In uencer
Una compenetrazione e collaborazione crescente tra mondo scienti co e mondo degli in uencer potrebbe aiutare le persone a capire meglio le cose.
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Il Pensiero Scientifico Editore
In questo numero
4 Uno sguardo sociologico: MARIA ANGELA POLESANA
7 Quando gli in uencer parlano di salute: EUGENIO SANTORO
Benvenuti nel mondo degli
12 Come cambia l’informazione scienti ca in sanità: NINO CARTABELLOTTA, SALVO DI GRAZIA, PIERLUIGI LOPALCO, WALTER RICCIARDI, SIMONA SCARIONI, ROBERTA VILLA, ANTONELLA VIOLA
Filo diretto con i citta
28 Vigilare per un ecosistema social sano: MARIA FREGA
29 Gli integratori alimentari in pasto ai social media: FRANCESCA MENNITI IPPOLITO, ILARIA IPPOLITI
Gli in uencer esperti tra
18 Saper comunicare il dubbio: VITTORIO FONTANA
33 Quando il medico va in pubblico: ADAM CIFU
La popolarità nello
26 Riconoscere i limiti della propria conoscenza: VERA GHENO
36 I social alleati dei libri? LUCA DE FIORE
Le intenzioni, il contesto,
forward #31 — INFLUENCER — 3 / 2023 2 31
10 Tazze da tè e algoritmi: LA TIMELINE
in uencer
22 Il mondo degli in uencer visto dalle industrie farmaceutiche:
dini e i pazienti
30
Convivialità virtuale e disturbi dell’alimentazione: LAURA DALLA RAGIONE
potenzialità e rischi
Il messaggio e il mezzo
Com’è successo che sempre più spesso l’opinione dell’esperto scali la piramide della evidence based medicine collocandosi al di sopra di tutti gli altri scalini? Questo fenomeno che abbiamo visto esasperato durante il periodo pandemico ha per caso qualcosa a che fare con la nascita di nuovi strumenti (per esempio i social) e attori (per esempio gli in uencer) prima sconosciuti? È quanto ci chiediamo in questo nuovo numero di Forward, cercando di capire, tra le altre cose, quanto ci sia di buono e di rischioso nella di usione di questo nuovo modo di comunicare sul web.
A prescindere da questo, la tanto spesso citata piramide delle evidenze probabilmente non riesce più a sempli care un approccio utile all’interpretazione delle nuove fonti di informazione in medicina. In questo ambito qualcuno si chiede, anche, quale ruolo dovrebbe avere l’istituzione pubblica nel prevenire ed evitare i rischi associati all’uso di strumenti nati soprattutto per ni di mercato e di cilmente impiegabili nella sfera della sanità pubblica. Ad esempio, il Ministero della salute deve diventare esso stesso un super in uencer in competizione con tutti gli altri? O piuttosto deve aiutare a far cresce una massa critica comune che è essenziale per il debunking, ossia per disinnescare i potenziali rischi associati al fenomeno?
studio del medico
40 La caccia al fantomatico in uencer: JEFF JARVIS
gli interlocutori
Non ci siamo però concentrati solo sui rischi ma abbiamo provato a sondare eventuali potenzialità: se, ad esempio, queste nuove modalità di comunicare riescano a colmare l’incapacità di ascolto e di coinvolgimento da parte degli strumenti più tradizionali. Uno dei determinanti per essere un in uencer è quello di avere un ampio seguito, mentre il puro mercato si concentra esclusivamente sul messaggio in uscita: dunque un nuovo compito potrebbe essere proprio quello di saper raccogliere più e cacemente i bisogni di informazione in sanità pubblica e rispondere e cacemente ad essi.
Forward cerca ancora una volta di non farci cogliere impreparati nella discussione che riguarda l’impatto che queste nuove gure possono avere in un’area (la comunicazione in sanità) che diventa sempre più impegnativa e critica oggi – ma lo sarà anche domani.
Antonio Addis Dipartimento di epidemiologia Servizio sanitario regionale del Lazio, Asl Roma 1
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FRANCESCA PATARNELLO, DARIO SCAPOLA, IVAN SILVA ROMERO
BENVENUTI IN UN mondo favoloso
La capacità di persuasione degli in uencer tra professionalità e celebrità, credibilità e spontaneità, la relazione tra follower e in uencer, il paradosso dell’autenticità online. Ne parliamo con Maria Angela Polesana, sociologa dei media e autrice di diversi libri sulla comunicazione e la pubblicità nel mondo dei media e dei consumi.
Intervista a
In uencer, brand ambassador e testimonial, key opinion leader e divulgatore scienti co: sono quattro gure diverse nella comunicazione al grande pubblico. Che cosa distingue l’in uencer?
Innanzitutto l’influencer si distingue dalle altre figure ricordate nella domanda per essere legato a un medium specifico ossia il web e in particolare i social media. Si tratta infatti di un soggetto capace di crearsi un proprio seguito grazie alla condivisione di contenuti incentrati sulla narrazione testuale e visuale della propria vita quotidiana. L’influencer è un content creator, cioè un soggetto che crea contenuti in grado di coinvolgere i propri follower, o meglio la propria comunità. In effetti, grazie alla condivisione della propria quotidianità e del realismo che caratterizza i propri racconti, l’influencer costruisce quel senso di intimità, accessibilità e relazione che pone le basi per la creazione di un senso di prossimità con i propri follower e per lo sviluppo di una relazione sociale, comunitaria e affettiva. Abbiamo cioè a che fare con una influenza relazionale, basata, appunto, sulla comunità dei follower.
Oltre al medium specifico, come abbiamo ricordato alcune righe sopra, rispetto al brand ambassador e al testimonial, l’influencer si contraddistingue per una maggiore credibilità e autenticità, dal momento che risulta essere una cosiddetta “do it yourself celebrity” ovvero, apparentemente, una celebrità fai da te. Un soggetto qualunque riuscito cioè a costruirsi la propria fama, il proprio successo da solo. E, come tale, questa figura viene percepita come più libera, meno soggetta alle logiche di marketing. È l’influencer a scegliere i brand con cui collaborare, in base a personali affinità, e non il contrario, come accade invece per brand ambassador e testimonial che sono scelti dal brand.
L’in uencer costruisce quel senso di intimità e di prossimità con i propri follower per lo sviluppo di una relazione sociale, comunitaria e a ettiva.
Diversamente dal key opinion leader il punto di forza dell’in uencer viene più dalla relazione sociale che dalle conoscenze…
I key opinion leader sono persone – medici, giornalisti, designer, ecc. – con una professione anche offline e che debbono la loro fama online al loro riconoscimento di esperti da parte della comunità che li segue e li ascolta per il loro background culturale, le loro competenze e la loro autorevolezza. Mentre gli influencer, che sovente non sono veri esperti (ad esempio Chiara Ferragni nasce come fashion victim che ama condividere con i propri seguaci il suo amore per la moda attraverso i suoi outfit, ma non ha alcuna competenza specifica nel settore), creano seguito soprattutto per i contenuti di intrattenimento che veicolano, per la loro autorappresentazione e per la condivisione di un determinato lifestyle.
Diversa è la figura del divulgatore scientifico. Si tratta di un soggetto impegnato nella divulgazione di concetti scientifici con un linguaggio semplice, che si caratterizza, ancora una volta dunque, per specifiche competenze, conoscenze ma che, a differenza dei key opinion leader, non deve il suo seguito e quindi la sua notorietà ai social media. Inoltre, la comunicazione del key opinion leader è più leggera e giocosa rispetto a quella del divulgatore scientifico, in ragione del medium. Spesso infatti il key opinion leader posta contenuti legati alla propria quotidianità che contribuiscono a renderlo una figura familiare, dal volto umano, aiutandolo a costruire e a mantenere una comunità affettiva.
Quale tipo di comunicazione caratterizza l’interazione tra in uencer e follower nel web 3.0?
Il web 3.0 si caratterizza per un tipo di relazione in cui è primario il piacere o meglio il far provare piacere. Si tratta di una socievolezza che rimanda a una forma di comunicazione faticosa. Una comunicazione cioè in cui lo stabilire un contatto, la semplice compagnia, il gusto di parlare sono un fine in sé. Le informazioni che vengono scambiate in tali processi comunicativi, tra influencer e follower, non sono referenziali ma riguardano aspetti dell’identità sociale dei partecipanti, gusti e preferenze, modi d’essere, che sono fondamentali per il mantenimento di una relazione comunicativa anche in vista di comunicazioni future. Una comunicazione in cui trasparenza e autenticità giocano un ruolo centrale nel favorire l’empatia e nel costruire la credibilità e quindi la fiducia che riconosciamo all’influencer.
In questa intervista, Maria Angela Polesana o re uno sguardo sociologico sulle gure dell'in uencer, del key opinion leader e del divulgatore scienti co che nel mondo della sanità hanno una connotazione spesso di erente da quella qui descritta. È una conferma di quanto sia essenziale trovare un accordo sui signi cati delle parole e dei concetti.
forward #31 — INFLUENCER — 3 / 2023 4
Maria Angela Polesana Sociologa Dipartimento di comunicazione, arti e media
“Giampaolo Fabris” Università Iulm di Milano
Secondo il fondatore di Amazon Je Bezos “il personal branding è tutto ciò che la gente dice di te non appena esci dalla stanza”. Come diventare marchio di sé stessi e come sfruttare la fedeltà dei propri follower e potenziali “consumatori”?
Una società pervasa dall’ideologia neoliberale è un terreno fertile per “autoprodursi” e gestire managerialmente la propria identità per affermarsi sul mercato del lavoro e ottenere successo economico. Come affermava Tom Peters, esperto di management e autore di diversi bestseller, già nel 1997 nel saggio “The brand called You”, il personal branding diventa fondamentale per garantire all’individuo la possibilità (proprio come succede ai prodotti grazie ai brand), di differenziarsi, di distinguersi imponendosi per le proprie competenze, esperienze, conoscenze, eccetera: per farsi notare sul mercato. Essere un brand significa lavorare per costruirsi una immagine solida (che superi cioè la fluidità che caratterizza le identità contemporanee sempre più fragili perché prive dei punti di ancoraggio del passato: religione, famiglia, lavoro, ecc.), coerente, una reputazione tale da conquistare la fiducia delle persone. Reputazione che online si basa sulla trasparenza, sull’autenticità, sul numero di follower che il soggetto è riuscito a conquistare e che si traduce in una conferma del suo valore. Anche gli influencer devono infatti ispirarsi, nella costruzione della loro identità digitale, alla marca, fare proprie le logiche del branding lavorando sulla propria “unique selling proposition”, cioè su quella unicità, specificità, su quei punti di forza, che li distinguono rispetto agli altri individui “concorrenti” con un intento chiaramente commerciale. Il self-branding diventa funzionale all’obiettivo retorico e disciplinare di fornire agli individui uno stimolo a produrre contenuti continuamente per timore di perdere di rilevanza/visibilità.
Una delle maggiori criticità a cui gli in uencer possono trovarsi di fronte è “il paradosso dell’autenticità online”. Su che cosa si gioca la credibilità e l’immagine di autenticità dell’in uencer?
Nell’economia post-fordista l’autenticità è divenuta un argomento pubblicitario, una risorsa per lo sviluppo dei mercati, del turismo, dei brand e degli stessi individui come brand. In particolare, l’autenticità è la cifra distintiva della identità degli influencer in ragione del fatto che si tratta di soggetti che si sono creati “da soli”, facendosi largo in una serie di settori grazie alle proprie capacità comunicative. Si tratta tuttavia di una autenticità paradossale poiché risente delle logiche di branding:
primario il piacere o meglio il far provare piacere.
un’autenticità costruita. L’ingresso del sé nella sfera economico-commerciale implica infatti che l’autenticità anziché rispondere in primis al sé, alla sua unicità-originalità, finisca invece con il doversi confrontare costantemente con gli altri individui, in particolare nei social media, dove è necessario piacere, che è necessario conquistare se si vogliono raggiungere benefici economici. Gli influencer sono infatti costretti a mediare tra le attese di autenticità rispetto a sé stessi, ai propri follower, al mondo del marketing e della pubblicità e infine, ma non certo ultime, alle attese delle piattaforme. La gestione dell’autenticità, da parte degli influencer, avviene attraverso una serie di strategie intese a conservare la credibilità e la fiducia accordate dai propri follower pur accogliendo i brand nei propri contenuti. Per esempio, gli influencer si scattano molti selfie come strumento di certificazione della loro effettiva esperienza di uno specifico prodotto. Essi inoltre pianificano i loro post, organizzando i feed, nel caso di Instagram, sincronizzando i post in modo
L’autenticità è la cifra distintiva della identità degli in uencer in ragione del fatto che si tratta di soggetti che si sono creati “da soli” grazie alle proprie capacità comunicative.
Vedi
da ottimizzare la loro visibilità tra i follower: considerato che nei digital media l’autenticità è sempre meno una qualità statica e sempre più, invece, performativa. Gli influencer lavorano cioè per essere percepiti come persone reali creando contenuti che, sovente, hanno il sapore di quelli prodotti in maniera amatoriale o video che si caratterizzano per l’immediatezza del dialogo e l’atmosfera dal vivo.
Uno dei casi studio degli in uencer è quello di Chiara Ferragni. Quali ritiene essere i risvolti positivi e quelli negativi nel condizionare inconsapevolmente il comportanti dei giovani e dei meno giovani?
Nei digital media l’autenticità è sempre meno una qualità statica e sempre più, invece, performativa.
Proteggere i follower dalla pubblicità occulta
Di fronte alla pubblicità commerciale il consumatore è consapevole degli interessi di chi promuove il prodotto. Invece nel caso dell’in uencer questo non è chiaro e la sua attività promozionale (anche se indiretta e inconsapevole) è ancora caratterizzata da una certa ambiguità. Va segnalato che, in materia di trasparenza, l’Istituto di autodisciplina pubblicitaria e l’Unione nazionale consumatori hanno assunto un ruolo fondamentale in Italia. In particolare, l’Istituto di autodisciplina pubblicitaria si preoccupa di monitorare e intervenire con un’azione di moral
Maria Angela Polesana
In uencer e social media
Credo che ai livelli di Chiara Ferragni, che conta più di 29,5 milioni di follower, non ci sia nulla di inconsapevole. Per quanto riguarda il settore del fashion, cui appartiene, i suoi outfit sono espressione della volontà di
t
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Il web 3.0 si caratterizza per un tipo di relazione in cui è
suasion verso le aziende associate, nei casi di scorrettezza nella comunicazione. Dal 2016, ha redatto un codice di comportamento dando vita alla “Digital chart”, che regolamenta tutte le varie forme pubblicitarie tracciando, così, una linea tra tutto ciò che è contenuto organico e quello che, invece, è contenuto commerciale. Contenuto che deve essere segnalato tramite speci ci hashtag, tra cui i più utilizzati: #ad, #adv, #sponsorizzato, #sponsored, #prodottofornitoda, #pubblicità, #advertising. Come sottolinea Maria Angela Polesana, si tratta comunque di una situazione piuttosto complessa, da regolamentare, che presenta tutta una serie di incertezze e non poche complessità. Per esempio, in una campagna di in uencer marketing, è di cile individuare chi tra l’azienda, l’agenzia che la segue, la piattaforma scelta per comunicare e l’in uencer non abbia ottemperato al regolamento della “Digital chart”. • anche
Milano: FrancoAngeli, 2023
t promuovere determinati brand, tra cui il suo. Sono azioni di sponsorizzazione o product placement simili alla pubblicità tradizionale, con la differenza che sono inseriti in situazioni di vita quotidiana e quindi tanto più pervasivi grazie ai social media.
Per quanto attiene ai temi sociali ogni sua presa di posizione non è una semplice esibizione fine a sé stessa, ma manifesta il desiderio di influenzare le persone rispetto a temi cari/sentiti dalla influencer. Pensiamo, ad esempio, al suo impegno contro la violenza sulle donne. A volte espresso però in maniera, a mio modo di vedere, abbastanza discutibile.
Tuttavia sarebbe ingenuo ritenere che gli individui rinuncino a ragionare, a pensare criticamente, siano cioè passivamente oggetto di influenza da parte degli influencer. Esemplare il caso della giovanissima fan di Chiara Ferragni che non ha esitato a criticare la influencer circa la pubblicazione di foto che la ritraevano in abbigliamento intimo e che lei non condivideva. Non condivideva cioè l’oggettivazione del corpo femminile, la sua mercificazione. Quindi non solo gli influencer non sono inconsapevoli circa l’influenza che possono esercitare sui follower ma nemmeno i loro follower lo sono nel senso che decidono a cosa aderire o meno in base ai propri valori e al proprio vissuto.
Anche le istituzioni e organizzazioni pubbliche, come il Ministero della salute o le agenzie e aziende sanitarie, potrebbero oggi diventare in uencer per guadagnare autorevolezza e credibilità?
Credo che, pur nella loro differenza e specificità, le istituzioni e organizzazioni che lei cita, dovrebbero effettivamente lavorare sulla loro comunicazione evitando toni paternalistici, doveristici, moralistici, in favore, ad esempio, dell’ironia (frequentemente praticata nei social) che maggiormente coinvolge il destinatario nella decodifica del messaggio. Un destinatario che è un prosumer, ovvero non solo un consumatore ma anche un produttore di messaggi. Si tratta dunque di creare contenuti tali da favorire l’instaurarsi di un vero dialogo anziché calarli dall’alto, sforzandosi di rendere chiari anche concetti complessi. Evitando però, come in taluni casi è accaduto, per raggiungere un target giovane, l’uso di un linguaggio “giovanilista”, un linguaggio cioè che assomiglia a quello dei giovani senza essere sufficientemente credibile e che quindi può produrre l’effetto contrario rispetto a quello perseguito. Ossia allontanare anziché avvicinare il target.
A cura di Laura Tonon
Vedi anche
Dove si informano gli europei?
Di chi si dano?
Secondo un’indagine di Statista.com condotta nel 2022 – su un campione di mille cittadini in Belgio, Germania, Spagna, Francia e Olanda – i social media sono la principale fonte di informazioni sulla salute per la metà degli europei intervistati, mentre per un intervistato su quattro lo è un personal trainer e/o un nutrizionista e per uno su su sei lo sono i media online. Seguendo un health in uencer quasi la metà ha dichiarato di avere adottato un nuovo stile di vita consono alle proprie esigenze, a di erenza di una percentuale analoga che, pur avendo utilizzato alcuni prodotti promossi sui social, non ha cambiato del tutto quelle abitudini che incidono sulla salute. Nella Global Consumer Survey,
che ha coinvolto oltre 120.000 consumatori in 28 Paesi, l’Italia è il Paese europeo in cui gli in uencer dimostrano di essere maggiormente persuasivi: il 22 per cento degli italiani tra i 18 e i 65 anni ha scelto di acquistare un prodotto pubblicizzato da un in uencer o da altro personaggio noto, una percentuale maggiore rispetto ai Paesi più ispirati al consumismo, quali il Regno Unito e gli Stati Uniti. Qual è il pro lo degli italiani che seguono almeno un health in uencer sui social media? Il 38 per cento ha un reddito familiare annuo elevato, una percentuale relativamente elevata ritiene che la salute e la sicurezza sociale siano questioni che devono essere a rontate. •
Fonte: Statista.com 2022 | 2023
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50 40 30 20 10 0 Sì,
ho scoperto un nuovo stile di vita adatto alle mie esigenze
Ho utilizzato alcuni prodotti da loro promossi, ma non ne ho adottato pienamente lo stile di vita
No, seguo l’in uencer solo sui contenuti di interesse
Quota di intervistati (%) 42,7 12,4 2,2 42,1 Personal
nutrizionista Social
Media online
e conoscenti Programmi televisivi Media o ine 5,2 2,8 47,6 16,4 6,4 60 50 40 30 20 10 0 Quota di intervistati (%) 21,6
Ha avuto una cattiva in uenza sulla mia salute (mentale o sica)
trainer e/o
media
Amici
Le fonti di informazioni di salute e benessere
L’in uenza degli health in uencer
Gli in uencer che parlano di salute e sanità. Come, quando, perché
Eugenio Santoro Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri Irccs, Milano
Per comunicare la salute attraverso i social media ci si a da sempre più spesso agli in uencer che, almeno tra il pubblico più giovane, hanno preso il posto degli opinion leader. Lo sanno bene le società che vendono prodotti che impattano sulla salute, che arruolano schiere di in uencer per promuovere integratori, sigarette elettroniche, programmi dietetici e molti altri prodotti.
Quello degli influencer è un mercato in forte espansione. Per gli esperti di marketing digitale gli influencer possono essere divisi in categorie – mega, macro, micro e nano – in funzione del numero dei loro follower – rispettivamente milioni di follower, dai 100mila ai 500mila follower, dai 10mila a 100mila follower, e tra i 1000 e i 10mila follower. Maggiore è il numero di persone raggiungibili, maggiore è il compenso riconosciuto agli influencer, che può variare da alcune decine di euro fino a decine di migliaia di euro. Si stima, per esempio, che Chiara Ferragni guadagni circa 50.000 euro per ogni post pubblicato su Instagram, con punte di 75.000 euro1
Nuovi alleati per la promozione della salute
Come detto, i settori nei quali gli influencer operano sono vari. Prendiamo la sigaretta elettronica. Un recente studio che abbiamo condotto all’Istituto Mario Negri, in collaborazione con il Master in comunicazione della scienza e dell’innovazione sostenibile dell’Università Bicocca di Milano, ha dimostrato che su 216 post analizzati su
TikTok (96 per cento dei quali pro-sigaretta elettronica) e prodotti da 123 utenti (11 dei quali micro-influencer e 28 nano-influencer), il 49 per cento promuoveva in maniera occulta prodotti appartenenti a questa categoria, mentre solo l’1 per cento dichiarava esplicitamente la natura commerciale tra il produttore e l’influencer. La situazione peggiora su Instagram, dove su 164 post analizzati (78 per cento dei quali pro-sigaretta elettronica), prodotti da una folta schiera di influencer (55 nano-influencer, 26 microinfluencer e 5 macro-influencer), il 75 per cento promuoveva l’uso di prodotti afferenti alla sigaretta elettronica (il 53 per cento lo faceva in maniera occulta e il 22 per cento in maniera esplicita).
Considerate la loro visibilità e la loro notorietà, specialmente tra i giovani, gli influencer sono sempre più coinvolti in campagne di promozione della salute. È famoso il coinvolgimento da parte del governo finlandese dei massimi influencer (circa 1500) per promuovere l’uso della mascherina e altre informazioni su covid-19, quando il virus era nella sua fase più aggressiva2. Il governo finlandese li considera “operatori essenziali” in quanto possono portare un bene primario (l’informazione) a persone difficili da raggiungere con i media classici. L’operazione di reclutamento degli influencer è stata tentata
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anche in Italia, dalla Regione Lombardia, per una comunicazione sulle vaccinazioni contro covid-19 che guarda ai giovani. La campagna TikTok #lappuntamentopiùimportante, lanciata alla fine di agosto 2021 ha superato 7,7 milioni di visualizzazioni (7 milioni dei quali solo nel primo mese). La campagna è però durata relativamente poco (gli influencer hanno pubblicato pochi post e l’hashtag non è stato sufficientemente diffuso e usato da altri utenti per alimentare la campagna stessa) e, soprattutto, non è dato sapere quanto abbia effettivamente aumentato il numero di giovani che hanno deciso di vaccinarsi.
Particolarmente nota è la campagna antifumo di qualche anno fa di Airc 3 che ha visto il coinvolgimento di alcune fra le voci più amate e seguite del web e dei social media (a cominciare da Instagram e YouTube) come Camilla Boniardi, famosa influencer meglio nota come Camihawke, Chiara Galiazzo, Alice Venturi e Sofia Viscardi.
Non bisogna tuttavia dimenticare che quando si parla di social media e di influencer, la bufala (intesa come fake news) può essere dietro l’angolo. Come dimostra il report realizzato dal Center for countering digital hate e dall’Anti-vax watch4 che ha identificato i “disinformation twelve”, 12 influencer della comunità no-vax responsabili del 65 per cento di tutti i post e tweet condivisi su Facebook e Twitter sui temi cari ai negazionisti, a cominciare da covid-19. L’analisi è stata realizzata passando in rassegna oltre 800 mila contenuti sui social tra l’1 febbraio e il 16 marzo 2021. Il report ha stimato addirittura che, limitando l’analisi a Facebook, questi 12 profili sono stati responsabili di quasi tre quarti del totale dei post anti-vaccini.
La qualità della comunicazione
istituzionale
La comunicazione (for profit e non profit) attraverso gli influencer ormai non è più mediata dalla stampa ed è sempre meno mediata dagli opinion leader o dagli operatori sanitari. Se questo sarà il futuro è argomento di discussione tra gli operatori e i ricercatori del settore.
Quello che però è certo è che la comunicazione istituzionale sui social media deve evolvere. Se il numero di post pubblicati dal Ministero della salute o dalle asl italiane è aumentato nel corso degli ultimi anni, complice covid-19, se il numero di profili social delle asl è cresciuto in questi ultimi anni5,
Considerate la loro visibilità e la loro notorietà, specialmente tra i giovani, gli in uencer sono sempre più coinvolti in campagne di promozione della salute.
non è certamente migliorata la qualità della comunicazione, rimasta ingessata e fedele a quella tradizionale. Anche istituzioni blasonate, come l’Organizzazione mondiale della sanità, si trovano in difficoltà quando si misurano con piattaforme come TikTok, mostrando una certa rigidità comunicativa che mal si concilia con le potenzialità dello strumento6. Quello che serve è adottare una seria strategia social che possa contare sulle competenze dei social media manager e su un team (opportunamente formato) che sia appositamente reclutato e assegnato alla gestione della comunicazione attraverso i social media, così come capita in molte istituzioni sanitarie internazionali.
Gli influencer che parlano di argomenti di salute possono essere coinvolti, specialmente nelle campagne di prevenzione e di promozione della salute, ma i loro messaggi dovrebbero essere opportunamente condivisi con gli operatori sanitari o con gli specialisti operanti nell’area oggetto della prevenzione/ promozione, a garanzia dell’affidabilità del contenuto stesso. In ogni caso, occorrerebbe misurare l’impatto degli influencer usati in queste occasioni attraverso studi scientifici in grado di misurare la capacità di far cambiare comportamenti ai propri follower invece di misurare il numero di visualizzazioni dei post e dei video.
Il coinvolgimento dei medici
La “discesa in campo” dei medici per fare disease awareness e lotta alle fake news è sempre più richiesta dalla comunità scienti ca.
La “discesa in campo” dei medici per fare disease awareness e lotta alle fake news è sempre più richiesta dalla comunità scientifica. Un medico che parla di salute sui social media può contribuire a diffondere una corretta informazione medico-scientifica e favorire la cultura della prevenzione, come testimonia l’egregio lavoro portato avanti in questi anni da (piccoli) gruppi di opinion leader sulle principali piattaforme di social media. Vanno in questa direzione le recenti “Raccomandazioni sull’uso di social media, di sistemi di posta elettronica e di instant messaging nella professione medica e nella comunicazione medico-paziente” diffuse dalla Fnomceo.
In sintesi, i medici andrebbero opportunamente formati all’uso dei social media e all’impiego di linguaggi comunicativi che generalmente sono distanti dal loro modo di comunicare – un’operazione che potrebbe dare risultati sorprendenti. F
La comunicazione della vaccinazione anti covid-19 attraverso i social media: un’analisi di 99 asl italiane. Ric&Pra 2022;38:10-6.
La comunicazione dei vaccini anti covid-19 su TikTok: i risultati di uno studio. Ric&Pra 2022;38:55-61.
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1. Quanto guadagna Chiara Ferragni per ogni post, al mese, all’anno e al minuto? 24economia.com, 24 febbraio 2023.
2. Henley J. Finland enlists social in uencers in ght against covid-19. The Guardian, 1 aprile 2020.
3. Le in uencer nella campagna antifumo dell’Airc per i giovani. Ansa, 20 giugno 2019. 4. Center for countering digital hate. The disinformation dozen. Pubblicato il 24 marzo 2021.
5. Cristiani OP, Chiaruttini MV, Santoro E.
6. Pisano JS, Chiaruttini MV, Santoro E.
1760
Quando Josiah Wedgwood realizza un servizio da tè per la regina d’Inghilterra si rende conto di potersi fare pubblicità facendosi chiamare “il vasaio di sua maestà”, e visto che la monarchia era l’in uencer dell’epoca, questa scelta gli conferì il pregio di cui gode ancora oggi.
1882
I prodotti estetici diventano alla portata di tutti, o quasi, e le aziende iniziano ad aver bisogno di donne riconoscibili che potessero promuoverli: la prima fu l’attrice Lillie Langry, che ha avviato una carriera altrettanto redditizia nella pubblicità quanto come attrice.
1920
Coco Chanel introduce il tailleur con pantalone per le donne, infrangendo una barriera tra la moda maschile e quella femminile e cambiando la prospettiva delle donne di tutto il mondo sul modo di vestire.
1984
Michael Jordan rma un contatto da 2 milioni e mezzo di dollari con Nike: nascono le sneakers più famose di sempre, le Air Jordan. Questo accordo frutta a Nike 70 milioni di dollari di vendite solo il primo anno.
2004
Blog è la parola dell’anno secondo l’autorevole dizionario statunitense Merriam-Webster, questo è stato, infatti, il termine più ricercato dagli utenti del dizionario nella sua versione online.
Tazze da tè e algoritmi
2005
A metà anni duemila vengono introdotti gli algoritmi nei social network per mostrare all’utente il contenuto più rilevante, monetizzare, incoraggiare l’interazione continua, personalizzare l’o erta e, non ultimo, competere con altri social network.
2010
Viene lanciato Instagram. Guadagna rapidamente popolarità: 1 milione di utenti registrati in due mesi, 10 milioni in un anno.
Secondo Laurence Scott, docente alla New York University di Londra, “influenzare qualcuno era preoccupante molto prima che questo fosse digitale”. La parola “influenza” compare infatti in molte opere di William Shakespeare, in cui la condizione di essere influenzato è raramente felice o dignitosa, “farsi influenzare era legato a una sorta di servilismo irrazionale”. Questa visione diventa ancora più allarmante nella letteratura di Oscar Wilde, dove “essere influenzato significa essere dominato, sperimentare un’eclissi della personalità”. Oggi, dice Scott, non sono nemmeno più gli agenti umani quelli che influenzano bensì gli algoritmi, che determinano quali video vedere su YouTube, che danno priorità ad alcuni post sui social rispetto ad altri, i cui capricci assoggettano anche gli influencer stessi.
forward #31 — INFLUENCER — 3 / 2023 10
2013
Kylie Jenner, imprenditrice statunitense e una delle persone più famose online, annuncia in un tweet di usare molto poco Snapchat: le azioni della società scendono del 6 per cento quello stesso giorno, una perdita stimata tra 1,3 e 1,6 miliardi di dollari.
2014
Le statistiche mostrano che i consumatori iniziano davvero a essere in uenzati dagli in uencer sui social media: il 40 per cento dichiara di aver acquistato un articolo dopo averlo visto utilizzato da un in uencer e il 74 per cento si rivolge ai social per avere indicazioni sulle decisioni di acquisto.
La Food and drug administration (Fda) statunitense pubblica il suo più recente documento, ad oggi sono passati 9 anni, sulla pubblicità sui social media: non menziona Instagram e si riferisce a Twitter nel suo limite di 140 caratteri.
2015
Kim Kardashian posta su Instagram un farmaco per la nausea in gravidanza, invitando le sue follower ad utilizzarlo perché privo di rischi per il bambino. La Fda segnala il post per aver omesso gli e etti avversi, chiedendo di rimuoverlo e inviando all’azienda una lettera di avvertimento.
2017
La Federal Trade Commission, per la protezione dei consumatori negli Usa, pubblica delle linee guida chiedendo agli in uencer di diventare più trasparenti riguardo alle loro partnership e di evitare comunicazioni ambigue come #grazie, #collab, #ambassador.
2018
Secondo il Daily Mail, Ralphie Waplington è il più giovane in uencer dei social media della Gran Bretagna: ha soltanto due anni ma ben ventimila follower su Instagram. In realtà è solo un modello inconsapevole di vestiti per neonati.
La blogger Erin Ziering pubblicizza in un post le protesi mammarie del marchio Allergan, aggiungendo il tag #ad e non menzionando rischi e bene ci del prodotto, che viene ritirato lo stesso mese, in seguito a un avviso della Fda circa il rischio associato di linfoma
2019
Instagram raggiunge 1 miliardo di utenti a 9 anni dal lancio. Google riceve più di 90 mila query di ricerca per “in uencer marketing” in un solo mese.
In uencer è nella shortlist delle parole candidate nel “Word of the Year” del Collins English Dictionary e nello stesso anno viene u cialmente inserita nel Merriam-Webster Dictionary
In un tweet, Papa Francesco de nisce la Vergine Maria “la prima in uencer”, incoraggiando gli altri a seguire il suo #beato esempio di ondendo la parola di Dio.
2020
L’industria degli in uencer è valutata per circa 5-10 miliardi di dollari
2022
In Italia, invece, il giro d’a ari degli in uencer sui social media è stato poco più di 300 milioni
2023
Negli Stati Uniti, circa 59 milioni di persone si rivolgono a TikTok e altri social media per a rontare ed evidenziare condizioni croniche e problemi di salute.
Quasi tutti i brand presenti sui social media hanno adottato una qualche forma di in uencer marketing. Questa strategia si è dimostrata essere il modo più e cace perché i clienti abbiano ducia nel prodotto: un in uencer deve averlo provato su sé stesso Migliaia di in uencer di tutto il mondo mostrano su Instagram e TikTok quanto siano dimagriti grazie all’antidiabetico semaglutide. L’hashtag #ozempic raggiunge 2 miliardi di visualizzazioni e il nome è diventato anche un attributo per descrivere un volto scavato a causa del rapido dimagrimento: “Ozempic face”.
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FILO DIRETTO CON I CITTADINI
I VANTAGGI E I RISCHI PER L’INFORMAZIONE SCIENTIFICA
Un confronto tra professionisti sanitari, divulgatori e giornalisti
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Nino Cartabellotta Medico Fondazione Gimbe
Salvo Di Grazia Medico e divulgatore MedBunker –Le scomode verità
Pierluigi Lopalco Epidemiologo Università del Salento
Walter Ricciardi Medico di sanità pubblica Università Cattolica del Sacro Cuore Roma
Simona Scarioni Medica specializzanda Divulgatrice su Instagram “Escherichia Libri”
Roberta Villa Giornalista e divulgatrice
Antonella Viola Immunologa Università di Padova
A suo parere, c’è una continuità di “funzione” e di impatto sui comportamenti sanitari tra opinion leader e i nuovi influencer sanitari?
ANTONELLA VIOLA. Dipende da cosa si intende con i due termini. In alcuni casi un influencer sanitario ha alle spalle una carriera e delle competenze che ne fanno un opinion leader: in questi casi certamente c’è una continuità di funzione, nel senso che si tratta dello stesso ruolo con mezzi diversi. Naturalmente poi ci sono influencer in ambito sanitario che invece non hanno sufficiente cultura sanitaria e che non solo non sono opinion leader ma che fanno spesso anche danni.
WALTER RICCIARDI. Non vedo una continuità, ma un pericolo. Temo che oggi, soprattutto da parte di alcuni, venga banalizzata la complessità dei problemi e vengano date delle soluzioni semplici a problemi complessi. Che poi è ciò che oggi una popolazione poco alfabetizzata dal punto di vista scientifico e sanitario si vuole sentir dire.
PIERLUIGI LOPALCO. L’influencer, a mio avviso, è una persona che per qualche motivo è diventata famosa e per questo riesce a portare avanti delle operazioni di marketing. Dunque, la premessa fa capire perché mi spaventa la figura dell’influencer in ambito sanitario. L’opinion leader, invece, veniva e viene ascoltato per la sua autorevolezza scientifica.
NINO CARTABELLOTTA. La letteratura sulla implementation science dimostra l’efficacia – seppur modesta – degli opinion leader nel modificare i comportamenti professionali, ma solo se inserita nell’ambito di una strategia multifattoriale. Evidenze scientifiche, peraltro, utilizzate molto di più dall’industria farmaceutica che dalle organizzazioni sanitarie. I nuovi influencer sanitari durante il periodo della pandemia si sono rivolti a un pubblico generalista e i media hanno spesso puntato più sul confronto e sulla polarizzazione che sull’informazione scientifica. In assenza di evidenze che possano dimostrare la “continuità di funzione” e di impatto sui comportamenti professionali, le narrative ci dicono chiaramente che i professionisti hanno seguito gli “influencer sanitari”, sia nel
solco della scienza sia, talvolta, applicando posizioni francamente anti-scientifiche. Al punto che gli stessi cittadini e pazienti potevano scegliere, se volevano, il loro medico no-vax, no-mask o addirittura complottista. Fortunatamente molti di questi sono stati sospesi se non addirittura radiati dall’albo.
Una grande differenza tra gli opinion leader di una volta e gli influencer di oggi è che è venuta meno l’intermediazione della stampa: oggi gli influencer parlano e interagiscono direttamente col pubblico. Cosa comporta? Quali sono i rischi e i vantaggi?
SALVO DI GRAZIA. Non avendo il filtro della “traduzione” da parte del giornalista c’è una caratteristica tipica: si parla il linguaggio comune. Che è comprensibile ma spesso interpretabile, con risultati disastrosi. Inoltre il meccanismo di internet (e dei social) rende tutto più rapido. Messaggi semplici, veloci, brevi, non adatti ai delicati e complessi discorsi scientifici. È impossibile portare i dibattiti dei convegni scientifici nell’arena del web. E non dimentichiamo il protagonismo, la voglia di farsi notare, l’ubriacatura da riflettori. Quando mai un medico o uno scienziato ha una platea di un milione di spettatori che aspetta una sua dichiarazione? Sono trappole nelle quali è semplice cadere. I vantaggi? Sicuramente uno. Chi è veramente interessato o ha sincera curiosità ha una facilità enorme nel trovare risorse e notizie una volta impensabili. E contatti semplicissimi. Oggi posso parlare direttamente con un premio Nobel, se lui solo ne ha voglia.
ROBERTA VILLA. Credo si possa parlare dei rischi di questa disintermediazione se si parte dal presupposto che i giornalisti, generalisti e scientifici, svolgano effettivamente un ruolo di watch-dog e fact-checker. Negli anni scorsi, invece, purtroppo abbiamo visto anche su quotidiani tradizionali presunti esperti sostenere verità controfattuali senza nessuna obiezione da parte di chi li intervistava. Il ruolo di mediazione del giornalista presuppone un’indipendenza dalla politica e dagli inserzionisti che, diversamente da quella anglosassone, la nostra stampa purtroppo ha perso, o forse non ha mai avuto. La disintermediazione consentita dai social media, quindi, in assenza di questo filtro, fa a mio parere meno danno, soprattutto
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Temo che oggi venga banalizzata la complessità dei problemi e vengano date delle soluzioni semplici a problemi complessi.
— Walter Ricciardi
perché parallelamente consente uguale libertà e accessibilità al grande pubblico a chi vuole portare messaggi corretti, che sia una/o scienziata/o, una/un divulgatore o anche un vero e proprio influencer che decida di usare il proprio potere comunicativo a scopo sociale.
ANTONELLA VIOLA. Il ruolo del giornalista scientifico è essenziale nella comunicazione della sanità. Il problema è che, nonostante i giornalisti scientifici esistano e siano molto preparati, spesso a parlare di salute ci sono giornalisti che non hanno una preparazione specifica. È necessaria l’intermediazione? Dipende. Se l’influencer sanitario è competente, parla solo sulla base dei fatti acclarati e condivisi dalla comunità scientifica e sa comunicare, probabilmente non è necessario che tra il pubblico e lo scienziato ci sia un giornalista. Questo rende il rapporto più diretto, la scienza più vicina e accessibile ed è un bene per tutti. Ovviamente se una delle tre condizioni viene a mancare, il discorso cambia. Il giornalista scientifico per esempio ha il vantaggio di sapere chi è esperto di cosa e di utilizzare al meglio le competenze degli opinion leader. Faccio un esempio legato alla pandemia: c’è una grande differenza tra epidemiologia e immunologia ed ovviamente il pubblico può ricevere informazioni più complete se a parlare di diffusione dei contagi è un epidemiologo mentre l’immunologo parla dei vaccini.
NINO CARTABELLOTTA. Non è proprio così. Molti influencer erano già molto attivi sui social prima della pandemia, che poi ne ha potenziato il ruolo in termini di follower. Sino a generare l’interesse della stampa, oltre che di radio e televisioni. Diciamo che si è creata una interrelazione tra diversi media, tradizionali e non. La mia esperienza personale dimostra che la presenza multichannel ha potenziato complessivamente la circolazione dei messaggi delle analisi indipendenti della Fondazione Gimbe che volevo diffondere. È ovvio che rischi e vantaggi di questa dinamica sono correlati alla capacità di studio e di analisi del singolo influencer, ma soprattutto alla sua onestà intellettuale. Perché di fatto c’è chi ha sfruttato l’onda per divulgare bufale, avere un seguito, sino a tentare la scalata al Parlamento.
SIMONA SCARIONI. Il rapporto diretto con le persone è tra le cose più belle dei social: io posso stare seduta alla mia scrivania e parlare a uno schermo, e risuonare nelle case di migliaia di persone vicine e lontane. Non c’è filtro, non c’è rielaborazione, e se si lavora con costanza si costruisce uno stretto rapporto di fiducia con il pubblico, fiducia che richiede responsabilità. Personalmente ho sempre cercato di prepararmi il più possibile prima di affrontare un discorso su Instagram per essere ragionevolmente sicura di non sbagliare, di non prendere cantonate. Ma questo sta alla sensibilità di ciascuno di noi: nulla mi può vietare di manipolare l’informazione o l’esposizione per trasmettere un messaggio in modo disonesto. Non ci sono codici di condotta o regole valide per tutti. I social sono un mare libero in cui può essere complicato imparare a nuotare, sia come utente che come creator.
È stata criticata la molteplicità di punti di vista emersa nel periodo pandemico: ha nuociuto al cittadino oppure ne siamo usciti migliorati, con i cittadini più consapevoli su temi di salute? Siamo sicuri sia stata negativa questa ricchezza di informazioni?
PIERLUIGI LOPALCO. Durante la pandemia credo che l’abbondanza di informazioni sia andata a discapito della qualità: ricordo infatti che non sempre un raccolto abbondante è anche ricco. Il problema è stato dar voce anche a persone che non avevano competenze, ma non tutti i cittadini avevano gli strumenti per distinguere le informazioni di buona qualità da quelle di qualità inferiore. Dunque, credo che il cittadino medio sia stato confuso da questa sovrabbondanza di informazioni.
WALTER RICCIARDI. Il problema è che il cittadino medio non ha gli strumenti per discriminare il vero dal falso e molto spesso prende per buono ciò che vuole sentirsi dire. I social media poi hanno fatto il resto perché sono stati talmente pervasivi che le scelte sono state negativamente condizionate.
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Il ruolo di mediazione del giornalista presuppone un’indipendenza dalla politica e dagli inserzionisti che la nostra stampa purtroppo ha perso. — Roberta Villa
ANTONELLA VIOLA. Credo che la discussione nella scienza sia vitale, così come la molteplicità di punti di vista, ma il confronto tra esperti deve avvenire nel mondo scientifico e accademico e non davanti al pubblico che non conosce le dinamiche della scienza. Quando un divulgatore parla al pubblico deve mettere da parte le proprie opinioni e rappresentare il punto di vista della maggioranza della comunità scientifica, per poter dare ai cittadini dei punti di riferimento saldi. L’errore è stato portare sui media le opinioni personali non supportate dai fatti. Durante la pandemia i fatti erano pochi e cambiavano rapidamente ma questo non giustifica il comportamento di chi ha parlato senza tenerne conto.
ROBERTA VILLA. Credo che l’eccesso di informazioni abbia nociuto non tanto per un problema di quantità, ma di qualità e modalità. Prima di tutto, si sono sempre confusi fatti, ipotesi, sospetti, speranze e opinioni, in una comunicazione sempre strumentale a spingere i cittadini verso l’una o l’altra percezione della pandemia, mai per illustrarne la complessità o fornire alle persone gli strumenti per fare scelte libere e informate. Ho aggiunto il termine “modalità” perché questa informazione così mescolata nei contenuti è inoltre arrivata al pubblico attraverso dibattiti televisivi o posizioni contraddittorie di esperti che ci si aspettava dovessero essere considerati autorevoli, in un martellamento quotidiano h24 più simile alla propaganda che all’informazione. Nemmeno online si trovava un solo sito affidabile e univoco dove i cittadini potevano trovare risposte. Tutto questo non ha a mio parere nulla a che vedere con la "ricchezza di informazioni".
SIMONA SCARIONI. Quando si parla di medicina bisognerebbe sempre distinguere tra linee guida e opinioni. Facciamo un esempio: il Ministero della salute dice che un certo vaccino è raccomandato per le persone di una certa età in base alle evidenze scientifiche e alle linee guida internazionali, e in questo caso la mia opinione in merito dovrebbe essere irrilevante. Invece le persone chiedono la nostra opinione anche sulle raccomandazioni ministeriali, perché le persone tramite i social hanno costruito un rapporto di fiducia con noi, e si fidano di noi come si fidano della nonna e della sua ricetta per la torta di mele. Non è un fenomeno nuovo, ci sono fior fiore di storie di cialtroni e truffatori che hanno sfruttato la fiducia della gente, sia in ambito medico che non, ma temo che la pandemia abbia acuito molto questo aspetto, anche grazie alle molteplici voci che dicevano tutto e il contrario di tutto, sia sui social che in televisione e sui giornali. Non so sinceramente se la popolazione nel suo intero
abbia tratto giovamento da questa situazione o al contrario ne sia uscita più sfiduciata e stanca; sarebbe interessante fare uno studio a riguardo. Io, egoisticamente, spero che almeno la mia nicchia abbia acquisito un po’ di consapevolezza in più, un po’ di autonomia in più sui temi di salute. Spero di essere riuscita a trasmettere non tanto informazioni o nozioni su sars-cov-2, ma almeno un metodo per riuscire a informarsi in modo corretto, a discernere tra opinioni e raccomandazioni.
SALVO DI GRAZIA. A me è dispiaciuto tantissimo che tanti scienziati e (veri) esperti abbiano iniziato una sorta di “news war”, di guerra di informazioni. Perché se è vero che queste cose succedono ai convegni medici e che la discussione è l’anima del progresso, tante volte si dimentica che i social sono un’arena con spettatori di tutti i tipi, di estrazione e cultura diverse, e ognuno interpreta senza filtri. Sui social non c’è dibattito ma opinioni e se uno dice che è bianco e l’altro che è nero non resta al pubblico che dividersi, tifare per l’una e l’altra parte e il tifo, si sa, non è né razionale né obiettivo. In un momento di emergenza totale, ci è servito?
Quando un divulgatore parla al pubblico deve mettere da parte le proprie opinioni e rappresentare il punto di vista della maggioranza della comunità scienti ca. — Antonella Viola Tante volte si dimentica che i social sono un’arena con spettatori di tutti i tipi, di estrazione e cultura diverse, e ognuno interpreta senza ltri. — Salvo Di Grazia
NINO CARTABELLOTTA. Tre problematiche non hanno permesso di tesaurizzare l’esperienza pandemica. Innanzitutto i ricercatori, a fronte di una enorme mole di dati ottenuti in pochissimo tempo, hanno preferito massimizzare la produzione scientifica raggiungendo numeri di pubblicazioni e citazioni mai visti nella storia della ricerca biomedica. Un fenomeno definito covidization of research, che ha prodotto troppe pubblicazioni di bassa qualità e poche evidenze scientifiche robuste. In secondo luogo, frammentazione della ricerca, numero di studi e rapidità di pubblicazione hanno ostacolato la produzione di revisioni sistematiche e linee guida. E, infine, questa instabilità nel processo di produzione e sintesi delle evidenze ha contribuito a resuscitare il “parere dell’esperto”, già collocato dall’evidence-based medicine nella parte più bassa della piramide delle evidenze. Con quella molteplicità di punti di vista che si è di fatto polarizzata in fazioni di cui cittadini e pazienti si sono fidati in relazione a quello che volevano sentirsi dire.
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Ursula Kirchmayer, ricercatrice del Dep Lazio, ha scritto che “per veicolare messaggi basati su evidenze scientifiche e utili per la salute pubblica lo stesso Ministero della salute dovrebbe diventare un influencer e dotarsi degli stessi strumenti di chi lo fa con successo” (vedi p. 17). Cosa pensa a riguardo?
NINO CARTABELLOTTA. Ineccepibile. E non solo con gli stessi strumenti, ma anche con gli stessi linguaggi, nel pieno rispetto del ruolo istituzionale. I grandi propalatori di bufale sui social devono essere contrastati anche dalle istituzioni. Perché il loro silenzio, in quegli ecosistemi, legittima contenuti antiscientifici e ne favorisce la diffusione –un “silenzio-assenso” molto rischioso per la salute pubblica.
ANTONELLA VIOLA. Sono assolutamente d’accordo. Oggi il tema fondamentale per la sostenibilità del nostro sistema sanitario e della società tutta è la prevenzione. E promuoverla dovrebbe essere la missione primaria del Ministero della salute. Capire come comunicare alle varie fasce di età, studiando gli influencer sanitari che funzionano, è senz’altro una strategia vincente.
WALTER RICCIARDI. C’è del vero in questa affermazione: le istituzioni pubbliche dovrebbero acquisire la stessa padronanza e la stessa confidenza degli influencer nell’utilizzare i social media. È però molto difficile perché le istituzioni sono legate a meccanismi di comunicazione lenti, complessi, inadeguati. Il problema, però, è che i social media rispondono a una logica di profitto: strumenti come Facebook, Instagram o TikTok alimentano una serie di informazioni che tendono a mantenere le persone sulla piattaforma per il maggior tempo possibile per poter poi vendere la pubblicità. Fino a quando i social media non verranno regolati, le istituzioni perderanno sempre.
PIERLUIGI LOPALCO. In un mondo ideale sarei d’accordo. Alcuni tentativi, tra l’altro, sono stati fatti. Penso a “Dottore ma è vero che”, un sito di informazione della Fnomceo che tenta di parlare il linguaggio della divulgazione. Credo, però, che siti o sperimenti di questo tipo difficilmente riescano a raggiungere lo stesso risultato di un influencer. La forza degli influencer è che le persone si identificano con loro, e questo obiettivo è difficile che lo raggiunga il ministro della salute o un funzionario delle istituzioni. Quindi la metodologia comunicativa non può essere quella dell’influencer. Piuttosto è importante provare a capire quali siano le modalità comunicative più efficaci sui social media o su altre piattaforme. Altro discorso è che un ente istituzionale possa utilizzare un influencer per trasmettere messaggi positivi riguardanti la salute.
La forza degli in uencer è che le persone si identi cano con loro, e questo obiettivo è di cile che lo raggiunga il ministro della salute. — Pierluigi Lopalco
Con quale confidenza si allontana dai suoi terreni abituali quando si rivolge ai suoi follower sui social?
SIMONA SCARIONI. Generalmente cerco di affrontare solo temi attinenti alla mia area e che conosco bene. Mi è capitato di fare contenuti in ambiti diversi dal mio per promuovere associazioni o iniziative benefiche, ma in questi casi ho sempre cercato di fare contenuti efficaci ma molto imparziali e basilari. Preferisco indirizzare le persone ad altri profili esperti in un campo specifico diverso dal mio, se necessario.
ROBERTA VILLA. Pochissima confidenza. Sono molto più insicura di quanto sembri anche nei campi di cui leggo e studio ogni giorno, per cui ne esco raramente e solo se ho possibilità di prepararmi.
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Il silenzio delle istituzioni sui social media legittima contenuti antiscienti ci e ne favorisce la di usione.
— Nino Cartabellotta
SALVO DI GRAZIA. Direi che ormai ci sono abituato. Sono sul web da oltre 15 anni e i cambiamenti sono tanti però l’esperienza aiuta. In realtà sono due persone diverse. Quella in reparto e sala operatoria e quella che si esibisce sui social. Mi esibisco. Perché non ha senso (e sarebbe pure patetico) il medico che “evangelizza” i pazienti su internet. Però sono già vecchio per il “nuovo” web. Oggi attirano i balletti e le facce strane. Io resto nel mio. Meglio per me cercare la via più semplice per spiegare un concetto, usare l’ironia, che ogni tanto si lascia andare alla battuta, cercare il caso curioso. Alla fine io non ho mai voluto fare il divulgatore o l’influencer, lo sono diventato perché questo si è sui social, è il ruolo affibbiato, la parte che bisogna fare. A me piace sinceramente spiegare e stupirmi con i miei lettori. Per questo mi sento a mio agio. Quello che dico agli altri è quello che piace a me. Se ritengo una cosa interessante, tanto da raccontarla è perché ha stupito anche me.
In alcuni Paesi europei sono in vigore normative che obbligano gli influencer alla trasparenza sui compensi ricevuti: sarebbe d’accordo? Cosa pensa al riguardo?
SIMONA SCARIONI. Certo, è giusto che il pubblico sappia quando un contenuto è spontaneo e quando invece è sponsorizzato. Sta al creator valutare se la sponsorizzazione sia o meno coerente con i propri contenuti e con il proprio profilo e se sia giuridicamente consentito fare un contenuto sponsorizzato, ad esempio dal proprio codice deontologico. Se il creator ha fatto un buon lavoro costruendo la propria community, il pubblico capirà che in qualche modo tutti dobbiamo portare a casa da mangiare. Se non è così, allora c’è da spiegare l’importanza e il valore del lavoro che sta dietro i profili social, c’è da spiegare che un contenuto che si fruisce gratuitamente non è necessariamente un contenuto che si produce senza fatica e senza impegno.
Preferisco indirizzare le persone ad altri pro li esperti in un campo speci co diverso dal mio,
se necessario. — Simona Scarioni
ROBERTA VILLA. Credo che bisognerebbe trovare un modo per regolamentare il settore a tutto tondo, definendo prima di tutto in modo chiaro le differenze tra un influencer, un giornalista, un divulgatore sui social. Il business model dell’influencer è ben chiaro e accettato dal pubblico. Chi vede Chiara Ferragni gustare un gelato con scritto #adv sa che sta guardando uno spot, come in televisione o su un manifesto per strada. Il problema è come garantire una possibilità di guadagno a chi vuole fare della divulgazione un lavoro, senza creare conflitti di interesse che possano condizionarne i contenuti. Già oggi chi accetta sponsorizzazioni in teoria dovrebbe segnalarlo, ma tutto è affidato alla coscienza del singolo. Il supporto dei follower in genere è minimo. È un mondo nuovo, un mestiere nuovo per cui occorre creare nuovi modelli di sostenibilità economica.
A cura di Rebecca De Fiore
Ad oggi le campagne informative del Ministero della salute si basano su formati piuttosto classici e statici, che prevedono un canale monodirezionale dal Ministero verso il pubblico.
Gli in uencer, invece, utilizzano delle tecniche di comunicazione innovative e dinamiche per raggiungere i loro follower e di ondere le loro idee e opinioni anche su temi di salute spesso non corretti o per no pericolosi.
Per controbilanciare questo fenomeno e veicolare messaggi basati su evidenze scienti che e utili per la salute pubblica lo stesso Ministero dovrebbe diventare un in uencer e dotarsi degli stessi strumenti di chi lo fa con successo. Per farlo servirebbe un impegno che richiede tempo, dedizione e coerenza.
Per ogni contenuto che si vuole veicolare
bisognerebbe identi care la speci ca popolazione target (per esempio le donne in età fertile, se si tratta di un messaggio che riguarda la gravidanza). In base a questo target andrebbero identi cati tra i social media e le piattaforme digitali quelli che meglio raggiungono questa popolazione. Il contenuto da trasmettere dovrebbe essere confezionato in un messaggio interessante ed accattivante, con l’aiuto di esperti della comunicazione, sempre mirando alla fascia della popolazione che si vuole raggiungere.
L’aspetto cruciale riguarda l’interazione con il pubblico dopo il lancio del messaggio: è importante reagire a commenti e rispondere a domande in tempi brevi e con informazioni solide e trasparenti. In ne sarebbe utile monitorare il successo
delle attività, per esempio attraverso delle metriche di coinvolgimento, come il numero dei like o dei commenti, ma anche analizzando la qualità delle domande/risposte, per migliorare la strategia di comunicazione nel tempo. In alternativa il Ministero potrebbe cercare la collaborazione con degli in uencer a ermati, ma questo comporterebbe che il successo della campagna informativa sarebbe legato all’opinione pubblica sullo speci co in uencer. Nel momento in cui quest’ultimo/a dovesse assumere una reputazione negativa, anche il messaggio da lui/ lei veicolato rischierebbe di assumere un connotato negativo.
Ursula Kirchmayer
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Dipartimento di epidemiologia Servizio sanitario regionale del Lazio, Asl Roma 1
E se il Ministero della salute diventasse un in uencer?
Comunicare il dubbio può rendere PIÙ CREDIBILI
Intervista a
Se per Luciano Floridi online e o ine non possono essere più considerati mondi indipendenti (la nostra esistenza sarebbe onlife), in n dei conti il medico si confronta pur sempre con problemi reali vissuti da persone reali: nella giornata del medico arriva l’eco dei punti di vista degli in uencer che si pronunciano sulla possibile “ ne della pandemia”, sull’utilità – o sull’inutilità – delle misure di prevenzione, sul valore di un’innovazione presentata a un congresso internazionale?
In ospedale purtroppo arrivavano soprattutto gli echi degli influencer generici, quelli che hanno da dire la loro su tutto anche se non sanno di cosa parlano, solo perché hanno una grande audience, di quelli che alimentavano fake news e teorie del complotto, gli echi dei no-vax, dei negazionisti e dei minimizzatori. Qualche volta malauguratamente sostenuti da personaggi con una certa credibilità di facciata sia tra professionisti sanitari che tra i giornalisti e gli opinionisti vari. Personaggi perlopiù interessati a sostenere l’interpretazione di comodo della propria parte di riferimento, pur di fronte ad un problema così drammatico come la pandemia, quindi con l’aggravante di una certa dose di cinismo.
L’alfabetizzazione riguardo alla salute richiede tempi lunghi e uno sforzo strutturato e organizzato che andrebbe programmato e sostenuto continuativamente.
Nel lavoro di un medico geriatra –come di un medico di medicina generale –è frequente trovarsi nella necessità di dover gestire problemi clinici un poco distanti dalle proprie speci che competenze. In situazioni del genere può essere opportuno suggerire al malato di consultare un collega più esperto. Ciò premesso, che e etto fa ascoltare o leggere medici specialisti in virologia esprimersi sulle chiusure scolastiche o ricercatori in epidemiologia suggerire strategie cliniche?
Vittorio
è autore del libro “Di verità solo l’ombra” che raccoglie storie autentiche di vita professionale e di pazienti, e ha collaborato a “Emozioni virali. Le voci dei medici dalla pandemia”, entrambi pubblicati dal Pensiero Scienti co Editore.
In relazione al tema degli in uencer, c’è chi ha contribuito durante la pandemia ad aiutare i medici a farsi un’idea più precisa sulle scelte cliniche o sulle misure di prevenzione?
L’eccesso di informazioni è uno dei grandi problemi. Troppe informazioni di cui forse la maggior parte non di grande qualità. Avere gli strumenti intellettuali per distinguere tra informazioni attendibili (anche se magari incerte) e informazioni non attendibili credo che sia un problema centrale a diversi livelli, sia per i professionisti (penso per esempio al trascurato problema dei conflitti di interesse di chi produce contenuti scientifici) che per la popolazione generale. Per rispondere alla parte finale della domanda dirò che durante la pandemia ho avuto dei punti fermi informativi anche tra quelli che si potrebbero definire influencer. Penso per esempio all’immunologa Antonella Viola, all’infettivologo Massimo Galli, allo scrittore Paolo Giordano, allo scienziato Enrico Bucci, alla giornalista scientifica Roberta Villa.
In generale ammettere di non sapere è sempre dimostrazione di intelligenza, ed evitare di esprimersi su tutto è una regola da non dimenticare. Perciò chiedere agli esperti è sempre un’ottima soluzione. Tuttavia nel mio lavoro di geriatra mi capita spesso di esprimermi in campi che non sono propriamente i “miei”, sarebbe impensabile e controproducente per il paziente se dovessi rivolgermi in continuazione a specialisti diversi: cardiologi, pneumologi, neurologici, psichiatri e così via. Nella pratica clinica geriatrica così come credo nella medicina generale non è sempre necessario essere dei super specialisti (senza essere dei tuttologi) ma le conoscenze di cui si dispone, sia teoriche sia pratiche, sono spesso del tutto adeguate a gestire un ampio range di problemi clinici. Trovo però sempre fondamentale poter consultare anche informalmente colleghi specialisti quando ce n’è bisogno: lo scambio culturale fa sempre bene reciprocamente e lavorare in ambienti stimolanti e polispecialistici è una grande fortuna, non sempre realizzabile purtroppo. Certo, non mi avventurerei mai in campi distanti dalla mia formazione e dal mio ambito clinico. Per esempio la virologia o l’epidemiologia: mi aspetterei analoga cautela dalle altre parti.
Si può quasi sempre comunicare il dubbio senza che questo signi chi far apparire che si naviga al buio, anzi possiamo mostrare come le nostre competenze siano comunque fondamentali per navigare sicuri anche in mari agitati.
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Vittorio Fontana Medico geriatra ospedaliero
Fontana
Dopo la tragedia degli scorsi anni, l’alfabetizzazione dei cittadini in tema di salute è in n dei conti migliorata?
Dopo migliaia di articoli sui media, di trasmissioni televisive, nonostante il rumore di fondo, sappiamo qualcosa di più sui determinanti e sull’andamento di un’epidemia o su come si svolge il lavoro dei sanitari in una terapia intensiva?
La memoria è labile, credo che quello che credevamo appreso come conoscenza consolidata sia per la gran parte già volatilizzato. Tuttavia alcune procedure che avevamo acquisito (penso ad esempio al lavaggio delle mani, all’uso dei gel disinfettanti e delle mascherine, o le procedure di distanziamento) saranno più facili da richiamare alla memoria in caso di bisogno e forse si riveleranno quasi automatiche, proprio come accade per la memoria procedurale che non ci fa dimenticare come si va in bicicletta o si gioca a tennis se lo avevamo già imparato. Inoltre chi ha vissuto l’esperienza diretta della terapia intensiva per sé o per un suo caro non potrà certo dimenticare e avrà ben chiaro di che immane lavoro si svolga in quei reparti. Ma l’alfabetizzazione riguardo alla salute richiede tempi lunghi e uno sforzo strutturato e organizzato che andrebbe programmato e sostenuto continuativamente. Purtroppo l’analfabetismo scientifico, non solo sanitario, è piuttosto diffuso nel nostro Paese.
Da medico-che-vede-i-malati come ci si dovrebbe rivolgere al malato in una situazione in cui anche il clinico so re le di coltà imposte dal dubbio?
Nel “mandato” di molti influencer c’è avere sempre la risposta pronta per tutto, non possono ammettere l’incertezza, ne va della loro credibilità, devono sembrare sempre in possesso della verità. Questo chiede la gente. Credo invece che per noi comunicare l’incertezza che spesso caratterizza le nostre scelte sia l’unica strada possibile anche solo per onestà intellettuale. Adoro Socrate e “so di non sapere” è una specie di mantra: si può quasi sempre comunicare il dubbio senza che questo significhi far apparire che si naviga al buio, anzi possiamo mostrare come le nostre competenze siano comunque fondamentali per navigare sicuri anche in mari agitati. F
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Manichini allo specchio. Vorrei ma non posso. No, invece posso e devo. Ce n’è per tutti i gusti! Almeno una nuova borsa, una camicia o un paio di occhiali. Cammino e l’o erta in vetrina mi confonde e mi tenta. Un manichino invece mi chiama e mi convince. Ho la libertà totale di scegliere quello che preferisco. Davvero?
Foto di Lorenzo De Simone
BELLO,MA
Il mondo degli in uencer visto
Il panorama dell’informazione sulla salute e sulle terapie è cambiato negli ultimi anni?
DARIO SCAPOLA. Il panorama dell’informazione sulla salute in generale è cambiato sostanzialmente negli ultimi dieci anni, favorito dallo sviluppo dei social media come importante mezzo da cui attingere e deliverare informazioni. I social, nei fatti, hanno dato a chiunque lo volesse la possibilità di commentare qualsiasi cosa, pur senza avendo, molto spesso, le necessarie competenze e conoscenze per poterlo fare e rendendo così la comunicazione inappropriata e pericolosa. Ad esempio, quando nell’informazione sulla salute si decide di commentare l’efficacia di un farmaco o la disponibilità dello stesso presso i centri prescrittori, lo si deve fare nei rispetti della normativa e dei decreti che disciplinano l’informazione scientifica degli stessi. Il non farlo (e troppo spesso capita nei social media), oltre ad infrangere la norma, rischia di creare un’illusione o una preoccupazione nei pazienti, che dovrebbe o potrebbe essere evitata. In Roche, abbiamo un sistema di monitoraggio sui social e poniamo seria attenzione a quello che viene pubblicato e, nel contempo, spendiamo tempo e risorse in una continua formazione alle nostre persone, affinché la nostra informazione scientifica sulle aree terapeutiche in cui siamo presenti e nelle quali introduciamo innovazione farmacologica e tecnologica sia effettuata nel rispetto delle norme e del buon senso. Sono dunque ancora molto combattuto, osservando l’evoluzione della comunicazione sulla salute, se questa sia stata positiva o negativa; perché se da una parte ne vedo un salutare sviluppo naturale in un mondo che sta allargando i propri modelli di comunicazione, dall’altra ne intravedo l’abuso. Durante la pandemia, secondo me, abbiamo toccato con mano “il mio dubbio” sul cambiamento in corso. L’acceso dibattito, con toni violenti tra vax e no-vax, tra scienziati e non scienziati, sul nuovo virus si è sviluppato proprio perché tutti, avendo accesso in maniera incontrollata ad ogni tipo di piattaforma di comunicazione, pensavano di avere il diritto, la competenza e la conoscenza
— Dario Scapola
per parlare di determinati argomenti, pur non avendo nulla di tutto ciò. Il mondo sanitario, invece, dovrebbe rimanere ancora un settore in cui l’alzare la mano per prendere la parola dovrebbe rimanere un atto agevolato a chi ha le competenze per poterlo fare – inclusi gli influencer competenti che, con i loro messaggi basati su evidenze, chiariscono, con linguaggi semplici e più diretti, dubbi e perplessità.
FRANCESCA PATARNELLO. L’informazione sulla salute è cambiata perché è cambiata la nostra percezione della salute, in particolare dopo la pandemia covid. Ma non è soltanto questo. La facilità di dialogare attraverso sistemi digitali e la produzione continua di nuovi contenuti sui social media hanno accelerato esponenzialmente la produzione e lo scambio di informazioni. Fino ad alcuni anni fa poche persone detenevano la gran parte delle informazioni che comunicavano in modo parsimonioso e, in un certo modo, esclusivo. Oggi la situazione è cambiata: molte persone “competono” sul fronte dell’informazione ed è aumentato il bisogno di attirare l’attenzione spesso con notizie, o almeno titoli, più sensazionalistici. Ad essere cambiato è anche l’obiettivo del comunicatore che è quello di costruire una rete attorno all’oggetto dell’informazione e di farla crescere raccogliendo sempre più persone. Ma per sapere se la comunicazione è cambiata in meglio o in peggio andrebbe valutata la qualità dell’informazione stessa, in relazione all’obiettivo dell’informazione. Sono dell’idea che il grande cambiamento riguarda proprio il fatto che l’obiettivo principale dell’informazione sia evoluto nel costruire e alimentare una rete di persone interessate all’argomento. Per attirare l’attenzione di un maggior numero di persone si punta spesso su notizie che riportano fatti eccezionali e non informazioni strutturate, con la conseguenza che i destinatari dell’informazione sono sempre meno interessati alla comunicazione più approfondita, qualificata e validata, che fino a qualche anno fa era quella dell’esperto.
IVAN SILVA ROMERO. Assolutamente sì. L’industria farmaceutica è ancora abituata al fatto che l’opinion leader, spesso un medico, sia l’unica persona a poter dare la sua opinione su una patologia o un prodotto. Oggi con i social media tutti possono diventare influencer e potenzialmente parlare di ciò che vogliono: medici, farmacisti, infermieri, sociologi, psicologi.
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Francesca Patarnello VP Market access & Government a airs AstraZeneca
Dario Scapola Integrated access management Director Roche
Interviste a
Ivan Silva Romero Southern cluster payer value & Patient access Director Kyowa Kirin
Prendere la parola dovrebbe rimanere un atto agevolato a chi ha le competenze per poterlo fare. Inclusi gli in uencer competenti.
BELLO,MA non ci vivrei. dalle industrie farmaceutiche
A suo parere, c’è una continuità di “funzione” e di impatto sui comportamenti sanitari tra opinion leader e influencer sanitari?
DARIO SCAPOLA. Vedo positivamente il grande opinion leader diventare anche influencer. Da lui/lei mi aspetto che sappia utilizzare sapientemente ogni strumento di comunicazione adattando il messaggio alla diversa piattaforma che deciderà di impiegare. Oggi non trovo ancora sia così.
Una maggiore libertà nella comunicazione può favorire lo scambio di idee o è rischiosa?
IVAN SILVA ROMERO. Credo sia allo stesso tempo un’opportunità e un rischio. Da un lato andare su qualsiasi social media e trovare la risposta alla domanda che cerchi rende tutti uguali, tutti parte di un unico mondo; dall’altra c’è il rischio che le fonti non siano appropriate, che chi parla lo faccia senza cognizione di causa e per questo anche se pensi di aver trovato la risposta non è quella corretta. L’unica soluzione penso sia essere sempre più aperti a collaborare con gli influencer; se invece rimaniamo conservativi, non andiamo da nessuna parte.
L’unica soluzione penso sia essere sempre più aperti a collaborare con gli in uencer. Se invece rimaniamo conservativi, non andiamo da nessuna parte. — Ivan
Silva Romero
sciti a costruire uno spazio per l’informazione al pubblico normato e non totalmente ingessato: è ovvio che se mettiamo troppi paletti alcune attività diventano ingestibili nella pratica. Serve quindi studiare un modo per cui anche le aziende farmaceutiche possano – in maniera regolata – contribuire ad offrire delle informazioni sul mondo della salute e del farmaco che siano a vantaggio dei pazienti, e costruire qualche cosa di più rispetto allo strumento delle medical information adottato dalle aziende per fornire informazioni mediche sui farmaci ma insufficiente per essere una risposta alla domanda di informazioni rivolta al paziente.
La vostra azienda ha mai coinvolto un influencer e, in caso, con quali risultati?
FRANCESCA PATARNELLO. Abbiamo una grande domanda di informazioni rivolta al paziente sull’educazione sanitaria, sull’uso dei farmaci e la diagnosi, sull’accesso alle terapie e sui percorsi di cura che esula l’area del farmaco. Penso che l’industria possa fare qualcosa per soddisfare questa domanda e che possa farlo in un modo molto qualificato perché altrimenti impatterebbe negativamente sulla reputazione aziendale. Se n’è parlato tante volte per decenni ma non si è mai riu-
FRANCESCA PATARNELLO. Dovremmo definire che cosa intendiamo per influencer. Se per influencer intendiamo la persona che – per lavoro – costruisce una rete per promuovere un prodotto dell’azienda sponsor, non ci siamo mai affidati a questa figura né ci siamo mai rivolti agli influencer il cui oggetto di comunicazione rientra in alcune aree di nostro interesse. Al contrario, se per influencer intendiamo una persona che tramite il suo network aiuti a sensibilizzare sui temi riguardanti la salute, sì lo abbiamo fatto in diverse iniziative. Diverso invece è il ruolo dell’esperto, del clinico o anche del rappresentante di associazioni di pazienti ad esempio. In questo caso la comunicazione e l’informazione sono importantissimi, ma non li classificherei tra le attività di “influencer”. Sicuramente il loro ruolo e la loro expertise sono fondamentali anche nel caso di campagne di disease awareness al fine di veicolare, in modo semplice ed esaustivo, i messaggi che vogliamo trasmettere, ad esempio l’importanza dell’aderenza alle terapie o quella della dieta in presenza di alcune malattie.
La salute è un ambito che si presta molto alla figura dell’influencer perché riguarda tutti i destinatari delle informazioni e perché i messaggi arrivano facilmente soprattutto nei momenti di difficoltà e fragilità delle persone che diventano più sensibili a questo tipo di comunicazione. La figura dell’influencer medico-scientifico è legittima se
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t l’obiettivo è quello di fare una buona comunicazione e cambiare in meglio i comportamenti delle persone. Il punto critico è la deriva verso il sensazionalismo: se la priorità è ampliare la propria rete con messaggi finalizzati a suscitare interesse, alla fine il titolo prevale sul contenuto. Questo rischio non è relegato alla comunicazione sui canali digitali e social media, ma lo si corre anche sui media tradizionali, sulla stampa. La tendenza al sensazionalismo aumenta in modo esponenziale dove c’è più “competizione” e l’obiettivo è quello di catturare l’attenzione delle persone. Il pericolo è di creare dei professionisti del “sensazionalismo sanitario”. Abbiamo già delle società di marketing influencer e di healthcare influencer che offrono figure professionali – un mercato in espansione che purtroppo è difficile da regolamentare e controllare. Credo che l’unico modo per proteggersi dal rischio di un’informazione poco qualificata sia quello di fornire delle fonti attendibili e validate che possano essere un riferimento per chiunque abbia necessità di fare uno screening delle informazioni che circolano.
Credo che l’unico modo per proteggersi dal rischio di un’informazione poco quali cata sia quello di fornire delle fonti attendibili e validate.
— Francesca Patarnello
IVAN SILVA ROMERO. Come premessa, bisogna dire che se un’azienda decidesse di coinvolgere influencer dovrebbe scegliere persone credibili. Ad esempio, se parliamo di una patologia dovrebbe dare la parola a un professionista sanitario. Kyowa Kirin non lo ha mai fatto: non possiamo permettere che una persona parli sui social di una patologia o di un nostro prodotto senza prima sapere cosa dirà e a chi parlerà, è troppo rischioso. Spero si arrivi a definire una regolamentazione così che si possa farlo con maggiore sicurezza. Se, invece, parliamo di dare la parola a dei pazienti come testimonial allora lo facciamo: si tratta però di persone che raccontano la loro esperienza.
DARIO SCAPOLA. A Roche è capitato spesso di coinvolgere influencer in tanti progetti come “A fianco del coraggio” o “Screening routine”; progetti, tuttavia, in cui l’obiettivo non è mai stato quello di fare informazione scientifica, per la quale preferiamo operare rimanendo sui canali tradizionali, quanto invece sensibilizzare una platea più ampia possibile sulla necessità e importanza del caregiver (un soggetto ancora trasparente nella nostra società) e della prevenzione. “A fianco del coraggio”, alla sua sesta edizione, per esempio, premia i
Ci è capitato spesso di coinvolgere in uencer in tanti progetti in cui, tuttavia, l’obiettivo non è mai stato quello di fare informazione scienti ca, per la quale preferiamo operare rimanendo sui canali tradizionali. —
Dario Scapola
compagni di vita che davanti una diagnosi infausta non scappano ma diventano anche caregiver. Nel progetto abbiamo coinvolto attori molto noti che hanno contribuito a sensibilizzare, anche attraverso i loro canali di comunicazione, l’importanza e il valore del caregiver nel percorso di cura che i pazienti sono chiamati ad affrontare.
Quali cautele deve usare un’azienda farmaceutica nel momento in cui si avvicina a un influencer o coinvolge un influencer per determinate campagne o progetti?
DARIO SCAPOLA. Dovrebbe innanzitutto tenere a mente il tipo di influencer e l’ambito in cui vuole coinvolgerlo. Se parliamo di opinion leader scientifici (e quindi esperti del settore sanitario), divenuti anche influencer per il numero di persone da cui sono seguiti, il confronto e il coinvolgimento sono utili ed efficaci. Quando invece ci si avvicina ad influencer esterni al settore della salute, ecco che un’azienda farmaceutica dovrebbe limitare il coinvolgimento attirando la loro attenzione, per esempio, sulle campagne di prevenzione e di screening, sull’importanza dell’aderenza alle terapie, sui livelli minimi di assistenza (che purtroppo non vengono aggiornati da diversi anni) e sulle priorità definite nell’agenda del nostro Ministero della salute.
FRANCESCA PATARNELLO. Nell’ambito della salute e del farmaco la divulgazione fatta da un influencer, nel caso in cui non sia controllata, può avere delle conseguenze. L’industria farmaceutica, più di altri attori, deve attenersi alle norme che regolano la comunicazione e che sono garanzia di una buona informazione, corretta e responsabile. Comunque queste cautele dovrebbero riguardare tutti, anche gli influencer la cui attività però
— Francesca
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L’industria farmaceutica, più di altri attori, deve attenersi alle norme che regolano la comunicazione e che sono garanzia di una buona informazione, corretta e responsabile.
Patarnello
non è normata. Dall’altra parte avvicinarsi agli influencer per collaborare su aree di informazione può avere un impatto importante e positivo sui comportamenti che riguardano la salute, pensiamo agli stili di vita come per esempio la disassuefazione dal fumo.
C’è una differenza sull’utilizzo delle attività degli influencer o dei testimonial da un Paese all’altro?
Per esempio la sede Italia della vostra azienda adotta delle linee guide generali raccomandate dalla sede centrale a prescindere poi dalla normativa del singolo Paese?
IVAN SILVA ROMERO. Kyowa Kirin ha delle linee guida generali che tutte le nostre sedi devono seguire a prescindere dalle normative locali. Anche perché i post pubblicati in Italia sui social media si possono vedere e rilanciare anche negli altri Paesi e, se andassero contro le normative, potrebbero comunque mettere l’azienda in difficoltà. Dal mio punto di vista, per evitare rischi bisognerebbe lavorare su linee guida comuni per tutte le aziende, una iniziativa che dovrebbe essere facilitata dalle associazioni di categoria di ciascun Paese.
FRANCESCA PATARNELLO. Abbiamo delle regole comuni generali che puntano alla correttezza e appropriatezza per una buona informazione che non deve avere impatti negativi. A queste si aggiungono delle normative locali che, in modo diverso, regolano l’informazione negli Stati Uniti, in Europa e nei Paesi asiatici. Vi è poi una differenza culturale che riguarda l’aspettativa e il diritto di essere informato direttamente, una esigenza più sentita in alcuni Paesi che in altri. In tempi diversi, i cittadini arriveranno a voler essere informati direttamente e sceglieranno a chi rivolgersi per essere informato scegliendo la persona che considerano più affidabile. Questo sarebbe un salto culturale importante nella qualità dell’informazione su temi della salute e nella figura dell’influencer che ci spingerebbe ad affidare un ruolo divulgativo alle persone che sanno comunicare bene, puntando alla qualità e non al sensazionalismo e rispettando le regole del gioco.
A cura di Rebecca De Fiore
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Per evitare rischi bisognerebbe lavorare su linee guida comuni per tutte le aziende.
— Ivan Silva Romero
Degli INFLUENCER , de e della STUPIDI
tà, come direbbe Herbert Grice. Sii sincero, perché la comunicazione funziona davvero quando parli di cose che conosci bene e della cui bontà “sei convinto”.
La comunicazione dovrebbe essere orientata da tre coordinate di base: le intenzioni, il contesto e gli interlocutori ai quali si rivolge. Un in uencer piani ca la propria comunicazione o agisce per lo più in modo spontaneo e immediato?
Credo che prima di questa domanda ci si debba chiedere cosa intendiamo con influencer. In linea teorica, qualunque persona che ne influenza altre con le proprie opinioni, con le proprie idee e con quello che condivide, è un influencer. Micro o macro influencer a seconda anche del bacino di utenza. Ma il discorso finisce spesso per creare un’opposizione inesistente fra divulgatore e influencer. Un esempio: Alessandro Barbero è un docente e uno studioso, ma è anche un influencer nel suo campo. Quella di influencer è un’etichetta spesso usata per creare una cesura: se sei influencer non sei un’altra cosa, e si è visto nella discussione che ha riguardato Michela Murgia. Sappiamo anche che esistono invece tante persone, mediamente giovani, che non fanno divulgazione ma raccontano la loro vita, dall’organizzazione di un armadio agli argomenti più vari che riguardano il lifestyle – e di questo, attraverso le sponsorizzazioni, hanno fatto un lavoro. Quindi la domanda prima di tutto è: a chi ci riferiamo? A persone che hanno un background di studi e che per vari motivi, compresa la popolarità, sono diventati anche influencer? O a chi racconta la propria manicure o il beverone che fa dimagrire?
Chi usa la presenza online come lavoro ha la necessità di sapere in che contesto si muove e deve sicuramente implementare una strategia comunicativa per attirare il più ampio numero possibile di persone. Possiamo interrogarci sulle intenzioni, che non sempre possono essere chiare.
Perché ritiene che le intenzioni di chi comunica siano un aspetto fondamentale?
Vera Gheno Linguista Università di Firenze
Perché credo che sia un aspetto che riguarda anche la propria coscienza. In che consapevolezza e con quale coscienza divulghi le tue idee? Penso che per molti la spinta sia quella di condividere informazioni ritenute importanti con un pubblico più ampio possibile. Ma c’è anche chi lo fa solo per lo hype e per ricevere il like. E ce ne sono.
E lì, soprattutto, è una questione di sinceri-
La stupidità dei colti è un grosso problema che, soprattutto in rete, può avere delle conseguenze de agranti. È così importante sapere di non sapere e riconoscere i limiti della propria conoscenza, in qualsiasi campo. La realtà è complessa e ha bisogno di una chiave di lettura complessa.
Sincerità e competenza: perché però si nisce con l’esprimersi anche su argomenti distanti dal proprio ambito?
Nel campo della medicina e soprattutto durante la pandemia molte persone hanno detto di tutto. Credo che esista un problema di hubris, di tracotanza, che riguarda le persone molto competenti. Spesso le persone molto competenti in un campo, ahimè, si improvvisano esperte di altri campi: così che abbiamo visto un virologo improvvisarsi linguista per spiegare perché non bisogna usare i femminili professionali ricorrendo a esempi che hanno fatto accapponare la pelle a chiunque abbia studiato la morfologia della lingua. Ecco: la stupidità dei colti è un grosso problema che, soprattutto in rete, può avere delle conseguenze deflagranti
Come rispondere a una domanda su un tema che non conosciamo?
Le confesso che anche a me chiedono l’opinione sulla qualunque e io nella maggior parte dei casi molto tranquillamente rispondo “Non lo so” o “Non sono competente”. Fine e non succede nulla. Non è che io perda di credibilità nel mio campo perché quando mi hanno chiesto cosa penso dei vaccini ho risposto di non avere nulla di intelligente da dire, se non che mi sono vaccinata quattro volte. No? Ci si può sottrarre al giochino di improvvisarsi esperti. Mi chiedo sempre quanto le persone, socraticamente parlando, arrivate a un certo livello di sapere, continuino a ricordare che la loro competenza è relativa. Cioè, quando arrivi a essere considerato il semidio della virologia, ti ricordi che non sei un meteorologo o esperto di vini? È così importante sapere di non sapere e riconoscere i limiti della propria conoscenza, in qualsiasi campo.
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Intervista a
lla COMUNICAZIONE TÀ DEI COLTI
Covid ha obbligato a cambiare idea, perché nuove evidenze hanno via via modi cato la conoscenza sulla malattia, sui meccanismi del contagio, sulle misure di prevenzione. Da linguista, cosa basterebbe dire per ammettere con sincerità che le proprie convinzioni sono cambiate?
Penso che alla base di tutto ci sia una mancanza di abitudine al pensiero metacognitivo. La maggior parte delle persone è inconsapevole del fatto che il metodo scientifico, in qualsiasi campo, procede attraverso trial and error, cioè prevede che sullo sbaglio si costruisca nuovo sapere e si avanzi. Un pensiero scientifico che neghi la possibilità di avere sbagliato è antiscientifico. La storia della conoscenza è piena di errori e di cambiamenti di paradigma. Anche l’esperienza cognitiva è disordinata, pure quando è massimamente scientifica.
Molte persone si abituano ad avere ragione. Ho la fortuna di aver studiato con maestri e maestre che mi hanno insegnato il pensiero divergente in ambito linguistico, il “thinking out of the box”. Posso immaginare che contribuisca anche l’età, che potrebbe suggerire di sedersi su quello che si conosce come noto facendo smarrire la voglia di esplorare l’ignoto. Penso che sarebbe molto importante ascoltare voci autorevoli dire “Abbiamo sbagliato, dobbiamo rifare lo studio”, perché anche chi è fuori da questi contesti specifici potrebbe abituarsi all’idea che è proprio così che funziona il pensiero scientifico.
Aggiungerei una cosa: Tullio De Mauro nel 1975 pubblicò le dieci tesi per l’educazione linguistica democratica, nelle quali sosteneva che non bastava l’insegnamento formale alla grammatica, ma occorreva insegnare la complessità del sistema linguistico in tutte le sue sfaccettature. Perché? Perché la realtà è complessa e ha bisogno di una chiave di lettura complessa. Era l’idea dell’esercizio di un pensiero metalinguistico oltre che linguistico. Ecco, questa stessa idea andrebbe allargata a tutte le materie per abituare le persone alla complessità del pensiero metacognitivo, cioè a come si studiano le cose, a come si avanza nei vari campi del sapere.
Dovrebbe esserci molta più compenetrazione e collaborazione fra mondi scienti ci e mondo degli in uencer, perché in questo modo si potrebbe anche aspirare ad aiutare le persone a capire meglio le cose.
Cosa rende in uencer una persona competente?
Da una parte sicuramente la competenza e dall’altra anche la capacità di tradurre concetti complessi in una lingua comprensibile alla maggior parte delle persone. Poi, se hai fortuna, se sei anche simpatica o carismatica, puoi fare il salto di qualità e diventare una influencer in senso positivo. Continuo a dare alla parola una valenza assolutamente duplice. Intendo dire che non condivido il disprezzo che spesso è associato alla figura dell’influencer. Anzi, secondo me ci dovrebbe essere molta più compenetrazione e collaborazione fra mondi scientifici e mondo degli influencer, perché in questo modo si potrebbe anche aspirare ad aiutare le persone a capire meglio le cose.
Anche se esistono in uencer portatori di false informazioni…
Quando inizi ad avere la sensazione che hai una legione di persone che ti segue, tenere dritta la barra è complicato.
Tornando al pensiero di Grice, c’è una domanda a cui può rispondere in buona fede solo la persona interessata, che può ammettere di sapere di non sapere. Sei convinto, convinta della bontà e della validità delle cose che vai dicendo? Può esserci un problema di autoinganno. Oppure si può essere in cattiva fede ed è anche peggio. Cioè lo si può fare per i soldi, o per la fama, e non per il desiderio di condivisione della conoscenza. È difficile resistere al richiamo del guadagno facile. Quando inizi ad avere la sensazione che hai una legione di persone che ti segue, tenere dritta la barra è complicato.
A cura di Luca De Fiore
Sociolinguista, traduttrice e divulgatrice, Vera Gheno si occupa in particolare di comunicazione digitale e di inclusività nella lingua italiana.
È una sostenitrice dell’uso dello scevà (-ə) nella lingua italiana scritta e orale. Conduce il podcast
settimanale “Amare parole”, prodotto da Il Post. Nel suo ultimo libro “L’antidoto. 15 comportamenti che avvelenano la nostra vita in rete e come evitarli”
(Milano: Longanesi, 2023) spiega come rendere la rete un posto migliore per tutti.
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VIGILARE della salute sugli influencer
PER UN ECOSISTEMA SOCIAL SANO
In principio ci furono una cantante e un’attrice. Nel 2005, Kylie Minogue rese pubblica la sua diagnosi di cancro al seno. In Australia, il suo Paese, la copertura giornalistica sui tumori femminili immediatamente aumentò del 20 per cento e le prenotazioni di screening, come la mammografia, crebbero del 40 per cento in poche settimane1. Nel maggio 2013, con un editoriale sul New York Times, Angelina Jolie condivise una scelta medica clamorosa. In ragione dell’alto rischio di sviluppare un tumore, scoperto dopo test genetici, spiegò: “Ho deciso di sottopormi a una doppia mastectomia preventiva. Scelgo di non mantenere privata la mia storia perché ci sono molte donne che non sanno che potrebbero vivere all’ombra del cancro. La mia speranza è che anche loro possano sottoporsi al test genetico e che, se corrono un rischio elevato, anche loro sappiano di avere opzioni valide”2. Una ricerca sistematica ha evidenziato reazioni simili al caso precedente: +285 per cento di segnalazioni per tumori femminili e +80 per cento di richieste di test genetici3. Sebbene la scelta di Jolie sia stata più consapevole e mirata, i due episodi potrebbero essere considerati pionieristici del potere mediatico dei personaggi pubblici nel campo della salute.
Immenso spazio pubblicità
Oggi sotto alcuni account da centinaia di migliaia di follower compaiono le etichette di influencer di ogni genere, impegnati nel campo della salute: “med-influencer”, “healthinfluencer, “pharma-influencer”. Spesso non sono medici né ricercatori e nemmeno giornalisti scientifici. Con quelle etichette si oltrepassa il concetto, già vago, di divulgazione o di education, per trasformare in “consiglio per gli acquisti” un’esperienza personale, uno stile di vita, sponsorizzati da brand di cosmetica, di integratori alimentari, di cliniche estetiche, di pratiche pseudomedicali.
Insomma, una volta c’era solo “Dottor Google”, cioè quella (insidiosa) ricerca di sintomi e relative diagnosi in cui chiunque si è cimentato almeno una volta nella vita; oggi l’influencer marketing ci coinvolge scrollando video e persino meme.
Il mercato degli influencer sui social media in Italia è stimato in circa 280 milioni ed è in crescita; a livello mondiale il giro d’affari sfiora i 14 miliardi. Dei 350mila creator italiani,
che vantano numeri sufficienti per influenzare e svolgono attività promozionali, sono ancora in pochi a occuparsi di salute. Solo il 15 per cento di loro si occupa di fitness e benessere, per esempio4. Da quando l’audience dei mass media tradizionali è stata superata da quella dei social network, il campo delle promozioni commerciali è diventato immenso e libero, troppo libero. Se le forme di pubblicità pervasive, occulte, menzognere diventano un rischio solo per le finanze dei consumatori, quando investono la salute dei cittadini occorre vigilare e regolamentare.
Il lento iter italiano
Pochi mesi fa, a metà luglio, l’ Agcom – Autorità per le garanzie nelle comunicazioni – ha avviato una consultazione sulle “misure volte a garantire il rispetto, da parte degli influencer, delle disposizioni del Testo unico dei servizi di media audiovisivi”5. In sostanza, si chiede ai creator di Instagram, TikTok e YouTube (per citare i social più vivaci in termini di traffico e business) di rispettare le regole dei fornitori di servizi audiovisivi tradizionali. Oltre alle premesse e alle istruzioni per partecipare alla consultazione, l’Agcom non ha ancora fornito aggiornamenti. L’estate 2023, tuttavia, è stata molto vivace su questi temi e due Paesi europei – Francia e Spagna – hanno già avviato la creazione di norme per le attività degli influencer.
I veti e le sanzioni della Francia
A giugno, il parlamento francese ha approvato, all’unanimità, una legge sulla regolamentazione delle attività promozionali degli influencer, fino ad allora non considerate come pubblicità e dunque al di fuori di ogni garanzia di affidabilità o veridicità. Si tratta di norme alle quali hanno concorso tutti i partiti e sono mirate a definire nei dettagli il settore e i suoi operatori. Questi sono identificati come coloro che “dietro compenso utilizzano la propria notorietà per comunicare, sui media online, contenuti volti a promuovere, direttamente o indirettamente, beni, servizi o qualsiasi causa”. È evidente come la salute interessi il legislatore francese che, tra i divieti previsti, include: la promozione di pratiche come la chirurgia estetica e l’astensione terapeutica, le
campagne contro l’accanimento delle cure, così come la pubblicità a dispositivi medici e prodotti contenenti nicotina. Resta, invece, fuori dalla normativa, che tuttavia non ha concluso il suo iter, l’alcol. Sono state comprese invece le applicazioni tecnologiche finalizzate a ingannare i consumatori: le immagini promozionali di prodotti cosmetici veicolati con i filtri digitali sono permesse ma occorre dichiararlo. Come ogni legge, sono previste le sanzioni per i trasgressori: fino a due anni di reclusione e 300mila euro di multa6
La Spagna contro il junk food
In Spagna nel mirino del legislatore ci sono gli influencer del junk food, ovvero del cibo spazzatura. Con una legge attualmente in discussione, il governo vuole vietare la pubblicità che dai social è indirizzata ai giovani, per promuovere uno stile di vita sano. Quattro bambini su dieci, infatti, sono in sovrappeso e negli ultimi vent’anni la popolazione infantile obesa è raddoppiata. La causa del problema, si sa, è multifattoriale, perciò gli enti spagnoli hanno messo in campo una strategia a largo raggio7, elaborata con le indicazioni dell’Unicef, dell’Organizzazione mondiale della sanità e di enti di ricerca. La regolamentazione dell’influencer marketing di merendine e bibite gassate ultra zuccherate, però, è attualmente in stallo. Per questo i consulenti scientifici che hanno partecipato al comitato scientifico hanno firmato un appello, pubblicato su The Lancet, per accelerare il processo di regolamentazione8 Più che contare sull’autodisciplina degli influencer o sull’umanità dell’algoritmo, occorre costruire insieme un ecosistema sociale sicuro e sano.
Maria Frega
1. Chapman S, et al. Med J Aust 2005;183:247-50.
2. Jolie A. My medical choise. New York Times, 14 maggio 2013.
3. Troiano G, et al. Health Education Journal 2017;76:707-15.
4. Monaci S. Cresce il giro d’a ari degli in uencer in Italia: business da 280 milioni. Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2021.
5. Agcom. Avvio della consultazione pubblica relativa alle misure volte a garantire il rispetto, da parte degli in uencer, delle disposizioni del “Testo unico sui servizi di media audiovisivi”. 21 luglio 2023.
6. LOI no 2023-451. Journal o ciel de la République française, 10 giugno 2023.
7. Alto Comisionado contra la pobreza infantil. Plan estratégico nacional para la reducción de la obesidad infantil (2022-2030). En Plan Bien. Madrid 2022.
8. Royo-Bordonada MA, et al. The Lancet 2023;401:1493.
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Le forme di pubblicità pervasive e menzognere sono un rischio per le nanze dei consumatori. Ma quando investono la salute dei cittadini occorre vigilare e regolamentare.
Gli integratori alimentari in pasto ai social media
Gli integratori alimentari per il miglioramento delle performance sportive, per la salute delle pelle e dei capelli oppure per la perdita di peso sono alcuni dei temi che ben si prestano alla diffusione di informazioni sui social, con l’obiettivo di dare suggerimenti per il raggiungimento di stili di vita “ideali”. Parlando di questi prodotti, a cosa servono e come utilizzarli, anche senza avere le competenze, si può creare facilmente una comunità di follower influenzabili. Questa è una possibile strategia di marketing talmente vantaggiosa per i brand, vuoi per le facili modalità di acquisto dei prodotti, vuoi per il basso costo dell’influencer marketing, che molte aziende hanno del tutto abbandonato i tradizionali modi di vendita1,2. Ma spesso gli influencer, anche per i compensi offerti dalle aziende produttrici, danno informazioni fuorvianti o comunque molto superficiali, e danno suggerimenti senza averne le competenze.
Un’indagine di Altroconsumo del 20203 ha evidenziato casi di pubblicità ingannevole e spesso occulta degli influencer che promuovono integratori alimentari utilizzati per la perdita di peso. Tale aspetto, ancora del tutto sommerso e di difficile regolamentazione, rientra in un contesto delicato in cui la correttezza dell’informazione e il modo in cui essa viene proposta al pubblico può avere importanti ripercussioni sulla salute e sugli stili di vita delle persone.
Lo stesso Ministero della salute ha raccomandato di “diffidare da prodotti miracolosi”. Tuttavia malgrado questi tentativi la questione risulta sempre attuale e l’utilizzo di tali prodotti è in ascesa esponenziale soprattutto tra i più giovani, più inclini a seguire i “trend”.
Francesca Menniti Ippolito
Ilaria Ippoliti
Centro nazionale per la ricerca e la valutazione preclinica e clinica dei farmaci Istituto superiore di sanità, Roma
1. Klein JJ, Schweikart SJ. Does regulating dietary supplements as food in a world of social media in uencers promote public safety? AMA J Ethics 2022;24:E396-401.
2. Alarfaj M. In uencers on Instagram play an important role in spreading dietary supplement related misinformation. Networkconference.netstudies.org, 28 aprile 2021.
3. Metta M. In uencer e integratori: troppe informazioni ingannevoli. La nostra denuncia all’Antitrust. Altroconsumo, 14 ottobre 2020.
Un utile vademecum sugli integratori alimentari per proteggersi da un'informazione non basata sulle evidenze.
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INFLUENCER , ADOLESCENTI, DISTURBI ALIMENTARI
Intervista a
Direttrice Uoc Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione Usl 1 dell’Umbria
Sui social la comunicazione molto diretta, coinvolgente, con il proprio follower è centrata sull’immagine dell’altro da prendere come modello. Quanto i social media possono in uenzare il rapporto con il proprio corpo e con il cibo di un adolescente e di una adolescente?
Vorrei fare una premessa per inquadrare il problema. Sui social abbiamo due diversi profili di influencer: il food influencer e il fit influencer che, rispettivamente, propongono modelli alimentari finalizzati al controllo del peso e modelli corporei da raggiungere. Sono due filoni distinti ma che si intersecano: l’adolescente che segue un influencer con il modello di magrezza assoluta certamente segue anche un influencer che suggerisce un’alimentazione molto restrittiva abbinata a una intensa attività fisica. L’immagine corporea diventa un punto centrale nell’adolescente che è in una fase di trasformazione e con l’influencer si instaura una relazione virtuale di identificazione e imitazione. Ma il modello proposto sul social media è lontano dalla realtà. Molte delle foto pubblicate su Instagram sono modificate con Photoshop e raccontano uno stile di vita inverosimile, cadenzato da otto ore di attività fisica giornaliere senza superare le 500 calorie al giorno. Quello dell’influencer diventa dunque un modello irraggiungibile – se non al prezzo di configurarsi un disturbo alimentare. E l’adolescente da questo processo di identificazione ed emulazione non può che uscirne perdente. Ciò che preoccupa è che, per la maggior parte, questi influencer non sono solo personaggi famosi, come Chiara Ferragni per fare un esempio, ma anche coetanei sconosciuti. I social danno visibilità e fama, non solo a chi è già famoso. Basta costruire una pagina Instagram che propone un’immagine del corpo irreale in cui l’altro si identifica. In poco tempo questi profili arrivano a 200-300mila follower e raccolgono un forte consenso sui social su tutto ciò che riguarda il corpo e il cibo.
Il cibo sui social in Italia. Secondo uno studio di Buzzoole, agenzia specializzata in in uencer marketing, sui social si parla sempre più spesso di cibo.
In Italia, la pandemia è stata un driver fondamentale: dal 2019 al 2020 i post a tema food sono cresciuti del 57,4 per cento. Il canale maggiormente utilizzato per condividere contenuti che riguardano il food è Instagram con il 75,64 per cento, seguito da Facebook e Twitter; TikTok invece si trova in coda ma sempre più in crescita, tanto da aver toccato 11.800 post solo nell’ultimo anno. La maggioranza dei follower italiani è composta da giovani adulti e da donne (vedi numeri a anco).
Quello dell’in uencer diventa un modello irraggiungibile –se non al prezzo di con gurarsi un disturbo alimentare. E l’adolescente da questo processo di identi cazione ed emulazione non può che uscirne perdente.
61% dei creator della cucina sono donne
Come anticipava a questo si aggiungono i food in uencer che possono essere professionisti – dietologi o nutrizionisti – oppure autodidatti o appassionati di cucina salutare, che intrattengono i propri follower con foto di cibo sui social. Come viene narrato il cibo?
Con i food influencer abbiamo un altro grande problema che tocca anche aspetti legali. La norma prevede che puoi dare consigli sulla alimentazione solo se sei formato e sei iscritto all’ordine dei nutrizionisti o dietisti ed eserciti la professione. Se non hai queste caratteristiche diciamo che “ti arriva un controllo e ti fanno chiudere”. Ma sui social si contano migliaia e migliaia di persone che danno consigli nutrizionali senza avere alcuna competenza; attraverso pagine molto accattivanti e grazie alla capacità di costruire relazioni sociali diventano dei punti di riferimento con il rischio però di dare consigli non sempre scientifici e potenzialmente pericolosi. Alcuni food influencer danno indicazioni su cosa mangiare e quanto mangiare per non superare le 1500 calorie giornaliere, altri addirittura suggeriscono di assumere un certo numero di pasticche al giorno di carnitina per bruciare più calorie o, ancora, spiegano come bloccare lo stimolo biologico dell’appetito. Come nel caso dei fit influencer rientrano in questo profilo molti adolescenti che vengono seguiti da migliaia di altri adolescenti su Facebook e Instagram. Il problema è la mancanza totale di controllo in particolare su Instagram, canale più seguito, e che ha gli algoritmi più sofisticati attraverso i quali nel momento in cui si cerca la parola “dieta” o la parola “cibo” immediatamente arrivano tutte proposte relative alla ricerca che hai fatto. Questo significa che se, per esempio, un adolescente cerca su Tik Tok “dieta restrittiva, come fare per dimagrire” dopo pochi minuti viene letteralmente bombardato da informazioni su quel tema. Ecco, uno degli aspetti più inquietanti, che ci vede abbastanza impotenti, è proprio il tipo di comunicazione sull’alimentazione che circola in rete, che – come spieghiamo anche nel libro “Social fame” – non è ovviamente la causa dei disturbi alimentare, che è ben più profonda e legata a una depressione di tipo identitario, ma certamente è un fattore di diffusione. La modalità comunicativa tipica dei social facilita la diffusione di problematiche legate al comportamento alimentare.
67% dei follower dei food in uencer sono donne
I social media sono diventati i mezzi di comunicazione che usiamo tutti i giorni. Non si tratta di abolirli ma di imparare a usarli.
56% dei follower dei food in uencer ha tra i 18 e i 34 anni
forward #31 — INFLUENCER — 3 / 2023 30
Laura Dalla Ragione Psichiatra e psicoterapeuta
La sociologa Maria Angela Polesana spiega che tra in uencer e follower si instaura “una comunicazione in cui autenticità e trasparenza giocano un ruolo centrale nel favorire l’empatia e costruire credibilità e ducia” (vedi p. 4). Gli in uencer non potrebbero essere dei modelli per un buon rapporto con il proprio corpo?
Molte pagine in internet, in rete, soprattutto su Instagram, sono le cosiddette pagine di recovery. È il caso di due pagine aperte da ragazze (Peso Positivo e Animenta) che – dopo aver superato il loro problema con l’alimentazione – hanno intrapreso in rete una bellissima azione di prevenzione e di informazione sul tema. Pertanto possono esserci anche elementi positivi e, anzi, il punto è proprio che dovremmo lavorare tutti perché la rete venga usata virtuosamente. Visto che si possono raggiungere migliaia e migliaia di persone si deve riuscire a diffondere buona informazione nel campo dei disturbi alimentari attraverso una modalità di comunicazione di contenuti anche positivi. Tra l’altro durante e dopo l’esperienza del covid abbiamo cominciato tutti a utilizzare di più i media e la telemedicina, e alcune pagine online sono state utilissime in quella fase e lo sono anche adesso.
I social media sono strumenti di comunicazione in forte espansione che non possiamo controllare. In un mondo sempre più digitalizzato quali competenze servono per un uso funzionale e consapevole di questi strumenti?
L’alfabetizzazione mediatica è la competenza chiave per essere padroni del mezzo. Nelle scuole, così come si insegnano l’educazione tecnica e l’educazione civica, dovrebbe essere insegnata l’educazione digitale. Gli adolescenti di oggi, i cosiddetti “nativi digitali”, conoscono il mezzo e la tecnologia meglio della generazione precedente; non sono però padroni del mezzo, di come utilizzarlo e di come discernere i contenuti veri da quelli falsi. Né sanno proteggersi dall’impatto emotivo delle relazioni virtuali. I giovani sono immersi costantemente in una realtà in cui virtuale e reale si confondono. Dobbiamo far capire loro come difendersi dai pericoli in questo mondo costantemente onlife, usando il neologismo coniato dal filosofo Luciano Floridi. Un tempo un ragazzino di dodici anni usciva di casa ed era legittimo e normale che i genitori gli domandavano “dove vai, con chi vai? A che ora torni?”; oggi un dodicenne entra in rete e i genitori non possono sapere chi incontra, chi vede, quando torna, cosa fa. Questo significa che anche i genitori dovrebbero imparare a confrontarsi, non a proibire e basta; a discutere con i ragazzi di questi problemi esortandoli a condividere e a parlarne insieme. Ma è la scuola a dover fornire gli strumenti attraverso appunto un’educazione all’uso del digitale.
+17 % Tweet su “abitudini alimentari sane” (nel 2021 rispetto al 2019)
12,5%
Ricette e immagini per torte senza glutine
Le conversazioni su Twitter.
13,9% Digiuno intermittente e perdita di peso
I giovani sono immersi costantemente in una realtà in cui virtuale e reale si confondono. Dobbiamo far capire loro come difendersi dai pericoli in questo mondo costantemente onlife.
11,9% Prodotti per vegani e vegetariani
Le istituzioni potrebbero diventare dei validi in uencer in un’ottica di prevenzione del cosiddetto “social fame”?
Credo che le istituzioni dovrebbero investire in campagne sull’uso etico e consapevole dei social media digitali. Dovrebbero “influenzare” i genitori e sensibilizzarli a rispettare alcune norme, come per esempio l’esposizione ai device. La Società italiana di pediatria sconsiglia di esporre a smartphone e tablet i bambini con meno di due anni e raccomanda di non superare due ore al giorno di esposizione tra i due e i cinque anni. Purtroppo sappiamo benissimo, però, che questi limiti non trovano un riscontro nella realtà. Eppure abbiamo raccolto delle evidenze sulla correlazione tra l’aumento di casi di sindrome dell’attenzione di apprendimento e l’abuso della tecnologia nell’infanzia. Il Ministero della salute, il Miur e i tutti i ministeri dovrebbero dare delle indicazioni per prevenire i danni causati da un uso improprio di questi strumenti e per utilizzarli al meglio. I social media sono diventati i mezzi di comunicazione che usiamo tutti i giorni. Non si tratta di abolirli ma di imparare a usarli. Con una metafora, i social media sono come il fuoco dobbiamo imparare ad usarlo perché altrimenti ci bruciamo. A cura di Laura Tonon
Secondo il “Twitter Birdseye report”, in seguito alla pandemia del 2020, le conversazioni su Twitter relative all’alimentazione sono aumentate e cambiate lasciando trasparire l’interesse del pubblico per un’ampia varietà di argomenti sul “mangiare sano”, oltre che per la sostenibilità. Il “digiuno intermittente” è stato il più citato in tutte le conversazioni sui regimi alimentari. Altri picchi di interesse hanno riguardato la scelta di prodotti veg o le ricette di dolci senza glutine (vedi numeri a anco).
Fondatrice e direttrice della Rete per i disturbi del comportamento alimentare della Usl 1 dell’Umbria, Laura Dalla Ragione ha pubblicato numerosi articoli e libri su anoressia, bulimia e obesità in età evolutiva. È co-curatrice e co-autrice di “Social Fame. Adolescenza, social media e disturbi alimentari” (Roma: Il Pensiero Scienti co Editore, 2023).
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Perché i medici popstar
MI IRRITANO
E PERCHÉ DOVREBBERO IRRITARE ANCHE VOI
Recentemente mi hanno fatto delle domande su un medico e il suo ultimo libro.
Non ha molto importanza chi sia questo medico né di che cosa parli il suo libro. I dettagli cambiano nel giro di pochi anni. Il dottore è fotogenico, quasi sempre maschio. È intelligente e ha un curriculum accademico impeccabile. Il libro parla di come risolvere un problema a cui la medicina tradizionale ha ben poco da offrire. Per esempio, come prevenire il cancro oppure come preservare le funzioni cognitive o raggiungere una longevità fuori dal comune. A volte i libri informano il lettore di un problema di cui non conosceva l’esistenza – come potrebbe essere una micosi sistemica, un’infiammazione vascolare o uno stress ossidativo – e propongono una soluzione.
Oltre ad essere considerati dei comunicatori di talento, questi medici famosi hanno molto in comune. Possiedono davvero delle conoscenze scientifiche e sono esperti nell’estrapolazione. Discutono di ipotesi e di studi preliminari, solitamente condotti in vitro, con cui vengono verificate. Se condividono dati clinici, questi provengono da trial di piccole dimensioni con endpoint surrogati. Ma, in realtà, non si hanno delle prove che le persone vivono più a lungo, mantengono le loro capacità cognitive o sviluppino il cancro meno frequentemente. L’autore potrebbe partire dalla correlazione tra lunghezza dei telomeri e invecchiamento biologico; associarla all’osservazione che nei topi una dieta ricca di antociani rallenta l’accorciamento dei telomeri; e scrivere un trattato su una dieta antietà a base di frullati di sambuco nero e arancia rossa1
Questi medici diventano il tormento dei colleghi praticanti. Se solo sento menzionare uno dei loro nomi, comincio a digrignare i denti in silenzio. Mai una vignetta come quella del New Yorker è riuscita a descrivere meglio questo mio pensiero.
Perché il lavoro di questi medici mi irrita? Non ho assolutamente alcuna avversione per i pazienti che si informano in autonomia. Pratico la professione di medico in un’epoca di empowerment e consapevolezza del paziente che sarebbe stata inconcepibile decenni fa. Mi piace lavorare in modo collaborativo con pazienti informati. Mi piace anche la sfida di sfatare i consigli bizzarri che periodicamente ricevono da una zia, da un amico o dallo zio medico in pensione del Colorado, oppure dal motore di ricerca di Google.
Credo che la mia irritazione derivi dalla consapevolezza che un buon consiglio medico è specifico e personalizzato. La pratica quotidiana della medicina consiste nel prendersi cura di più persone. I medici passano le loro giornate a dare consigli che valgono per i loro pazienti, mentre sono molto poche le raccomandazioni che possono dare alla popolazione in generale2. Ciascuno di noi dovrebbe fare attività fisica e allacciare le cinture di sicurezza, nessuno dovrebbe fumare o bere in modo smisurato; e tutti dovrebbero ricevere i vaccini pediatrici. Raccomandazioni di questo tipo non solo sono poche, ma non sono nemmeno interessanti oppure originali. Non sarebbero certamente adatte per un libro,
Adam Cifu Medical school academics Bucksbaum institute for clinical excellence Chicago university
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1. Sembra davvero una buona cosa.
2. Questo commento esclude ovviamente gli interventi trasformativi nella sanità pubblica.
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un podcast, un canale YouTube o un programma televisivo interessante.
Chiunque spaccia consigli medici alle masse per arricchirsi o per diventare famoso deve essere, a mio avviso, una specie di ciarlatano.
Una volta date le informazioni basilari, diventa difficile offrire dei consigli di salute alla popolazione. Qualsiasi medico intervistato dalla stampa laica se ne può rendere conto immediatamente. Dopo ogni raccomandazione pronunciata, un’ondata di caveat inonda il cervello.
Una volta sono stato intervistato per un articolo di giornale. La domanda che mi avevano fatto era sensata, semplice e interessante per un vasto pubblico di lettori: “Quando si ha mal di testa, è meglio curarlo o sopportarlo?”. Se una mia paziente mi facesse questa domanda, sarebbe facile rispondere. Perché conoscerei la gravità e tipologia del mal di testa in questione. Saprei se il mal di testa richiede un’ulteriore valutazione; conoscerei la probabilità di sviluppare effetti collaterali da analgesici, perché sarei a conoscenza se la mia paziente beve, se ha una malattia renale o una gastrite. Conoscerei anche quali sono i suoi bisogni e valori. Si tratta di una paziente che volentieri assume i farmaci o di una che si vanta del suo stoicismo?
Nel tentativo di dare una raccomandazione che sia generica, il medico che parla in pubblico si trova di fronte a una scelta scomoda. Potrebbe scegliere per una risposta concisa che soddisferà l’intervistatore e che interesserà il lettore, ma che sarà sicuramente sbagliata per un gran numero di pazienti. Oppure potrebbe scegliere di dare una risposta prolissa piena di eccezioni, avvertenze e dettagli apparentemente non pertinenti – dunque una risposta di certo più accurata ma che probabilmente confonderà (e annoierà) il pubblico.
Immaginiamo ora che la scelta del medico sia in uenzata non solo dal suo desiderio di dare informazioni e divulgare, ma anche dal desiderio di vendere libri e mantenere sui media una presenza redditizia. Penso che questo sia il motivo per cui io, in quanto responsabile della cura delle singole persone che esercita la propria professione su una solida base di prove, sono così spesso frustrato dai medici famosi che esercitano il loro mestiere verso “le masse”. Anche i migliori media, quelli con scrittori e produttori attenti, che cercano di approfondire i temi affrontati, evitando il disease mongering e il sensazionalismo, spesso danno informazioni che sembrano illogiche e inappropriate nel momento in cui vengo-
no riportate nello studio del medico da un paziente intelligente, colto e alfabetizzato su temi medici.
L’altro motivo per cui i “medici famosi” mi irritano è che a nessun medico piace essere messo in discussione. Penso: chi è questa persona che dà consigli al mio paziente? Non si tratta solo di un secondo parere che non avevo richiesto, ma spesso di un parere su questioni di cui non conoscevo nemmeno l’esistenza. Non sapevo che il mio paziente avesse problemi di calo della libido? Mi imbarazza che il mio paziente senta il bisogno di chiedere informazioni a coloro che personalmente reputo dei ciarlatani. Non sono abbastanza le mie raccomandazioni e la mia disponibilità?
Esiste un ruolo per il medico in pubblico? Quando noi medici assumiamo un ruolo di esperti in pubblico dobbiamo innanzitutto sforzarci di diffondere quelle informazioni che sono noiose ma cruciali per un ampio pubblico: il casco per la bici, il sesso sicuro, i programmi di esercizio fisico e i lucchetti per armi da fuoco non sono argomenti terribilmente interessanti, tuttavia si prestano a raccomandazioni di ampio respiro. Quando le discussioni entrano nel campo dei suggerimenti che non valgono per tutti i soggetti, dobbiamo riconoscere questo limite. Dobbiamo definire con attenzione a chi stiamo parlando e chiarire che le raccomandazioni dirette ad ampie fasce della popolazione spesso non si applicano ai singoli individui. È necessario essere creativi per raggiungere questo obiettivo e allo stesso tempo continuare ad essere coinvolgenti; fare questo è per il bene di tutti. Inoltre, di regola, dobbiamo lasciare i consigli al medico che realmente segue il paziente. Questo deve essere fatto in modo più autentico rispetto al classico messaggio “Parla con il tuo medico di...”.
Prendersi cura di un singolo paziente è difficile. Prendersi cura di un pubblico, intrattenendolo, è impossibile. Spesso la buona medicina è noiosa. I progressi scientifici e le speculazioni sul futuro delle cure mediche possono essere eccitanti. Quando i medici cercano un pubblico più vasto devono ricordarsi che la loro più alta responsabilità è nei confronti dei singoli pazienti.
“Lavorerò come professionista della salute per migliorare la qualità delle cure mediche e per migliorare la salute pubblica, ma non lascerò che una considerazione pubblica o professionale minore interferisca con il mio impegno primario di fornire la migliore e più appropriata cura disponibile per ciascuno dei miei pazienti”3 F
3. Bulger R. A dialogue with Hippocrates and Gri T. Ross, MD. In Bulger R, ed. In search of the modern Hippocrates. Iowa City: University of Iowa City Press, 1987.
Questo articolo è stato pubblicato su Sensible Medicine, il 12 settembre 2023, con il titolo “And why they should bug you too”. È stato tradotto e pubblicato su Forward grazie a un accordo con l’autore, che ringraziamo per la sua disponibilità.
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SARÀ ASSENTE L’AUTORE
Amodo loro, sono influencer. Almeno alcuni che hanno più “seguaci” o follower che dir si voglia. Negli ultimi anni – e potrebbe essere un effetto della pandemia – alcuni giornalisti o esperti in materie scientifiche hanno aperto e alimentato dei canali di comunicazione diretta con un pubblico sempre più ampio di cittadini interessati ai temi della scienza. Salute compresa. Da Roberta Villa – ormai tra le persone più ascoltate sui vaccini e sulle vaccinazioni – a Beatrice Mautino – che ha sottratto cosmesi e cura della pelle ai media “femminili” sponsorizzati – siamo tutti “influenzati” da un’informazione che il più delle volte è basata su evidenze robuste, sull’analisi accurata della migliore letteratura scientifica internazionale.
Perché scrivere un libro?
Nell’ultima edizione dell’appuntamento annuale “Folle di scienza” che si svolge nella cittadina piemontese di Strambino, molti divulgatori si sono interrogati su una questione apparentemente trascurabile: perché scrivere un libro? Nessun problema ad ammettere che, oltre ai potenziali autori, la risposta a un interrogativo del genere possa più facilmente interessare chi fa il mio mestiere: ma, a ben vedere, anche l’attualità politica ci conferma che realmente tantissime persone hanno un libro nel cassetto (o più facilmente nella memoria del computer) e (purtroppo, bisogna ammettere) oggi è molto più facile di un tempo poterlo pubblicare. Basta pagare. Il tema della pubblicazione di un libro si intreccia con quello della costruzione del profilo dell’influencer: le persone meno giovani ricorderanno la lunga attesa di intellettuali del Novecento come Italo Calvino, Alberto Moravia o Pierpaolo Pasolini per approdare con continuità alle pagine culturali dei grandi quotidiani nazionali. A distanza di mezzo secolo, tutto – o quasi – è cambiato: talvolta basta un libro autoprodotto a garantire la notorietà ma, il più delle volte, è la fama acquisita su Instagram a sollecitare la pubblicazione di un libro.
La postmodernità editoriale è l’ambito in cui si muovono i personaggi di un breve romanzo di Giampaolo Simi che ha come protagonista Gianfelice Sperticato, autore immaginario e autoprodotto. Di Sperticati è pieno il mondo dei libri. E anche di libri che meriterebbero lo stesso titolo dell’opera che lui è riuscito finalmente a pubblicare con un editore sconosciuto: “Sarà assente l’autore” è il titolo azzeccato del libro di Simi, non soltanto divertente ma per diversi aspetti necessario. Utile a descrivere un ambiente molto celebrato ma popolato da persone sopravvalutate. Il 30 per cento dei libri pubblicati non vende neanche una copia o al massimo una (l’autore o l’autrice stessa? La mamma?). Potrebbe essere una fortuna, perché la qualità è quella che è. In cima alle classifiche finiscono (anche o soprattutto) personaggi come quello di Federigo Crudeli, altrettanto immaginario personaggio di Simi e nella finzione autore di “Acque torbide”, libro teoricamente illeggibile ma in realtà amato da decine di migliaia di lettori.
Gli influencer di oggi hanno preso il posto degli intellettuali novecenteschi? Un interessante dibattito estivo ha invitato a ragionare sull’utilità dei libri, sull’editoria “come religione laica” che potrebbe faticare ad avere significato in un mondo selvaggio, contraddittorio e inospitale. Ma nel quale il libro è pur sempre un totem.
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Il più delle volte è la fama acquisita su Instagram a sollecitare la pubblicazione di un libro.
Il libro è un prodotto di nicchia?
Torniamo alla domanda che si sono posti i divulgatori-influencer: perché pubblicare un libro? Il dialogo sul prato di Strambino dei divulgatori della scienza si è svolto dopo che un’ampia discussione aveva tenuto occupati gli aficionados del confronto culturale estivo: “I libri sono ormai un prodotto di nicchia non dico quanto le carrozze a cavalli, ma quasi” aveva scritto la giornalista Guia Soncini su Linkiesta del 19 agosto scorso1, “I libri non contano niente. I libri non li legge nessuno”. E – riferendosi direttamente alla scrittrice e intellettuale morta pochi giorni prima – Soncini osservava che “molta più gente seguiva Michela Murgia su Instagram di quanta ne comprasse i libri”. Secondo Soncini c’è un solo posto che, “se vuoi avere un pubblico in questo secolo, è ragionevole presidiare: il posto che illude il pubblico che non sia necessario esso s’affatichi, che non sia mica quello il punto d’avere un[’]intellettuale di riferimento. Insomma: Instagram”. Soncini offre una chiave di lettura di un cambiamento non da poco avvenuto nell’ultimo mezzo secolo: la differenza tra intellettuali novecenteschi e influencer contemporanei è che seguire i primi costava fatica. Dobbiamo dunque accettare che il ruolo degli influencer sia oggi quello di “tenere compagnia alle nostre vite di silenziosa disperazione con parole talmente semplici che persino noialtri (…) possiamo capirle e sentirci accuditi?”. E per chi ama le domande Soncini ne ha un’altra: “È questo il futuro del mercato dell’intelletto, se l’intelletto ha un futuro?”.
A Soncini faceva eco Paolo di Paolo sempre su Linkiesta2: “Ogni giorno, nell’insieme, leggiamo – tutti! – più o meno le parole contenute da un romanzo, ma fatichiamo a leggere romanzi”. Sarà un caso che “il tramonto del romanzo letterario” coincida con l’emergere di una legione di scrittori e scrittrici capaci di conquistare la nostra attenzione con un mix di immagini e di opinioni? Potrebbe essere un problema non da poco, ma lo nascondiamo sotto al tappeto. “Se non ci interroghiamo noi che scriviamo libri sulla fatica che facciamo a farli comprare, chi altro dovrebbe?” chiede di Paolo. “Ma non lo facciamo perché è un argomento fastidioso, che intristisce, e perché richiederebbe una messa in discussione del nostro stesso fare, del pilota automatico con cui pensiamo al prossimo romanzo e lo scriviamo, pretendendo che fra infinite opzioni narrative debba esserci per forza qualcuno interessato a quella che abbiamo prodotto noi”.
“Perché hai più voglia di scrivere un tuo libro che di leggere quello scritto da qualcun altro? Qual è l’ultimo romanzo che ti ha fatto saltare sulla sedia e a cui non vedevi l’ora di tornare? Quando è stata l’ultima occasione in cui a tavola ti sei acceso parlando di un romanzo appena pubblicato? Sapresti de nire in che modo un romanzo è alternativo rispetto ad altre forme narrative? Hai ancora – sii sincero – la voglia di leggere i libri che non si leggono in la alla posta (una volta si diceva così), i libri di cili?”
Paolo di Paolo. Il tramonto del romanzo letterario nei consumi culturali italiani. Linkiesta, 23 agosto 2023.
Questo desiderio di interrogarsi di scrittori e critici cinquantenni è reso meno limpido da un velo di nostalgia, quella che per esempio fa ricordare i bei, vecchi tempi a Nicola Lagioia su Lucy sulla cultura3 come un periodo in cui redattori, scrittori, editor, grafici, traduttori provavano “a fare dell’editoria la propria religione laica, dedicandoci ogni giorno (e ogni notte!) un tempo che non [aveva] ha nulla che fare con il tempo lavorativo. [Aveva] a che fare con la dimensione della preghiera, con la dedizione assoluta, con la socialità come dovere etico, persino con l’utopia”. E, ricordando con affetto Michela Murgia, lo stesso Lagioia ammette di non aver condiviso la scelta dell’amica “di abbandonare i panni della ’scrittrice pura’ e di utilizzare la letteratura (volutamente imbastardendola, semplificandola, facendone persino a volte uno strumento di persuasione) per fare politica”.
Come nascono i libri migliori?
Da scrittrice a popstar – o a influencer? –Michela Murgia si è trovata a proprio agio in uno spazio che riusciva ad abitare con competenza, quello dei social media, accettando l’evidenza che in questi anni il confronto di idee si svolge proprio là. Il punto è, però, che non poche persone ritengono che lo spopolamento dei luoghi classici del dibattito culturale a vantaggio della rete sia di per sé una pessima notizia: “Alla luce del fallimento evidente delle istituzioni che più di ogni altre dovrebbero teoricamente sviluppare il cosiddetto dibattito pubblico fuori dalle cosiddette élite (giornali, riviste, sto parlando di noi) –
ha scritto Francesco Costa su Il Post3 – il suddetto dibattito si è trasferito principalmente in luoghi – i social media – che non sono stati costruiti per ospitarlo, e che anzi cercano in ogni modo di peggiorarlo e scoraggiarlo con gli incentivi sanciti dai loro algoritmi. Questo tragico trasloco, insieme al lavoro poverissimo delle istituzioni che avrebbero il compito di insegnare alla popolazione intera a discutere, e quindi a partecipare al dibattito pubblico con argomenti logici e conoscenza (scuole superiori, televisione di Stato, sto parlando di voi), ha prodotto un’altra triste conseguenza oltre all’istupidimento generale di cui siamo insieme responsabili e testimoni, ognuno per la sua parte: la perdita della capacità di distinguere un influencer da un politico da un intellettuale”.
Nonostante le molte voci e l’esperienza delle persone intervenute in questo interessante dialogo estivo, sembra essere tutto un poco confuso. A ben vedere, persone come Michela Murgia hanno continuato a pubblicare libri anche dopo il loro “tragico trasloco”. Basta pensare ai tanti titoli prodotti con alterna fortuna anche dai divulgatori e divulgatrici di scienza. Il confronto più serrato con i propri lettori, proprio della rete, potrebbe aiutare a pubblicare libri più utili, “migliori” perché capaci di rispondere con maggiore esattezza alla domanda di informazione dei propri follower. Dopo tutto, anche l’allenamento negli spazi dei social media potrebbe favorire una scrittura più esatta e coinvolgente.
Ma invece di guardare avanti senza spaventarsi, si cede alla tentazione della nostalgia. “Il mondo di Moravia, Morante e Pasolini – lamenta Nicola Lagioia – è stato spazzato via molti anni fa. È saltata la scuola, l’università, la politica per come le conoscevamo, sono saltati i giornali e i mediatori tradizionali. È un mondo, per certi versi più selvaggio, contraddittorio e inospitale”.
Nel quale, però, tutto trova spazio e dunque anche i libri, capaci di “fare ancora casino”, come ha scritto Marino Sinibaldi su Il Post5: perché “affermazioni che girano un po’ dappertutto e sono altrove normali (…) diventano, stampate su un libro, drammatiche, pesanti, influenti? Evidentemente l’oggetto, perso molto del suo valore materialmente economico e persino la centralità simbolica che lo connotava in un universo culturale passato, resta una specie di totem”.
Alla fine dei conti, se è la rete che fa crescere un influencer, è sempre un libro che lo consacra.
Luca De Fiore
37 www.forward.recentiprogressi.it — forward #31
1. Soncini G. I social, l’irrilevanza dei libri e il futuro del mercato degli intellettuali. Linkiesta, 19 agosto 2023.
2. di Paolo P. Il tramonto del romanzo letterario nei consumi culturali italiani. Linkiesta, 23 agosto 2023.
3. Lagioia N. Le persone facili si dimenticano, Michela Murgia no. Lucy sulla cultura, 23 agosto 2023.
4. Costa F. Non importa se eravate d’accordo con Michela Murgia. Il Post, 15 agosto 2023.
5. Sinibaldi M. Perché un libro fa ancora casino. Il Post, 24 agosto 2023.
Il confronto più serrato con i propri lettori e le proprie lettrici, proprio della rete, potrebbe aiutare a pubblicare libri più utili.
Cosa ne pensi degli in uencer che parlano di salute?
Il fenomeno degli influencer è in rapida espansione sui social media quali Instagram, Facebook e TikTok. Molti dispensano consigli sul mangiar sano, sulla giusta quantità di attività fisica o su come fare prevenzione, su come curarsi. Dopo averne parlato con una sociologa, una linguista, un editore e diversi professionisti sanitari, divulgatori scientifici e rappresentanti delle aziende del farmaco, vediamo insieme il punto di vista dei nostri lettori.
Chi è, secondo lei, un influencer?
13%
Penso sia ancora molto di cile dare una de nizione precisa del termine
5%
Una persona che guadagna promuovendo prodotti online
2%
Una persona famosa molto presente sui media, anche tradizionali
Quali sono i vantaggi, in ambito sanitario, di una comunicazione affidata agli influencer?
5% Altro
28%
Non vedo particolari vantaggi, penso sia solo pericoloso
5%
Il cittadino apprende a interagire direttamente con chi propone raccomandazioni o stili di vita
49% Qualunque persona in grado di in uire sui comportamenti e sulle scelte di un determinato pubblico
31%
Una persona che esprime opinioni con un grande seguito sui social media
56% No, mi capita spesso di vedere messaggi sbagliati
Gli health influencer che segue pensa che veicolino messaggi corretti?
18% Sì, seguo solo persone attendibili
26% Tendenzialmente sì, ma a volte anche i migliori possono sbagliare
Se vede un influencer che veicola un messaggio poco corretto glielo segnala?
19% Gli in uencer rendono i messaggi comprensibili e accessibili a tutti
30% La forza degli in uencer è che le persone si identi cano con loro
13%
28% No, non ho tempo di farlo
28% No, non ho voglia di iniziare una polemica
La ricchezza di informazioni anche provenienti da in uencer contribuisce ad aumentare la conoscenza dei cittadini sulla salute
Quali sono i rischi, in ambito sanitario, di una comunicazione affidata agli influencer?
3% Altro
1%
Non vedo particolari rischi, penso vada solo incentivata
45%
La comunicazione sulla salute non può essere a data a opinioni e pareri personali
Segue alcuni health influencer sui social media?
24% No, non sono sui social
29% No, uso i social solo per svago
21% No, non penso facciano una comunicazione utile ed e cace
38% Che venga banalizzata la complessità dei problemi
13%
La molteplicità di punti di vista può confondere i cittadini
20% No, non mi è mai capitato
11% Sì, ma esplicitando la loro mancanza di competenza sull’argomento
6% Mi è capitato di farlo e mi ha ringraziato
9% Mi è capitato di farlo, ma non è stato apprezzato
29% Non mi è mai successo, ma lo farei: penso di poterlo aiutare a migliorarsi
Le è mai capitato di vedere influencer che, seppur esperti di altri settori, dessero consigli legati alla salute?
63% Purtroppo sì: credo facciano molto danni
6% Sì, ma penso che chiunque abbia diritto di esprimersi in modo informale sui social media
Secondo lei i medici andrebbero formati all’uso dei social media e all’impiego di linguaggi comunicativi più facilmente accessibili?
9% Sì, mi aiutano a tenermi aggiornato
6% Sì, sono utili a chiarirmi qualche concetto complicato
11%
Sì, ma guardo poco i loro pro li
2% No, non è compito dei medici alfabetizzare i cittadini
15% No, i medici devono parlare ai pazienti di persona e non sui social media
16% Assolutamente sì, ormai è l’unico modo per parlare ai cittadini
67% Sì, in questo modo i cittadini troverebbero fonti autorevoli sui social e non darebbero seguito a chi non è competente
39 www.forward.recentiprogressi.it — forward #31
Il questionario è stato inviato tramite newsletter. Hanno risposto 326 persone, per la maggior parte medici, epidemiologi, infermieri e ricercatori. Età media 54 anni. Leggi tutti i risultati della survey su: www.forward.recentiprogressi.it
Insieme al Dipartimento di epidemiologia del Ssr Lazio, Asl Roma 1 e al Pensiero Scienti co Editore partecipano al progetto Forward
L’ULTIMA PAROLA
Un messaggio si di onde non per chi lo ha pronunciato, ma perché vale la pena di onderlo. Cosa ci spinge a di onderlo?
In primo luogo, ancora una volta, lo di ondiamo se può essere raccolto e se è rilevante; ha valore per noi e pensiamo che avrà valore per gli altri. In secondo luogo, la ducia o l'autorità sono un fattore importante. Se Clay Shirky, Jay Rosen o Kevin Marks mi suggeriscono di cliccare su un link, è più probabile che io lo faccia perché li considero e mi do del loro giudizio e in passato ho scoperto che vale la pena seguire i loro consigli. Ma se seguissi la signorina Kardashian (non la seguo) e lei mi dicesse di cliccare su un link, sarei meno propenso a farlo, sia perché non fa parte dello stesso ambiente culturale dei miei amici e non ho alcun rapporto con lei, sia perché ho visto che cliccare sui suoi link mi dà pessimi risultati. Avere ducia, riconoscere autorevolezza o esperienza equivale a farsi in uenzare? In una cerchia ristretta di amici reali, non credo. E in ogni caso, avere solo una piccola cerchia di amici non è quell'in uenza che-inducel’acquisto che i responsabili marketing vanno cercando.
(…) Cosa signi ca questo per chi fa marketing sui social media?
Credo signi chi che devono rileggere il Cluetrain Manifesto1 e riconoscere che i messaggi e gli in uencer non sono il futuro del marketing, ma le conversazioni e le relazioni. Non si può aggirare l’ostacolo. Non ci sono scorciatoie.
Pensateci: Non voglio che qualcuno mi in uenzi. Non voglio essere in uenzato. L'idea di scovare gli in uencer è un concetto di marketing molto vecchio: lanciare messaggi a persone che non li hanno richiesti. La ricerca di in uencer non fa altro che perpetuare gli errori del marketing del passato. È ora di nirla.
Jeff Jarvis
The hunt for the elusive influencer, Business Insider, 2 aprile 2010
Antonio Addis
Camilla Alderighi
Laura Amato
Massimo Andreoni
Giancarlo Bausano
Davide Bennato
Maurizio Bonati
Stefano Cagliano
Mike Clarke
Giampaolo Collecchia
Giuseppe Curigliano
Marina Davoli
Silvio Garattini
Simona Giampaoli
Ra aele Giusti
Giuseppe Gristina
Tom Je erson
Maurizio Koch
Elisa Liberati
Nicola Magrini
Federico Marchetti
Nello Martini
Luigi Naldi
Francesco Perrone
Luigi Presenti
Ra aele Rasoini
Emilio Romanini
Mirella Ruggeri
Rodolfo Saracci
Stefano Savonitto
Holger Schünemann
Rosa Sicari
Giuseppe Traversa
Francesco Trotta
Paolo Vercellini
Advisory Board I componenti dell’Advisory Board, il Direttore responsabile e l’Associate Editor non percepiscono compensi per le attività svolte nell’ambito del progetto Forward. Le opinioni espresse dagli autori e dalle persone intervistate sono personali e non impegnano gli enti e le aziende di appartenenza. Supplemento a Recenti Progressi in Medicina — Vol. 114, numero 11, novembre 2023 — © 2023 Il Pensiero Scienti co Editore Stampa Ti Printing Via delle Case Rosse 23 00131 Roma ottobre 2023 La policy di Forward è descritta in dettaglio sul sito del progetto. Direttore responsabile Luca De Fiore Associate Editor Antonio Addis Redazione Marialidia Rossi Laura Tonon Rebecca De Fiore Giada Savini Relazioni esterne Luciano De Fiore Maria Nardoianni Gra ca Antonella Mion Fotogra e Lorenzo De Simone Il Pensiero Scienti co Editore Via San Giovanni Valdarno 8 00138 Roma T. +39 06 862 82 335 F. +39 06 862 82 250 info@recentiprogressi.it
1. Il Cluetrain manifesto è un insieme di 95 tesi curate da David Weinberger, Christopher Locke, Doc Searles e Rick Levine. Pubblicato in forma di libro e online, è organizzato e presentato come un manifesto, o invito all'azione, per tutti gli attori che operano all'interno della rete, ciò intesa come un nuovo mercato interconnesso.