Un progetto dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Provincia di Torino
Un dialogo aperto sulla deontologia medica oggi
Sportello DAT: liberi di scegliere fino alla fine?
Ambiente e salute: il ruolo dei medici del territorio
Cura medici: anche i medici sono pazienti
1| 2023
Sommario
3
Quando guardare il mare è ispirazione del pensiero Guido Giustetto
IL PUNTO SUL CODICE DEONTOLOGICO
6
Il ruolo della deontologia medica Elisabetta Pulice
11
Dall’etica medica alla deontologia medica
Sara Patuzzo 14 Le regole e il buon medico Sandro Spinsanti
16 Riscrivere il codice deontologico medico Intervista a Giuseppe Gristina
17
Per una deontologia dell’incertezza
Giuseppe Parisi
22
La deontologia all’alba dell’intelligenza artificiale
Antonio Panti
25
DAT: liberi di scegliere, liberi fino alla fine
Giuliano Bono
Marco Vergano
27
Inquinamento atmosferico e salute: il ruolo delle cure di prossimità
Paolo Lauriola
Roberto Romizi
Claudio Lisi
31 Inquinamento da microplastiche e salute
Annamaria Moschetti
Annamaria Sapuppo
Giacomo Toffol
Elena Uga
35
Questo lavoro potrebbe davvero uccidermi
Adam Cifu
38
Il primo turno notturno...
“I’m so lonesome tonight”
Michela Chiarlo
42
Come fai a non sentirti solo?
Vittorio Fontana
44
LETTURE
Stella Maris: una stella polare mancata?
Luciano De Fiore
46
LESSICO DI BIOETICA Triage
Marco Vergano
ANNO I, NUMERO 1
GENNAIO-MARZO 2023
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Guido Giustetto
Direttore editoriale
Rosa Revellino
Comitato redazionale
Gianluigi D’Agostino, Venera Gagliano, Andrea Gatta, Guido Regis, Angelica Salvadori, Emanuele Stramignoni, Rosella Zerbi.
Laura Tonon e Celeste De Fiore (Il Pensiero Scientifico Editore)
Collaboratori: Giulia Annovi, Viola Bachini, Luciano De Fiore, Alessandro Magini
Comitato editoriale
Marco Bobbio, Michela Chiarlo, Giampaolo Collecchia, Lucia Craxì, Fabrizio Elia, Elena Gagliasso, Libero Ciuffreda, Giuseppe Gristina, Roberto Longhin, Giuseppe Naretto, Luciano Orsi, Elisabetta Pulice, Lorenzo Richiardi, Massimo Sartori, Vera Tripodi, Marco Vergano, Paolo Vineis Consiglio direttivo dell’OMCeO di Torino Guido Giustetto (presidente), Guido Regis (vicepresidente), Rosella Zerbi (segretaria), Emanuele Stramignoni (tesoriere), Domenico Bertero, Patrizia Biancucci, Tiziana Borsatti, Vincenzo Michele Crupi, Gianluigi
D’Agostino (presidente CAO), Riccardo Falcetta, Riccardo
Faletti, Gilberto Fiore, Ivana Garione, Aldo Mozzone, Fernando Muià, Angelica Salvadori, Renato Turra, Roberto Venesia
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Si è conclusa da poco la rassegna di incontri “Facciamo il punto. Scelte scomode e diritti” che ha visto un’ampia partecipazione di pubblico, tra cui molti professionisti sanitari, coinvolti e interessati ad una trattazione tematica proposta con un taglio interdisciplinare, dialettico e talvolta anche eccentrico. Un excursus che ha sollecitato domande, dubbi e messo a fuoco possibili scenari di cambiamento su molti argomenti. Dal tema dell’aborto e dei diritti inviolabili, del l’impatto ambientale e della consapevolezza civica a quello dell’intelligenza artificiale, passando attraverso il fine vita e la comunicazione tra medico e paziente. Con questa iniziativa il nostro Ordine ha voluto aprire ad un pubblico più esteso il
dibattito su una serie di temi di grande importanza, il cui approfondimento resta ancora spesso limitato agli addetti ai lavori. L’obiettivo è stato incentivare il confronto e ricevere contributi utili, attraverso l’intervento di relatori esperti e qualificati nei rispettivi ambiti, senza cadere in un approccio ideologico e parziale.
Il titolo del primo incontro è un esempio del tono di voce che abbiamo scelto: “Aborto ancora una scelta per le donne?” che sottintende una “scelta possibile, libera”. Cosa significa limitare questa libertà sul piano della salute individuale e collettiva? A cosa espone le donne non avere più scelta sul loro corpo e la loro vita? Scegliere molte volte vuol dire affrontare un conflitto interiore, confrontarsi con la propria autonomia, in modo indipendente da influenze esterne – come condizionamenti e imposizioni da parte di altre persone fisiche o giuridiche – ma anche in modo libero da influenze interne che possano compromettere il normale processo decisionale di un individuo, ad esempio emozioni come la paura o impedimenti cognitivi. E che, in qualche modo, disperdono anche la ricerca della propria verità.
Quando guardare il mare è ispirazione del pensiero
Ci siamo poi avvicinati al tema coinvolgente e difficile del fine vita. Un momento del l’esistenza che tocca libertà individuali, dignità delle persone, diritto alla salute e che da anni è oggetto di dibattito pubblico e battaglie anche in sede giudiziaria. Ma sul quale tuttora non c’è sufficiente chiarezza nemmeno per quanto riguarda i termini utilizzati. Fine vita, sospensione delle cure, sedazione profonda, suicidio assistito, eutanasia: siamo partiti dalle parole e dal loro reale significato, per comprendere meglio e fornire gli strumenti più adatti, alla luce delle modifiche legislative e delle pronunce avvenute negli ultimi anni.
Nel nostro percorso di dibattito ci siamo poi chiesti: i robot sono destinati a sostituire i medici?
L’intelligenza artificiale è in grado di effettuare diagnosi in maniera più efficiente rispetto ai professionisti? Quali sono i rischi? E il rapporto medico-paziente come verrà modificato? I progressi tecnologici applicati alla pratica assistenziale portano con sé delle potenzialità evidenti (ad esempio, nella precisione clinica e nella riduzione degli errori), ma allo stes-
Guido Giustetto Presidente OMCeO Torino Direttore scientifico ilpunto.it* Il titolo trae ispirazione dal libro La mente estatica di Elvio Fachinelli (Milano: Adelphi, 1989).
Per ritrovare gli articoli e i video di cui si parla in queste pagine si può scansionare il codice qr.
I molti punti di vista per una mente dinamica*
so tempo sono accompagnati da criticità e questioni etiche: dai dubbi sui dati utilizzati per alimentare i sistemi, al rischio di sviluppare una dipendenza dai sistemi stessi che possa portare alla de-responsabilizzazione se non alla riduzione delle competenze dei professionisti che impiegano l’intelligenza artificiale. Cos’è che fa apparire una macchina un soggetto intelligente? E quell’intelligenza in cosa si differenzia da quella umana? Per rispondere a queste domande ci siamo addentrati negli aspetti etici e deontologici dell’applicazione dell’intelligenza artificiale nel campo della salute, dal tema della responsabilità di un eventuale errore decisionale a quello del tipo di informazione da dare al paziente, alle possibili discriminazioni che i sistemi automatizzati possono creare in gruppi di persone e tra medici.
Abbiamo poi trattato il rapporto fra ambiente e salute e le strategie per preservare entrambi. Ci sono infatti fenomeni evidenti e ben conosciuti, come l’aria che si respira nelle città inquinate, i cui effetti nocivi sono da anni oggetto di studi e approfondimenti. E ci sono i danni, non sempre immediati e prevedibili ma potenzialmente drammatici, che il cambiamento climatico nel suo complesso può provocare sulla nostra salute, met-
tendo a rischio la biodiversità, le specie animali e vegetali, e in definitiva l’attività e la vita umana. Questo tema è stato esaminato da vari punti di vista, dalle conseguenze del riscaldamento globale sulle persone, fino – in senso opposto e paradossale – all’impatto negativo che a loro volta le attività dei sistemi sanitari possono avere, pur nel loro obiettivo di cura, nel contribuire all’emissione di CO2 in atmosfera. Ad esempio, una singola macchina per la risonanza magnetica che lavori per un anno mediamente produce una quantità di CO2 corrispondente all’inquinamento prodotto da un’auto che viaggi per 500mila chilometri. Un aspetto che pone l’accento, da un lato, sull’importanza di contenere le prestazioni mediche inappropriate (si stima siano circa il 20-30 per cento del totale), dall’altro sull’esigenza non di studiare ma di pensare sistemi sanitari e attività di ricerca con il minor numero possibile di emissioni.
Ultimo tema, e forse uno dei più sentiti dai cittadini: la comunicazione tra medico e paziente. Secondo alcuni studi molto discussi in media noi medici interrompiamo l’esposizione dei sintomi da parte dei pazienti dopo appena 22 secondi. Eppure la parola è uno strumento importante per la relazione di cura e lo stes-
so Codice deontologico della professione medica sottolinea come il tempo della comunicazione sia tempo di cura. Ma questo tempo è sempre meno a disposizione dei medici, stretti fra carico amministrativo, un numero sempre più elevato di pazienti da seguire con rigidi tempi da rispettare. Nella medicina contemporanea c’è ancora spazio per la comunicazione? Come si può usare in modo efficace il tempo disponibile? E il paziente può imparare a raccontarsi e a farsi capire meglio dal medico? La relazione tra medico e paziente si fonda, soprattutto all’inizio, proprio sulla comunicazione, sulle parole che ci si scambia durante l’incontro. È lo strumento che, insieme all’esame clinico, avvicina le due persone, molto più di una richiesta di esami o di una prescrizione di farmaci che oltretutto, per l’aumento della burocrazia, sottraggono sempre più tempo all’incontro. Se continueremo a limitare e a ignorare questo aspetto della medicina, si perderà una delle sue risorse più efficaci per la cura.
La partecipazione attiva del pubblico ha confermato quella che oggi sembra essere un’esigenza antropologica urgente: ritrovare la confidenzialità con chi è preposto alla nostra cura.
Chi ha frequentato qualche articolo o video della nostra rivista digitale (www.ilpunto. it) avrà anche visto il jingle che caratterizza tutta la comunicazione del progetto. Lo abbiamo costruito rileggendo e soffermandoci su alcuni dei molti modi con cui l’espressione “il punto” è utilizzata nella lingua italiana. Se pensiamo al progetto che proprio con questo nome l’Ordine ha voluto avviare lo scorso anno, potremmo aggiungere un’altra occorrenza, non meno importante di quelle segnalate nella clip: punto di ritrovo. È questo il senso delle diverse collaborazioni che la Direzione del progetto ha pensato di avviare con altri gruppi di lavoro, associazioni e società scientifiche. Pensiamo per esempio ai contributi curati dall’Associa-
zione medici per l’ambiente (Isde) che chi ci segue ha già avuto modo di apprezzare (vedi pp. 27-30).
Con questo numero della rivista si avvia ora un nuovo e importante percorso di collaborazione con l’Associazione culturale pediatri (Acp), guidata da Michele Gangemi, direttore della rivista Quaderni acp, per cercare insieme di rispondere ad alcuni degli interrogativi della salute, della sanità e della cura del nostro tempo. Da molti anni, infatti, anche l’Acp si interroga sui temi della comunicazione dialogante con i genitori e con il bambino, della riduzione e della prevenzione delle disuguaglianze nelle politiche sanitarie e nell’accesso alle cure, dell’importanza degli interventi “nei primi mille giorni” per costruire il benessere dell’adulto attraverso la crescita del bambino nell’ambiente, dei conflitti di interesse. Ancora, l’impegno di “Pediatri per un mondo possibile” che proprio nell’ambito dell’Acp hanno trovato il terreno più fertile per costruire e disseminare conoscenze sulle relazioni tra ambiente e salute. In queste pagine ospitiamo un primo loro articolo sull’inquinamento da microplastiche e salute: cosa ne sappiamo e cosa può fare il pediatra (vedi pp. 31-34).
Il progetto “il punto” è aperto al “contagio”: delle buone idee, delle opportune provocazioni, delle sfide che vanno raccolte. Per questo vogliamo andare oltre logiche di polarizzazione o atteggiamenti autoreferenziali per coltivare e promuovere concretamente quell’idea di mente dinamica che quasi ci riporta all’apex mentis, l’apice della mente secondo la definizione medioevale: una sorta di massima espressione del pensiero che riflette su sé stesso. y
La partecipazione attiva del pubblico ha confermato quella che oggi sembra essere un’esigenza antropologica urgente: ritrovare la confidenzialità con chi è preposto alla nostra cura
Un dialogo aperto sulla deontologia medica oggi
llpunto.it ha deciso di avviare una riflessione su come la deontologia e il codice deontologico possano essere strumenti al servizio dei medici, della società e delle istituzioni alla luce delle nuove sfide che gli sviluppi tecnico-scientifici, i mutamenti socioculturali e giuridici pongono all’attività e al ruolo del medico e della medicina.
Come spiega Elisabetta Pulice, ricercatrice del Laboratorio dei diritti fondamentali di Torino e del Gruppo BioDiritto dell’Università di Trento, “una deontologia autenticamente aperta alla pluralità di diritti e istanze in gioco non può non considerare la dimensione dinamica della sua funzione di guida per i professionisti e, con essa, l’importanza di strumenti di costante riflessione e, ove necessario, riforma delle sue norme per renderle adeguate alla complessità di tali sfide”.
La serie di articoli viene introdotta da un approfondimento su qual è lo spazio che deontologia e codice deontologico occupano rispetto al diritto e rispetto all’etica medica, per poi aprire un dialogo a più voci sull’evoluzione dell’agire del medico tra diritti e istanze morali in relazione agli ai cambiamenti organizzativi e sociali.
Da alcuni decenni la deontologia medica ha assunto crescente attenzione non solo “interna”, ma anche – e forse in maniera più significativa – “esterna” alla categoria professionale di riferimento.1 Si tratta di un fenomeno che caratterizza vari Paesi europei e si unisce alla più generale attenzione alla “codificazione dell’etica” in molti ambiti professionali.2 In questa prospettiva, la deontologia medica e, in particolare, il codice deontologico presentano caratteristiche peculiari in ragione del ruolo che possono (e dovrebbero) svolgere a tutela dei diritti e delle posizioni morali sulle quali incide l’attività medica.
Proprio dall’evoluzione che ha portato il Codice di deontologia medica (Cdm) a “uscire” da una, non più sostenibile, dimensione di mera regolamentazione dei rapporti interni alla categoria per occuparsi – parallelamente all’evoluzione della bioetica3 – (anche) di diritti fondamentali e di questioni eticamente sensibili discendono la crescente attenzione dell’ordinamento giuridico ai suoi contenuti e al
Il ruolo della deontologia medica
Elisabetta Pulicesuo ruolo e, quindi, le reciproche interazioni tra deontologia e diritto.4
La (possibile) natura giuridica del codice deontologico
Il Cdm, per sua stessa definizione (art. 1), identifica le “regole, ispirate ai principi di etica medica, che disciplinano l’esercizio professionale”, che il medico “deve conoscere e rispettare” e che ne “regola anche i comportamenti assunti al di fuori dell’esercizio professionale quando ritenuti rilevanti e incidenti sul decoro della professione”. Il dovere si estende agli indirizzi applicativi allegati che, insieme al giuramento professionale, sono parte costitutiva del codice stesso.
Ma qual è il rapporto tra la deontologia medica, così come razionalizzata nel Cdm, e il diritto? La risposta a questa domanda è particolarmente complicata nell’ordinamento italiano poiché, nonostante alcune precisazioni della cosiddetta legge Lorenzin, non esiste una norma che definisca, come avviene in altri ordinamenti europei, la natura giuridica del Cdm.
PER APPROFONDIRE
La natura giuridica dei Cdm in prospettiva comparata
In alcuni ordinamenti europei la forma giuridica assunta dal Cdm è definita dalla legge. In Francia, ad esempio, per espressa previsione legislativa il Cdm è elaborato e approvato dal Consiglio nazionale degli ordini dei medici nella forma di una specifica fonte del diritto: il décret en Conseil d’Etat, ossia un decreto per il quale è obbligatorio il parere del Consiglio di Stato. Il Cdm viene infatti pubblicato sul Journal Officiel (l’equivalente funzionale della Gazzetta Ufficiale) e dal 2004 è integrato in un codice statale, il Code de la Santé Publique. Similmente, in Germania il codice deontologico elaborato dalla categoria professionale diventa una specifica fonte del diritto (Satzung) la cui adozione è affidata dalla legge alle camere professionali.5
Bibliografia
Pulice E. La deontologia come fonte del diritto. La codificazione dell’etica medica in Francia, Germania e Italia, in Diritto Pubblico Comparato ed Europeo, 3, 2017; Moret-Bailly, Les déontologies, cit.; Cabrol V. La codification de la déontologie médicale, in «Revue générale de droit médical», 16, 2005, pp. 103-123; R. Ratzel et al., Kommentar zur Musterberufsordnung der deutschen Ärzte [MBO], Berlin-Heidelberg, Springer, 2018.
In Italia, quindi, il suo valore giuridico deve essere ricostruito attraverso le varie forme di rilevanza che le norme deontologiche, o la loro violazione, hanno sul piano dell’ordinamento giuridico.
La tutela di interessi pubblici e la responsabilità disciplinare Non è possibile essere esaustivi in questa sede, ma un primo elemento da considerare dal punto di vista giuridico sono il dovere di vigilanza sul decoro e l’indipendenza della professione e la potestà disciplinare affidati agli ordini delle professioni sanitarie dalla normativa che ne ha disciplinato la ricostruzione nel secondo dopoguerra.5 Su queste funzioni si basa l’elaborazione del Cdm, benché fino alla legge Lorenzin non fosse espressamente nominato. Le sanzioni per violazione delle norme del Cdm sono definite da una fonte statale6 e incidono sulla vita professionale degli iscritti. Le conseguenze sanzionatorie per violazione del codice rap-
Una riflessione in prospettiva giuridica
presentano, quindi, una sua diretta forma di rilevanza giuridica.
È bene ricordare che, alla luce della Costituzione del 1948 e della giurisprudenza costituzionale, tali poteri e funzioni degli ordini sono preordinati al raggiungimento e alla tutela di fini pubblici. Secondo la Corte costituzionale, tra l’altro, proprio la tutela di interessi pubblici giustifica la limitazione della cosiddetta libertà “negativa” di associazione (ossia la libertà di non associarsi)7 derivante dall’obbligo di iscrizione agli ordini professionali.8
Come recentemente ribadito dalla Consulta in una pronuncia sul conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato (nel caso di specie tra l’Ordine professionale di Bologna e la Regione Emilia-Romagna9), gli ordini sono enti pubblici non economici sussidiari dello Stato, le cui funzioni sono espressamente ricondotte dalla Corte alla sfera di competenza statale. Più precisamente, gli ordini sono “organismi associativi a partecipazione obbligatoria cui il legislatore statale ha affidato poteri, funzioni e prerogative, sottoposti a vigilanza da parte di organi dello Stato, preordinati alla tutela di interessi di rilievo costituzionale”.10
Ne emerge quindi un elemento significativo nella ricostruzione dei rapporti tra diritto e deontologia, e tra Stato e professione, che caratterizzano il Cdm: la tutela di beni di rango costituzionale.
Dai profili di responsabilità ai diritti fondamentali
Con specifico riferimento alla natura giuridica delle norme deontologiche, in assenza di una definizione legislativa è interessante richiamare l’evoluzione della giurisprudenza della Corte di Cassazione. Dopo un primo orientamento in base al quale le norme deontologiche erano “precetti extra-giuridici ovvero regole interne alle categorie e non già [...] atti normativi”,11 la Corte ha modificato la sua giurisprudenza definendo le norme deontologiche “norme giuridiche vincolanti nell’ambito dell’ordinamento di categoria” e
specificazione delle clausole generali contenute nella legge professionale,12 fino ad arrivare al principio giuridico pronunciato nel 2007 dalle Sezioni Unite, secondo il quale le norme deontologiche sono “fonti normative integrative di precetto legislativo [...] interpretabili direttamente dalla corte di legittimità”.13 Va però ricordato come tale giurisprudenza non sia uniforme, a dimostrazione delle incertezze che ancora caratterizzano il modello italiano.14
Ciò nonostante, il ruolo di integrazione delle fonti di disciplina dell’attività medica che le norme deontologiche possono svolgere rappresenta un’ulteriore forma di rilevanza del Cdm sul piano dell’ordinamento giuridico. Le norme deontologiche possono rappresentare, infatti, parametri
PER APPROFONDIRE
La legge Lorenzin, il ruolo degli ordini professionali e il Cdm
Le disposizioni della legge n. 3 del 2018 che più interessano gli ordini, il codice deontologico e la responsabilità disciplinare sono contenute nella parte relativa al riordino delle professioni sanitarie. L’articolo 4 definisce gli ordini e le relative federazioni nazionali come “enti pubblici non economici che agiscono quali organi sussidiari dello Stato al fine di tutelare gli interessi pubblici, garantiti dall’ordinamento, connessi all’esercizio professionale”. Ne precisa gli obiettivi, le funzioni nonché i profili di autonomia: patrimoniale, finanziaria, regolamentare e disciplinare. Nomina espressamente l’approvazione ed emanazione del codice deontologico tra i compiti delle federazioni nazionali; richiama il ruolo del codice deontologico nell’indicazione dei diritti umani e dei principi etici dell’esercizio professionale la cui salvaguardia dev’essere promossa e assicurata dagli ordini, unitamente all’indipendenza, all’autonomia, alla responsabilità, alla qualità tecnico-professionale e alla valorizzazione della funzione sociale della professione. Infine, la legge precisa alcuni principi in materia di procedimento disciplinare tra i quali la graduazione delle sanzioni correlata alla volontarietà della condotta, alla gravità e reiterazione dell’illecito. A dimostrazione delle inevitabili interrelazioni tra normativa deontologica e altre discipline previste dall’ordinamento giuridico, la legge stabilisce che nell’irrogare le sanzioni gli ordini debbano tenere conto anche degli obblighi a carico dei professionisti derivanti dalla normativa nazionale e regionale vigente e dalle disposizioni contenute nei contratti e nelle convenzioni nazionali di lavoro.
di valutazione delle condotte del professionista, nei giudizi di responsabilità sia civile sia penale. Ne sono un esempio l’individuazione giudiziale della condotta conforme ai principi di correttezza e diligenza professionale o la possibilità, riconosciuta da parte della dottrina, di considerare le regole deontologiche di natura cautelare come “discipline” la cui violazione è fonte di colpa penale ai sensi dell’art. 43 del codice penale.15
A differenze della responsabilità disciplinare, queste forme di rilevanza del Cdm sono quindi mediate dal riferimento ad altre norme, princìpi, clausole dell’ordinamento giuridico.
Va infine sottolineato come il menzionato legame tra Cdm e diritti fondamentali abbia portato la giurisprudenza a riconoscere il ruolo della deontologia e delle istituzioni ordinistiche nel tutelare i diritti costituzionali del paziente, anche in questioni controverse sul piano non solo etico e professionale, ma anche giuridico [per alcuni casi esemplificativi, vedi nota16]. Tale rilevanza della deontologia è spesso legata alla valorizzazione e tutela dei principi di autonomia e responsabilità professionale. Proprio questo aspetto ha permesso al Cdm di assumere la citata attenzione nei dibattiti pubblici, potendo unire alle tradizionali funzioni delle discipline
deontologiche inediti ruoli come possibile fonte del (bio)diritto in ambiti in cui il dialogo con la componente tecnico-scientifica ed etico-professionale sono essenziali per il diritto. y
Note bibliografiche
1 Le considerazioni contenute nel presente contributo si basano sul lavoro di tesi di dottorato in cotutela italo-francese dell’autrice: Il ruolo della deontologia medica nel sistema delle fonti del diritto: un’analisi comparata. Le rôle de la déontologie médicale dans les sources du droit: analyse comparée, TrentoNanterre, 2014 in corso di aggiornamento e pubblicazione in E. Pulice, Deontologia e diritto. Modelli comparati, criticità e prospettive in ambito biomedico, Napoli. Cfr. inoltre, Ferrero L, Pulice E, Vargas C, Pluralismo etico e conflitti di coscienza nell’attività ospedaliera, volumi I e II, Bologna, 2021, pp. 18 e ss.
2 Alla codificazione dell’etica come un “fenomeno del nostro tempo” faceva già riferimento, ad esempio, Bernardo G. Mattarella in Le regole dell’onestà, Etica, politica, amministrazione, Bologna, 2008, p. 139. All’“emergenza deontologica” è significativamente intitolato un volume di Claudio Sartea, L’emergenza deontologica, Contributo allo studio dei rapporti tra deontologia professionale, etica e diritto, Roma, 2009, ma il fenomeno è ripreso da molti altri autori in diversi ambiti dell’etica professionale. Per quanto riguarda la deontologia medica, si vedano, ad esempio: Quadri E, Codice di deontologia medica, in Alpa G, Zatti P, Codici deontologici e autonomia privata, Milano, 2006. In prospettiva comparata, il tema è stato affrontato, ad esempio, in Moret-Bailly J, Les déontologies, Aix-en-Provence, 2001 e più recentemente in Moret-Bailly J e Truchet D, Droit des déontologies, Paris, 2016.
3 Interessante da questo punto di vista l’evoluzione descritta in Benciolini P, La deontologia dai galatei ai codici deontologici, in La professione. Medicina scienza etica e società, 2010, p. 261.
4 Cfr., ad esempio, Quadri E, Il codice deontologico medico ed i rapporti tra etica e diritto, in Responsabilità civile e previdenza, 2002, p. 925 e Id., Codice di deontologia medica, cit., Iadecola G, Le norme della deontologia medica: rilevanza giuridica ed autonomia di disciplina, in Rivista Italiana di Medicina Legale, 2, 2007.
5 D.Lgs.C.P.S. 13 settembre 1946, n. 233.
6 Si veda l’art. 40, D.P.R. 5 aprile 1950, n. 221 oltre a quanto precisato in merito alla legge n. 3 del 2018. Per un approfondimento sui rapporti tra Stato e ordini professionali, anche con riferimento al procedimento disciplinare, cfr. nota n.1.
7 Libertà derivante dall’art. 18 della Costituzione “I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale”.
8 Cfr., ad esempio, Corte costituzionale, sentenze n. 69 del 1962, e nn. 11 e 98 del 1968.
9 La controversia è scaturita dal caso della radiazione di un assessore regionale. Per un approfondimento dei profili deontologici si permetta il riferimento all’articolo: Gristina G, Pulice E. Il sistema sanitario di emergenza italiano tra prove e rischi di corporativismo: il “caso Bologna”. Part I: Le prove / Parte II: Deontologia e diritto. Recenti Prog Med 2019; 110: 168-87.
10 Corte costituzionale, sentenza n. 259 del 2019.
11 Cass. Sez. III civ. 10 febbraio 2003, n. 1951.
12 Cass., sentenza n. 8225 del 6 giugno 2002; Cass., Sez. Unite, sentenza n. 5776 del 23 marzo 2004 e Sez. III civ., sentenza n. 13078 del 14 luglio 2004.
13 Cass. civ. Sez. Unite, sentenza n. 26810 del 20 dicembre 2007.
14 In una sentenza del 2013, richiamata anche dalla Corte costituzionale (sent. n. 180 del 2018), la Corte di Cassazione ha, ad esempio, negato il “carattere normativo” del codice deontologico (Cass. civ. Sez. Unite, sent. n. 15873 del 25 giugno 2013 e Cass., Sez. III, sentenza n. 19246 del 29 settembre 2015).
15 Cfr., ad esempio, Brusco C. La responsabilità sanitaria civile e penale. Orientamenti giurisprudenziali e dottrinali dopo la legge Gelli-Bianco. Torino: Giappichelli, 2018. pp. 56 ss. e p. 63; Angioni F. Il nuovo codice di deontologia medica, in Criminalia, 2, 2007, pp. 277-289; Caputo M, Colpa penale del medico e sicurezza delle cure, Torino, Giappichelli, 2017.
16 A titolo meramente esemplificativo, il Cdm è citato nella ricostruzione del quadro normativo di riferimento nella sentenza della Corte di Cassazione nel caso Englaro (sentenza n. 21748 del 2007) e in altre sentenze, non solo di legittimità, in tale ambito. Tra le sentenze della Corte costituzionale italiana, si pensi, ad esempio, al riferimento all’autonomia e responsabilità del medico e ai “poteri di vigilanza sull’osservanza delle regole di deontologia professionale, attribuiti agli organi della professione” a presidio dei diritti fondamentali della persona di cui alla sentenza n. 282 del 2002 con cui la Corte ha sindacato la discrezionalità legislativa in rapporto alle acquisizioni scientifiche e sperimentali o al riferimento alla deontologia nella valutazione della legittimità costituzionale le disposizioni del d.l. n. 78 del 2015 recanti indicazioni di appropriatezza prescrittiva (delle prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale) e le relative condizioni di erogabilità nella sentenza n. 169 del 2017.
Dall’etica medica alla deontologia medica
Come definire cosa è “giusto”?
Etica ed etica medica
L’etica è quella parte della filosofia, chiamata filosofia morale, che individua e giustifica in modo razionale i principi volti a individuare ciò che è bene e ciò che è male. Essa nasce nell’epoca greco-classica con Aristotele, che per primo distingue la filosofia meramente astratta e speculativa dalla quella “pratica” (l’etica), finalizzata a orientare il comportamento nella vita di tutti i giorni.1
Anche se in fondo ognuno di noi non necessita di essere un esperto in etica per operare riflessioni morali, quella dell’etica è una disciplina con la sua storia e la sua letteratura, il proprio linguaggio specifico e i propri metodi di indagine che, a seconda delle caratteristiche, possono modificare anche notevolmente la valutazione morale. Ad esempio, se aderiamo all’etica “deontologica” ciò che conta sono le intenzioni (la valutazione morale è quindi operata “ex ante”, prima dell’azione), mentre nel caso dell’etica “consequenzialista” sono le conseguenze (la valutazione morale è quindi operata “ex post”, dopo l’azione). Oppure, entro l’“assolutismo” o “universalismo” etico i principi di bene e male sono assoluti (validi indipendentemente dal contesto specifico nel quale ci si trova) e universali (validi per tutti, sempre e dovunque), mentre per il “relativismo” etico i giudizi morali dipendono dalla circostanza particolare, dal singolo individuo, dall’epoca storica e dalla società nella quale si è inseriti. Ancora, mentre la teoria etica del “deduttivismo” parte dalla teoria per arrivare al giudizio morale particolare, e quella dell’“induttivismo” parte dal giudizio morale particolare per arrivare alla teoria, il “coerentismo” o “equilibrio riflessivo” parte sia dalla natura ponderata e bilanciata dei giudizi morali particolari per arrivare alla teoria, sia viceversa. Infine, ma non ultimo, l’etica può essere descrittiva, ovvero indirizzata a registrare i comportamenti più diffusi e, da questi, stabilire i principi di bene e male, oppure normativa, dove i giudizi morali non corrispondono necessariamente alle abitudini e alle tradizioni.
Proprio come l’etica, anche l’etica medica è una disciplina con un proprio settore di studio e un proprio ambito di applicazione: essa studia e individua i giudizi volti a indicare ciò che è bene e ciò che è male nel contesto medico. Nelle sue origini l’etica medica si ascrive all’antichità classica, ma solo in tempi recenti la comunità scientifica internazionale è giunta a stabilizzare i suoi principi in quattro fondamentali: beneficenza, non maleficenza, autonomia,
Deontologia e deontologia medica
giustizia ed equità.2 Ciononostante gli studiosi di etica medica non cessano di dibattere sul loro profondo significato, sia per quanto riguarda la loro declinazione discorsiva (a), sia per quanto attiene al loro ordine di importanza (b).
a. Ad esempio, il principio di beneficenza viene normalmente descritto con il dovere del medico di fare il bene del suo paziente. Ma cosa significa “bene”? Forse bene dal punto di vista clinico? Questo dovere è assoluto oppure ha delle eccezioni? Se sì, quali? Oppure, il principio di autonomia indica il dovere del medico di rispettare l’autodeterminazione della persona, il diritto del medico alla propria indipendenza professionale o entrambi?
b. Sempre a titolo di esempio, in caso di conflitto tra il principio di beneficenza, inteso come dovere del medico di fare il bene clinico della persona, e quello di autonomia, inteso come diritto di questa a prendere le decisioni che la riguardano in tema di salute, quale prevale e perché?
Una volta individuati i principi etici, si articolano le regole di condotta: dall’etica (ciò che è bene e ciò che è il male) discende la deontologia (ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, i doveri e i divieti nel comportamento). Sul piano storico, il termine “deontologia” si deve al filosofo inglese Jeremy Bentham,3 che lo utilizza per indicare “ciò che deve essere fatto” al fine di raggiungere la felicità per il maggior numero di persone (etica “utilitaristica”). Così come dall’etica deriva la deontologia, dall’etica medica (ciò che è bene e ciò che è male nel contesto medico) deriva la deontologia medica (ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, i doveri e i divieti per i medici nella loro professione). Storicamente la deontologia medica è attribuita al medico francese Maximilien Simon,4 con alcuni precedenti in Scozia,5 Spagna6 e Germania.7 Tuttavia, antichi tentativi di declinare i giusti comportamenti del medico si possono rintracciare già nel mondo classico con il noto Giuramento della Scuola ippocratica, passando per i Galatei rivolti a quei medici che vivono tra il XVIII e il XIX secolo.8 Nel nostro paese, a partire dalla fine dell’Ottocento, le regole della deontologia medica trovano spazio all’interno di Codici prodotti prima da Camere o Ordini dei medici provinciali ad adesione libera,9 e successivamente dalla Federazione, istituita per legge, di un unico sistema ordinistico,10 così come in Francia, Spagna, Portogallo, Grecia, Malta e Cipro, dove gli Ordini dei medici derivano dagli Ordres di Napoleone. L’espressione “codice di deontologia medica” è propria dei Paesi centro-meridionali dell’Europa come l’Italia, mentre in quelli settentrionali di cultura anglosassone si preferisce “codici di etica medica”, oppure “codici di buona pratica medica”,11 che in genere si ispirano all’opera “Medical Ethics” di Thomas Percival,12 al quale tradizionalmente si associa la nascita del primo Codice.13 Lo stile dei primi è minuzioso e approfondito, teso a menzionare il
L’etica può essere descrittiva, ovvero indirizzata a registrare i comportamenti più diffusi e, da questi, stabilire i principi di bene e male, oppure normativa, dove i giudizi morali non corrispondono necessariamente alle abitudini e alle tradizioni
maggior numero di casi particolari possibili che possono verificarsi nella prassi clinica al fine di fornire al medico indicazioni operative specifiche, di contro allo stile dei Codici dell’Europa settentrionale, più sintetici e generali, che il medico ha poi il compito di declinare sul singolo caso clinico.
Nei rapporti tra etica medica e deontologia medica, un primo tratto che quindi è importante rilevare è che, mentre gli autori dell’etica medica sono gli studiosi del settore, gli autori della deontologia medica sono gli ordini dei medici, ai quali è necessario iscriversi per praticare la professione medica. In altri termini, se i principi dell’etica medica sono oggetto e frutto di discussione filosofico-morale, le regole della deontologia medica regolamentano la professione dal suo interno. Di conseguenza, una domanda da porsi è se quell’autoregolamentazione professionale che è il Codice di deontologia medica sia effettivamente il risultato di una scelta consapevole e sistematica sulla posizione etica assunta sullo sfondo. Un lavoro di analisi etica del Codice potrebbe essere svolta per confermare se i principi etici che lo fondano sono i quattro sopra elencati e, probabilmente con non poche difficoltà, provare a delineare il loro intrinseco contenuto. È pur vero però che questa operazione non dovrebbe essere compiuta a ritroso (dalla deontologia medica all’etica medica), bensì, come abbiamo precisato, all’inverso (dall’etica medica alla deontologia medica). y
Bibliografia
1 Per un approfondimento dei temi trattati nel presente articolo si veda Sara Patuzzo, “Storia del Codice italiano di deontologia medica. Dalle origini ai giorni nostri”, Minerva Medica, Torino 2014.
2 Tom L. Beauchamp, James F. Childress, Principi di etica biomedica, edizione italiana a cura di Francesco Demartis, Le Lettere, Firenze 1999 (prima edizione: Principles of Biomedical Ethics, Oxford University Press 1977).
3 Jeremy Bentham, Deontology or, the Science of morality in which the harmony and co-incidence of duty and self-interest, virtue and felicity, prudence and benevolence, are explained and exemplified, Longman, Rees, Orme, Browne, Green, and Longman, Edinburgh: William Tait 1834.
4 Maximilien Simon, Déontologie médicale; ou des devoires et des droits des Médecins dans l’etat actuel de la civilisation, Paris: J. B. Baillière, Libraire de l’Académie royale de Médecine 1845.
5 John Gregory, “Lectures on the Duties and Qualifications of a Physician”, 1772.
6 Félix Janer, Elementos de moral médica, 1831.
7 Christoph Wilhelm Hufeland, Die Verhältnisse des Arztes, 1836.
8 Giuseppe Pasta, Galateo dei medici, Dalla Stamperia del R. I. Monast. di S. Salvatore, Pavia 1791. Ferdinando Coletti, Galateo de’ medici e de’ malati, coi Tipi di A. Bianchi, Padova, 1853.
9 Camera dei Medici dell’Istria, Codice professionale e tariffa medica, Stab. Tip. L. Bontempo, Pola 1899. Camera dei Medici in Trento, Codice professionale stabilito dalla Camera dei medici in Trento per i propri pertinenti nella sessione del 21 luglio 1900, in Camera dei medici in Trento ad uso dei propri pertinenti, Raccolta di alcune Leggi e disposizioni sanitarie, Tip. Ed. F.lli Mariotti, Trento 1900. Ordine de’ Medici della Provincia di Sassari, Codice di etica e di deontologia, Tipografia e Libreria G. Gallizzi e C., Sassari 1903.
10 “Codice deontologico unificato e Relazione della Commissione”, Federazione Medica n. 2, Serie II, Anno IV, Bologna 15 gennaio 1924.
11 Diego Gracia, Teresa Gracia, History of Medical Ethics. Nineteenth Century.Southern Europe, Encyclopedia of Bioethics, a cura di Warren Thomas Reich, vol. III, op. cit., p. 1556-7.
12 Thomas Percival, Medical Ethics; or, a Code of Institutes and Precepts, Adapted to the Professional Conduct of Physicians and Surgeons; I. In Hospital Practice. In private, or general Practice. III. In relation to Apothecaries. In Cases which may require a knowledge of Law. To which is added an Appendix; containing a discourse on Hospital duties; also notes and illustrations, S. Russell for J. Johnson, St. Paul’s Church Yard and R. Bickerstaff, Strand, London, Manchester 1803. Per l’edizione italiana si veda Sara Patuzzo (a cura di), “Thomas Percival, Etica medica, ovvero un Codice di istituzioni e precetti adattati alla condotta professionale dei medici e dei chirurghi”, traduzione italiana di Giada Goracci, contributo scientifico di Sebastiano Castellano, Mimesis, Milano 2015.
13 Si veda Roy Porter, History of Medical Ethics. Nineteenth Century. Great Britain, Encyclopedia of Bioethics, a cura di Warren Thomas Reich, vol. III, op. cit., pp. 1550-14.
Se i principi dell’etica medica sono oggetto e frutto di discussione filosofico-morale, le regole della deontologia medica regolamentano la professione dal suo interno
Prima di accingersi alla lodevole impresa di mettere mano a una revisione del Codice deontologico può essere utile una battuta d’arresto, accompagnata da una domanda: nel tempo che abbiamo alle spalle la deontologia è stata valorizzata, attribuendole il ruolo che le spetta? L’attenzione non le è mancata: considerando le frequenti riscritture del codice dei medici, avvenute negli anni recenti, con cambi di regole anche di 180 gradi, non possiamo dire che la deontologia sia stata ignorata. Tuttavia dobbiamo riconoscere che è stata danneggiata dal fatto che le regole che propone si collocano tra due altri sistemi, che tendono a monopolizzare l’interesse: la legge e l’etica. Le norme giuridiche circoscrivono il campo della legalità, quelle etiche si focalizzano su ciò che è buono e giusto; l’etica è capace di accendere dibattiti ideologici appassionati (basti pensare al fine vita e agli interventi possibili nello scenario della vita nascente), mentre determinare il confine della legalità conferisce sicurezza all’operato del medico. La deontologia, in mezzo, rischia di essere messa in ombra. È necessario giustificare la sua funzionalità. La condizione svantaggiata della deontologia assomiglia a quella che Charles Péguy nel poema Il portico della seconda virtù attribuisce alla speranza, schiacciata tra le due sorelle maggiori: la fede e la carità. Si tende a credere che siano le due grandi a portare dietro la piccola per mano. “Ciechi che sono a non vedere invece che è lei al centro a spingere le due sorelle maggiori”, commenta il poeta. Per quanto sia estraneo il contesto di riferimento, l’immagine sembra fotografare il ruolo della deontologia: benché oscurata dalla legge e dall’etica, ha un ruolo determinante nella cura. Il suo compito è infatti quello di circoscrivere il profilo del professionista, in quanto si distacca dal senso comune e dai comportamenti spontanei che mettiamo in atto nella vita sociale. È la deontologia che fa di un curante, qualunque siano le sue motivazioni, un professionista della cura. I comportamenti che abitualmente ci gui-
Le regole e il buon medico
Nel cantiere sempre aperto delle regole deontologiche: Sandro Spinsanti
Sandro Spinsanti
Fondatore e direttore Istituto Giano per le medical humanities
dano (“Prima i nostri e poi gli altri”; la distinzione amico/nemico, intimo/estraneo; la vicinanza con le persone delle quali condividiamo i valori e l’evitamento di quelle che ci ripugnano...) sono banditi dalla relazione di cura. Ancor più, chi eroga cure sanitarie è chiamato a ignorare il profilo biografico di coloro che le cure le ricevono: la persona meritevole come la più indegna, quella grata come quella osti-
Nel tempo che abbiamo alle spalle la deontologia è stata valorizzata, attribuendole il ruolo che le spetta?
le sono ugualmente titolari di cure. Anche se ci trovassimo nei territori descritti da David Foster Wallace in Brevi biografie di uomini schifosi (Einaudi 2007), le esigenze di cura non cambierebbero. Il paradosso è che, mentre l’etica – in particolare sotto la spinta delle medical humanities – ci chiede la “personalizzazione” delle cure, la deontologia si muove in senso contrario. La buona medicina richiede una cura che ambisce a presentarsi non come una semplice riparazione, ma come un progetto “sartoriale”, finalizzato a confezionare un abito su misura per ciascuna persona; la deontologia esige invece di ignorare la biografia negli aspetti che hanno a che fa-
re con il merito o il demerito della persona stessa. Mutuando l’espressione con cui Irving Yalom designa il setting psicoterapeutico, si potrebbe affermare che il compito della deontologia è di creare una relazione “artificialmente vera”.
La deontologia è il sistema di regole che traccia il profilo professionale del curante. Il suo obiettivo non è promuovere il medico buono, ma il buon medico; più precisamente, il medico che si comporta in modo corretto, secondo le regole del gioco che in quel preciso momento storico-culturale sono riconosciute come appropriate. Per dare alla deontologia la dimensione della concretezza che le spetta: quando un malato chiede a un medico che lo ha in cura della propria patologia e la relativa prognosi, è autorizzato ad aspettarsi dal curante una risposta veritiera? Ebbene, fino a un passato recente le regole deontologiche erano basate sul presupposto che il vero interlocutore del medico fosse il familiare che si proponeva come caregiver, non il malato stesso. Al familiare erano dovute diagnosi e prognosi attendibili, mentre al malato il medico valutava che cosa era più opportuno comunicargli. “Una prognosi grave o infausta può essere tenuta nascosta al malato, ma non alla famiglia”, proclamava il Codice del 1978. Con poche varianti ripeteva la regola quel-
lo del 1989: “Il medico può valutare l’opportunità di tener nascosta al malato e di attenuare una prognosi grave o infausta, la quale dovrà essere comunque comunicata ai congiunti”. Di qui la pratica, deontologicamente corretta, del doppio percorso informativo: una cosa rassicurante al malato e una veritiera al familiare. Solo la revisione del Codice del 1995 ha formulato la condizione del consenso informato per qualsiasi procedimento diagnostico e terapeutico come condizione per una medicina corretta e ha previsto l’informazione ai familiari solo nel caso che il malato non sia in grado di intendere o che l’abbia preventivamente autorizzata. A documentazione che le regole deontologiche richiedono una continua manutenzione. Un codice deontologico non è dunque una realtà astorica: deve piuttosto registrare le variazioni che il tempo introduce nel rapporto che lega chi pratica la cura con chi la richiede. È il riferimento a queste regole che crea la fiducia e salda il legame. Sarà bene che chi si accinge a riflettere sulla deontologia adatta al nostro tempo parta proprio dalla consapevolezza che la pande-
mia di sfiducia che sta mettendo in discussione la nostra convivenza sociale ha delle ripercussioni travolgenti nell’ambito delle cure sanitarie. Senza fiducia queste non si reggono; e la fiducia del passato, basata su un giuramento più o meno esplicito del curante – “Giuro che farò il tuo bene” – non ha più corso. Abbiamo bisogno di una nuova e diversa fiducia: una fiducia che non infantilizzi la persona malata, ma richiede piuttosto un’adultità in chi riceve le cure e la rinuncia al paternalismo in chi le eroga. Un rapporto di questo genere non ha mai avuto diritto di cittadinanza nello scenario della cura: ce lo dobbiamo inventare nel nostro tempo con un impegno comune. y
L’obiettivo della deontologia non è promuovere il medico buono, ma il buon medico
Riscrivere il Codice deontologico medico
si della professione medica, meglio conosciuta come “questione medica”.
Riflettendo sul Codice di deontologia medica Giuseppe Gristina, medico anestesista rianimatore, parte dal presupposto che la deontologia dovrebbe essere espressione di una medicina aderente alla complessità del mondo moderno e quindi uno strumento al servizio non solo dei medici ma anche della società e delle istituzioni. Per perseguire questo obiettivo la revisione del Codice non potrà non affrontare le tre questioni fondamentali su cui si articola, ormai da anni, la cri-
In primo luogo, lo sviluppo scientifico e tecnologico con le sue incessanti sfide quali, ad esempio, l’utilizzo dell’intelligenza artificiale, e la non completa adesione ai criteri dell’evidence-based medicine da parte di molti medici mentre aumenta a dismisura la massa di informazioni che il medico deve gestire per garantire ai malati le migliori competenze. Poi, la questione etica, con riguardo sia ai nuovi diritti della persona malata, alla sua autonomia e autodeterminazione, sia alla necessità, in alcune situazioni nuovissime come la pandemia, di riallocare risorse limitate valorizzando e bilanciando la dimensione collettiva con quella codicistica tradizionalmente duale (medico-paziente). Infine la crescente pressione esercitata sulla sanità dall’economia, che impone una riflessione urgente circa l’impiego delle risorse umane disponibili e le sorti future del sistema sanitario pubblico fondato sui principi di universalità, uguaglianza ed equità mentre si afferma sempre più un modello di sanità privata e commerciale basata sulle prestazioni.
Per concludere, dice Gristina, è necessario che i medici affrontino queste criticità se vogliono che la deontologia sia un utile strumento di lavoro nella gestione quotidiana della pratica clinica e una garanzia per i cittadini. y
La revisione del Codice deontologico
è un’occasione per affrontare le attuali criticità davanti alle quali si trovano i medici. L’intervista a Giuseppe Gristina
Per una deontologia dell’incertezza
Informare il paziente e coinvolgerlo nel processo decisionale
Giuseppe Parisi Past president SIPeM School of medicine and surgery UniversitàLa medicina è da sempre una professione che si confronta con l’incertezza – incertezza che è insita nella pratica clinica, che vi “si insinua (...) attraverso ogni suo poro”.1 E, recentemente, la covid-19 l’ha resa più evidente.2 Essere incerti per i medici è qualcosa di inammissibile, quasi disdicevole,3 al punto che i professionisti cadono spesso in atteggiamenti di fuga o di diniego dell’incertezza.4 In questa nota si vuole mostrare come la consapevolezza della presenza dell’incertezza possa cambiare in meglio la pratica medica e renderla più aderente ai principi deontologici, all’interno della visione che Elisabetta Pulice ha ben illustrato nell’intervento proposto all’inizio di questa serie sulla deontologia medica oggi (vedi pp. 6-10).5
rate dalla ricerca altamente affidabile per guidare l’expertise clinica, tenendo conto dei valori del paziente, i medici preferiscono la trasposizione normativa, diretta, inflessibile e meccanica delle prove di efficacia alla singola situazione. Questo utilizzo semplicistico delle prove di efficacia, da cookbook (libro di ricette), si è diffuso alle linee guida e agli strumenti di supporto alle decisioni.
Così, oltre a perdere l’atteggiamento di cura del paziente, come afferma la Greenhalgh, perdiamo anche una visione realistica del lavoro clinico cadendo in una sensazione di falsa certezza, legittimando la tendenza alla fuga o al diniego dell’incertezza. Inoltre, quel che è più grave, perdiamo l’idea della centralità del ragionamento diagnostico, il “motore clinico”7 di cui i medici sono tanto orgogliosi, che va curato e considerato tenendo conto della sua forza e anche della sua debolezza, della fallacia che c’è sempre dietro l’angolo, della complessità che non si doma. E, in più, perdiamo altresì la libertà decisionale secondo scienza e coscienza, la presa di responsabilità sulla decisione specifica e contestuale con il singolo paziente. Così facendo il medico tende ad assimilarsi sempre più ad un rigido esecutore di linee guida ideate da qualcun altro e qualsiasi sistema di supporto decisionale computerizzato fa da padrone.
In un importante articolo del 2014,6 Trisha Greenhalgh affermava che, nonostante l’applicazione della medicina basata sulle evidenze abbia contribuito al miglioramento generale della pratica e abbia cambiato il modo di pensare dei medici, spesso sono stati travisati i suoi principi: invece di utilizzare le prove di efficacia gene-
Oggi, finalmente, la comunità medica inizia a confrontarsi in modo scientifico con l’incertezza: la definisce, la concettualizza, ne studia le fonti e infine – ma principalmente – suggerisce strategie e atteggiamenti con cui affrontarla. Inoltre, se l’incertezza è costitutiva della relazione con il paziente, si pone il problema deontologico dell’onestà con cui comunicare la sua presenza al paziente.
All’origine dell’incertezza
L’incertezza è stata definita come incapacità di decidere.8 Tale incapacità di decidere può essere attribuita ai fatti e alla realtà, oppure può essere attribuita al soggetto. Di seguito, si prenderà in considerazione
Se l’incertezza è costitutiva della relazione con il paziente, si pone il problema deontologico dell’onestà con cui comunicare la sua presenza al paziente
questa seconda accezione in cui l’incertezza è uno stato mentale della persona che, di fronte a un rischio sconosciuto, implica una consapevolezza soggettiva della propria mancanza di conoscenza (subjective perception of ignorance) senza la quale non ci si potrebbe sentire incerti. È una situazione diversa da quella del rischio conosciuto in cui si possiede la conoscenza probabilistica del verificarsi di un evento, laddove, per prendere la decisione, la logica e gli strumenti statistici sono preziosi.9 Se l’incertezza attribuita al soggetto è meta-cognizione di ignoranza, essa deve essere considerata come un segnale (e non come una spiacevole sensazione da negare) di cui tenere in conto per indagare la fonte dell’incertezza stessa, in altre parole l’area in cui si situa l’assenza di conoscenza precise.
Si vuole illustrare questo processo di indagine seguendo la tassonomia concettuale di Han.10 Il primo ordine di incertezza è quello scientifico che deriva dall’informazione con cui il professionista si confronta per prendere decisioni. L’incertezza è legata all’indeterminatezza degli eventi futuri che viene spesso espressa in termini di percentuali di probabilità, ed è quindi misurabile e utile guida al decisore ma al tempo stesso non è eliminabile, perché rimane comunque una previsione probabilistica e non deterministica.9 Il grado di incertezza è maggiore se queste informazioni disponibili sono ambigue, perché non sono univoche oppure perché sono inaffidabili o difficili da interpretare, e cresce ancor di più quando le informazioni sono complesse perché ci sono molteplici fattori causali, molteplici stati di eventi, molteplici esiti o interpretazioni possibili, e quando i confini tra eventi sono vaghi o essi stessi sono di difficile descrizione.10
Un secondo ordine di incertezza è di natura pratico-organizzativo, perché qualsiasi intervento diagnostico e terapeutico non può prescindere dalla qualità del sistema sanitario in cui è inserito. E, infine, l’incertezza può derivare dalle informazioni
date dal paziente stesso su sé stesso e sulla sua rete di assistenza; ciò è particolarmente rilevante nelle cure primarie, dove pressoché tutti gli interventi prendono le mosse dalla soggettività del paziente. Le situazioni cliniche possono, quindi, essere rappresentate come costituite da un nucleo di rischio noto, aggredibile dalla conoscenza probabilistica, avvolto da una nube di incertezza.11 Sappiamo anche che la nube di incertezza può essere, se analizzata onestamente, molto fitta o esigua, configurando situazioni molto diverse dal punto di vista clinico-pratico, in quanto se l’incertezza è alta si devono utilizzare strategie diverse, come indicato in una cospicua letteratura per la quale si rimanda ad un lavoro precedente per una trattazione completa.11
PER APPROFONDIRE
La tassonomia dell’incertezza secondo Han
Nell’assistenza sanitaria esistono diverse forme e diversi significati di incertezza. Per avere una sorta di bussola per facilitare la gestione delle incertezze che sorgono nella pratica clinica e per valutare quanto influiscano sugli esiti, Han e colleghi propongono una tassonomia concettuale tridimensionale dell’incertezza.10
Le tre dimensioni dell’incertezza sono:
1. la natura dell’incertezza che può essere di ordine scientifico, pratico o personale,
2. la fonte di incertezza che può essere probabilistica, oppure derivare da una condizione di ambiguità e di complessità dell’informazione,
3. il locus dell’incertezza, medico versus paziente; in ogni data circostanza clinica, l’incertezza può esistere nella mente dei pazienti, dei clinici, di entrambi o di nessuno dei due.
Decidere nell’incertezza
Si ritiene che il dovere del medico sia sempre, primariamente, esplorare il rischio noto (utilizzando anche sistemi esperti o clinical prediction rules) e valutare quanto di “certo” si ha in mano (anche se probabilistico e quindi “non certo” per il singolo paziente). Ma non ci si deve fermare qui: serve esplorare la nube di incertezza, sia per ridurla mediante ulteriori informazioni sia per tollerarla e farla tollerare al paziente in modo trasparente, utilizzando – se è la nube è fitta – strategie specifiche, nella consapevolezza dolorosa che l’incertezza è costitutiva del mondo reale. Delle molteplici strategie per decidere nell’incertezza, qui si vogliono citare solo due strategie peculiari: il test del tempo all’interno della messa a punto di una rete protettiva12,13 e il processo decisionale condiviso.14 Il test del tempo è basato sull’ipotesi che “l’attesa del verificarsi o meno di un evento possa diminuire l’incertezza esistente e portare il ragionamento del medico in un’area di maggior certezza, rendendo appropriato un invio al secondo livello di cure o l’esecuzione di ulteriori esami diagnostici”.11 Questo test è tipico della medicina generale in quanto setting di bassa prevalenza di malattia. È possibile effettuarlo in sicurezza se non ci sono red flag e il medico crea una buona relazione di fiducia e partenariato con il paziente, e se il medico e il suo team fanno parte di una struttura organizzata con un sistema di recezione della chiamata agile che preveda una risposta immediata e la gestione condivisa della cartella clinica. L’altra strategia fondamentale è la condivisione del processo decisionale con il paziente:14 nel momento in cui non esiste una opzione sicuramente migliore in cui c’è certezza di un favorevole rapporto rischi/ benefici, come nelle situazioni di complessità dei pazienti anziani, le preferenze e i valori del paziente diventano criteri dirimenti l’intervento.11,15-17 Il paziente è consulente nella decisione, e lo scopo del medico è quello di farsi aiutare dal paziente stesso, processo a ben vedere molto di-
verso da quello puramente informativo.18
Qui la condivisione della decisione col paziente è non solamente un dovere etico ma anche una azione di buona metodologia clinica.
Come si può intuire da questa breve esposizione, la gestione dell’incertezza in medicina non può ridursi ad una sua ricognizione anamnestica, ma deve essere un aspetto-chiave del metodo clinico e, come tale, deve essere incorporata in tutti gli aspetti del percorso decisionale dei professionisti sanitari, elemento necessario per mettere in atto azioni appropriate. “Riconoscere l’incertezza permette, quindi, di comunicarla, di prendere decisioni più consapevoli e, in ultima analisi, di praticare una medicina più prudente e meno onnipotente”.11
Si pongono inoltre questioni relative alla comunicazione e informazione del paziente. L’incertezza è costruita socialmente, esiste non solo nel medico ma anche nel paziente, è connessa con la capacità informativa e comunicativa del medico e sulla fiducia reciproca che si crea. Se ad esem-
L’incertezza è costruita socialmente, esiste non solo nel medico ma anche nel paziente
pio il medico è consapevole dell’incertezza ma non la comunica al paziente, diventa responsabile di un’azione metodologicamente errata perché il paziente non ha accesso ad un elemento di conoscenza importante per contribuite alla presa di decisione. Resta naturalmente aperta la questione se sia un’azione discutibile anche sul piano deontologico.
L’incertezza nella deontologia di oggi
Le riflessioni seguenti non vogliono invadere un campo disciplinare – quello etico e deontologico – del quale non sono esperto, ma sono solo un pensiero riguardo alle conseguenze sulla pratica clinica di quan-
to esposto precedentemente, e gli articoli modificati del Codice deontologico sono citati a mero titolo esemplificativo nell’intento di rendere più incisiva l’evidenza di tali conseguenze sulla pratica. In conclusione, includere la gestione dell’incertezza nella pratica clinica in modo esplicito può cambiarla di molto e può avere delle ricadute anche sul piano deontologico. Può risultare di conseguenza corretto, dal punto di vista non solo clinico ma anche deontologico, non fare una trasposizione meccanica delle evidenze o delle linee guida o dei suggerimenti dei sistemi esperti nella situazione clinica specifica, bensì prendere in esame l’incertezza insita nella decisione e, avvalendosi del ragionamento clinico, prendere una decisione “giudiziosa” e ponderata
secondo scienza e coscienza, seguendo l’articolo 13 del Codice deontologico che già considera tutto ciò e da tutto ciò ne viene corroborato. Si potrebbero anche esplicitare meglio questi aspetti, in una forma che si riporta qui a mo’ di esempio/stimolo alla riflessione (in corsivo le parole aggiunte al testo originale dell’articolo): “Il medico tiene conto delle linee guida diagnostico-terapeutiche accreditate da fonti autorevoli e indipendenti quali raccomandazioni e, senza farne una trasposizione meccanica, ne valuta il grado di incertezza e
L’incertezza non è solo portatrice di preoccupazione ma anche di speranza
l’applicabilità al caso specifico, sempre avvalendosi del ragionamento clinico per prendere infine una decisione ponderata secondo scienza e coscienza”.
Il discorso resta comunque aperto in quanto sorgono molti interrogativi, come per esempio: in che modo comunicare l’incertezza? Quale criterio per identificare il grado di incertezza che il paziente e il medico possono sopportare? Quanto è deontologicamente corretto il grado di incertezza da sopportare e da quale punto di incertezza in poi le preferenze e i valori del paziente possono diventare criteri dirimenti l’intervento medico?
A ben vedere la distinzione tra mera informazione alla persona assistita e coinvolgimento della stessa nel processo decisionale potrebbe essere un tema molto attuale nella deontologia di oggi, che porterebbe a una maggior chiarezza di condotta nelle situazioni di alta incertezza. Rispondere a questi interrogativi e dare una maggior attenzione a questi aspetti implica una benvenuta rivisitazione del metodo clinico e una riflessione su aspetti come l’incertezza che aprano alle questioni di relazione con il paziente ma anche interne alla professione e, quindi, con alta valenza deontologica.
In particolare, l’articolo 33, “Informazione e comunicazione con la persona assistita” potrebbe contenere anche un riferimento alla situazione di incertezza decisionale e il conseguente coinvolgimento della persona assistita, nella rosa delle informazioni da comunicare. Si riporta anche in questo caso una esemplificazione di come l’articolo potrebbe apparire esplicitando questi aspetti (in corsivo le parole aggiunte al testo originale dell’articolo):
“Il medico garantisce alla persona assistita o al suo rappresentante legale un’informazione comprensibile ed esaustiva sulla prevenzione, sul percorso diagnostico, sulla diagnosi, sulla prognosi, sulla terapia e sulle eventuali alternative diagnostico-terapeutiche, sui prevedibili rischi e complicanze, sull’incertezza decisionale, se presente, nel caso in cui non esista una opzio-
ne con un migliore profilo di rapporto rischi/ benefici, e il paziente abbia segnalato la sua volontà di partecipare al processo decisionale, nonché sui comportamenti che il paziente dovrà osservare nel processo di cura”. Un’ultima osservazione: l’incertezza non è solo portatrice di preoccupazione ma anche di speranza.10 Se è dovere del medico non “tralasciare elementi di speranza” nella comunicazione con il paziente, forse potrebbe al contempo porsi l’auspicio – a prima vista paradossale – di non tralasciare elementi di incertezza. y
Bibliografia
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Passate le elezioni e insediato il nuovo Governo se è improcrastinabile affrontare i nodi irrisolti del Servizio sanitario nazionale, ugualmente non è rinviabile aggiornare il Codice deontologico dei medici di fronte ai problemi posti dalla pandemia e dall’evoluzione della scienza. Tuttavia il cambiamento d’epoca che viviamo pone una domanda: il medico che affronterà le sfide della modernità è lo stesso conosciuto finora? Il medico sarà sempre rispettoso dell’autonomia del paziente ed equanime nel decidere, ma in un mondo diverso, quale professione si troverà a svolgere?
La medicina virtuale, che già si affaccia nell’esercizio quotidiano connessa con l’introduzione massiccia dell’intelligenza artificiale, rappresenta il miglior paradigma per rispondere a questa domanda, prioritaria rispetto al rinnovamento del Codice deontologico che risale al 2014, un tempo breve ma lunghissimo di fronte all’evoluzione della tecnica. Gli strumenti dotati di intelligenza artificiale sono a disposizione sia dei medici che dei pazienti e le applicazioni della telemedicina sono innumerevoli. Quando migliorano la professione sono benvenuti sia che, forniti ai pazienti, consentano un miglioramento delle terapie sia che, in dotazione ai medici, facilitino la cura e alleggeriscano la burocrazia.
Alcune doverose riflessioni
Le tecnologie digitali indossabili hanno un enorme futuro commerciale perché possono migliorare il monitoraggio, realizzare screening e facilitare le decisioni cliniche, insieme ai dispositivi che possono rilevare anche i toni dell’umore o l’attività neuroendocrina. Questo innegabile progresso presenta risvolti di grande impatto sociale: ma questa enorme massa di dati non porterà anche a modificare la definizione di stati fisici o comportamenti che potrebbero essere etichettati come malattia? La digitalizzazione non darà un’ulteriore spinta al fenomeno del disease mongering? Un buon motivo per una riflessione deontologica.
La deontologia all’alba dell’intelligenza artificiale
Nuove norme scritte per preservare la professione medica
Al contrario le tecnologie insite nel sistema gestionale del servizio non pongono problemi deontologici se non quelli inerenti alla privacy. Diverso è il caso di tecnologie che agiscono non come supporto all’attività medica ma come potenziale sostituzione e di cui Babylon rappresenta un paradigma. Il cittadino che aderisce a Babylon lascia il proprio medico e si affida alla macchina che, ove possibile, risponde alle sue domande; altrimenti si rivolge automaticamente a un infermiere il quale, se necessario, passa il caso a un medico che può eseguire una “visita virtuale”, con strumenti talmente sofisticati da evidenziare gli stati emotivi del paziente, e assumere una decisione anche sulla base del livello di relazione raggiunto. Si pone dunque un primo problema, quello della medicina difensiva: non è facile ricostruire la catena delle responsabilità sul piano medico legale. Una questione pratica, quella dell’applicazione della legge Gelli-Bianco, che la deontologia non può ignorare.
Alcuni importanti effetti collaterali
Vi è chi sostiene, per esempio Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia, che questa modalità “noise free”, cioè priva di bias umani, dia risultati migliori. Tuttavia essa non sfugge a due difficoltà: la medicina è un fatto fisico e il contatto con l’uomo,
la visita clinica, coinvolge tutti i sensi del medico; inoltre la relazione di cura si fonda sull’empatia e l’intelligenza artificiale è “apatica”, non ha sentimenti, sa solo calcolare, il che rende impossibile un fruttuoso contatto umano.
Tutto ciò pone un’altra domanda: vogliamo una medicina automatizzata? Che tipo di medico auspichiamo per un futuro di fatto dominato dall’ict (information and communication technologies)? Al di là di ogni questione giuridica o assistenziale, inerente al coinvolgimento di più professionisti su ciascun caso, non si rischia di porre il medico al servizio della macchina impoverendo la sua peculiare competenza ermeneutica e l’umanità della relazione?
Nello stesso tempo tutto ciò che è automatizzato viene vissuto come indiscutibile.
L’accesso ai propri dati non mediato dal medico aumenta l’empowerment del cittadino che può condurre a un pericoloso “fai da te”, mentre il servizio sanitario rischia di essere travolto da una messe incontrollabile di dati inutili e ingestibili. Una medicina dominata dai big data, cioè dominata da “misure” pretese oggettive e perciò “scientifiche” che sovrastano i sintomi soggettivi e i valori del paziente espressi dalle sue emozioni, perderà l’empatia della relazione e la visione olistica della persona?
Un problema al quale risponderà la prassi quotidiana piuttosto che regole predisposte; tuttavia il Codice non può ignorare la domanda. Anche perché sorge un’altra questione; qualsiasi sistema di ict che utilizzi i big data ha un proprietario dei dati, un produttore e un utilizzatore finale che è il medico.
Niente è esente da errori: di fronte a una presunta “colpa professionale” derivante dalla intelligenza artificiale chi è responsabile? Il proprietario, il produttore o l’utilizzatore? Se chi decide è il medico dobbiamo valutare anche i limiti della sua capacità decisionale di fronte alle certezze implicite nei suggerimenti del l’intelligenza artificiale. Non è facile contraddire una macchina che pretende di offrire i migliori output della medicina e poi doverlo dimostrare al magistrato. Ma allora il consenso informato va bene così, come delineato dal Codice e dalla legge 219/18, o qualche riflessione è necessaria nel rispetto dell’autodeterminazione del cittadino?
Infine l’intelligenza artificiale, con il conseguenziale possesso dei big data, rappresenta uno dei grandi affari di questo secolo. In medicina non esistono certezze; chi possiede i dati può indirizzare le risposte entro il range della correttezza ma a suo vantaggio; nel marketing si accentuano i benefici e si attenuano i rischi. Ma se, in seguito alle decisioni virtuali del medico, il cittadino con un click riceve il farmaco a casa, a seguito di un’alleanza tra Amazon, Google e le multinazionali del farmaco, non sarà il caso di prevedere, oltre che norme di legge, regole di comportamento per i medici, cioè di approfondire il tema del conflitto di interesse?
Nella triangolazione tra chi fruisce della prescrizione, chi paga e chi prescrive, quest’ultimo è fonte di profitto per un quarto soggetto, il produttore del bene. Una posizione già sviscerata a proposito dei farmaci, da adattare agli infiniti usi dell’intelligenza artificiale. Il medico potrebbe trovarsi in una scomoda posizione tra un rinnovato comparaggio e una sorta
di rider della sanità. Una versione elettronica del conflitto di interesse. Ogni strumento sanitario che utilizzi la intelligenza artificiale dovrebbe avere un’autorizzazione all’immissione in commercio come i farmaci.
La intelligenza artificiale ripropone quindi il vecchio problema: chi decide in medicina e quanto è responsabile il medico?
Con un’ulteriore variabile: anche il paziente e le associazioni di pazienti vivono immersi nel mondo dei social. Il modello classico di relazione, fisicamente prossima e fondata sull’uso di tutti i sensi e sulla capacità empatica dell’uomo, sopravviverà come tale?
Perché servono nuove norme
In conclusione, che medico vogliamo?
Cambiando l’esercizio professionale la deontologia va adattata. I medici non possono sottrarsi alla sfida di mantenere la loro autonomia rispetto all’invadenza dell’ict e dell’intelligenza artificiale. Ma per farlo occorre da un lato comprendere la sostanza tecnologica e commerciale del fenomeno, dall’altro individuare regole efficaci e attuabili.
Altrimenti potrebbe concretizzarsi una deriva verso un nuovo paradigma culturale, epistemologico ed etico della medicina attraverso questo straordinario cambiamento dell’approccio sensoriale, questa traslocazione virtuale del corpo fisico. Al netto di tutti gli innegabili miglioramenti della sanità quotidianamente esercitata, gli strumenti dotati di intelligenza artificiale, mediante una più estesa misurazione dello stato di salute e rendendo oggettivabile ogni aspetto della vita, aumenteranno l’estensione della medicina. Finalmente il trionfo del Dr. Knock?
L’orizzonte di senso della medicina risale a Ippocrate. Oggi, nella discussione sulla digitalizzazione, si alternano “apocalittici” e “integrati” e sembra prevalere una visione distopica del futuro; quel che è certo è che la intelligenza artificiale non è un elettrodomestico perfezionato ma uno spartiacque epocale. Una cultura medica calcolabi-
le, controllabile, quantificabile, oggettivabile è utile perché più vicina al concetto di scientificità cui i medici aspirano, ma senza dimenticare la natura complessa dell’uomo non riducibile a mero dato.
Da un lato la intelligenza artificiale concorre a creare quel clima di timore del futuro, quella retrotopia, per dirlo con Bauman, che sembra pervadere il mondo; dall’altro, esaurite le domande sulla sua utilità, non possiamo farne a meno. Gli algoritmi rispondono a un umanissimo desiderio di certezze.
In conclusione, un possibile orizzonte di senso della medicina digitale dovrebbe essere la diffusione orizzontale delle informazioni e delle conoscenze. Un ampliarsi della medicina a favore della collettività. Altresì la medicina è volta alla fisicità, così si è differenziata dal sacerdozio. La virtualità non rappresenta un sovrappiù di spiritualità. Tra il rapporto con un computer e quello con l’uomo si preferisce il proprio simile.
Nel frattempo è scomparsa la medicina intesa come rapporto binario tra medico e paziente per trasformarsi in un’arena dai molti attori, un pilastro del sistema produttivo del Paese. Forse i timori verso la intelligenza artificiale sono esagerati, ma le norme deontologiche vanno scritte perché la possibilità di derive che snaturino la professione non è infondata. y
DAT: liberi di scegliere, liberi fino alla fine
Uno “sportello DAT” potrebbe fare la differenza?
Da un paio di mesi circa la legge 22 dicembre 2017, numero 219, “ Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, ha compiuto 5 anni.1
L’articolo 4 indica chiaramente che ogni persona maggiorenne in grado di intendere e volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di esprimersi, può con le disposizioni anticipate di trattamento (DAT), dichiarare la propria volontà su cure adatte a prolungare la vita, anche se non ci fosse nessuna speranza di guarigione o miglioramento.
Ad ottobre 2022 sono poco più di 250mila le disposizioni anticipate di trattamento depositate nei Comuni italiani e l’88 per cento di queste sono state trasferite alla banca dati nazionale delle DAT.2 E questo a fronte del fatto che tra le principali paure degli italiani il rischio di invalidità e di non autosufficienza riguarda il 53 per cento della popolazione.3 Anche in uno studio pilota del Centro studi e ricerche in medicina generale del 2009, l’85 per cento degli assistiti reclutati da medici di famiglia si dichiarò favorevole a redigere un testamento biologico.4 In uno studio successivo la metà degli intervistati non sapeva bene cosa fosse un testamento biologico, ma il 77,5 per cento avrebbe approvato l’interruzione delle cure se si fosse trovato in uno stato di perdita irreversibile della coscienza.
Su questa rivista sono già state approfondite le ragioni della scarsa adesione dei cittadini5,6 e si rimanda alla lettura degli articoli citati, dove sono anche presentati due esempi di moduli da cui è possibile trarre spunto per immaginare le proprie disposizioni.
Tuttavia, la carenza di DAT depositate nella banca dati non solo è l’espressione di uno scarso interesse e/o di una scarsa conoscenza da parte dei cittadini, ma diventa anche un problema per i colleghi ospedalieri nei reparti di degenza e soprattutto nei reparti di terapia intensiva, dove spesso accedono persone non in grado di esprimere un consenso informato.
Già alcuni anni fa un importante studio7 sul percorso di fine vita di oltre tremila pazienti nelle terapie intensive italiane evidenziava come meno del 10 per cento delle persone ricoverate avesse partecipato attivamente durante la degenza alle scelte di cura. Il paziente era quindi quasi sempre “il grande assente”.
Non è soltanto il coma a rendere impossibile la comunicazione, ma anche alterazioni acute e meno marcate dello stato di coscienza, come il delirium, oppure condizioni che richiedono sedazione farmacologica o semplicemente situazioni in cui è molto difficile sostenere una conversazione di una certa importanza. Basti pensare all’insufficienza respiratoria acuta con necessità di supporto ventilatorio non invasivo: la comunicazione è possibile, ma non è sicuramente la situazione ideale per discutere di scelte di cura.
Lo sforzo di ricostruire la volontà presunta di una persona – alla luce dell’esito previsto – ricade spesso sui curanti, con il supporto dei familiari. Il processo di decisioni condivise (shared decision-making) mira a garantire una cura il più possibile appropriata e proporzionata, nel miglior interesse della persona malata. In assenza di informazioni, lo shared decision-making è gravato da una notevole incertezza, che pesa (anche emotivamente) sui clinici e sulla famiglia. Pur essendo le DAT uno strumento per sua stessa natura imperfetto – in quanto non
equiparabile a un consenso informato attuale – sono tuttavia molto preziose, soprattutto se contengono la nomina di un fiduciario.
Per queste ragioni noi pensiamo che sia compito dei medici, quelli di famiglia principalmente, informare le persone che chiedono dei chiarimenti sulle possibilità che la legge 219 offre, cercando di affrontare dubbi e perplessità che facilmente si accompagnano a questa scelta. In uno sondaggio svolto a Torino, nel 2015, da una collega del Corso di formazione specifica in medicina generale,8 che coinvolse 80 medici di medicina generale, corrispondenti ad una popolazione si circa 96.000 cittadini dell’Asl TO2, risultò che l’87,5 per cento dei professionisti sarebbero stati interessati a conoscere una legge inerente al fine vita, e che a metà di essi era già capitato di raccogliere DAT dai propri assistiti, molti dei quali sarebbero stati intenzionati a sottoscriverle, se adeguatamente informati; i colleghi ritenevano di poter raccogliere da 10 a 100 “testamenti” ciascuno. La legge 219 è una legge chiara, scritta in un linguaggio semplice e comprensibile. In soli otto articoli definisce, in forma esauriente e puntuale, lo stato dell’arte in tema di consenso informato (articolo 1), terapia del dolore (articolo 2), minori e incapaci (articolo 3), disposizioni anticipate di trattamento o DAT (articolo 4) e pianificazione condivisa delle cure (articolo 5).
Gli ultimi tre articoli riguardano l’applicazione della legge. In particolare nell’articolo 1 il comma 8 dice che “il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura” e, subito dopo, si afferma che le strutture sanitarie devono assicurare la formazione del personale anche in materia di relazione e comunicazione con il paziente. Obiettivo purtroppo in larga parte disatteso negli anni.
La legge 219 stabilisce il diritto di redigere le proprie DAT, ma serve un’informazione adeguata ai cittadini perché possano farlo, se lo desiderano.
Pertanto, visto che sono i medici i primi a condividere l’importanza delle DAT, è ne-
cessario che proprio i medici le facciano conoscere. Si dirà che la pandemia covid-19 ha rivelato l’inadeguatezza del nostro Servizio sanitario nazionale e ha incrementato gli adempimenti burocratici. Vero, ma non dimentichiamo che, nella stragrande maggioranza dei casi, se non c’è tempo di comunicazione non è possibile la cura e che “grazie alla legge 219, siamo tutti un po’ più liberi di prima e nessuno viene danneggiato”.9
Quali potrebbero essere le proposte per rendere nota alle persone la possibilità di dichiarare le proprie volontà?
Mettere a disposizione nelle sale di attesa materiale informativo per cercare di raggiungere il maggior numero di persone possibile?
Organizzare degli incontri con la popolazione per sensibilizzarli all’argomento?
Aprire uno “sportello DAT” presso l’Ordine al quale medici e cittadini possano rivolgersi per chiarire eventuali dubbi e/o incertezze?
Ci aspettiamo che i lettori valutino queste idee e, sulla base delle loro pratiche o delle loro ipotesi, propongano ulteriori suggerimenti. y
Bigliografia
1 La legge 219 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 12 il 16-1-2018.
2 Dato fornito dall’Associazione Luca Coscioni.
3 56° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese / 2022.
4 Lippo L, Zenobi C, Amato MG. Il testamento biologico: una scelta consapevole? Sondaggio sulle conoscenze degli italiani. Professioni Infermieristiche 2012; 65: 1718.
5 Craxi L. Perché non vogliamo scrivere le nostre DAT. il punto, numero 2, anno 2022.
6 Fontanella L. Le DAT e il senso delle parole. il punto, numero 2, anno 2022.
7 Bertolini G, Boffelli S, Malacarne P, et al. End-of-Life decision-making and quality of ICU performance: an observational study in 84 Italian units. Intensive Care Med 2010; 36: 1495-504.
8 Perri M. Il medico di medicina generale e le dichiarazioni anticipate di trattamento, 2015.
9 Neri D. Testamento biologico. In: Busca MT, Nave E (a cura di), Le parole della bioetica. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2021.
Se non c’è tempo di comunicazione, non è possibile la cura
Inquinamento atmosferico e salute: il ruolo delle cure di prossimità
Roberto Romizi Presidente Lisi CoordinatoreL’inquinamento atmosferico è uno dei principali fattori di rischio per mortalità e morbosità in tutto il mondo. È stato stimato che esso sia la causa di oltre i due terzi delle malattie di origine ambientale a livello mondiale.1 Oltre a questo, la concentrazione atmosferica di particolato e di inquinanti gassosi ha relazioni patogenetiche ben definite con numerose malattie croniche non comunicabili in progressivo incremento epidemiologico in qualunque fascia di età, come l’obesità e le malattie metaboliche, le malattie neuro-degenerative, le malattie endocrinologiche e cardiovascolari. In questo articolo non ci soffermeremo su questi aspetti ge-
Mettere in rete i medici di famiglia e i pediatri di libera scelta per fare prevenzionePaolo Lauriola Coordinatore Rete italiana medici sentinella per l’ambiente (Rimsa) Isde-Italia
nerali, ma affronteremo il tema del possibile ruolo delle cure primarie per far fronte al tema dell’inquinamento atmosferico. In particolare nel nord del Paese.
Il ruolo dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta
Comprendere quali sono gli elementi da considerare, da un punto di vista epidemiologico e fisiopatologico, per attuare misure di prevenzione primaria, è un compito molto complesso.2 Oltre ai ben documentati eccessi di mortalità prematura e di morbosità per patologie acute e croniche, i fattori di rischio ambientale sono causa di una marcata alterazione dello stato di salute in maniera indipendente dall’effetto, pur rilevante, degli stili di vita e delle condizioni socio-economiche. La mancata o tardiva considerazione di tali fattori di rischio genera inevitabilmente rilevanti conseguenze sanitarie a carico di qualunque fascia di età ed elevati costi. Gli ampi effetti sanitari dell’inquinamento atmosferico sulle malattie acute (comprese alcune malattie infettive), sulle patologie cronico-degenerative e sul cancro rendono indispensabile l’inclusione del binomio salute-ambiente nei programmi di sorveglianza sanitaria. In questo contesto occorre sottolineare che le cure primarie rappresentano la più frequente occasione di contatto del cittadino con il servizio sanitario, anche oltre l’80 per cento.3,4
Esperienze e potenzialità dei medici sentinella
L’interesse nei confronti delle cause e dei contesti che possono determinare i quadri clinici che giungono all’osservazione del curante è sempre stato una caratteristica dell’operare medico. In tale quadro si inserisce la figura del medico sentinella o le reti di medici sentinella (Rms).5 A partire dal 1955, un elevato numero di esperienze di Rms si sono sviluppate in tutto il mondo (di cui circa 7 mila dal 1984 al 2017). Tali esperienze hanno privilegiato gli aspetti
PER APPROFONDIRE
Quanto è inquinato il nord dell’Italia
Secondo il rapporto Mal’Aria 2022 di Legambiente, sono 17 le città italiane con i valori più alti di pm10 che superano l’obiettivo annuale dell’Oms di 15 µg/mc, di oltre il doppio. Alessandria ha registrato una media annuale di pm10 pari a 33 µg/mc, seguita da Milano (32 µg/mc), da Brescia, Lodi, Mantova, Modena e Torino (31 µg/mc). Secondo lo stesso rapporto, le città più inquinate da pm2,5 sono 11, con le criticità maggiori registrate a Cremona e Venezia. Le città più inquinate da NO2 sono 13, con Milano e Torino in forte sofferenza. Persistono dunque criticità, nonostante si sia registrata una tendenza complessiva alla riduzione delle concentrazioni di NO2 in Italia, che nel periodo 2010-2019 sono scese in media del 3,2 per cento all’anno. Secondo una statistica fornita dal progetto ISGlobal a seguito di uno studio pubblicato nel 2021 sul Lancet e condotto in 856 città europee, che ha documentato l’impatto in termini di mortalità degli effetti dell’inquinamento atmosferico in Europa, a livello delle singole città su 856 città europee, Torino e Milano si collocano rispettivamente al terzo e al quinto posto come numero di decessi evitabili dovuti all’inquinamento da NO2 , e al 27esimo per l’inquinamento da pm2,5.
diagnostico-terapeutici e organizzativi. In merito al rapporto tra ambiente e salute, le esperienze di Rms sono state rare.5-7
Le ragioni potrebbero essere le seguenti:
{ le indagini sugli effetti sanitari connessi a condizioni di rischio ambientale necessitano della disponibilità costante, aggiornata e intellegibile di dati ambientali, meteorologici, occupazionali e socio-economici. È quindi necessaria la collaborazione con le istituzioni che gestiscono questi dati;
{ i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta non sono solitamente prepararti ad occuparsi in modo approfondito di tematiche di salute in relazione all’ambiente, non essendo loro richiesta tale competenza e non ricevendo un’adeguata formazione in questo ambito durante il corso di laurea né in occasioni formative post-laurea.
Gli ampi effetti sanitari dell’inquinamento rendono indispensabile l’inclusione del binomio salute-ambiente nei programmi di sorveglianza sanitaria
Proposta di Rimsa, una rete italiana di medici sentinella per l’ambiente
Le premesse sino ad ora descritte hanno motivato una proposta di Rimsa che si basa su tre elementi principali:
1. il ricco patrimonio scientifico e informativo in possesso dei medici di famiglia e le grandi potenzialità epidemiologiche dei dati in loro possesso mediante le cartelle cliniche elettroniche – electronic medical records (emr s);
2. l’importanza del loro ruolo informativo, educativo e anche etico (conoscere le cause della malattia e come prevenirla) nei confronti sia dei pazienti-cittadini che delle istituzioni;
3. la possibilità di integrare Rimsa con le reti cliniche.
In sintesi, i medici di famiglia, se adeguatamente sensibilizzati, formati e organizzati, possono rappresentare l’anello di congiunzione tra evidenze scientifiche, problemi globali e azioni locali.9-10 A questo proposito, diverse recenti e autorevoli pubblicazioni hanno sottolineato le grandi potenzialità offerte dal coinvolgimento dei primary care providers. 11-14 A fronte di tali importanti opportunità, occorre però considerare che in Italia i medici non possiedono una preparazione specifica adeguata in ambito ambientale-sanitario.15-16
In questo contesto si colloca l’iniziativa formativa finalizzata a sviluppare e scambiare le conoscenze dei medici di famiglia nell’ambito del progetto Ccm strategico “Cambiamenti climatici e salute nella vision planetary health”, coordinato da Isde-Italia e FNOMCeO. Un altro importante risultato collegato a questo progetto è stato la realizzazione di un manuale per raccogliere e descrivere metodi ed esperienze per i medici sentinella per l’ambiente.
Queste esperienze sono state recentemente riprese dalla task force Ambiente e salute del Ministero della salute, che ha concordato che “questa esperienza formativa preliminare verrà estesa e sviluppata con il coordinamento di Isde e FNOMCeO”.
La salute e l’ambiente come progetto di comunità
Nella governance dei sistemi sanitari territoriali, rinnovati per ricongiungere attività di prevenzione e cure primarie, va riproposto un ruolo attivo delle comunità locali e delle città come “scenario di incontro per la costruzione della vita collettiva” (Conferenza internazionale Habitat III delle Nazioni Unite del 2016). Joan Subirats scrive su MicroMega “l’alternativa c’è e passa proprio dalle città, che rappresentano la prima frontiera per affrontare l’emergenza sociale e il luogo in cui è più semplice mettere in moto processi e dinamiche mutualistiche”.
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), all’investimento 1.1 “Case della comunità e presa in carico della persona”, sottolinea che “il progetto di realizzare la casa della comunità consente di potenziare e riorganizzare i servizi offerti sul territorio migliorandone la qualità. La casa della comunità diventerà lo strumento attraverso cui coordinare tutti i servizi offerti, in particolare ai malati cronici”. Le case della comunità appresentano quindi uno strumento utile a ridurre la frammentazione sociale, la distanza istituzionale e riconsegnare ai cittadini le chiavi per la loro salute come progetto di comunità.17 Occorre quindi cogliere l’opportunità della implementazione delle case di comunità per investire sui medici di medicina generale e pediatri di libera scelta come protagonisti in iniziative che puntano al loro coinvolgimento nella prevenzione anche, e soprattutto, ambientale e sanitaria. Tale obiettivo deve essere attentatamene considerato nella formulazione della convenzione per le cure territoriali.
Una nuova prospettiva di assistenza territoriale di base
Il Pnrr, insieme ad altri importanti obiettivi (economia, giustizia, transizione ecologica, digitalizzazione etc.) ha focalizzato l’attenzione sulla primary health care (Phc), da non intendersi semplicemente come un medico di famiglia che opera isolatamente
sul territorio ed è coinvolto prevalentemente su aspetti ancillari e burocratici della sanità. La Phc è un’organizzazione che mira principalmente a mettere al centro delle valutazioni e delle azioni il cittadino-paziente e non le strutture sanitarie, che invece devono integrarsi tra loro per dare le risposte più appropriate in termini di tutela della salute. Questa integrazione operativa deve realizzarsi anche e soprattutto con la formulazione di misure utili alla prevenzione primaria. In particolare, nell’ambito del servizio sanitario territoriale, quanto descritto in precedenza potrebbe portare ad un nuovo paradigma che ponga l’individuo, nella sua complessità fisica, psicologica, sociale e ambientale, al centro di un’organizzazione che consenta al medico di famiglia di svolgere un ruolo assistenziale completo e più efficace, che valorizzi sia il ruolo dei comportamenti virtuosi a livello individuale e collettivo, sia la rilevanza dei rapporti tra
Bibliografia
ambiente e salute. La Phc potrebbe contribuire ad affrontare concretamente la complessità delle sfide ambientali, sociali, economiche e sanitarie imposte dallo scenario attuale (severa compromissione delle matrici ambientali, incremento epidemiologico di malattie cronico-degenerative, assenza di efficaci misure di prevenzione primaria) e dai cambiamenti climatici in corso. Tale obiettivo, tuttavia, potrà essere raggiunto solo con il superamento di frammentazioni e ritardi culturali e, soprattutto, se ci si metterà in gioco per un obiettivo che non può che essere condiviso: la salute come bene condiviso.17 y
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16 Riboldi F, Prandi F. “Casa della comunità non solo un luogo fisico ma un modo per promuovere la salute” in Salute per tutti: miti, speranze e certezze della primary health care. Perugia: Cultura e Salute Editore Perugia, 2021.
17 Bonaldi A, Celotto S, Lauriola P, Mereu A. Salute per tutti: miti, speranze e certezze della primary health care. Perugia: Cultura e Salute Editore Perugia, 2021.
I medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta possono svolgere un ruolo chiave per l’informazione e la prevenzione, ma devono essere formati
Inquinamento da microplastiche e salute
Annamaria MoschettiPediatra, Taranto
Annamaria Sapuppo
Università di Catania
Cosa ne sappiamo e cosa può fare
il pediatra: lo spiegano i Pediatri per un mondo possibile
dell’Associazione culturale pediatri
La plastica è un materiale di uso quotidiano per la sua economicità e versatilità, dagli anni Cinquanta ampiamente utilizzato in vari settori. Le materie plastiche però sono poco biodegradabili e tendono a persistere nell’ambiente. Oggi è dimostrato che, oltre a essere ampiamente diffuse nei mari, nel suolo, nell’aria e in tutti gli anelli della catena alimentare, le particelle di degradazione della plastica entrano nell’organismo umano e sono documentabili in vari organi e tessuti fino a superare la barriera cellulare e, sebbene i loro effetti sulla salute non siano ancora chiari, possono influire sullo stato di salute.
PER APPROFONDIRE
La plastica dispersa in ambiente si sbriciola, nel tempo, in frazioni sempre più piccole: le microplastiche, di dimensione inferiori 5 mm e superiori a 1 nanometro, e le nanoplastiche, di dimensioni comprese tra 1 e 100 nanometri. Questi frammenti, a causa della loro ubiquità e della capacità di interagire maggiormente con gli organismi viventi, hanno un maggiore impatto ambientale. Negli ultimi anni la letteratura scientifica si è concentrata sulla loro possibile presenza nell’organismo umano e sulle eventuali ricadute sulla nostra salute. È scientificamente plausibile che le particelle di microplastica possano essere portate agli organi attraverso il flusso sanguigno e che le principali vie di assorbimento delle microplastiche più piccole siano costituite dal contatto con le mucose (ingestione o inalazione).
Giacomo Toffol
Pediatra di famiglia, Ulss Asolo
Elena Uga
Pediatra SC Pediatria, Asl Vercelli
Ricadute sulla salute:
Tutte le persone sono in stretto e frequente contatto con le materie plastiche e i loro prodotti di degradazione. Tra i soggetti più a rischio, oltre chi lavora nelle industrie plastiche, ci sono i bambini, dato che i prodotti di contaminazione delle plastiche si ritrovano in tutti i suoli indoor e outdoor. È noto da tempo che i composti organici e i metalli pesanti associati alle nano- e microplastiche possono interferire con lo sviluppo del sistema nervoso e del sistema endocrino e sono quindi motivo di particolare preoccupazione. Per molti dei prodotti chimici più utilizzati nell’industria della plastica (per esempio bisfenolo A, ftalati, ritardanti di fiamma bromurati) e per molti contaminanti organici, che sono facilmente assorbiti dalla plastica (per esempio IPA e PCB), sono stati dimostrati effetti di perturbazione endocrina. I meccanismi con cui le nanomicroplastiche possono nuocere alla salute includono: la capacità di causare reazioni infiammatorie nelle zone in cui entrano in contatto con l’organismo, come gli alveoli o le cripte intestinali; la capacità di traslocare attraverso barriere biologiche a causa delle loro piccole dimensioni; la capacità di agire come vettori di miscele chimiche, contri-
buendo così a questo tipo di esposizione. In generale, una volta penetrate all’interno del nostro organismo, queste particelle possono rimanere sulla superficie alveolare o intestinale, causando fenomeni infiammatori, o traslocare in altre parti del corpo. Le nano- e microplastiche possono essere assorbite dalle cellule attraverso una serie di vie, ma principalmente attraverso l’assorbimento di nanoparticelle per endocitosi, in cui si verifica l’interazione adesiva delle nanoparticelle con la proteina di trasporto. Sono state identificate diverse vie endocitotiche, come la fagocitosi e la macropinocitosi, insieme all’endocitosi mediata da clatrine e caveole.
Diversi studi in vitro e in vivo hanno dimostrato che le nano- e microplastiche nel corpo umano sono in grado di causare danni fisici, apoptosi, necrosi, infiammazione, stress ossidativo ed alterata risposta immunitaria. Alcuni monomeri tossici come il PVC, il policarbonato (PC) e il PS, introdotti nell’organismo umano per inalazione e/o ingestione, sono risultati associati a genotossicità e cancro per azione
mutagenica cellulare, induzione dello stress ossidativo e alterazioni metaboliche. Un piccolo numero di studi su animali ha evidenziato la presenza di questi effetti tossici derivanti dall’esposizione a nanoplastiche. Attualmente gli studi sono in fase iniziale e hanno alcune importanti limitazioni legate sia alle molecole che vengono usate sperimentalmente, prevalentemente rappresentate da un unico tipo di molecole di PS, sia al fatto che si concentrano quasi solo sugli effetti acuti spesso, trascurando gli effetti a lungo termine dell’esposizione a nanoplastiche. Ancora inesplorata rimane la potenziale tossicità delle nanoplastiche su alcuni sistemi e, in particolare, sul cervello in via di sviluppo. Infine, le particelle di plastica possono fungere da vettori per un gruppo diversificato di sostanze chimiche: sostanze utilizzate nella produzione di plastica come ftalati e bisfenolo A, nonché sostanze assorbite dalla plastica nell’ambiente come IPA, triclosan, pesticidi organoclorurati e PCB, oppure metalli come cadmio, zinco, nichel e piombo, di cui è ben nota la tossi-
cità, spesso aggiunti come coloranti, biocidi o stabilizzanti. Tutto ciò aumenta la complessità dei possibili effetti nocivi di questa esposizione, rendendone al contempo più difficile lo studio. Numerosi lavori hanno riportato effetti avversi sulla salute derivanti dall’esposizione al bisfenolo A, anche a basse dosi, identificando il suo ruolo quale “interferente endocrino e genomico”, causa di disturbi metabolici e alterazioni del neurosviluppo nei bambini, più vulnerabili alla sua esposizione rispetto alla popolazione adulta. In quanto capaci di “interferire” con l’azione degli ormoni endogeni prodotti dall’organismo umano (ormoni tiroidei, estrogeni, glucocorticoidi), si comportano in modo sovrapponibile a essi e utilizzano prevalentemente gli stessi recettori nucleari e di membrana; inoltre agiscono già a livelli bassi di concentrazione e seguono la stessa curva dose-effetto di tipo non monotono. I loro effetti sembrano dipendere da tre variabili: livello di esposizione, momento di esposizione e sesso del soggetto esposto. Il periodo fetale è il momento di maggior suscettibilità: gli ormoni guidano lo sviluppo dell’organismo e le sostanze che interferiscono con la loro azione possono alterarlo, con ripercussioni anche nell’età adulta. Il bisfenolo A, infatti, può interagire anche con gli enzimi deputati alla steroidogenesi, che rivestono un ruolo chiave per lo sviluppo dell’encefalo, sia in epoca prenatale che nella prima infanzia. Riconosciuto dalla Corte di giustizia dell’Unione europea come altamente pericoloso, il bisfenolo A è stato pertanto bandito in Italia in prodotti quali biberon e giocattoli, bottiglie di plastica e imballaggi alimentari. In ogni caso, il suo impiego è ancora consentito nel settore della plastica in tutta Europa.
Gli ftalati, invece, sono utilizzati come plastificanti nella produzione di polimeri di
PVC e plastisol per ottenere una maggiore flessibilità e durata. Anche questi sono noti come “interferenti endocrini” e possono agire già durante il primo trimestre di gravidanza, una finestra di particolare vulnerabilità per il feto. Assieme ad altri interferenti endocrini cui possono essere esposte le donne in gravidanza, essi possono entrare in antagonismo con la funzionalità tiroidea ed estroprogestinica materna. Ricordiamo che durante il primo trimestre di gravidanza gli ormoni tiroidei sono quelli materni, dato che la ghiandola fetale inizia a funzionare solo dopo la decima settimana. È quindi importante una buona funzione della tiroide materna nel primo trimestre, in quanto eventuali alterazioni si possono ripercuotere negativamente sullo sviluppo neurologico del feto. Ricordiamo anche che gli estrogeni sono importanti per il buon andamento della gravidanza e che una loro alterazione può esitare in aborto o parto prematuro. Sia l’esposizione prenatale che quella postnatale agli ftalati sarebbero correlate a un aumentato rischio di obesità, diabete e sindrome metabolica. Anche il triclosan, un composto fenolico usato come antisettico e disinfettante in molti saponi e dentifrici, e gli organostannici e i ritardanti di fiamma bromurati, usati come stabilizzatori termici in prodotti in PVC e nella sintesi del poliestere, sono interferenti endocrini.
Cosa può fare il pediatra?
Le famiglie generano direttamente attraverso le loro attività circa tre quarti (77 per cento) dei rilasci di microplastiche, il resto è generato dalle attività economiche. La maggior parte di questi rilasci domestici si verifica durante la fase di utilizzo dei prodotti (49 per cento) e il resto (28 per cento) durante la manutenzione. L’uso dell’automobile personale incide per un terzo (38 per cento). L’azione sulle famiglie pertanto è fondamentale per promuovere la salute dei bambini, ma anche la salute globale. L’acquisizione della consapevolezza dei possibili danni derivanti dalla plastica è il primo dei passaggi necessari
L’azione sulle famiglie è essenziale per promuovere la salute dei bambini e la salute globale
per i genitori e le famiglie e anche per i pediatri, sia perché tale problematica è sottovalutata, sia perché la plastica è diventata parte integrante della vita delle famiglie e un cambiamento, pur auspicabile, risulta complesso.
La formazione degli stessi pediatri sull’argomento è necessaria ed è lo strumento preliminare per un’azione efficace, univoca e coerente di natura comunicativa. Intanto, è possibile dare qualche indicazione di massima. Gli ambulatori pediatrici devono essere “plastica free” per mostrare un esempio pratico di riconversione possibile, a partire dai giochi messi a disposizione dei bimbi in sala d’attesa e dalle suppellettili. Durante i bilanci di salute sarebbe inoltre opportuno ascoltare i genitori, chiedere delle loro abitudini e suggerire soluzioni alternative all’uso della plastica. Detto questo, risulta indispensabile prescrivere insieme al latte adattato, quando necessario, il biberon di vetro o di acciaio ed enfatizzare l’obbligatorietà dell’indicazione; prescrivere insieme alle norme per il sonno sicuro la necessità di usare per la biancheria dal letto solo ed esclusivamente fibre naturali e vietare categoricamente nel letto del bambino la presenza di peluches e bambole di materiale plastico. È questa l’occasione per suggerire di evitare tali giocattoli nella vita quotidiana almeno fino ai tre anni di vita, quando è prevalente il comportamento bocca-mano, e possibilmente anche in seguito; la presenza nella sala d’attesa di uno spazio giochi “plastica free” aiuterà la comunicazione.
I pediatri potranno aiutare i genitori ad acquisire confidenza con la lettura dell’etichetta degli abiti e dei tessuti, ricordando che ogni abito ne è fornito obbligatoriamente per legge, e invitandoli a scegliere vestiti e tessuti per l’arredo della casa di fibre naturali.
Il momento dello svezzamento è quello giusto per ricordare di evitare di usare cibi che abbiano avuto contatto con la plastica (per esempio suggerire lo yogurt in vetro, i formaggi affettati sul momento ecc.), di non usare gli strumenti da cucina di
plastica come per esempio coppe, insalatiere, piatti, cucchiaini, frullatori o di sostituirli gradualmente.
Risulta indispensabile ricordare la necessità di arieggiare gli ambienti e soprattutto di pulire mobili e pavimento con lo straccio umido per ridurre il rischio di inalazione e ingestione della polvere di casa, soprattutto per i bambini più piccoli. Vanno assolutamente sconsigliati tappeti e moquettes. In ogni occasione possibile va promosso lo spostamento a piedi o in bicicletta e la riduzione dell’uso dell’automobile. Queste indicazioni di massima andrebbero organizzate, vista l’urgenza e l’importanza del problema, in un piano comunicativo organico e collettivo condiviso da tutti i pediatri a livello nazionale.
Questo testo è un estratto del primo articolo nella neonata collaborazione con la rivista dell’Associazione culturale pediatri – Quaderni acp – sulle tematiche nell’ambito della salute materno-infantile. La versione integrale è disponibile online. y
CI, studente di medicina di 22 anni, si presenta dall’urologo per disuria (dolore a urinare). È stato inviato da un medico che l’ha visitato all’ambulatorio per gli studenti. Non ha perdite dall’uretra, piuria (pus nelle urine) o fattori di rischio connessi a infezioni sessualmente trasmesse. I sintomi si presentano in modo irregolare, un paio di volte a settimana
“Immagini di lavorare in ortopedia” mi chiesero all’esame. “In sala operatoria utilizza trapani ortopedici che generano aerosol con frammenti di ossa e sangue; tratterebbe pazienti con l’aids?”.1 Un modo raffigurato per porre questo interrogativo, ma certamente non l’unico. Era una domanda comune nei colloqui per entrare a medicina nell’inverno del 1989-1990. L’hiv rappresentava una minaccia per la salute dei medici. Vi erano stati dei casi in cui dei professionisti sanitari avevano contratto da aghi infetti questo virus, che ai tempi era quasi sempre fatale. Nel mio immaginario l’infezione da hiv rappresentava l’unico modo in cui la mia scelta di
Questo lavoro potrebbe davvero uccidermi
Anche i medici sono pazienti
Adam Cifu Medico internista University of Chicago medicinecarriera avrebbe potuto impattare la mia salute e la mia attitudine verso di essa. Avevo pietosamente torto.
L’impatto iniziale di una carriera da medico è banale e quasi umoristica: gli studi di medicina praticamente garantiscono un caso di second-year-itis (“studentite del secondo anno”). Questa sindrome, che mi piacerebbe soprannominare “disturbo somatoforme specifico degli studenti di medicina”, o M3SD, si manifesta sotto forma di studente di medicina ansiogeno e convinto/a di avere sviluppato una malattia che ha studiato di recente.
CI era un mio compagno di corso. Era uno studente diligente e di recente aveva passato l’esame di microbiologia con il massimo dei voti. Aveva preso appuntamento all’ambulatorio per gli studenti per via di un sintomo fastidioso: la disuria. Nonostante l’assenza di perdite dall’uretra, fattori di rischio connessi a infezioni sessualmente trasmesse e l’irregolarità dei suoi sintomi, era certo che si trattasse di uretrite causata da clamidia. Il dottore che l’aveva visitato gli aveva fatto un esame della prostata, aveva preso un campione di urina e gli aveva fatto un tampone uretrale. Tutti gli esami avevano esiti normali. CI era poi stato mandato da un urologo per fare dei test diagnostici. Questo aveva fatto un’anamnesi accurata e aveva stabilito che i sintomi di CI si presentavano solo di martedì e di
venerdì pomeriggio. Dopo qualche indagine era emerso che in quei giorni pranzava da Maruyms, un ottimo ristorante mediorientale situato di fronte al suo condominio e famoso per un piatto di pollo agliato e generosamente speziato.2 Quando poi CI aveva mangiato dei pasti meno speziati, i suoi sintomi si erano risolti.3
Nel tempo gli studenti di medicina superano la M3SD. Quando ho smesso di immaginarmi costantemente affetto da nuove patologie, ho riscoperto un senso adolescenziale di immortalità. Nulla al mondo ti fa sentire invincibile quanto il poter godere della buona salute che la gioventù offre mentre si è circondati da malattie e morte. Gli specializzandi, infatti, continuano a rimanere in salute, protetti dalla propria età, condizione fisica e rete di supporto. Quando si ammalano, la loro giovane età tendenzialmente garantisce loro diagnosi benigne e la guarigione li rende ancora più sicuri della propria costituzione forte. Nel corso del tempo la mia conoscenza medica ha alimentato il mio senso di indistruttibilità. Con il crescere della mia pratica clinica, riconoscevo quanto le patologie che più temevo fossero rare. Questo calcolo di “probabilità pre-test” è diventato parte del sistema di pensiero base del medico tirocinante. Ci permette di pensare al tic all’occhio e alla poliuria come conseguenze dell’eccesso di caffeina piuttosto che come il primo sintomo di un tumore al cervello che causa diabete insipido. I pazienti che vediamo arrivano aspettandosi il peggio, hanno consultato Google per cercare i propri sintomi e si sono fissati sulle eziopatogenesi più agghiaccianti. La nostra capacità di placare queste paure con spiegazioni accurate sulla causa reale, spesso innocua, ci porta a sentirci sicuri nella nostra padronanza della diagnostica. Associamo quindi la nostra padronanza dell’arte diagnostica alla padronanza delle malattie stesse.
Una conseguenza occasionale delle nostre illusioni di impenetrabilità è il diniego. Diventa impossibile immaginare che un dolore prolungato, una tosse fastidiosa o
una dipendenza possano costituire qualcosa di grave. Molti medici durante i propri studi non hanno un medico e ogni tanto si prescrivono da soli gli antibiotici oppure chiedono ad amici e colleghi.4 Conosciamo tutti la storia del collega dottore che ha aspettato troppo tempo prima di consultare un medico per quelli che, a posteriori, erano ovvi campanelli d’allarme. Quanto a 30 anni mi è stata diagnosticata una malattia cronica, mi sono reso conto di un altro vantaggio della carriera che avevo scelto. Avevo compreso bene la diagnosi (anche se passavo tutti i giorni a cancellare il pensiero che si trattasse di qualcosa di molto più grave) e sapevo chi dovevo vedere. Dopo un paio di chiamate sono riuscito a prenotare una visita in pochi giorni. Questo tipo di accesso è un qualcosa che le persone esterne all’ambiente medico non si possono neanche sognare, indipendentemente da quanto siano ricche e abbiano una buona assicurazione o dei contatti.
Questo mostra un altro vantaggio: la ricchezza. Ovunque nel mondo il più grande fattore associato a una cattiva salute e a una ridotta aspettativa della vita è la povertà. Ogni anno di studio in più garantisce al giovane medico la certezza di avere un lavoro, un’assicurazione medica e un certo livello di benessere per tutta la vita. Con l’avanzare dell’età (e delle diagnosi da aggiungere alla propria lista di problemi)
la sicurezza del medico riguardo la propria salute eterna inizia a scemare. I nostri giovani colleghi sono rimpiazzati da uomini e donne dai capelli (se ci sono) grigi. I pazienti dei nostri ambulatori che una volta consideravamo “anziani” ora hanno la nostra età. All’interno e all’esterno della nostra pratica clinica vediamo che effettivamente i nostri coetanei si ammalano gra-
Nel corso del tempo la mia conoscenza medica ha alimentato il mio senso di indistruttibilità
vemente. A questo punto la nostra conoscenza medica ci rende sgradevolmente consapevoli di quello che ci attende. Di questi tempi tutta la sicurezza che mi ha permesso di attraversare fischiettando il camposanto (il mio lavoro) se n’è andata. Ora è come se stessi camminando in punta di piedi su un campo minato. Quando comunico a un paziente una diagnosi devastante, mi faccio le tipiche domande della persona sana che l’ha scampata: “Perché non è capitato a me?”. La mia crescente conoscenza della patogenesi mi ricorda che qualsiasi nuovo trauma o lieve disabilità potrebbe facilmente accompagnare il resto dei miei giorni, che ora non sembrano essere affatto infiniti. Tento di considerare questa consapevolezza come una sorta di regalo che mi permette di vedere i miei dolori e acciacchi in prospettiva e di apprezzare appieno la mia salute. Cerco di notare i giorni in cui tutto sembra andare bene.5
Noi medici anziani diveniamo una tipologia speciale di paziente: il paziente dottore. Nonostante l’invidiabile accesso alle cure di cui godiamo grazie alla nostra professione, è difficile trovare il medico giusto. È raro che un dottore cerchi di (e tantomeno riesca a) prendersi cura di vecchi medici esperti e (spesso) pieni di opinioni. Tuttavia, quando si trova un dottore del genere, la gestione collegiale e collaborativa della propria salute può essere molto soddisfacente e si instaura una relazione davvero speciale.
Oltre agli aneddoti dei colleghi, non aggiungo molto altro in supporto a quanto ho scritto. Abbiamo studi su argomenti come il burnout, le problematiche relative alla salute mentale e il tasso di suicidio, ma la raccolta sistematica di dati riguardanti la prospettiva dei medici sulla propria salute e sulla frequenza con cui vedono un dottore è limitata. Probabilmente è vero che siamo più in salute rispetto alla popolazione generale, ma non tanto quanto pensiamo di esserlo.
La maggior parte degli studenti sa che entrando in medicina accetta un certo livello
di rischio nel trattare persone potenzialmente infette o violente. Riconosce anche che si deve preparare ad affrontare quasi un decennio (come minimo) di privazione del sonno. Credo che pochi di noi comprendano i modi subdoli, ma profondi, in cui la professione inciderà sulla propria salute. Il settore che abbiamo scelto ci impegna troppo nella gestione della salute di completi sconosciuti e altera il rapporto con la nostra salute. Si inizia con un livello di preoccupazione ossessivo e quasi comico che negli anni diventa un senso di invincibilità e padronanza, per poi raggiungere solo alla fine tranquillità e riconoscenza. Forse la ricompensa meno riconosciuta che la professione medica regala è l’abilità di comprendere la propria salute e il proprio benessere. y
Questo articolo è la traduzione del post di Adam Cifu pubblicato su Sensible Medicine con il titolo “Friday Reflection 12: this job just kill me”. Per gentile concessione di Sensible Medicine.
Note
1 Per chi di voi gioca da casa, la risposta corretta era: “Sì, con precauzioni universali”.
2 Ho fatto delle ricerche su questo punto e nella letteratura scientifica: non esistono evidenze sul fatto che i metaboliti dell’aglio irritano l’uretra. Si tratta quindi di un case report in attesa di essere scritto o di un altro esempio di effetto placebo di una insinuazione ben proposta.
3 Non per rompere il filo del racconto ma amo così tanto queste storie che ne voglio aggiungere un’altra. Una volta una collega è andata da un oncologo perché da una settimana si sentiva stanca e aveva i linfonodi ingrossati. Si era autodiagnosticata (erroneamente) un linfoma, ma la diagnosi dell’oncologo (quella corretta) era di mononucleosi. Quel che rende la storia memorabile è il modo in cui la mia collega aveva contratto l’infezione. Aveva fatto da baby sitter alla figlia dell’oncologo che era a casa malata con, indovinate un po’, la mononucleosi.
4 Questo nonostante il proverbio di Osler secondo cui un medico che curi sé stesso ha un matto per paziente.
5 È un’osservazione tra me e me. Immagino che non interessi particolarmente a nessun altro.
Forse la ricompensa meno riconosciuta che la professione medica regala è l’abilità di comprendere la propria salute e il proprio benessere
Il primo turno notturno... “I’m so lonesome tonight”
La solitudine del medico nell’ospedale di notte
Michela Chiarlo Reparto di Medicina d’urgenzaI’m so lonesome, I could cry I’ve never seen a night so long And time goes crawling by The moon just went behind the clouds To hide its face and cry 1
Sono le dieci di sera di un piovoso giovedì di novembre. Sento le gocce ticchettare con regolarità sul soffitto in plexiglass della sala emergenze mentre accendo il computer e prendo posto sulla mia sedia. Lancio uno sguardo al monitor riassuntivo delle telemetrie e uno attraverso il vetro ai pazienti stesi in barella. È la mia prima notte e avverto l’inconfondibile sensazione di eccitazione e timore che si accompagna a un’esperienza inedita: sono al comando, per la prima volta. Il pronto soccorso è come una nave con il suo equipaggio, e ora mi trovo sulla plancia, cui la postazione della sala emergenze somiglia moltissimo. Per le prossime dieci ore dovrò traghettare la nave del pronto soccorso al porto sicuro del cambio del mattino. È la mia prima volta e mi sento completamente sola. Mentre cerco di apparire sicura con il resto dell’equipaggio ripenso all’ultima volta che ho percepito così potente la solitudine in ambito professionale. Ero appena
laureata, mi trovavo nello studio del medico di famiglia che avevo accettato di sostituire, nella pausa tra un paziente e il successivo. Un filo di inquietudine mi accompagnava costantemente: “Chissà quale problema varcherà la soglia con il prossimo paziente”; mi chiedevo: “Chissà se avrò una risposta adeguata o se sarà qualcosa di cui non so nulla”. In quell’occasione ho realizzato per la prima volta quanto il nostro sia un lavoro solitario. “Ma se siete sempre a contatto con la gente!” dirà qualcuno. Vero, ma siamo sempre soli a dover rispondere alle loro domande e aspettative, soli a prendere decisioni complesse, soli a comunicare notizie difficili, soli e spesso senza alcuna certezza. Il bello della medicina è che non è matematica, premesse identiche possono condurre a risultati diversi, il brutto della medicina è che non è ingegneria: non riconosci gli incontrovertibili frutti del tuo lavoro, se il paziente migliora potrebbe sempre trattarsi di vis sanatrix naturae, se peggiora forse era una situazione troppo grave per essere trattata... o forse no.
Fare il medico, ho imparato durante quel mese di sostituzioni, ha poco a che fare con l’avere la risposta giusta e molto con avere sempre una risposta. È un mestiere fatto di azioni immediate e di riflessioni a posteriori; di decisioni prese in solitudine e di dubbi condivisi.
Per tutta l’università e la scuola di specialità ci abituiamo a condividere le decisioni, a essere costantemente supervisionati, ad apprendere dai più esperti, a studiare con i colleghi e confrontarci con loro, scendendo lentamente a patti con l’incertezza del mestiere, facendoci compagnia nei colloqui difficili, supportandoci nelle scelte, ma, inevitabilmente, prima o poi, arriva il momento in cui ci troviamo inesorabilmente soli e la decisione, con le sue ramificate conseguenze, è solo nostra.
Lo squillo del telefono del 118 mi scuote dai miei pensieri. Alzo la cornetta con quel misto di ansia e curiosità che caratterizza il lavoro del medico d’urgenza. “Rosso uno Sierra”, dice la centrale, vuol dire grave trauma stradale: un motociclista in arresto cardiaco, manovre rianimatorie in corso, tempo stimato all’arrivo di 5 minuti. Chiamo il rianimatore e dall’altro capo del filo sento una voce amica: è un mio compagno di università, anche lui alla sua prima notte. Forse avrei preferito qualcuno di più esperto ad aiutarmi, ma traggo comunque uno strano conforto dalla reciproca conoscenza.
I momenti che precedono l’arrivo di un codice rosso sono gli unici in cui il pronto soccorso somiglia a quello delle serie tv. C’è un’aria di trepida attesa, un agitarsi sommesso di persone che apprestano postazioni e attrezzature, indossano camici monouso e guanti, si affacciano alla porta, tendono l’orecchio per captare la sirena dell’ambulanza. Il silenzio carico d’attesa è pronto a essere interrotto da un momento all’altro, quando faranno il loro ingres-
Quello del medico è un mestiere fatto di azioni immediate e riflessioni a posteriori, di decisioni prese in solitudine e di dubbi condivisi
so i soccorritori, i monitor con gli allarmi e la barella del paziente. In quei minuti che sembrano eterni incrocio lo sguardo del mio collega e leggo nei suoi occhi i miei stessi pensieri: “Poteva capitarci una prima notte più tranquilla però...” e “Sono contento che almeno siamo in due”.
Does it worry you to be alone?
How do I feel by the end of the day?
Are you sad because you’re on your own?
No, I get by with a little help from my friends 2
Ogni reparto di ogni ospedale in cui sono stata ha un nome in codice per indicare la presenza di cibo e caffè in cucina che spesso esprime tutta l’italica creatività. “Tutto il personale è atteso in stanza 37”, “C’è una consulenza in sala C”, “Dottore, codice nero”, “C’è il dottor Vergnano al telefono di là”. Se si sapesse quali conversazioni avvengono talvolta durante queste pause non ci sarebbe bisogno di espedienti tanto fantasiosi per indicare una necessità fisiologica. “Glielo metteresti il meropenem a questa sepsi?”; “Che ne pensi di questo ECG?”; “C’è questo caso a cui ripenso da ieri”. L’ultima frase salta fuori a un collega più giovane di me mentre è già con un piede oltre la porta alla fine di quello che deve essere stato un turno parecchio impegnativo. Riconosco il germe del dubbio che mi ha attanagliato più volte e lo blocco sulla soglia: “Ti offro un caffè così mi racconti”. Rivediamo insieme passo a passo il suo paziente, le comorbilità, gli esami, la terapia e il setting di intensità di cure. È uno di quei casi giunti troppo tardi alla nostra attenzione, con una situazione troppo grave in partenza, in cui l’esito era prevedibilmente incerto, ma che, se va male, ti spinge a chiederti se si sarebbe potuto fare di più. Pur sapendo che l’incertezza è connaturata al nostro lavoro a volte vorremmo solo sapere di aver fatto “tutto il possibile”, anche se questo “tutto” non è mai chiaro cosa sia. Non ho la risposta giusta per il paziente del mio collega, ma sento che parlarne con me lo rassicura. Durante la specialità capitava di condivi-
dere la tristezza per un errore commesso o per un paziente per il quale non c’era più nulla da fare: c’era sempre un compagno di studi a portata di mano con cui confidarsi o dal quale farsi rassicurare. La vita da strutturato è molto più solitaria e la sofferenza spesso non è alleviata dalla condivisione con altri colleghi. Il peso della perdita di un paziente, se non condiviso, può essere schiacciante.
Mi torna in un lampo in mente quella prima notte, io e il rianimatore, ugualmente spaventati, ad attendere l’incidente motociclistico, a tendere l’orecchio alla sirena dell’ambulanza che ora si avverte distintamente.
Il tempo rallenta spasmodicamente fino all’apertura delle porte, poi tutto accade in un istante: entra in barella un ragazzo muscoloso, tatuato e cianotico. Basta un’occhiata a capire che è in condizioni disperate. Proseguiamo le manovre rianimatorie, intubazione, massaggio cardiaco, connessione al ventilatore. Le coste del ragazzo scattano sotto le dita dell’infermiere che pratica il massaggio cardiaco, le sue braccia sono deformate, segno di fratture multiple e di un incidente a dinamica molto elevata. Il tempo passa velocissimo, mezz’ora: pupille fisse, nessun cenno di ripresa del polso. Tre quarti d’ora: compare una sinistra linea piatta al monitor. Cinquanta minuti: ci arrendiamo.
Nessuno nella realtà si sogna di dire “Ora del decesso: 00.35”, ci si guarda negli occhi e, con delusione, si propone “fermiamoci”. Il tempo torna a dilatarsi attorno alla barella in mezzo ai resti dell’emergenza: garze, tubi, siringhe dell’emogasanalisi, brandelli di vestiti, tracce di sangue. I nostri muscoli stanchi per lo sforzo del massaggio cardiaco e un corpo freddo sulla barella.
La parte peggiore, però, deve ancora arrivare: parlare ai parenti che aspettano notizie fuori dalla porta. Guardo il mio collega e leggo nei suoi occhi i miei stessi pensieri, vorrei essere ovunque tranne che qui, a comunicare a una ragazza della mia età svegliatasi in piena notte con un
vuoto nel letto che il suo compagno quel vuoto non tornerà a riempirlo più. Eppure ci alterniamo a parlare, completiamo l’uno le frasi dell’altro e, per quanto si tratti di un colloquio straziante, in due ci sentiamo meno soli. Abbiamo fatto tutto il possibile, insieme, ne siamo sicuri. La solitudine è la sensazione dolorosa di assenza di contatto sociale o di appartenenza; sembrerebbe un problema dei medici che operano da soli sul territorio, più che di chi lavora in un grande ospedale. In realtà l’ospedale è come un condominio: pieno di persone che conducono esistenze isolate finché non vai a suonare il campanello a un vicino e a chiedergli in prestito lo zucchero.
La formazione universitaria sembra puntare alla creazione di un super-medico onnisciente e autonomo, fornito del bagaglio culturale e delle conoscenze necessarie a curare i propri pazienti senza bisogno di nessuno, come se fossimo ancora nel diciannovesimo secolo, quando i medici condotti sapevano e facevano tutto ciò che il ridotto volume delle conoscenze mediche consentiva loro. Padroneggiare l’intero sapere medico, oggi, è quanto mai utopistico, ma ciò non toglie che negli ospedali le consulenze siano spesso interpretate come scocciature o come scarichi di responsabilità legali più che come occasioni di confronto tra colleghi di diverse specialità.
Trovarsi all’improvviso a curare una malattia nuova e ugualmente sconosciuta per tutti, come accaduto a inizio 2020 con la covid-19, ha ribaltato le prospettive: sono nati gruppi spontanei multidisciplinari di condivisione di competenze e (ancora scarse) esperienze, e sono state deposte rivalità di vecchia data. Nonostante l’apparente solitudine delle tute da biocontenimento, lavorare fianco a fianco per lunghe ore, facendo ciò che serve, badando alle necessità più che ai ruoli, affrontando ondate interminabili di pazienti sempre più gravi ha creato una complicità inattesa che ha consentito di condividere decisioni difficili dividendone il peso.
Una volta vinta l’iniziale ritrosia, bussare ai vicini per chiedere lo zucchero può far nascere proficue collaborazioni. L’ospedale di notte resta una nave, isolata dall’esterno e in attesa di giungere in porto, ma come una nave è pieno di gente che si adopera per azionare i motori, mantenere la rotta, comunicare con l’esterno. C’è qualcosa di confortante nel dormire in cabina sapendo che la nave continuerà a viaggiare, così come è confortante, per chi sta in plancia, sapere che un aiuto o un consiglio sono a portata di telefono. Alla mia prima notte sono seguite altre notti anche più difficili, frustranti o faticose, ma quel senso di solitudine non è più tornato.
Hard to be sure
Some times I feel so insecure [...]
Remains the cure
All by myself
Don’t want to be all by myself anymore 3 y
Bibliografia
1 Hank Williams, I’m so lonesome I could cry. Traduzione: “Sono così solo che potrei piangere, non ho mai visto una notte così lunga, e il tempo scivola via lentamente, la luna si è appena nascosta dietro alle nuvole, per nascondere la faccia e piangere”.
2 The Beatles, With a little help from my friends. Traduzione: “Ti preoccupa stare da solo? Come mi sento alla fine della giornata? Sei triste perché sei solo? No, me la cavo con un po’ di aiuto da parte dei miei amici”.
3 Eric Carmen, All by myself. Traduzione: “È difficile essere sicuri, a volte mi sento così insicuro, ma rimane la cura. Tutto solo, non voglio stare mai più tutto solo”.
L’ospedale è come un condominio: pieno di persone che conducono esistenze isolate finché non vai a suonare il campanello a un vicino e a chiedergli in prestito lo zucchero
Da dove viene questa sensazione, la sensazione che il tuo lavoro non abbia più senso né valore?
Non ci avevi mai pensato prima? Non te ne eri mai accorto?
Eri troppo impegnato a macinare turno su turno, mattino, pomeriggio, notte, festivi compresi che ti sei dimenticato di chiederti: “Cosa sto facendo? Che senso ha tutto questo?”.
È bastato un cazzo di epidemia mondiale per farti fare i conti con le tue certezze, solo dopo però, quando è passata, ondata dopo ondata, e ti ha lasciato tramortito sulla riva ma vivo. L’obiettivo della sopravvivenza, almeno quello, lo hai centrato, e non era tra gli obiettivi aziendali. Ma se guardi bene i segni c’erano tutti: i presagi letti dagli aruspici nelle viscere degli animali se avessi sacrificato qualche animale come ai tempi dei Romani. I segni della decadenza, dei barbari che avanzano erano tutti lì, solo non hai saputo decifrarli. O forse sì, tu sì avevi già visto lungo, ma non ha mai contato nulla.
La tua opinione non ha mai contato nulla. Forse hai mancato di intraprendenza, di carattere di coraggio, forse sì.
Erano anni che ti agitavi che dicevi a tutti che così non si poteva andare avanti, che il Sistema stava crollando (e parlavi proprio del Servizio sanitario nazionale, Ssn).
Sembravi solo un povero pazzo quando parlavi del rischio di privatizzazione.
Per anni hai fatto notare che c’era qualcosa che non andava nell’aziendalizzazione, nei drg (diagnosis related group), nella digitalizzazione che procede volutamente a singhiozzo e ti fa rimpiangere i fogli di carta e il lapis, nella burocrazia che pervade tutto e ti sfianca, nell’emorragia continua di posti-letto, nei problemi mai affrontati per sciatteria, nell’accreditamento senza controllo dei privati, nella finta concorrenza pubblico-privato, nella pubblicità delle assicurazioni mediche che strillano in tv, alla radio, sui cartelloni pubblicitari, negli ambulatori medici aperti negli ipermercati segno di una decadenza che ha superato i limiti. Come
Come fai a non sentirti solo?
puoi farti rispettare quando il tuo ambulatorio sta di fianco al banco surgelati? E tu come uno stronzo a chiederti: “Chi mai vi ha dato il mandato di privatizzare il sistema sanitario nazionale?”. E poi fuori ti aspetteresti la piazza, invece ti arriva solo qualche voce, qualche urlo da qualche sparuto gruppo di rivoluzionari in pensione, per il resto silenzio. Tu sei un medico del Ssn, lo sei perché ci hai creduto e credi ancora che sia il sistema migliore per difendere la salute di tutti. Ma pare non interessi più a nessuno.
Come puoi non sentirti solo?
Gli ospedali, specie quelli periferici, sono aziende della peggior specie: fabbriche ispirate al fordismo. Non c’è nessuno spazio per la cultura scientifica, per l’aggiornamento fatto davvero per imparare, per la crescita professionale, per la realizzazione anche personale.
Per non dire della qualità della vita. Si vive malissimo negli ospedali.
C’è una disattenzione al benessere degli operatori che fa schifo, non saprei dirlo meglio.
E poi c’è una tensione, un impegno a non ascoltare, non importa se hai cose da dire, se sei un buon clinico, un buon professionista, se lavori da anni e sarebbe giusto darti ascolto.
Negli ospedali i professionisti non hanno più voce in capitolo da molto tempo. Vigono piccoli regimi dittatoriali. Guai a criticare, a ragionare, a discutere.
Il racconto di un medico in attesa di risposte che non arrivano maiVittorio Fontana Medico geriatra Ospedale Bassini, Cinisello Balsamo
Se provi a farlo, ti guardano sdegnati, si indignano e si offendono, “Guarda che ti do una nota disciplinare” (proprio come a scuola), insomma un avvertimento: “Vedi di non rompere i coglioni”. Per dire del livello di maturità, di libertà, di trasparenza, di democrazia.
E tu che li vedresti come luoghi di cultura oltreché di cura.
Come puoi non sentirti solo quando non senti nessuno dei tuoi colleghi ribellarsi?
Ci sarebbe da fare una rivoluzione ma ormai siamo tutti impiegati d’azienda e gli impiegati non fanno le rivoluzioni. Come puoi non sentirti solo?
Probabilmente sei solo tu ad essere fatto male, sei tu che ti isoli, per quella tua forma di snobismo che ti fa fare le cose solo se ti sembrano giuste, oneste, corrette, altrimenti non stai bene con te stesso.
Come quando non ti iscrivesti a quel sindacato. Poco importa se poi il segretario, un magazziniere, fu arrestato per favoreggiamento alla ‘ndrangheta. Se avessi voluto fare carriera saresti dovuta passare da lui, nel suo ufficio del seminterrato. Come puoi non sentirti solo?
Come quando appendesti alla porta dello studio quel manifesto che regolava l’ac-
cesso agli informatori farmaceutici. Non puoi immaginare come ti sei fatto fuori da solo con quella tua mania del conflitto di interessi. Lo sentivi addosso sulle scale, negli atri davanti ai reparti, quando incrociavi i colleghi intenti a parlare amabilmente dell’ultima statina che abbassa il colesterolo sotto i limiti misurabili oppure del nuovo antidepressivo che spacca, che vanno assolutamente prescritti perché sono nuovissimi, nuovi fiammanti e se li prescrivi sei un medico migliore, à la page, “fanculo” quei tuoi dubbi sull’aumento di mortalità, sulla debolezza delle evidenze. Tu sei fuori dal giro che conta, quello che prescrive farmaci di grido.
C’è un tale conformismo tra i medici.
Come puoi non sentirti solo?
Come puoi non sentirti solo, in mezzo a pazienti che hanno ormai l’attitudine dei consumatori, gente che si fa accompagnare in pronto soccorso dall’ambulanza per un mal di schiena, una tosse stizzosa, una febbre appena comparsa. Non è il “tutto e subito” dei giovani contestatori degli anni Sessanta, ma è quello dei consumatori che sono abituati a ordinare la marmellata di fichi su Amazon e si aspettano che gli venga consegnata a casa la domenica stessa per la colazione con la famiglia. Vogliono una visita, una risonanza o una scintigrafia total body, e la vogliono subito, e non importa se non sanno bene perché la stanno facendo, è così: la salute è una merce di consumo, deve essere disponibile subito, qui e ora. Chi gli ha messo in testa che sia così? Chi si è dimenticato di spiegare che la salute è un bene e non una merce?
Tranquilli non do la colpa a nessuno. È solo colpa mia, sono io che non so stare al mondo.
Si dice che siano le domande a contare. Ma se non ricevono risposte a cosa servono tutte queste domande, se non a farti sentire ancora più solo?
Eccola qui un’altra bella domanda. Come puoi non sentirti solo senza neanche una risposta? y
Stella Maris
: una stella polare mancata?
Dal dialogo terapeutico a quello platonico: l’ultimo romanzo di Cormac McCarthy
È stato rilevato il paradosso per cui proprio oggi, dopo una pandemia dalla quale a stento ci stiamo risollevando grazie agli straordinari, rapidi progressi dei vaccini e delle norme igieniche e di profilassi, si fa più pressante ed endemica la sfiducia nei confronti della scienza. Si direbbe frutto, più in generale, di una diffusa diffidenza nella razionalità. Nei tempi di crisi, spetterebbe innanzitutto agli intellettuali risvegliare la capacità di affermarne le ragioni. Per esempio, gli operatori sanitari potrebbero essere chiamati a svolgere il ruolo prezioso di “traduttori di fiducia” tra scienza e opinione pubblica,1 magari affiancati da mass media consapevoli, in grado di riprendere la lezione di chi, nel recente passato, si è assunto il compito di divulgare le scienze rispettandone lo spirito e la complessità, come David Attenborough o Piero Angela.
Nei tempi di crisi, spetterebbe innanzitutto agli intellettuali risvegliare la capacità di affermarne le ragioni.
Torna a pulsare insomma l’annosa, e irrisolta, questione della responsabilità dei chierici. E viene da chiedersi quale compito elettivo, se mai ve ne fosse uno, spetterebbe agli altri rappresentanti dell’intellettualità, come per esempio i grandi letterati, in grado di incidere su un vasto pubblico internazionale di lettori. Scrittori affermati, capaci di trascinarci nell’al di là della narrativa, trattando
nei loro romanzi la questione climatica, vecchie e nuove pandemie, le nuove forme di disagio psichico –come per esempio Michel Houellebecq, Orhan Pamuk, Emanuel Carrère o il nostro Paolo Veronesi – possono coltivare e diffondere speranze, ma hanno anche il diritto soggettivo di lasciarsi sprofondare nel disincanto. Noi, loro pubblico, continuiamo però a chiederci se possano permettersi oggi un cuore di polvere. La domanda ritorna ora che è stata appena pubblicata Stella Maris l’ultima opera di uno dei grandi scrittori statunitensi contemporanei, Cormac McCarthy. Difficile vincere l’impressione che chi ha dedicato la propria carriera a fissare il vuoto, ora non ne sia a sua volta fissato.
Stella Maris. Per una volta non è il nome di uno stabilimento balneare, ma di un ospedale psichiatrico nel Wisconsin, primi anni Settanta. Aprendo il romanzo, un medico prova una subitanea familiarità, perché la prima pagina contiene uno spezzone della cartella clinica che racconta l’arrivo della protagonista, Alicia: «La paziente è una donna ebrea/caucasica di 20 anni. Attraente, forse anoressica. È arrivata in questa struttura sei giorni fa apparentemente in autobus e senza bagagli». La ragazza ha chiesto di essere accolta lì dove già era stata ricoverata. Bellissima, molto intelligente, suonatrice di violino di livello internazionale, ex studentessa-prodigio e dottoranda in matematica all’Università di Chicago. Ma è sola e inquieta,
insidiata da pensieri suicidi e visitata da entità allucinatorie fantasmatiche («Ho conversazioni clandestine con personaggi presumibilmente inesistenti»).
Oltretutto, è innamorata del fratello maggiore Robert, in coma in Europa a seguito di un incidente automobilistico. Alicia è la protagonista di uno dei due corni dell’opera più recente di Cormac McCarthy, insieme a The Passenger, uscito in contemporanea.
Quest’ultimo è centrato sul fratello Robert, Stella Maris è invece l’austera trascrizione delle sedute di Alicia con il suo psichiatra, il dottor Cohen. Un operatore sanitario noterà subito che la conversazione ha poco di realistico: somiglia più a un colloquio tra un candidato a una borsa di studio post-dottorato e un intervistatore non molto competente. Tuttavia, i motivi d’interesse permangono.
Per questo dittico, sedici anni dopo il precedente romanzo, la prosa del novantenne McCarthy, sempre più appassionato di fisica quantistica, si è fatta ancora più scabra.
Aggettivazione quasi azzerata, nessun segno d’interpunzione nel dialogo, le affermazioni della ragazza e del medico si susseguono senza incastri e sovrapposizioni. Lui pone domande, Alicia risponde, lasciando trasparire una sofferenza profonda, acuita dalla consapevolezza della diagnosi di schizofrenia paranoide con la quale è stata presa in carico. Già nelle prime battute del dialogo, Alicia se ne esce con un’osservazione quasi lacaniana, riferita a sé stessa: «Se sei abbastanza sano di mente da sapere che sei pazzo, allora non sei così pazzo come chi pensa di essere sano di mente» (p. 15). Nel parlare della propria passione per la matematica («l’intelligenza è numeri, non parole», p. 19) e per la musica («la musica non è un linguaggio. Non si riferisce a null’altro che a sé stessa», p. 38), la giovane sembra voler indulgere sui
bordi, insistere sui confini più che incerti tra normalità e disagio, anche se lei stessa sembra un nodo gordiano di patologie: sinestetica, schizofrenica, autistica, anoressica, incestuosa e con pronunciate tendenze suicide. Ma soprattutto, donna. E le donne, avverte, «conoscono un›altra storia della follia. Dalla stregoneria all›isteria, siamo solo una minaccia» (p. 137). Alicia non sembra certo porsi a distanza di sicurezza dal proprio nichilismo epistemologico: «Vita. Che dire? Non è per tutti», dichiara agli inizi di The Passenger. Non a caso studia topologia, quella branca della matematica moderna che analizza le proprietà delle figure che non cambiano se vengono deformate senza “strappi”: degli oggetti sono detti topologicamente equivalenti (cioè omeomorfi) quando possono essere deformati l’uno nell’altro senza ricorrere ad alcuna incollatura, strappo o sovrapposizione. Un mondo in trasformazione, mutante, la cui unica legge sembra però destinarlo comunque alla fine: «Il mondo non ha creato alcun essere vivente che non intenda distruggere» (p. 24).
Secondo il critico di The Guardian,2 Stella Maris – privo com’è di ogni prospettiva di speranza – non sarebbe quindi che l’equivalente letterario di uno snuff movie, una sorta di analisi al rallentatore dell’annientamento generale verso il quale – secondo McCarthy –l’umanità sta procedendo.
Un dialogo platonico
Pur in questa cornice nichilista, il mondo interno di Alicia sembra segnato da confini labili, cangianti se solo si modifica la prospettiva con la quale li si guarda. Ed è così che la prima, “classica” – nella sua sciatteria – distinzione tra una condizione mentale normale e una patologica scivola felicemente nell’indistinto: tutto è complicato, non c’è spazio – com’è giusto – per semplificazioni e cortocircuiti.
Alicia tende a ritenere che perfino il legame di sangue tra fratello e sorella possa essere riconsiderato e che anche il confine che segna il tabù dell’incesto possa essere valicato. Ciò nonostante, per quanto sdrucciolevole sia la prospettiva dalla quale guarda alla realtà, Alicia tende ad affrontare col proprio terapeuta argomenti di grande rilevanza teorica e pratica, rendendo il confronto a tratti combattivo e cerebrale. Alicia indulge a richiamare le voci che avverte più affini (di fisici e matematici come Cantor, Feynman e Gödel, ma anche di filosofi come Kant, Husserl, l’amato Quine e Wittgenstein). Alla fine, è stato notato, più che un dialogo terapeutico, il loro somiglia a un dialogo platonico. Nella realtà dei fatti, non sempre la relazione tra i curanti e la persona malata può essere così approfondita. Anche se il setting psichiatrico dovrebbe prestarsi particolarmente al confronto. In ogni caso, oltre quello della scrittura pulita e tersa, McCarthy ha il merito di far discutere una ragazza provata dalla vita, anche se giovanissima, e uno psichiatra del Midwest su domande fondamentali, senza che stonino e sembrino incongrue: l’io personale è un’illusione? La realtà è qualcosa di più di un’intuizione collettiva? Gli oggetti matematici e la musica esistono indipendentemente dal pensiero umano?
Nel dialogo terapeutico di oggi c’è spazio per le grandi questioni?
Davvero si esprimevano così, come Alicia, gli schizofrenici paranoidi negli anni Settanta? C’è chi dubita che l’autore sia mai stato in analisi o abbia fatto una seduta di psicoterapia: il racconto tratta di una ragazza geniale ed eccentrica interrogata sul suo sviluppo intellettuale, sulle sue teorie della realtà, sulla sua corrispondenza con matematici famosi, sui suoi scambi con personaggi presumibilmente
inesistenti, e sulle implicazioni che tutto questo finisce con l’avere sulla sua vita psichica. Ed è già molto e dà da pensare.
Piuttosto, quest’ultima, densa scrittura dell’autore di La strada chiama altre domande: nel dialogo terapeutico di oggi c’è spazio per le grandi questioni? Ascoltare Bach è la cosa che più avvicina Alicia alla felicità: e allora, per esempio, si riesce ogni tanto a parlare con la persona malata dei suoi gusti musicali?
Sarebbe il caso che la nostra intellettualità migliore, e non solo gli operatori sanitari, si ponesse di tanto in tanto anche quelle domande sfondate, se ancora si vuol provare a reagire ad un’attualità sconfitta dalla violenza e dalla guerra, per la quale non troviamo soluzioni. Dalla conversazione, sofferta e civile, tra Alicia e il dottor Cohen si ricava nettamente l’impressione che esistono dei rimedi, ma che alla vita non c’è rimedio. Sembrano questioni astruse, e non lo sono. Hanno a che fare col disturbo mentale? Non necessariamente: sono di tutti noi, ma possono essere pensate e discusse anche da chi vive un disagio più profondo. Da chi alla domanda: “Credi in un’altra vita?”, risponde: “Non credo in questa”.
Luciano De Fiore
Il Pensiero Scientifico Editore
Bibliografia
1 Giustetto G. Fiducia e incertezza. il punto, numero 3, anno 2022.
2 Silcox B. Stella Maris by Cormac McCarthy review – a slow-motion study of obliteration. The Guardian, 7 dicembre 2022.
z LESSICO DI BIOETICA
Triage
Il termine “triage” deriva dal francese trier, che significa “ordinare, selezionare”. Sebbene avesse in origine una connotazione neutra (era utilizzato in ambito commerciale in relazione alla classificazione dei cereali o del caffè), il termine assunse un significato diverso nel momento in cui venne riferito alle vittime sul campo di battaglia. Il primo utilizzo in questo ambito risale all’epoca napoleonica, diventando poi la pratica più codificata in occasione delle due guerre mondiali.
Inizialmente la classificazione delle vittime consisteva in tre gruppi: feriti troppo lievi, quindi in grado di attendere; feriti gravi, a cui veniva assegnata priorità nell’evacuazione e nel trattamento; feriti troppo gravi per essere salvati, che non venivano quindi presi in cura.
Anche al di fuori di un contesto di medicina di guerra, gli elementi di questa classificazione iniziale rimangono in alcuni sistemi di triage, ad esempio nelle cure extraospedaliere. Se siamo gli unici soccorritori sulla scena di un incidente stradale e ci troviamo di fronte due vittime, la prima con una frattura a una gamba e la seconda in arresto cardiaco, presteremo immediatamente le cure al secondo paziente, a elevatissimo rischio di vita, in quanto il primo può aspettare. In uno scenario in cui ci trovassimo invece anche una terza vittima, cosciente ma con insufficienza respiratoria grave per un trauma toracico, questa dovrebbe avere la priorità: infatti, se prestassimo le cure al paziente più grave (quello in arresto cardiaco), avremmo pochissime probabilità di rianimarlo con successo e nel frattempo il paziente con l’insufficienza respiratoria potrebbe morire. Avremmo con
molta probabilità due morti invece di uno soltanto.
Il triage mira quindi in genere a massimizzare il numero di vite salvate e a dare priorità alle probabilità di sopravvivenza. Esso funziona lungo un continuum decrescente nel rapporto risorse/ pazienti: quando non possono essere soddisfatte tutte le esigenze di cura, l’attenzione si sposta da una prospettiva individuale a una di gruppo. L’American college of emergency physicians definisce le catastrofi come situazioni in cui “la capacità di una data area o comunità di soddisfare i bisogni di assistenza sanitaria viene sopraffatta dagli effetti distruttivi di eventi naturali o artificiali”. L’onere e la responsabilità delle decisioni possono essere di competenza dei clinici che hanno in carico i pazienti, oppure di un livello più alto nell’organizzazione sanitaria, prevedendo ad esempio dei comitati ad hoc.
Il triage, inteso come un processo strutturato di assegnazione di priorità in ambito medico, è utilizzato anche in condizioni ordinarie, nella relativa abbondanza di risorse di un moderno ospedale. Il triage ordinario stabilisce l’ordine in cui i pazienti verranno trattati in base all’urgenza dei loro bisogni e persegue la massimizzazione dei benefici per ogni singolo paziente. L’accesso dei pazienti ai dipartimenti di emergenza e accettazione è regolato con codici di priorità: un paziente con infarto miocardico acuto avrà priorità su un paziente con una lussazione di spalla. Anche la chirurgia elettiva (programmata) rispetta criteri codificati: la chirurgia oncologica ha precedenza sulle altre, in quanto il tempo di attesa può incidere sulla prognosi. La chirurgia urgente (potenzialmente salvavita) ha precedenza sulla chirurgia elettiva. Le lista di attesa per ricevere un trapianto di organo solido hanno criteri di priorità ben definiti e trasparenti. Non esiste un metodo universalmente corretto di praticare il triage o di giustificarne le scelte.
Dal punto di vista etico il triage (nonostante originariamente nei contesti militari – basandosi sulla necessità e non sul rango –contenesse al suo interno il seme di un’etica egualitaria) è supportato in genere da principi utilitaristi.
La maggior parte dei sistemi di triage è progettata per tutelare la vita umana, la salute, l’uso efficiente delle risorse e la giustizia, ma generalmente ignora altri principi importanti dell’etica medica, inclusi il rispetto per l’autonomia e il rapporto fiduciario tra medico e paziente.
Spesso le decisioni di triage sono in contrasto con il modello ippocratico, che prevede come unico dovere del medico quello di promuovere il benessere del singolo paziente e di non arrecargli danno. Non è previsto che possano essere compiute scelte sulla base di ragioni esterne. Si tratta quindi di un potenziale conflitto tra un’etica clinica individuale e un’etica pubblica, di comunità: il perseguimento di un bene comune limita di fatto la libertà, l’autonomia e la tutela dei diritti individuali.
La pandemia da sars-cov-2 ha sottoposto a pressione altissima molti sistemi sanitari, creando, per la prima volta su larga scala nella storia recente dei Paesi occidentali, condizioni di squilibrio tra domanda di assistenza sanitaria e risorse disponibili e richiedendo l’elaborazione di modelli di triage. A livello internazionale è scaturito un intenso dibattito in merito ai criteri di triage (clinici ed extra-clinici) e ai principi alla base delle scelte di allocazione delle risorse.
Marco Vergano Anestesista rianimatore OspedaleLa lettura continua su ilpunto.it
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