Trimestrale - Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale Aut. n°MIPA/CENTRO-SUD/192/2022 – Stampe Periodiche in Regime Libero – ISSN 2785-6240 - € 15,00
Un progetto dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Provincia di Torino
I comitati per l’etica nella pratica clinica. Come, quando e perché
A scuola di medicina: dalla didattica in aula alle lezioni dei pazienti Povertà infantile: 10 passi per investire nei bambini e nella società Cosa vuol dire “stare bene”: la salute come assenza di malattia, come capacità o adattamento?
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Sommario il punto | 3 | 2023
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Prestazioni o cura? Guido Giustetto IL PUNTO SULL’ETICA NELLA CLINICA
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Comitati per l’etica nella clinica in Italia: un’opportunità da non perdere Ludovica De Panfilis
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Un comitato per l’etica nella clinica in un’azienda sanitaria. Dove, come e perché Marta Perin
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La costituzione dei comitati per l’etica nella clinica come segno dei tempi e atto di responsabilità delle istituzioni Gaia Marsico
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Stare bene: ma che vuol dire? Riflessioni etiche dalla lettura del libro di Elisabetta Lalumera Luciano De Fiore
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Quattro (delle tante) cose che ho imparato dai pazienti Adam Cifu IL PUNTO SU VIOLENZA E ADOLESCENZA
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Povertà infantile disuguale. Non perdiamo più tempo Intervista a Giorgio Tamburlini
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Isole di calore e piogge torrenziali? Costruiamo città spugna Elena Granata
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Cinque saggi sul vivere da medico e da paziente Richard Smith
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LESSICO DI BIOETICA
Biologia sintetica Demetrio Neri
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LESSICO DI BIOETICA
Fecondazione assistita Carlo Flamigni
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Il comportamento violento: riflessioni e rimedi Ugo Fornari
L’etica clinica per i piccoli pazienti e le loro famiglie Caterina Ugolini, Camillo Barbisan
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ANNO I, NUMERO 3 LUGLIO-SETTEMBRE 2023 Direttore scientifico Guido Giustetto Direttore editoriale Rosa Revellino Comitato redazionale Gianluigi D’Agostino, Venera Gagliano, Andrea Gatta, Guido Regis, Angelica Salvadori, Emanuele Stramignoni, Rosella Zerbi. Laura Tonon e Celeste De Fiore (Il Pensiero Scientifico Editore) Collaboratori: Giulia Annovi, Viola Bachini, Luciano De Fiore, Alessandro Magini
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Comitato editoriale Marco Bobbio, Michela Chiarlo, Giampaolo Collecchia, Lucia Craxì, Fabrizio Elia, Elena Gagliasso, Libero Ciuffreda, Giuseppe Gristina, Roberto Longhin, Giuseppe Naretto, Luciano Orsi, Elisabetta Pulice, Lorenzo Richiardi, Massimo Sartori, Vera Tripodi, Marco Vergano, Paolo Vineis Consiglio direttivo dell’OMCeO di Torino Guido Giustetto (presidente), Guido Regis (vicepresidente), Rosella Zerbi (segretaria), Emanuele Stramignoni (tesoriere), Domenico Bertero, Patrizia Biancucci, Tiziana Borsatti, Vincenzo Michele Crupi, Gianluigi
Gli articoli raccolti in questo numero sono post pubblicati sul sito www.ilpunto.it
D’Agostino (presidente CAO), Riccardo Falcetta, Riccardo Faletti, Gilberto Fiore, Ivana Garione, Aldo Mozzone, Fernando Muià, Angelica Salvadori, Renato Turra, Roberto Venesia Sede e contatti OMCeO Torino Corso Francia 8 – 10143 Torino email: info@ilpunto.it Produzione e amministrazione Il Pensiero Scientifico Editore Via San Giovanni Valdarno 8, 00138 Roma tel. 06862821 | fax 0686282250 e-mail: pensiero@pensiero.it internet: www.pensiero.it c/c postale: 902015 Editore responsabile Giovanni Luca De Fiore
Progetto grafico e impaginazione Typo85, Roma Stampa Ti Printing, Roma Autorizzazione Tribunale di Torino numero registro stampa 65/2021 del 29/12/2021 (già 793 del 12/01/1953). Immagini In copertina: “Da solo. LingottoBuilding. Torino” di t-lorien, iStock. Nelle pagine interne le foto non firmate sono di iStock. Tutti i diritti sono riservati. Diritti d’autore Tutto il materiale pubblicato in queste pagine è disponibile sotto la licenza “Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo
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4.0 Internazionale”. Può essere riprodotto a patto di citare ilpunto.it, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Finito di stampare novembre 2023 Abbonamenti 2023 Per l’Italia privati € 40,00 (per gli iscritti OMCeO Torino ricompreso nell’iscrizione all’Ordine) enti, istituzioni, biblioteche € 50,00 Per l’Estero € 60,00 L’abbonamento decorre dal mese di gennaio a dicembre Per abbonamenti: Andrea De Fiore tel. 06 86282324 e-mail: andrea.defiore@pensiero.it
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edici a gettone, liste d’attesa, malati sulle barelle in pronto soccorso: aspetti e segnali di un sistema sanitario definanziato, in grande difficoltà, oggetto di molti articoli sui giornali, inchieste, prese di posizione politiche, proposte di soluzioni. Ma nel loro insieme sembrano anche essere indici del clima culturale che viviamo: la prestazione sta sostituendosi alla cura. O meglio, questi fenomeni rappresentano l’antiparadigma della cura, intesa come cura del corpo e dell’anima per permettere alla persona di esprimere il proprio poter essere. La cura della persona, e più ancora il prendersi cura, è un atto complesso fatto di biologia e di relazione, di ascolto e di proposta, di competenze tecniche e di etica. La prestazione è il tentativo di scomporla in atti isolati, è il vedere la salute come la somma di risposte tecnico-amministrative o di riparazione di un organo. È Guido Giustetto anche funzionale a trasformare la nostra salute in oggetto del mercato, nel più ampio ambito del consumismo sanitario. Presidente OMCeO Torino Direttore scientifico ilpunto.it In questo senso il modello della prestazione, influenzato dall’impronta del sistema assicurativo, bene si inserisce nell’aziendalismo, nell’esternalizzazione, nel neoliberismo. Torniamo all’inizio, al medico a gettone in pronto soccorso. Luogo dove la persona, al di là dell’oggettiva gravità del suo problema, vive un momento di dubbio, di paura, di fragilità. Per colleghi occasionali che oggi ci sono e domani non più, dov’è il senso dell’équipe e la possibiPer il paziente la differenza tra cura lità di essere un gruppo affiatato in grado e prestazioni corrisponde a quella di prendersi cura della persona? I medici a tra essere considerato una persona gettone non conoscono gli altri operatori, l’ambiente anche sociale in cui devono lao essere ridotto al proprio organo malato vorare, l’organizzazione della struttura, il
Prestazioni o cura?
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software gestionale: come possono essere parte di un rapporto medico paziente, se pure allargato? Le liste d’attesa portano i sistemi di prenotazione ad offrire le visite specialistiche in luoghi anche molto lontani dall’abitazione degli assistiti. Il recente monitoraggio di Agenas1 riporta che il 51 per cento dei pazienti non accetta la sede di prima disponibilità. Il sistema per la sua offerta si basa sulla prima data libera e non sulla struttura, per cui per una patologia che richiede un monitoraggio specialistico frequente al paziente possono essere offerti specialisti sempre differenti, con buona pace della conoscenza reciproca costruita nel tempo, dei dati anamnestici già raccolti e della continuità terapeutica. Ma la prestazione è stata effettuata. Le barelle che affollano i pronto soccorso (boarding), sulle quali la gente sta anche per 4-5 giorni in attesa che si trovi un posto nel reparto adeguato, quale cura garantiscono ai pazienti? In questo caso la sofferenza non è solo dei pazienti: anche il medico che non ha tutti gli strumenti e la possibilità per lavorare bene, e si rende conto di non fare l’interesse del paziente tradendone in qualche modo la fiducia, ne soffre, avverte una ferita morale (moral injury), tende a lasciare quel lavoro. Per il paziente la differenza tra cura e prestazioni corrisponde a quella tra essere considerato una persona o essere ridotto al proprio organo malato. Dal punto di vista del medico, il lavoro meccanicistico solo per prestazioni fa perdere il senso della professione. Per fortuna c’è una terapia che contrasta questa perdita ed è il riferimento all’etica che qualifica la cura, dando al medico il piacere di esserci e la soddisfazione di resistere perché le cose giuste possano ancora accadere.2 y
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Note e bibliografia 1 Agenas. Monitoraggio ex-ante dei tempi di attesa delle prestazioni ambulatoriali – anno 2023 – attività di sperimentazione. 2 Alcuni spunti per questo testo sono presi dalla relazione della professoressa Luigina Mortari, dell’Università degli studi di Verona, all’81esimo congresso Fimmg-Metis (Cagliari, 2-7 ottobre 2023).
Il punto sull’etica nella clinica In queste pagine, Ludovica De Panfilis apre un confronto sui comitati per l’etica nella pratica clinica: a partire da come si implementano, passando dal ruolo di queste strutture nella cura del paziente adulto e pediatrico, al miglioramento della relazione di cura che i comitati per l’etica nella clinica possono comportare. Questa serie di articoli si propone di richiamare l’attenzione su questi organismi e sulla loro organizzazione per “portare l’etica al letto del paziente”.
Comitati per l’etica nella clinica in Italia: un’opportunità da non perdere Ludovica De Panfilis Ricercatrice sanitaria e bioeticista clinica Medicina legale e Bioetica Azienda Usl-Irccs di Reggio Emilia
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a riflessione sul ruolo della bioetica all’interno delle strutture di cura – la cosiddetta bioetica empirica o applicata o descrittiva1,2 – è diventata sempre più presente negli ultimi anni, principalmente a livello internazionale,3-5 ma anche nel nostro Paese, seppur con ampio ritardo rispetto al nord America e al nord Europa. La disciplina, infatti, dopo essere stata per molto tempo appannaggio quasi esclusivo del mondo accademico – e di conseguenza di una certa riflessione di tipo puramente normativo – si è aperta alla concretezza dei bisogni e dei problemi quotidiani di chi “vive” in prima persona l’assistenza, le cure, le relazioni terapeutiche. Risultato di questo ampliamento del campo d’azione della bioetica è stato, principalmente, lo stimolo a cercare le modalità più idonee affinché la bioetica potesse funzionare da “strumento di cura”, sia come attività di “consulenza etica”6 che come competenza acquisita da parte dei professionisti sanitari7 che, infine, come cornice entro cui muoversi per orientare le policy aziendali, I progetti di ricerca, la relazione di cura quotidiana. A che punto siamo La strada è stata tracciata, ma siamo ancora molto lontani dall’individuazione della modalità migliore per portare avanti un lavoro strutturato su questi temi. Si può sostenere che siamo ancora in una fase di “raccolta dati” ed esperienze, ma abbiamo sicuramente individuato quelli che potenzialmente possono essere i risultati di questo approccio,8 ovvero: { migliorare le competenze morali degli operatori sanitari, { migliorare i processi di cura, { aumentare la trasparenza dei processi decisionali, { rendere esplicite le ragioni etiche alla base dei comportamenti professionali, { stimolare una cultura di dialogo interprofessionale costruttivo, { migliorare il clima etico e la qualità dei processi gestionali.
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Il punto sull’etica nella clinica In Europa e, conseguentemente, anche in Italia una delle principali modalità di “portare l’etica al letto del paziente” è stata la creazione dei comitati per l’etica nella clinica (variamente definiti comitati, nuclei etici, gruppi etici, eccetera).9,10 Questi organismi, ove presenti, lavorano in parallelo ai comitati etici territoriali dedicati principalmente alla valutazione delle sperimentazioni cliniche e sanitarie. Come chiarito dal Comitato nazionale per la bioetica (Cnb) nel 2017, il comitato per l’etica nella clinica è un “comitato di un ospedale, o di un’altra istituzione, istituito per considerare le dimensioni etiche della cura del paziente e/o altri aspetti dell’organizzazione istituzionale che lo coinvolgono”.9 In altre parole, il comitato per l’etica nella clinica è un organo indipendente, multidisciplinare, volto a supportare la pratica clinica attraverso una serie di attività come la consulenza etica su casi clinici eticamente complessi, la formazione agli operatori e la produzione di linee guida su argomenti etici rilevanti.11 Al contrario di quanto accaduto per i comitati etici dedicati alla valutazione di studi clinici – oggetto di regolamenti a livello nazionale ed europeo sempre più specifici negli anni12 – i comitati per l’etica nella clinica sono stati finora materia di organizzazione per lo più locale e regionale. Mentre, infatti, alcune realtà come la Toscana, il Veneto e il Friuli Venezia Giulia si sono dotate di questi organismi in modo strutturato – anche se con caratteristiche differenti – la maggior parte delle realtà italiane sono completamente sprovviste di comitati per l’etica nella clinica o di organismi con funzioni simili, come servizi di supporto etico variamente strutturati. Fanno eccezione alcune Regioni come l’Emilia-Romagna o il Lazio, dove sono presenti singole esperienze non organizzate a livello regionale, ma solo aziendale.10,11 Un confronto su cosa è lecito fare L’assenza di questi comitati diventa ancora più rilevante e significativa in un pe-
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riodo, come quello attuale, in cui le domande di tipo etico sono sempre più frequenti e stringenti. Non solo il progresso scientifico e le nuove tecnologie pongono sempre più spesso la domanda relativa a ciò che è lecito fare tra tutte le cose possibili,13 ma anche le normative più recenti chiedono al mondo sanitario un surplus di riflessione morale sulle pratiche attuate e attuabili.14,15
Etica della relazione di cura ed etica pubblica si incontrano e scontrano nel tentativo di fornire risposte che abbiano una giustificazione morale Per fare due esempi tra i tanti che si potrebbero citare, l’impatto della pandemia covid-19 nel nostro Paese e le conseguenti scelte di allocazione delle risorse oppure il tema del suicidio medicalmente assistito interrogano dal punto di vista etico non solo i professionisti sanitari e i dirigenti, ma anche il decisore politico e la cittadinanza. Etica della relazione di cura ed etica pubblica si incontrano e scontrano nel tentativo di fornire risposte che abbiano una giustificazione morale, poiché le domande poste necessitano di una contestualizzazione di tipo etico. La gestione della carenza di risorse in una condizione straordinaria ed emergenziale come quella del covid-19 ad inizio 2020, la distribuzione dei vaccini e la loro allocazione, l’obbligatorietà di certe misure e l’impatto che esse hanno avuto sulla cittadinanza, l’etica della comunicazione scientifica, e altro ancora, hanno richiesto di dover prendere delle decisioni difficili, che necessitavano anche di giustificazioni dal punto di vista morale.16,17 Allo stesso modo, rispondere alle richieste di suicidio medicalmente assistito in assenza di una legge specifica,15 pone una serie di questioni etiche ineliminabili, quali il diritto all’autodeterminazione, l’obiezione di coscienza, la comunicazione corretta con la persona ammalata, l’equità
Il punto sull’etica nella clinica di accesso a questa possibilità. La gestione di tali aspetti, affidata per decreto ministeriale ai comitati etici territorialmente competenti,18 sarebbe al contrario opportunamente svolta da un comitato per l’etica nella clinica, proprio per la delicatezza del compito da svolgere e la necessità di competenze specifiche di consulenza etica, a tutela della vulnerabilità dei pazienti. Come specificato dalla postilla contenuta all’interno del parere del Consiglio nazionale di bioetica in merito,19 valutare un protocollo di ricerca e un caso di etica clinica sono due compiti significativamente diversi ed è, pertanto, “urgente far sì che in ogni parte d’Italia si creino comitati per l’etica nella clinica includenti l’expertise
sanitario e di scienze umane e sociali richiesto per una adeguata analisi oltre che dei casi di etica clinica ordinariamente emergenti nelle corsie delle strutture sanitarie, anche di quelli riguardanti il suicidio assistito. Proprio perché dedica in modo costante la propria attenzione ai problemi etici della pratica clinica, questo tipo di comitato etico sviluppa infatti la specifica sensibilità e le competenze adat-
La speranza è che questa riflessione dia il via ad un’attenzione a livello nazionale a questo tema, che si traduca in un impegno istituzionale concreto
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Il punto sull’etica nella clinica te per affrontare nel migliore dei modi le situazioni in esame”. In questi casi e, in molti altri che per questioni di spazio non sarà possibile qui affrontare, il comitato per l’etica nella clinica rappresenta un organismo indispensabile. La multidisciplinarietà che lo contraddistingue, la forte impronta etica del lavoro che svolge, l’attenzione alle dinamiche dei singoli casi e alla personalizzaBibliografia 1 Davies R, Ives J, Dunn M. A systematic review of empirical bioethics methodologies. BMC Med Ethics 2015; 16: 15. 2 Borry P, Schotsmans P, Dierickx K. The birth of the empirical turn in bioethics. Bioethics 2005; 19: 49-71. 3 La rivista AJOB Empirical Bioethics. 4 Botrugno C. Etnografia e bioetica. Note riflessive sui dilemmi eticometodologici nella conduzione di ricerca etnografica in ambito medicosanitario. Ragion Pratica, fascicolo 1, giugno 2023. 5 Furlan E. Prefazione. Ricerca empirica e riflessione normativa. In: Assistere presenze assenti Una ricerca sulle famiglie di persone in stato vegetativo, a cura di Erminio Gius. Milano: Franco Angeli, 2013. 6 Boniolo G, Sanchini V. Consulenza etica e decision-making clinico. Per comprendere e agire in epoca di medicina personalizzata. Pearson, 2017. 7 De Panfilis L, Tanzi S, Perin M, et al. Teach for ethics in palliative care: a mixed-method evaluation of a medical ethics training programme. BMC Palliat Care 2020: 19: 149. 8 Molewijk B, Verkerk M, Milius H, Widdershoven G. Implementing moral case deliberation in a psychiatric hospital: process and outcome. Med Health Care Philos 2008; 11: 43-56. 9 Comitato nazionale per la bioetica. I comitati per l’etica nella clinica, 31 marzo 2017. 10 De Panfilis L, Merlo DF, Satolli R, et al. Clinical ethics consultation among Italian ethics committee: a mixed method study. PLoS One 2019; 14: e0226710. 11 Perin M, Magelssen M, Ghirotto L, De Panfilis L. Evaluating a clinical ethics committee (CEC) implementation process in an oncological research hospital: protocol for a process evaluation study using normalisation process theory (EvaCEC). BMJ Open 2023; 13: e067335. 12 Cagnazzo C. Implementazione del regolamento europeo 536/2014 in Italia: la storia infinita. Recenti Prog Med 2022; 113: 299-304. 13 Comitato nazionale per la bioetica. Principio di precauzione: profili bioetici, filosofici, giuridici, 18 giugno 2004. 14 Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento. 15 Corte Costituzionale, Sentenza n. 242 del 2019. 16 Siaarti. Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili. Pubblicato il 6 marzo 2020. 17 Perin M, De Panfilis L. Among equity and dignity: an argument-based review of European ethical guidelines under COVID-19. BMC Med Ethics 2021; 22: 36. 18 Ministero della salute. Decreto 30 gennaio 2023: “Definizione dei criteri per la composizione e il funzionamento dei comitati etici territoriali”. 19 Comitato nazionale per la bioetica. Documento “Risposta al quesito del Ministero della salute – 2 gennaio 2023”, pubblicato il 24 febbraio 2023.
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zione delle scelte di cura sono solo alcune delle caratteristiche che ne fanno l’organismo più adatto. Parlarne insieme per dare visibilità Per questa ragione abbiamo deciso di dedicare una serie di contributi a questo tema, ciascuno dei quali tenterà di spiegare perché i “comitati per l’etica nella clinica sono un’occasione da non perdere”: a partire da come si implementa un comitato per l’etica nella clinica, passando dal ruolo di queste strutture nella cura del paziente adulto e pediatrico, al miglioramento della relazione di cura che i comitati per l’etica nella clinica possono comportare. La speranza è che questa riflessione dia il via ad un’attenzione a livello nazionale, da tempo auspicata, a questo tema, che si traduca in una concreta organizzazione della materia e in un impegno istituzionale altrettanto concreto, che persegua l’obiettivo di migliorare la qualità delle cure e, conseguentemente, la qualità di vita delle persone, di ognuno di noi. y
Il punto sull’etica nella clinica
Un comitato per l’etica nella clinica in un’azienda Q sanitaria. Dove, come e perché Marta Perin Comitato per l’etica nella clinica Unità di bioetica, Azienda Usl-Irccs di Reggio Emilia
uali sono i fattori che promuovono o ostacolano l’integrazione di un comitato per l’etica nella clinica in una struttura sanitaria italiana? E per quali ragioni una struttura dovrebbe dotarsene? L’esperienza del Comitato per l’etica nella clinica dell’Azienda Usl-Irccs di Reggio Emilia è particolarmente significativa per rispondere a questa domanda, in quanto è stato pensato come oggetto di un progetto di ricerca finalizzato non solo ad implementare il servizio, ma anche ad identificare i fattori che ne promuovono o ostacolano l’integrazione nell’attività quotidiana di un’azienda sanitaria. L’esempio di Reggio Emilia Nel 2020 con Delibera del direttore generale dell’Azienda Usl-Irccs di Reggio Emilia, sulla spinta delle problematiche etiche sollevate dal covid-19 e sul contestuale bisogno di supportare i professionisti in situazioni tanto inaspettate quanto difficili, è stato istituito il Comitato per l’etica nella clinica. Attualmente il Comitato è composto da 12 membri, rappresentanti professioni sanitarie e non, selezionati sulla base delle loro conoscenze e competenze in questo settore. I compiti Secondo il suo regolamento interno, il Comitato ha il compito di valutare casi clinici complessi che non rientrano nella sperimentazione clinica e farmacologica; produrre pareri su questioni morali percepite come rilevanti a livello aziendale; promuovere iniziative pubbliche per sviluppare la consapevolezza bioetica della cittadinanza; formare i professionisti sugli aspetti etici della cura. Il Comitato è guidato da un presidente con specifiche competenze in materia, da una segreteria
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Il punto sull’etica nella clinica scientifica, e si riunisce online una volta al mese per discutere in modo collegiale le richieste di consulenza – talvolta insieme al professionista che sottopone la richiesta, ascoltato/a in audizione – o i pareri in preparazione. Questo lavoro si è concretizzato, tra il 2020 e il 2023, nella produzione di tre documenti aziendali su aspetti etici della pratica clinica e organizzativa legati alle implicazioni etiche del covid-19, nella realizzazione di un corso di formazione per i professionisti dell’Azienda su strumenti e servizi per gestire i conflitti etici nei contesti di cura e, infine, nella gestione di 11 richieste di consulenza etica. Il contesto Alcuni fattori sono stati determinanti per il buon funzionamento del servizio. In primo luogo, il Comitato per l’etica nella clinica è stato introdotto in un contesto culturale e professionale molto sensibile alle tematiche bioetiche grazie alla presenza nella stessa Azienda sanitaria del l’Unità di bioetica che dal 2015 contribuisce con le sue attività di ricerca, formazione e consulenza, a sensibilizzare gli operatori sui conflitti valoriali che molto spesso attraversano la loro pratica quotidiana, rendendoli più consapevoli dei propri bisogni e più predisposti all’attivazione di questo servizio. Ulteriore elemento di forza è stata la presenza di professionisti con diverse competenze, sia cliniche che non (ad esempio esperti di bioetica, giuristi, rappresentanti dei cittadini). Gli ostacoli Il percorso fatto non è stato, certo, privo di difficoltà. Oltre alle scarse risorse destinate al servizio, la mancanza di una normativa chiara in merito all’esistenza dei comitati per l’etica nella clinica nelle aziende sanitarie ha contribuito ampiamente ad alimentare una generale confusione sulla comprensione del servizio in Azienda. La pandemia e il conseguente passaggio all’immaterialità dell’online non hanno contributo a dare visibilità all’attività del comitato per l’etica nella
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clinica, che è rimasta privata della ricchezza dei confronti e delle relazioni in presenza tra componenti e professionisti. Il futuro Una grande questione si pone, ora, al termine della progettazione su questo servizio in merito alla sua sostenibilità e continuità. Considerata la complessità che caratterizza il lavoro di un comitato per l’etica nella clinica, della quale si è cercato di dare un “assaggio” in queste righe, è ragionevole chiedersi se e come un servizio come questo possa contribuire a soddisfare un più ampio obiettivo di cura associato all’etica clinica. La creazione di uno spazio morale con e tra i professionisti di un’Azienda sanitaria, finalizzato a ridurre il senso di solitudine e il moral distress che spesso accompagna la quotidianità di chi cura e a sostenere i clinici nel tradurre in azioni concrete per i pazienti processi decisionali complessi, potrebbe essere una risposta, certamente non esaustiva, a questa domanda.
L’esperienza di Reggio Emilia, seppur limitata a un piccolo centro, conferma sostanzialmente la percezione generale che i comitati per l’etica nella clinica siano una grande opportunità per i professionisti sanitari per “non essere lasciati soli” a decidere su tematiche complesse, che chiamano in causa valori che vanno ben oltre gli aspetti clinici, legali, assistenziali ed organizzativi, e che richiedono, invece, un confronto allargato e multidisciplinare. y
Il testo integrale di questo articolo è disponibile nella versione online
La costituzione L dei comitati per l’etica nella clinica. Come segno dei tempi e atto di responsabilità delle istituzioni Gaia Marsico Esperta in bioetica Coordinatrice del Comitato per l’etica clinica, Azienda Usl Toscana nord ovest Componente del Comitato per l’etica clinica Aou Pisana
a bioetica in Italia non ha trovato un terreno fertile e si è sviluppata soprattutto a livello teorico, questo ha comportato ritardi e non ha favorito la permeabilità di medici e personale sanitario rispetto alle evoluzioni della medicina e ai mutamenti di paradigmi nella società.1 Partecipo alle attività di comitati etici da venticinque anni, con esperienze in Regioni diverse, nell’ambito dell’etica nella clinica e della sperimentazione/ricerca (non solo farmacologica), e ritengo che le ragioni principali che hanno impedito il realizzarsi dei comitati per l’etica nella clinica siano fondamentalmente di tipo culturale. Il Comitato nazionale per la bioetica ha dedicato ai comitati etici quattro documenti2 (ed è intervenuto sul tema nel contesto di riflessioni su temi specifici3), valutando in diverse occasioni l’opportunità del loro “radicarsi” nel nostro sistema sanitario. È interessante e urgente chiedersi: quale ruolo può effettivamente avere un comitato per l’etica nella clinica (termine non sempre usato ma che risulta essere il più appropriato)? Quali sono state in contesti reali le ricadute del lavoro di un comitato di questo tipo nelle relazioni di cura, nell’assistenza sanitaria e nelle politiche sanitarie?
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Il punto sull’etica nella clinica Il valore aggiunto dei comitati per l’etica nella clinica Personalmente, per la lunga esperienza maturata, reputo che un comitato possa portare davvero un contributo rilevante.4 In primis le motivazioni di questa ricchezza risiedono nel fatto che esso è costituito da un gruppo pluridisciplinare che, in quanto tale, offre una molteplicità di sguardi e approcci; un’altra ragione è data dalla mancanza di subordinazione gerarchica nei confronti della struttura ove opera e dalla presenza di componenti esterni (in misura spesso rilevante). L’indipendenza, caratteristica fondante di ogni comitato (pur se la maggior parte dei componenti sono nominati dalle direzioni generali delle aziende sanitarie), non è sempre semplice da gestire; può talvolta provocare tensioni anche molto forti, quando un componente o il comitato prende le distanze da politiche, scelte/decisioni della direzione della struttura. Questo costituisce un momento significativo di crescita e ricchezza per tutti i soggetti coinvolti, momento in cui si verifica l’aderenza al ruolo che dobbiamo svolgere. Sono circostanze molto delicate in cui il comitato ha l’opportunità (il dovere) di essere realmente garante dei diritti, dare voce ad ogni tipo di vulnerabilità/fragilità, affrontando anche questioni “divisive” con grande capacità di mediazione ma anche con il coraggio di restare sulle proprie posizioni e stimolare, nel contesto in cui opera, riflessioni di grande valore culturale. Sono diversi gli ambiti in cui un comitato per l’etica nella clinica può incidere nelle relazioni di cura e nelle politiche aziendali in modo diretto e/o indiretto. Quelli che seguono sono solo alcuni esempi, senz’altro tra i più significativi: 1. diffondere la cultura bioetica e il biodiritto, alimentare il dibattito sui temi più importanti fino a quelli più “divisivi”, sollecitare la riflessione personale di ciascun operatore e attivare un confronto tra competenze e ruoli diversi in ambito sanitario (ospedaliero e territoriale). Tutto questo lavoro di formazione/sensibilizzazione/
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informazione è importante che venga svolto anche a livello della cittadinanza, nell’associazionismo, nelle scuole, luogo prezioso in cui sarebbe necessario “entrare” in modo capillare; 2. rivedere e aggiornare l’informativa compresa nei moduli di consenso informato superando il “rito” burocratico tradizionalmente attribuito ai comitati. In particolare i/le componenti che hanno un punto di vista “laico” riescono a porre attenzione a “parole, espressioni, modalità” per far sì che quella procedura formale ricordi che una buona/adeguata informazione dovrebbe promuovere consapevolezza e partecipazione;
Il ruolo della bioetica è naturalmente centrale, come cruciale può divenire il ruolo dell’esperto/a in bioetica 3. rendere “vive” e vicine alla vita reale delle persone le procedure aziendali. Esempi di procedure ad alta valenza etica in cui mi sono trovata coinvolta sono: la nomina dell’amministratore di sostegno, la sospensione dei trattamenti, la pianificazione condivisa, la gestione della contenzione; 4. affrontare casi clinici controversi per cui i clinici chiedono un supporto (non solo un parere consultivo) per dirimere questioni complesse; 5. incontrare famiglie e pazienti, creare una relazione “altra” in situazioni difficili, talvolta drammatiche (un esempio è la richiesta di aiuto a morire), essere strumento di mediazione bioetica. In tutto questo il ruolo della bioetica è naturalmente centrale, come cruciale può divenire il ruolo dell’esperto/a in bioetica che, oltre ad avere alle spalle percorsi di studio specifici, matura una competenza sul campo data dal confronto continuo con molteplici tipi di professionalità, problematiche, situazioni e contesti.
Il punto sull’etica nella clinica
Purtroppo anche in Toscana, come nelle Regioni dove vi sono realtà simili, i comitati non ricevono alcun finanziamento, cosa che rende il lavoro molto faticoso La bioetica tenuta ai margini Purtroppo in Italia la bioetica, i comitati per l’etica nella clinica e l’esperto/a in bioetica non sono riusciti a radicarsi. La bioetica non è normalmente insegnata nelle scuole superiori, come in altri Paesi (nonostante qualche testo di filosofia timidamente le dedichi un capitolo), e ancora troppo poco nelle facoltà universitarie. L’esperto/a in bioetica non ha un riconoscimento chiaro (contrariamente a quanto accade in diversi altri Paesi), tant’è che il Comitato nazionale per la bioetica nel 2021 ha ritenuto “non più differibile la proposta di un ampio e approfondito dibattito sulle competenze di chi opera nei diversi ambiti della bioetica, auspicando, altresì, il coinvolgimento dei ministeri competenti, delle università, degli enti di ricerca, delle società scientifiche e delle associazioni che si occupano di bioetica”.5 Il parere del Comitato nazionale per la bioetica prende in esame il problema, tuttavia ritiene che “i tempi non siano ancora maturi per indicare già ora una formalizzazione dei diversi percorsi formativi per acquisire le competenze essenziali per l’esperto di bioetica” – abbastanza strano visto che anche in Italia, da circa trent’anni, esistono corsi di dottorato, master, corsi di perfezionamento in bioetica. A completare il quadro, si deve sottolineare che i comitati per l’etica nella clinica non si trovano su tutto il territorio nazionale, a differenza dei comitati etici territoriali che si occupano di sperimentazione e che, per ragioni organizzative ed economiche, da anni sono stati istituiti ovunque. La Toscana (come il Veneto), invece, alla fine degli anni ’90 ha costituito la rete dei comitati che si occupano di etica nella clinica (oggi ComEC, comitati per la pratica
clinica, prima chiamati comitati etici locali, per la loro diffusione capillare). La rete ha funzionato e ha permesso di presidiare i percorsi eticamente sensibili e portare un contributo fattivo. Purtroppo anche in Toscana – come nelle Regioni dove vi sono realtà simili – i comitati non ricevono alcun finanziamento, cosa che rende il lavoro molto faticoso. In un contesto così organizzato e in assenza di indicazioni ministeriali, i comitati devono affidarsi alla buona volontà di alcuni/e che con dedizione, alta competenza, senso di responsabilità, mettono a disposizione, a titolo personale, molto del proprio tempo per gestire questioni complesse che invece meriterebbero la massima attenzione a livello istituzionale. Il caso Antoniani-Cappato di “assistenza al suicidio” Cartina al tornasole di tutto questo scenario è la situazione attuale italiana che si sta creando in merito all’applicazione della sentenza 242/2019 della Corte costituzionale sul caso Antoniani-Cappato. La Corte ha individuato il comitato etico, per la “delicatezza del valore in gioco” che richiede “l’intervento di un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze, il quale possa garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità”. Il problema “aperto” riguarda l’attribuzione di competenza e l’individuazione dei comitati che dovrebbero occuparsi di questo e che sono chiamati a farsi strumento di consulenza, di tutela del paziente, del suo spazio di dignità e di scelta, e di mediazione bioetica. Come ha ben delineato nel 2020 il documento della Commissione regionale di bioetica della Regione Toscana, i comitati per l’etica nella clinica sono i più adatti a svolgere il ruolo di organismo collegiale “terzo” che individua la sentenza e “la loro competenza è quella che più precisamente risponde alle premure della Corte costituzionale”. Per questo, l’Azienda Usl Toscana nord ovest, per prima in Italia, si è dotata (dopo attenta riflessione con il proprio ComEC) di una
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Il punto sull’etica nella clinica procedura applicativa della sentenza 242/2019 che ha stabilito quale debba essere il contributo del comitato per l’etica nella clinica nell’iter valutativo delle richieste di aiuto a morire. Il Comitato nazionale per la bioetica, da parte sua, interpellato dal Ministero della salute, purtroppo non si è espresso in modo unanime su questo problema. Le ragioni possono essere molte (alcune, credo, siano già state espresse) e non è questo il luogo in cui approfondirle. Una maggioranza di componenti ha individuato, come organismo terzo, i comitati etici territoriali, pur se con possibili integrazioni. Ritengo senza dubbio inopportuna, anche per esperienza diretta,6,7 la proposta di affidare un tale compito a comitati che per definizione si occupano di sperimentazione clinica; inopportuno un “approccio caso per caso”, come pure la possibile “integrazione” ad hoc con ulteriori professionalità. Fare rete su tutto il territorio Per tutto questo, dopo anni di sollecitazioni provenienti da più parti, esperienze significative e riflessioni,8 ritengo sia arrivato il momento di istituire i comitati per l’etica nella clinica su tutto il territorio nazionale come segno dei tempi e atto di responsabilità delle istituzioni (Ministero, Regioni, aziende sanitarie). Non solo per affrontare le richieste di aiuto medico a morire, uno dei contesti più complessi e simbolici, ma per le tante situazioni che nella pratica clinica implicano questioni etiche in cui il ruolo dei comitati può essere dirimente e centrale. I tempi sono maturi, e se dal punto di vista istituzionale nessuno avanza una simile proposta, forse l’unica strada da percorrere è che una rete di comitati, sostenuta da studiosi dei vari ambiti coinvolti, diffonda iniziative e chieda, “dal basso”, pubblicamente, che il percorso di istituzionalizzazione dei comitati per l’etica nella clinica finalmente prenda vita. y
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I tempi sono maturi. E se dal punto di vista istituzionale nessuno avanza una simile proposta, forse l’unica strada da percorrere è una rete di comitati
Note e bibliografia 1 Mori M. Suicidio assistito e Ippocrate. Perché la richiesta di “Mario il marchigiano” è una “vittoria. Quotidiano sanità, 11 febbraio 2022. 2 Comitato nazionale per la bioetica. I comitati etici (27 febbraio 1992); I comitati etici in Italia: problematiche recenti, (18 aprile 1997), Orientamenti per i comitati etici in Italia, (13 luglio 2001), I comitati per l’etica nella clinica (31 marzo 2017). 3 Comitato nazionale per la bioetica. Risposta al quesito posto dal Ministero della salute, n. 3/2023 del 14 marzo 2023 in merito all’individuazione dei comitati etici competenti a rendere il parere in materia di suicidio assistito. 4 Ogni esempio, ogni attività citata è frutto di esperienze reali che ho potuto fare operando all’interno di comitati per l’etica nella clinica. 5 Comitato nazionale per la bioetica. La figura dell’esperto di bioetica nell’ambito dei comitati etici, 28 maggio 2021. 6 Marsico G, Bonuccelli D. La prima richiesta di “suicidio medicalmente assistito” in Toscana: il ruolo del comitato per l’etica clinica, il percorso intrapreso dalla Usl Toscana nord ovest. In: “Etica, medicina e diritto – Dialogo sull’aiuto medico a morire”. Responsabilità medica, numero 1, anno 2022. 7 Marsico G. Accogliere una richiesta di “aiuto a morire” può restituire uno spazio di vita? In: Liber Amicorum per Paolo Zatti. A cura di Guido Alpa, Arianna Fusaro, Giovanni Iudica, Manuela Mantovani, Roberto Pucella. Casa Editrice Jovene (in corso di stampa). 8 Una delle più recenti si trova nel documento del Comitato nazionale per la bioetica “Risposta al quesito del Ministro della salute – 2 gennaio 2023”, pubblicato il 24 febbraio 2023, dove si legge: “È urgente far sì che in ogni parte d’Italia si creino comitati per l’etica nella clinica per una adeguata analisi oltre che dei casi di etica clinica ordinariamente emergenti nelle corsie delle strutture sanitarie, anche di quelli riguardanti il suicidio assistito”. Vedi Busatta L, Piccinni M, Rodriguez D, Marsico G. Comitati etici territoriali e suicidio assistito. Quel decreto va rivisto. Quotidiano sanità, 7 febbraio 2022.
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egli anni il rapporto medico-paziente ha gradualmente assunto una forma deliberativa: si riconosce l’autonomia decisionale del paziente sulla base di un supporto attivo alla decisione proveniente dal medico, in un’ottica di dialogo e rispetto dei reciproci valori. Si sottolinea così la centralità sia della persona, delle sue peculiarità e dei suoi bisogni, sia della qualità della comunicazione da parte dei sanitari e di un vero rapporto di fiducia e coinvolgimento. In tale direzione si è mossa la legge 219/2017 per un pieno rispetto dell’autonomia del paziente, garantito da strumenti quali il consenso informato, le DAT e la pianificazione condivisa delle cure. È ben comprensibile quindi come i professionisti sanitari dediti, a più livelli, alla cura – pratica di per sé intrinsecamente ricca di dilemmi umani e morali – dinanzi e in conseguenza del mutato scenario medico e sociale si trovino ulteriormente posti di fronte a interrogativi dal carattere profondamente bioetico, rispetto ai quali non devono essere abbandonati. I comitati per l’etica nella pratica clinica costituiscono in tal senso uno strumento consultivo eccezio-
Il punto sull’etica nella clinica
L’etica nella clinica per i piccoli pazienti e le loro famiglie Caterina Ugolini Psicologa Uditrice del Centro per l’etica nella pratica clinica pediatrica dell’Azienda ospedaleuniversità Padova
Camillo Barbisan Bioeticista Responsabile del servizio di bioetica Direzione sanitaria dell’Azienda ospedaleuniversità Padova
nale per permettere di stabilire un dialogo e un confronto interdisciplinare concreto dinanzi alla delicatezza di determinate situazioni cliniche e al presentarsi di profondi dilemmi. Quanto finora detto ricopre, se possibile, un ruolo ancora più delicato quando la pratica clinica si rivolge a soggetti pediatrici affinché possa crearsi uno spazio che tenga in considerazione il punto di vista del paziente considerandolo non solo come soggetto passivo incapace di prendere parte alle decisioni che lo riguardano. Questa costituisce una delle ragioni del l’importanza del coinvolgimento e riconoscimento dei comitati per l’etica nella clinica pediatrici nella pratica quotidiana: giuridicamente, infatti, il minore è considerato non in grado di decidere autonomamente, e la decisione è rimessa totalmente ai genitori o a colui che ne rappresenta il tutore legale. L’adozione del solo presupposto del criterio anagrafico – dunque del possesso da parte del paziente della maggiore età – per il suo coinvolgimento all’interno di questioni così intimamente private e decisive che direttamente lo riguardano rappresenta un limite di non poco conto per diverse motivazioni. Di fatto nei reparti pediatrici possono trovarsi anche pazienti che, a causa di malattie croniche, raggiungono la maggiore età pur rimanendo a carico della pediatria, data la fidelizzazione sviluppatasi verso il reparto e funzionale alle cure, la stabilità in esso
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Il punto sull’etica nella clinica raggiunta e le competenze possedute dai curanti che hanno seguito l’evolversi della diagnosi così come della terapia. Al contempo sono rintracciabili pazienti pediatrici che, sebbene non ancora maggiorenni, mostrano di aver raggiunto una maturità psicologica decisamente superiore rispetto a quanto atteso nella loro fase di sviluppo e in base all’età anagrafica posseduta. In entrambi i casi può risultare cruciale chiedersi se sia giusto continuare a considerare del tutto evitabile il volere espresso dal paziente in questione, nonostante si situi in un reparto nel quale le decisioni vengono normalmente demandate ai rappresentanti legali di quest’ultimo e al loro confronto con gli operatori. La stessa legge 219/2017, all’articolo 3, sostiene infatti il coinvolgimento del minore nella scelta: “Il minore (…) deve ricevere informazioni sulle scelte relative alla propria salute in modo consono alle sue capacità per essere messo nelle condizioni di esprimere la sua volontà”. La prospettiva del minore necessita di essere presa in considerazione per poter pienamente raggiungere una comprensione di quale possa essere il suo migliore ed effettivo interesse, per poter porre in atto un reale supporto da parte dei professionisti e dei familiari che lo circondano e che detengono un ruolo legalmente attivo. Infine, l’opportunità di dialogo e confronto offerta dai comitati per l’etica nella pratica clinica contribuisce a un ulteriore obiettivo fondamentale, partecipando al processo di de-stigmatizzazione della riflessione etica e della condivisione di quei dubbi più profondamente umani e morali che prendono vita dalla pratica quotidiana, e che possono permanere negli animi di qualsiasi operatore debba rapportarsi con l’essere umano che si trova dinanzi e la vita che viene a lui affidata. Il dilemma etico non è e non deve essere visto come crepa del sistema organizzativo in cui si inserisce, né tanto meno debolezza del singolo da reprimere. Esso rappresenta, invece, indice del fatto che quello che sta prendendo atto tra operatori e pazienti è
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La prospettiva del minore deve essere presa in considerazione per una piena comprensione del suo migliore ed effettivo interesse un vero rapporto di cura e, in quanto tale, naturalmente non esente da un carico di riflessioni circa modalità, necessità e implicazioni che porta con sé, a maggior ragione dal momento in cui il soggetto di tale cura è una persona nella sua complessità, e la sua presa in carico parte di una cura globale che si estende oltre la dimensione prettamente organica, coinvolgendo l’intera esistenza del paziente così come di coloro che gli stanno a fianco. Una cura che rimarrebbe lesa qualora tali dubbi venissero repressi anziché vissuti costruttivamente tra le parti coinvolte, per un arricchimento reciproco che nasce dalla pratica e contribuisce alla stessa. y
Il testo integrale di questo articolo è disponibile nella versione online
Una storia vera A Laura (nome di fantasia) è stata diagnosticata una leucemia acuta all’età di dodici anni. Dopo qualche anno, ormai quindicenne, Laura si aggrava a causa di un’infezione che la porta in stato di shock, venendo sottoposta a emodialisi, trasfusione e ventilazione continua. Purtroppo, le sue estremità vanno in necrosi. Una ripresa del quadro clinico apre la discussione tra i curanti circa il procedere o meno alla loro progressiva amputazione, con il supporto della madre che chiede che venga fatto quanto possibile. Dopo una prima decisione a favore dell’operazione, l’andamento discontinuo del quadro clinico di Laura rende nuovamente necessaria la discussione. Nel mentre, però, le condizioni della ragazza si aggravano al punto che i medici decretano l’impossibilità a procedere, e lei stessa esprime alla mamma il desiderio di non insistere oltre. La notte stessa Laura muore. Non potremo mai sapere quale sarebbe stato il parere del Comitato in merito, poiché il caso non fece in tempo ad essergli sottoposto. Resta però da interrogarci su quale sia il limite, dinanzi all’espressione di un dolore così straziante e di una consapevolezza reale della paziente che lo vive, tra l’affidarci alle possibilità e al tempo che la tecnica può forse ancora regalarci e l’affidarsi, invece, al decorso che la natura avrebbe autonomamente previsto. Qualunque sia la risposta migliore per la singola, irripetibile storia di vita, accompagnarsi reciprocamente in questo cammino rimane il regalo più grande che ci si possa fare, come esseri umani prima ancora che in veste di professionisti o pazienti.
Stare bene. Ma che vuol dire? Riflessioni etiche dalla lettura del libro di Elisabetta Lalumera
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osa intendiamo quando parliamo di stare bene? Si può rispondere in due modi. Nel merito, e allora le risposte possibili saranno molto numerose, a seconda degli scopi soggettivi o sociali perseguiti. O metodologicamente, cioè definendo innanzitutto cosa s’intende per “stare bene”. Il secondo è un approccio meno consueto, basato sull’analisi concettuale. Ma è quello proposto da un recente, interessante libro di Elisabetta Lalumera – Stare bene. Un’analisi filosofica – nel suo excursus programmaticamente filosofico-storico della questione dal quale trarre spunto per qualche considerazione.1 Sì, perché di salute e di star bene non discutono solo gli operatori sanitari, gli psicologi e i politici alle prese con le istituzioni sanitarie: l’analisi, la scelta e l’eventuale riforma dei concetti dello stare bene sono materia dei filosofi. Io direi invero: anche dei filosofi. E non perché i medici e gli scienziati della salute non siano consapevoli dell’importanza pratica dello scegliere i concetti e di lavorare sulle definizioni: prova ne è il dibattito acceso, anche sulle migliori riviste mediche, proprio sui diversi concetti di salute (come assenza di malattia, come dispiegamento delle capacità, come equilibrio e altro ancora), di benessere e di qualità della vita. Discussione che attesta quanto rilevanti siano le conseguenze comportate dalla scelta dell’uno o dell’altro concetto per la salute pubblica, l’organizzazione sanitaria e la stessa ricerca. Tanto più la discussione è importante in quanto, da qualche decen-
Luciano De Fiore Il Pensiero Scientifico Editore
nio ormai, la medicina pare quasi aver rinunciato a essere scienza della malattia, divenendo scienza delle malattie. Sembra quasi aver abbandonato il progetto di spiegare la malattia in generale, occupandosi – con molto profitto, peraltro – dei singoli processi patologici e delle loro relazioni. Perché? Si sarebbe tentati di rispondere: perché è meno complesso, la complessità allarma. Salute, benessere e qualità della vita sono meno “osservabili” e sulla loro definizione e interpretazione ci si può dividere assai più che non su un caso di covid-19, un epatocarcinoma o un’infezione polmonare. La salute come assenza di malattia Per chi ha fatto studi umanistici, l’analisi concettuale richiama alla memoria la oxfordiana filosofia del linguaggio degli anni Cinquanta, caduta nel dimenticatoio – soprattutto nell’Europa continentale – da qualche decennio. Lalumera riprende invece l’analisi ma attualizzandola, indagando i concetti di salute in uso nelle di-
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La medicina pare quasi aver rinunciato a essere scienza della malattia, divenendo scienza delle malattie
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verse comunità scientifiche, valutandoli rispetto ai loro fini. Così, per esempio, il concetto di salute come assenza di malattia (forse il più scarno, ma non il più triviale) è ritenuto adeguato innanzitutto da chi si prefigge il fine di difendere la possibilità di un sistema sanitario universalistico come il nostro, con la salute come diritto di tutti garantito dallo Stato e pagato dalla fiscalità generale. Per una medicina divenuta sempre più autoriflessiva, si tratterebbe dunque di un approccio promettente, in grado di gettar luce su concetti fondanti come salute, malattia, cura. Specie se dialoga e si interseca con le scienze del benessere, alle prese anche quelle con la definizione del well-being in psicologia, in economia e in politica. Se l’analisi delle concezioni dello stare bene è il primo obiettivo del libro, in modo da chiarire le diverse accezioni di salute, benessere, qualità della vita, il secondo – non meno rilevante – è una riflessione dei concetti rispetto ai loro scopi. La principale
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valutazione, secondo Lalumera, è questa: come abbiamo visto, il concetto di salute come assenza di malattia è il più adatto a un sistema sanitario improntato sulla solidarietà e la cura per tutti, ma sembra anche essere il più consono a limitare la medicalizzazione impropria, cioè la tendenza a considerare ogni problema della vita come un problema medico-sanitario, risolvibile farmacologicamente o con una presa in carico come pazienti. Aggiungo: sembra anche fungere da antidoto ad una concezione della medicina come elisir per una vita potenzialmente eterna, in barba ad ogni limite e ad ogni ragionamento sulle risorse e sulla sostenibilità e in ossequio invece alla egolatria imperante. Com’è noto, secondo la “meravigliosa e solenne” (così la definisce Lalumera) definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), la salute è la condizione di completo benessere fisico, mentale e – addirittura – sociale, nonché – con l’aggiunta del 1986 – spirituale. In altri termi-
Pensare alla salute come capacità mette in primo piano il paziente rispetto al medico: e se questa scelta concettuale non nascondesse in ciò un valore etico? ni, salute è tutto ciò e non l’assenza di malattie e infermità.2 Ebbene, per quanto sia difficile percepirla come controversa (anche se, a esser sinceri, fissa uno standard irraggiungibile per la salute)3 Lalumera sostiene invece che salute e benessere vadano tenuti distinti. I costi dell’identificare la salute con il benessere sembrano maggiori dei vantaggi, per quanto possa essere motivante la definizione Oms. Non foss’altro perché di fronte alla pluralità di definizioni possibili dello stare-bene (nel loro doppio aspetto: descrittivo e valutativo) si pone un problema notevole di scelta e di responsabilità, questione di cui deve farsi carico evidentemente la politica. Eppure, negli ultimi anni abbiamo assistito a una svolta verso il benessere in medicina, approfondendo le analisi volte a valutare – tenendo sempre più da conto l’opinione della persona malata – sostenibilità ed efficacia degli interventi. Oggi nei trial clinici c’è sempre più spazio per i Patient reported outcomes. Per essere approvato dalle autorità regolatorie, sempre più spesso un farmaco deve rispondere a domande come: quanti anni (o mesi, più di frequente, purtroppo) di benessere in assenza di malattia assicura a chi lo assume? E quanto costa questo “beneficio” (al singolo e/o alla comunità)? La soglia della salute minimale Una salute distinta dal benessere consente invece l’apparentamento concettuale con criteri morali-politici come il “giusto”. Mentre sarebbe oggettivamente complesso stabilire un “benessere minimale”, non è altrettanto complicato definire una “salute minimale”, quella che appare giusto assicurare a tutti da parte delle istituzioni e che il cittadino può legittimamente esigere: un dovere per Stato e Regioni, un di-
ritto per i singoli. E oltretutto stabilire una soglia minima consente di cogliere, ove presenti, le disuguaglianze di salute e di misurarle,4 cosa preclusa a chi – per esempio – si attenesse rigidamente alla definizione dell’Oms. Le misurazioni della salute sono molto importanti sia per comprendere l’efficacia degli interventi, e quindi per la loro valutazione in termini di costo-efficacia, sia per fornire criteri oggettivi alla soggettività della persona malata per esprimere la valutazione dei propri outcome di salute e di cura. Ma che cosa comprende questo diritto minimale alla salute, e che cosa esclude? Secondo il filosofo della politica Norman Daniels, la salute minimale coincide con i cosiddetti bisogni di salute, “la classe più ristretta dei bisogni di assistenza sanitaria, ciò che ci serve per mantenere il normale funzionamento – ovvero la salute – nel corso della nostra vita”.5 Le scienze biomediche sarebbero in grado di chiarire con una certa precisione ciò di cui abbiamo bisogno per “funzionare” normalmente. Perché è giusto assicurare a ciascuno questi bisogni minimali di salute? La premessa è fondamentale e dirimente: il discorso fila se si accetta che la salute sia un diritto umano fondamentale. Se si tiene questo caposaldo, allora Daniels sostiene che una soglia minimale di salute sia funzionale alla giustizia, il criterio morale che regge tutto il ragionamento. In altri termini, stare in salute – nei termini che si è detto – è condizione necessaria perché le persone abbiano eque opportunità rispetto ai beni e agli obiettivi che si propongono. L’idea della giustizia come equa distribuzione delle risorse deriva evidentemente da John Rawls, classico ormai del neo-contrattualismo, con un’avvertenza che sarebbe stata condivisa da don Lorenzo Milani: eque non significa uguali, perché nasciamo e cresciamo diversi, con differenti capacità e risorse, e di questo gap iscritto nelle posizioni di ciascuno occorre tener conto. Altrimenti, come diceva il priore di Barbiana, non c’è ingiustizia maggiore che fare parti uguali tra disuguali.
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Legare salute giusta e salute minimale fa sì che nel diritto alla salute non rientri ogni desiderio legato al wellbeing, cioè al benessere. Anche perché i (pochi) sistemi sanitari universalistici e solidaristi come il nostro non sopravvivrebbero all’impatto di ogni possibile richiesta di prestazione di salute, per una semplice ragione di sostenibilità.6 In ogni caso, è la società con le sue istituzioni (meglio se democraticamente) a dover fissare gli standard di salute e dove e come fissare la soglia del benessere di tutti: si tratta di un concetto eticamente spesso (thick concepts, in gergo filosofico-tecnico). In altre parole, si tratta di scelte eminentemente politiche.
Appare sensato valutare non solo lo stato di partenza, ma anche l’entità dell’insulto che si è ricevuto, la propria età e le risorse sociali e personali di cui si è potuto disporre. Esempio: se mi rompo i legamenti di un ginocchio a 80 anni, è ragionevole ritenere che non potrò recuperare del tutto la funzionalità dell’articolazione e – poniamo conto – tornare a sciare.
La salute come capacità Un secondo concetto di salute la equipara al poter fare: si sarebbe sani se e quando avremmo le capacità di raggiungere i nostri obiettivi vitali, cioè quelli che vengono da noi valutati come buoni (non vale prefiggersi, per dire, di sballarsi tutte le sere). A differenza dell’accezione di salute come assenza di malattia, questo secondo risuona come un concetto positivo: essere in salute equivarrebbe ad avere qualcosa (le capacità) e non a essere privati di qualcosa (come accade nelle condizioni patologiche). È una concezione – nota Lalumera – che funziona bene se si vuole soprattutto porre l’accento sulla guarigione e il recupero, elementi che ci mettono nuovamente in grado di fare, appunto. In questa concezione c’è però, strisciante, un certo qual rischio di medicalizzazione, dal momento che sono troppe le condizioni che possiamo – soggettivamente – avvertire come un ostacolo al raggiungimento di quel benessere (del tutto soggettivo) che ci prefiggiamo, mancando i criteri per delimitare le condizioni pertinenti alla salute. In un certo senso, questa seconda accezione di salute eudemonistica è molto ambiziosa: se stare in salute coincide con la capacità di raggiungere i propri obiettivi vitali, il suo ripristino significherebbe poter fare, più o meno, quel che si faceva prima. Tutto si gioca su quel più o meno.
Guarire comporta molti fattori e allarga le considerazioni terminologiche: l’oncologo e ricercatore Vinay Prasad faceva notare in una rassegna che, dal momento che guarire dal cancro e curare il cancro sono questioni rilevanti, sarebbe auspicabile – sin dai titoli dei lavori scientifici che vi si dedicano – un uso chiaro e circostanziato dei due termini: un conto è curare, un altro è guarire.7 Lo sanno perfettamente i malati. Pensare alla salute come capacità mette in primo piano il paziente rispetto al medico: e se questa scelta concettuale non nascondesse in ciò un valore etico? Dice molto bene Lalumera, ricapitolando le considerazioni sulla salute come capacità: è una concezione che libera le persone dalla medicina come normalizzazione dei corpi (giacché tutti i corpi sono e si sentono diversi), ma d’altro canto rischia di consegnarsi alla medicina della performance, dove ogni problema vien visto come un problema medico e ogni debolezza percepita rispetto all’ideale personale e sociale esigerebbe una diagnosi di validazione.
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La salute come capacità libera le persone dalla medicina come normalizzazione dei corpi, ma d’altro canto rischia di consegnarsi alla medicina della performance
La salute come adattamento Una terza concezione è parente della seconda: la persona nell’ambiente è in salute quando è in grado di adattarsi e mantenersi in equilibrio anche in presenza di situazioni nuove o avverse, come le malattie. Per cui la persona in salute è quella in
grado di adattarsi a circostanze mutevoli, dominando l’ambiente, invece che subirlo. Il padre nobile si questa concezione della salute come adattamento sarebbe Georges Canguilhem che già nel 1943 criticava l’idea di salute come normalità fisiologica.8 Perché? Ma perché siamo tutti diversi, la variazione e l’anomalia sono parte della realtà biologica e non c’è statistica che aiuti a dirimere tra normale e patologico. Solo nel relazionarsi all’ambiente e a livello del singolo individuo ha senso la distinzione salute-malattia. La salute come adattamento alle circostanze endogene calza piuttosto bene quando si tratti di salute mentale. Infatti un famoso psichiatra – Norman Sartorius – ha ripreso e sostenuto questa tesi: ormai da tempo in psichiatria si tende a considerare la “guarigione” più che altro come guadagnare un nuovo equilibrio in malattia, abbandonando l’idea di normalizzazione, poco utile in questo contesto. È una concezione che spinge la gente ad adottare stili di vita sani, valorizzando le responsabilità individuali, ma che propugna anche una migliore sostenibilità dei sistemi sanitari. Il problema è che potersi adattare dipende molto, di nuovo, dalle condizioni socio-economiche in cui ci si trova. È noto che stili di vita sani sono fortemente correlati con la health literacy, prerogativa dei soggetti socio-economicamente avvantaggiati. Inoltre, chi non adotta questi modelli salubri di vita è esposto al cosiddetto victim blaming, cioè alla colpevolizzazione sociale: hai fumato tutta la vita e adesso hai il cancro? Te la sei cercata. A questo proposito, Lalumera scrive proprio da filosofa, quando sostiene che la stigmatizzazione – processo che induce stereotipi negativi nei confronti di qualcuno o di un gruppo9 – è un portato della moralizzazione della salute, cosa che la società non dovrebbe mai incentivare e permettere, perché porta a colpevolizzare la persona malata. Adattamento e ambiente potrebbero forse più produttivamente esser considerati quindi come determinanti e fattori influenti del concetto
di salute come equilibrio, piuttosto che come sue componenti. In conclusione, un domani che è già (quasi) oggi potremo costruirci una salute personale, magari con il sussidio dell’intelligenza artificiale, immaginandoci di fiorire a ogni stagione della nostra vita, a patto però che lo si intoni al fiorire di tutti, e senza dimenticare che alla vita appartiene
Potremo costruirci una salute personale, immaginandoci di fiorire a ogni stagione della vita e senza dimenticare che alla vita appartiene anche l’appassire e lo svanire anche l’appassire e lo svanire. Parleremo sempre di più del nostro personale benessere, certo individuale, certo ritagliato sul nostro profilo genetico e sulla nostra capacità di risposta immunitaria, nonché sul nostro sentire. Collocando però questa visione del nostro benessere personalizzato in mezzo agli altri, nell’ambito di quel più vasto mondo che legittimamente aspira ad una salute giusta. y Bibliografia 1 Lalumera E. Stare bene. Un’analisi filosofica. Bologna: Il Mulino, 2023. 2 Rodolfo Saracci ha proposto poi, nel 1997, sullo stesso Bmj, di correggere, integrandola, la definizione dell’Oms, per cui salute non equivarrebbe solo al completo benessere, ma anche all’assenza di malattia e infermità. 3 Richard Smith, ai tempi (2002) direttore del Bmj, scrisse che forse l’Oms aveva in mente l’estasi mistica o il momento dell’orgasmo simultaneo (Smith R. In search of “non-disease”. Bmj 2002;324: 884-5. 4 Vedi, ad esempio: Disuguaglianze e PDTA, a cura di Fondazione ReS, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2022; Saitto C, Cosentino L. La sanità non è sempre salute. Dalle disuguaglianze nella mortalità tra i municipi di Roma a un’idea diversa di sanità per tutti. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2022. 5 Daniels N. Just health: meting health needs fairly. Cambridge: Cambridge University Press, 2007, p. 38. 6 Un esempio banale: per quanto una signora possa tenerci, sarebbe difficile per un sistema sanitario pagato dalla fiscalità generale assicurare gratis, a lei come a chiunque altri li desiderasse, massaggi anticellulite o interventi di ringiovanimento, così come a un giovane col nasone un intervento di rinoplastica. Per quanto urgenti, queste richieste appartengono alla classe dei desideri, non dei bisogni. Sulla distinzione tra bisogni e desideri vedi: Scanlon T. What we owe to each other. Cambridge Mass.: Harvard University Press, 2000. 7 Prasad V. Use of the word “cure” in the oncology literature. Am J Hospice Palliative Med 2015;32: 477-83. 8 Canguilhem G. Il normale e il patologico. Torino: Einaudi, 1998. 9 Goffman E. Stigma: notes on the management of spoiled identity. Prima pubblicazione 1993.
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C.T. era una donna di 83 anni con arterite temporale. Le era stata diagnosticata quattro anni prima. I molteplici tentativi di riduzione della dose del prednisone non hanno avuto successo. on è originale affermare che i medici imparano dai loro pazienti. La prassi intenzionalmente consiste nell’imparare dalle attività quotidiane, spesso banali, della medicina. Leggiamo di malattie e dei relativi test diagnostici e trattamenti. Registriamo come le persone rispondono alle terapie e ai nostri pareri. Ascoltiamo il modo in cui sono toccate dalle malattie, il modo in cui tollerano i farmaci, il modo in cui descrivono i sintomi e ciò che hanno imparato su una malattia nella loro esperienza decennale. Sebbene abbia imparato innumerevoli cose dai miei pazienti, alcune lezioni sono state così potenti, così rappresentative, da associarle per sempre a un individuo. Ho conosciuto C.T. all’inizio della mia carriera. Ero orgoglioso di aver diagnosticato l’arterite temporale dopo che i suoi sinto-
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Quattro (delle tante) cose che ho imparato dai pazienti Un rapporto tra curante e curati basato sull’onestà e sull’ascolto reciproco Adam Cifu Medico internista University of Chicago medicine
Credits Andrew Gustar / CC BY
mi avevano lasciato perplessi i medici in un pronto soccorso, in un reparto di medicina e in una clinica reumatologica. Da lei ho imparato due cose: una sulla diagnosi, l’altra sulla gestione della cura. Il numero di cose che ho imparato dai e dalle pazienti potrebbe riempire un libro. L’arterite temporale, detta anche arterite a cellule giganti, causa l’infiammazione delle arterie, in particolare dei rami delle carotidi interne ed esterne. Di solito si presenta con mal di testa e sintomi aspecifici come affaticamento e febbre. Può causare il singolare sintomo della claudicazione della mandibola. (Ho sentito una paziente dire che durante le colazioni doveva smettere di masticare i cereali tre volte per far riposare la mandibola). La complicanza più temuta dell’arterite temporale è la cecità, dovuta all’effetto sulle arterie oftalmiche. I risultati clinici e gli esami del sangue possono far sospettare la diagnosi, ma l’unico esame veramente attendibile è la biopsia dell’arteria temporale: una procedura poco invasiva, ma pur sempre invasiva. Alla fine della giornata in cui incontrai C.T, ero abbastanza convinto della diagnosi. L’anamnesi era classica, gli esami non suggerivano altre ipotesi e la velocità di sedimentazione (indicativa ma non specifica per la diagnosi) era anormale. Ho iniziato il prednisone pur senza diagnosi certa e ho chiamato un chirurgo vascolare per organizzare una biopsia dell’arteria temporale. Il giorno dopo parlai del caso a un collega che mi chiese: “Perché hai bisogno della biopsia? Sembra che abbiate già fatto la diagnosi”. Ero un po’ imbarazzato. Il ragionamento diagnostico dovrebbe essere la mia specialità. Secondo me la “probabilità pretest” di arterite temporale in questa paziente era circa dell’85 per cento. Dato che la sensibilità e la specificità di una biopsia dell’arteria temporale sono quotate all’85 per cento e al 100 per cento, una biopsia positiva avrebbe confermato la malattia ma, anche con un test negativo, il paziente avrebbe avuto più probabilità che no di
avere l’arterite temporale. Non ricordo i dettagli del motivo per cui ho eseguito il test, ma l’ho fatto ed era positivo. La paziente ha risposto al trattamento con il prednisone ed era molto soddisfatta alla visita di controllo di tre settimane dopo. Cosa ho imparato da lei? 1. Gli esami diagnostici non forniscono solo una diagnosi. Negli anni successivi alla diagnosi, C.T. ha sviluppato una serie impressionante di complicazioni dovute al prednisone: ipertensione, diabete, una frattura da compressione spinale. Ricordo persino che a un appuntamento disse: “Non ho mai avuto l’acne da adolescente e ora eccomi qui, a 80 anni, con l’acne!”. L’assoluta certezza diagnostica fornita dalla biopsia positiva ha superato la mia tentazione di mettere in discussione retrospettivamente la diagnosi e di abbandonare la terapia sulla base degli effetti avversi. 2. Sono i pazienti a dover assumere i farmaci, e dovrebbero essere loro a soppesarne rischi e benefici. Una volta che C.T. era in remissione, ho iniziato a sospendere il prednisone. Ogni volta che passavamo da un dosaggio di 60 mg al giorno a uno di 15 mg al giorno, il mal di testa tornava e gli esami di laboratorio confermavano la riacutizzazione. Non tollerava nessuno dei trattamenti alternativi. Al quarto tentativo di ridurre la dose, mi disse: “Dottor Cifu, non può lasciarmi prendere 20 mg al giorno? Ho 84 anni; mi sento bene con questa terapia; sono troppo vecchia per preoccuparmi degli effetti collaterali che potrebbero colpirmi tra cinque o dieci anni. Per favore, lasciamo la dose com’è e preoccupiamoci di altre cose. A proposito, come sta suo figlio?”. Noi modifichiamo gli obiettivi terapeutici da raggiungere per le persone affette da ipertensione e diabete in base all’età e alla prognosi, ma C.T. mi ha ricordato che ogni decisione terapeutica, che sia un sì o un no, questo o quello, tanto o poco, dovrebbe essere negoziabile.
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M.M. era una donna di 63 anni ricoverata in ospedale per partecipare a uno studio clinico di fase 1. Le era stato diagnosticato un tumore al seno verso la fine dei 40 anni e ora aveva una malattia con molte metastasi. Tutte le terapie standard avevano fallito. Quando ho ricoverato M.M., ero uno stagista in formazione presso un ospedale oncologico affiliato al mio ospedale di riferimento. Il mio specializzando mi spiegò che probabilmente non sarebbe sopravvissuta al ricovero e che non c’era praticamente nessuna possibilità che sopravvivesse nei sei mesi successivi. M.M. aveva anche una malattia coronarica. Come parte della sua terapia al momento dell’accettazione, le avevo prescritto una “dieta per cardiopatici a basso contenuto di sale”. Mi fece chiamare dall’infermiera al suo capezzale. Si rivolse a me come si potrebbe fare con un bambino di 7 anni: “Mi hanno detto che mi avete messo a dieta per il cuore. Questo può solo significare che lei è un ottimista o un idiota. Capisce che sto morendo? Pensa davvero che una dieta così mi farà vivere più a lungo? Mi renderà solo infelice”. 3. Agli adulti ben informati dovrebbe essere permesso di fare ciò che a noi medici sembrano decisioni sbagliate. Ho quindi tratto la lezione impartita da M.M. La sua decisione di preferire del cattivo cibo da ospedale a del terribile cibo da ospedale non è stata una cattiva decisione. L’unica decisione sbagliata è stata la mia nel prescriverle una dieta per il cuore. La strigliata che ho ricevuto mi ha fatto capire che noi medici ci prendiamo troppo spazio nel processo decisionale. Forse lo facciamo perché pensiamo di saperne di più, o perché riteniamo che il problema in questione non sia importante, o perché non pensiamo che il paziente dovrebbe essere coinvolto. Io mi occupo di adulti. Il mio compito è fornire informazioni e suggerire approcci diagnostici o terapie. Di solito, il percorso che suggerisco è compatibile con il pa-
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ziente, a volte con una piccola messa a punto. Quando un paziente vuole prendere una decisione che ritengo sbagliata, il mio ruolo è quello di spiegare perché penso che la sua sia una decisione sbagliata. Una volta che mi sono assicurato che il o la paziente abbia compreso la decisione, mi sento a mio agio nel dire alle persone: “Penso che lei stia prendendo una decisione sbagliata, ma è assolutamente una decisione che spetta a lei. Sarò felice di discuterne ulteriormente in qualsiasi momento del futuro”. Ciò che M.M. mi ha insegnato si estende a questioni che spesso causano angoscia nei reparti di degenza. Sono arrivato ad accettare che le persone escano a fumare mentre sono in ospedale, che tornino a casa tra un’infusione di antibiotici e l’altra per dare da mangiare al gatto, e persino che bevano il solito bicchiere di vino a cena durante un lungo ricovero (anche se di recente ho avuto dei problemi per questo).
La strigliata mi ha fatto capire che noi medici ci prendiamo troppo spazio nel processo decisionale. Forse lo facciamo perché pensiamo di saperne di più M.H. era una donna di 33 anni che presentava quella che spesso definiamo “malattia complessa”. Non specificherò la sua malattia, ma c’è un lungo elenco di ciò che potrebbe essere: fibromialgia, long covid, encefalomielite mialgica/sindrome da fatica cronica, sindrome di Ehlers Danlos di ipermobilità articolare. Si tratta di patologie che peggiorano la qualità di vita del paziente, talvolta fino alla disabilità. Sebbene siano tutte malattie molto diverse tra loro, hanno in comune la mancanza di test diagnostici specifici, molti sintomi sono soggettivi e la fisiopatologia è poco compresa. Inoltre, non disponiamo di una terapia efficace per nessuna di queste patologie. M.H. è importante soprattutto perché per
25 anni è stata mia paziente (e insegnante). Il nostro rapporto mi ha mostrato tutti i modi in cui noi medici possiamo fare un pessimo lavoro nel curare le persone con malattie complesse. 4. Ci sono due modi in cui l’assistenza ai pazienti con malattie complesse va male e uno in cui va bene. { È colpa del medico. Prendersi cura di pazienti con malattie complesse è un’attività per la quale siamo scarsamente formati e per la quale in genere non disponiamo di terapie efficaci. La gestione richiede tempo, impegno e personalizzazione. Per tutti questi motivi, i medici spesso “si arrendono” ammettendo, verbalmente o attraverso il linguaggio del corpo, di non avere più nulla da offrire in termini di diagnosi o trattamento1. Poiché la nostra scienza non conosce in modo adeguato la fisiopatologia della malattia, il medico suggerirà che per la maggior parte i sintomi non sono “sintomi fisici”. { È colpa del paziente. A volte la dottoressa fa un buon lavoro. Mantiene una mente aperta, valutando sintomi nuovi o atipici, ricordando sempre il dettame di Hickam2 oltre al rasoio di Occam. Riconosce che non esiste una pallottola terapeutica magica, ma è disposta a sperimentare diverse terapie e ad accettare le soluzioni individuate dal paziente. Ammette che ci sono molte cose che non capisce, ma è disposta a lavorare con il paziente per tutto il tempo che questi desidera. Una cura di successo, tuttavia, richiede la collaborazione del paziente. A volte il paziente non è disposto ad accettare la realtà della situazione ed è insoddisfatto, persino arrabbiato, con la dottoressa per la sua incapacità di offrire una soluzione. Chiede continuamente altri esami, non è in grado o non è disposto ad accettare che sia la malattia complessa a spiegare i sintomi e si concentra sull’incertezza diagnostica piuttosto che sulla sfida terapeutica. Poi ci sono le volte in cui la relazione va al meglio. Il medico riconosce le carenze della medicina ed è onesto al riguardo. Di-
ce: “Abbiamo fatto una valutazione approfondita e sono abbastanza sicuro che la diagnosi di ‘malattia complessa’ sia corretta. Tuttavia, poiché non disponiamo di un gold standard, manterrò una mente aperta e rivedrò la diagnosi se le cose cambieranno. Anche se non posso essere completamente sicuro della causa dei suoi sintomi, so che sono reali. Credo che dovremmo concentrarci sulla riduzione dei sintomi. Lavorerò insieme per controllare
Penso alle lezioni che mi hanno dato quando vedo questi pazienti e penso ai pazienti quando metto in pratica ciò che ho imparato da loro al meglio i sintomi e sono aperto alle sue informazioni, alla sua saggezza e alla sua ricerca”. Il/la paziente comprende che questo è lo stato della nostra conoscenza e della nostra cura, è in grado di accettare l’incertezza che la convivenza con una malattia così comporta e lavora in modo collaborativo con un medico disponibile. Il numero di cose che ho imparato dai e dalle pazienti potrebbe riempire un libro. Questi quattro insegnamenti sono quelli che associo direttamente a tre pazienti in particolare. Penso alle lezioni che mi hanno dato quando vedo questi pazienti e penso ai pazienti quando metto in pratica ciò che ho imparato da loro. y Questo articolo è la traduzione del post di Adam Cifu pubblicato su Sensible Medicine con il titolo “Friday Reflection 28: Four of the things patients have taught me”. Per gentile concessione di Sensible Medicine. Note bibliografiche 1 I medici spesso mostrano il “bias del siero di rabarbaro” (ndr: il serum rhubarb bias è un’espressione scherzosa usata dagli specializzandi per dire che è stato fatto tutto). Non prendono in considerazione altre malattie o ulteriori valutazioni, pensando: “Tutti gli esami sono già stati fatti. Abbiamo anche ordinato il livello di rabarbaro nel siero”. 2 Mani N, Slevin N, Hudson A. What Three Wise Men have to say about diagnosis BMJ 2011; 343: d7769.
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Il punto su violenza e adolescenza
Povertà infantile disuguale. Non perdiamo più tempo Intervista a
Giorgio Tamburlini Pediatra Presidente del Centro per la salute del bambino
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fatti di cronaca di Caivano ci portano a riflettere sulla responsabilità e sul ruolo della società, del Governo, delle amministrazioni regionali e locali per contrastare e prevenire la violenza e il disagio sociale e psicologico con politiche lungimiranti. Quello che serve è investire precocemente nell’età evolutiva e nella genitorialità con un sistema integrato. Ne parliamo con Giorgio Tamburlini, presidente del Centro per la salute del bambino e pediatra impegnato in azioni di advocacy per i diritti dell’infanzia e attivo nell’attuazione di programmi a supporto dell’early child development.
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Le forme di violenza e i comportamenti a rischio degli adolescenti sono spia di un forte disagio giovanile influenzato da variabili economiche, sociali e ambientali. Quali passi dovremmo intraprendere per un’inversione di rotta? La questione è che i bambini non sono mai stati posti “in testa” all’agenda politica, né è stata riconosciuta concretamente la necessità di investire sui primi passi, su quanto accade intorno al bambino dal
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Credits Christine Olson / CC BY
concepimento in poi, in particolar modo nell’ambiente familiare. A questo si aggiunge, purtroppo, una scarsa attenzione al valore sociale della genitorialità. Questa mancata attenzione trae in parte origine dalla convinzione che i figli “appartengono” esclusivamente ai genitori e che quella della genitorialità sia una sfera privata in cui non “intromettersi”. I genitori si sentono soli e non appoggiati dalla società. Un passo da intraprendere dovrebbe essere quello di non misurare il sostegno alle famiglie solo in termini di supporto economico e di servizi “di conciliazione” e di prendere in considerazione i determinanti culturali sia della generatività che della genitorialità. Non deve sorprenderci se oggi si fanno meno figli o non si fanno per nulla. Fino a pochi anni fa i giovani desideravano avere dei figli; oggi non è più così perché di fondo i giovani di oggi vivono in
Il punto su violenza e adolescenza una condizione di incertezza. Accanto alle difficoltà di trovare un lavoro stabile e agli interrogativi sulle risorse disponibili in futuro pesano fattori di natura culturale. E proprio in questi fattori risiede una parte, per nulla trascurabile, delle cause sia della denatalità che del disorientamento genitoriale. A fronte di tutto questo mancano politiche pubbliche e interventi adeguati a quelle sfide che riguardano tanto la natalità quanto la crescita e lo sviluppo dei bambini, a partire dal sostegno alle risorse delle famiglie e alle aspettative e alle competenze dei genitori.
Le diseguaglianze nello sviluppo si stabiliscono precocemente, a volte prima della nascita, e – in assenza di intervento – tendono ad aumentare nel tempo
Nel suo libro I bambini in testa descrive un approccio di sistema e di azione basato sull’early child development, cioè della importanza dei primissimi anni di vita ai fini dello sviluppo delle funzioni mentali e dello sviluppo psicofisico del bambino. Questo è un fattore importante. Le tecniche di neuroimmagine mostrano chiaramente che alcune aree del cervello, sia corticali che profonde come l’ipotalamo, sono più o meno spesse, vale a dire hanno più o meno sostanza grigia, più o meno neuroni connessi, in relazione a una serie di fattori ambientali come, per esempio, la disponibilità di nutrienti essenziali e la capacità dell’ambiente familiare di “nutrire la mente” del bambino. Lo sviluppo del bambino riguarda più organi e sistemi che sono interconnessi tra loro, e si esprime in molte dimensioni, anch’esse strettamente interconnesse: salute fisica, salute mentale, competenze cognitive e linguaggio, competenze motorie e socio- relazionali, eccetera. Le diseguaglianze nello sviluppo si stabiliscono precocemente, a volte prima della nascita, e – in assenza di intervento – tendono ad aumentare nel tempo. Per la maggior parte dipendono da fattori in teoria modificabili. Sono quindi vere e proprie ingiustizie perpetuate a danno di chi non ne porta alcuna responsabilità, e cioè i bambini, che avrebbero – per ovvi motivi e anche per il solo riconoscimento ufficiale della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia – diritto al pieno dispiegarsi delle loro potenzialità. L’early child development racchiude un complesso di conoscenze e indicazioni sull’importanza dei primi anni di vita, i determinanti fondamentali dello sviluppo in questo periodo e i meccanismi attraverso i quali operano, le loro implicazioni nel corso successivo della vita, nonché la possibilità di un intervento precoce a protezione e promozione dello sviluppo con un approccio rivoluzionario nelle politiche per l’infanzia, delle politiche economiche e sociali, dell’educazione e della salute.
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Il punto su violenza e adolescenza Nello specifico quali azioni si rendono necessarie? Cambiare approccio di sistema tenendo conto che, nel suo sviluppo, il bambino è un tutt’uno, indivisibile. Quindi per proteggere e promuovere questo sviluppo serve un sistema integrato, fondato sul dialogo e sull’interazione dei diversi servizi e operatori che si occupano di bambini e famiglie in ambito sanitario, educativo, sociale, culturale, urbanistico e ambientale. Il documento congiunto “Nurturing care framework”, pubblicato dal l’Oms insieme a Unicef e Banca Mondiale, spiega chiaramente che per uno sviluppo infantile precoce serve investire sulla salute, sulla nutrizione, sulla educazione precoce, sulla sicurezza e – non da ultimo – sulla cosiddetta genitorialità responsiva. Questo significa sostenere la madre, il padre e i caregiver nel loro ruolo che non è solo quello, come si è soliti pensare, di “curatori” del benessere fisico e della sicurezza del bambino, ma anche quello di curatori dello sviluppo complessivo del bambino, in particolare nei primi anni di vita. Serve agire precocemente rivolgendosi alle famiglie tutte e non solo le più vulnerabili con problematiche che mettono a repentaglio la sicurezza e lo sviluppo del bambino; le difficoltà e fragilità non sono limitate ai nuclei familiari individuabili sulla base di fattori di rischio o di problematiche che si rendono palesi ai servizi. Tornando alla prima domanda, i tristi fatti che stanno facendo cronaca in questi ultimi mesi ci dicono chiaramente che le violenze di genere perpetrate dai giovani, anche da coetanei, non avvengono solo nei quartieri più disagiati, quelli poveri e ai margini, ma anche in quelli ricchi. Perché le privazioni che vanno a incidere sullo sviluppo e crescita del bambino e dei bambini e sulla genitorialità responsiva non interessano solo gli aspetti economici ma anche la dimensione relazionale e affettiva. Chi lavora nei servizi rivolti all’infanzia e ai genitori ha ben evidente il disorientamento educativo, il senso di inadeguatezza e la sostanziale pover-
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Nel suo sviluppo il bambino è un tutt’uno, indivisibile. Per proteggere e promuovere questo sviluppo serve un sistema integrato, fondato sul dialogo tà di aiuti. Ripeto: occorre dunque dare supporto a tutte le famiglie, non solo quelle definite a priori “fragili”: operare solo con interventi basati su criteri predefiniti di rischio, o su segnalazione, fa perdere opportunità preziose di intervento precoce. Ciò che serve – essenzialmente – è una visione d’insieme che coinvolga tutte le componenti della società e consideri le famiglie come interlocutore necessario. Le politiche devono essere indirizzate per rafforzare il lavoro con quanti diventano o stanno per diventare genitori.
Il punto su violenza e adolescenza Abbiamo in Italia esempi di un sistema integrato? Cosa richiede mettere in pratica un sistema integrato? Abbiamo già degli esempi italiani di come intervenire, per esempio il progetto Nati per Leggere, oppure i Centri Genitori e Bambini che si ispirano alla Maison Verte della Francia e ripresi dai Villaggi per crescere che coinvolge più attori (pubblico, privato, no profit). Un efficace sistema integrato per l’infanzia richiede un approccio universalistico e proattivo nel lavoro con le famiglie, strumenti di formazione multiprofessionale, il coinvolgimento di tutti gli attori della comunità, la promozione delle buone pratiche per lo sviluppo, una valutazione dei benefici e della loro distribuzione possibilmente con strumenti e disegni comuni. Innanzitutto è importante costruire consapevolezza e integrazione: ogni attore del sistema deve sentirsi parte di un sistema che richiede reciproco riconoscimento e collaborazio-
ne. Agire in questa direzione è vitale oltre che urgente; ed è possibile solo se governi, amministrazioni locali, servizi sociali e operatori sociosanitari e pediatri fanno sistema e collaborano tra di loro. È una questione culturale, come lo sono – ad esempio – la prevenzione e la lotta ai cambiamenti climatici. Se allarghiamo lo sguardo e superiamo lo scoglio culturale siamo già a metà strada per l’effettività dei diritti dell’infanzia e possiamo costruire quelle politiche e quei servizi che mettano i giovani nella condizione di recuperare la fiducia nel futuro e di poter considerare di far nascere e di poter crescere i figli.
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Al contrario di quanto si è soliti fare, è più efficace agire “prima” sia per promuovere il bene che per prevenire il male
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Il punto su violenza e adolescenza A questa si aggiunge una questione finanziaria con un servizio sanitario e sociosanitario pubblico in crisi. Quindi le risorse potrebbero essere uno degli ostacoli da superare? Anche qui serve una visione lungimirante. Gli economisti hanno ampiamente dimostrato che “costa meno” e dà maggiori ritorni economici intervenire nell’infanzia piuttosto che in adolescenza o in età adulta – agire “prima” sia per promuovere il bene che per prevenire il male è più efficace. Circa il contrario di quanto si è soliti fare. Ma ritengo che costruire una comunità ideale per bambini e famiglie non sia un’utopia. Abbiamo le conoscenze e abbiamo le competenze per partire bene. Sicuramente serve investire in un servizio sanitario pubblico solido e in cure primarie integrate con una attenzione specifica alla formazione dei pediatri, in particolare quanti andranno a lavorare come pediatri di famiglia, al dialogo con i
Serve dunque agire – subito – con politiche mirate di supporto a tutti i servizi pubblici per costruire attorno alle nuove famiglie sistemi coerenti di supporto genitori sullo sviluppo, alla collaborazione con altre figure professionali, al lavoro di gruppo che dovrebbe costituire la normalità e non l’eccezione e che tra l’altro consente una migliore cura anche delle proprie attitudini professionali. Serve dunque agire – subito – con politiche mirate di supporto a tutti i servizi pubblici (sanitari, educativi, sociali e culturali) per costruire attorno alle nuove famiglie sistemi coerenti di supporto. Non abbiamo tempo da perdere. y
Dieci passi per investire nell’infanzia e nell’adolescenza 1. Sostenere genitori e caregiver, sia negli aspetti materiali e nelle opportunità (reddito, lavoro, conciliazione, congedi), sia nelle loro conoscenze e competenze genitoriali. 2. Iniziare presto, prima della nascita, utilizzando la potenzialità dei servizi di salute, pre-, peri- e post-natali, per garantire un contatto universale e precoce con le famiglie e avviare con loro un dialogo sullo sviluppo del bambino. 3. Promuovere, congiuntamente tra servizi sanitari, educativi e culturali, le buone pratiche genitoriali che “nutrono” la mente e la relazione e si prendono cura dell’ambiente: lettura condivisa, esperienza musicale, gioco, espressione artistica, attività motoria e “cura della Terra”. 4. Garantire l’accesso universale ai servizi educativi 0-3 e completare l’offerta dei servizi educativi 0-6 con attività strutturate per genitori e bambini in compresenza. 5. Adottare strategie proattive di informazione, contatto e coinvolgimento di tutte le famiglie.
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6. Dare priorità alle periferie geografiche e sociali, alle famiglie e alle comunità in condizioni di svantaggio socio-culturale e quindi a rischio di povertà educativa. 7. Definire e attuare una strategia complessiva, comprendente prevenzione, cura e riabilitazione, per la salute mentale di infanzia e adolescenza, adeguando le risorse strutturali e umane a questo dedicate in tutto il territorio nazionale. 8. Sostenere la formazione multiprofessionale per gli operatori dei servizi dedicati a infanzia e adolescenza per promuovere la creazione e attuazione a livello locale di efficaci reti collaborative attorno alle famiglie. 9. Coordinare le azioni tra i diversi settori (sanitario, educativo, sociale e culturale) attivi sulla fascia 0-6 a livello di Comuni, di ambiti territoriali sociali o di municipi nelle aree metropolitane, facendo sistema e assicurando pianificazioni congiunte degli interventi. 10. Assicurare, tramite un meccanismo di coordinamento interministeriale, coerenza nell’implementazione dei diversi piani e programmi nazionali su infanzia e adolescenza, con meccanismi di finanziamento che garantiscano continuità nel tempo, e offrendo sostegno tecnico-amministrativo agli Enti locali per il pieno utilizzo dei fondi europei e nazionali. Tratto da: Giorgio Tamburlini. I bambini in testa Prendersi cura dell’infanzia a partire dalle famiglie. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2023.
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Il comportamento violento: riflessioni e rimedi Ugo Fornari Neuropsichiatra e medico legale Già professore ordinario di psicopatologia forense Università degli studi di Torino
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a cronaca quotidiana ci informa di crescenti agiti violenti di cui sono vittime figure di donne e autori figure di uomini. Pare non esista limite a questo tipo di male, che trova ulteriore nutrimento nella violenza delle bande minorili e in prevaricazioni per motivi fondati su differenze di genere e di orientamento sessuale, di colore della pelle, di scelta religiosa e nei sempre più frequenti episodi di giustizia “fai da te” registrati dalla cronaca. Individuati i protagonisti e le vittime, ci si scatena a fornire interpretazioni, spiegazioni, rimedi, a proporre leggi e decreti che prevedono l’inasprimento delle pene e l’introduzione di nuove sanzioni. Il comportamento violento, nel frattempo, non cambia, anzi tende ad aumentare quali-quantitativamente.
Tutte le teorie che si sono succedute nel tempo hanno solo fornito risposte parziali sull’intima natura del comportamento violento
Una premessa doverosa Premetterò alcune considerazioni che faranno da sfondo allo sviluppo di questo tema in cui cercherò di collocare mie considerazioni e conclusioni. { Il comportamento violento è sempre esistito e si manifesta sotto forma di male inferto e/o subito. { Il comportamento criminale si costituisce come ogni altro funzionamento individuale in un contesto sociale, oltre che privato (“bios” e apprendimento). { Se esistono certi fenomeni “mostruosi” non è solo perché esistono i cosiddetti “mostri” che agiscono, ma è perché esistono sempre di più contesti “mostruosi”, in cui ogni rispetto per il valore della vita umana è inesistente o irriso o inattuale. { Anche persone “spaventosamente” normali possono agire – in presenza di determinate condizioni relazionali, socio-ambientali, storiche e culturali – la loro pars destruens, confermando che azioni mostruose possono essere commesse non soltanto da mostri o pervertiti o malati di mente, come vorrebbe farci credere una facile e infelice comunicazione basata sulla quantità di conoscenze e di informazioni comunque fornite, a scapito della qualità e della riflessione introspettiva sulle stesse. { In un contesto in cui l’Altro è degradato da persona a cosa, il comportamento violento va incontro a una specie di desensibilizzazione e una tendenza a riproporsi anche in molte persone non inclini alla malvagità e al crimine, per una sorta di preoccupante conformismo e giustificazionismo.
Tutte le teorie che si sono succedute nel tempo (bioantropologiche, costituzionalistiche, psicologiche, sociologiche, culturali, ecologiche, radicali e via dicendo, fino alle teorie neuroscientifiche, neu-
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Il punto su violenza e adolescenza ropsicologiche, le ricerche di genetica molecolare, i dati ricavati da protocolli, questionari, interviste, strumenti di valutazione e di predizione e via dicendo) hanno solo fornito risposte parziali sull’intima natura del comportamento violento e non hanno portato nessuna conoscenza di rilievo per la sua comprensione e valutazione. In particolare, nei casi in cui sono stati accertati e diagnosticati disturbi di natura psichiatrica, è fondamentale saper discriminare: { i fattori di rischio individuali riconducibili a tratti di personalità, apprendimenti differenziali, associazionismo criminale (fattori criminogenici), di competenza non clinica, bensì giudiziaria, { rispetto a fattori di rischio non correlati al comportamento criminale, bensì a disturbi psichiatrici (fattori non-criminogenici) di competenza non giudiziaria, bensì clinica. Spesso è un discorso di “e” “e” piuttosto che di “o” “o”; di prevalenza cioè degli uni sugli altri, quello che induce ad assumere un provvedimento sanitario piuttosto che giudiziario, molte volte errando nell’eccedere nei “ricoveri” nei servizi sanitari esistenti sul territorio piuttosto che negli “internamenti” in Rems (le residenze riservate ai socialmente pericolosi) o nelle “reclusioni” negli attuali istituti penitenziari. Incidere sui sintomi di scompenso psicopatologico non è la stessa cosa che intervenire sugli agiti dimostrativi o sulle condotte di disturbo prive di substrato psicopatologico. Occuparsi del caso individuale e del contesto Ma lasciamo da parte problemi di stretta competenza specialistica e ricollochiamo il discorso nella realtà del caso individuale, la cui unicità di storia di vita conferisce a esse senso e significato. Per fare ciò, per occuparsi di persone concrete e di casi concreti, cioè, occorre uscire dalla dimensione del “laboratorio di ricerca” in cui si
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costruiscono più o meno dotte teorie, per collocare il tema complessivo su di uno sfondo di comprensione di ordine sociale, culturale e storico. (Ri)trovarne unitarietà e senso attraverso un sistema aperto e integrato di lettura, e non procedendo attraverso approcci settoriali che cristallizzano la complessità della sofferenza inferta e subita in rigide gabbie mono-fattoriali, è dunque il tema che cercherò di svolgere in queste poche righe, ponendo problemi piuttosto che fornendo risposte. L’integrazione dei saperi induce a sostenere che – al di fuori di casi al “limite” – non possiamo costruire sempre e solo teorie individuo-centriche, ma dobbiamo prendere atto che certe espressioni devianti e criminali sono proprie del mondo nel quale viviamo pseudo-globalizzati e iperconnessi, ma soli, spesso indefiniti e fragili e incapaci di comunicare. Ecco allora che la comprensione del male inferto o subito non si fonda su più o meno dotte classificazioni e ricorso a sofisticate esplorazioni strumentali riservate a singoli soggetti di studio, ma deve aprirsi
Incidere sui sintomi di scompenso psicopatologico non è la stessa cosa che intervenire sugli agiti dimostrativi sull’importanza dei fattori relazionali, ambientali, sociali e culturali, che, anche se non determinanti, concorrono al verificarsi di eventi delittuosi o patologici. Il fenomeno delle bande criminali Queste considerazioni assumono valenze particolarmente cogenti di fronte al fenomeno ingravescente delle bande criminali minorili o baby gang, costituite da giovanissimi che, possedendo caratteristiche di fragilità psicologiche analoghe e provenendo da esperienze di disagio economico, sociale e culturale simili e da apprendimenti differenziali in aree sottoprivile-
giate, tendono a unirsi fra loro con la finalità di commettere azioni devianti o chiaramente delinquenziali. Tale propensione è aggravata anche dalla cattiva utilizzazione delle reti informatiche o dall’uso inappropriato di social network quali TikTok, Instagram o Facebook, come nel caso della costituzione di bande criminali con finalità di terrorismo, che coinvolgono anche minori. Spesso invece è la noia, intesa come il vuoto psicologico di una esistenza priva di valori, una delle motivazioni prevalenti che spinge gli adolescenti ad abbandonare prestissimo la scuola e a vivere in branco sulla strada e che li induce a commettere azioni violente contro il malcapitato coetaneo o ad aggredire l’adulto di passaggio con botte o coltellate, per dimostrare la loro virilità perversa. La pericolosità delle bande criminali minorili in Italia, soprattutto di quelle che con la minaccia di coltelli rapinano gli
L’altro settore che crea da qualche tempo particolare allarme sociale, perché finalmente denunciato, è quello della violenza esercitata sulla donna e la violenza di genere smartphone, gli orologi e il denaro di coetanei sulla pubblica via, è oggi percepita in forte aumento dalla stragrande maggioranza dei cittadini. La violenza domestica e di genere L’altro settore che crea da qualche tempo particolare allarme sociale, perché finalmente denunciato, è quello della violenza esercitata sulla donna nell’ambito della vita domestica e fuori di essa (stalking, mobbing e via dicendo) e la violenza di genere. Nel luglio 2019 è diventato legge il cosid-
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Il punto su violenza e adolescenza detto codice rosso recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”. Esso si compone di 21 articoli che prevedono procedimenti penali più veloci per prevenire e combattere la violenza di genere modificando il codice penale e di procedura penale e dettando altre disposizioni in tema di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere. Le buone intenzioni che animano certa classe politica e il legislatore, però, sono vanificate dalla quotidiana drammaticità del ripetersi di certi fatti delittuosi e dal limitarsi a vedere nell’autore dei comportamenti dianzi esemplificati un paradigmatico interprete di questa dinamica violenta, perversa e socialmente anomizzante che connota il nostro tempo: autore che vorremmo fosse isolato e sequestrato nel suo contesto di vita e un po’ degradato attraverso un’etichettatura psicopatologica confortata e arricchita da dati scientifici e predittivi, ponendo scarsa attenzione all’influenza di scenari sociali, economici e culturali che vanno sempre più liquefacendosi e perdendo di significato. Dietro un reato non ci sono cose ma persone Provando a cambiare registro di lettura e a esplorare le dimensioni dell’“umano” di cui anche l’autore dei reati più crudeli ed efferati è fornito, possiamo renderci conto di quanto sia fittizio il convincimento che esita un mondo di contrapposti aventi una loro dignità autonoma e radicale e ai quali di volta in volta delegare causalità e responsabilità, in una sorta di improduttivo finalismo auto-assolutorio (loro, i cattivi che fanno il male; noi, i buoni che ci riteniamo immuni dal farlo). Eppure meccanismi di contrapposizione e di non coesione caratterizzano vieppiù il sostanziale malfunzionamento dei rapporti intra- e inter-personali e sono al servizio della progressiva disumanizzazione della nostra società. Emblematici, a tal proposito, sono i comportamenti ses-
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suali violenti, in cui autore e vittima sono “cosificati” e fusi nella perversione comportamentale. È pertanto indispensabile (ri)costruire – nel tempo – una relazione significativa con l’“Altro-Persona”, e non con “Esso-Cosa”, una relazone fatta di ascolto, rispetto, compartecipazione e comprensione per cogliere i significati profondi di una sofferenza agita o subita. In una prospettiva di reciproca integrazione, non deve più esistere una conoscenza del comportamento criminale e violento in specie che sia frutto di una narrazione unilaterale, destoricizzata, sterilizzata e depurata di contrapposizioni e di contraddizioni e che implichi sempre e solo l’invocazione dell’inasprimento delle pene o l’invenzione di altre categorie di reati da sanzionare. È necessario, invece, che la conoscenza di questi accadimenti sia frutto di una gestione integrata, solidale e condivisa tra diversi saperi sui quali poter riflettere, implementandoli e armonizzandoli gli uni con gli altri e rispettandone reciproche autonomie, diversità e identità.
La conoscenza di questi accadimenti deve essere frutto di una gestione integrata, solidale e condivisa tra diversi saperi sui quali poter riflettere
Il punto su violenza e adolescenza “Come mai” esiste la violenza Anche una lettura “integrata” del disagio giovanile a fini preventivi e rieducativi, non solo sanzionatori, non può prescindere da considerazioni sulla incultura, la conflittualità sociale, l’anomia politica, la predicazione violenta di miti e mete, la confusiva progettualità, che rendono precari e privi di valori molti progetti di vita, specie quando investite sono classi sociali disagiate e sotto privilegiate o non integrate, nelle quali è molto faticoso trovare uno spazio di vita che non sia delinquenziale e non favorisca l’uso di mezzi illeciti. È inutile negarlo: poco o tanto, più o meno, il comportamento violento piuttosto che quello virtuoso esercita la sua attrazione su ciascuno di noi; e se nel mondo c’è tanto male è perché le persone ne fanno tanto di male, attraverso le mille espressioni che esso può assumere e che non sono solo quelle della distruttività direttamente espressa, ma sono soprattutto quelle della violenza occulta, mascherata e indiretta (l’indifferenza, la solitudine fredda e vuota, il disprezzo, il silenzio scontroso, l’umiliazione, la mancanza di rispetto, la competizione impietosa, la condiscendenza dileggiante, l’autoritarismo fine a sé stesso, l’assenso degradante, i rapporti affettivi e interpersonali instabili e fluttuanti, il mobbing, lo stalking, gli atti vessatori e persecutori, la violenza di genere e quella intrafamiliare). Di questo individualismo imperante in tutte le classi sociali dobbiamo avere chiara consapevolezza e dobbiamo tenerne conto, anche quando crediamo di aver potuto stabilire relazioni significative tra temperamento, cervello, “bios” e funzionamento individuale, conforme o difforme. Occorre invece ritrovare e riaffermare l’unitarietà del comportamento umano, in cui la negata o minimizzata coesistenza di opposti (la faccia nascosta della luna) che implica la coesistenza in ogni persona di sentimenti, emozioni, pensieri di opposto significato (bene e male, sanità e malattia, relazione e perversione, odio e amore, vita e morte, creatività e distruttività, tenerez-
Non è certo con il solo diritto penale e provvedimenti repressivi che si possono promuovere cambiamenti sociali e affermare valori, doveri e diritti za e violenza, compassione e rivalità) dal cui bilanciamento dinamico o dalla cui disarmonia e dissonanza derivano i nostri “stili di vita”, conformi o difformi che siano impedisce di comprendere la nostra complessità, particolarmente in questo nostro tempo in cui a livello sociale e culturale si sono generate esperienze di vita contraddittorie, conseguenti alla sempre minore possibilità di disporre di istituzioni, di personaggi e di assetti coesivi e riparatori. Pertanto, solo un rinvigorito senso di appartenenza, di solidarietà e di corresponsabilità può andare oltre il tema dei “perché” e aprire la vasta e complessa problematica del “come mai” esiste il fenomeno “violenza” per come noi lo conosciamo o ci viene presentata dai mass media o dalla Rete, riflettendo sugli spunti che esso stesso ci fornisce. Guardare oltre la punizione Certamente la minaccia della carcerazione, l’inasprimento delle pene e altri simili provvedimenti che potenziano una indispensabile e irrinunciabile forma di controllo sociale possono esercitare una deterrenza a breve termine, ma non pongono un rimedio sostanziale alla commissione di reati, specie in ambito familiare e minorile, dove la punizione fine a sé stessa non serve, se non è accompagnata da un’azione corale che incida sul fenomeno da un punto di vista sociale e culturale.
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Il punto su violenza e adolescenza Non è certo con il solo diritto penale e provvedimenti repressivi che si possono promuovere cambiamenti sociali e affermare valori, doveri e diritti: li si devono però proteggere, sanzionando i trasgressori, che spesso invece godono di provvedimenti blandi e non incisivi nell’affermare con fermezza che la legge deve essere rispettata e che il comportamento delinquenziale ha un costo che deve essere tempestivamente ed efficacemente pagato. Non si può però porre riparo ai molteplici comportamenti che possono violare la libertà propria e altrui, al patto infranto, al danno provocato o patito, solo con le leggi e gli obblighi che da esse derivano, se non sul breve periodo, in una situazione di emergenza che esige il ristabilire il patto sociale infranto. Sul medio-lungo periodo sono indispensabili azioni “altre” che ricucino funzionamenti individuali e di gruppo violati e lacerati e si propongano come strumenti di formazione, di trasformazione e innovazione sociali e culturali. Si tratta di processi lenti e impegnativi che si svolgono in un tempo e in uno spazio di cui non si può disporre a proprio piacimento, ma che devono essere messi in atto contemporaneamente ai precedenti. Educare per prevenire È necessario ricordare che la prima forma di prevenzione è senz’altro l’educazione intesa come: { insieme di doveri e di regole psico-pedagogiche e comportamentali, { un uso dei social, della Rete e delle tecnologie basato su principi di ragionevolezza, rispetto e legalità.
Ma innanzitutto occorre sapere che dietro a tutti i comportamenti violenti esiste una mancanza di educazione al rispetto per la persona umana, educazione che dovrebbe essere svolta da genitori e insegnanti in primis fin dall’infanzia, per poi procedere per tutta la vita individuale e sociale attraverso ogni mezzo di informazione e di socializzazione.
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Educazione che è un fatto di cultura e di trasmissione e condivisione di valori individuali e sociali, non vicariabile attraverso l’enfasi sull’uso del braccialetto elettronico, il ricorso alle misure cautelari personali, l’inasprimento delle pene e consimili provvedimenti sanzionatori. Solo promuovendo la crescita nella cultura, nella solidarietà, nel rispetto, nell’aggregazione con gli Altri e nella libertà di dare e ricevere si può ottenere la piena applicazione critica e consapevole di quelle regole che i padri costituzionali hanno posto alla base della nostra democrazia. y
Dietro ai comportamenti violenti vi è una mancanza di educazione al rispetto per la persona umana, che dovrebbe essere svolta in primis da genitori e insegnanti
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inché siamo sani siamo abituati a trascurare i segnali del corpo, le stanchezze, gli allarmi; portiamo il corpo allo stremo, convinti che quella macchina perfetta che è il nostro corpo sano possa seguirci in tutte le possibili peregrinazioni della volontà. La malattia, rompendo quell’equilibrio perfetto, ci costringe a cambiare e a prenderci cura di tutti i (dis)equilibri della nostra vita. Oggi possiamo dire che anche le città sono malate e, oltre ad essere le principali responsabili della crisi climatica, ne subiscono gli impatti in modo sempre più intenso: ondate di calore, periodi di siccità, improvvise alluvioni. L’impatto sulla salute dei cittadini è ormai noto. Un recente articolo pubblicato su Nature Medicine,1 realizzato dall’Istituto de salud global di Barcellona, confronta il numero di decessi in Europa attribuibili alle ondate di calore nell’estate del 2003 (circa 70.000) con quelli del 2022 (62.862). Gli autori evidenziano come, mentre l’estate del 2003 costituiva una anomalia rispetto
Isole di calore e piogge torrenziali? Costruiamo città spugna Piccoli grandi interventi per salvare la salute delle città e di chi le abita Elena Granata Dipartimento di architettura e studi urbani Politecnico di Milano
Oggi possiamo dire che anche le città sono malate al periodo precedente, l’estate del 2022 si colloca ormai dentro un trend di estati sempre più calde e rischia di diventare la norma. La prima settimana di luglio 2023 si è purtroppo già confermata come la settimana più calda della storia della Terra. Questo aumento delle temperature, anche per periodi limitati dell’anno, impatta sulle città in modo devastante. Se infatti le ondate di calore sono fenomeni transitori – +2 o +4 gradi rispetto alla temperatura media dello stesso periodo – prevedibili e gestibili attraverso interventi mirati sulla popolazione più fragile (bambini, anziani, malati), le “isole di calore” sono una condizione strutturale delle città, dovute al modo in cui sono state costruite, progettate, organizzate.
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Ecco perché è urgente intervenire in modo locale e puntuale sul corpo vivo della città, lavorando sulle superfici, sui suoli liberi, sulle infrastrutture naturali (alberi, prati, suoli, acque). La “pelle” delle città fatta di materiali duri, di cemento, di asfalto, di pietra, di lamiere, amplifica la radiazione solare riflessa da queste superfici, accresce la percezione di calore da parte delle persone e quindi i danni sulla loro salute. Non possiamo preoccuparci dell’impatto sulla salute solo quando arriva l’estate. Intervenire sulle isole di calore, anno dopo anno, con piani di mitigazione del calore che progressivamente riducano la fascia impermeabile di asfalto e cemento e aumentino la parte verde e naturale, è oggi una priorità di sopravvivenza. Non è un percorso facile, richiede coraggio e capacità di liberarci di tanti pregiudizi culturali, ma non abbiamo alternative: la crisi climatica ci sfida nei luoghi dove le persone vivono, ci chiede di reintrodurre alberi e suoli liberi dove li abbiamo persi, di provare a ripensare la struttura stessa delle città, ispirandoci alla natura. È la logica delle nature-based solution, progetti e strategie di sopravvivenza mutuate dalla natura stessa, che agiscono sui suoli urbani con interventi di riforestazione, con interventi sul sistema delle acque, sugli edifici e le facciate. Le soluzioni non ci mancano, è la volontà a fare difetto. Si calcola fra i 5 e gli 8 gradi di differenza tra una piazza asfaltata e un’area verde con magari dell’acqua, come una fontana. Per questo gli urbanisti oggi concentrano la loro attenzione sugli usi dei suoli: piantare più alberi, ridurre il più possibile il consumo di suolo e le nuove costruzioni e de-pavimentare o de-sigillare fasce sempre più ampie di territorio, ripristinando dove possibile suolo libero. La rimozione di asfalto e cemento e la sostituzione con pavimentazione drenante, cool materials o vernici termo-riflettenti, con pavimentazione in legno, in terra battuta, calcestruzzo o asfalto colorato, può incidere in modo determinante sul nostro benessere.
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Le soluzioni non ci mancano, è la volontà a fare difetto Azioni facili e alla portata di tutte le amministrazioni ma che purtroppo si scontrano con pregiudizi culturali legati ad un’idea di decoro urbano che predilige l’asfalto e il cemento ovunque. Mentre lavorare sulla presenza di vegetazione consentirebbe di ridurre la temperatura di interi quartieri “grazie alla evo-traspirazione, ossia l’evaporazione del vapor d’acqua di prati, arbusti, alberi eccetera, che comporta la riduzione della temperatura
Migliorare la manutenzione e la cura del verde urbano è una priorità che tutte le politiche di mitigazione dovrebbero darsi dell’aria. Lo stesso fenomeno si ha in presenza di specchi d’acqua, fontane, laghi o fiumi. Inoltre, le alberature consentono di creare zone d’ombra più fresche”.2 La vegetazione non può essere solo concentrata in parchi e giardini ma deve coinvolgere sempre di più le corti interne, i filari delle strade, le coperture degli edifici e il verde verticale; tutte soluzioni che oggi dovrebbero far parte del bagaglio di lavoro di architetti e urbanisti. Le piante, infatti – così scrive da anni il neurobiologo vegetale Stefano Mancuso – sono la soluzione più concreta al problema del riscaldamento globale per la loro capacità di assorbire anidride carbonica e di liberare ossigeno, non hanno solo una valenza estetica e monumentale ma etica e di
salute pubblica. Gli alberi vanno ovviamente piantati in maniera corretta, vanno scelte le specie arboree più utili a mitigare gli effetti dell’inquinamento e delle isole di calore ma anche quelle più capaci di resistere allo stress della vita urbana. Gli alberi non sono nati per stare contenuti entro asfittiche aiuole, hanno bisogno di terra, di spazio per le radici, di prossimità con altri alberi. I continui cantieri, i lavori edili, il rifacimento delle strade impattano pesantemente sulla salute degli alberi, e possono avere un impatto più o meno forte sull’apparato radicale sotterraneo. Ce ne siamo accorti con le recenti piogge estive su Milano, quando più di 400 alberi sono caduti sotto la forza del vento e delle piogge. Prendersi cura della salute degli alberi e della compatibilità delle loro vite in contesti molto antropizzati evita che le piante si trasformino in un pericolo per la vita delle persone. Migliorare la manutenzione del verde e la cura delle alberature urbane è una priorità che tutte le politiche di mitigazione dovrebbero darsi. Ma c’è un’ultima questione degna di attenzione. Isole di calore e piogge torrenziali sono due aspetti dello stesso problema, per questo la sfida urbanistica più importante oggi consiste nel rendere le città più spugnose (sponge cities in inglese), porose, capaci di reagire agli eventi climatici estremi e di utilizzare con lungimiranza le risorse idriche a disposizione. Alle alluvioni e alle piogge torrenziali alternate a periodi di siccità si può rispondere solo con alberi, tetti verdi, aiuole, parchi, stagni o laghi, ma anche con strade sterrate, sabbia e altre superfici permeabili in grado di assorbire velocemente l’acqua e di rallentare il deflusso superficiale. Il concetto alla base della città spugna è proprio questo: passare da un centro urbano impermeabile, ricoperto di colate d’asfalto e cemento, a una città con superfici porose dove è più probabile che l’acqua si accumuli in caso di tempeste particolarmente violente e la vegetazione attenui le ondate di calore e favorisca il benessere delle persone. y
Isole di calore e piogge torrenziali sono due aspetti dello stesso problema: la sfida urbanistica più importante oggi consiste nel rendere le città più spugnose
Bibliografia 1 Ballester J, Quijal-Zamorano M, Méndez Turrubiates RF, et al. Heatrelated mortality in Europe during the summer of 2022. Nature Med 2023; 29:1857-66. 2 Fabbri K. Resistere meglio alle ondate di calore in città. Rivista il Mulino, 31 luglio 2023.
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Richard Smith, medico già direttore del prestigioso The BMJ, ha pubblicato sul suo blog una versione leggermente rieditata di un articolo che aveva scritto per la rivista norvegese Michael di medicina – “Why I recommend all doctors – indeed, everybody – to read good books deeply every day” – sul valore di novanta minuti di lettura ininterrotta quotidiana e sui diversi livelli di lettura tra il leggere e il non-leggere. “La lettura è un’attività magica, molto più dei trucchi di magia”, scrive Smith. Questa è una parte del lungo articolo con alcuni suggerimenti di letture.
Cinque libri di saggistica per chi lavora nella sanità
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imits to medicine di Ivan Illich. Il libro di saggistica che mi ha influenzato maggiormente è Limits to medicine di Ivan Illich, pubblicato nel 1974. Illich, un tempo sacerdote cattolico, era un critico della società industriale e criticava non solo la medicina, ma anche l’istru-
Cinque saggi sul vivere da medico e da paziente Suggeriti da Richard Smith, medico e lettore La principale minaccia alla salute nel mondo è la moderna medicina Ivan Illich
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zione, i sistemi di trasporto, la scomparsa delle lingue e molto altro. È morto nel 2002, ma adesso che i gas serra emessi dal nostro pianeta in continua industrializzazione minacciano la nostra sopravvivenza, sta venendo scoperto o riscoperto da molti per la prima volta. Poterlo sentir parlare quando ero studente di medicina a Edimburgo è stata, come ho descritto, la cosa più vicina a un’esperienza religiosa.1 Illich sosteneva che “la principale minaccia alla salute nel mondo è la medicina moderna”. Mi convinse, anche perché sentivo che ciò che vedevo nei reparti della Royal Infirmary di Edimburgo veniva fatto più a beneficio dei medici che dei pazienti. Quel giorno abbandonai la facoltà di medicina. Tre giorni dopo ci sono tornato, incerto su cos’altro fare. Nel 2003 ho riletto Limits to medicine e l’ho recensito per una rivista. Mi è sembrato più attuale che mai e invito regolarmente i giovani medici a leggere il libro. Il libro chiarisce i danni che spesso derivano dall’assistenza sanitaria 25 anni prima che il rapporto dei medici dell’Institute of medicine “To Err is Human: Building a Safer Health” iniziasse a prendere sul serio i danni derivanti dall’assistenza sanitaria.2 Il libro descrive anche quella che potrebbe essere definita la medicina basata sulle evidenze. La salute, sostiene Illich, è la capacità di affrontare la realtà umana della morte, del dolore e della malattia. La tecnologia può aiutare, ma la medicina moderna si è spinta troppo oltre, lanciandosi in una battaglia divina per sradicare morte, dolore e malattia. Così facendo, trasforma le persone in consumatori o oggetti, distruggendo la loro capacità di essere in salute. Illich vede tre tipi di iatrogenesi. La iatrogenesi clinica è il danno arrecato ai pazienti da trattamenti inefficaci, tossici e non sicuri. La iatrogenesi sociale deriva dalla medicalizzazione della vita, un processo che è progredito enormemente nei cinquant’anni successivi alla pubblicazione di Limits to medicine. Illich ha evidenziato come gli Stati Uniti, all’epoca del suo
libro, spendessero l’8,4 per cento del prodotto nazionale lordo per l’assistenza sanitaria, rispetto al 4,5 per cento del 1962. Può essere sensato? Nel 2022 era quasi il 20 per cento. E, infine, la iatrogenesi culturale, ovvero la distruzione dei modi tradizionali di affrontare e dare un senso alla morte, al dolore e alla malattia. “L’immagine che una società ha della morte”, sostiene Illich, “rivela il livello di indipendenza del popolo, l’importanza dei legami di parentela, la capacità di autonomia e la capacità di adattamento. La società, agendo attraverso il sistema medico, decide quando e dopo quali sofferenze il paziente può morire. La salute, o la capacità di far fronte alla malattia autonomamente, è stata espropriata fino all’ultimo respiro”. Morire è diventata l’ultima forma di resistenza al consumo. The Spirit Catches You and You Fall Down di Anne Fadiman. Il libro racconta la tragica storia di come la mancata comprensione tra un sistema sanitario e una famiglia porti al disastro, nonostante tutti facciano del loro meglio.3 I medici e gli infermieri del sistema sanitario californiano, gli assistenti sociali e la magistratura fanno di tutto per curare una bambina Hmong af-
fetta da una grave epilessia. La bambina però subisce danni cerebrali che la famiglia attribuisce ai farmaci prescritti. A questo punto i medici iniziano a sentirsi incompresi, non apprezzati e arrabbiati. Fadiman riesce a far comprendere profondamente al lettore i punti di vista di entrambe le parti. La scrittrice attribuisce il suo successo alla propria irrilevanza. Gli Hmong credono che la “perdita dell’anima” sia la causa principale delle malattie e, come molti popoli, che l’epilessia abbia un aspetto positivo: la sua presenza contraddistingue una persona come possibile sciamano. Fadiman mostra come la comprensione e la cooperazione non siano facili da ottenere. Non si tratta solo di conoscere una lingua e di ascoltare, ma anche di capire qualcosa della storia antica e prossima di un popolo, delle sue credenze e della sua cultura, cosa che nessuno – nel caso del libro – è riuscito a fare. In questa storia la distanza tra i medici e la famiglia è particolarmente ampia, ma credo che tali incomprensioni siano comuni e possano causare grande dolore da entrambe le parti. Oltre a fornire insegnamenti importanti, il libro è anche piacevole da leggere (questo è meno vero per il libro di Illich).
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Intoxicated by my illness di Anatole Broyard. Un’altra piacevole lettura è questa raccolta di saggi sulla malattia, la vita e la morte che Broyard ha scritto dopo aver ricevuto una diagnosi di cancro alla prostata. Si dice che il medico di Jean Cocteau, poeta e artista francese, lo abbia curato gratuitamente perché era l’unica persona in grado di descrivere accuratamente i suoi sintomi. Broyard è come Cocteau e fornisce intuizioni sulla malattia che altrimenti i medici potrebbero cogliere solo essendo essi stessi gravemente malati.4 Come vi sentireste se un vostro paziente vi dicesse: “Voglio che tu sia il mio Virgilio, per guidarmi attraverso il purgatorio o l’inferno indicandomi le cose da vedere mentre andiamo avanti”? E come rispondereste a: “Vorrei discutere con lei della mia prostata non come organo malato ma come pietra filosofale”? Sono queste le parole che Broyard disse al suo medico. Broyard fu critico letterario e redattore del New York Times, morto nel 1990. La sua fama è dovuta in parte al fatto che fosse di razza mista e criticato perché “passava” per bianco negando la sua ascendenza. Potrebbe aver ispirato il libro di Philip Roth The Human Stain, che parla di un professore di colore che si fingeva ebreo, anche se Roth nega. (Roth, tra l’altro, è uno dei miei autori preferiti, insieme a John Updike e Bellow, tutti ormai noti per quella che sembra essere misoginia. Quanto ci si allontani dagli artisti a causa delle loro convinzioni o dei loro comportamenti non sani è un problema attuale. Io propendo per la lettura di tutti). Il libro è stato scritto verso la fine della sua vita, mentre stava morendo di cancro alla prostata. Fu la malattia a metterlo in contatto con i medici e a spingerlo a farsi visitare. Ripensò anche a quando suo padre stava morendo, e ciò che voleva da un medico era qualcosa in più della semplice abilità tecnica. Il libro è pieno di frasi da citare, e qui ne riporto solo alcune { Per arrivare al mio corpo, il mio medico deve arrivare al mio cuore. Deve passare attraverso la mia anima.
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{ Il medico inserisce le sue conoscenze cliniche in una poesia di diagnosi. Perciò voglio un medico sensibile. { Voglio che il mio medico sia magico oltre che bravo. { Vorrei che [il mio medico] sapesse cosa intendo se gli dico, come Baudelaire, “coltivo le mie crisi con gioia e terrore”. { Sarei più felice con un medico spiritoso, che sappia apprezzare la comicità così come la tragedia della mia malattia. { Che lo voglia o no, il medico è un narratore e può trasformare le nostre vite in storie belle o brutte, indipendentemente dalla diagnosi. { Ogni paziente invita il medico a combinare il ruolo di sacerdote, di filosofo, di poeta, di amante. Si aspetta che il medico valuti tutta la sua vita, come un biografo. { Vorrei che [il mio medico] sapesse che mi sento superiore a lui... che anche lui è un mio paziente e che a mia volta faccio diagnosi su di lui. Radical Help: How we can remake the relationships between us and revolutionise the welfare state di Hilary Cottam. In questo libro, Cottam, designer sociale, sostiene che lo stato sociale, che tutti apprezziamo, non risponde più in modo adeguato ai problemi del ventunesimo secolo: riscaldamento globale, migrazioni di massa, cambiamenti demografici, epidemie di malattie croniche, preoccupazioni per la sicurezza e aumento delle disuguaglianze. Lo stato sociale ha bisogno non solo di cambiare, ma di “invertire la rotta... con un pivot, ovvero un cambiamento che implichi una nuova visione, una soluzione diversa e un nuovo modello di business”.5 Un pivot, spiega Cottam, non è solo un’altra parola per indicare un cambiamento. “Il
Per arrivare al mio corpo, il mio medico deve arrivare al mio cuore. Deve passare attraverso la mia anima Anatole Broyard
pivot è un tipo speciale di cambiamento che comporta una nuova visione, una soluzione diversa e un nuovo modello aziendale. Il pivot offre una trasformazione, il potenziale per qualcosa di molto migliore e di maggior successo”. Il pivot richiede un grande coraggio e molte imprese e aziende sono fallite per mancanza di coraggio. La riconversione del welfare state, e in particolare del servizio sanitario nazionale inglese, potrebbe essere particolarmente difficile a causa dell’amore che i britannici nutrono per questa istituzione. Cottam sostiene che “il nostro rapporto più difficile, quello che minaccia maggiormente la nostra salute, è il rapporto con l’establishment medico. La medicina ha catturato i nostri cuori e le nostre menti”. Ci rivolgiamo ai medici, agli altri professionisti della salute e al servizio sanitario nazionale per risolvere i problemi che non possono essere risolti con farmaci, operazioni e persino semplici consigli. Per evitare la dipendenza, dobbiamo cercare aiuto altrove: da noi stessi, dalla nostra famiglia e dai nostri amici, dalle nostre comunità e dalla società civile. Cottam non è contro i medici. Il suo obiettivo è raggiungere un migliore equilibrio tra ciò che fa il servizio sanitario nazionale e ciò che fanno gli altri. Il servizio sanitario nazionale, ad esempio, era ed è ben progettato per vaccinare la popolazione contro il virus covid-19 e altre infezioni, ma non è nella posizione migliore per affrontare la solitudine, la disperazione, l’inattività e i comportamenti scorretti. “L’attuale stato sociale”, scrive Cottam, “è diventato un elaborato tentativo di gestire i nostri bisogni. Al contrario, le forme di aiuto del ventunesimo secolo ci aiuteranno a sviluppare le nostre capacità. Gli ap-
Gli esseri umani sono stati dotati della capacità di contare, ma anche della capacità di valutare la qualità Hilary Cottam
procci tradizionali al welfare vedono l’utente come dipendente, secondo i loro pregiudizi, e in risposta cercano di dargli qualcosa o di fargli qualcosa, per gestire il suo bisogno nel modo migliore che conoscono. L’approccio delle capacità cambia il modo in cui viene offerto il sostegno”. Cottam riconosce la centralità delle relazioni per la nostra vita e la nostra salute. “Le relazioni, i semplici legami umani tra di noi, sono il fondamento di una buona vita. Ci portano gioia, felicità e un senso di possibilità. Costruire relazioni permette la crescita di ulteriori capacità: ci aiutano a imparare, contribuiscono a una buona salute e a comunità vivaci. Senza legami forti con gli altri, o con relazioni malsane, ben pochi di noi possono sentirsi appagati o addirittura funzionare”. La maggior parte del libro riguarda gli aspetti pratici del tentativo di riorganizzare istituzioni come lo stato sociale e il servizio sanitario nazionale. Non li ripeterò qui, ma per me Cottam descrive i cambiamenti radicali necessari in un modo che pochi altri eguagliano. Vedo una sovrapposizione tra gli scritti di Illich e Cottam, in quanto la scrittrice cerca di trovare un modo per ripristinare – o forse reinventare – parte di ciò che Illich descrive come perso. The Uninhabitable Earth di David Wallace- Wells. Il saggio riassume le prove di come l’umanità stia distruggendo la Terra.6 È un libro desolante da leggere, ma scritto magnificamente, e questo è uno dei motivi per cui è così potente. Ma è potente anche per la tragica storia che racconta. Wallace-Wells ha parlato con molti scienziati del clima per preparare un articolo per il New Yorker e poi ha ampliato il saggio in un libro. Il libro cambia la mente, perché non ci si può più sentire a proprio agio riconoscendo la gravità e l’urgenza della situazione dell’umanità. Una frase che mi è rimasta impressa è l’osservazione che gli ottimisti non hanno mai avuto ragione. Credo che se tutti nel mondo – o almeno tutti i leader del mondo – leggessero il libro, allora il libro potrebbe salvare l’uma-
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nità perché le persone si sentirebbero obbligate ad agire. Wallace-Wells parla dei danni che la crisi planetaria sta facendo e farà alla salute, ma non menziona come l’assistenza sanitaria sia essa stessa parte del problema, in quanto responsabile dell’emissione di gas serra (il National health service rappresenta circa il 5 per cento delle emissioni del Regno Unito) e della produzione di molti rifiuti, compresi i farmaci che sono finiti negli oceani. I professionisti della salute possono contribuire a rispondere alla crisi planetaria trovando il modo di ridurre i danni al clima e alla natura causati dai sistemi sanitari, ma devono anche esortare i leader a intraprendere le azioni drastiche necessarie per rispondere e cambiare i propri stili di vita. Altri libri di saggistica Anche in questo caso la mia selezione è in qualche modo arbitraria, anche se meno della selezione di romanzi, in quanto tutti e quattro questi libri hanno avuto un grande impatto su di me e hanno cambiato il mio modo di pensare al mondo. Ma ci sono altri libri di saggistica che avrei potuto scegliere, tra cui The Emperor of All Maladies: A Biography of Cancer di Siddhartha Mukerjee, un oncologo. Il libro, che ha vinto il premio Pulitzer, è una storia del cancro e delle sue cure. Ci sono molti fallimenti e vicoli ciechi, ma anche successi, e il libro, scritto in modo splendido, si legge come un thriller, e lo è. Empire of Pain: The Secret History of the Sackler Dynasty di Patrick Radden Keefe, anch’esso vincitore del premio Pulitzer, è un altro libro molto piacevole che si legge come un romanzo.7 Descrive il ruolo centrale della famiglia Sackler nel creare e alimentare la crisi degli oppioidi, probabilmente il più grande disastro della medicina, che ha ucciso milioni di persone. The Sleeping Beauties della neurologa Suzanne O’Sullivan racconta le sue esplorazioni, molte delle quali basate su visite, di focolai di massa di quelli che lei diagnostica come disturbi funzionali, tra cui i
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Il libro di David Wallace-Wells cambia la mente, perché non ci si può più sentire a proprio agio, riconoscendo la gravità e l’urgenza della situazione dell’umanità giovani richiedenti asilo in Svezia che si sono “addormentati” per più di un anno e i diplomatici americani a Cuba afflitti da una strana malattia.8 O’Sullivan è specializzata in disturbi funzionali, che possono rappresentare fino a un terzo dei disturbi presenti nei pazienti visitati negli ambulatori. Questi pazienti soffrono e non fingono di essere malati. La loro malattia è reale come le malattie con una causa fisica individuabile, e non è “tutto nella loro testa”. Come descrive O’Sullivan, questi pazienti sono spesso vittime della medicina moderna: vengono sottoposti a numerosi esami ma raramente vengono aiutati. y L’articolo integrale pubblicato su Richard Smith’s non medical blogs, il 24 giugno 2023, è stato tradotto e suddiviso in quattro puntate su ilpunto.it grazie a un accordo con l’autore che ringraziamo per la sua disponibilità.
Le quattro puntate dell’articolo sono disponibili online
Bibliografia 1 Commentaries: Ivan Illich. J Epidemiol Community Health 2003; 57: 925-8. 2 Institute of medicine committee on quality of health care in America. To err is human: building a safer health system. Washington (DC): National Academies Press (US), 2000. 3 Smith R. An extreme failure of concordance. BMJ 2003; 327: 0. 4 Smith R. It’s hard, perhaps impossibly hard, to be a good doctor. BMJ blogs, 11 giugno 2012. 5 Smith R. Time for a radical pivot in the welfare state, including the NHS. BMJ blogs, 6 aprile 2021. 6 Smith R. Everybody reading The Uninhabitable Earth could literally (the correct use of a usually misused word) save the planet. Richard Smith’s non-medical blogs, 8 maggio 2019. 7 Smith R. The opioid crisis, the Sacklers, and the role played by doctors. BMJ blogs, 21 luglio 2023. 8 Smith R. “Functional disorders”: one of medicine’s biggest failures. BMJ 2023; 380: p221.
z LESSICO DI BIOETICA
Biologia sintetica Sebbene l’espressione e lo stesso concetto risalgano agli inizi del Novecento (Stephane Leduc. La biologie synthétique, Paris: Poinat 1912), la biologia sintetica (o di sintesi) è un indirizzo di ricerca nel campo delle scienze della vita che si realizza nel contesto delle profonde trasformazioni cui è andata soggetta la ricerca biologica in questi ultimi decenni, grazie alla disponibilità di potenti tecnologie (in particolare, sequenziatori automatici e sintetizzatori) e a nuovi concetti e metodi importati dalle scienze fisiche, ingegneristiche, matematiche e informatiche. La biologia sintetica ha come obiettivo quello di riprogrammare i sistemi biologici naturali dotandoli di nuove funzioni e, in prospettiva, di progettare e realizzare nuove parti e sistemi biologici dotati di proprietà e funzioni utili che i sistemi naturali non possiedono. Alla base di questo progetto c’è l’idea che i sistemi biologici possano essere considerati alla stregua di macchine costituite da una combinazione di elementi funzionali indipendenti (moduli), e quindi suscettibili di essere scomposti e ricomposti in nuove configurazioni per modificare le proprietà possedute dal sistema o per crearne di nuove. Questo progetto viene perseguito attraverso due approcci fondamentali. Il primo è l’approccio bottom-up (dal basso verso l’alto), il cui modello e il notissimo gioco coi mattoncini LEGO, e infatti biobrick (mattoncino biologico) vengono chiamate le parti di dna che codificano per funzioni note, delle
quali esiste un registro online istituito dal Massachusetts institute of technology. Questo registro è la base per una competizione internazionale (International genetically engineered machines competition, Igem) alla quale gruppi di ricerca di vari Paesi (costituiti da studenti guidati da un docente) partecipano presentando invenzioni basate sui biobrick registrati: ad esempio, un biosensore capace di scoprire l’arsenico nell’acqua o un biofilm per la fotolitografia. Sempre in questo tipo di approccio va ricordata anche la ricerca sulle protocellule: si tratta di microscopiche aggregazioni di molecole che si auto-assemblano a partire da semplici substrati organici e inorganici e sono capaci di crescere, replicarsi ed evolvere. Da questo tipo di ricerca si attendono anche lumi sulla questione di come la vita sia emersa dalla materia inerte.
applicazioni per affrontare le grandi sfide che l’umanità ha davanti è sottolineato nell’immagine del mondo che, secondo un rapporto del National research council del 2009, potrebbe scaturire dalla biologia sintetica: “Immaginate un mondo nel quale c’è per tutti cibo abbondante e sano, dove l’ambiente è ripulito e rifiorente, dove c’è energia pulita e sostenibile e la buona salute è la norma”. Lo sviluppo della biologia sintetica è stato accompagnato da un vasto dibattito che, da un lato, ha toccato il problema (per altro comune alle nuove biotecnologie) della valutazione dei benefici e dei rischi connessi all’eventuale rilascio nell’ambiente di nuovi costrutti biologici e, dall’altro, ha approfondito le tematiche di tipo filosofico e antropologico suscitate dagli aspetti epistemologici e metodologici di questo nuovo modo di fare biologia.
Il secondo approccio è top-down (dall’alto verso il basso) e comprende diverse varianti, la più nota delle quali è quella che mira a decostruire i sistemi viventi alla ricerca delle forme semplificate e minimali (genoma minimo) compatibili con le funzioni vitali, da usare come chassis per inserire nuovi circuiti biologici per nuove funzioni. Un grande passo in avanti in questa direzione è stato realizzato nel 2010 dallo scienziato Craig Venter con la creazione di un batterio ottenuto inserendo un genoma chimicamente sintetizzato in un batterio privato del suo corredo genetico e usato come una sorta di contenitore.
La biologia è la scienza che studia la vita e la biologia sintetica è la scienza che si ripromette di progettare e creare nuove forme di vita non esistenti in natura: questo chiama in questione due nozioni fondamentali, quella di vita e quella di natura, con una sfida a molte intuizioni comuni e a concezioni filosofiche diffuse in materia.
Sul piano pratico, le possibili applicazioni della biologia sintetica toccano pressoché tutti gli ambiti della nostra vita: si va dalla produzione di farmaci di nuova concezione a nuovi metodi per la produzione di biocarburanti, alla detossificazione e controllo dell’ambiente e così via. L’enorme interesse di queste e altre possibili
Demetrio Neri Professore emerito di Bioetica, Università degli studi di Messina Socio della Consulta di bioetica onlus Membro della Commissione per l’etica e l’integrità della ricerca del Cnr (Roma)
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Fecondazione assistita La fecondazione assistita è una tecnica di fecondazione extracorporea che prevede la fertilizzazione di uno o più oociti in un terreno di coltura e il successivo trasferimento dell’embrione o di più embrioni nell’utero materno dopo 3-5 giorni dalla fecondazione. Nata per risolvere i problemi della sterilità meccanica (tubarica) femminile, ha visto i suoi primi successi nel 1978. Attualmente è usata in quasi tutti i Paesi del mondo (alla fine del 2015 erano nati oltre 5.000.000 di bambini con questa tecnica) e le indicazioni sono diventate numerose: scarsa fertilità del seme maschile, sterilità di coppia, sterilità idiopatica o da cause non accertate, necessità di provvedere a indagini genetiche sugli embrioni, impedimenti di vario genere al rapporto sessuale. La tecnica prevede, almeno nella maggior parte dei casi, una stimolazione dell’ovaio che consenta di raccogliere un certo numero di oociti fertilizzabili, poiché la scarsa generosità di risultati può essere superata soltanto trasferendo un certo numero di embrioni (comunque mai più di tre). L’unico momento invasivo della tecnica è quello che prevede il prelievo degli oociti, che si esegue per aspirazione dal follicolo, raggiunto da un ago per via vaginale. Il trasferimento del prodotto del concepimento nella cavità uterina, invece, non è invasivo. Le complicazioni previste riguardano la possibilità di una iperstimolazione ovarica – rischio sempre meno frequente, a causa del continuo miglioramento dei protocolli di stimolazione – e la maggior frequenza di gravidanze e parti plurimi; qualche ricerca
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epidemiologica riporta un lieve aumento di malconformazioni fetali, ma i dati sono poco omogenei e le possibili cause potrebbero non aver a che fare con la tecnica. Dal 1978 sono state messe a punto nuove tecniche, che vengono utilizzate soprattutto nei casi di grave sterilità maschile: l’iniezione intracitoplasmatica degli spermatozoi e l’iniezione intracitoplasmatica di spermatozoi morfologicamente selezionati. Le probabilità di successo della tecnica sono in rapporto con l’età della donna e scendono a livelli molto bassi, vicini a zero, dopo i 44 anni. La fecondazione assistita ha aperto la strada ad alcune possibilità precedentemente ritenute inattuabili: è possibile la donazione di gameti femminili e di embrioni nei casi in cui la donna o entrambi i partner non siano in grado di contare sui propri gameti; è possibile eseguire una selezione degli embrioni nei casi in cui la coppia sia portatrice di malattie genetiche che si possono trasmettere alla progenie; è possibile per entrambi i partner conservare la propria fertilità per tempi futuri mediante la crioconservazione dei gameti. In Italia era stata approvata una legge che si ispirava ai principi dell’etica religiosa dominante nel Paese, ma la Consulta ne ha considerata anticostituzionale la maggior parte. Le probabilità di successo che vengono mediamente calcolate in Occidente variano tra il 25 e il 35 per cento per ciclo di trattamento; sono significativamente migliori i risultati delle donazioni di gameti che si aggirano intorno al 50 per cento. Il problema italiano è soprattutto connesso con la presenza sul territorio di un numero eccessivo di centri, soprattutto privati, un fatto che peggiora la percentuale media di successi perché fraziona in modo eccessivo la popolazione delle
coppie sterili. Al momento comunque la maggior parte dei trattamenti, inclusi quelli che utilizzano gameti di donatore, è inserita nei livelli essenziali di assistenza; si deve comunque lamentare una scarsa partecipazione ai trattamenti delle unità operative pubbliche e un numero inadeguato di centri privati convenzionati. Per molti bioeticisti, infine, le fecondazioni assistite sono responsabili di un “conflitto di paradigmi” destinato a modificare il nostro concetto di genitorialità. Lo si può capire meglio se si considerano i temi della ricerca scientifica che appassionano oggi un grande numero di ricercatori e di scienziati e che non sarebbero percorribili senza fecondazione in vitro: editing genetico, trapianto di utero, ectogenesi, donazione di placenta, sostituzione del dna mitocondriale, gravidanza per altri (il cosiddetto “dono del grembo”). Carlo Flamigni (4 febbraio 1933 – 5 luglio 2020) Ha diretto il Servizio di Fisiopatologia della riproduzione e la Clinica ostetrica e ginecologica dell’Università di Bologna, ha fatto parte del Comitato nazionale per la bioetica
F I lemmi sono tratti dal libro Le parole della bioetica, a cura di Maria Teresa Busca e Elena Nave (Roma: Il Pensiero Scientifico Editore). Per gentile concessione dell’editore.
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