alterare fraudolentemente una competizione e rendere in qualche modo il medico complice di un illecito sportivo). Ma anche nel caso in cui tale finalità non si dia (ad es. nel caso in cui l’atleta non voglia partecipare ad alcuna competizione e sia motivato a doparsi esclusivamente da ragioni narcisistiche) il rifiuto del medico ad una simile arbitraria richiesta si giustifica per la carenza di autonomia (nel senso kantiano del termine) della stessa: non appartiene né alla deontologia ippocratica
né all’epistemologia medica la somministrazione di sostanze che non abbiano alcun diretto o indiretto riferimento terapeutico (quello cioè del bene oggettivo del paziente).
concretissimo dell’abbandono sociale, familiare, terapeutico cui molto spesso vanno purtroppo incontro molti pazienti, in specie se anziani.
7.
Il più vivace dibattito bioetico italiano degli ultimi anni è indubbiamente quello che ha per oggetto la legalizzazione dell’eutanasia. Il successo che ha avuto l’eufemismo “suicidio assistito” potrebbe far pensare ad alcuni che ciò di cui si discute è semplicemente come dar valore legale ad un’estrema, doverosa forma di rispetto nei confronti della volontà di non essere curato espressa con piena consapevolezza e in forme rigorosamente garantite dal soggetto. Ma non è così. Per convincercene, osserviamo la prassi olandese sull’eutanasia, che, in virtù di una legge intenzionalmente ambigua, da una parte ha depenalizzato questa pratica, qualificandola appunto come forma di rispetto verso la volontà del malato e poi dall’altra subito l’ha dilatata, autorizzando il medico a sopprimere il paziente, anche in assenza di un esplicito testamento biologico, nel presupposto che la tutela del miglior interesse del malato (in concreto: quello di essere ucciso) possa essere affidata non solo al soggetto direttamente interessato, ma anche a chi di lui si prende cura, come appunto il medico (applicando il medesimo principio il c.d. “protocollo di Groeningen” ha aperto i Paesi Bassi all’eutanasia pediatrica). Ci troviamo di fronte a un esempio emblematico di come sia facile, in “questioni di vita e di morte”, inoltrarsi in quel pendio scivoloso, tante volte denunciato da alcuni bioeticisti: si parte col ritenere che bisogna legalizzare situazioni estreme, problematiche tutto sommato rare (in concreto l’eutanasia praticata su esplicita e consapevole richiesta, pur se anticipata, del paziente), e si arriva poi subito a estendere di fatto se non di diritto la legalizzazione a casi simili, solo estrinsecamente analogabili ai precedenti (l’eutanasia senza esplicita e consapevole richiesta). Questo “scivolamento” da una parte è concettualmente inaccettabile, ma dall’altra è obiettivamente e paradossalmente necessario: i fautori dell’eutanasia sanno che ben difficilmente la redazione di testamenti biologici può diventare una prassi abituale e consolidata.
Può essere ritenuta autonoma una richiesta di sospensione di una terapia? La questione è centrale nei dibattiti bioetici attuali e ad essa può darsi risposta, solo se si è capaci non solo di sottili riflessioni concettuali, ma anche di operare un’altrettanto sottile distinzione tra la prospettiva strettamente giuridica e quella propriamente etica. 7.1 È noto a tutti che per esplicito e saggio dettato costituzionale nessuna terapia può avere un carattere coercitivo – tranne ipotesi di eccezione rilevanti per la salute intesa come bene collettivo. La giustificazione di questo principio è puramente giuridica, data l’impossibilità materiale di dare operatività giuridica all’ipotesi opposta. Peraltro, il rifiuto delle terapie – da quelle più elementari a quelle salvavita – possiede sempre motivazioni psicologicamente polivalenti e giuridicamente inoggettivabili: si può rinunciare ad una terapia per affidarsi in spirito ecologico alla “natura”, o per un’adesione misticheggiante e stoica alla “provvidenza” o per (insindacabile) ostilità nei confronti del tecnicismo che caratterizza la medicina moderna o infine per la percezione (personalissima) che è giunto il momento di passare all’altra riva. 7.2 Naturalmente la richiesta di sospensione delle cure può anche avere un’evidente o addirittura un’esplicita motivazione eutanasica e configurare la fattispecie del suicidio assistito. Non è però possibile, per una molteplicità di ragioni che andrò sinteticamente a presentare, valutare come autonoma tale richiesta e conferirle quindi legittimazione etica.
Essere autonomi significa per Kant avere una volontà buona: ma nessuna volontà può davvero essere buona se è imposta al soggetto dall’esterno (anche se con le migliori intenzioni). 7.2.1 In primo luogo la vita non è un oggetto, in merito al quale la nostra volontà possa disporre alcunché, ma è piuttosto l’orizzonte nel quale si colloca e si manifesta ogni nostra possibilità di volere. Una volontà che avesse per specifico oggetto la morte negherebbe se stessa e le sue stesse condizioni di possibilità (in questo senso lo stesso Schopenhauer, predicando la volontà, negava che il suicidio potesse essere una scorciatoia in tal senso). 7.2.2 In secondo luogo una richiesta di suicidio assistito implica la richiesta di assistenza attiva da parte di un secondo soggetto. Ipotesi conturbante, perché costui (l’“operatore” dell’eutanasia) dovrebbe di necessità assumere un ruolo aberrante: diventerebbe o signore della vita di chi chiedesse l’eutanasia (se a lui e a lui soltanto spettasse la potestà di accedere alla richiesta) o servo di un’altrui volontà che gli imporrebbe di compiere un atto omicida. 7.2.3 Si spiega molto bene, di conseguenza, perché in genere i fautori della legalizzazione del suicidio assistito iniziano col sostenere che tale legalizzazione è doverosa in nome del rispetto dell’autonomia delle persone e della piena disponibilità della vita, ma tendono in genere a limitarla a situazioni esistenziali terminali o di particolare tragicità patologica. La contraddizione in questi casi è eclatante: se si giustifica l’assistenza al suicidio come forma di rispetto per l’autonomia e se a questa deve darsi un rilievo assiologico assoluto (secondo quella che è l’opinione più diffusa tra i libertari) non c’è alcuna ragione per non rispettarla anche nei casi in cui la volontà di morire provenga da un soggetto biologicamente e psicologicamente sano, ma comunque deciso ad uscire da questa vita. Peraltro, non si vede sotto quale profilo la tragicità di una patologia terminale possa integrare o rendere più credibile la volontà espressa dal malato: sarebbe più plausibile ipotizzare che la volontà di un paziente terminale non sia autentica, ma orientata, o meglio deformata, dal timore
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Giungiamo così al cuore del nostro problema. Se i fautori dell’eutanasia volessero davvero, col legittimare questa pratica, rendere omaggio alla volontà sovrana delle persone, dovrebbero radicalmente escludere dall’uccisione pietosa tutti i minori, tutti coloro che non abbiano lasciato alcuna indicazione al riguardo, o che abbiano lasciato indicazioni ambigue o inattendibili, o che le abbiano rilasciate in condizioni psichiche e mentali tali, da far ritenere assolutamente plausibile una loro incapacità di intendere e di volere. Ma così non è. I movimenti a favore dell’eutanasia si muovono a tutto campo; insistono perché tutti i soggetti adulti e responsabili sottoscrivano i testamenti, ma aggiungono poi che comunque dei testamenti si può anche fare a meno, perché esisterà pur sempre qualcuno che con la sua volontà integrerà la volontà non espressa o espressa in modo insoddisfacente dal malato. Così questi movimenti si moltiplicano e diventano sempre più vivaci. Le numerosissime Right-to-die Societies, diffuse principalmente ma non esclusivamente nel mondo anglosassone, si sono federate e attivano continuamente manifestazioni in tutti i paesi avanzati. Tra le nuove frontiere della libertà quella dell’eutanasia come rivendicazione del diritto di morire è arrivata ad occupare ormai uno dei primi posti, almeno nell’immaginario occidentale.
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Dietro tutto questo si cela un paradosso, messo perfettamente a fuoco alcuni anni fa su “Le Monde” (Primo giugno 2002), in un articolo intitolato L’euthanasie est depassée. L’autrice, Paula La Mame, sostiene una tesi inoppugnabile: non esiste più alcuna esigenza di dare una morte pietosa a malati incurabili, preda di sofferenze terribili e invincibili: la medicina palliativa, uno dei veri, autentici trionfi della medicina novecentesca, svuota dal di dentro la valenza di ogni richiesta eutanasica. L’eutanasia è sorpassata. Il dolore delle malattie terminali può essere combattuto, fronteggiato, ridotto in termini assolutamente accettabili; può, in molti casi, essere vinto. La medicina palliativa non esiste per garantire la guarigione da malattie spesso incurabili; esiste per gaDidatticamente
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rantire una qualità di vita decisamente accettabile per il malato. Desta meraviglia, sosteneva “Le Monde”, quanto sia scarsa la conoscenza dei progressi della palliazione, quanti pochi investimenti vengano posti in essere per comunicare ai malati questo messaggio di speranza e di fiducia. È un paradosso, continuava il quotidiano, patteggiamento generalizzato di disinteresse che riscuote questo ramo del sapere medico in un’epoca così sensibile, come la nostra, al dolore fisico generato dalle malattie; ed è uno scandalo che solo una metà delle facoltà mediche francesi abbia attivato cattedre di medicina palliativa.
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Come spiegare questo scandalo e questo paradosso? I movimenti pro-eutanasici si battono per liberare i pazienti terminali da “sofferenze intollerabili”. Ma non si battono perché la medicina palliativa – che pure della lotta contro la sofferenza ha fatto la sua bandiera – si diffonda sempre di più. La realtà è che i due obiettivi sono inconciliabili. Il presupposto di ogni ricerca in tema di palliazione e di ogni pratica di medicina palliativa è strettamente ippocratico: è sempre un bene che il malato viva, è sempre un dovere per il medico aiutarlo a sopravvivere... Praticare l’eutanasia significa rendere superflua la ricerca e la pratica della palliazione. Se la medicina palliativa si è diffusa e consolidata è perché sono esistiti ed esistono medici e ricercatori che a fronte dei dolori delle malattie terminali non scelgono la via breve della soppressione pietosa del malato, ma la via lunga della cura. Una via, oltre tutto, onerosa, sia in termini strettamente monetari, che in termini di forte impegno di assistenza personale ai malati... È lecito avanzare l’ipotesi che non solo i sistemi sanitari contemporanei, ma anche il “sistema famiglia” (ridotto oggi in Occidente ai minimi termini), temano la medicina palliativa, per il forte investimento economico ed umano che questa richiede?
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Il dibattito su questo tema è acceso, ma da molti viene vistosamente rimosso, tanto è inquietante. Bisogna invece attivarlo e con forza. Dietro molte pressioni pro-eutanasiche si colloca certamente il sincero e pietoso desiderio di veder cessare di soffrire tanti malati terminali. Ma si colloca anche una particolare visione del mondo, a suo modo forse sincera, ma certamente non pietosa: quella per la quale solo la vita sana è da ritenere autentica vita umana, pienamente degna di rispetto e protezione; quella per la quale la malattia è da combattere socialmente solo quando sia curabile o sia comunque (come in alcune – e solo alcune – forme di handicap) socialmente tollerabile. In questa visione del mondo, quando la malattia non è curabile, va abolita, sopprimendo semplicemente la vita stessa del malato. 12.1 Si possono fare due esempi per mostrare come quanto appena detto non sia una stravaganza: il primo è l’assurdo e consolidato uso linguistico, che ci fa definire terapeutico l’aborto volto a sopprimere feti malformati; il secondo è la forzata assimilazione ad atti terapeutici delle pratiche di sedazione che si dovrebbero porre in essere per favorire il decesso di malati colpite da patologie estreme (come alcune forme di distrofia).
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Quello che qui entra in gioco è non solo la riformulazione epistemologica della stessa medicina, avviata – in questa prospettiva – a perdere la sua specificità terapeutica e a diventare una mera prassi formale e neutrale di manipolazione del corpo umano, ma ancor più una vera e propria riformulazione antropologica dell’idea stessa di vita. Abituati (forse da millenni) a pensare che – a differenza delle cose – la vita non ha un valore, ma è in se stessa principio di ogni valore, gli uomini “postmoderni” si trovano oggi di fronte ad una sfida intellettuale e morale, alla quale probabilmente non sono pre-
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Anno II, luglio-dicembre 2011 Registrazione del Tribunale di Roma ISSN 2038-4645 Il Pensiero Scientifico Editore Via San Giovanni Valdarno 8 00138 Roma Tel. (+39) 06 862821 Fax: (+39) 06 86282250 E-mail: pensiero@pensiero.it Internet: http://www.pensiero.it
parati, quella di un sottile e compiuto nichilismo. Una vita, infatti, che non sia valore in sé e per sé, ma che riceva valore da una determinazione estrinseca di volontà, è altresì una vita che può, per una determinazione di volontà di segno opposto alla precedente, perdere ogni valore ed essere ridotta allo statuto ontologico della materia bruta.
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Non ci troviamo più di fronte ad un semplice dilemma bioetico, ma ad una sfida radicale, che investe né più né meno che il senso stesso della presenza dell’uomo nel mondo. Gli stessi tragici temi dai Direttore Responsabile: Giovanni Luca De Fiore Redazione: Manuela Baroncini Progetto grafico: Antonella Mion Stampa: Arti Grafiche Tris srl, Roma nel mese di novembre 2011
Didatticamente è distribuita in abbonamento (comprensivo di accesso alla rivista on line). Abbonamento 2012 Individuale 30 euro Istituti, enti, biblioteche 50 euro Estero 100 euro Volume singolo 15 euro Articolo singolo in PDF 20 euro
quali eravamo partiti, le sofferenze dei malati terminali, i testamenti biologici, appaiono in qualche modo rimpiccoliti e banalizzati. Riflettendo sulla sua morte, l’uomo arriva ben presto a scoprire che riflette non su di un evento, su di un qualcosa che, pur se ineluttabilmente, prima 0 poi gli avviene; riflette piuttosto sulla sua mortalità, su ciò che egli è. Può essere, questo, un pensiero così inquietante da esigere di essere esorcizzato. Che dietro tante istanze odierne favorevoli all’eutanasia non si celi forse il più grande, il più vistoso, il più fallace esorcismo che mai l’umanità abbia creato? • Come abbonarsi • Versamento dell’importo su c/c postale n. 902015 intestato a Il Pensiero Scientifico Editore, specificando la causale del versamento. • Invio in busta chiusa di un assegno bancario non trasferibile intestato a Il Pensiero Scientifico Editore, unitamente ad una lettera di richiesta.
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Le immagini in questo numero riproducono opere di Jean Dubuffet (1901-1985): Group of Four Trees, 1972 (p. 1); L'Hourloupe I, (1962-1964) (p. 2); Le Deviseur I, 1969-2006 (p. 3); Tapié - Grand Duc, 1946 (p. 6).
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