Possono essere positive o negative. A seconda di dove si collocano nella medicina del futuro, possono rassicurare o spaventare, con tutto quello che ci sta nel mezzo
10 I bambini come agenti di cambiamento CHIARA BORGIA
12 Quanto incidono le differenze culturali? ANDREA CALIGNANO
Osservare senza giudizi e
17 Per una vita moralmente accettabile ADAM CIFU
18 Nel rispetto dell’autonomia della persona
SANDRO GALEA
Cosa dice il medico, cosa
22 Il medico come guida o modello SERGIO CONTI NIBALI, ANGELICA SALVADORI, MASSIMO VOLPE, ELISA ZANARDI
26/27 La compliance del paziente, le prescrizioni del medico RENATO LUIGI ROSSI, MIRKO DI MARTINO
Le “care” abitudini: dove iniz Nuove vecchie abitudini per
33 Rompere vecchie abitudini MIRJAM AMATI, ADRIANA DEGIORGI, ALAN VALNEGRI
34 Una guida al cambiamento GIACOMO GALLETTI
Come nascono le dipendenze
Svegliarsi presto per iniziare con calma la giornata, anticipando poco alla volta l’orario in cui si va a dormire.
dove niscono
Piccoli gesti che fanno la differenza
salute e il benessere
senza pregiudizi
pensa il paziente
Come migliorare l’aderenza
Abitare le abitudini
Tra le abitudini del gruppo Forward ve ne sono alcune ormai consolidate: non cercare mai le soluzioni semplici, la frase conclusiva, la risposta scontata. Ci siamo fatti convincere che la complessità, per quanto scomoda, possa garantire un maggiore spazio a tutti quelli che lavorano al progetto e consenta di esplorare meglio ogni tematica.
In questo numero troverete versioni sia positive che negative dei comportamenti ricorrenti. A volte parliamo dei veri e propri nemici del cambiamento; altre volte di ossessioni, deviazioni, ma anche di traguardi che fatichiamo a raggiungere per ottenere una salute migliore. Insomma il tema è un prisma a mille facce che non poteva mancare alla nostra collezione, così come alla nostra voglia di confronto.
I numeri possono alle volte aiutarci a seguire e capire le ragioni che stanno dietro gli stili di vita e le attitudini degli operatori sanitari, ma che non sempre combaciano con le migliori prove di e cacia disponibili. Una ragione in più per capire quando e come si forma un comportamento ricorrente.
In alcune pagine del numero abbiamo cercato anche di rispolverare un linguaggio che fosse valido non solo per gli addetti ai lavori, traendo spunto da quanto abbiamo in passato sperimentato con Forward for Kids
una vita che cambia
Quel prima e dopo una diagnosi di cancro
In sintesi, così come “visto da vicino nessuno è normale” anche le abitudini – a seconda di dove e come si collocano nella medicina del futuro – possono rassicurare o spaventare, con tutto quello che ci sta nel mezzo.
Antonio Addis
Dipartimento di epidemiologia
Servizio sanitario regionale del Lazio, Asl Roma 1
Quante cose fai senza pensarci
Avvitare il tubetto del dentifricio, scegliere un paio di calze, preparare la moka o uscire dal garage di casa a marcia indietro. Quando abbiamo imparato a guidare questo spostamento richiedeva, giustamente, una buona dose di concentrazione, a distanza di anni probabilmente lo facciamo senza pensarci troppo. Ma anche gli acquisti più comuni, come i detersivi o i tovaglioli di carta, li facciamo spesso senza prestare attenzione. Questo perché molte delle scelte che compiamo ogni giorno, secondo uno studio della Duke university circa il 45 per cento, sono condizionate più dalle nostre abitudini che da vere e proprie decisioni consapevoli. Ecco perché il desiderio di capire come le abitudini quotidiane influiscono sulle nostre decisioni è uno dei temi più appassionanti della ricerca, anche se la maggior parte di noi non si rende conto di essere schiava di certi schemi, secondo Charles Duhigg, giornalista e scrittore premio Pulitzer autore del best seller “Il potere delle abitudini”. C’è il rischio quindi che questi schemi ci rendano più pigri, che l’abitudine diventi una fregatura e uccida la creatività. Ma secondo Annamaria Testa, che da anni si occupa di comunicazione e creatività, attraverso un’intensa attività di scrittura come blogger e saggista e oltre vent’anni di docenza universitaria, c’è un modo per gestire queste “scorciatoie” senza trasformarle in gabbie.
Cosa sono davvero le abitudini?
Perché ne abbiamo bisogno?
Intervista a
Annamaria Testa Pubblicitaria, giornalista e saggista
Le abitudini sono comportamenti, o sequenza di comportamenti, che tendiamo a ripetere automaticamente quando ci troviamo in una situazione identica o simile alle precedenti in cui quei comportamenti si erano dimostrati appropriati ed efficaci. Pensiamo, per esempio, alla sequenza dei gesti che compiamo ogni mattina. Avere abitudini è vantaggioso perché ci permette di automatizzare, e quindi di velocizzare, azioni ripetitive, senza dover ogni volta attivare faticosi processi di analisi e decisione. E può essere anche confortante: seguire le proprie abitudini è, dopotutto, anche un modo per sentirsi “a casa”.
Quand’è che, invece, si trasformano in automatismi che limitano la capacità di trovare soluzioni nuove?
Le abitudini diventano dannose quando non riusciamo neanche a immaginare di farne a meno. Cioè, quando si traducono in dipendenze (parlo di qualsiasi forma di dipendenza: dall’alcool agli schermi). O quando diventano così rigide e cogenti da trasformarsi in trappole che ci impediscono di allargare i nostri orizzonti, di affrontare e vivere positivamente esperienze nuove, di capire e risolvere problemi inediti. Ricordiamo che le abitudini possono riguardare non solo gli schemi di comportamento, ma anche gli schemi di pensiero. E questi ultimi, se sono rigidi e ci appaiono indiscutibili, possono essere molto insidiosi: ci tolgono flessibilità e ci rendono schiavi di pregiudizi che possono accecarci.
Perché è così di cile cambiare i nostri comportamenti?
Lo ripeto: un’abitudine ci ostacola quando non riusciamo più a metterla in discussione, e concepire un comportamento o un modo di pensare alternativo e più adeguato ed efficace. E quando non accettiamo che qualcun altro possa attivare altri comportamenti e praticare modi di pensare diversi. Aggiungo che il “si è sempre fatto così” è forse il più grosso ostacolo all’innovazione nelle imprese.
Secondo Cal Newport, della Georgetown university di Washington, il tempo dedicato alla ri essione è spesso sottovalutato: video call, telefonate, email, social media ci stanno sottraendo il tempo per pensare e concentrarci e questo compromette la qualità del nostro lavoro. In generale, spesso contrastiamo la noia con stimoli e distrazioni istantanee perché ci sembra una condizione da evitare, invece è proprio la noia che ci spinge a tirar fuori la creatività come reazione alla monotonia. Ha qualche suggerimento per alimentare la nostra attitudine a inventare cose nuove?
C’è tutta una serie di esperimenti che dimostra un fatto paradossale solo in apparenza: la maggior parte degli uomini e un quarto circa delle donne preferisce ricevere una scossa elettrica piuttosto che passare un quarto d’ora chiuso in una stanza con l’unica compagnia dei propri pensieri. Oggi sempre più persone si sentono a disagio se non sono esposte a un flusso costante di stimoli esterni. Per rendersene conto, basta fare un giro in tram o in metropolitana: la maggior parte dei passeggeri, compresi quelli che non viaggiano da soli, se ne sta incollata al telefono cellulare. Un buon modo, semplicissimo, per ritagliarsi spazi di riflessione, è camminare. È un’abitudine praticata da molti scrittori e da molti scienziati. Camminando, e lasciando vagare la mente, si attiva un network neurale che è connesso con la nostra capacità di sviluppare idee creative. Un altro buon modo è leggere, ma su carta, ascoltando come risuonano nella mente le parole lette, dialogando con il testo, prendendosi delle pause per interiorizzare, e magari tenendo una matita a portata di mano. A cura di Giada Savini
LA PROMOZIONE
DELL’ engagement
PER IL BENE SOCIALE Rinforzi, motivazioni, imitazioni
Come leggere e spiegare le abitudini da un punto di vista psicologico?
Le abitudini si formano come risultato di processi di apprendimento che avvengono quotidianamente durante l’intero ciclo di vita. Dal punto di vista psicoevolutivo, le persone, anche biologicamente, si adattano al contesto in cui vivono, che sia fisico o relazionale. Questo adattamento si realizza attraverso la modifica dei comportamenti, selezionando quelli che risultano più utili e adattivi. Le abitudini, dunque, sono comportamenti consolidati nel tempo perché hanno svolto una funzione psicologica o biologica rilevante, sia che si tratti di abitudini positive che negative. Abbiamo diversi modelli di apprendimento che spiegano le abitudini, da quelli del comportamentismo classico e del comportamentismo operante a quelli della social learning theory. Secondo il comportamentismo classico le risposte comportamentali derivano da stimoli ambientali condizionanti. Ad esempio, molte persone fumano dopo aver mangiato non per una reale necessità, ma per un’associazione creata nel tempo. Nelle prime esperienze, fumare dopo i pasti potrebbe aver procurato rilassamento o una maggiore sensazione di sazietà, creando così un condizionamento tra comportamento e beneficio percepito. Secondo invece il comportamentismo operante di Skinner, i comportamenti si consolidano in base al feedback ricevuto dall’ambiente, in particolare attraverso ricompense o punizioni. Il feedback, quale conseguenza del comportamento può indebolire o rafforzare la probabilità di comparsa di quel comportamento. Skinner descrive due tipi di rinforzi: il rinforzo positivo, ovvero una ricompensa che segue il comportamento, e il rinforzo negativo, che consiste nella rimozione di una condizione di disagio o fastidio. Entrambi i rinforzi favoriscono la ripetizione del comportamento, che con il tempo diventa un’abitudine. Tornando all’esempio del fumo, nel caso dei giovani fumare la sigaretta tradizionale o quella elettronica può procurare un rinforzo sociale, come l’inclusione in un gruppo di amici. Questo senso di appartenenza agisce come un “premio” che rinforza e stabilizza il comportamento nel tempo. Un’altra teoria che spiega come si formano e si consolidano le abitudini è la social learning theory che chiama in causa l’imitazione e la riproduzione di un modello considerato valido: l’apprendimento avviene attraverso l’osservazione di altre persone, adulti di riferimento o individui ammirati, percepiti come rilevanti. Sulla base del principio di imitazione, iniziamo a riprodurre il comportamento osservato e la ripetizione nel tempo renderà quel comportamento sempre più stabile fino a diventare parte integrante della routine.
Intervista a
Professoressa ordinaria di Psicologia dei consumi e della salute
Direttrice
Centro di ricerca EngageMinds HUB Master universitario in patient advocacy management
Università Cattolica del Sacro Cuore di Cremona
Guendalina Gra gna
PROGE TT O EUD AIMONIC O
C ONSAPEVOLEZZ A
ALLERT A BL AC K OUT
Quando un nuovo comportamento appreso diventa, a tutti gli e etti, un’abitudine?
Solitamente le abitudini si costruiscono a livello non consapevole, attraverso processi di apprendimento “involontari”: non c’è una motivazione o pianificazione specifica verso quei comportamenti o la selezione di quei comportamenti, ma è appunto l’ambiente che, condizionandoci o influenzandoci, ci porta a scegliere alcuni comportamenti piuttosto che altri. Quindi le abitudini hanno questo fortissimo potere nel plasmare anche il nostro stile di vita e inoltre diventano così difficili da essere scardinati proprio perché sono spesso radicati sotto la soglia della consapevolezza. Da un punto di vista biopsicologico, un comportamento ripetuto per almeno tre mesi tende a trasformarsi in un’abitudine. Più viene mantenuta la ripetizione – attraverso rinforzi, associazioni o imitazioni – più il comportamento si stabilizza. Un esempio significativo è il comportamento igienico adottato durante la pandemia di covid-19. L’utilizzo del gel igienizzante, inizialmente imposto dalle circostanze, è divenuto un’abitudine consolidata per molti. Questo è un esempio di come è stata costruita un’abitudine, in questo caso un’abitudine positiva, originata principalmente da un condizionamento ambientale, che si è mantenuta nel tempo e ha lasciato delle tracce.
Terminata l’emergenza covid-19, molti comportamenti adottati durante la pandemia sono stati abbandonati. Come rendere durature le pratiche che tutelano la salute pubblica?
Sebbene le abitudini si consolidino nel tempo, non sono immuni all’estinzione. Per mantenere un comportamento nel lungo termine, spesso sono necessari interventi di richiamo, come sensibilizzazioni
PROGET TO EUD AIMONIC O
“Mi sento una persona” Il paziente ha integrato la malattia nella sua vita quotidiana e ha acquisito un ruolo attivo e consapevole nella relazione con il sistema sanitario
C ONSAPEVOLEZZ A
“Mi sento un paziente” Il paziente ha maturato una prima accettazione della malattia ma è poco autonomo nella fruizione del sistema sanitario
ALLERT A
“Mi sento un corpo malato” Il paziente è in costante aller ta verso ogni segno della malattia e si attiva in modo disorganizzato e difunzionale verso il sistema sanitario
BL AC KO UT
“Mi sento sconvolto” Il paziente è sconvolto, è schiacciato dalla sua condizione di salute, non riesce ad agire, è delegante rispetto al sistema sanitario
PA TIENT HEALTH ENGAGEMENT MODE
Il PHE-Model è il primo modello scienti co e validato di valutazione psicologica dell’engagement, per analizzare e comprendere l’esperienza di coinvolgimento attivo dei pazienti nei percorsi di prevenzione e cura (Gra gna, Barello, Bonanomi 2014). È alla base di iniziative di valutazione e promozione dell’engagement dei pazienti nella cronicità e nella prevenzione.
educative o supporti motivazionali. Le abitudini salutari, in particolare, tendono a essere più fragili rispetto a quelle legate a piaceri profondi, sia emotivi che sociali. Le dipendenze, ad esempio, derivano spesso da difficoltà nella regolazione emotiva: comportamenti come fumare o bere alcolici vengono utilizzati per gestire stati d’animo negativi in modo disfunzionale. Un vero cambiamento richiede un coinvolgimento profondo delle persone. L’engagement – ovvero un’adesione consapevole e motivata – può essere generato solo attraverso una comprensione autentica del “perché” dietro le scelte di salute.
Il marketing può rappresentare un valido alleato nella promozione di stili di vita favorevoli alla salute e al benessere della popolazione?
Il marketing sociale, che utilizza le strategie del marketing per finalità di salute pubblica, può essere uno strumento efficace per sensibilizzare la popolazione ad acquisire abitudini salutari per sé stessi, per la collettività e per l’ambiente. Segmentando il pubblico, targetizzando i messaggi e personalizzando le campagne, il marketing sociale può influenzare comportamenti positivi, come la vaccinazione o la prevenzione di malattie. Il marketing commerciale è spesso orientato a
proporre soluzioni facili, immediate e attraenti, ma non sempre salutari: ne è un chiaro esempio la sigaretta elettronica, presentata come un’alternativa più sicura, che può incentivare nuove dipendenze e rende inoltre più difficile limitare il fumo, poiché attenua vincoli sociali come l’impossibilità di fumare in spazi chiusi. Ma il marketing commerciale, se orientato a scopi etici (e non fa solo green washing!), può avvicinarsi a quello sociale. Ad esempio, promuovere prodotti sostenibili per l’ambiente o la salute pubblica rappresenta un’area in cui marketing profit e sociale possono convergere. Le aziende, in quanto attori influenti, possono collaborare con il settore pubblico per promuovere comportamenti più salutari e sostenibili. Pensiamo alla gestione delle dipendenze da gioco: un’alleanza tra industria e politiche pubbliche potrebbe favorire pratiche responsabili. In conclusione, il marketing è una leva potente che richiede un’etica condivisa. Senza un impegno collettivo e responsabile rischiamo di perpetuare un sistema insostenibile. Per promuovere stili di vita sani è necessario abbandonare la ricerca di scorciatoie: la costruzione di un progetto di vita che attribuisca valore al cambiamento comportamentale è fondamentale per ottenere risultati duraturi. Una crescita sostenibile ed etica richiede collaborazione tra pubblico, privato e cittadini. A cura di Laura Tonon
Le routine nel cervello.
Come e perché si formano
L’abitudine è parte integrante della nostra quotidianità. È interessante anche l’etimologia della parola “abitudine”: deriva dal latino habitus, che signi ca “abito”, qualcosa che si indossa, una sorta di seconda pelle da cui è di cile separarsi. Dove si forma a livello cerebrale?
Il cervello, pur essendo un organo molto dispendioso dal punto di vista energetico, è fondamentale per la nostra sopravvivenza grazie alla sua capacità di prevedere ciò che accadrà. Questa capacità è essenziale non solo per regolare i movimenti, ma anche per interagire con il mondo in modo efficace. Le abitudini nascono proprio da questa necessità di risparmiare risorse cognitive: una volta trovata una strategia efficace, tendiamo a ripeterla. Dal punto di vista neuroscientifico, le abitudini coinvolgono i nuclei della base (o corpo striato), antiche strutture cerebrali situate in profondità, in stretta connessione con i lobi frontali. Questo dialogo tra striato e corteccia frontale è cruciale sia per consolidare le abitudini sia per modificarle quando necessario. Quando queste aree subiscono lesioni, come nei pazienti con danni ai lobi frontali, può verificarsi il fenomeno della “perseverazione”: la ripetizione di comportamenti non più adeguati alla situazione. In sintesi, il cervello ci permette di sviluppare abitudini per ottimizzare le risorse, ma anche di essere flessibili per adattarci a contesti nuovi.
Cambiare un’abitudine radicata è complesso, nonostante apprendiamo nuove informazioni che potrebbero renderci più e cienti. Perché è così di cile?
Perché richiede rompere uno schema consolidato, un circuito ben collaudato, per abbracciare l’ignoto. Questo processo necessita di energia cognitiva, legata al lavoro della corteccia frontale. Quando siamo stanchi, ubriachi o addormentati, la corteccia frontale è meno attiva, rendendo più difficile contrastare le abitudini. Ad esempio, durante il sonno rem, anche se il cervello è molto attivo e viviamo esperienze vivide nei sogni, la corteccia frontale è meno coinvolta, motivo per cui accettiamo situazioni assurde che nella veglia ci sembrerebbero inaccettabili. Un processo cognitivo che aiuta a rompere uno schema ormai radicato che limita il nostro potenziale è l’immaginazione mentale che ci consente di
Intervista a
Neuroscienziato e neurologo Direttore di Ricerca
Istituto francese di ricerca biomedica
simulare sensazioni e azioni senza viverle direttamente. Per esempio possiamo immaginare di vedere un’opera d’arte come la Gioconda o simulare un movimento senza compierlo fisicamente. Questo processo attiva regioni cerebrali in parte sovrapponibili a quelle che utilizziamo rispettivamente per la percezione visiva o il movimento reale. L’immaginazione mentale ci permette di astrarci dalla realtà immediata, grazie all’attivazione di regioni cerebrali “di alto livello”, come le reti fronto-parietali. Studi dimostrano che in pazienti con lesioni della corteccia visiva primaria nel lobo occipitale l’immaginazione rimane intatta, perché coinvolge aree visive di più alto livello nel lobo temporale del cervello. Questa capacità di staccarsi dalla realtà esterna è ciò che ci dà flessibilità per uscire da schemi abitudinari e di astrarci dall’immediato. Questo ci permette di riuscire a fare cose che altrimenti non saremmo capaci di fare. Ad esempio, nelle pratiche sportive come lo sci gli atleti visualizzano mentalmente la discesa prima di affrontarla, anticipando le difficoltà e potendo così rispondere ad esse nel momento in cui si presentassero con delle soluzioni più creative.
Dal punto di vista evolutivo, qual è il vantaggio di queste capacità rispetto ad altri organismi?
del perché cambiare, risulta più potente sia dal punto di vista psicologico sia da quello neurobiologico. Questo è particolarmente vero per abitudini complesse, come scelte alimentari o stili di vita.
Perché il cervello degli anziani è più abitudinario rispetto a quello dei giovani?
Con l’età, i circuiti cerebrali, in particolare quelli che coinvolgono la corteccia frontale, diventano meno efficienti. Questo è dovuto a una riduzione delle connessioni neuronali, soprattutto quelle di lunga portata che collegano la corteccia frontale con altre aree come la corteccia parietale. Di conseguenza, la flessibilità cognitiva diminuisce, rendendo più difficile affrontare novità o cambiamenti ambientali. Ad esempio, un anziano si trova a suo agio e si muove bene nel suo ambiente domestico abituale, ma in un contesto nuovo, come un ricovero ospedaliero, può disorientarsi e manifestare temporaneamente sintomi di demenza. Questo riflette la difficoltà, legata all’invecchiamento, di adattarsi a situazioni nuove, confermando il ruolo cruciale delle abitudini nella loro vita quotidiana.
Paolo Bartolomeo Ultime notizie dal cervello
Roma: Il Pensiero
Scienti co Editore, 2024
Un esempio interessante è il giro fusiforme, una regione in basso nel cervello (corteccia occipito-temporale) che negli esseri umani è molto sviluppata rispetto agli altri animali. Questa struttura, coinvolta nella lettura e nel riconoscimento dei volti e dei colori, è anche cruciale per immaginare ciò che non è presente nella realtà. Nel corso dell’evoluzione è cresciuta in dimensioni nell’uomo, a dimostrazione del bisogno di maggiore superficie corticale per elaborare informazioni complesse e immaginarie, non solo per percepire ciò che ci circonda ma anche per immaginare nuove possibilità.
Nella modi ca delle abitudini, soprattutto in contesti come la prevenzione sanitaria, è più e cace una ricompensa o una motivazione?
La motivazione intrinseca è decisamente più efficace della ricompensa immediata. La ricompensa riguarda un futuro prossimo, ma spesso non basta a modificare un’abitudine in modo profondo. La motivazione, invece, specie se legata a un obiettivo progettuale e al senso
Anche i sistemi basati sull’intelligenza arti ciale sono abitudinari oppure sono inclini al cambiamento?
Uso modelli di large language model, come chatGPT, per migliorare la forma (non il contenuto!) dei miei articoli scientifici, e sono estremamente efficaci. Tuttavia, funzionano completando testi in modo abitudinario, basandosi su miliardi di dati esistenti. È come se mancassero di una corteccia frontale: non sono in grado di inibire risposte prevedibili per produrne di inaspettate o creative. Ad esempio, in un test delle funzioni frontali, si chiede al paziente di completare una frase con una parola insolita: nella frase “sono andato alla posta per spedire una…” può aggiungere una qualsiasi parola inappropriata (“casa”, “ferrovia”, “amministrazione”) tranne che “lettera”, che è la risposta sbagliata spesso fornita dai pazienti frontali. Inibire la risposta automatica e scegliere un’alternativa richiede uno sforzo cognitivo che coinvolge la corteccia frontale. Gli attuali large language model completano invece sempre in modo abitudinario, proprio come un paziente frontale.
A cura di Laura Tonon
Paolo Bartolomeo
INTRAPPOLATI IN UN CIRCOLO VIZIOSO
Come nascono le dipendenze
Secondo l’analisi del comportamento applicata1, l’ambiente che ci circonda influenza il nostro comportamento attraverso tre elementi: lo stimolo, il comportamento e il rinforzo. Lo stimolo può derivare da fattori ambientali e ha il potere di attivare comportamenti specifici. Quando lo stimolo è presente si manifesta il comportamento, ovvero la risposta dell’individuo a quel particolare stimolo. Il rinforzo rappresenta la conseguenza del comportamento: può essere positivo o negativo. I comportamenti che producono rinforzi positivi tendono a ripetersi in futuro; al contrario quei comportamenti associati a rinforzi negativi tendono a diminuire nel tempo. In un contesto controllato, modificando uno stimolo in grado di evocare un determinato comportamento e il rinforzo a esso associato, è possibile modificare e ottimizzare il comportamento. Questi principi trovano applicazione in vari ambiti clinici e sperimentali relativi ad esempio ai disturbi del neurosviluppo, alle dipendenze da sostanze d’abuso e ai disturbi alimentari.
La motivazione
Un elemento fondamentale nella regolazione del comportamento è la motivazione, definita come ciò che ci spinge a compiere un’azione: quando siamo motivati, tendiamo ad attivarci per raggiungere un obiettivo (fare esercizio fisico, studiare o mangiare in modo sano). Questa definizione solleva una domanda: qual è il fattore che ci muove ad agire? Le nostre azioni possono essere motivate da due sistemi distinti: il primo basato sul valore e incentrato sul raggiungimento degli obiettivi (azione-risultato); il secondo basato sulle abitudini (stimolo-risposta). Ad esempio, potremmo sentirci motivati a controllare le notifiche sul cellulare perché stiamo aspettando un messaggio importante, oppure potremmo automaticamente manifestare l’abitudine di controllare il telefono ogni volta che sentiamo il suono di una notifica. Nella dipendenza, come in altre condizioni patologiche, questi processi subiscono distorsioni: l’assunzione iniziale di droghe (stimolo) implica un processo di apprendimento in cui un’azione (la ricerca della droga) porta a un determinato risultato (euforia e riduzione dell’ansia) che svolge il ruolo di rinforzo positivo. Secondo il modello azione-
Dipartimento di epidemiologia Servizio sanitario regionale del Lazio, Asl Roma 1
risultato, l’esito atteso dall’uso della droga viene sovrastimato, al punto che i comportamenti volti a ottenere la droga prevalgono su tutti gli altri. D’altro canto, secondo i modelli di dipendenza basati sull’abitudine, dopo l’apprendimento iniziale e ripetute esposizioni alla droga, il risultato non guida più il comportamento di ricerca della droga; piuttosto, la ricerca stessa diventa una risposta automatizzata innescata da segnali che rimandano alla droga, come la vista di un ago2. In una situazione patologica come quella della dipendenza, si verifica una distorsione della motivazione legata ad alterazioni neurobiologiche a carico del circuito cerebrale della ricompensa, che regola la motivazione, l’apprendimento e le emozioni legate alla gratificazione.
Il circuito della ricompensa
Questo circuito è composto da specifiche aree cerebrali che si attivano in risposta a stimoli gratificanti (cibo, sesso, interazioni sociali, sostanze d’abuso). In particolare, l’area tegmentale ventrale produce dopamina che viene poi rilasciata nel nucleo accumbens e in altre aree associate alla ricompensa, come la corteccia prefrontale3. La dopamina nel nucleo accumbens induce una sensazione di euforia e piacere che rinforza l’apprendimento associato all’esperienza. Con il tempo, il cervello impara che alcuni comportamenti portano a ricompense e crea una connessione tra il comportamento e la gratificazione. La corteccia prefrontale gioca un ruolo fondamentale nel processo decisionale e nell’autoregolazione, cercando di bilanciare i benefici a breve termine con quelli
a lungo termine. Infine, quando un comportamento viene ripetuto, l’ippocampo e l’amigdala si attivano per associare il comportamento alle emozioni provate. Questo rafforza il legame tra l’esperienza e il contesto in cui essa è avvenuta, creando una memoria che può influenzare future decisioni e comportamenti. Questi processi risultano alterati nella dipendenza.
Il cambiamento
Per cambiare un’abitudine non basta semplicemente eliminare un comportamento indesiderato, ma bisogna anche sostituirlo con uno nuovo che porti una ricompensa altrettanto gratificante che motivi l’individuo a tale cambiamento, il cervello tenderà così a consolidarla nel tempo. Nel caso della dipendenza, alterazioni nei processi motivazionali portano l’individuo a ripetere il comportamento dannoso in modo compulsivo, a discapito di elementi quali il lavoro, la famiglia o la salute. Quando si cerca di smettere, i circuiti cerebrali legati ai processi motivazionali rimangono alterati per lungo tempo. Ciò implica che anche dopo un periodo di astinenza, si può sperimentare un intenso desiderio di assumere una sostanza (detto craving), soprattutto quando i circuiti di apprendimento legati alla ricompensa e alla memoria si associano a determinati trigger esterni (luoghi, persone, situazioni) che in passato erano legati al consumo della sostanza o al comportamento. In questi casi il circuito della ricompensa, aiutato dalla diminuita attività della corteccia prefrontale nel controllo sugli impulsi, può riattivarsi, inducendo la ricerca del comportamento gratificante.
In conclusione, la comprensione dell’interazione stimolo-comportamento-rinforzo è un prezioso strumento per affrontare le sfide legate alla motivazione e al cambiamento delle abitudini nella vita quotidiana e nei contesti clinici. F
1. Cooper JO, Heron TE, Heward W. Applied behavior analysis (3rd ed.). Pearson Education: London, 2020.
2. Hyman SE. Addiction: a disease of learning and memory. Am J Psychiatry 2005 Aug;162(8):1414-22.
Dipartimento di siologia e farmacologia, Sapienza Università di Roma Centro europeo di ricerca sul cervello, Fondazione Santa Lucia Irccs Roma
Maria Morena Antonia Manduca
Svegliarsi presto per iniziare con calma la giornata, anticipando poco alla volta l’orario in cui si va a dormire.
Fare una colazione sana ed equilibrata con proteine, fibre e grassi sani. Secondo Altroconsumo il 69 per cento degli italiani fa colazione a casa, preferendo biscotti e caffè.
Fare la doccia al mattino per svegliarsi dal torpore del sonno e iniziare la giornata con energia e la giusta prospettiva.
Trovare il tempo per meditare,anche solo per pochi minuti, ad esempio mentre si aspetta che il caffè o il tè sia pronto.
Evitare di controllare subito cellulare e mail, meglio dedicare quel tempo a stretching o yoga per attivare il corpo.
Rifare il letto e riordinare la camera prima di uscire di casa: un gesto semplice che aiuta ad affrontare gli impegni della giornata con la mente più tranquilla.
Prendere il caffè per svegliarsi del tutto: per molti è difficile farne a meno, quasi una sorta di dipendenza, sia che si tratti del caffè della moka che dell’espresso.
Ascoltare la radio o i podcast di informazioni, leggere le prime pagine dei giornali per rimanere aggiornati.
Piccoli gesti che fanno la differenza
Quando ci troviamo di fronte a un problema che richiede un cambiamento, ci avventiamo con grandi obiettivi, solo per ritrovarci intrappolati in un circolo vizioso
scrive l’Harvard Business Review. Siamo abituati a pensare in grande, e siamo premiati per farlo, ma quello che serve per raggiungere grandi risultati è cominciare dalle piccole, micro, abitudini. Otto su dieci dei nostri lettori si considerano abbastanza, ma non troppo, abitudinari: quali sono le loro routine quotidiane?
Durante la giornata evitare di controllare frequentemente le email e ritagliarsi del tempo per i propri hobby e la lettura.
Cena fuori? Pizza, bistecca o zuppa veg? Secondo Jan Dutkiewicz, studioso di diritti degli animali di Harvard, per ridurre il consumo di carne è importante ampliare la libertà di scelta, per esempio, inserendo più opzioni nei menù dei ristoranti.
Pausa attiva: alzarsi per una breve passeggiata o fare esercizi leggeri ogni due ore, per contrastare la sedentarietà e stimolare la concentrazione.
Dedicare 20 minuti al pranzo, senza distrazioni come telefono o computer, e poi una decina di minuti per una passeggiata.
Fare la doccia di sera perché può aiutare a rilassare i muscoli, a facilitare il sonno e a “sciacquare via” la stanchezza della giornata.
Il libro sul comodino: leggere anche un solo paragrafo prima di dormire perché è rilassante e favorisce un sonno di qualità.
Investire mezz’ora nell’esercizio fisico: quando i vari impegni lasciano poco spazio, andare al lavoro a piedi almeno per una parte del percorso, fare le scale o fare la passeggiata con il cane.
PROMUOVERE benessere E consapevolezza I bambini come agenti di cambiamento
Quali sono le buone abitudini da passare ai bambini n dai primi giorni di vita?
Per prima cosa dobbiamo citare le buone pratiche validate dal punto di vista scientifico, per cui abbiamo evidenze in senso positivo sullo sviluppo del bambino nei primi anni di vita: in parole semplici il mangiar bene, il dormire quello che serve, il movimento fin dalla nascita, lo stare all’aria aperta. Ma non dimentichiamo l’importanza del farsi le coccole, dello stare vicini, del giocare, parlare e cantare, far musica e leggere con il proprio bambino. Oltre a queste buone pratiche validate ci sono poi tante piccole buone abitudini che si strutturano nella relazione fra i genitori e i bambini fin dalla gravidanza e che hanno un’importanza fondamentale nei primi anni di vita. Tra queste penso soprattutto all’importanza dell’ascolto, del contatto fisico, del rispetto.
Come si trasmettono le buone abitudini ai più piccoli?
Parlare di buone abitudini non significa pensare a schemi di comportamento uguali per tutti. La realtà è più variegata perché ci possono essere tanti elementi che concorrono nella vita di una famiglia a far sì che anche aspetti che ci sembrano banali, come lo stare vicino al proprio bambino o il tenerlo in braccio, siano vissuti in modo diverso. La cultura di appartenenza, le esperienze di vita personali dei genitori, la relazione di coppia, il temperamento del bambino, l’esperienza della gravidanza e del parto, influenzano la relazione con il bambino e le scelte di cura e educative.
Chiara Borgia Pedagogista Direttrice di Uppa magazine
Abbiamo
il diritto di aiutare il nostro quartiere.
Joaquin, consigliere di 9 anni di Mira ores, Lima
Per creare sane abitudini nei bambini, quanto è importante o rire loro un buon esempio da seguire?
Conta tantissimo, nel bene e nel male. L’imitazione è uno dei principali processi di apprendimento, i bambini imparano per imitazione, assorbono, vivono, sentono, guardano tutto quello che facciamo. Anche per questo la famiglia ha un ruolo così centrale nello sviluppo. Per questo motivo, ad esempio, in una famiglia abituata alla lettura è più facile che un bambino cominci a leggere, così come genitori che fanno più attenzione a seguire un’alimentazione sana trasmetteranno certe abitudini ai figli fin dallo svezzamento.
Al tempo stesso, però, possono essere i bambini a cambiare le abitudini dei genitori?
Assolutamente sì. Ci sono alcuni momenti particolari in cui la presenza di un bambino porta gli adulti a fare attenzione ad alcune cose che probabilmente se fossimo solo tra adulti non penseremmo nemmeno. Un bambino ci responsabilizza, accende spie di consapevolezza, fa interrogare su cosa mettiamo a tavola a pranzo o a cena, sul lasciare accesa la televisione mentre siamo in casa. Più i bambini crescono più possono contribuire a cambiare le nostre abitudini in maniera attiva, chiedendoci direttamente perché abbiamo detto o fatto una determinata azione. Tramite i compagni di scuola possono portare dentro casa argomenti e comportamenti nuovi che possono piacere o meno agli adulti. Se non alziamo un muro, anche queste possono essere occasioni di dialogo costruttivo.
Abbiamo parlato del ruolo della famiglia. Qual è, invece, quello del pediatra e della scuola?
Il pediatra può essere una figura significativa nella relazione col bambino, a seconda della frequenza con cui lo incontra e delle modalità di relazione. Lo stesso ambiente in cui lo accoglie può trasmettere messaggi importanti. Ma sappiamo anche che il pediatra ha un’influenza indiretta sul bambino attraverso i genitori che, soprattutto nei primi anni di vita del figlio, sono molto recettivi. Man mano che il bambino cresce anche la scuola ha un ruolo fondamentale, perché si apre ad altri modelli di riferimento che gli permettono di vedere il mondo da più punti di vista.
Come si cambiano le “cattive abitudini” nei bambini?
Bisogna guardare non solo al comportamento del bambino, ma soprattutto a che cos’è che muove quel tipo di comportamento, chiedersi in che momento di crescita è, quali bisogni sta attraversando, che esperienze sta facendo. Non è facile e serve pazienza, perché per capire cosa c’è dietro il comportamento di un bambino bisogna saper osservare. Ma provare a comprendere il “perché” è il primo passo per affrontare un comportamento che non ci piace. In base all’età del bambino, poi, si può provare a intraprendere un dialogo con lui. L’importante è non puntare mai il dito verso il bambino, ma mettere in discussione tutto ciò che succede all’interno della famiglia: le abitudini dei bambini sono lo specchio di ciò che accade in casa.
Quanto è importante – e su quali aspetti –per i bambini avere delle abitudini e una routine?
Ogni bambino quando nasce si trova catapultato in un ambiente sconosciuto, che può percepire anche come spaventoso. Ha quindi bisogno di sentirsi al sicuro e di capire come funziona la realtà che lo circonda per poter agire in essa. Per far ciò struttura dei modelli di comportamento già nei primissimi mesi. Facciamo un esempio: intorno al quarto
Intervista a
Se giocare è un diritto importante, allora deve essere anche un dovere.
Un bambino di Florencio Valera, Argentina
mese di vita il bambino capisce quando sta per essere preso in braccio e protende le braccia, riesce a prevederlo perché ha osservato accadere questo comportamento con una certa regolarità. Per noi adulti il passato, il presente e il futuro sono dimensioni conosciute, mentre per il bambino piccolo tutto accade qui e ora e quindi è difficilissimo all’inizio immaginare ciò che succederà durante la giornata. Per questo le routine, le cose che accadono con una certa frequenza, più o meno simili o uguali, diventano punti di riferimento che lo aiutano a capire e a sapere cosa aspettarsi rassicurandolo e rendendolo via via più autonomo. Le routine possono essere importanti anche nei momenti di transizione da un’attività all’altra per permettere al bambino di vivere meglio il cambiamento: ad esempio tra la sveglia e l’uscita di casa, tra la cena e l’andare a dormire.
I bambini di oggi hanno abitudini diverse rispetto a quelle che avevano i bambini delle generazioni passate?
Alcune sono diverse, altre fortunatamente uguali. Pensando ad abitudini che saltano subito all’occhio come diverse mi vengono in mente il movimento e lo stare all’aria aperta: oggi i bambini per impegni familiari, per la vita cittadina trascorrono molto meno tempo all’aria aperta, muovendosi anche meno. Abitudine, quindi, peggiorata rispetto al passato. Sempre a causa dell’urbanizzazione e della diversa conformazione delle città è cambiata anche la modalità di socializzazione, che un tempo av-
veniva in contesti meno formali, come i cortili delle case o i parchi. Un altro aspetto, non necessariamente negativo ma spesso a rischio, è la fruizione dei media, perché oggi molti strumenti sono accessibili anche i bambini. Tra le abitudini cambiate in positivo l’aumento della lettura precoce, su cui però le differenze socioeconomiche e culturali creano nette divisioni in termini di disuguaglianze tra famiglie.
Oggi, forse, c’è maggiore consapevolezza su alcune questioni rispetto al passato. Nei prossimi anni potremmo avere una popolazione più attenta ad avere abitudini sane per la propria salute e per quella del pianeta?
Da pedagogista devo guardare con speranza al futuro e rispondere di sì. È difficile, però, generalizzare perché se da un lato le nuove generazioni crescono forse più informate, dall’altro bisogna vedere quanto l’informazione diventa consapevolezza e azione verso il cambiamento.
Dovremmo stare attenti a non pensare solo a cosa accadrà domani, perché i pensieri e le idee dei bambini potrebbero contribuire un po’ a cambiare il mondo già oggi. I bambini sono gli adulti di domani, ma sono anche persone di oggi e dovremmo provare ad ascoltarli e a dargli più spazio. Nel mondo ci sono esperienze di amministrazioni che si sono fatte aiutare dai più piccoli nel prendere decisioni concrete.
A cura di Rebecca De Fiore
Vedi anche
Il progetto
“La città dei bambini e delle bambine”
nasce nel 1991 da una idea di Francesco Tonucci, pedagogista e ricercatore del Cnr dal 1966. L’intento è proprio promuovere il cambiamento attraverso i bambini, facendoli partecipare concretamente al governo e alla progettazione della città riappropriandosi dello spazio urbano. La trasformazione urbanistica negli ultimi decenni ha nito, infatti, per frammentare la città facendole perdere la sua originaria natura di luogo di incontro e di scambio sociale e rendendole più pericolose per i bambini che non possono muoversi ed esplorarle liberamente. Proprio i bambini potrebbero farci aprire gli occhi mostrandoci una città migliore e ripensare un contesto urbano che sia più adeguato a loro e a tutti i cittadini.
Attualmente il progetto è presente in 15 Paesi nel mondo, principalmente in Europa e America Latina, con più di 300 città che hanno aderito alla rete internazionale della città dei bambini. Oltre alla rete internazionale, sono attive alcune reti nazionali: la rete italiana, la rete argentina, la rete brasiliana, la rete messicana, la rete di Lima e la rete spagnola. In alcuni casi, le reti nazionali includono anche reti provinciali o delle Comunità autonome com’è il caso dell’Argentina e della Spagna.
La rete italiana è nata nel 1996, con lo scopo di sviluppare un senso di appartenenza al progetto, promuovere il confronto e la condivisione delle esperienze. Nello stesso anno è stato costituito il Laboratorio internazionale “La città dei bambini” del Cnr per fornire formazione, supporto e coordinamento alle città che aderiscono al progetto.
Nel 2013 la Regione Lazio ha aderito al progetto dando origine alla rete regionale, avvalendosi della collaborazione scienti ca dell’Istituto di scienze e tecnologie della cognizione del Cnr per la sua realizzazione. Hanno aderito alla rete regionale 21 comuni e 3 municipi romani.
La sperimentazione del lavoro di rete si è dimostrata come la migliore strategia per sviluppare il progetto nelle varie città.
La rete favorisce una dinamica di scambio e di ispirazione reciproca, consente di portare avanti iniziative condivise e assicura il supporto dei diversi coordinatori del progetto attivi nelle diverse realtà.
Nel 2023 è stato siglato un accordo di collaborazione con l’associazione Francesco Tonucci che ha tra le sue nalità anche quella di sviluppare a livello internazionale il progetto “La città dei bambini”. In virtù di tale accordo l’Istituto e l’associazione promuovono e coordinano progetti di ricerca su base nazionale e internazionale; collaborano al coordinamento della rete internazionale del progetto per favorire lo scambio metodologico e scienti co mediante la costituzione di gruppi di ricerca e/o unità di ricerca congiunti. •
https://www.lacittadeibambini.org/
Scopri di più:
Un bagaglio di abitudini Come le differenze culturali condizionano la salute delle persone
“Mai stata dal dentista fino a due anni fa. E sono in Italia da dieci anni. Per quanto riguarda gli altri dottori, sono andata solo dalla dottoressa di base. Vado solo quando ne ho molto bisogno, quando le medicine che prendo io non funzionano” mi racconta C., diciotto anni in Cina prima di trasferirsi in Canada e poi in Europa. Ora vive in Italia – Firenze, Pisa poi Milano – dove da sette anni lavora in una multinazionale. Ha 33 anni, è sposata con un uomo brasiliano, frequenta gruppi di amici italiani ed è bene integrata nella comunità cinese della città. “Quando torno in Cina, ogni due o tre anni, faccio tutto: dalla visita dal dentista a un check up totale. L’ultima volta che sono stata da un medico in Italia è stata dopo un’ecografia ginecologica: hanno trovato una malformazione, spiegandomi che era molto rara. Allora ho parlato anche con la mia ginecologa in Cina: mi ha detto che sì, in Italia è rara, ma in Cina si vede nel 10-20 per cento delle donne e non è considerata una cosa grave. Mi ha tranquillizzata molto”.
La scelta di preferire – a meno di casi gravi – la Cina all’Italia dal punto di vista sanitario è legata in questo caso a esperienze personali, fiducia e probabilmente diverse altre cause difficili da isolare. Una singola storia non può rappresentare i comportamenti di una popolazione, ma si possono riconoscere alcuni tratti comuni a molte esperienze: chi sceglie di lasciare il proprio luogo di origine spesso riserva un angolo della valigia alle proprie abitudini, portandole con sé e mantenendole vive nel nuovo contesto. Se consideriamo l’Italia, i dati Istat più recenti – pubblicati nel 2014 – mostrano che sono diverse le comunità che non hanno abbracciato le abitudini di cura e di prevenzione comuni al resto della popolazione, e sono poco integrate nel Sistema sanitario nazionale.
Dal punto di vista culturale, custodire identità e diversità non è considerato un problema. Ma diversi studi sembrano suggerire che alcune abitudini – se il contesto intorno alle persone cambia – possono smettere di mostrare benefici fino a diventare nocive. Un rapporto della Fondazione Ismu – Iniziative e studi sulla multietnicità mostra come negli ultimi anni la popolazione straniera sia cresciuta passando da 922mila del 1998, regolari e non, a quasi sei milioni nel 2023. Conoscere e tenere in considerazione le abitudini sanitarie di cittadini stranieri e migranti, se prima era importante, è ora indispensabile.
Seguire il Ramadan con il diabete
I pasti previsti durante il Ramadan – il nono mese del calendario islamico – consistono in una colazione prima del sorgere del sole, prima della preghiera, e in una cena successiva alla preghiera della sera quando il sole è tramontato. Da questa pratica, considerata sacra, derivano però dei comportamenti che potrebbero risultare pericolosi per la salute degli individui più fragili: per quasi un mese è proibito consumare cibi, bevande e medicazioni orali e iniettive tra l’alba e il tramonto. Dal Ramadan sarebbero esentati i bambini, le persone anziane, le donne in gravidanza, le persone che soffrono di particolari patologie. Nonostante la possibilità di evitare l’astensione dal cibo nelle ore diurne molti pazienti diabetici – oltre il 90 per cento dei tipo 2 e il 40 per cento dei tipo 1 – osservano almeno 15 giorni di digiuno. Se non seguiti da un medico, il regime alimentare legato al digiuno può avere degli effetti negativi sui musulmani che vivono in Italia, circa un milione e mezzo secondo l’ultimo rapporto Ismu: il gruppo più numeroso è costituito dai marocchini (circa 471mila), seguito dagli albanesi (circa 157mila).
Come si legge nelle linee guida messe a punto nel 2016 dall’International diabetes federation e dal Diabetes and ramadan international alliance, aggiornate nel 2021, la decisione di un individuo con diabete di tipo 1 – purché stabile e in buona salute – di seguire
in maniera rigorosa i dettami del Ramadan dovrebbe essere rispettata, a patto che abbia svolto un programma di educazione al controllo dei livelli glicemici e resti sotto stretta supervisione medica. Anche la maggior parte delle persone affette da diabete di tipo 2 può digiunare durante il mese sacro se supportata dal medico curante. Per quanto riguarda la comunità marocchina, però, tra il 12 e il 14 per cento dei membri ha difficoltà a relazionarsi con il medico. Nella comunità albanese le percentuali sono più basse, tra il 7,2 e l’8,2 per cento.
“Il diabete di tipo 2 presenta fattori che possono essere predisponenti a livello genetico, soprattutto la ridotta tolleranza al glucosio e una maggiore difficoltà nella sua metabolizzazione”, spiega Elena Repetti, genetista di TomaLab, uno dei più grandi laboratori di genetica in Italia. “Sappiamo anche, però, che le persone che hanno il diabete di tipo 2 in genere sono persone sovrappeso o con una cattiva alimentazione”.
Genetica o abitudini?
Come il diabete anche l’ipertensione è una condizione in aumento: secondo uno studio pubblicato su Lancet, negli ultimi quarant’anni il numero globale di adulti con ipertensione arteriosa è quasi raddoppiato. Questa patologia riguarda in particolar modo la popolazione cinese: su 1,13 miliardi di individui che ne soffrono, uno su cinque vive in Cina. E secondo una nota del Policlinico di Milano del 2013, in Cina sarebbe a rischio di ipertensione un abitante su due mentre in Italia la percentuale scende al 20 per cento della popolazione adulta. E la comunità cinese che vive in Italia?
Per i membri della comunità cinese residenti in Italia il rischio di ipertensione arteriosa sembrerebbe essere più alto rispetto alla media del Paese. Il motivo sarebbe da ricercare in fattori genetici che dipendono dal luogo di appartenenza, ma anche tra le abitudini che chi ha migrato conserva nel nuovo Paese. “Il discorso alimentare può influire sull’ipertensione in modo indiretto. Ci sono forme di ipercolesterolemia familiare che hanno dei target genetici, e la loro analisi può essere considerata ormai di routine” continua Repetti, spiegando in che modo il rischio cardiovascolare e il rischio di ipertensione dipendono dai geni o dal diverso stile di vita e alimentazione. “Un’alimentazione scorretta o un dismetabolismo possono aumentarne il rischio: un consumo eccessivo di sale può determinare un danno a livello renale
che può portare a un aumento della pressione”. Per questo motivo chi soffre di ipertensione, ma in generale chiunque persona in ottica preventiva, dovrebbe evitare il più possibile cibi processati, spuntini salati, carni e verdure conservate, salse e cibi confezionati. Dovrebbe preferire, invece, e mangiarne il più possibile, frutta, verdura, carne e pesce freschi. Sembrerebbe persino esistere un’associazione tra un elevato consumo di frutta e un minor rischio di soffrire di ipertensione. “In Cina la frutta è considerata un alimento freddo. Dato che il nostro corpo è caldo, dovremmo consumarne poca per evitare uno shock e un danno all’organismo”, mi dice C. Meglio poi mangiare la frutta al mattino, non prima di dormire e cotta al vapore. “Non tutti seguono questo concetto alla lettera, chi crede di più nella medicina cinese fa più attenzione. Io cerco di seguire questa indicazione, ma ragionare su una cosa così astratta è molto difficile. A volte mi chiedo: ma è davvero così? Cosa succede a chi mangia frutta tutti i giorni?”.
Servizi dedicati per una maggiore integrazione
Il report Istat del 2014 sulle condizioni di salute dei cittadini stranieri in Italia e sul loro rapporto con i servizi sanitari mostra come in quegli anni alcune comunità fossero poco integrate dal punto di vista sanitario. Quella cinese in particolare è un outlier in diverse statistiche, essendo quella che frequenta meno i medici di base e gli specialisti, quella più incline all’uso di farmaci che provengono dall’estero e non disponibili nelle farmacie italiane (6,7 per cento rispetto all’1 per cento del totale degli stranieri) e quella in assoluto più orientata all’utilizzo della medicina orientale tradizionale. Oltre a abitudini e tradizioni ci sono vere e proprie barriere: il 43,3 per cento di persone con più di 14 anni che appartengono alla comunità cinese dichiarava di avere difficoltà nell’esporre in italiano le proprie condizioni di salute.
“A Milano, vicino via Paolo Sarpi, centro nevralgico della comunità cinese, c’è l’Istituto Auxologico italiano. Lì ci sono impiegati cinesi, ma non dottori cinesi. Io da poco sono andata fare un prelievo, c’era una ragazza cinese allo sportello che in caso di bisogno può aiutare”. C. mi ha parlato della situazione a Milano: nel 2013, ormai diversi anni fa, si è fatto un tentativo per una presa in carico mirata delle persone di origine cinese che vivono fuori dalla Cina continentale, e nello specifico
CITTADINI STRANIERI PER MOTIVO DELL’ULTIMO RICOVERO
CIT T ADINI STRANIERI PER MO TIVO DELL ’UL TIMO RI CO VERO
Anno 2011 – 2012, valori percentuali
Intervento chirurgico
Accertamenti
Parto, nascita
Incidente, infortunio
Cure mediche
(inclusa riabilitazione)
Anno 2011 – 2012, valori percentuali
nel capoluogo lombardo. Presso il Policlinico di Milano – in un progetto in collaborazione proprio con l’Istituto Auxologico – è stato avviato un ambulatorio cardiologico bilingue italo-cinese. Sottoponendo pazienti cinesi, residenti in Italia e in Cina, ai medesimi esami clinici e strumentali, raccogliendo valutazioni sullo stile di vita e sulle abitudini alimentari, analizzando i fattori genetici e quelli modificabili, si è provato a rispondere a domande come: cosa accade se l’ambiente è diverso ma l’alimentazione rimane quella d’origine, generalmente più salata? Che differenze ci sono in termini di salute tra gli immigrati di prima generazione, nati in Cina, e quelli di seconda e terza generazione, nati in Italia?
getto. “Avevo aperto una collaborazione con dei colleghi cinesi di Pechino che si erano mostrati entusiasti di partecipare al progetto. Era già partita anche la raccolta dei dati. Ma poi il progetto è rimasto fermo” racconta Parati. I ricercatori, oltre alla raccolta dei dati, si proponevano di entrare nel quartiere in cui risiede gran parte della popolazione cinese per mettere in atto programmi di screening sul territorio e raggiungere chi ha difficilmente accesso ai programmi di prevenzione e cura occidentali. “Per un po’ l’iniziativa è andata avanti, abbiamo mantenuto un buon rapporto col consolato cinese che ogni tanto ci invita per qualche progetto educazionale, ma a malincuore ma non abbiamo potuto raccogliere i dati”.
Intervento c hirurgico
Accert amenti
I dati Istat del 2011-2012 sui comportamenti di cura dei cittadini stranieri in Italia evidenziano che in assenza di sintomi vanno dal medico più le donne e i giovanissimi. Gli stranieri che ricorrono alle visite generiche o pediatriche (15,9%) sono di più di quanti ricorrono alle visite specialistiche (9,6%). Il motivo principale dei ricoveri è il parto e la nascita. Nell’accesso alle cure, l’ostacolo linguistico è maggiore per le donne e per gli over55.
All’Istituto Auxologico lavora Gianfranco Parati, cardiologo che ha partecipato all’esperienza dell’ambulatorio e che ora studia come migliorare la consapevolezza, il trattamento e il controllo dell’ipertensione in Paesi a basso e medio reddito come il Rwanda. Ma a più di dieci anni dal suo inizio, il progetto non è stato completato perché è venuta meno la partecipazione di uno dei referenti del pro-
Alla luce delle difficoltà che alcune comunità segnalano nell’accesso ai controlli medici e alle cure specialistiche, collezionare dati più recenti e favorire progetti di questo tipo potrebbe aiutare a comprendere le complessità e i bisogni di chi, per abitudini che vengono da religioni o tradizione o per colpa di barriere oggettive, sfugge al Sistema sanitario italiano. Andrea Calignano
CITTADINI STRANIERI PER DIFFICOLTÀ LINGUISTICHE
Parto, nascit a
CON IL PERSONALE MEDICO
Anno 2011 – 2012, valori percentuali
Anno 2011 – 2012, valori percentuali D i coltà a comprendere il medico D i coltà a spiegare sintomi/disturbi al medico
Incident e, infortunio
Cure m edic he
Altro (inclusa riabilitazione)
Nell’accesso alle cure, lo svantaggio li nguistico è maggiore per le donne e gli over 55
Nell’accesso ai servizi sanitari il limite dettato dalle difficoltà linguistiche può costituire un vero e ostacolo per la popolazione straniera. Tra gli stranieri di 14 anni e più, il 13,8% dichiara di avere di nello spiegare in italiano al m edico i disturbi o i sintomi di cui soffre e il 14,9% riferisce di avere diffi com prendere ciò che il medico dice (T avola 13) Il problema linguistico è più accentuato per le don
Femmine Maschi
FIGURA 8 – CITTADINI STRANIERI PER MOTI VO DELL’ULTI MO RICO VER O Anno 2011 – 2012 , valori per centuali
Fonte: Istat. Cittadini stranieri: condizioni di salute, fattori di rischio, ricorso alle cure e accessibilità dei servizi sanitari – anno 2011-2012.
Un’alimentazione più sana per tutti
Una transizione necessaria per la salute globale
Dalla seconda metà del ventesimo secolo la globalizzazione e l’avanzamento tecnologico hanno determinato un cambio nei modelli alimentari e nei sistemi produttivi. Se da un lato l’intensificazione della produzione e distribuzione alimentare permette di rispondere alla crescente domanda mondiale di cibo, dall’altro determina una serie di conseguenze negative per la salute pubblica e del pianeta. Circa 890 milioni di adulti a livello globale soffrono di obesità e nel 2020 circa 10 milioni di decessi sono stati associati a patologie croniche (come malattie cardiovascolari, metaboliche e alcuni tipi di tumori) correlate a uno scarso consumo di alimenti vegetali e all’eccessivo consumo di carne rossa, processata e latticini1. Allo stesso tempo fame e malnutrizione hanno contribuito a circa il 45 per cento dei decessi infantili di età inferiore ai 5 anni2: un paradosso per cui, nonostante si produca cibo a sufficienza per l’intera umanità, la distribuzione è iniqua e l’accesso non è garantito a tutti. Gli attuali modelli alimentari, inoltre, stanno determinando importanti effetti sull’ambiente contribuendo alla crisi climatica, al consumo di acqua e suolo, all’eutrofizzazione e alla perdita di biodiversità. La produzione di cibo contribuisce a circa il 30 per cento delle emissioni antropogeniche globali di gas serra, di cui il 57 per cento è attribuibile alla produzione di carne e derivati1, senza considerare il contributo di processi successivi alla produzione primaria, come la trasformazione, l’imballaggio, la distribuzione e gli sprechi alimentari di ciascuna fase. Secondo l’ultimo report dell’Intergovernmental panel on climate change il riscaldamento e la siccità stanno già incidendo sulla sicurezza alimentare, danneggiando la fertilità del suolo e rendimenti dei raccolti.
Una dieta sana e sostenibile
L’alimentazione costituisce un elemento chiave per la mitigazione dei cambiamenti climatici e la promozione della salute. La comunità scientifica sottolinea l’urgenza di trasformare i sistemi alimentari: la EAT-Lancet commission ha proposto la “planetary health diet”, un modello di dieta sana e sostenibile, basato sul fatto che diete a ridotto impatto ambientale (con meno prodotti animali e alimenti ultraprocessati, e più vegetali) sono associate a cobenefici di salute. Il modello proposto può abbracciare diversi pattern dietetici come diete vegetariane, flexitariane, pescatariane, la dieta
Edda Parrinello
Dipartimento di epidemiologia Servizio sanitario regionale del Lazio, Asl Roma 1
mediterranea. Oltre a costituire un intervento di prevenzione primaria, secondo una recente revisione, la promozione di diete sostenibili ridurrebbe le emissioni di gas serra del 25,8 per cento rispetto ai modelli di consumo abituali3 e secondo un recente studio se la dieta proposta dalla EAT-Lancet commission fosse adottata solo dalle nazioni più ricche (maggiori produttrici di carne) le emissioni agricole globali si ridurrebbero del 61 per cento4
Combattere le cattive abitudini
Le linee guida per un’alimentazione sana e sostenibile si scontrano con le abitudini alimentari della popolazione. Una recente revisione sistematica mostra che nel bacino del Mediterraneo l’aderenza alla dieta mediterranea è bassa o moderata, sottolineando la necessità di interventi di salute pubblica5. Le condizioni economiche, lavorative e sociali sono responsabili, soprattutto nelle aree urbane, di un avvicinamento alla cosiddetta “western diet”, caratterizzata da alimenti ultraprocessati, ad alta densità energetica, ricchi di sale, zuccheri, grassi e proteine di origine animale, spesso preferiti perché facilmente accessibili ed economici, ma dannosi da un punto di vista di salute individuale e ambientale. Da una survey condotta dal Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria è emerso che quasi la metà degli italiani intervistati sottovaluta l’impatto della carne su ambiente e salute e circa il 30 per cento non è disposto a ridurne i consumi, soprattutto tra le persone con basso reddito. Tra le principali barriere ci sono aspetti socioeconomici (in particolare gli elevati costi di alimenti vegetali freschi) e un’inadeguata educazione alimentare, associata spesso a false credenze, come un maggior valore nutrizionale della carne rispetto alle alternative vegetali. Gli operatori sanitari possono svolgere un ruolo importante nella transizione e per questo, nell’ambito del progetto del Ministero della salute “Clima, cobenefici di salute ed equità”, è stata sviluppata una survey rivolta a loro, con l’obiettivo di valutare le conoscenze e le attitudini a modificare la propria dieta, identificare i principali ostacoli e suggerire interventi e politiche in grado di influire sulle scelte individuali. La promozione di modelli di dieta sana e sostenibile è necessaria per raggiungere gli obiettivi della strategia nazionale di mitigazione dei cambiamenti climatici e del piano di prevenzione nazionale. Sono fondamentali programmi di educazione e rafforzamento dei fattori motivanti individuali, ma affinché questi sforzi siano efficaci sono fondamentali interventi politici incisivi che orientino la produzione verso modelli sostenibili, garantendo a tutti l’accesso economico a un’alimentazione sana e di qualità. F
1. Romanello M, et al. Lancet 2023;402:234694.
2. Sahiledengle B, Mwanri L. Lancet Glob Health 2024;12:e348-e349.
3. Jarmul S, et al. Environ Res Lett 2020;15:123014.
4. Sun Z, et al. Nat Food 2022;3:29-37.
5. Obeid CA, et al. Eur J Nutr 2022;61:3327-44.
La rilevanza dell’abitudine per l’ industria
Comportamenti appresi e consumo di massa
In psicologia, così come nelle discipline che applicano conoscenze e teorie della psicologia, l’abitudine è un concetto astratto nché non è contestualizzato. Non basta la de nizione canonica da dizionario; una fra tante, quella del De Mauro: “tendenza acquisita che deriva dalla ripetizione costante di atti o comportamenti”. Le abitudini si attivano in relazione a stimoli socio-ambientali, diventano risposte apprese e portano ad azioni intraprese senza troppa consapevolezza, con obiettivi e motivazioni sfocati, proprio quando la soglia dell’attenzione si abbassa. Su meccanismi come questo, da decenni si formano e si a nano le tecniche di vendita e le analisi di mercato a bene cio del consumo di massa. Che l’industria, bisognosa di stimolare al consumo, abbia profondamente trasformato le nostre abitudini è evidente in sempre più numerosi casi. Non si tratta, tuttavia, di un fenomeno recente.
Vintage marketing: Il cervello ha bisogno di zucchero
Negli anni ottanta, in pieno boom delle televisioni commerciali, una pubblicità ricca di slancio ed energia ripeteva che il cervello avesse bisogno di zucchero, senza fornire alcun avvertimento, spiegazione: “Lo zucchero è pieno di vita!”. Avrà contribuito all’idea, all’abitudine, che un calo di attenzione o un accenno di fatica si potessero compensare con un dolce, uno snack, cioè con saccarosio, raffinato e immediatamente disponibile? E all’abitudine di fare colazioni e merende molto zuccherate?
Nel 1965 la Sugar research foundation riuscì a interrompere più volte ricerche sui rischi cardiovascolari del consumo di saccarosio, interrompendo le sperimentazioni sui topi quando le prove iniziarono a volgere a sfavore dell’industria. Secondo gli autori dell’articolo abbiamo vissuto “sessant’anni di manipolazione della scienza da parte dell’industria alimentare e delle bevande”1. E ciò accadde ancora nelle indagini sugli effetti sulla salute del fumo, dei farmaci, delle cause del cambiamento climatico.
Una questione tutta italiana: l’acqua minerale in bottiglia
Prendere un bicchiere, aprire il rubinetto in cucina, riempirlo (anche ripetutamente) di acqua, bere. Non esiste gesto più semplice per appagare la sete. Eppure il 40 per cento degli italiani complica quel gesto comprando pesanti imballi di plastica, dopo aver scelto, talvolta, l’acqua minerale in base alle proprie necessità. In Italia si consumano in media 208 litri pro-capite di acqua in bottiglia ogni anno. Solo il 29,2 per cento degli italiani sceglie quella del rubinetto. Siamo i maggiori consumatori in Europa, al secondo posto globalmente. E senza ragione: quella che sgorga dai rubinetti è una delle acque più sicure e garantite. Il Centro nazionale per la sicurezza dell’acqua dell’Istituto superiore di sanità ha pubblicato ad agosto 2024 il primo Rapporto nazionale sulla qualità dell’acqua potabile: esaminando i risultati di oltre 2,5 milioni di analisi chimiche, chimico-fisiche e microbiologiche si sono riscontrati livelli di qualità ineccepibili.
Una recente indagine ha rilevato che il 40 per cento delle persone interpellate ha dichiarato di non fidarsi dell’acqua di rubinetto e un terzo dei consumatori di quella in bottiglia afferma di aver fatto questa scelta per il sapore. Ma il consumo è molto incoraggiato da slogan più volte sanzionati ormai entrati nel lessico quotidiano, come “l’acqua che elimina l’acqua” o “acqua della salute”. E il marketing si spinge oltre invadendo il campo t
della salute: dal prodotto che “combatte la ritenzione idrica” alle cosiddette acque minerali funzionali, cioè arricchite di vitamine e minerali “per ritrovare la concentrazione” o di collagene e acido ialuronico per la skincare. Che il gusto o l’odore di un prodotto industriale sia superiore è una convinzione che rinforza l’abitudine all’acquisto, spesso sfatata da numerosi test di assaggio al buio. Ed è proprio sull’abitudine – sul cambiamento di abitudine – che puntano i tentativi messi in campo in diversi Paesi per promuovere l’utilizzo di acqua del rubinetto. Diversi governi hanno scelto misure drastiche: in alcune aree dell’Australia, del Canada, di Hong Kong e negli Stati Uniti è stata completamente vietata la commercializzazione di acqua in bottiglia. Più generalmente l’obiettivo è sensibilizzare per correggere le false convinzioni, aiutare a instaurare buone abitudini. Perché l’acqua potabile non è solo sicura, soprattutto è sostenibile. In Unione europea nel 2021 ogni cittadino ha prodotto in media 36,1 chilogrammi di rifiuti composti da imballaggi in plastica, la principale fonte inquinante dei mari. Dei 16,13 milioni di tonnellate di rifiuti di questo tipo prodotte ogni anno, solo 6,56 milioni sono state riciclate.
Healthy, ma ultra-processato
Altrettanto fiorente è il mercato dei prodotti pronti dedicati a chi non è proprio a dieta, ma ha deciso di abbracciare una sana abitudine, quella di mangiare healthy, fit. Se fino a poco tempo fa esisteva un apposito reparto nei supermercati, adesso questi alimenti sono collocati in ogni scaffale: non occorre cercare, l’alternativa al tradizionale prodotto industriale è disponibile a ogni passo. E si tratta di alternative salutiste persino a prodotti che
non avrebbero nulla di nocivo, come latte, yogurt, pasta, riso. Il boom più recente (+20 per cento) riguarda i cibi proteici. L’attenzione del consumatore si sposta alla voce “proteine” nell’etichetta dei nutrienti, sorvolando sull’eccesso, spesso frequente, di zuccheri e grassi. Si tratta, dunque, di soluzioni ultra-processate.
Abitudini digitali
La creazione di abitudini operata dall’industria si è rafforzata, e continua a rafforzarsi, nell’era digitale, con la comunicazione che trova innumerevoli canali diretti al consumatore, sempre più raffinati e personalizzati. E sempre più percepiti come innocui. Le motivazioni che portano a frequentare il web sono sostanzialmente la ricerca di informazioni (73 per cento) e di “istruzioni per l’uso” (62,8 per cento) e il mantenimento dei contatti con i propri cari (55 per cento). Queste intenzioni, però, sono continuamente interrotte da pubblicità mirate, efficaci proprio perché costruite su due piani: sulla massa, molto ampia, di utenti che non vogliono rinunciare alla ricerca dei contenuti preferiti, e sul singolo utente che, inconsapevolmente o con conscia leggerezza, fornisce agli editori pubblicitari dati sui propri comportamenti e abitudini.
Con la progressiva diffusione dei dispositivi digitali, dell’intelligenza artificiale, dell’Internet of things (o IoT, insomma degli assistenti virtuali e dei dispositivi indossabili) è emersa la pubblicità comportamentale. Questa si nutre delle abitudini dei consumatori oppure crea abitudini nuove, nuovi bisogni, in un circolo virtuoso solo per l’industria.
L’efficacia della pubblicità mirata è possibile soprattutto grazie all’invadenza degli algoritmi predittivi. Gli esperti definiscono
questo strumento come il processo che, a partire dai dati storici, prevede comportamenti futuri. Dall’analisi di enormi quantità di dati, raccolti costantemente, si identificano pattern, cioè modelli e correlazioni che premettono di delineare previsioni. Si utilizzano algoritmi predittivi in meteorologia, nella finanza, nella gestione della produzione industriale e del commercio; ma anche in medicina (l’arrivo di una nuova epidemia, la diagnosi molto precoce di una patologia). Se prevedere quale sarà il trend di vendita di uno smartphone è utile soprattutto per pianificare offerte e prezzi, nel caso di applicazioni molto personali, come la salute, questo strumento apre dubbi etici molto importanti. Michael Pollan, giornalista statunitense, in uno dei suoi saggi più popolari, “Come cambiare la tua mente" descrive le abitudini come strumenti che “ci risparmiano la necessità di ricorrere a complesse operazioni mentali ogni volta che affrontiamo un compito o una situazione nuovi” e “ci sollevano dal bisogno di fare attenzione, di essere percettivi, pensare, e poi agire in maniera deliberata”2 Scrive ancora Pollan che “il nostro cervello traduce continuamente i dati del presente, protendendosi indietro nel tempo a cercare esperienze rilevanti, e quindi usandole per formulare l’ipotesi migliore su come prevedere il futuro e orientarsi in esso”. Fare esperienza, in questo modo, non è più un atto legato al presente, ma ci spinge ad agire come un programma di intelligenza artificiale: interpretabile e manipolabile dall’industria, appena cala l’attenzione.
Maria Frega
1. Kearns CE, Schmidt LA, Glantz SA. Sugar industry and coronary heart disease research: a historical analysis of internal industry documents. JAMA Intern Med 2016;176:1680-5.
2. Pollan M. Come cambiare la tua mente. Milano: Adelphi, 2019.
Cambiare prospettiva
per una vita moralmente accettabile per tutti
Sono un grande sostenitore dello stile di vita sano. Se gli americani vivessero in modo più sano, ci troveremmo tutti in una situazione migliore. Avremmo meno obesità, diabete e malattie cardiache. Probabilmente avremmo meno pazienti in cura per depressione, cancro e dipendenze. È la sua posizione su questi aspetti, su cui tutti concordano, che porta molti a non prestare attenzione alle idee bizzarre e pericolose di Robert F. Kennedy Jr. Dunque, quello contro cui mi schiero è il culto dello stile di vita sano che venera la dieta e l’esercizio fisico come panacee. I cultori credono che non esista alcuna malattia che una maggiore dedizione al benessere, una minore quantità di oli di semi e di solanacee e una maggiore quantità di adattogeni e nootropi non possano prevenire o curare. I devoti al Dio dello stile di vita sano sembrano convinti che una vita sana garantirà un futuro felice, soddisfacente e completo, vivendo in beatitudine con un partner che non sia solo l’anima gemella, ma anche radiosamente bello e trascendentemente carismatico. È raro che un post su Twitter o su Substack sulla malattia di un paziente o sull’uso da parte di un medico di farmaci ben collaudati non sia accolto da commenti su come il paziente avrebbe potuto evitare i suoi mali se solo avesse vissuto meglio. Nei commenti si chiedono anche come faccia il medico a dormire la notte essendo assoggettato alle industrie farmaceutiche. Questo atteggiamento è autocompiaciuto, poco informato, poco sensibile e di breve durata.
MP è una donna di 50 anni con ipertensione e diabete. È obesa e ha un indice di massa corporea di 32. Sta assumendo losartan/idroclorotiazide, atorvastatina e metformina. La sua emoglobina A1C è 8,5 e si discute del fatto che probabilmente è giunto il momento di iniziare un farmaco GLP-1 RA.
Siete pazzi, dicono quelli che adorano l’altare dello stile di vita sano. Se il suo indice di massa corporea fosse stato di 23, non avrebbe dovuto assumere alcun farmaco! Pensate davvero che aggiungere un altro farmaco possa fare la differenza?
Ma vediamo il contesto.
Adam Cifu
Medical school academics Bucksbaum institute for clinical excellence Chicago university
MP è una madre single di due figli. Con lei vive anche il padre di 72 anni, disabile dopo aver lavorato per 30 anni nelle acciaierie dell’Indiana occidentale. Vive nel quartiere di Englewood, nel South Side di Chicago. Vivono tutti con il suo stipendio, la pensione e l’invalidità del padre. Fa la pendolare per 60-90 minuti per raggiungere il suo posto di lavoro. Il tragitto e le sue esigenze di assistenza non le lasciano il tempo di fare esercizio fisico. Non può permettersi di vivere vicino al suo lavoro e non può permettersi di accettare un lavoro vicino a dove vive. Anche se avesse il tempo di fare esercizio fisico, il suo quartiere non si presta a una passeggiata di 30 minuti all’aperto. Cerca di mangiare bene e di preparare pasti sani ma, dati i suoi impegni, spesso compra cibi pronti che può semplicemente riscaldare. Di tanto in tanto compra gli Oreo. Sa che fanno male, ma hanno un sapore così buono e sono una ricompensa alla giornata dopo che tutti sono andati a letto.
AP viene a chiedere aiuto per il suo consumo di alcol. Vengono valutati naltrexone, acamprosato e disulfiram. Sceglie di iniziare sia l’acamprosato sia il disulfiram.
Eh no, dice il cultore dello stile di vita sano, ora stiamo medicalizzando le dipendenze. Che ne dite di un po’ di buona vecchia forza di volontà? Almeno indirizzatelo agli alcolisti anonimi.
AP ha visto suo padre morire di cirrosi. È stato ricoverato diverse volte in riabilitazione e ha avuto troppi periodi di sobrietà seguiti da ricadute. Ha una moglie e due figli piccoli, che desidera ardentemente aiutare. Questa visita arriva dopo la sua ultima ricaduta. Era rimasto per mesi senza bere e poi si era risvegliato al pronto soccorso. Il suo ultimo ricordo? Il bar in cui è stato poi trovato privo di sensi.
TT
è una donna di 30 anni. È una nativa americana, nata nel Nuovo Messico, dove la sua famiglia ha vissuto da sempre. Recentemente si è trasferita a Chicago con il marito e i due figli piccoli. È obesa, con un indice di massa corporea pari a 35. Racconta che, storicamente, nessuno nella sua famiglia era in sovrappeso, finché sua nonna non ha preso molto peso in età avanzata. Ora sua madre, le zie, gli zii e i fratelli sono tutti obesi. La sua dieta è ragionevole. Non fa molto esercizio fisico, ha un lavoro d’ufficio e si occupa dei figli.
Molti dei miei pazienti soffrono di malattie che sono scritte nel loro genoma. Le loro malattie attuali sono causate da geni perfettamente adattati a una realtà passata fatta di scarsità, non al nostro mondo attuale di inimmaginabile abbondanza. Altre persone sono cadute vittime di un’alimentazione piena di cibo a basso costo, trasformato in una miscela perfettamente assuefacente di sale, grassi e zuccheri. Molti dei miei pazienti vivono in quartieri non concepiti per incoraggiare l’esercizio fisico e svolgono lavori sedentari e che non permettono di avere tempo da impiegare in attività salutari. Ci sono poi i fattori di stress finanziario e la violenza della comunità che disturbano il sonno e predispongono ulteriormente i miei pazienti all’aumento di peso.
Non c’è dubbio che tutti noi staremmo meglio se vivessimo una vita sana. Passo ogni giorno a consigliare ai miei pazienti una dieta sana, l’esercizio fisico, lo smettere di fumare e l’astinenza dall’alcol. Personalmente seguo uno stile di vita sano: non mangio quasi nessun alimento processato; sono patologicamente dipendente dall’esercizio fisico: nuoto, corsa, canottaggio, bicicletta.
Non sto predicando la mancanza di speranza, né abbassando le aspettative, né rifiutando il libero arbitrio. Per me è ripugnante quando le persone non si assumono la responsabilità di ciò che è sotto il loro controllo. Tuttavia, è crudele ignorare la realtà e pretendere che le persone raggiungano l’irraggiungibile.
A volte mi preoccupo per i cultori. Come faranno a gestire la dissonanza cognitiva che li attende quando la loro fortuna si esaurirà, come inevitabilmente accadrà, e si ammaleranno. Come disse Redd Foxx, “I fanatici della salute un giorno si sentiranno stupidi, sdraiati negli ospedali a morire di niente”.
Grazie per aver letto il mio sproloquio. Mi sento meglio. Ora vado a fare una corsetta. F
Questo articolo è stato pubblicato su Sensible Medicine, il 22 novembre 2024, con il titolo “Coming Out Against the Healthy Lifestyle”. È stato tradotto e pubblicato su Forward grazie a un accordo con l’autore, che ringraziamo per la sua disponibilità.
Rispettare l’autonomia per un mondo più sano Per vivere liberamente ed essere chi siamo
QSandro Galea
Preside e professore Robert A. Knox Boston university School of public health
uesti saggi riguardano ri essioni che contribuiscono alla salute delle popolazioni, che possono informare la scienza e la ricerca e, forse indirettamente, l’azione. In de nitiva, il blog The Healthiest Gold sh vuole essere un progetto costruttivo. Mi interessa costruire strutture a cui tutti possiamo contribuire, che possiamo creare e che generano salute. Ma, parlando di costruire un’architettura intellettuale che generi salute, temo che a volte dimentichiamo il “perché” del nostro lavoro: la ragione per cui cerchiamo di generare salute. Questo timore è stato un tema ricorrente di questi saggi. Come ho già scritto in un altro post1, stiamo generando salute non ne a sé stessa, ma a nché le persone possano vivere, e vivere pienamente. La salute è un mezzo, non un ne, ed è importante lasciare spazio alla gioia che accompagna la vita in salute.
Fatta questa premessa, però, credo che rimanga un altro punto da sottolineare per una filosofia pratica della salute2. In che modo esattamente queste strutture sostengono la vita? Le nozioni su cosa significhi vivere in modo ottimale sono state sviluppate negli ultimi anni in una crescente letteratura sulla prosperità umana3. Tutto ciò è positivo. Ma la parte particolare di questo obiettivo che voglio affrontare oggi riguarda le persone che vivono come loro stesse scelgono di vivere, e l’equilibrio che dobbiamo trovare tra il modo in cui pensiamo a questo e il modo in cui agiamo per rispettarlo.
La salute è un mezzo, non un ne, ed è importante lasciare spazio alla gioia che accompagna la vita in salute.
Questa nozione di scelta solleva una tensione: cosa facciamo quando le persone decidono di vivere in modi dannosi per la salute? Può essere una domanda scomoda da affrontare. Quando lavoriamo tanto per creare le condizioni per la salute delle persone, per creare la libertà dalle malattie4, lo facciamo con l’aspettativa implicita che le persone utilizzino questa opportunità per vivere una vita nobilitata per condurre vite nobili, per comportarsi in un modo che in qualche modo elevi la condizione umana, come si addice al duro lavoro da noi svolto per creare lo spazio per questa vita. Ci sentiamo a nostro agio con l’idea di creare strutture che permettano a tutti di essere in salute, quando lo facciamo con l’aspettativa che poi tutti vivranno in modo pro-sociale e restituiscano il bene ricevuto, facendo ancora più del bene. Ma se non fosse sempre così? E se stessimo creando uno spazio per le persone che si impegnano in comportamenti non allineanti ai nostri valori? Questi comportamenti potrebbero essere contrari ai nostri progetti per un mondo più sano per le popolazioni, o contrari ai nostri progetti per la salute degli individui. E se le persone che stiamo cercando di sostenere non si impegnassero in modo deciso? Per concretizzare un po’, quanta pazienza dovremmo avere per le persone che scelgono di lavorare per aziende che creano prodotti dannosi, ad esempio lavorando come parte del team legale di aziende del tabacco e che producono armi da fuoco? Per rendere il concetto ancora più concreto, come dovremmo considerare coloro che, vivendo all’interno di strutture che creano opportunità per la salute, scelgono di stare pigramente sul divano a guardare repliche infinite, a scapito della loro salute sia fisica che mentale?
Abbiamo la responsabilità di essere ri essivi nel confrontarci con valori e prospettive diverse dalla nostra, per rispettare l’autonomia e la dignità di ogni individuo.
Suggerisco una duplice risposta a queste domande.
Innanzitutto, la nostra tolleranza verso tutte le persone dovrebbe essere abbondante. Per essere un po’ più decisi su questo punto, si potrebbe affermare che sia sbagliato ragionare in termini di tolleranza. Farlo rischia di avere un’eco di condiscendenza, di sicura presunzione riguardo alla correttezza della nostra prospettiva. Nel mondo delle idee, è fondamentale considerare sempre la possibilità che potremmo sbagliare, che gli altri abbiano ragione e che, anche quando la persona con cui ci confrontiamo si sbaglia, possa comunque insegnarci qualcosa. Abbiamo anche la responsabilità di essere riflessivi nel confrontarci con valori e prospettive diverse dalla nostra, per rispettare l’autonomia e la dignità di ogni individuo. Se puntiamo a creare uno spazio in cui le persone possano essere sane e scegliere di vivere, per poi decidere come vivere, incarnando il valore illuministico dell’autonomia personale5 e del rispetto per le scelte di ciascuno, sta a noi rispettare tali scelte, non stigmatizzarle o rimproverarle. Quest’ultima mossa sarebbe decisamente disallineata rispetto agli obiettivi morali ed estetici della salute6 e incoerente con la centralità dell’autonomia che dovrebbe essere al cuore di qualsiasi filosofia della salute2
In secondo luogo, queste stesse scelte dovrebbero, in modo un po’ circolare, incoraggiarci a intensificare i nostri sforzi per scoraggiare tali comportamenti, senza giudizio o pregiudizio, ma con la massima determinazione possibile, pur preservando il rispetto per l’autonomia degli individui. Rispettare i punti di vista degli altri non significa rinunciare ai nostri, né tantomeno difendere con meno forza i nostri punti di vista. Per esempio, possiamo accettare che alcune persone vogliano lavorare per i produttori di armi da fuoco, anche se noi sosteniamo con forza e con dati certi un mondo senza armi7. Ragionando in questo modo, utilizziamo molto meglio il nostro tempo e le nostre energie rispetto a criticarle per non condividere le nostre idee. Perché, se riusciamo a formulare un’argomentazione morale sufficiente contro la presenza di armi da fuoco, la nostra speranza è
che nessuno voglia più commerciare in esse, risolvendo così questo particolare problema. Allo stesso modo, se incentiviamo attività più stimolanti rispetto a farci prendere dalla pigrizia sul divano, possiamo creare una struttura di incentivi in cui attività più salutari risultino più attraenti e accessibili. Quando ci sentiamo frustrati dai comportamenti di alcuni che agiscono in modo contrario a come vorremmo che vivessero la loro vita, dovremmo usare questa stessa frustrazione come motivazione per impegnarci più efficacemente – sempre con compassione e rispetto8 – nel sostenere politiche che possano creare un mondo più sano per tutti, supportate da argomentazioni convincenti.
Ci saranno sempre, naturalmente, persone che non condividono le aspirazioni di una vita più sana. E questo va bene. Anzi, va più che bene. È una caratteristica necessaria del mondo migliore che speriamo di costruire. Alla fine del film Collision, un documentario su un dibattito tra il teologo Douglas Wilson e l’antiteista Christopher Hitchens, c’è una scena in cui Hitchens fa un’ammissione sorprendente9. Hitchens afferma che, se dovesse riuscire a convincere quasi tutti sulla Terra a diventare atei e si trovasse di fronte all’ultimo dei credenti religiosi, non cercherebbe di convincere quella persona a diventare atea. Non vorrebbe sradicare completamente la visione a cui lui stesso si oppone con tanta passione. Confessa di non sapere esattamente perché non lo farebbe, ma sa solo che non lo farebbe. Potremmo immaginare che sia perché la persistenza di prospettive diverse dalle nostre aiuti a prevenire che la nostra visione diventi prepotente, autoritaria. Un mondo sano è quello che rispetta l’autonomia individuale, dove ognuno può vivere come desidera, e non dovremmo desiderare altrimenti.
La ricerca della salute deve sempre essere radicata in ciò che è umano, in ciò che supporta la vita ricca e piena in tutte le sue perplessità e contraddizioni.
Il fulcro della costruzione di questo mondo è la nostra capacità di convivere con le contraddizioni. Questo può risultare difficile per una disciplina scientifica come la nostra10. Il nostro obiettivo è identificare i problemi per sviluppare e implementare soluzioni chiare. Può sembrare controintuitivo dire che dovremmo accettare contraddizioni, ambiguità e tensioni irrisolte nella nostra ricerca di un
1. Galea S. Revisiting the question of “why health?” The Healthiest Gold sh, 29 aprile 2023.
2. Galea S. On a new practical philosophy of health. The Healthiest Gold sh, 28 gennaio 2023.
3. Logan AC, Berman BM, Prescott SL. Vitality revisited: the evolving concept of ourishing and its relevance to personal and public health. Int J Environ Res Public Health 2023;20:5065.
mondo più sano. Eppure, un mondo più sano è quello in cui le contraddizioni rimangono presenti, riflettendo una realtà in cui le persone sono veramente libere di vivere come desiderano. Gli esseri umani sono contraddittori – la vita è contraddittoria. Ciò che questo implica può non piacerci sempre, ma tale è la realtà della nostra esistenza, e la ricerca della salute deve sempre essere radicata in ciò che è umano, in ciò che sostiene una vita ricca e piena in tutte le sue perplessità e contraddizioni.
Creare un mondo più sano signi ca creare un mondo in cui le persone possano vivere come desiderano.
Sono abbastanza pragmatico da rendermi conto che probabilmente non riusciremo mai a ottenere un pieno successo in questi sforzi. Vorremo sempre, in qualche misura, appianare la complessità; saremo sempre, in qualche misura, a disagio con coloro che sembrano respingere i nostri sforzi o che lavorano attivamente contro di essi. Questo è uno dei motivi che mi ha spinto a scrivere su questo tema oggi. Proprio come le comunità con cui ci relazioniamo sono umane, anche noi siamo umani. E mentre alcuni non ci accetteranno mai o non saranno ricettivi a ciò che diciamo, non potremo mai essere completamente a nostro agio con coloro che si oppongono alla salute. Tuttavia, possiamo comunque accettare, con spirito di compassione e umiltà8, che creare un mondo più sano significa creare un mondo in cui le persone possano vivere come desiderano. F
Questo articolo è stato pubblicato sul blog The Healthiest Gold sh, il 24 agosto 2024, con il titolo “On respecting individual autonomy, creating structures that allow all people to live as we choose to”. È stato tradotto e pubblicato su Forward grazie a un accordo con l’autore, che ringraziamo per la sua disponibilità.
4. Galea S. Freedom “to” vs. Freedom “from”. Boston university - School of public health, 19 marzo 2017.
5. Galea S. Reason + health. The Healthiest Gold sh, 5 marzo 2021.
6. Galea S. The moral, aesthetic, and intellectual case for health. The Healthiest Gold sh, 7 ottobre 2023.
7. Galea S. Making the case for a world without guns. Lancet Public Health 2019;4:e266-7.
8. Galea S. The obligation for humility and compassion. The Healthiest Gold sh, 8 giugno 2024.
9. Christopher Hitchens makes a shocking confession – www. youtube.com/ watch?v=E9TMwfkDwIY
10. Galea S. Population health science as a prerequisite for moral argument in health. The Healthiest Gold sh, 25 maggio 2024.
Essere o non essere abitudinari
Ciascuno ha le proprie abitudini e un punto di vista sulle buone o cattive abitudini da mantenere o cambiare. Una fotogra a del sentiment su questo tema viene dalla survey online di Forward, a cui hanno risposto 431 persone, con un’età media di 58 anni. I partecipanti sono professionisti e dirigenti sanitari, epidemiologi, ricercatori, ma anche una parte eterogenea di informatori del farmaco, psicologi, biologi, giornalisti, studenti e pensionati (tra cui una persona che carezza gatti!).Per la maggior parte si de niscono abbastanza abitudinari e essibili nel cambiare schemi o routine. Nelle giornate più impegnative e frenetiche, le piccole abitudini che riescono a mantenere sono: il bicchier d’acqua al risveglio e la colazione (25%), la rassegna stampa mattutina (23%), l’attività sica, anche una breve camminata (21%), e la telefonata a un familiare o a una persona amica (15%); solo pochi, però, riescono a garantirsi una pausa di 5 minuti ogni ora (4%). Sulla questione che gli stili di vita con devono essere imposti e che ogni scelta va rispettata e non stigmatizzata, più della metà dei partecipanti si trova abbastanza d’accordo e un terzo è molto d’accordo.
Ti consideri un abitudinario?
Abbastanza, ho alcune abitudini consolidate ma sono flessibile
Quali sono i principali fattori che ostacolano l’aderenza alle terapie negli anziani?
Quantità e complessità del trattamento farmacologico
Mancanza di una gestione personalizzata delle terapie e periodicamente monitorata
Scarso follow-up da parte dei professionisti della salute
Mancanza di supporto socio-familiare
Costo dei farmaci e difficoltà nell’accedere alle cure
Confusione causata dall’alternanza tra farmaci di marca e generici
Effetti collaterali 1% 12% 9%
Poco, non amo la monotonia Sì, seguo schemi fissi e rassicuranti
No, amo cambiare schemi
Quali sono i tre fattori che ritieni più importanti per cambiare una tua abitudine?
Motivazione personale Consapevolezza dei benefici
Quali tre abitudini consiglieresti a un amico per migliorare il benessere e la salute? Le abitudini più votate:
Seguire un’alimentazione sana
Fare un’attività fisica che più gli piace
Coltivare le relazioni sociali
Dedicare del tempo libero per i propri interessi, hobby e attività
Dormire almeno 7-8 ore a notte
Bilanciare lavoro e vita privata
Prendersi cura del corpo
Dedicare un’ora al giorno alla lettura
Quali buone abitudini ritieni importante trasmettere ai bambini fin dai primi giorni di vita?
Una alimentazione sana
L’igien e personale
La creazione di un ambiente sicuro e amorevole
Il contatto con la natura
Una routine del sonno regolare
Il gioco come spazio di condivisione
La lettura ad alta voce con i genitori
Certezza che migliorerà la mia vita
Come il sistema sanitario attuale potrebbe supportare l’aderenza alle terapie?
Maggiore ruolo del medico di famiglia nel seguire e monitorare le terapie
Fornire spiegazioni chiare e adattate al livello di comprensione
Integrazione degli infermieri di comunità per il followup delle terapie
Implementazione di promemoria digitali (app, orologi, ecc.) e cartacei
Potenziamento della farmacia dei servizi come punto di in-formazione per i pazienti
Utilizzo dell’intelligenza artificiale per monitorare e personalizzare il supporto alle terapie
Igienizzi regolarmente le mani quando ti trovi in luoghi pubblici?
Spesso Sempre A volte Mai
A 160 risponditori il medico ha consigliato di cambiare lo stile di vita. “Quanto ti sei sentito d’accordo con il consiglio del tuo medico, su una scala da 1 a 5?” 4,33
“Quanto ritieni di aver seguito il consiglio del tuo medico, su una scala da 1 a 5?”
/160
Ti copri naso e bocca in caso di starnuti o colpi di tosse?
Altro
Il medico come GUIDA
In che modo riesce a integrare consigli su cambiamenti dello stile di vita durante le visite di routine, considerate le limitazioni di tempo e il numero di pazienti? La tecnologia (app, dispositivi indossabili, telemedicina) può aiutare?
ANGELICA SALVADORI. La cosa importante è riuscire a identificare quei pazienti che sono propensi in quel particolare momento a un possibile sostegno al cambiamento: sarebbe scarsamente proficuo, proprio per il poco tempo, fornire consigli a tutti nella normale attività quotidiana ambulatoriale. Meglio concentrarsi oggi su qualcuno e domani su qualcun altro. Un approccio che il medico di medicina generale può utilizzare è quello della medicina di opportunità, cioè cogliere l’occasione per suggerire cambiamenti dello stile di vita nel corso di una visita che il paziente richiede per uno specifico motivo clinico. Non uso la tecnologia, come app e dispositivi indossabili; preferisco piuttosto indicare siti che conosco e ho verificato, dove i pazienti possano reperire informazioni attendibili e utili oppure consegnare del materiale già scaricato da alcuni strumenti elettronici di supporto alle decisioni cliniche che uso nella mia attività quotidiana. La telemedicina nella mia realtà regionale non è ancora strutturata e quindi non è uno strumento che ho a disposizione.
Un medico specialista dovrebbe intervenire anche in ottica di prevenzione sulle abitudini dei suoi pazienti?
MASSIMO VOLPE. Sì certamente, ma molto spesso la visita specialistica si focalizza sugli aspetti clinici. Da cardiologo, ma penso ciò possa riguardare anche altre specialità, intervenire sullo stile di vita e sulle “cattive abitudini” dei pazienti è fondamentale sia nel processo di inquadramento del rischio sia nel processo terapeutico. Nel caso delle patologie cardiovascolari occorre intervenire su tre aspetti fondamentali: alimentazione, attività fisica e fumo di sigaretta. Per quanto riguarda l’alimentazione, prescrivere una specifica dieta non è compito dei cardiologi, ma si può indirizzare il paziente ed educarlo a modificare abitudini alimentari scorrette e dannose anche in relazione alla presenza di patologie specifiche (ipercolesterolemia, ipertensione arteriosa, scompenso cardiaco, ecc.). Stessa cosa per l’attività fisica: molti pazienti sono sedentari e/o in sovrappeso e si dovrebbe intervenire con una vera prescrizione dell’esercizio regolare anche in rapporto a età, genere e stile di vita. Sul fumo c’è poco da dire, bisogna scoraggiarlo in tutti i modi. E questo comporta tempo: bisognerebbe trovare un po’ di spazio nel colloquio per provare a convincere il paziente, spiegando con chiarezza i rischi connessi al fumo rispetto alla condizione clinica che lo ha portato dallo specialista.
Intervista a
Sergio Conti Nibali
Pediatra di famiglia
Consulente scienti co Uppa magazine
Angelica Salvadori
Medica di medicina generale
Casa della salute di Borgaretto-Beinasco (To) Consigliera Omceo Torino
ELISA ZANARDI. Indubbiamente conoscere le abitudini e quindi lo stile di vita fa parte della valutazione complessiva del paziente. Se si individuano stili di vita scorretti, l’oncologo durante il colloquio volto a impostare il trattamento per la patologia specifica fornisce anche tutte le indicazioni per uno stile di vita adeguato alla prevenzione di nuove patologie e alla riduzione degli eventi avversi legati al trattamento oncologico.
Il pediatra ha un ruolo molto particolare perché, oltre a intervenire sulle abitudini del bambino, può intervenire sulle abitudini dell’intera famiglia. Per la sua esperienza i neogenitori sono più predisposti a cambiare abitudini?
Massimo Volpe
Presidente Società italiana per la prevenzione cardiovascolare
Elisa Zanardi
Uo Clinica di oncologia medica Irccs Ospedale policlinico San Martino, Genova
SERGIO CONTI NIBALI. Noi pediatri incontriamo i genitori in un periodo della loro vita molto sensibile: può essere una buona occasione per modificare alcune abitudini non salutari in occasione della nascita del bambino. Non è raro che le mamme (e anche i papà) smettano di fumare se informati dei danni del fumo passivo; allo stesso modo è più facile ottenere modifiche nelle loro abitudini alimentari nel momento dell’avvio dell’alimentazione complementare del loro bambino, se il concetto di alimentazione sana per tutta la famiglia viene non solo accolto teoricamente ma agito nella pratica di tutti i giorni. Le difficoltà maggiori si hanno soprattutto con l’aumento dell’attività motoria giornaliera, per la quale spesso si deve fare i conti con un’organizzazione sociale che rende molto complicato rendere concreti i piani per attuarla.
o MODELLO di un sano stile di vita?
Quali strumenti e strategie utilizza per motivare i suoi pazienti a modi care abitudini che potrebbero compromettere la loro salute?
Un approccio che il medico di medicina generale può utilizzare è quello della medicina di opportunità: suggerire cambiamenti dello stile di vita nel corso di una visita richiesta dal paziente per uno speci co motivo clinico.
– Angelica Salvadori
EZ. I dati scientifici sono i nostri primi alleati. Far conoscere al paziente che ci sono studi che hanno dimostrato come la modifica dello stile di vita impatti sulla salute aiuta a far capire l’importanza della tematica che si sta affrontando; si possono paragonare questi studi a quelli che utilizzano farmaci, ossia spiegare che seguire uno stile di vita adeguato è come assumere la terapia corretta. Inoltre, in questa epoca digitale, esistono dei tutorial che mostrano degli esercizi fisici da eseguire in corso di determinate terapie: seguire questi video permette non solo di adottare uno stile di vita adeguato, ma anche di dimenticare, per un attimo, di essere “malati” e dedicarsi al proprio corpo.
AS. Sicuramente il counseling motivazionale breve: è uno strumento professionale flessibile, che non necessita di molto tempo e che permette anche di iniziare un percorso che potrà essere portato avanti negli incontri successivi. Il tentativo è quello di utilizzare delle tecniche attraverso le quali la trasformazione che il nostro paziente ha in mente viene stimolata e avviata partendo però dalla sua visione del mondo e tenendo conto dei suoi progetti e dei suoi obiettivi. Inutile utilizzare un approccio critico oppure dare suggerimenti o soluzioni, bisogna ricordare che i nostri stili di vita sono il frutto di percorsi razionali e non razionali. È proprio la complessità delle diverse componenti che intervengono nel consolidare un determinato stile di vita a dover guidare la scelta del professionista sanitario nelle strategie per promuovere il cambiamento.
MV. Come prima cosa penso sia fondamentale una corretta informazione della patologia per coinvolgere e motivare il paziente e convincerlo dell’importanza di modificare il suo stile di vita e le abitudini quotidiane. Bisogna spiegare che non ci si cura solo con i farmaci, che sono di grande utilità ma possono comportare effetti collaterali, ma anche limitandosi a tavola e curando l’attività fisica o mantenendo il peso ideale. Non è semplice, però, perché molte volte prendere farmaci è più facile. E il suggerimento di modificare abitudini legate agli stili di vita viene percepito quasi come una “punizione”. Poi ci sono altri piccoli consigli da dare legati alla modifica delle abitudini: misurare la pressione più volte durante la settimana, magari in orari diversi, riportando i dati su un diario nei soggetti ipertesi; oppure misurare la colesterolemia o la glicemia periodicamente; o anche ricordare al paziente in sovrappeso o obeso di pesarsi quasi ogni giorno con l’obiettivo di ridurre il peso. Possono sembrare controlli fine a sé stessi, invece rappresentano una sorta di patto tra medico e paziente (“io faccio qualcosa per te e tu per me”), in questo modo il paziente tende a essere più consapevole e aderente alle raccomandazioni.
SCN. Per ipersemplificare e concentrare in una sola parola la risposta, mi viene in mente “empatia”: mettersi nei panni dei papà e delle mamme dei bambini che seguo in ambulatorio è, infatti, il primo passo per affrontare argomenti che riguardano alcune loro abitudini, per avviare un percorso di cambiamento e per lavorare insieme con l’obiettivo di sviluppare un piano per raggiungerlo.
Che ruolo ha la collaborazione con nutrizionisti, psicologi, sioterapisti per un approccio integrato al cambiamento dello stile di vita?
AS. Probabilmente potrebbe avere un ruolo importante, di sostegno al cambiamento, perché considerata la difficoltà del percorso e la possibilità di ricadute sarebbe di grande aiuto avere un’équipe che si prenda in carico il paziente. Al momento, nella mia realtà, non ho la possibilità di lavorare in modo multiprofessionale con queste figure. Tuttavia lavorare in modo coordinato e condividere i medesimi obiettivi consentirebbe un guadagno di salute.
Molte volte prendere farmaci è più facile. E il suggerimento di modi care abitudini legate agli stili di vita viene percepito quasi come una “punizione”. – Massimo Volpe t
PUNTI DI VISTA A CONFRONTO: UN PEDIATRA, UNA
t Quali sono le maggiori s de che incontra?
AS. Il tempo, un senso di ineluttabilità da parte dei cittadini, una scarsa o non corretta informazione. Nei colloqui con i miei pazienti mi trovo a dover gestire diversi comportamenti e modalità di espressione della resistenza al cambiamento: alcuni hanno un atteggiamento di sfida e di opposizione, oppure fanno ricorso alle generalizzazioni, o spostano il focus assumendo un atteggiamento di evitamento. In alcuni casi tendono a incolpare gli altri o il contesto sociale, familiare, lavorativo in cui vivono, oppure minimizzano i propri atteggiamenti e in alcuni casi si autoassolvono. In altri casi esprimono le proprie difficoltà perché magari hanno già fatto dei tentativi che non sono riusciti o che hanno portato a un cambiamento che non è stato duraturo, e quindi sono sfiduciati e con un grande senso di frustrazione.
SCN. Viviamo in un contesto culturale che, molto spesso, va in direzione contraria; molte delle abitudini che compromettono la salute sono imposte da un’organizzazione sociale che le rende “normali”, per cui la sfida maggiore è quella di avviare un piano per remare (insieme) controcorrente.
EZ. Purtroppo, cambiare stili di vita radicati da decenni non è facile, ancora di più di fronte a una diagnosi oncologica. Il paziente è preoccupato per la nuova diagnosi e per il percorso che dovrà affrontare, e quindi spesso diventa molto difficile che riesca anche a impegnarsi a modificare le proprie abitudini.
Viviamo in un contesto culturale che, molto spesso, va in direzione contraria: molte delle abitudini che compromettono la salute sono imposte da un’organizzazione sociale che le rende “normali”. – Sergio Conti Nibali
Può farci degli esempi di casi concreti in cui ha avuto successo e in cui vi sono state particolari di coltà?
EZ. Un ragazzo di 30 anni, giunto alla mia attenzione per una neoplasia testicolare metastatica per la quale era necessario un trattamento chemioterapico: durante l’anamnesi è emerso che il ragazzo era un fumatore attivo, dall’età di 15 anni, di circa 20 sigarette al giorno. Durante il colloquio volto a pianificare la chemioterapia, abbiamo anche discusso circa la tematica relativa alle complicanze da fumo di sigaretta sia a breve sia a lungo termine. Il ragazzo ha affrontato tutta la chemioterapia senza più fumare e non ha mai più ripreso l’abitudine al fumo; attualmente fa i controlli di routine e sono 4 anni che non “tocca una sigaretta”! Un altro caso che ricordo con molto piacere è un paziente di 64 anni, in sovrappeso e iperteso, con una diagnosi di neoplasia prostatica che richiedeva l’utilizzo di un trattamento ormonale per lungo tempo: gli è stata spiegata l’importanza di perdere peso e di seguire uno stile di vita attivo e non sedentario. Il paziente si è iscritto a una scuola di ballo liscio, ha perso 15 kg e non ha avuto nessuna complicanza cardiovascolare durante il trattamento ormonale. Purtroppo, è spesso difficile ottenere queste “trasformazioni”, e il più delle volte i pazienti portano avanti le loro cattive abitudini.
Sul complesso rapporto tra obesità e stili di vita sani che ruolo può avere il cardiologo nel realizzare un approccio globale al paziente, anche attraverso l’uso corretto dei trattamenti disponibili?
MV. L’obesità è una malattia cronica recidivante, che si fa spesso fatica a domare. Personalmente, però, ritengo che prima di prescrivere un farmaco per l’obesità sia doveroso espletare tutti i tentativi possibili per modificare lo stile di vita. A volte, tuttavia, non si riesce al primo colpo o può succedere di riuscirci ma poi di assistere a un nuovo aumento del peso. Uno dei motivi alla base della difficoltà di comunicare apertamente con il paziente obeso è che nella nostra società l’obesità viene ancora un po’ stigmatizzata. L’obeso spesso non è accettato e non si accetta. Per questo bisogna lavorare anche da un punto di vista psicologico. In ogni caso è vero che oggi per l’obesità ci sono farmaci molto efficaci che possono integrare bene le modifiche dello stile di vita e limitare il recupero del peso.
Gli autori di una revisione sistematica pubblicata a luglio di quest’anno sostengono che i medici che fanno attività sica regolarmente sono più propensi a promuovere l’attività sica nei loro pazienti. Che ne pensa? Più in generale, un medico che ha uno stile di vita sano più facilmente promuove uno stile di vita sano nei suoi pazienti?
SCN. Sono molto d’accordo. E aggiungo che il medico può servire da modello per promuovere abitudini virtuose. Vado in bici al lavoro (con il casco), non fumo, faccio regolare attività fisica, evito l’acquisto di prodotti ultra processati per la mia alimentazione: i miei pazienti mi incontrano per strada, sulle ciclabili, al supermercato. Se usassi sempre la macchina per gli spostamenti in città, se non mettessi la cintura di sicurezza, se fumassi, se comprassi merendine e bevande zuccherate, avrei la stessa credibilità in ambulatorio quando dobbiamo concordare un piano per modificare abitudini che nuocciono alla salute?
EZ . Anch’io sono d’accordo: chi conosce i benefici che si ottengono da una regolare attività fisica riesce più facilmente a promuoverne l’efficacia. I benefici del corretto stile di vita sono ormai noti in ambito medico, ma non tutti siamo così bravi a rispettarli. A mio avviso, dare il buon esempio è importante per i nostri pazienti che sono più motivati a seguirci nelle buone abitudini.
MEDICA DI BASE, UN CARDIOLOGO, UNA ONCOLOGA
MV. È proprio così. Il medico che fa attività fisica e ne conosce i benefici è più portato a prescrivere l’attività fisica, così come il medico che è più attento a seguire un’alimentazione sana è più propenso e portato a parlarne con il paziente. L’esempio dell’esperienza personale rende il medico più credibile e convincente nei confronti del paziente.
AS. Il medico è un professionista della salute e quindi non dovrebbe porsi come “esempio da seguire” per i propri pazienti. Però penso che un medico che si impegna a cambiare il proprio stile di vita possa meglio comprendere quanto ciò sia difficile e quindi essere più efficace nella sua relazione con i cittadini.
Nota una di erenza di genere tra i suoi pazienti nell’accogliere i suoi consigli per l’adozione di uno stile di vita più sano?
EZ. Direi di no. Ho notato una differenza nell’interesse verso l’importanza dello stile di vita: spesso le donne chiedono ancora prima che il medico parli dell’importanza delle abitudini se lo stile di vita, l’alimentazione soprattutto, possa influire sull’efficacia della terapia. Invece nell’accogliere i suggerimenti medici ho notato più una differenza legata alle fasce d’età che al genere: grossolanamente i risultati migliori si ottengono nei pazienti al di sotto dei 70 anni, forse perché i più anziani hanno più difficoltà a modificare abitudini ormai radicate.
MV. Differenze di genere possono esistere in rapporto alla diversa fisiologia (menarca, menopausa, gravidanza). Però vorrei sottolineare che anche altri fattori svolgono un ruolo importante. Ad esempio, le persone più impegnate, che viaggiano spesso o hanno uno stile di vita meno regolare, possono essere più resistenti al cambiamento. Forse le differenze maggiori sono legate al livello socioculturale: a molti pazienti è difficile raccomandare di fare sport o di mangiare sano, perché queste cose possono comportare un investimento economico o di tempo. Così come ci sono differenze legate al posto in cui si vive. Ricordiamoci che noi italiani siamo fortunati: viviamo in un Paese mediterraneo che ha tanti spazi per camminare, per correre, per andare in bicicletta, per nuotare. E la dieta mediterranea è un vantaggio per il benessere e la longevità. Ma queste fortune le sfruttiamo poco. Naturalmente ci sono differenze anche all’interno del nostro territorio, perché nei grandi agglomerati urbani spesso è inevitabile utilizzare mezzi di trasporto e camminare meno. Per questo sarebbe importante lavorare per realizzare un’urbanizzazione diversa modificando alcuni percorsi e l’organizzazione delle nostre città. La responsabilità non è sempre del singolo individuo, e da questo punto di vista penso possa essere fatto di più per supportare stili di vita corretti in tutta la comunità.
Spiegare che la prevenzione parte proprio anche dalle abitudini di vita è importante. Ovviamente senza colpevolizzare il paziente.
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Elisa Zanardi
Un medico può sicuramente agire per modi care abitudini dannose per il proprio stile di vita. Quanto dovrebbe intervenire anche per promuovere abitudini che abbiano un impatto sulla salute del pianeta e di chi ci circonda?
SCN. Un medico non può limitare la sua attività alla ristretta cerchia di pazienti che incontra nella sua pratica professionale, ma dovrebbe assumere azioni di advocacy, meglio se in rete insieme ad altri operatori che si occupano di salute. È ovvio che più sono i cittadini che mettono in pratica comportamenti rispettosi della salute globale meglio è. Tuttavia, sappiamo che è ancora più importante che vengano emanate (e fatte poi rispettare) leggi che promuovono la salute e la proteggono da fattori noti che la minano. Intraprendere azioni di advocacy con questi scopi dovrebbe far parte del lavoro di ogni medico.
AS. Sicuramente molto. Il nostro codice deontologico all’articolo 5 parla proprio di “promozione della salute, ambiente e salute globale”. Inoltre bisogna ricordare che il ruolo del medico non è solo tecnico ma anche sociale. Anche il Piano nazionale della cronicità 2024 nelle linee di intervento proposte lo ricorda, in quanto si prefigge proprio di potenziare l’approccio One health.
Secondo la sua esperienza, la malattia cambia le abitudini dei pazienti?
MV. La malattia può cambiare le abitudini dei pazienti, ma non sempre in modo positivo. Può succedere, ad esempio, che dopo aver avuto un infarto una persona tenda a non fare più attività fisica. Ci sono, però, senz’altro anche esempi positivi: con una diagnosi di diabete una persona diventa più attenta all’alimentazione, la consapevolezza di avere un aumento del colesterolo può favorire una riduzione dei grassi saturi di origine animale nell’alimentazione, così come una persona ipertesa spesso farà più attenzione ad aggiungere il sale alle pietanze. Ne approfitto per ricordare che il sale è già presente negli alimenti, si può tranquillamente cucinare con il sale ma non va mai aggiunto.
Possono l’ansia e il timore che la malattia si ripresenti rappresentare una spinta per adottare comportamenti salutari, come seguire le indicazioni mediche, un’alimentazione varia ed equilibrata e svolgere attività sica?
EZ. Indubbiamente sì, e quindi spiegare che la prevenzione parte proprio anche dalle abitudini di vita è importante. Ovviamente senza colpevolizzare il paziente: una diagnosi di neoplasia è sempre devastante nella vita di una persona, e quindi è importante a mio avviso identificare i possibili fattori di rischio su cui agire per la futura prevenzione. Ma non dimentichiamo che spesso il processo che porta alla formazione della neoplasia è multistep e ci sono diversi elementi che entrano in gioco, su alcuni dei quali oggi non siamo ancora in grado di intervenire. A cura di Rebecca De Fiore
Il medico di medicina generale affronta quotidianamente una vasta gamma di problemi diagnostici e relazionali, tra cui l’aderenza del paziente alle terapie prescritte. La compliance è particolarmente rilevante nella medicina primaria, poiché, a differenza dell’ambiente ospedaliero, dove il paziente ha un ruolo passivo e segue protocolli standardizzati, nel contesto territoriale il paziente mantiene un maggiore potere decisionale e, di conseguenza, è più incline a non seguire correttamente le prescrizioni. Inoltre, le terapie nel setting territoriale sono generalmente più complesse e durature, riguardando malattie croniche come diabete, ipertensione e dislipidemia, che sono spesso asintomatiche e difficili da monitorare, con un conseguente calo della motivazione ad aderire al trattamento.
Caro signor Giuseppe, lei ha avuto un infarto appena un anno fa e le hanno messo tre stent, il colesterolo dovrebbe essere molto più basso… mi sa che dovrò aumentare ancora la dose.
Dice sul serio? Non basta quella che sto assumendo?
Purtroppo sembra che non sia abbastanza, le spiego…
Nel suo caso il rischio di avere un altro infarto è molto elevato, non possiamo far finta di niente, non è che perché lei ha tre stent si possa ritenere “guarito”. Però… mi dica in tutta sincerità… lei la statina la prende ogni giorno oppure…
Beh, diciamo non tutti i giorni, sa qualche volta mi dimentico…
LA compliance NELLO STUDIO
La mancata aderenza terapeutica può portare a gravi conseguenze, come il peggioramento della malattia o l’insorgenza di complicanze. Ad esempio, un paziente con ipertensione e diabete che non segue le indicazioni per l’alimentazione, l’esercizio fisico o la farmacoterapia è a rischio maggiore di complicazioni cardiovascolari e iperglicemie gravi. Studi dimostrano che circa il 50 per cento dei pazienti in trattamento per ipertensione interrompe la terapia dopo un anno, e molti dimenticano frequentemente di assumere i farmaci. I pazienti possono anche modificare la dose, l’orario di assunzione o interrompere prematuramente la terapia senza consultare il medico.
DEL MEDICO
Quali sono le cause di una scarsa compliance? Le cause sono molteplici e derivano da una combinazione di fattori legati alla comunicazione, alle caratteristiche del paziente e alle sue circostanze personali. Una delle ragioni principali è una cattiva comunicazione da parte del medico, che può rendere poco chiare le indicazioni terapeutiche. Inoltre, la scarsa comprensione delle istruzioni da parte del paziente e schemi posologici complessi possono aumentare la difficoltà nell’aderire correttamente alla terapia. La paura degli effetti collaterali, il timore di reazioni avverse o l’incertezza sulla sicurezza del trattamento possono portare alcuni pazienti a interrompere autonomamente la terapia. La fiducia nei farmaci e nella loro efficacia è un altro aspetto critico, così come la convinzione che la terapia non sia necessaria quando la condizione clinica sembra migliorare o, al contrario, quando il paziente non percepisce un miglioramento. Inoltre, la presenza di condizioni come la depressione o l’ansia può ridurre la motivazione a seguire correttamente le indicazioni del medico. Lunghe attese per esami o visite possono dissuadere dalla continuità della terapia, così come una bassa accettazione della malattia o una cattiva relazione con il medico. La mancata consapevolezza dei rischi legati a una scarsa compliance può portare il paziente a non seguire le indicazioni con la dovuta attenzione.
Renato Luigi
Rossi
Medico di famiglia
Inoltre, ci sono anche difficoltà di contesto che ostacolano la compliance, come la mancanza di supporto familiare o sociale, specialmente negli anziani che vivono da soli e non hanno aiuti per andare dal medico o eseguire gli esami. L’età avanzata rappresenta un fattore di rischio significativo, poiché gli anziani spesso devono affrontare regimi terapeutici complicati, con l’aggravante di eventuali deficit cognitivi che comprometterebbero la loro capacità di seguire le prescrizioni e le difficoltà visive o uditive che ostacolano la comprensione delle istruzioni o la lettura delle etichette dei farmaci. Anche condizioni fisiche che compromettono la mobilità, come l’artrosi o il morbo di Parkinson, possono rendere difficile l’assunzione dei farmaci o l’utilizzo di dispositivi terapeutici come gli inalatori.
Come accorgersi di una compliance insufficiente? Riconoscere la scarsa aderenza alle terapie da parte di un paziente può essere difficile, in quanto spesso i pazienti non ammettono apertamente di non seguire le prescrizioni per timore di essere giudicati o per compiacere il medico. Tuttavia, ci sono segnali che possono aiutare a identificare una
97,2% degli over65 ha ricevuto almeno una prescrizione farmacologica nel corso del 2023
68,0% degli over65 ha ricevuto prescrizioni per almeno 5 medicinali diversi (politerapia cronica)
28,5% degli over65 ha ricevuto prescrizioni per almeno 10 medicinali diversi
compliance insufficiente, come la mancata partecipazione ai controlli programmati o una risposta insufficiente ai farmaci. Ad esempio, un paziente che assume una dose inferiore o saltuaria del farmaco prescritto, nonostante la terapia raccomandata. È utile indagare direttamente chiedendo al paziente se ha difficoltà a seguire le indicazioni e controllare la regolarità delle prescrizioni, oggi semplificata grazie alle cartelle informatizzate.
Come il medico può migliorare l’aderenza terapeutica? Non esiste una soluzione unica per tutti i pazienti, ma è necessario un approccio multifattoriale. La base è instaurare un buon rapporto medico-paziente, orientato alla collaborazione. È importante comunicare in modo chiaro, con linguaggio semplice, adattato al livello di comprensione del paziente. Fornire istruzioni brevi e facilmente comprensibili e ripetere le informazioni più importanti aiuta a garantire che il paziente comprenda bene le indicazioni. L’inclusione della famiglia, quando appropriato, può essere un ulteriore aiuto. È fondamentale semplificare lo schema terapeutico, utilizzando farmaci a somministrazione unica giornaliera, pillole intelligenti, dispenser settimanali o applicazioni di promemoria. Inoltre, la de-prescrizione, ossia la riduzione dei farmaci non necessari, può essere un’altra strategia efficace. Tecnologie innovative come la digital health, il telemonitoraggio e i dispositivi intelligenti per l’assunzione dei farmaci (come gli "smart pill dispensers") stanno emergendo come strumenti promettenti per migliorare l’aderenza alla terapia. Questi dispositivi, integrati con sensori e applicazioni mobili, permettono di monitorare e registrare l’assunzione dei farmaci, aiutando a gestire meglio la terapia e aumentando la consapevolezza del paziente. F
Vedi anche
I medici prescrivono in base alle proprie abitudini?
Dipartimento di epidemiologia
Servizio sanitario regionale del Lazio, Asl Roma 1
Non dovrebbero essere abitudini, quelle prescrittive. Eppure, di fronte allo stesso paziente e alla stessa sintomatologia i medici prescrivono in maniera diversa e sviluppano consuetudini decisamente personali. Questa variabilità nelle decisioni terapeutiche, nota nella letteratura medico-scienti ca come unwarranted variation (variabilità non giusti cata), si riscontra soprattutto quando i trattamenti farmacologici sono ad alto rischio di inappropriatezza. Tra i casi più allarmanti c’è l’uso di antibiotici.
Fonte: Rapporto Osmed 2023 “L’uso dei Farmaci
L’ Italia è tra i Paesi europei che ne utilizzano di più, favorendo la di usione delle resistenze batteriche. Nei bambini in età prescolare la prevalenza d’uso raggiunge valori elevatissimi. Con riferimento al 2022, nella Regione Lazio 5 bambini su 10 hanno ricevuto almeno una prescrizione di antibiotici. Il dato più sorprendente è che questa prevalenza d’uso variava dal 34 per cento al 65 per cento tra i distretti sanitari e dal 17 per cento all’83 per cento tra i singoli pediatri di libera scelta. La stessa variabilità prescrittiva è stata osservata negli anni che vanno dal 2017 al 2021. Inoltre, la variabilità tra pediatri che a eriscono al medesimo distretto sanitario – within variability – risulta sempre molto maggiore rispetto alla variabilità tra i distretti. Questo risultato supporta l’ipotesi che le caratteristiche individuali del pediatra – più che il contesto organizzativo in cui è inserito – giocano un ruolo centrale nel determinare l’estrema eterogeneità nelle modalità prescrittive. L’età e il genere del medico non spiegano le di erenze prescrittive in maniera sostanziale. Le caratteristiche che determinano l’estrema e ingiusti cata variabilità prescrittiva sono di cili da misurare e attengono alle capacità, alle attitudini e alle propensioni personali del medico prescrittore. Tra queste, la conoscenza e l’applicazione delle raccomandazioni evidence-based, la corretta interpretazione dei sintomi, la capacità di far fronte alle pressioni esercitate dai genitori del bambino.
Un altro caso di terapia farmacologica ad alto rischio di inappropriatezza è costituito dai cortisonici inalatori che, soprattutto in età prescolare, vengono frequentemente prescritti per il controllo dei sintomi delle comuni infezioni delle alte vie respiratorie nonostante non vi siano prove della loro e cacia. L’impatto della sovraesposizione ai cortisonici inalatori – in termini di salute pubblica – è decisamente minore rispetto a quello generato dagli antibiotici. Tuttavia è interessante notare come, anche in questo caso, ci sia un’estrema variabilità tra i pediatri di libera scelta: nel 2022, nella Regione Lazio, la percentuale di bambini esposti al cortisonico variava dall’8 per cento al 66 per cento. Ma l’aspetto più interessante è che i pediatri sovraprescrittori di cortisonici erano anche sovraprescrittori di antibiotici.
Ciascuno prescrive a suo modo, in base alle proprie abitudini. L’estrema variabilità che ne deriva comporta di erenze nella qualità dell’o erta e sottolinea la mancanza di linee guida condivise a livello regionale e sub-regionale. Gli interventi di audit & feedback e il confronto tra pari, se implementati in maniera continuativa, potrebbero favorire un utilizzo più razionale della risorsa farmaco e attenuare l’eterogeneità nelle modalità prescrittive. F
Mirko Di Martino
Stili di vita. Innovazione. Alleanze
Per la promozione della salute e una migliore compliance
L’ultimo rapporto Osmed 2023 evidenzia una bassa aderenza alle terapie croniche, con livelli particolarmente preoccupanti in patologie come l’ipertensione, dove si scende sotto il 50 per cento. Quali sono i fattori che contribuiscono a questa di coltà di aderenza alle terapie?
Il problema dell’aderenza terapeutica è destinato a crescere in una società caratterizzata da un progressivo invecchiamento della popolazione e da stili di vita scorretti. Il ritmo frenetico della vita contemporanea, la sedentarietà e il consumo di cibi ipercalorici, stanno avendo un impatto negativo sulla salute fisica e mentale. La diffusione di fast food e l’inattività fisica hanno contribuito al radicarsi di abitudini dannose per la salute, con un aumento preoccupante di patologie come il diabete, l’obesità, la depressione e l’ansia, anche tra i giovani. L’impatto, quindi, non si limita al lato estetico, ma accelera anche l’invecchiamento precoce e l’insorgenza di malattie croniche, purtroppo sempre più diffuse perfino in età pediatrica. La scarsa aderenza a stili di vita salutari, alle raccomandazioni mediche e alle terapie rappresenta oggi una delle principali sfide per la salute pubblica, poiché impone la necessità di interrompere una serie di comportamenti e abitudini dannosi ma per molti considerati la normalità. Al contrario, sono i primi responsabili di un peggioramento dell’aspetta-
Intervista a
Claudia Bola
Gruppo Servier
Italia
tiva di vita e di un incremento progressivo e sostanziale dei costi sanitari, legati ad accessi in pronto soccorso e ospedalizzazioni altrimenti evitabili. Un cambiamento – in meglio – nelle abitudini quotidiane è cruciale e conditio sine qua non per una vita in buona salute ad ogni età.
Quali sono i principali fattori critici che ostacolano l’aderenza alle terapie e come si possono a rontare?
Esistono diversi fattori che ostacolano l’aderenza alle terapie, uno dei quali è il cosiddetto “zapping terapeutico”, ossia la continua alternanza tra farmaci di marca e generici, ma anche tra generici, che può confondere il paziente e mettere a rischio la continuità della cura. Anche la carenza di medici rappresenta un importante fattore di criticità: la crescente difficoltà di accesso ai professionisti della salute, con un numero maggiore di pazienti per ogni medico, riduce il tempo disponibile per il follow-up e la costruzione di una relazione di fiducia. La gestione delle terapie dovrebbe sempre includere un confronto periodico e multidisciplinare, una costante medication review, per garantire che il trattamento rimanga adeguato alle condizioni di salute del paziente. Per migliorare l’aderenza alle terapie, andrebbero promossi comportamenti virtuosi che vuol dire cambiare le abitudini sbagliate. Per cambiare le abitudini, il paziente deve avere un approccio consapevole, personalizzato e supportato da una forte motivazione. È fondamentale che il paziente comprenda le motivazioni alla base del cambiamento, con il supporto di professioni-
Farmaci per disturbi genito-urinari
Farmaci per osteoporosi
Farmaci antidepressivi
Farmaci antiaggreganti
Farmaci ipolipemizzanti
Farmaci per ipertensione/scompenso
Farmaci per il diabete
Farmaci per Bpco/asma
Farmaci anticoagulanti
sti della salute come medici, farmacisti e caregiver. Il Gruppo Servier in Italia, da anni promuove campagne di informazione e sensibilizzazione sul tema dell’aderenza e della compliance, rivolte ai pazienti e ai caregiver, e attività formative per medici e farmacisti.
In che modo il sistema sanitario attuale può supportare meglio l’aderenza alle terapie?
Il medico di famiglia svolge sicuramente un ruolo fondamentale nel supportare il paziente ad essere aderente alle cure. Tuttavia, vi sono altri fattori che possono facilitare questo processo, soprattutto a livello territoriale. Ad esempio, la farmacia dei servizi, che oltre a dispensare farmaci, sta diventando sempre più un punto di formazione e informazione per i pazienti. Inoltre, la figura dell’infermiere di comunità, integrato nei team di assistenza territoriale, giocherà un ruolo sempre più cruciale nel follow-up delle terapie, monitorando e correggendo le discontinuità terapeutiche. Questi professionisti aiutano a mantenere una relazione costante con il paziente, fondamentale per una buona aderenza alle terapie. Probabilmente, in un futuro non lontano, l’intelligenza artificiale potrebbe avere un ruolo chiave a supporto di programmi di monitoraggio e follow-up personalizzati. Secondo Aifa “l’uso dell’intelligenza artificiale per monitorare le terapie potrebbe aumentare l’aderenza fino al 20 per cento, migliorando la qualità della vita e la sopravvivenza del paziente, riducendo anche i costi per il Ssn, che oggi ammontano a circa 2 miliardi di euro l’anno a causa della scarsa aderenza”.
Cosa sta facendo la ricerca per migliorare l’aderenza alle terapie? E qual è il ruolo dell’alleanza pubblico-privato?
Quanto siamo lontani dall’aderenza ottimale?
Nell’ultimo rapporto OsMed “L’uso dei farmaci in Italia. Rapporto nazionale anno 2023”, emerge che le categorie terapeutiche in cui si riscontra una più alta percentuale di soggetti con una copertura al trattamento superiore o uguale all’80% del periodo osservato (alta aderenza) sono rappresentate dalle terapie per l’osteoporosi, per i disturbi genito-urinari (per la sola popolazione maschile) e con farmaci antiaggreganti. Mentre quelle in cui si riscontrano percentuali più alte di soggetti con una copertura al trattamento inferiore al 40% del periodo osservato (bassa aderenza) sono rappresentate dalle terapie con i farmaci per i disturbi ostruttivi delle vie respiratorie, con gli antidepressivi e con i farmaci antidiabetici. Le percentuali riportate nel grafico fanno riferimento alla media riportata nella popolazione italiana con più di 45 anni. •
Un aspetto cruciale per migliorare l’aderenza alle terapie è la semplicità. Le polipillole e le associazioni fisse di farmaci sono soluzioni che semplificano gli schemi terapeutici, migliorando la continuità del trattamento. Inoltre, soluzioni digitali come chatbot, notifiche via WhatsApp e app di monitoraggio potrebbero rappresentare un’opportunità per il supporto remoto nella gestione quotidiana delle terapie. Sono strumenti ancora in fase di sperimentazione, ma possono essere un valido aiuto per il monitoraggio e l’interazione con i pazienti. Anche Servier è impegnata in questa direzione, con il coinvolgimento di giovani innovatori per sviluppare soluzioni basate sull’intelligenza artificiale in grado di migliorare l’aderenza terapeutica. Vista la sensibilità della gestione dei dati con questi strumenti, sarebbe però opportuno che le iniziative in ambito digitale vengano sviluppate attraverso una forte partnership pubblico-privato. L’Aifa ha avviato il “Tavolo tecnico sulla medicina di precisione e la prescrittomica”, un’iniziativa che esplora come l’intelligenza artificiale e la farmacogenetica possano ottimizzare le terapie, personalizzandole su ogni paziente. Gli obiettivi principali di questo tavolo includono il miglioramento della qualità della prescrizione farmacologica, con particolare attenzione alla politerapia, e la creazione di linee guida per l’applicazione della medicina di precisione. È un progetto multiprofessionale e che potrebbe trarre vantaggio anche dalla partecipazione delle aziende farmaceutiche e delle associazioni di pazienti, per garantire un approccio più integrato e efficace.
A cura di Laura Tonon
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Alta aderenza Bassa aderenza
Fonte: Comunicato stampa Aifa, 11.11.2024.
Fonte: Rapporto Osmed 2023 “L’uso dei Farmaci in Italia”.
I COLORI delle pillole per il successo terapeutico
Strategie per costruire abitudini e caci
La compliance è un elemento determinante per il successo di un trattamento, in particolare nelle patologie croniche, che richiedono un impegno quotidiano e costante per rispettare le indicazioni mediche nel lungo termine. Diversi aspetti possono influire sulla capacità di aderire alle prescrizioni del medico: fattori personali, come età, genere, background socio-culturale e comorbidità. Tra i fattori legati al sistema sanitario vi sono la qualità del supporto, il rapporto con il medico e l’accesso alle risorse e informazioni.
La comunicazione medico-paziente è spesso citata come leva fondamentale per aumentare il coinvolgimento del paziente (engagement) e la sua responsabilizzazione (empowerment). Un paziente consapevole e attivamente coinvolto nel proprio trattamento è infatti più propenso a rispettare le indicazioni terapeutiche. Tuttavia, spesso viene trascurato un elemento altrettanto rilevante e, talvolta, spesso ignorato: il ruolo delle abitudini. La familiarità con un farmaco o un dispositivo, così come la consuetudine a una certa forma, colore e modalità d’uso possono influire significativamente sull’aderenza terapeutica. Diversi studi hanno dimostrato che quando un paziente si abitua a un certo tipo di compressa o dispositivo, caratterizzato da una forma e colore specifici, la sua capacità di seguire la terapia migliora. La memoria visiva e tattile si attiva ogni volta che il paziente vede quel colore o prende in mano quel dispositivo, facendo sì che il farmaco diventi parte della routine quotidiana, come bere il caffè al mattino o lavarsi i denti. Un esempio interessante è rappresentato dagli inalatori per l’asma o la broncopneumopatia cronica ostruttiva: non è raro che pazienti in trattamento da anni preferiscano un dispositivo specifico, rifiutando l’aggiornamento a modelli nuovi1. Abituati alla sequenza di gesti necessari per attivarlo, al peso e alla pressione richiesta, il cambiamento può risultare complesso e destabilizzante. Spesso, infatti, le persone si trovano meglio a utilizzare un dispositivo che conoscono, non solo per la comodità fisica, ma anche per la sicurezza mentale derivante dal sapere esattamente come funziona. Sebbene il nuovo modello presenti miglioramenti, il passaggio può scoraggiare i pazienti, portandoli a utilizzarlo meno.
Anche l’aspetto cromatico delle pastiglie può influenzare la disposizione del paziente a seguire la terapia. Colori come il blu e il verde possono rassicurare, mentre il rosso o l’arancione sono percepiti come più “forti” e “efficaci”. Trovarsi improvvisamente a prendere lo stesso farmaco in un colore diverso può generare confusione o persino dubbi sulla qualità del farmaco. Per molte persone, specialmente per gli anziani che assumono farmaci a lungo termine, le formulazioni e i colori rappresentano punti di riferimento. Cambiarli può risultare disorientante2 Ecco perché mantenere una coerenza visiva e di design nei farmaci che i pazienti assumono quotidianamente può trasformarsi in una strategia concreta per migliorare l’aderenza e ridurre le difficoltà.
1. Kesselheim AS, et al. JAMA Intern Med;173:202-8.
2. Bosnic-Anticevich S, et al. Int J Chron Obstruct Pulmon Dis 2017;12:59-71.
3. Badawy SM, Shah et al. J Med Internet Res 2020;28;22:e17883.
È dunque fondamentale creare strategie che da una parte aiutino a costruire abitudini legate all’assunzione dei farmaci e, dall’altra, supportino i pazienti nella familiarizzazione con nuovi dispositivi o formulazioni, riducendo l’impatto del cambiamento e favorendo l’aderenza terapeutica.
In questo scenario, la tecnologia digitale si sta rivelando un alleato importante3. Le applicazioni mobili per la gestione delle terapie, ad esempio, stanno diventando parte integrante della routine quotidiana di molti pazienti. Queste app non solo ricordano al paziente di assumere il farmaco, ma lo guidano anche all’uso corretto dei dispositivi terapeutici con tutorial interattivi e istruzioni passo-passo. Inoltre, molte di queste soluzioni digitali sono in fase di evoluzione per inviare allarmi in caso di utilizzo errato o ritardato, offrendo un supporto tempestivo.
L’aderenza terapeutica non dipende solo dalla volontà di seguire le indicazioni mediche, ma anche dalla costruzione di abitudini consolidate che supportano la continuità della cura
Tuttavia, non tutti i pazienti hanno familiarità con la tecnologia. È quindi fondamentale che queste app siano progettate con interfacce semplici e intuitive, integrate con soluzioni offline, come promemoria via sms o telefonate, per assicurarsi che ogni paziente, indipendentemente dalle sue competenze digitali, possa ricevere il supporto necessario.
Alla luce di questi elementi, appare chiaro come l’aderenza terapeutica non dipenda solo dalla volontà di seguire le indicazioni mediche, ma anche dalla costruzione di abitudini consolidate che supportano la continuità della cura. È cruciale non rinunciare alla flessibilità e alla disponibilità verso l’innovazione, adottando strumenti che favoriscono un approccio graduale e adattivo al cambiamento. Avere la possibilità di abituarsi al cambiamento, infatti, può fare una grande differenza. F
Valeria Belleudi Dipartimento di epidemiologia
Servizio sanitario regionale del Lazio Asl Roma 1
I parti con taglio cesareo sono la normalità?
L’influenza del contesto culturale e organizzativo dell’offerta di servizi sanitari
Il dato epidemiologico
Il ricorso al taglio cesareo primario in Italia è tra i più elevati in Europa, è diminuito lentamente nel corso degli anni, passando da una media del 25 per cento nel 2015 al 23 per cento nel 20231. Tuttavia, queste percentuali restano ben al di sopra della soglia del 10-15 per cento raccomandata dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), considerata ottimale per garantire il massimo beneficio complessivo per la madre e il bambino2,3. Inoltre il dm70/2015 ha stabilito una quota massima di taglio cesareo primari del 25 per cento per le strutture con oltre 1000 parti all’anno e del 15 per cento per quelle con volumi inferiori. Escludendo le strutture con meno di 500 parti all’anno, la cui chiusura era già prevista dall’Accordo Stato-Regioni del 2010, nel 2023 solo il 14 per cento dei punti nascita con meno di 1000 parti all’anno e il 68 per cento di quelli con oltre 1000 parti hanno rispettato le proporzioni indicate dal dm 70/2015.
In Italia si evidenzia inoltre una marcata eterogeneità tra le Regioni, con un netto gradiente nord-sud e una variabilità anche all’interno delle stesse Regioni, attribuibile a una diffusa sottovalutazione dei benefici e dei rischi legati alle diverse modalità di parto. In alcune Regioni, per esempio, esistono ancora strutture con percentuali di tagli cesarei superiori al 40 per cento (in Campania, Sicilia, Puglia, Lazio e Lombardia).
Un altro aspetto rilevante è l’analisi dei punti nascita in relazione alla dimensione e alla tipologia di struttura (pubblica o privata), che mostra un minor ricorso al taglio cesareo nelle strutture pubbliche con alti volumi di parti1
Per una valutazione complessiva dell’appropriatezza clinica in ambito perinatale può essere utile combinare il ricorso al taglio cesareo con le percentuali di parti vaginali dopo cesareo e di episiotomie. Si osserva un aumento di parti vaginali dopo cesareo, sebbene resti su valori bassi (dall’8 per cento nel 2015 al 12 per cento nel 2023), mentre il ricorso all’episiotomia si è drasticamente ridotto, passando dal 24 per cento all’11 per cento nello stesso periodo. Permane una forte variabilità inter- e intra-regionale con un gradiente nord-sud a sfavore delle regioni meridionali. La maggior parte delle regioni del sud registra alti livelli di taglio cesareo, basse percentuali di parti vaginali dopo cesareo e un frequente ricorso all’episiotomia. Al contrario, nelle Regioni del nord si rileva un minore ricorso al taglio cesareo, un maggiore utilizzo di parti vaginali dopo cesareo e un uso ridotto dell’episiotomia.
In questo contesto epidemiologico, in cui l’Italia si distingue per avere un tasso di cesarei significativamente superiore alla media raccomandata, con notevoli variazioni regionali che suggeriscono un pattern non esclusivamente clinico ma anche culturale e organizzativo, l’abitudine al parto cesareo pone diverse questioni, sia per la salute pubblica che per l’efficienza del sistema sanitario.
Carlo Piscicelli
Specialista in ostetricia e ginecologia
Consultant senior Fondazione Policlinico Gemelli
Paola Colais
Dipartimento di epidemiologia
Servizio sanitario regionale del Lazio Asl Roma 1
Riflessioni
cliniche
Va chiarito subito che il taglio cesareo è una scelta obbligata in situazioni specifiche. In caso di placenta previa o in presenza di un prolasso del cordone ombelicale, il cesareo non solo è preferibile ma rappresenta un intervento salvavita.
Tutti conoscono mamme che hanno avuto un taglio cesareo, quasi sempre stanno bene e sono soddisfatte. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, il cesareo non rappresenta l’opzione migliore per il parto. L’evidenza scientifica e il consenso degli esperti concordano sul fatto che i cesarei comportano, in media, maggiori rischi rispetto ai parti vaginali: perdita di sangue più abbondante, un aumentato rischio di infezioni, complicanze trombotiche, una mortalità materna più elevata, ma ciò che rende il cesareo ancora più insidioso è il fatto che il rischio maggiore si verifica nei successivi interventi. Gli ostetrici sono i chirurghi che incidono la stessa cicatrice più volte e ciò rende la situazione decisamente più complicata. Un terzo cesareo, per esempio, non lo si fa fare ad un giovane ostetrico ma ad un medico con maggiore esperienza. Il rischio di placenta accreta raddoppia al secondo cesareo ma aumenta di ben 7 volte dopo 3 o più cesarei4. In questi casi le mamme possono sanguinare molto, rischiano di fare una trasfusione, di subire un’isterectomia e persino di perdere la vita.
Perché, allora, i medici continuano a eseguire così tanti tagli cesarei non necessari o, come si dice in termini tecnici, “senza un’indicazione clinica”?
Le ragioni sono molteplici. In primo luogo, c’è un fattore demografico: oggi si registra un aumento di obesità, ipertensione e diabete, le mamme sono più anziane, molte ricorrono alla procreazione medicalmente assistita e tutto ciò genera un carico di preoccupazione maggiore.
L’Italia si distingue per avere un tasso di cesarei signi cativamente superiore alla media raccomandata, con notevoli variazioni regionali. t
Uno degli aspetti che rende il parto un evento unico è la necessità di considerare gli interessi di due pazienti: madre e bambino. Talvolta i loro interessi sono allineati, altre volte entrano in conflitto e, in questi casi, “il bambino vince”. Ciononostante, questi fattori spiegano solo in parte l’incremento del ricorso al parto cesareo, dato che la crescita si osserva anche tra donne giovani e in salute. Esiste anche un problema economico, dato che il rimborso per un cesareo è più alto rispetto a un parto vaginale. Sebbene la maggior parte dei medici ospedalieri non decida in base alla tariffa e spesso non conosca la differenza di drg (diagnosis related groups, raggruppamenti omogenei di diagnosi) tra cesareo e parto vaginale, il sistema attuale crea comunque un vantaggio economico a favore dei cesarei, disincentivando la pratica di eseguire un parto vaginale.
La maggior parte degli interventi viene eseguita nella cosiddetta “zona grigia”, dove i confini tra necessario e non necessario sono sfumati come, per fare degli esempi, il lento progredire del travaglio o quando viene messo in dubbio il benessere del bambino sulla base di un tracciato cardiotocografico fetale, nonostante l’evidenza indichi questo esame inadeguato nell’identificare i bambini realmente a rischio di morte o di paralisi cerebrale. Nel caso in cui il travaglio proceda lentamente, i progressi sembrino incerti o il tracciato cardiaco fetale sia dubbio, è facile scegliere il cesareo rispetto alla gestione del travaglio.
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Anche il timore di una denuncia, in caso di esiti negativi per il bambino, è un fattore che può spingere i medici verso il cesareo. Questo è particolarmente vero nei contesti ospedalieri avversi al rischio, dove l’obiettivo di aumentare la sicurezza può, di fatto, esercitare pressioni verso l’intervento chirurgico.
Vi è poi la complessità dell’ambiente del parto. Le gestanti oggi partoriscono in ospedale, distese in un letto di degenza, spesso con una flebo e una continua sorveglianza dei parametri vitali. Le nostre sale parto sembrano delle unità di terapia intensiva. Ciò che le diversifica è che, accanto alla sala parto, vi è anche una sala operatoria. Se prendiamo una mamma sana, la mettiamo in terapia intensiva e la circondiamo di chirurghi, la probabilità di essere sottoposta ad intervento chirurgico è più alta.
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In Italia, il ricorso al taglio cesareo è stato storicamente molto frequente: nel 2008, più di una donna italiana su tre partoriva con questa modalità. Negli ultimi anni, si è registrata una lieve diminuzione nella proporzione di parti cesarei, un andamento riscontrabile anche tra le donne senza pregresso cesareo. Poche donne con un precedente cesareo hanno un parto naturale, ma la percentuale di questi casi è in leggero aumento.
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Altro elemento da considerare, che rappresenta un fenomeno in costante aumento e difficilmente intercettabile dai sistemi di monitoraggio, è la richiesta della gestante a partorire con il cesareo. Se il medico e la gestante discutono sulla modalità del parto, sui rischi e sui benefici e giungono alla conclusione che il taglio cesareo, anche quando non è strettamente necessario, è la modalità corretta di parto, non vi è nulla di male. Il diritto all’autodeterminazione materna va rispettato. Il problema è che quest’incontro ideale tra medico e gestante che insieme prendono una decisione realmente obiettiva e basata su una esaustiva informazione è difficile da realizzare.
Infine, è sempre facile giustificare un cesareo e questo è un altro elemento insidioso. Se il bambino nasce pallido, cianotico pensiamo “meno male che abbiamo fatto un taglio cesareo”; se invece è roseo e vivace, diciamo sempre “meno male che abbiamo fatto un taglio cesareo”. In entrambi i casi, si tende a credere di aver preso la decisione giusta.
Un dato che colpisce è la variabilità tra punti nascita, che, pur avendo simili volumi di parti e analoghi livelli di assistenza perinatale, presentano tassi di cesarei molto diversi.
1. Programma nazionale esiti: Pne. https://pne.agenas.it
2. Who. Appropriate technology for birth. Lancet 1985;326:4367.
Ora, nel caso in cui qualche lettore pensi che il tasso di tagli cesarei è così alto perché i medici vogliono guadagnare di più, lasciare prima l’ospedale, cautelarsi dal rischio medico-legale, assecondare superficialmente la volontà della donna, non è affatto questo che stiamo sostenendo. Se fosse vero, i tassi di taglio cesareo sarebbero persino più alti di quanto sono in realtà. Piuttosto, sottolineiamo che l’assistenza medica è complessa e la gestione del travaglio subisce molte pressioni.
Un dato che colpisce è la variabilità tra punti nascita che, pur avendo simili volumi di parti e analoghi livelli di assistenza perinatale, presentano tassi di cesarei molto diversi. Questo dato evidenzia l’influenza del contesto culturale e organizzativo, che può avere un peso maggiore rispetto alle considerazioni puramente cliniche. In altre parole, il principale fattore di rischio per il cesareo non è la volontà della madre o il suo rischio clinico, ma la struttura ospedaliera che la gestante sceglie, la porta che attraversa. Capire cosa rende l’ospedale “a” diverso dall’ospedale “b” è fondamentale.
Per questo motivo, le linee guida dell’Oms hanno posto l’accento sui fattori non clinici, raccomandando numerose strategie tra cui feedback periodici per aiutare le strutture a identificare trend in aumento e implementare strategie correttive, il secondo parere obbligatorio nei casi di un cesareo su richiesta materna e un’assistenza centrata sulle ostetriche 5 F
3. Who. Statement on Caesarean Section Rates. Geneve (Swiss): Who Press, 2015. 4. National institutes of health consensus development conference statement. Vaginal birth after cesarean: new insights March 8-10, 2010. Obstet Gynecol 2010;115:1279-95.
5. Who recommendations: non-clinical interventions to reduce unnecessary caesarean sections, 2018.
Fonte: Pne - Programma nazionale esiti.
NON CAMBIARE senza sapere chi vuoi essere
Rompere vecchie abitudini a favore di nuove che facilitino il miglioramento continuo
In che modo un’istituzione può identi care e a rontare le “cattive abitudini” che ostacolano il cambiamento?
Cambiare di fatto significa rompere vecchie abitudini e crearne di nuove che riteniamo essere migliori affinché l’organizzazione possa svolgere al meglio la propria missione, a beneficio dei pazienti (clienti) e dei collaboratori stessi. Qui sono fondamentali due domande: perché cambiare? E, come cambiare? Non sempre c’è consenso su cosa sia una cattiva abitudine versus una buona abitudine e non si vede quindi la necessità di cambiare. Per iniziare a promuovere il cambiamento, è fondamentale potere capire dove ci troviamo. A questo scopo abbiamo creato un sistema di indicatori che ci indicano dove potrebbe esserci un problema rispetto agli obiettivi prefissati. Non ci dicono tuttavia dove risiedono le cause del problema. A partire dal sintomo di un problema, in team interdisciplinari e interprofessionali (coloro che sono coinvolti nel processo in questione, medici, infermieri, tecnici, amministrativi, responsabili e non, ecc.) si può analizzare cosa non funziona o cosa si può migliorare. È molto importante coinvolgere tutti gli attori, focalizzandoci sui processi, sul sistema, e non sulle persone come giudizio del loro lavoro. Per oggettivare il problema e creare consenso, oltre ai dati, andiamo con i team a gemba, che significa “andare a osservare le cose dove accadono” per raccogliere informazioni che spieghino il perché delle abitudini presenti. Per poter riconoscere una cattiva abitudine, ormai diventata routine nel processo lavorativo, bisogna prendersi tempo e osservare dall’esterno. Qui promuoviamo sempre una visione sistemica. Si tratta di fare osservazioni strutturate e di documentarle bene per creare quella che è l’urgenza al cambiamento, o il nostro “muro dei post-it” e quindi avere la risposta alla prima domanda: perché cambiare? Perché così non va più bene.
Intervista a
Quali metodi e strategie si utilizzano?
Esistono esperienze in cui sono state utilizzate tecniche di nudging (o guida gentile al cambiamento)?
Arriviamo dunque al come cambiare. Innanzitutto, indipendentemente da quali siano le strategie, è importante averle queste strategie, avere un metodo. Noi ci appoggiamo ai principi e alle tecniche del lean management, e delle cure basate sul valore, per accompagnare i team. I dati e il gemba sono la prima tappa del percorso, poi si lavora in workshop: sviluppiamo prototipi di soluzioni attraverso il design thinking, simulazioni, partiamo dalle “personas” – i nostri pazienti tipo – e mappiamo i percorsi e le opportunità di miglioramento. Oltre alle osservazioni può essere utile organizzare video-riprese che poi vengono analizzate in team. Di fatto applichiamo il metodo scientifico alla risoluzione dei problemi. Nell’attuazione del cambiamento, forse non utilizziamo il nudging in maniera esplicita, ma cerchiamo di costruire dei sistemi che siano più forti delle abitudini delle persone o di implementare soluzioni che permettano di creare abitudini nelle persone che siano integrate dal sistema. Per esempio, introdurre un incontro interprofessionale strutturato, breve, con obiettivi chiari in reparto, proprio prima della visita medico-infermieristica, permette di essere allineati e partire in visita dai pazienti in modo più efficace. In questo modo, creando la concatenazione tra due eventi, si crea una nuova abitudine alla quale è impossibile sottrarsi perché bisogna fare una cosa e poi subito un’altra, e non c’è il tempo di iniziare a fare altre cose, di uscire dal sistema. Il sistema però deve essere sostenuto anche dalla leadership. Gli strumenti aiutano, ma bisogna utilizzarli. In ogni cambiamento, è naturale avere anche una parte di resistenza e sofferenza, “si stava meglio quando si stava peggio”. Quando si parla di problemi e di soluzioni ipotetiche c’è una grande aspettativa, una grande voglia di fare, poi quando si entra nel campo delle soluzioni si entra nel mondo della disillusione e poi piano t
Mirjam Amati Lean manager
Adriana Degiorgi Capo Area supporto di direzione
Alan Valnegri Responsabile Servizio organizzazione
Ente ospedaliero cantonale, Bellinzona, Canton Ticino (Svizzera)
Una uida al
Focalizziamoci qualche secondo sul nostro quotidiano e chiediamoci: come va, qui, ora? Ci verrà da rispondere in modo piuttosto generico, ma va bene. Proseguiamo: cosa intendiamo per “qui”? E cosa nel qui sta funzionando, ora, e cosa no? Ecco che stiamo già delineando situazioni, persone, comportamenti… Possiamo fare un altro passo avanti: come sarà il qui non ora, ma domani, a seconda che avremo lasciato non funzionare quello che non funziona o che l’avremo invece affrontato? E cosa ci può ostacolare o facilitare nell’a rontarlo?
t piano, quando queste diventano sempre più concrete, torna la motivazione. Come si dice, “cerca la perfezione, ma accetta l’imperfezione”. Per questo bisogna riuscire a sostenere il cambiamento.
A proposito di leadership, a volte la resistenza è data perché non c’è una visione a lungo termine. Introduciamo quindi una terza domanda, dove stiamo andando? Qual è il nostro “vero nord” da seguire? Non significa che non ci sia una sola visione, anzi a volte ce ne sono tante: ognuno ha la propria visione. Parte del nostro lavoro sta proprio nel far comunicare i mondi, le professioni, le discipline diverse, in orizzontale e in verticale. La comunicazione, come il cambiamento, non accade da sé.
Infine, è importante focalizzarsi anche su ciò che funziona e festeggiare i successi. A tal proposito proposito, abbiamo introdotto l’evento annuale “Spazio al miglioramento”, quest’anno alla terza edizione, un evento pensato per promuovere le iniziative di miglioramento della qualità in modo trasversale.
Ci sono esempi speci ci di cambiamenti che, a vostro parere, rappresentano buone pratiche da seguire?
Giacomo Galletti
Ricercatore in scienze comportamentali Agenzia regionale di sanità Toscana
Facciamo finta di aver risposto a tutte le domande in modo ragionato, e di aver conseguentemente deciso di apportare un cambiamento al qui e ora. Ecco, possiamo farlo senza cambiare qualcosa nei nostri comportamenti? E quali? E come? E quali sono le barriere – o cattive abitudini – che ci impediscono di adottare quel nuovo comportamento che genera il cambiamento? E una volta adottato il nuovo comportamento, l’aggiramento delle barriere sarà stato efficace? Come può essere misurabile l’efficacia? Fin qui ha parlato il coach1 che è in me, quello che emerge nei lavori di gruppo sul cambiamento organizzativo, quello che afferma che fare e farsi le domande giuste è già di per sé una strategia per il cambiamento, perché rinsalda la consapevolezza sull’agire quotidiano e sull’opportunità concreta, quasi intima, del cambiamento. Individuare poi situazioni concrete che limitino il valore del nostro agire, immaginando soluzioni operative per il superamento di tali barriere sono già indicatori del coinvolgimento in un percorso di cambiamento. Attenzione però: nel momento in cui dovessimo identificare come
Entriamo nel tema della visione: cambiare per andare dove? Ci sono strumenti e modelli di buone pratiche disponibili. Questi però devono essere utilizzati in base al contesto all'interno del quale andiamo ad agire. Per fare degli esempi, però, potremmo citare il pronto soccorso dell’Ospedale universitario di Basilea, dal quale ci siamo ispirati per accompagnare la definizione del processo e la progettazione del nuovo pronto soccorso di Bellinzona; oppure i reparti di degenza degli ospedali Hug di Ginevra, che hanno rivisto l’intera organizzazione dei reparti di degenza secondo un “modello standard”. Anche noi abbiamo diversi progetti di miglioramento, ma a volte la difficoltà, in termini di buone pratiche, è estendere il “progetto pilota” e quindi la buona pratica prescelta, all’intero ospedale, o meglio, a tutti gli ospedali. Ogni sede della nostra organizzazione ha infatti la propria storia, le proprie abitudini, la propria configurazione degli spazi, le proprie sfide – quindi ecco esempi di buone pratiche sì, ma bisogna condividerli, farli propri, e in fondo anche riconoscere che siamo tutti nella stessa barca.
A cura di Rebecca De Fiore
cambiamento
Dall’analisi delle barriere alla de nizione delle azioni responsabili
barriera al cambiamento il “si è sempre fatto così”, allora, qualsiasi sia il contesto, fermiamoci, lasciamo perdere, il cambiamento non fa per noi. Se al contrario, immaginando di adottare un nuovo comportamento, ci chiedessimo quale sia la prima cosa semplice e veloce, che siamo in grado di fare qui e ora, allora vuol dire che ci siamo nelle condizioni di muoverci dallo status quo oltrepassando le sue barriere.
Barriere al cambiamento: l’approccio com-b
Quando mi trovai a chiacchierare sulle barriere al cambiamento con una psicologa clinica dell’University college London in una brasserie di Utrecht nella primavera dello scorso anno, commentai positivamente l’utilità dell’adozione del modello denominato com-b (capabilities, opportunities, motivation – behaviour) per la facilità e intuitività con cui guidava l’individuazione e l’analisi di queste barriere. Semplificando al massimo il modello, le barriere si riferiscono alle
appropriata verso il contesto di un incontro professionale. A questo si aggiunge una barriera di opportunità, ovvero la mancanza di tempo che, unita alla disattenzione, aveva favorito una preparazione inadeguata. Ho risolto un problema potenzialmente dannoso con una soluzione semplice: all’abitudine consolidata di segnare sull’agenda elettronica un incontro professionale, mi creo di default un alert che tre giorni prima mi avvisa automaticamente sull’opportunità di raccogliere le informazioni del caso. Tempo dell’operazione: 30 secondi. Riproposizione del problema: non più. L’esempio è banale ma serve a rendere l’idea.
Fare e farsi le domande giuste è già di per sé una strategia per il cambiamento, perché rinsalda la consapevolezza sull’agire quotidiano e sull’opportunità concreta del cambiamento.
capacità (o conoscenze) di chi agisce, alle opportunità offerte dal contesto d’azione (l’organizzazione) e alla motivazione individuale, del team o della leadership. La psicologa clinica mi rispose che in effetti sì aveva scelto quel tipo di formulazione proprio per la facilità e intuitività. Solo qualche ora più tardi mi resi conto che in quella brasserie stavo parlando con Susan Michie, la madrina dell’approccio com-b2, che dava per scontato che io ne parlassi in sua presenza appunto per quella naturale piaggeria che si adotta in genere di fronte ai personaggi molto noti nell’ambito della propria professione.
Proverei a usare l’aneddoto su questa sorta di potenziale incidente diplomatico per ragionare concretamente su una strategia semplice e banale finalizzato a produrre un cambiamento preventivo della compromissione della propria credibilità professionale. Applicandomi nel com-b, individuo tra le mie cattive abitudini un problema di capacità, ovvero la (mancanza di) attenzione
Eppure la soluzione dell’alert non l’ha immaginata il coach (che di mestiere fa le domande ma non dà risposte), ma l’altro individuo che in me si palesa quando c’è da trovare soluzioni rapide, semplici, attuabili, efficaci nel produrre cambiamenti a partire da ora: lo scienziato comportamentale. Uno dei riferimenti principali che ispira l’azione di questa nuova figura emergente è l’approccio East 3, proposto anni fa dal Behavioural insight team di Londra, secondo il quale per ottenere il cambiamento devi rendere l’azione o la scelta che lo persegue facile (l’easy dell’acronimo) da effettuarsi attirando l’attenzione sulla sua opportunità (attractive) facendo leva sulla norma sociale secondo cui è bene operare quella scelta (social) e infine facendo sì che il momento in cui proporre la scelta sia il migliore possibile per renderla efficace (timing). Ecco che quindi è facile mettere una voce in agenda che ti ricordi di prepararti adeguatamente a un gruppo di lavoro attraverso un alert che ti ricordi di farlo giusto in tempo per l’incontro, sapendo che le gaffe è sempre meglio evitarle.
Se quindi ci responsabilizziamo nell’operare una serie di azioni autodeterminate – e qui è ancora il coach che parla – nella direzione del cambiamento che abbiamo autonomamente e consapevolmente deciso di perseguire, ci possiamo considerare a tutti gli effetti ingaggiati nella strategia del cambiamento. Ora basta solo misurare anche con indicatori banali i passi che compiamo e quanto il punto di arrivo del percorso si scosta da quello che ci eravamo inizialmente proposti (già, il cambiamento va pure misurato, se no come si fa a parlare di efficacia?).
Dal cambiamento individuale a quello organizzativo
Fino a ora abbiamo parlato di cambiamento a livello individuale. Ma quando si parla di cambiamento organizzativo? Quando a cambiare sono i comportamenti di – e soprattutto tra – più persone? A questo livello di complessità le strategie per il cambiamento più frequenti sono quelle che utilizzano strumenti e approcci complessi e raffinati, tra i quali i sistemi di gestione della qualità, quelli del rischio, il project o il lean management. Questi approcci in genere sono potenti tanto nel generare quanto nel mantenere il cambiamento, ma a volte i risultati non sono apprezzabili o duraturi, specie quando la loro adozione viene calata dall’alto, senza opportuna condivisione, responsabilizzazione e il coinvolgimento proattivo – o meglio l’ingaggio – degli operatori. Abbiamo più o meno sentito tutti nominare concetti come la mission condivisa, la leadership inclusiva, la comunicazione multilevel, l’ascolto efficace e cose simili. Gli esempi del coaching e delle scienze comportamentali, a partire dall’analisi delle barriere alla definizione consapevole, au-
L’inclusività a tutti i livelli può essere realizzata da un management consapevole dell’opportunità di creare un contesto organizzativo utile a rimuovere le barriere che impediscono di porsi le domande giuste.
todeterminata e responsabilizzata di azioni che ne facilitino il superamento hanno un comune denominatore: il cambiamento dal basso. In quest’ottica, l’inclusività a tutti i livelli può essere realizzata da un management consapevole dell’opportunità di creare un contesto organizzativo (principalmente i tempi e gli spazi) utile a rimuovere le barriere che impediscono a operatori e gruppi di porsi le domande giuste per identificare barriere e interventi facilitatori del cambiamento, per proporre essi stessi soluzioni condivise per il cambiamento e le misure per verificarne l’efficacia. Il meccanismo alla fine, a tutti i livelli, è sempre lo stesso. F
1. Il coaching è un metodo di sviluppo personale e organizzativo che si basa sulla relazione di ducia tra coach e cliente al ne di valorizzare e allenare le potenzialità del cliente o dell’organizzazione per il raggiungimento di obiettivi de niti. Dal sito dell’Associazione italiana coach professionisti – wwww. associazionecoach.com
2. Michie S, Van Stralen MM, West R. The behaviour change wheel: a new method for characterising and designing behaviour change interventions. Implement Sci 2011:6:42.
3. Behavioural Insights Team (Also known as The Nudge Unit). East: Four simple ways to apply behavioural insights. Report, 11 aprile 2014.
Irecenti progressi nei tassi di sopravvivenza delle pazienti affette da tumore del seno rendono i temi della qualità di vita e del benessere psicofisico di queste donne non più marginali, ma centrali. Se da un lato i trattamenti antitumorali, insieme agli strumenti di diagnosi precoce, hanno contribuito in maniera determinante a questi enormi progressi nella prognosi, dall’altro comportano inevitabili tossicità ed effetti collaterali a breve e lungo termine, distress emotivo con conseguenze negative sul piano relazionale, sessuale, lavorativo, sociale ed economico, che comportano un deterioramento della qualità di vita. A questi effetti a lungo termine della cura si è dedicata storicamente meno attenzione, sia nella ricerca che nella pratica clinica, per cui essi sono largamente sottostimati e non adeguatamente trattati nella maggioranza dei casi.
È necessario un cambio di paradigma nella cura oncologica che tenga in considerazione le istanze della qualità di vita, a prescindere dallo stadio di malattia e dalle aspettative di vita
Questi bisogni di salute non soddisfatti ostacolano un pieno recupero nei casi di malattia in fase precoce e rischiano di compromettere l’aderenza terapeutica nelle pazienti con tumore metastatico. In entrambi i setting di malattia (precoce e avanzata), una gestione subottimale degli effetti collaterali peggiora la qualità di vita e aumenta il rischio di recidive neoplastiche, tumori secondari e patologie cardiovascolari. Nonostante ciò, un piano di supporto alle cure e di rimodulazione degli stili di vita, a partire dalla diagnosi, è raramente incluso nei percorsi standard, anche in centri oncologici di eccellenza. Inoltre, permane un’insufficiente conoscenza e un utilizzo sporadico di strumenti validati, come i patient reported outcome e la medicina narrativa, per la raccolta sistematica dei bisogni delle pazienti, e la loro voce è raramente considerata nella definizione degli endpoint primari degli studi clinici. Tale carenza, nonostante l’esistenza di linee guida internazionali, comporta un più alto rischio di sottostimare le tossicità e gli obiettivi terapeutici che contano maggiormente per le pazienti.
Un nuovo approccio alla cura oncologica
Di fronte alla diagnosi di cancro, ogni persona si trova ad affrontare un punto di rottura, a partire dal quale ci sarà un “prima” e un “dopo” nella sua esistenza: un cambiamento più o meno radicale nelle abitudini, che comporta necessariamente l’alterazione di un equi-
Quel “prima” e “dopo” una diagnosi di cancro
Come cambiano le abitudini del paziente?
librio pre-esistente e impone la ricerca di un nuovo assetto. Sottovalutare le conseguenze di questo impatto, anche solo temporaneo, espone al rischio di una minore aderenza alla cura e in alcuni casi di abbandono di protocolli validati a favore di trattamenti nocivi e privi di fondamento scientifico.
È necessario dunque un cambio di paradigma nella cura oncologica che tenga in considerazione le istanze della qualità di vita, a prescindere dallo stadio di malattia e dalle aspettative di vita: un approccio integrato alla persona affetta da tumore, che includa una valutazione sistemica dei suoi stili di vita (nutrizione, attività fisica, sonno), delle criticità e delle risorse psicologiche, e un contenimento degli effetti collaterali anche attraverso metodiche non farmacologiche1. Questo approccio deve essere razionale, coordinato e basato su evidenze scientifiche, esperienza degli operatori e attitudini delle pazienti.
In una prima fase del percorso terapeutico può essere utile una preabilitazione alle terapie; anche piccole modifiche ai comportamenti alimentari, correzione di dipendenze (fumo o alcool), educazione e motivazione all’attività motoria, igiene del sonno, tecniche di rilassamento e rimodulazione delle terapie farmacologiche possono avere un impatto positivo sugli esiti perioperatori o sulle tossicità. Il periodo di follow-up dopo le cure, inoltre, dovrebbe non soltanto garantire una sorveglianza clinico-strumentale efficace sulle riprese di malattia e un recupero funzionale-riabilitativo, ma anche strategie validate di prevenzione terziaria delle recidive attraverso gli stili di vita. Infine, ci sono evidenze preliminari che l’uso dell'arte con finalità terapeutiche, per esempio musica, danza, scrittura e arti figurative, sotto
1. Rossi C, Maggiore C, Rossi MM, et al. A model of an integrative approach to breast cancer patients. Integr Cancer Ther 2021;20:15347354211040826.
Stefano Magno
Direttore
Centro Komen Italia per i trattamenti integrati in oncologia Fondazione Policlinico universitario A. Gemelli – Irccs
la supervisione di professionisti specializzati, possa aiutare le donne a rielaborare l’esperienza traumatica di malattia, e trasformarla in qualcosa che fornisca risposte concrete a domande di senso rispetto al vissuto2
La malattia come opportunità
In cosa consiste in ultima analisi la guarigione da un tumore? E quale prospettiva dare, a parte il prolungamento della sopravvivenza, a una paziente con tumore metastatico e quindi, per definizione, non guaribile?
Il Centro Komen Italia per i trattamenti integrati in oncologia, presso il Policlinico Gemelli di Roma, adotta un approccio globale per supportare le pazienti con tumore al seno. L’obiettivo è aiutarle a modi care lo stile di vita per favorire il benessere complessivo. Guarda il video
2. Lyman GH, Greenlee H, Bohlke K, et al. Integrative therapies during and after breast cancer treatment: Asco endorsement of the Sio clinical practice guideline. J Clin Oncol 2018;36:2647-55.
Nel caso di tumore precoce, una condizione indispensabile per la guarigione è la remissione biologica o la non evidenza clinico-strumentale di malattia; ma questo, nella voce di tante pazienti, non è sufficiente. Allo stesso modo, la prospettiva di tornare a una vita come prima della diagnosi sembra una prospettiva velleitaria e irrealizzabile. Piuttosto, la malattia può essere considerata un evento critico, dal quale si può uscire non “vittoriose” (secondo un modello mediaticamente abusato, e per molti, incluso chi scrive, semplicistico) ma rafforzate e più consapevoli. Innumerevoli pazienti, anche affette da tumori avanzati, raccontano che la malattia è stata per loro un’opportunità, un punto di svolta positiva nelle loro vite. Una prospettiva eretica e controintuitiva, ma già ampiamente descritta in letteratura come crescita post-traumatica3 In altri termini, è possibile un adattamento migliorativo del proprio sé verso un nuovo, graduale e più appagante equilibrio per il resto della vita: un’autentica ricerca dell’alba dentro l’imbrunire4 F
3. Capaldi JM, Shabanian J, Finster LB, et al. Post-traumatic stress symptoms, posttraumatic stress disorder, and post-traumatic growth among cancer survivors: a systematic scoping review of interventions. Health Psychol Rev 2024;18:41-74.
4. Franco A, Magno, S. The breaking point and posttraumatic growth in breast cancer survivors. Cancers 2023;15:4441.
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Le donne che vivono l’esperienza del tumore al seno
Quali cambiamenti avvengono nella vita quotidiana delle pazienti con diagnosi di tumore alla mammella durante la fase acuta della malattia?
La comunicazione di una diagnosi di tumore al seno rappresenta per le pazienti un evento profondamente traumatico, capace di alterare ogni aspetto della vita quotidiana. L’impatto iniziale può essere paragonato alla percezione di un “muro” che si frappone tra la persona e il suo futuro, generando una sensazione di smarrimento e disorientamento. Questo stato di shock non è limitato a un singolo momento, ma si protrae attraverso tutto il percorso delle cure, durante il quale la persona spesso vive in uno stato di estraneità, agendo in modo meccanico, seguendo le indicazioni mediche senza sentirsi in pieno controllo della propria vita. Uno degli aspetti più difficili di questa fase riguarda la percezione della frammentazione delle cure: il susseguirsi di diversi operatori sanitari può generare un senso di isolamento, poiché ogni professionista può adottare approcci comunicativi diversi, complicando ulteriormente la capacità della donna di sentirsi compresa e accompagnata. Le emozioni iniziali di incredulità e stordimento possono evolvere in una serie di stati d’animo mutevoli, talvolta incompresi da chi le sta accanto.
Durante la fase acuta, la routine quotidiana viene completamente rimodellata intorno alla malattia e alle cure – dall’attesa per i risultati istologici agli interventi e alla chemioterapia. Questo processo è spesso scandito da tempi di attesa che possono risultare psicologicamente pesanti, in particolare per chi è sottoposta a trattamenti particolarmente intensi come la chemioterapia, che può portare a concentrarsi esclusivamente sulla sopravvivenza. La vita familiare, sociale e lavorativa passa in secondo piano, e ogni attività precedente può sembrare lontana e quasi irraggiungibile.
Come evolve questo cambiamento nella fase di follow-up?
Nel follow-up, le sensazioni di ansia e vulnerabilità possono riaffiorare. I controlli, spesso distribuiti su più appuntamenti nell’arco dell’anno, possono provocare in molte donne una reazione emotiva simile a un “ritorno alla malattia”. Per ridurre l’impatto psicologico, è opportuno che i controlli siano concentrati in tempi più brevi. Infine, l’ansia legata all’attesa degli esiti di questi controlli rappresenta un ulteriore momento di stress che può influire negativamente sul benessere complessivo della persona.
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Flori Degrassi Presidente
In che modo l’esperienza della malattia in uenza le relazioni sociali e familiari delle pazienti?
L’esperienza della malattia porta a cambiamenti significativi nelle relazioni sociali e familiari delle persone, modificando profondamente le loro prospettive e priorità. Il confronto iniziale con la possibilità di non sopravvivere rende queste donne più sensibili al valore del tempo e degli affetti, e può comportare una nuova percezione delle priorità quotidiane. Di conseguenza, le interazioni sociali possono risultare alterate, poiché la donna può avere difficoltà a relazionarsi con persone che si concentrano su problemi percepiti come banali rispetto all’esperienza di una malattia grave.
Anche le relazioni familiari vengono inevitabilmente coinvolte. Guardare i propri figli suscita pensieri sul futuro che possono diventare dolorosi, mentre il rapporto con il partner può essere messo alla prova sia dagli effetti fisici della malattia – come il cambiamento dell’immagine corporea e il senso di delusione verso il proprio corpo – sia dagli effetti collaterali delle terapie, come la chemioterapia o l’ormonoterapia, che spesso includono cambiamenti fisici e, nelle pazienti più giovani, menopausa precoce. Tali fattori possono richiedere una fase di adattamento nella coppia, e spesso emerge la necessità di supporto psicologico per affrontare insieme questo percorso di cambiamento.
L’ambito lavorativo presenta ulteriori complessità: le donne con contratti di lavoro stabili possono contare su maggiori tutele, mentre le lavoratrici precarie o autonome (in particolare chi non è iscritta a un ordine professionale) incontrano difficoltà significative. Anche coloro che hanno un contratto a tempo indeterminato non sono immuni da difficoltà; ad esempio, possono subire demansionamenti o proposte di part-time che possono compromettere la loro autostima e portare a situazioni di insicurezza lavorativa.
Possono l’ansia e il timore di una recidiva rappresentare una spinta per adottare comportamenti salutari, come seguire le indicazioni mediche, un’alimentazione varia ed equilibrata e svolgere attività sica? Oppure si rischia un’ipervigilanza?
L’ansia e il timore di una recidiva possono anche stimolare comportamenti orientati alla salute. Alcune donne reagiscono adottando uno stile di vita sano, seguendo un’alimentazione equilibrata e integrando l’attività fisica nella propria routine quotidiana. A questo proposito, il supporto della vita associativa gioca un ruolo fondamentale: permette loro di confrontarsi, di impegnarsi in attività motorie non agonistiche per riequilibrare il corpo e di scambiare idee su alimentazione e prevenzione. In tal senso, gruppi e associazioni possono anche offrire corsi tenuti da nutrizionisti e dietologi, sensibilizzando al valore della prevenzione primaria e creando occasioni per discutere abitudini salutari, anche in contesti scolastici o lavorativi. Altre donne, tuttavia, possono vivere questa fase con un diverso atteggiamento: accettando di aver avuto la malattia, decidono di “godersi la vita” senza rispettare le prescrizioni dietetiche e concedendosi più libertà nei consumi e nelle preparazioni culinarie, per esempio di dolci, come forma di autogratificazione. Per quanto riguarda il fumo e l’alcool, la dipendenza preesistente rende spesso complesso abbandonare questi comportamenti anche dopo la malattia. Cambiare tali abitudini può risultare particolarmente difficile anche perché esse sono spesso collegate a momenti di socialità e convivialità: rinunciare al bicchiere o alla sigaretta può essere avvertito quasi come una limitazione relazionale. Tuttavia, ridurre o eliminare fumo e alcool è essenziale, poiché anche piccole quantità possono risultare dannose.
A cura di Giada Savini
Andos onlus
Intervista
Truman Capote aveva l’abitudine di non iniziare mai un racconto il venerdì, Agatha Christie pensava nella vasca da bagno prima di sedersi davanti alla macchina da scrivere. Altri scrivevano soltanto in piedi, altri ancora legati a una sedia, oppure soltanto su piccoli foglietti. C’era chi invece fumava, Camilleri per esempio lo ha fatto fin oltre i 90 anni. Giancarlo De Cataldo preferiva i sigari. L’autore di “Romanzo Criminale”, “Suburra” e numerosissimi altri saggi e romanzi racconta le abitudini dietro il mestiere di scrivere, ma anche di come sia affascinante il crimine, soprattutto se commesso dalle persone normali.
Ritualità, serial killer ed esistenze ordinarie
Partiamo dal contesto: quasi tutte le sue storie, se non tutte, sono ambientate a Roma. Come spiegherebbe il fascino di questa città? Si presta particolarmente bene alla scena criminale?
Roma si presta a tutto. E il fascino ho quasi smesso di spiegarmelo. Mi iscrivo alla lista di quelli che dall’antica Roma, dai poeti ai satiri, fino a Brancati, Pasolini, Gadda, venendo da tanto lontano, hanno amato questa città e se ne lasciano incantare. Poi, certo, lo scenario criminale è particolare per due motivi. Primo perché c’è una tradizione, Roma è stata capitale di un impero e negli imperi ci sono anche gli affari sporchi che si fanno fingendo che siano affari puliti. Infatti la parola suburra viene dall’antica Roma, da quel territorio di confine nel quale i patrizi si sporcano le mani con i plebei, con i sicari. Un’altra parola che viene dall’antica Roma è proprio sicario, cioè accoltellatore a pagamento. Il secondo motivo è che Roma è la capitale d’Italia e il crocevia di tutti gli interessi, dei rapporti politici, economici, commerciali che nella storia di questo Paese spesso sono stati lambiti da fatti criminali. Questo fa di Roma una miscela narrativa, se vogliamo, unica in Italia.
Entrando nel vivo del suo mestiere di scrittore, ha un metodo o dei rituali particolari per dare forma ai personaggi, alle trame? Quando si inizia la stesura di un romanzo è utile avere delle abitudini da seguire?
Le avevo quando fumavo, avevo bisogno di carburare e preparare il mio sigaro, sedermi al computer. Adesso, con l’andar del tempo, ho perso la ritualità dello scrivere. Mi lascio prendere, diciamo, dalla voglia di scrivere, a volte anche dalla necessità di scrivere – quando ti
commissionano un articolo, una prefazione, un intervento di altro genere. Altro è invece organizzare il materiale narrativo, in particolare nella letteratura di genere, i gialli per esempio. È accaduto anche quando ho scritto romanzi storici, ho bisogno di sapere dove sto andando, poi magari cambio direzione strada facendo, però una scaletta di partenza c’è sempre.
Alcuni dei grandi personaggi di romanzi gialli hanno delle ritualità, delle caratteristiche che li rendono tutt’ora ben de niti nella memoria del lettore, delle abitudini. Mi vengono in mente il whiskey di Philip Marlow, l’ossessione per la simmetria di Hercule Poirot, ma anche il lavoro a maglia di Miss Marple. Che signi cato narrativo hanno queste peculiarità? Fidelizzano il lettore in un modo in cui non riesce l’indagine in sé?
C’è una triplice valenza. La prima è che ogni scrittore, anche colui che non lo confessa, trasferisce sempre ai suoi personaggi e in particolar modo ai personaggi ricorrenti, seriali, qualche suo tic, qualche sua abitudine. Marlow beve il whiskey e lo ama perché Raymond Chandler è un americano degli anni quaranta e cinquanta, periodo in cui
Intervista a
Giancarlo De Cataldo
Ex magistrato e scrittore
il consumo di superalcolici era indissolubilmente legato alla figura dello scrittore. La seconda valenza, a mio avviso, è che le caratteristiche sono spesso connesse alla struttura del personaggio e mirano a definirlo, a qualificarlo meglio. Miss Marple è un’anziana signora inglese e le signore inglesi lavorano a maglia. Poirot è un ossessivo della perfezione e quindi la sua maniacalità si ribalta, potremmo dire, sugli oggetti, sullo spazio circostante. Il terzo punto appartiene invece a quanto ogni autore cerca di fare, vale a dire dare al personaggio delle connotazioni particolari che lo facciano ricordare, che lo differenzino dagli altri personaggi. Nel mio caso, per esempio, Manrico Spinori, il mio pubblico ministero ricorrente, è appassionato di opera lirica – ce ne sono pochi, non è una categoria molto diffusa tra gli investigatori. Però le caratteristiche non vanno a sovrapporsi all’inchiesta, raggiungono una simpatia che magari l’indagine in sé non raggiungerebbe, arricchiscono e affiancano ma non sostituiscono la trama. Altrimenti non saremmo più nella letteratura di genere, la trama resta essenziale.
Quando si parla di serial killer, in alcuni casi possiamo attribuire loro delle etichette che ci raccontano come e quanto sono organizzati e piani catori. Esistono anche nel mondo criminale delle abitudini di questo tipo?
I serial killer veri sono dei personaggi squallidi, tristi, rozzi, primitivi e ossessionati semplicemente da questa ansia, da questa ossessione appunto, di fare il male. È stata la letteratura a nobilitare, se così si può dire, il personaggio, la figura del serial killer. E fortunatamente non ce ne sono tanti. Come diceva John Douglas, il primo criminal profiler dell’Fbi, “molti di noi sognano di fare delle
cose tremende, ma per fortuna soltanto un’esigua minoranza le fa”. Da questo punto di vista è vero che i serial killer, come dicevo prima, sono dei personaggi fondamentalmente ripugnanti, non hanno l’attrattiva di Hannibal Lecter. Ma allo stesso tempo è anche vero che sono importantissimi per le scienze criminali per conoscere e capire i loro meccanismi, assolutamente fondamentali per capire il lato oscuro che molti di noi effettivamente possiedono. Il mondo criminale è composto da professioni molto distinte. Esiste il crimine professionale delle grandi organizzazioni criminali, esiste il crimine professionale dei piccoli ladri, dei piccoli rapinatori, accomunati dall’arte di arrangiarsi, dei piccoli spacciatori (anche che sono inseriti in un circuito criminale non ne sono l’anima, non abitano i piani alti). Esistono poi gli affascinanti crimini commessi dalle persone normali ed è ciò che può catturare ciascuno di noi e portarlo sulla cattiva strada, portarlo a commettere qualcosa di irreparabile che si inserisce come una rottura all’interno di esistenze altrimenti ordinarie. Un campo di investigazione molto studiato da uno scrittore come Georges Simenon, per esempio. Nelle sue opere le figure di criminali professionisti sono rare, abbondano invece quelle della persona normale che scivola nell’abisso.
In un’intervista di qualche tempo fa lei diceva che c’era stato un cambiamento radicale: ai tempi di “Romanzo Criminale” era il crimine a sognare la normalità, oggi siamo invece in una realtà in cui il crimine in un certo senso è diventato attraente. Ci può spiegare come è avvenuto questo passaggio?
Non so esattamente come sia avvenuto, però a un certo punto ho notato che alcune grandi serie, alcune grandi narrazioni come “La casa di carta”, o ancora peggio “Succession”, abbiano iniziato a mostrare con compiacimento la crudeltà del potere. Ce la raccontano come una via sicura per il successo. Molti provano interesse, se non addirittura attrazione, per questo tipo di condotta. Dopo aver scritto “Romanzo Criminale” mi è stato spesso rimproverato di aver trasformato dei delinquenti in eroi. Solo che il rimprovero vale soltanto quando sono dei criminali di strada, quando è alta politica, quando sono grandi capitani d’industria, quando le peggiori bastardate le fanno le persone insospettabili, questo diventa fonte di ammirazione. Questa grande differenza era un po’ quello che volevo sottolineare. Un tempo la linea di demarcazione tra noi e loro era molto più netta, esteticamente e antropologicamente. Adesso molti di questi steccati sono venuti meno e le persone normali, quelle che tendenzialmente non sono portate al crimine, hanno assunto dei comportamenti e delle condotte troppo simili a quelle del mondo criminale.
In questo approfondimento di Forward Sandro Galea, medico epidemiologo, sostiene che sebbene dobbiamo continuare a lavorare intensamente per contrastare comportamenti e abitudini “degli altri” che ci trovano in disaccordo dovremmo sempre mostrare rispetto per le scelte altrui (vedi pp. 18-19). Anche perché, dice Galea, un mondo in cui tutti avessero le nostre abitudini (o condividessero il nostro punto di vista) sarebbe un mondo assolutista e non dovremmo augurarcelo. Si trova d’accordo con quello che dice Galea?
Un tema di una portata assolutamente enorme e non so quanto si possa adattare al rapporto tra legge e criminalità, perché lì vanno messi dei paletti molto precisi, deve essere fissata una linea di demarcazione oltre la quale un certo comportamento è reato. A fissare questo tipo di linea di demarcazione provvedono le leggi e le leggi, come le conosciamo oggi, sono il frutto di un’elaborazione di pensiero millenaria. Le costituzioni non sono nate dalla sera alla mattina: la loro creazione ha richiesto sacrifici anche in termini di vite spese, persone bruciate sul rogo, battaglie culturali e battaglie vere e proprie, con morti e feriti, ci hanno condotto dal Codice di Hammurabi al cilindro di Ciro, sino alle moderne costituzioni, passando per l’assolutismo monarchico e poi infine per le democrazie, oggi abbastanza minacciate. Quindi, in linea teorica, il rispetto dell’abitudine e del comportamento altrui mi pare una giusta ambizione, ma nel campo della legge operano regole specifiche, dello Stato di diritto, e che mettono fuorilegge alcuni comportamenti ed è giusto che sia così.
Vuole suggerire libri o lm che l’hanno ispirata di recente?
Sicuramente al cinema non mi perderei “Parthenope” di Paolo Sorrentino, un’opera d’arte frutto di una mente geniale, è imperfetta e in questa imperfezione si annida una diversità che merita di essere coltivata. Per quanto riguarda i libri sono molto attratto dalle scritture contemporanee, quindi consiglierei l’ultimo di Donato Carrisi, “La casa dei silenzi” (Longanesi, 2024), e l’ultimo di Antonio Manzini, “Il passato è un cadavere senza corpo” (Sellerio, 2024).
A cura di Giada Savini
Giancarlo De Cataldo
Per questi motivi. Autobiogra a criminale di un Paese
Milano: SEM, 2024 In
Abitùdine s. f. [dal lat. habitudo -dĭnis, der. di habĭtus -us «abito»]. 1. ant. Disposizione o costituzione naturale, struttura: a. del corpo, dell’animo; ogni corpo umano aver la sua particolare a. (Bentivoglio). 2. a. Tendenza a ripetere determinati atti, a rinnovare determinate esperienze (per lo più acquisita con la ripetizione frequente dell’atto o dell’esperienza stessa): avere, prendere, contrarre, perdere un’a.; una buona, una cattiva, una pessima a.; a. naturale, inveterata; essere affezionato alle proprie a.; staccarsi dalle proprie abitudini. Con accezione partic., fare l’a. a qualche cosa, avvezzarcisi al punto da non avvertirne più la presenza o gli effetti soggettivi piacevoli o spiacevoli: è un rumore che da principio dà fastidio, ma poi si finisce col farci l’abitudine. b. Nel linguaggio filos. e giur., disposizione stabile, costante modo di essere e di operare. c. Nella teologia morale, a. del peccato (o peccato d’a.), qualità stabile di chi, avendo volontariamente contratto un vizio morale (per es., di bestemmiare), ricade spesso e con facilità nel peccato. d. Uso continuato o frequente di qualche cosa: a. a un cibo; a. al fumo, all’alcol; fare l’a. a un farmaco (con sign. affine, ma meno specifico, a quello di assuefazione); a. alla droga, lo stato risultante dall’assunzione ripetuta di una sostanza stupefacente, che determina il bisogno di prolungarne l’uso, provocando nello stesso tempo (come nel mitridatismo) un processo di adattamento dell’organismo nei suoi confronti. 3. In medicina, a. sensoriale, fenomeno d’ordine neurofisiologico consistente nell’abolizione della risposta propria di un determinato stimolo, dovuta alla ripetizione dello stimolo stesso.