il punto. La rivista dell'OMCeO Torino | Numero 3 – 2024

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Un progetto dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Provincia di Torino

Quale rapporto tra medicina e politica?

La libertà di espressione nella relazione di cura

La violenza contro il personale sanitario: costruire uno spazio sicuro

La scelta di andare in pensione e il peso delle malattie dei pazienti

La nuova Dichiarazione di Helsinki: il consenso libero e informato

Sommario

il punto | 3 | 2024

ANNO III, NUMERO 3

LUGLIO-SETTEMBRE 2024

Direttore scientifico

Guido Giustetto

Direttore editoriale

Rosa Revellino

Comitato redazionale

Gianluigi D’Agostino, Venera Gagliano, Andrea Gatta, Guido Regis, Angelica Salvadori, Emanuele Stramignoni, Rosella Zerbi.

Laura Tonon e Celeste De Fiore

(Il Pensiero Scientifico Editore)

Collaboratori: Giulia Annovi, Viola Bachini, Luciano De Fiore, Alessandro Magini

3

Ma quanto è difficile e bello fare il medico!

Guido Giustetto

IL PUNTO SUL MEDICO E LA POLITICA

5

Può un medico esprimere pubblicamente le sue idee politiche?

Andrea Capocci

8

Il peso del sapere medico nel gioco dei poteri

Gianni Tognoni

12

La medicina e la politica basate sulle prove, per il bene pubblico Domenico Ribatti

14

L’etica clinica convocata alle presidenziali Sandro Spinsanti

18

Stanare i pregiudizi per demolirli

Danielle Ofri 21

Il buon medico e la cura del contatto

Salvatore Mangione, Angelica Salvadori

23

Perché un medico decide di andare in pensione?

Neil Berman

26

Come cambia il rapporto dei giovani medici con il proprio lavoro

Adam Cifu

IL PUNTO SULLA VIOLENZA CONTRO I MEDICI

28

Violenze contro i medici. Costruire uno spazio comune sicuro

Mauro Doglio

31

Quella violenza

subita e vissuta, verbale e fisica

Ombretta Silecchia, Vito Calabrese, Giovanni Bergantin, Fabrizio Pregliasco

34

L’assistenza al bambino negli hospice. Cosa è cambiato in un secolo di storia

Giancarlo Cerasoli, Niccolò Nicoli Aldini, Sara Patuzzo

40

SCELTE CONSAPEVOLI

Come rendere le sale operatorie più sostenibili

42

LETTI E SOTTOLINEATI La nuova Dichiarazione di Helsinki

45 CINEMA Comportarsi da medici in tempo di guerra

Pirous Fateh-Moghadam

Comitato editoriale

Marco Bobbio, Michela Chiarlo, Giampaolo Collecchia, Lucia Craxì, Fabrizio Elia, Elena Gagliasso, Libero Ciuffreda, Giuseppe Gristina, Roberto Longhin, Giuseppe Naretto, Luciano Orsi, Elisabetta Pulice, Lorenzo Richiardi, Massimo Sartori, Vera Tripodi, Marco Vergano, Paolo Vineis

Consiglio direttivo

dell’OMCeO di Torino

Guido Giustetto (presidente), Guido Regis (vicepresidente), Rosella Zerbi (segretaria), Emanuele Stramignoni (tesoriere), Domenico Bertero, Patrizia Biancucci, Tiziana Borsatti, Vincenzo Michele Crupi, Gianluigi

D’Agostino (presidente CAO), Riccardo Falcetta, Riccardo Faletti, Gilberto Fiore, Ivana Garione, Aldo Mozzone, Fernando Muià, Angelica Salvadori, Renato Turra, Roberto Venesia

Sede e contatti

OMCeO Torino

Corso Francia 8 – 10143 Torino email: info@ilpunto.it

Produzione e amministrazione Il Pensiero Scientifico Editore

Via San Giovanni Valdarno 8, 00138 Roma tel. 06862821 | fax 0686282250

e-mail: pensiero@pensiero.it internet: www.pensiero.it

c/c postale: 902015

Editore responsabile

Giovanni Luca De Fiore

Progetto grafico e impaginazione Typo85, Roma Stampa Ti Printing, Roma Autorizzazione Tribunale di Torino numero registro stampa 65/2021 del 29/12/2021 (già 793 del 12/01/1953).

Immagini In copertina: “Torino” di Daniele Bertin. Nelle pagine interne le foto non firmate sono di iStock. Tutti i diritti sono riservati. Diritti d’autore Tutto il materiale pubblicato in queste pagine è disponibile sotto la licenza “Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo

4.0 Internazionale”. Può essere riprodotto a patto di citare ilpunto.it, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Finito di stampare dicembre 2024 Abbonamenti 2024

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Gli articoli raccolti in questo numero sono post pubblicati sul sito www.ilpunto.it

Ma quanto è difficile e bello fare il medico!

Riflessioni sulla nostra professione

In questo numero della rivista abbiamo raccolto, tra gli altri, alcuni articoli che riflettono su comportamenti che adottiamo e dilemmi con i quali tutti i giorni ci confrontiamo: il coinvolgimento emotivo e il distacco professionale, la fisicità del rapporto con il paziente, i pregiudizi verso i pazienti “sgradevoli”, i cambiamenti generazionali, l’opportunità di comunicare la nostra visione politica.

Le ingiurie del tempo. Con il passare degli anni cambia il bilanciamento tra coinvolgimento emotivo nei problemi dei pazienti e distanza professionale. È più difficile mantenere quell’oggettività che ci permette di affrontare la malattia senza esserne sopraffatti emotivamente. Gli aspetti “extra-medici” delle malattie si avvertono in maniera più acuta: l’ingiustizia della malattia, l’inevitabilità dell’età e il degrado del corpo. Le malattie dei pazienti si presentano in maniera più personale e ci fanno vedere dove potremmo trovarci anche noi un giorno non lontano. “Le nostre relazioni con i pazienti sono complicate” racconta Neil Berman (vedi pp. 23-25 ). “Da un lato, la mancanza di tempo, il numero di pazienti e il carico amministrativo associato alla cura interferiscono con la nostra relazione, contribuendo all’insoddisfazione lavorativa e al burnout. Dall’altro lato, però, quando queste relazioni diventano più personali e intense, il nostro lavoro può diventare più stressante, poiché si aprono brecce nella nostra corazza di obiettività. È vero, gran parte della mia efficacia professionale dipendeva dal mantenere una certa distanza dai miei pazienti” per non indebolire le nostre difese contro la delusione di fallire nella nostra missione di curare la malattia. “È un equilibrio complesso: da un lato, dobbiamo essere distanti per proteggere noi stessi e rimanere obiettivi, dall’altro, quelle stesse relazioni ci danno un senso di realizzazione”.

L’incontro tra i corpi: la visita e la tecnologia. La dimensione fisico-spaziale ha una proprietà che il digitale non potrà mai avere: l’interazione fra corpi. Noi siamo fatti di carne e sangue: interagire in compresenza fisica ha delle proprietà non sostituibili. Rimettere al centro la fisicità è un elemento costitutivo e irrinunciabile. Così si esprime, in altra sede parlando della crisi della partecipazione popolare, il sociologo Filippo Barbera1 ma queste parole sembrano quasi riferirsi alla necessità di rivalutare nel rapporto con il paziente il gesto del toccare.

C’è il rischio che i medici di oggi si affidino sempre più agli strumenti diagnostici e sempre meno al loro giudizio clinico e all’esame obiettivo. Si è un po’ persa la consapevolezza che il semplice gesto di toccare e guardare il paziente è un atto insostituibile nella pratica medica e ha enormi benefici. Il suo valore non risiede soltanto nel “materializzare” l’empatia. Ma il contatto fisico ha, di per sé, effetti profondi sul corpo umano: stimola il rilascio di sostanze chimiche come endorfine, serotonina e ossitocina, che inducono sensazioni di rilassamento e fiducia. Questo può abbassare la pressione sanguigna, attivare

il nervo vago, ridurre l’ansia e persino alleviare il dolore. Inoltre, il contatto fisico rinforza il sistema immunitario, aumentando l’attività delle cellule natural killer, fondamentali nella lotta contro le infezioni. In sintesi, il tatto non è solo un gesto simbolico, ma ha un impatto concreto sulla salute fisica e mentale del paziente (vedi pp. 21-23).

Riconoscere i nostri pregiudizi. “Anche se nascondo quello che provo quando mi sento a disagio con un paziente, i miei sentimenti possono ancora influenzare come comunico in modi che potrebbero avere come risultato un’assistenza medica meno ottimale. È una mia paura autentica. I miei pregiudizi inconsci – o consci – mandano segnali di mancanza di rispetto a prescindere da quanto provi a circoscrivere le mie reazioni visibili? Allontanerò questi pazienti dall’assistenza medica, anche se spesso sono proprio loro quelli che hanno bisogno di maggiori cure?”, scrive Danielle Ofri (vedi pp. 18-21). Modificare il nostro comportamento esteriore e il modo in cui comunichiamo è importante, ma dobbiamo anche sforzarci di mettere in discussione i nostri sentimenti istintivi. Il primo passo è riconoscerli: medici e infermieri devono essere onesti sui loro sentimenti preconcetti, per quanto questo processo possa risultare sgradevole e scomodo. Dobbiamo cogliere noi stessi nell’atto di saltare alla conclusione, notare quello che stiamo facendo e poi interrogarci sulle conclusioni. Dobbiamo parlare con i nostri colleghi dei pregiudizi nell’esercizio della nostra professione per capire dove si nascondono possibili zone cieche.

I giovani medici. Rispetto al passato, la professione medica viene vissuta non tanto come una vocazione dedicata alla cura del paziente e come una professione totalizzante, quanto piuttosto come un impiego da svolgere nell’orario di lavoro. E anche per il solo fatto stesso che il paziente viene preso in carico da più figure professionali, il medico percepisce di non avere più un ruolo cruciale. I giovani oggi pensano al loro posto di lavoro come a un percorso temporaneo che può essere abbandonato per intraprenderne un altro, per fare carriera e per rispondere ai propri bisogni personali che hanno un diverso peso specifico rispetto al passato. Non sono pochi i medici (anche nel nostro Paese) che dichiarano di essere disposti a cambiare lavoro per avere più tempo libero e uno stipendio più alto, e questa esigenza è ancora più marcata tra i giovani che hanno scelto la professione medica con un’altra visione del lavoro del medico e con altre esigenze. “Ma la medicina è ancora organizzata come un tempo e ci si aspetta che i medici siano sempre presenti per i loro pazienti”, commenta Adam Cifu. “Questa organizzazione, che potrebbe non essere la migliore, non si adatta alle nuove generazioni di medici e alle loro aspettative di carriera, e certamente porterà al burnout” (vedi pp. 26-27 ).

Esprimere le proprie posizioni politiche. Da una parte: “Una grande componente del successo con i pazienti coinvolge la fiducia. Ciò che conta nella pratica clinica è costruire il rapporto con il paziente, comprenderne il problema e le priorità, e trovare una terapia che si adatti alle sue. È impossibile farlo se il paziente non si fida di te. O se ti considera schierato”. Dall’altra: “È difficile rimanere apolitici quando le decisioni dei governi locali, statali e federali influenzano la salute dei pazienti che assistiamo. Grazie alla loro formazione e alla loro esperienza, i medici potrebbero essere le persone più indicate per rappresentare alcune cause. Decidere di rimanere apolitici è essa stessa una presa di posizione a favore dello status quo. Ma i pazienti vanno dal medico per le cure mediche, non per il proselitismo. Le visite dovrebbero riguardare loro” (vedi pp. 5-7 ).

Bibliografia

1 Mingori E. “Vi spiego perché gli italiani non scendono più in piazza”: intervista al sociologo Filippo Barbera. Tpi, 18 novembre 2023.

Foto di Bogdan Krupin / CC BY

Può un medico esprimere pubblicamente le sue idee politiche?

Una questione che merita particolare attenzione: il giornalista Andrea Capocci raccoglie alcuni punti di vista

Immaginiamo di entrare nello studio medico di uno specialista da cui attendiamo una diagnosi importante. Gli stringiamo la mano, ci sediamo di fronte a lui e ci prepariamo ad ascoltarlo con la massima attenzione. È lì che notiamo un dettaglio: sotto il camice, lo specialista indossa una t-shirt con uno slogan politico. Proprio ieri sera, durante un talk show alla tv, abbiamo visto la stessa maglietta addosso a un leader di partito lontanissimo dalle nostre posizioni, che detestiamo e che non voteremmo nemmeno sotto tortura. Proviamo a concentrarci sulle parole che sta pronunciando, ma ormai qualcosa si è rotto. Il medico che fino a ieri ci appariva così autorevole ora ci fa domandare come una persona intelligente possa credere alle affermazioni infondate di quel politico. Forse, azzardiamo, non è poi così intelligente? Facciamo fatica a seguirlo e già pensiamo a chiedere un secondo parere. Questa scena fa da sfondo a un interrogativo ben più serio che si pone la classe medica internazionale nell’anno più elettorale in cui andranno a votare due miliardi di esseri umani. Tra gli ultimi gli statunitensi, che il 5 novembre hanno scelto tra Kamala Harris e Donald Trump in un’America mai così divisa. La domanda è: può un medico esprimere pubblicamente le sue idee politiche?

Camici bianchi apolitici

Che si tratti di un tema “caldo” soprattutto negli Stati Uniti è confermato dall’elettrofisiologo esperto di cardiologia sportiva John Mandrola, noto per il suo rigore in materia di integrità scientifica e etica medica. Ben 4 milioni e mezzo di utenti hanno visualizzato un suo tweet che recita testualmente: “Nelle prossime settimane sarà difficile, ma penso che i medici specialisti debbano tentare di rimanere apolitici nella sfera pubblica. Lo dobbiamo ai nostri pazienti”.

Gli utenti non si sono limitati a leggere le parole di Mandrola, e quasi duemila di loro hanno commentato le sue parole, in modo più o meno critico. “Hai paura di perdere pazienti trumpiani?” gli ha risposto una follower di fede dem. “Voglio sapere se il mio medico è un comunista!” gli ha replicato un altro account che un Virzì statunitense farebbe bene a seguire. “La maggior parte dei 459 commenti e delle 205 citazioni ricevute dal tweet sono state negative” ha riconosciuto Mandrola, argomentando meglio la sua posizione in una newsletter. “Che a noi specialisti piaccia o no, una grande componente del nostro successo con i pazienti coinvolge la fiducia” scrive Mandrola. “Ciò che conta nella pratica clinica è costruire il rapporto con il paziente, comprenderne il problema e le priorità, e trovare una terapia che si adatti alle sue. È impossibile farlo se il paziente non si fida di te. O se ti considera schierato”.

Della fiducia nella classe medica oggi non si discute dunque solo in Italia, dove le quotidiane aggressioni ai sanitari mostrano più di una crepa nel rapporto medico-paziente. Uno studio recente pubblicato sulla rivista Jama Network Open ha mostrato che con la pandemia il credito dei medici è fortemente calato: le persone che tributano una “elevata fiducia” nei confronti dei medici sono passate dal 72

Il punto di vista di John Mandrola

al 40 per cento tra l’aprile 2020 e il gennaio 2024. “Le ragioni sono sconosciute –sostiene Mandrola – ma una parte del problema della fiducia potrebbe essere dovuta al fatto che noi, nel settore sanitario, abbiamo oltrepassato i limiti del nostro lavoro”.

Libertà di espressione e presa di posizione

Tra le persone che hanno contestato la sua posizione spicca il nome dell’oncoematologo statunitense Vinay Prasad – anche lui assai attento ai risvolti sociali della scienza medica – che gli ha risposto in un articolo sul suo sito personale.

rappresentare alcune cause”. E poi “decidere di rimanere apolitici è essa stessa una presa di posizione a favore dello status quo”. Ma ammette che “i pazienti vanno dal medico per le cure mediche, non per il proselitismo. Le visite dovrebbero riguardare loro”.

Il codice deontologico e lo spirito di cittadinanza

Prasad ritiene che “gli specialisti, come ogni altro cittadino, siano liberi di esprimere le loro opinioni politiche”. Ma ammette che ciò non significa che l’opinione di un medico sia rilevante o convincente – anzi, nell’attuale polarizzazione della politica statunitense è quasi impossibile che qualcuno cambi idea. E non è affatto chiaro se schierarsi apertamente aiuti o danneggi la pratica clinica. Se un ginecologo dicesse a un neo-genitore trumpiano che la salute del proprio figlio dipende dal suo voto, spiega Prasad, il genitore potrebbe chiedersi se non si tratti di un ricatto. È intervenuto sul tema anche Adam Cifu dal suo blog su Sensible Medicine. Cifu ritiene che vi siano ottime ragioni perché un medico si impegni nel dibattito pubblico.

“È difficile rimanere apolitici quando le decisioni dei governi locali, statali e federali influenzano la salute dei pazienti che assistiamo”, dice. “Grazie alla loro formazione e alla loro esperienza, i medici potrebbero essere le persone più indicate per

Le differenze nelle opinioni dei tre medici statunitensi in realtà nascondono un punto di vista comune: si può discutere se sia opportuno che un medico esprima le sue posizioni politiche, l’importante è che la sua posizione politica non influenzi le sue decisioni cliniche. Sembra facile. Tuttavia, la difficoltà di trovare un equilibrio tra libertà di espressione e discrezione è reale ed è la conseguenza di due evoluzioni parallele della medicina e della sanità. Da un lato, la medicina moderna ha spostato l’attenzione dal medico al paziente e al rapporto di fiducia che deve instaurarsi tra i due soggetti. L’acquisita rilevanza del tema ha indotto la classe medica a introdurre norme deontologiche che regolano la comunicazione tra professionista e paziente. Il codice deontologico approvato dalla Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri lascia alla valutazione individuale i confini di ciò che può essere comunicato o meno al paziente al di fuori dell’ambito medico. Tuttavia, cita più volte l’importanza della “reciproca fiducia” tra medico e paziente (art. 20), che indubbiamente potrebbe essere compromessa da una divergenza sul piano dell’orientamento politico. Allo stesso tempo, e questa è la seconda tendenza, l’affermazione delle democrazie ha favorito la nascita della sanità pubblica, cioè dell’assistenza medica e della prevenzione fornite alla popolazione più che al singolo individuo. Da questo punto di vista, lo stato di salute individuale appare strettamente legato all’organizzazione sociale in cui il paziente è immerso. Può dunque succedere che, per garantire la salute dell’individuo, sia necessario promuovere

Il punto di vista di Vinay Prasad
Il punto di vista di Adam Cifu

una determinata politica sanitaria pubblica. Al contrario, come ha osservato Cifu, non esprimersi politicamente rappresenta una tacita approvazione dello status quo e una violazione del reciproco rapporto di fiducia da instaurare con il medico.

Professionisti sanitari, Ordini e partecipazione al dibattito pubblico

Non si tratta di una diatriba accademica: le occasioni concrete in cui fiducia e spirito di cittadinanza possono entrare in conflitto si moltiplicano ogni giorno. Per limitarsi alla realtà italiana, si pensi al dibattito sull’autonomia differenziata, di stretta attualità. La valutazione dei medici sull’opportunità di allargare ulteriormente la devoluzione a livello regionale dell’organizzazione sanitaria è assai qualificata in materia, e ascoltarla potrebbe rappresentare un interesse generale in vista di un possibile referendum sulla materia. Da questo punto di vista, la partecipazione al dibattito pubblico dei medici è senz’altro utile, soprattutto se coinvolge professionisti lontani dalla pratica clinica. Diversi virologi ed epidemiologi, ad esempio, in anni recenti hanno intrapreso carriere politiche con alterne fortune. Per i medici che lavorano a stretto contatto con i malati, invece, portare il proprio schieramento all’interno del rapporto con il paziente comporta rischi evidenti.

La soluzione del paradosso adottata in molti Paesi consiste nel limitare la comunicazione al paziente le proprie opinioni politiche senza però divieti formali, e incoraggiando la partecipazione ai numerosi ambiti collettivi che offre la professione come società scientifiche, ordini e associazioni di categoria. È ad esempio la posizione della dottoressa Rosella Zerbi, dell’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri di Torino. Secondo Zerbi, schierarsi pro o contro dovrebbe “riguardare l’ordine e la federazione e non il singolo medico. Su regionalismo differenziato esprimere opinioni è un compito istituzionale degli ordini e a titolo personale dovrebbe essere una possibile scelta del singolo medico. È altra cosa, per nulla necessaria, schierarsi a favore di partiti per identità di vedute su singoli temi”. Questo prevede che i “corpi intermedi” garantiscano la democrazia interna, favoriscano la partecipazione dei membri associati e siano scevri da conflitti di interesse: tutte condizioni non facili da garantire in modo integrale. È inutile nascondere però che lo schieramento politico del professionista non comporta necessariamente una rottura del vincolo di fiducia reciproca. Al contrario, in molte situazioni ne rappresenta un rafforzamento. Alcuni pazienti, ad esempio, possono cercare deliberatamente l’aiuto da parte di medici che condividono una particolare visione: si pensi al caso dei sanitari scettici sui benefici dei vaccini, o dei fautori delle terapie alternative alla medicina ufficiale. Il fenomeno merita particolare attenzione in Italia, dove la spesa sanitaria out-of-pocket a carico dei cittadini ha un’incidenza maggiore che in altri Paesi e rappresenta ormai un terzo della spesa complessiva. Se l’assistito da utente si trasforma in consumatore, lo schieramento politico in un senso o in un altro può diventare persino una strategia di marketing. Con buona pace per la natura “universalistica” del Servizio sanitario nazionale. y

Andrea Capocci @andcapocci

Foto di Alexander Isreb / CC BY

Devo dire sinceramente – anche se questa affermazione potrebbe coincidere con un bias insanabile di questo articolo – che scrivere oggi sul se e come può o deve esserci un rapporto, e quale, tra medicina e politica (quale che sia la formulazione di questa domanda, rivolta agli individui o alla loro identità professionale collettiva) mi appare una cosa sostanzialmente senza senso. Ciò che posso fare, senza pretese di dire nulla di originale, è dire il mio perché su un senza senso che in fondo è la risposta più vera. Il dato di fatto più banale da cui partire è che i due elementi del confronto non corrispondono a delle definizioni sufficientemente precise su cui ragionare o da immaginare come scenario di un rapporto. Medicina e politica sono termini che evocano universi apparentemente univoci, ma ovviamente corrispondenti ad insiemi-aggregati di realtà e protagonisti assolutamente eterogenei, a livello concettuale, storico e valoriale, che possono produrre gli incontri più suggestivi, ma anche le risposte o le conclusioni più diverse e contraddittorie, illuminanti o fuorvianti, o puramente casuali.

Un secondo dato di fatto mi sembra utile come contesto per il bias sopra dichiarato. Per definizione, e da sempre, saperi specifici che si traducono anche in professioni, importanti anche solo simbolicamente e nell’immaginario, come la medicina, fanno parte dei poteri che si intrecciano nella politica che a sua volta è uno dei nomi che si può dare al vivere di una società, prescindendo da qualsiasi caratteristica della società stessa. Via via che il sapere medico è cresciuto, come quello di tutti gli altri, si è iniziato a esprimere anche nelle più diverse forme di tecnologia, così il suo peso nel gioco dei poteri è diventato sempre più dipendente, alleato o complementare a quello delle politiche dominanti, e perciò più o meno direttamente della economia. La caratteristica principale del sapere-fare della medicina è, da sempre, in tutti i contesti più o meno sviluppati, la sua affermazione-pretesa di essere competente,

Il peso del sapere medico nel gioco dei poteri

Quale rapporto tra medicina e politica?

La risposta di Gianni Tognoni

Chi ha il potere sulla qualità e sulla possibilità della vita delle persone è una risorsa irrinunciabile e da controllare da parte del potere

in modo spesso esclusivo, su ciò che riguarda conoscenze e pratiche che coincidono con lo star male delle persone, e addirittura sul loro star bene. Ippocrate e la scuola salernitana sono due punti fissi nella storia della cultura, più ancora che della medicina occidentale. La combinazione dello sguardo sull’individuo con una prevalente attenzione ai suoi sintomi di mal-essere, e di quello sul suo contesto prossimo che ne può garantire il ben-essere è un punto ideale di partenza per una lettura anche immediatamente politica. Chi ha il potere sulla qualità e sulla possibilità della vita delle persone è una risorsa irrinunciabile e da controllare da parte del potere. In una società che come somma di individui si misura in termini di sopravvivenza (quantitativa, per evitare le difficoltà e soprattutto le radici altre del qualitativo) il sapere e il ruolo medico possono rimanere nell’ambito dei valori e delle

scelte personali solo fino a quando non incrociano troppo evidentemente ambiti che si misurano sulla loro capacità di controllare il consenso socio-politico, o diventandone concorrenti, o risultando appetibili anche come risorse, mascherabili come diritti sociali da garantire attraverso una gestione diretta.

Da più di 80 anni il rapporto tra le due entità protagoniste di questa riflessione che aveva avuto una storia relativamente stabile, lungo le linee sopra tracciate, ha avuto una evoluzione rapidissima che ne ha esplicitato fino in fondo le modalità di interazione e i rapporti di potere. Il passaggio inizia con la fine di una guerra che aveva dimostrato mondialmente che la guerra era la vera, orrenda e da sconfiggere per sempre, malattia che minacciava quantitativamente e qualitativamente la sopravvivenza. La salute diventava l’indicatore privilegiato e ideale della novità assoluta nella storia umana, nata come riflesso istintivo alla guerra: l’universalità, alla pari, dei diritti di tutti gli umani ad

Gli aspetti strettamente medico-sanitari sono una delle funzioni-modalità con cui la società ricerca ed esprime la capacità di essere un sistema culturale e progettuale di inclusione

una vita nella dignità. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) è stata la prima agenzia delle Nazioni Unite, fondata proprio come strumento di alfabetizzazione, da tutti comprensibile, di un progetto di democrazia in cui il diritto ad una dignità individuale e collettiva deve essere accessibile a tutti. Gli aspetti strettamente medico-sanitari sono una delle funzioni-modalità con cui la società ricerca ed esprime la capacità di essere un sistema culturale e progettuale di inclusione, e non di discriminazione-esclusione dal più ampio disegno democratico che include salute, educazione e tutti i diritti che, in una prospettiva di lungo periodo, devono

Foto di Selvin Esteban / CC BY

essere accessibili e fruibili, soprattutto per i più deboli e più a rischio, come parte e obiettivo di una politica che abbia la pace come condizione imprescindibile. La portata utopica di questa visione era chiarissima, così come la impraticabilità di tradursi in pratica era documentabile in tutti i campi. Ma ciò non toglie che proprio la medicina, in una coincidenza molto forte tra ruolo politico e scienza, divenisse non solo simbolo, ma documentazione concretissima di un futuro in cui la salute e la sanità fossero non solo espressione di un mondo medico, ma fulcro trainante di una democrazia mai sognata. La storia del controllo della tubercolosi, della polio, delle vaccinazioni dovrebbe essere un capitolo fondamentale di una formazione di medicina-cittadinanza.

Chi lavora in medicina e rende visibile, possibile e attraente la conoscenza, e le tecnologie appropriate, di prevenzione, cura, riabilitazione è dunque semplicemente un cittadino che ha come professione quella di assicurare un diritto fondamentale come quello della vita. In quanto cittadino è un soggetto anzitutto e per tutto politico. L’articolo della Costituzione di riferimento è il 3.2 che sintetizza il ruolo della politica nell’ abbattere tutte le barriere che creano o mantengono diseguaglianza. L’art 32 è un capitolo di questo progetto di ricerca-sperimentazione: la sanità e ancor più la salute ritornerebbero ad essere pure e antiche parole, piene di buone intenzioni e affidate alla buona volontà personale, se non fossero parte e strumento operativo di un vero e proprio protocollo che mira a fare della medicina, tutta, trasversalmente, la sperimentazione visibile della tesi di fondo di una società a misura costituzionale in cui nessuna persona può essere esclusa o lasciata indietro.

Come in tutte le professioni o i ruoli, anche in medicina si può essere, professionalmente e politicamente, bravissimi, o normali, o dannosi. Avere agganciato all’essere medico una mistica o un’etica particolari espone la medicina ad avere ruoli

Ammalarsi di diseguaglianza non è un destino, ma una iniquità lucidamente prodotta, nota e impunibile

più ambigui nelle sue responsabilità politiche: poiché il suo sapere si dichiara e si esprime direttamente sulla vita delle persone può creare più dipendenza, invece che autonomia; creare spazi di attesa di risposte che rimandano ai tempi delle magie. Non è la sola professione, ovviamente a fare (star) bene, o meno bene, o male. Ma è la sola che si identifica con un termine così affascinante, perché percepibile, e vendibile come immediato e personale, come salute.

Il tempo (favola bella?) dei diritti non come ideologia o raccomandazione, ma come misura della politica, ha prodotto la legge 833 del 1978 e, addirittura prima, la riforma più radicale – prodotta da una medicina-non-medicina pensata e realizzata come liberazione da un crimine impunito in tempi di pace – di Basaglia (è importante, specie in questo contesto, mantenerle un nome-storia, più che un numero di legge, anche perché sempre in attesa di essere realizzata). A livello globale, ha prodotto anche la Dichiarazione di Alma Ata del 1978, ma quanti oggi sanno cosa sia e perché rappresenti, oggi più che mai, un progetto di futuro per il rapporto tra medicina e politica?

Gli anni ’90 hanno detto, in tanti modi, che le favole non erano finite, ma proibite. La medicina era diventata troppo importante per una politica totalmente convertita alla universalità dei mercati, che vedono tutto ciò che è umano come qualcosa di poco facilmente controllabile, e perciò disturbante. In quegli anni, nei rapporti e programmi che hanno co-autori tanto disparati come le organizzazioni mondiali di sanità, commercio, finanza, le persone non esistono più: ci sono solo le malattie, ma solo se traducibili in costi da coprire e in carichi assistenziali sostenibili. Le per-

sone che dovrebbero curare (tutti gli operatori, vecchi e nuovi) appartengono ad un sistema che non è più un servizio dei diritti delle persone, ma uno dei capitoli non produttivi del Pil.

La medicina come politica era già un’evidenza ovvia nelle parole pre-tecnologiche di uno dei suoi fondatori del secolo XIX, come Virchow ed è tornata negli ultimi 1520 anni ad essere protagonista obbligata anche della letteratura scientifica. La diseguaglianza è una delle parole chiave più citate e discusse, applicata trasversalmente a tutti gli ambiti della medicina, e della economia: scoprendo che non è solo un problema evidente nel rapporto nord-sud del mondo, ma che è protagonista fissa nelle realtà periferiche, e sempre più estese, del nord: e scoprendo anche che ammalarsi di diseguaglianza non è un destino, ma una iniquità lucidamente prodotta, nota e impunibile. E per non usare parole grosse, e ricorrere ad un termine molto più semplice, ma inviso in un contesto come questo agli economisti seri come quelli che applaudono il nuovo piano europeo: la povertà, l’essere senza casa, scuola o lavoro non fanno bene. È una malattia-pandemia

di cui il vaccino è noto, ma proibito, non da sparuti no-vax ma da maggioranze trasversali a partiti e Paesi.

C’è bisogno della domanda da cui si è partiti per dire che la medicina in questo contesto dovrebbe essere politicamente rivoluzionaria, in Italia, in Europa, nel mondo, per i cittadini, e ancor più per coloro che sono solo umani, come i migranti non solo dal sud del mondo? E per constatare che invece, il sapere medico, nelle riviste più avanzate e nelle pratiche, coincide con la politica che osserva e constata, fino ai genocidi per guerre, ideologie, fame. Sapere medico che dice, ovviamente, di non poter far nulla se non, al massimo, simpatizzare, condividere, denunciare? Certo lasciando ai singoli medici la possibilità di essere esemplari.

Applicata alla situazione italiana, la domanda può forse ritrovare qualcosa del suo senso e la sua risposta non nei dibattiti tipo talk-show, statunitensi o italiani, ma nella concretezza di questi tempi in cui dall’autonomia differenziata, al diritto di morire, al mercato di Lea e di Lep, la politica e l’economia (con l’alleanza di un diritto amministrativo profondamente avverso ai diritti delle persone) tengono esplicitamente in ricatto-possesso la sanità, e assegnano alla cura il ruolo di public relation, di una bioetica da giornali mainstream. Non penso che oggi sia lecito essere ottimisti. Ma sono tra quelli che preferiscono, geneticamente forse, non certo per merito o scelta etica, vivere e non subire la storia. In buona compagnia dei pochi-molti che si riconoscono non solo a parole nella favola bella della salute-diritto, nell’ultimo incontro di Forward, Sir Marmot, da sempre padre nobile della salute pubblica ha testimoniato, da privato cittadino, che val la pena di non stancarsi, e di continuarne, disincantato e curioso, una narrazione che riparte, rinnovata, dalle periferie che si ricordano di essere comunità, nel suo Paese e nel mondo. y

Gianni Tognoni Tribunale permanente dei popoli

Il concetto di “sensible medicine” è stato illustrato in un articolo di Christopher Seymour e colleghi, pubblicato nel 2020 sul JAMA dal titolo “Sensible Medicine—Balancing intervention and inaction during the covid-19 pandemic”.1

L’articolo mette a confronto il comportamento di un medico interventista, che ha pochi dubbi sulla efficacia di un nuovo trattamento e lo applica rapidamente, con quello di un medico nichilista, convinto dell’inutilità del trattamento e che ritiene la maggior parte dei farmaci inefficaci. Una posizione intermedia è quella del medico che pratica una medicina sensata, che riconosce l’efficacia di alcuni interventi sulla base delle prove disponibili e la necessità di evitare esiti gravi per il malato. Durante la pandemia da covid-19, i medici si sono spesso trovati a dover affrontare

La priorità data a un giovane rispetto a una persona anziana implica necessariamente un giudizio di minor “valore” della vita di quest’ultima? Può il sorteggio diventare l’ultima linea di difesa del principio di uguaglianza?

Domenico Ribatti

Dipartimento di biomedicina

traslazionale e neuroscienze

Scuola di medicina, Università di Bari

situazioni contingenti che richiedevano decisioni rapide e al contempo drammatiche. Il dilemma di fronte al quale si sono trovati i medici è stato: “Chi salvare e chi lasciar morire? La scelta spetta ai medici o alla politica?”. Le evidenze scientifiche hanno assunto un’importanza rilevante, in particolare nel periodo pandemico, a supporto delle decisioni dei sanitari e nel fornire informazio-

La medicina e la politica basate sulle prove, per il bene pubblico

Chi salvare e chi lasciar morire: a chi spetta la scelta?

ni per l’implementazione di specifiche politiche sanitarie. Nel corso della pandemia, da un lato si è assistito a una crescita rapida e costante dell’infezione (l’alta percentuale di pazienti che necessitavano di ricovero, l’accesso e la permanenza, spesso prolungata, nei reparti di terapia intensiva con uso di ventilazione assistita), dall’altro si è manifestato il limite delle risorse (numero di posti letto, disponibilità di farmaci e tecnologie, presenza di personale medico e infermieristico). Quando i medici si sono trovati di fronte alla scelta di chi includere e di chi escludere dal ricovero, dall’accesso alla terapia intensiva o alla ventilazione, su quali basi hanno fatto le loro scelte? La priorità data a un giovane rispetto a una persona anziana implica necessariamente un giudizio di minor “valore” della vita di quest’ultima? Può il sorteggio diventare l’ultima linea di difesa del principio di uguaglianza?2 Una scelta di questo tipo non tiene conto di un aspetto di giustizia distributiva: il paziente più anziano, a parità di condizioni, è colui che ha contribuito maggiormente al sostentamento fiscale di quel sistema che ora gli nega le cure nel momento di massimo bisogno. Emerge quindi il problema della distribuzione delle risorse in una situazione in cui il numero esponenzialmente crescente di persone bisognose di cure non trova nel servizio sanitario pubblico una risposta adeguata. Per scegliere, non si possono seguire solo linee guida o protocolli, perché non esiste una verità bioetica assoluta – e se non esiste una verità, tutti i criteri sono arbitrari.

Esiste un livello di intervento che riguarda i medici e che richiede l’identificazione di alcuni criteri di riferimento essenziali, capaci di guidare le decisioni e le scelte complesse da affrontare, come l’equità, l’appropriatezza e la proporzionalità dei trattamenti. Al principio tradizionale, ovvero fare il bene del paziente, deciso dal medico in scienza e coscienza, si sono aggiunti due principi, essenziali per definire la buona medicina: il rispetto dell’autodeterminazione della persona malata, che

richiede informazione e coinvolgimento nelle scelte, e il principio dell’equità nella ripartizione delle risorse, senza discriminazioni.

La sanità, come la scuola o la magistratura, è una parte importante della politica che ha in mano le sorti delle persone, ne condiziona il futuro. Su di essa dobbiamo tutti scegliere la strada da seguire in maniera competente e condivisa. Medicina e politica inevitabilmente si intrecciano, e i mezzi politici diventano necessari per perseguire obiettivi medici. Potrebbe essere ritenuto auspicabile non solo l’affidamento a una medicina basata sulle evidenze (ebm), ma anche il convinto sostegno di una politica basata sulle evidenze. In questo contesto, l’attenzione e la comprensione delle evidenze scientifiche dovrebbe estendersi anche alle realtà politiche e ai decisori, in particolare a coloro che debbono farsi carico di politiche sanitarie. Nel corso del tempo, la concezione di salute è passata da una definizione “in negativo” (assenza di malattia) a una “in positivo”, come affermato nell’atto fondativo dell’Organizzazione mondiale della sanità, che definisce la salute come uno “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, e non una mera assenza di malattia o infermità”.3 La salute deve essere concepita come il prodotto complessivo e coordinato di una serie di condizioni e azioni che fanno capo a vari settori della vita civile e sociale di un Paese e di una comunità. Solo così si costruisce il bene comune, e come fa dire Albert Camus al dottor Rieux, il protagonista de La peste: “Il bene pubblico è fatto dal bene di ciascuno”. y

Bibliografia

1 Seymour CW, McCreary EK, Stegenga J. Sensible medicine-balancing intervention and inaction during the covid-19 pandemic. JAMA 2020;324: 1827-8.

2 Siiarti. Decisioni per le cure intensive in caso di sproporzione tra necessità assistenziali e risorse disponibili in corso di pandemia di covid-19. Pubblicato il 13 gennaio 2021.

3 Oms. Costituzione dell’Organizzazione mondiale della sanità. Ginevra, 1948.

Foto di Nicolas Postiglioni / CC BY

L’etica clinica convocata alle presidenziali

La decisione di Joe Biden di confermare la sua candidatura per un altro mandato presidenziale o di ritirarsi dalla competizione ha tenuto col fiato sospeso l’intero teatro politico mondiale per giorni e giorni. Ora la tragicommedia (o “Hilarotragoedia”, come l’avrebbe chiamata Giorgio Manganelli) si è risolta con il suo passo indietro. Che cosa ne ricorderemo, quando vorremo ripercorrere i dibattiti che si sono incrociati in questi giorni? È probabile che in ambienti sanitari si continuerà a sorridere su una delle dichiarazioni di Biden: “Mi ritirerò dalla candidatura se me lo consiglierà il medico”. Una frase furba o ingenua? Sicuramente un’affermazione anacronistica. Sembra voler ricondurre la decisione a una consulenza personale dentro un contesto di rapporto fiduciale di altri tempi, quando ci si affidava al medico attribuendogli decisioni da prendere “in scienza e coscienza”, in quanto nella professionalità si intendeva inclusa la facoltà di stabilire il miglior interesse del malato.

Se già questo modello di rapporto è decaduto a livello individuale – proprio dagli Stati Uniti è partita l’onda lunga della bioetica, veicolando un cambio di paradigma che ha fatto dichiarare superata ovunque

Sandro Spinsanti

Fondatore e direttore

Istituto Giano per le medical humanities

l’etica medica tradizionale, di stampo paternalistico, che autorizza il medico a fare le scelte per la persona malata – è del tutto fuori posto evocarlo nello scenario pubblico. Possiamo immaginare una consultazione familiare per stabilire se è opportuno o no che il nonno, considerate le sue condizioni di salute, continui a guidare l’auto; ma diversa è la situazione che si è venuta a creare negli Stati Uniti: una nazione intera che si domanda se colui che si candida alla presidenza del Paese si trovi nelle condizioni fisiche e mentali necessarie richieste dal ruolo. Una questione di non secondaria importanza è stabilire il ruolo che spetta ai professionisti sanitari in questo contesto. Tutti si interrogano, preoccupati dello stato di salute di Biden; ma quando a porsi la questione sono dei medici, lo scenario è diverso. Da una parte hanno indubbiamente competenze maggiori per riconoscere le patologie rispetto a un comune cittadino; dall’altra però hanno anche dei vincoli limitanti. Ciò ci induce a focalizzare la nostra attenzione sull’etica clinica. La riflessione può essere rilevante anche per professionisti che si situano dall’altra parte dell’oceano, e quindi non coinvolti in prima persona.

I

medici e le diagnosi da remoto

Tutti si interrogano, preoccupati dello stato di salute di Biden. Ma quando a porsi la questione sono dei medici, lo scenario è diverso

Un primo nodo riguarda la facoltà dei medici di fare diagnosi al di fuori del contesto clinico. Le gaffe, la memoria lacunosa, l’andatura incerta del presidente Biden hanno attirato l’attenzione non solo dei cittadini, ma anche dei medici. “Doctors are increasinly worried about Biden”: è il titolo esplicito di un articolo apparso su The New Yorker il 18 luglio 2024.1 L’autore è un medico, Dhruv Khullar, che ha intervistato nove colleghi, di differenti specializzazioni. Consapevoli che non è corretto fare diagnosi da remoto e soprattutto commentando la salute di figure pubbliche (l’American Medical Association nel 2017 ha dichiarato ufficialmente che i medici devono astenersi dal fare diagnosi cliniche su individui che non abbiano avuto la possibilità di esaminare personalmen-

Al di fuori della relazione clinica, i medici, pur con le loro competenze professionali, esprimono giudizi non molto più qualificati di quelli di un comune cittadino basato sulle proprie impressioni

te), i medici intervistati hanno tuttavia manifestato preoccupazione per comportamenti valutabili come non normali. La loro conclusione è che i sintomi di Biden possano andare al di là di un graduale declino dovuto all’età e che potrebbero essere potenzialmente attribuiti a qualcosa di più serio, come un significativo decadimento cognitivo o una condizione neurodegenerativa. Anche limitandosi a impressioni di pancia, i medici intervistati per lo più ritenevano ragionevole considerare disordini neurologici. Pur con le competenze che devono essere loro riconosciute per l’esercizio professionale, i medici in un contesto che esula dalla relazione clinica esprimono giudizi non molto più qualificati di quelli di un comune cittadino che si affida alle proprie impressioni. Dobbiamo prendere le distanze da dichiarazioni che ci è capitato di racco-

gliere dalla stampa, del tipo: “Nella mia esperienza di geriatra/neurologo/fisiatra il comportamento che vedo dell’aspirante futuro presidente è/non è attribuibile al parkinsonismo... Si tratta di normale senescenza; no: è una patologia in atto”. In questi casi, sobrietà fa rima con serietà.

La privacy in contrasto con il pubblico interesse

Una seconda questione riconducibile all’etica clinica è quella relativa alla segretezza di ciò che il medico viene a conoscere nel contesto terapeutico: quando il professionista della salute individua una situazione che costituisce una minaccia per terze persone, è autorizzato a infrangere la privacy che lo vincola al malato e gli impedisce di diffondere informazioni senza il suo consenso? È l’oggetto della riflessione della bioeticista Sara Rosenthal: “Clinical ethics and a President’s capacity: balancing privacy and public interest”, apparsa nello Hastings Bioethics Forum l’11 luglio 2024.2 Il bilanciamento in questione è tra il diritto del presidente Biden di tenere riservate le proprie condizioni di salute e il diritto del pubblico di conoscere ciò che può costituire una minaccia. L’etica clinica sotto-

linea esplicitamente la riservatezza come condizione per una solida relazione terapeutica. Per i medici italiani è sufficiente riaprire il loro codice deontologico nel capitolo su “Doveri e competenze del medico” per trovare l’obbligo del segreto professionale (art. 10), della riservatezza dei dati personali (art. 11) e del trattamento dei dati sensibili, “idonei a rivelare lo stato di salute della persona”, che possono essere fatti conoscere solo con il consenso della persona stessa (art. 12). E tuttavia i medici conoscono bene situazioni in cui la confidenzialità si scontra con il dovere di proteggere chi potrebbe ricevere un danno dal comportamento della persona in cura. In tali casi è obbligatorio allertare le istituzioni regolatrici: basti pensare alle malattie infettive e alle condizioni che contrastano con una guida automobilistica sicura. Non a caso Sara Rosenthal, nel suo articolo per contestualizzare il necessario equilibrio tra l’interesse individuale e la prevenzione di danni a terzi, menziona il caso Tarasoff. Fuori dagli Stati Uniti la vicenda di Tatiana Tarasoff, che ha sconvolto la comunità studentesca all’epoca della grande contestazione degli anni 1968-69, è per lo più nota solo agli studiosi di bioetica; negli Stati Unici invece evoca una questione che ha avuto ampia risonanza, fino ad arrivare a sentenze della Corte suprema della California. Basta menzionare il nome di Tarasoff per far apparire una rete di diritti e doveri intrecciati. In termini essenziali, riguarda uno psichiatra che aveva avuto in terapia uno studente dell’università di Berkley. Nel contesto terapeutico il paziente dichiara allo psichiatra che progetta di uccidere Tatiana Tarasoff, che non ha accettato il suo corteggiamento ed è andata in vacanza. Il terapeuta, tutelando la confidenzialità e puntando sul rapporto terapeutico, non informa la potenziale vittima, che viene di fatto uccisa al suo ritorno. Venuta a conoscenza dei precedenti, la famiglia della vittima denuncia il medico per l’omesso avvertimento.

L’ampio dibattito ha avuto una connotazione sia etica che politica. Si sono scontrate

La Corte suprema della California aveva stabilito dei limiti al privilegio confidenziale che protegge il rapporto medico-paziente: questo finisce dove comincia il pericolo pubblico

due posizioni contrapposte: chi accusava lo psichiatra di negligenza professionale e chi invece sosteneva l’importanza del rispetto della confidenzialità come elemento strutturale della professionalità di cura (argomentando che è proprio la confidenzialità che induce le persone a cercare l’aiuto psichiatrico). La complessa vicenda giudiziaria è culminata con la sentenza della Corte suprema della California, che ha stabilito dei limiti al privilegio confidenziale che protegge il rapporto medico-paziente: questo finisce dove comincia il pericolo pubblico. Secondo la Corte suprema, “la particolare forma di rapporto che intercorre tra terapisti e paziente avrebbe determinato per il terapista il dovere di avvertire la vittima”. La confidenzialità (privacy) è scavalcata dal pubblico interesse per la sicurezza dall’aggressione violenta.

Diagnosi mediche come strumento di attivismo politico

Chiamando in causa il caso Tarasoff e il bilanciamento tra diritto alla privacy e pubblico interesse nel contesto del dibattito sullo stato di salute di Biden, Rosenthal apparentemente fa appello a conoscenze consolidate di etica clinica. In realtà propone surrettiziamente un salto di qualità, che amplia i limiti dell’etica clinica: quello che è acquisito nel contesto psicosociale, ovvero l’obbligo di denunciare quando un paziente è un agente di un danno potenziale, viene esteso allo scenario politico generale. Non solo i medici vengono autorizzati a formulare le loro diagnosi sullo stato di salute del candidato alla presidenza, ma implicitamente si chiede loro di avvertire la popolazione del pericolo incombente costituito da un futuro presi-

dente che non abbia la dotazione di salute necessaria per il ruolo.

La questione riguarda l’equiparazione del contesto psicosociale individuale con quello politico relativo alle capacità di esercitare le funzioni che competono al presidente. Esistono norme che regolano situazioni in cui un responsabile politico di vertice non sia in grado di governare: regole che riguardano la morte improvvisa o uno stato di incapacità. Il dibattito intorno a Biden concerne, invece, il diritto dei cittadini di conoscere lo stato di salute e, più in generale, la capacità di espletare l’eventuale mandato. Un capo di Stato – e un candidato futuro presidente – non è un privato cittadino, cui va riconosciuto il diritto di ignorare il proprio stato di salute. Basti rifarci ancora alle parole con cui Biden ha giustificato la performance deficitaria nel dibattito con Trump: “Ho avuto una pessima notte. Non so perché”. Può voler ignorare se è affetto da un degrado cognitivo; ma il compito di informazione da recapitare a una persona, volente o nolente, può essere attribuito al singolo professionista sanitario? Questa sembra la preferenza di Rosenthal, in nome del pubblico interesse: se il presidente rifiuta di rendere pubblico il suo stato di salute, allora al medico del presidente va riconosciuto il diritto etico di informare i cittadini sulla sua condizione sanitaria, date le sconvolgenti conseguenze dell’elezione e il potenziale pericolo a cui va incontro il Paese. Quasi che il Paese stesso si trovi in una situazione analoga a quella di Tatiana Tarasoff. Non abbiamo difficoltà a riconoscere una forzatura dell’etica clinica nella richiesta al medico di un intervento che assomigli a un attivismo politico, per proteggere i cittadini minacciati. Più auspicabile semmai immaginare che un compito di questo genere possa essere attribuito a una commissione ufficiale indipendente. Sappiamo che le malattie di cui hanno sofferto i potenti di tutto il mondo sono state per lo più gestite tenendole nascoste o mentendo. Con la complicità dei medici coinvolti. Basti pensare

alle informazioni che hanno accompagnato la fine di leader politici come Francisco Franco in Spagna o Tito in Jugoslavia. Anche le vicende sanitarie di diversi presidenti americani sono riconducibili a sceneggiate politiche. Immaginare la trasparenza in questo ambito è un’ingenuità. Non è solo una questione di opportunismo; non è fuori luogo invocare l’etica. Già all’inizio del XX secolo Max Weber nella sua celebre lezione La politica come professione3 vedeva in trasparenza l’etica della responsabilità come antitesi simmetrica all’etica che si ispira ai principi. Mentre quest’ultima richiede di modellare i comportamenti sui principi etici, da rispettare costi quello che costi, l’etica della responsabilità guarda non a monte, ma a valle, considera cioè le conseguenze delle azioni; e talvolta per evitare di procurare danni può chiedere compromessi sui principi. Di quest’etica soprattutto si nutre la politica.

Tracciare i limiti

Sarà opportuno, dunque, non confondere i piani, chiedendo all’etica clinica di assumere un ruolo che non è il suo. È bene che rimanga nel contesto che le è proprio, rispettando le regole che è andata elaborando nel tempo. Alla convocazione dei medici affinché abbraccino la causa del pubblico interesse proposta dalla bioeticista Rosenthal contrapponiamo l’esortazione che ha fornito il titolo a una delle opere più illuminate del grande filosofo Daniel Callahan, fondatore dello Hastings center: Setting limits. 4 Provocatoriamente Callahan auspicava dei limiti da introdurre nei servizi sanitari in una società sempre più gravata dall’invecchiamento. Magari – aggiungeremmo nel contesto del dibattito attuale – anche dei limiti cronologici per i candidati a funzioni politiche, considerando che con la grande età cresce la percentuale di cronico decadimento. In ogni caso riconoscere certi limiti è un punto di forza per l’etica clinica, che i professionisti della cura si impegnano a rispettare. Proteggere la pratica medica da contaminazioni ed equivoci è un compito di civiltà. y

Bibliografia

1 Khullar D. Doctors are increasinly worried about Biden. The New Yorker, 18 luglio 2014.

2 Rosenthal S. Clinical ethics and a President’s capacity: balancing privacy and public interest. Hastings Center Forum, 11 luglio 2024.

3 Weber M. La politica come professione. Roma: Armando, 1997.

4 Callahan D. Setting limits. Medical goals in an aging society. Washington: Georgetown University Press, 1995.

Dovevo essere sincera: mi sentivo a disagio con la mia nuova paziente, una donna vicina ai quarant’anni che era venuta in ambulatorio per un controllo generale. Maria Vincent era piccola di statura, ma larga a tal punto da rientrare nella categoria medica dell’obesità patologica. La sua pancia cascante era sospesa come un terzo arto fra le sue gambe e le ostacolava l’andatura. Un volto dai lineamenti graziosi era del tutto fagocitato da strati di collo e pappagorgia. La donna non riusciva a tenere le braccia distese lungo i fianchi a causa della sua circonferenza. Maria Vincent salì a fatica sul lettino, facendolo vibrare sotto i suoi quasi 160 chili di peso. Quando le aprii il camice sulla schiena per auscultarle i polmoni, ondate di tessuto adiposo traboccarono in strati multipli, rendendo impossibile la percezione dei rumori respiratori. Quando le palpai l’addome, le mie mani furono sommerse e non potei neanche tentare di sentirle il fegato. E non mi riuscì di trovarle la tiroide né i linfonodi del collo.

Il mio dovere è astenermi dal giudicare, ma il disagio automatico che stavo sperimentando era impossibile da negare ed ero turbata dal mio imbarazzo. Molti studi hanno dimostrato che i medici manifestano un pregiudizio spiccato nei confronti dell’obesità: nutrono meno rispetto per i pazienti obesi e sviluppano una relazione meno buona con loro. L’ottimista che c’è in me avrebbe sperato che i professionisti del settore medico che si vantano di occuparsi dei malati e delle persone vulnerabili si comportassero meglio del resto della società, ma ahimé non è così. Immagino che non avrei dovuto sorprendermi, ma ero sgomenta. Perché i medici reagiscono così? (Cosa interessante, i pazienti nutrono lo stesso pregiudizio verso l’obesità dei medici. A prescindere dal loro peso, esprimono minore fiducia nei confronti dei medici obesi.)

Senza dubbio, un motivo è che l’obesità –come l’alcolismo o l’abuso di droghe – viene considerata autoindotta, perfino da medici che sono ben consapevoli della ge-

Stanare i pregiudizi per demolirli

netica e degli altri complessi fattori che sono implicati. Dalla prospettiva di un gruppo eccezionalmente imbevuto di quella disciplina e quella deprivazione che ci hanno condotto alla fine della formazione medica, è difficile disfarsi dell’idea – malgrado le montagne di prove scientifiche che attestano il contrario – che questi problemi di salute potrebbero essere tranquillamente diminuiti con un senso di autoregolamentazione un po’ più forte. Forse nei pazienti obesi vediamo il temuto riflesso di noi stessi, nel caso dovessimo perdere la disciplina che abbiamo affinato con tanta cura. Le battaglie che ho combattuto da adolescente con il peso e l’immagine del corpo, per quanto modeste se paragonate a quelle della mia paziente, mi hanno lasciato un’avversione per il cibo spazzatura e gli stravizi alimentari. Può darsi che la signora Vincent rappresenti il mio peggior incubo, quello che diventerei se smettessi di essere vigile e perdessi del tutto il controllo. Può darsi che il proble-

Quando il medico deve fare i conti con le proprie emozioni

Saggista e medica curante presso il Bellevue hospital

Danielle Ofri

ma sia la pura e semplice fisicità dell’obesità. In una società che adora i corpi snelli fino a un estremo malsano, perfino una persona come la signora Vincent – una donna ben curata, ordinata e con un bel viso – può essere percepita come trasandata per via del peso.

Queste reazioni sono del tutto irrazionali, ovviamente; ma le emozioni non sono mai state propagandate come razionali e i medici sono impressionabili come chiunque altro. Non voglio essere il tipo di medico che dà giudizi avventati sui pazienti, e senz’altro non voglio contribuire allo stigma estremamente tangibile che le persone obese devono affrontare. Eppure, quel giorno, non potei fare a meno di provare fastidio mentre mi sforzavo di esaminare la signora Vincent in ambulatorio. Più parlavo con lei, però, più la situazione diventava gestibile. La signora Vincent mi raccontò quanto fosse faticoso crescere dei figli occupandosi nel frattempo dei suoi problemi di salute, molti dei quali ammet-

teva che fossero riconducibili all’obesità. Riconosceva di avere difficoltà a controllare il desiderio di mangiare e ammetteva che lo stress la faceva mangiare di più. Essere sovrappeso la deprimeva e la depressione le faceva venire voglia di dolci. Narrò una storia familiare fatta di obesità, abusi emotivi e abbandoni. Parlava senza mezzi termini di quanto fosse umiliante andare in palestra e di come fosse quasi impossibile trovare perfino delle tute da ginnastica della sua taglia. Trovare un lavoro era impensabile: “Nessuno richiama mai una persona grassa per un secondo colloquio”. Non riusciva ad arrivare con una mano sulla schiena per grattarsi. E se uno dei suoi figli si metteva a correre per strada, sapeva che non sarebbe riuscita a stargli dietro. Più lei parlava, più i miei sentimenti si mitigavano. All’inizio avevo visto solo una paziente molto obesa. Prima della fine dell’appuntamento, vidi una persona squisitamente umana, ricca di sfumature, che soffriva in modo tremendo per l’obesità che aveva sopraffatto la sua vita. Terminata

Sforzarsi

di andare contro la propria natura è di per sé un’azione difficile. Ma nel tempo può influire sul modo in cui ci si sente, in questo caso permettendo al medico di conoscere meglio il paziente.

la visita, riflettei sulla mia reazione iniziale nei suoi confronti. Era diversa dal razzismo o un po’ meno repellente? Anche se le sue condizioni di salute erano autoindotte, benché solo in parte, come potevo tollerare il modo in cui avevo reagito?

[...]

Quando penso a come i medici reagiscono ai pazienti etichettati come “indesiderabili” per una ragione qualsiasi – perché sono senzatetto, tossicodipendenti, malati di mente, obesi o maleodoranti – tento di fare l’analogia con i disagi fisici che sorgono nel setting medico. Nel corso degli anni, ho sfilato calzini che vivevano di

vita propria. Ho cambiato bendaggi su ferite putride e trasudanti. Durante l’esame fisico, mi sono imbattuta in larve, scarafaggi, sperma e diarrea. Tante volte sono stata lì lì per vomitare, perché sono schizzinosa come chiunque altro. Non posso controllare le mie reazioni fisiche, come non posso controllare alcune di quelle emotive. Ma posso sforzarmi di controllare cosa faccio di loro. Se mi concentro abbastanza, posso domare il mio comportamento esteriore.

Ma basta? Anche se nascondo quello che provo quando mi sento a disagio con un paziente, i miei sentimenti possono ancora influenzare come comunico in modi che potrebbero avere come risultato un’assistenza medica meno ottimale. È una mia paura autentica. I miei pregiudizi inconsci – o consci – mandano segnali di mancanza di rispetto a prescindere da quanto provi a circoscrivere le mie reazioni visibili?

Allontanerò questi pazienti dall’assistenza medica, anche se spesso sono proprio loro quelli che hanno bisogno di maggiori cure?

Modificare il nostro comportamento esteriore e il modo in cui comunichiamo è evidentemente importante, ma credo che noi della classe medica abbiamo anche il dovere di lavorare per modificare i nostri paesaggi interiori. È un compito arduo, me ne rendo conto, ma se vogliamo rivendicare l’alta eredità della professionalità dobbiamo almeno sforzarci attivamente di mettere in discussione i nostri sentimenti istintivi. Il primo passo è ammetterlo: medici e infermieri devono essere onesti sui loro sentimenti preconcetti, per quanto questo processo possa risultare sgradevole e scomodo. Dobbiamo cogliere noi stessi nell’atto di saltare alla conclusione, notare quello che stiamo facendo e poi interrogarci sulle conclusioni. Dobbiamo parlare con i nostri colleghi dei pregiudizi nell’esercizio della nostra professione per capire dove si nascondono possibili zone cieche. La perfezione non sarà mai raggiunta, ma questo non dovrebbe essere una scusa per adattarci allo status quo. L’at-

Modificare il nostro comportamento esteriore e il modo in cui comunichiamo è evidentemente importante, ma credo che noi della classe medica abbiamo anche il dovere di lavorare per modificare i nostri paesaggi interiori

to stesso di prestare attenzione, di tentare di notare le nostre manchevolezze, è all’inizio di ogni cambiamento. Un altro approccio, prendendo in prestito una tecnica dalla psicologia comportamentale, è “agire come se”. Se un medico può comportarsi come se un paziente obeso, maleodorante, irritante o alcolizzato non gli desse noia, nel tempo i suoi sentimenti sgradevoli possono cominciare ad affievolirsi. È un po’ come sorridere quando ci si sente tristi: all’inizio è strano ma poi di malavoglia cominci a stare meglio. Sforzarsi di andare contro la propria natura è di per sé un’azione difficile. Ma nel tempo può influire sul modo in cui ci si sente, in questo caso permettendo al medico di conoscere meglio il paziente. Ancora una volta, può sembrare un’operazione di facciata e, se è l’unica cosa che un medico tenta di fare, finirà per essere solo questo. Ma se fa parte di uno sforzo autentico per ricalibrare come ci si sente e ci si comporta in situazioni in cui si potrebbe essere prevenuti, probabilmente a poco a poco demolirà i pregiudizi. E anche se all’inizio i cambiamenti sono solo esteriori, il comportamento di un medico serve da modello per gli studenti, i tirocinanti e lo staff medico attorno a lui. I benefici derivanti dallo stabilire il giusto stile comportamentale, anche se non (ancora) sentito appieno, non possono essere sottovalutati. Quando cominciai a lavorare come medico strutturato al Bellevue, Joan Noonan lavorava nel nostro ambulatorio e perfino lei parlava di sé stessa come di un’infermiera vecchio stile. Indossava con orgoglio la spilla della scuola di infermieristica sul suo camice bianco e custodiva ancora la

sua cuffia da infermiera, anche se ci scherzava sopra dicendo che, se l’avesse indossata al lavoro, gran parte del personale più giovane avrebbe pensato che si fosse messa un filtro da caffè all’americana in testa.

La signora Noonan era un’infermiera straordinaria e quello che più mi colpiva in lei era l’impeccabile rispetto che dimostrava per ogni singolo paziente. Si riferiva a ogni paziente di sesso maschile chiamandolo gentiluomo. Poteva avere l’alcolizzato più arruffato, puzzolente e turbolento che farneticava nel suo ambulatorio, ma non le sfuggiva mai di bocca una parola sprezzante. “C’è un gentiluomo nella mia stanza a cui forse servirebbe un po’ di attenzione medica in più” diceva in tono pacato a uno dei medici. “Crede di farcela a passare un minuto?” Il suo tono di voce era sempre estremamente rispettoso ed era sempre lo stesso, che il paziente fosse uno che bazzicava il rifugio per senzatetto sulla First Avenue o il presidente degli Stati Uniti, per il quale il Bellevue è l’ospedale di riferimento nel caso gli accada qualcosa di imprevisto durante una visita a New York. L’atteggiamento della signora Noonan era assolutamente sincero e l’effetto del suo comportamento sugli altri era notevole. Potevi essere il misantropo più delirante dello staff, ma ti ritrovavi inspiegabilmente ad assumere il suo livello di civiltà.

I comportamenti rispettosi sono contagiosi, per cui, anche se le proprie emozioni interiori non si sono ancora messe del tutto in pari, le azioni manifestate influenzeranno le persone attorno, soprattutto se il tentativo è sincero e non una semplice messa in scena. L’inconscio ne sarà da ultimo pungolato. y

Questo testo è tratto dal libro

Cosa dice il malato, cosa sente il medico di Danielle Ofri

(Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2018). Per gentile concessione dell’editore.

Il buon medico e la cura del contatto

Il contatto fisico col paziente è il vero segreto della professione medica, mai riconosciuto come l’abilità centrale ed essenziale, sempre in secondo piano... ma sempre presente, l’imposizione delle mani. Lì, penso, risieda l’atto più antico ed efficace della medicina, il toccare il paziente.

Lewis Thomas

Intervista a Salvatore Mangione

Sidney Kimmel Medical College

Thomas Jefferson University di Philadelphia

«Professor Mangione, nel suo articolo pubblicato sul JAMA1 analizza come l’evoluzione della pratica medica evidenzia una crescente distanza fisica tra medici e pazienti. Quali sono le implicazioni di questo cambiamento sulla relazione di cura?

Il contatto fisico è sempre stato considerato cruciale nella pratica medica. Tuttavia, diversi fattori hanno ridotto il contatto pelle-a-pelle tra medico e paziente. Innanzitutto, l’introduzione di tecnologie diagnostiche avanzate ha spostato l’attenzione dal paziente ai macchinari, un trend che si è ulteriormente accelerato con la diffusione della telemedicina e il distanziamento sociale imposto dalla pandemia di covid-19. Alcuni medici hanno persino iniziato a indossare guanti per interazioni che normalmente non lo richiederebbero. Inoltre, la preoccupazione che la vicinanza fisica possa essere fraintesa come un’avance sessuale ha portato

In un’epoca in cui la solitudine è diventata epidemica e l’empatia sembra in declino, non dovremmo privarci del contatto fisico come strumento

di comunicazione

molte istituzioni a introdurre la presenza di figure terze o accompagnatori (parenti o amici) durante visite per le quali prima non era considerato necessario. Questi e altri fattori hanno trasformato il modo di relazionarsi e di comunicare con il paziente; è diminuita la frequenza non solo del contatto fisico ma anche di quello visivo. Gli specializzandi, ad esempio, trascorrono ormai meno del 14 per cento del loro tempo al letto del paziente, e di quel poco tempo solo una minima parte è dedicata all’interazione visiva.2 Questo non solo limita la capacità di raccogliere informazioni cliniche, ma può anche indebolire il legame empatico, un elemento fondamentale per costruire una relazione di fiducia con il paziente. C’è il rischio che i medici di oggi si affidino sempre più agli strumenti diagnostici e sempre meno al loro giudizio clinico e all’esame obiettivo. E il semplice gesto di toccare e guardare il paziente, un atto insostituibile nella pratica medica, potrebbe essere trascurato nonostante i suoi enormi benefici.

Ma il contatto fisico può essere influenzato da fattori culturali e/o individuali?

Sebbene la “toelettatura sociale”, come il ripulire i propri simili da parassiti, sia un fenomeno diffuso tra i primati e i mammiferi, tra gli esseri umani, esistono notevoli differenze culturali riguardo il contatto fisico: alcune società lo apprezzano più di altre. Ad esempio, uno studio classico degli anni ’60 condotto nei caffè di varie città del mondo ha mostrato che le persone a Parigi o a San Juan, Porto Rico, si toccavano molte più volte rispetto a quelle di Londra o della Florida.3 Queste differenze riflettono il fatto che le culture mediterranee, come quelle di Spagna, Italia e Francia, tendono ad avere un contatto fisico più frequente rispetto a quelle del Nordeuropa o degli Stati Uniti. Poi, oltre ai fattori sociali, dobbiamo considerare che alcune persone preferiscono evitare il contatto fisico o provano un forte disagio quando vengono toccate. Gli individui con disturbi dello spettro autistico, ad esem-

L’esame

obiettivo e il contatto fisico possono essere emotivamente impegnativi ma, oltre a migliorare la qualità della cura, possono pure prevenire il burnout tra i medici, arricchendo il loro lavoro anche sul piano umano

pio, mostrano una sensibilità patologica al contatto e quindi lo evitano. Tuttavia, è interessante notare che, nonostante queste differenze culturali e individuali, le persone desiderano essere toccate, soprattutto nei momenti di difficoltà o malattia. Il medico e saggista statunitense Lewis Thomas lo espresse chiaramente: “Alcuni individui non gradiscono il contatto fisico, ma questo raramente vale per i malati. Chi è malato ha bisogno di essere toccato, e parte della sofferenza deriva proprio dalla mancanza di un contatto umano ravvicinato”. Il contatto fisico dice ai nostri pazienti che siamo medici scrupolosi competenti, e di cui ci si può fidare,

PER APPROFONDIRE

Il tatto è un organo sociale?

Bibliografia

1 Mangione S, Basile M, Post SG. Out of Touch. JAMA 2024; 331: 729-30.

2 Rosen MA, Bertram AK, Tung M, Desai SV, Garibaldi BT. Use of a real-time locating system to assess internal medicine resident location and movement in the hospital. JAMA Netw Open 2022; 5: e2215885.

3 Jourard SM. An exploratory study of body-accessibility. Br J Soc Clin Psychol 1966; 5: 221-31.

Negli anni ‘50, Harry Harlow condusse una serie di esperimenti pionieristici che dimostrarono come i neonati di Macaco rhesus separati dalla madre riuscissero comunque a crescere attraverso il contatto con un oggetto di stoffa che sostituisse la presenza materna. Da allora, diversi studi sui neonati umani hanno dimostrato che il contatto è una componente fondamentale dello sviluppo fisiologico, emotivo e cognitivo. Potrebbe effettivamente prevenire il deterioramento intellettivo. Infatti, la mancanza di un contatto che alimenta le nostre emozioni, può avere delle conseguenze devastanti. Ad esempio, i bambini in età prescolare e gli adolescenti privati di un legame affettivo fisico da parte dei genitori e dei coetanei mostrano comportamenti più aggressivi, il che è rilevante ai nostri giorni perché il contatto fisico tra gli adolescenti è stato sostituito dalla connessione “virtuale” e la solitudine è in aumento. Quasi la metà dei giovani digitali riferisce che la loro “vita sociale finirebbe o sarebbe notevolmente peggiorata se non potessero usare i messaggini”. Questa visione è controintuitiva perché il texting manca della connessione emotiva del tatto, e potrebbe compromettere le abilità sociali. In ogni caso, il tatto delicato e gentile è una forma così benefica di comunicazione umana che la pelle è stata chiamata “organo sociale”. Fonte: Mangione S. JAMA 2024; 331: 729-30.

senza alcun timore per la vicinanza fisica. In un’epoca in cui la solitudine è diventata epidemica e l’empatia sembra in declino, non dovremmo privarci di questo strumento di comunicazione.

Sul JAMA,2 lei spiega come il contatto fisico non sia solo una questione di comfort emotivo, ma abbia anche effetti terapeutici. Quali benefici fisiologici derivano dal contatto umano nella relazione medico-paziente?

Il contatto fisico ha effetti profondi sul corpo umano. Stimola il rilascio di sostanze chimiche come endorfine, serotonina e ossitocina, che inducono sensazioni di rilassamento e fiducia. Questo può abbassare la pressione sanguigna, attivare il nervo vago, ridurre l’ansia e persino alleviare il dolore. Inoltre, il contatto fisico rinforza il sistema immunitario, aumentando l’attività delle cellule natural killer, fondamentali nella lotta contro le infezioni. In sintesi, il tatto non è solo un gesto simbolico, ma ha un impatto concreto sulla salute fisica e mentale del paziente.

Secondo lei, come può la medicina moderna, con tutta la sua tecnologia, mantenere e preservare l’importanza del contatto fisico nella cura dei pazienti?

Credo che la consapevolezza sia il primo passo. Non è la tecnologia in sé il problema, ma l’uso che ne facciamo. Dobbiamo ricordare che la tecnologia è uno strumento, non un fine. È fondamentale continuare a dare valore ai metodi tradizionali di interazione con i pazienti, come l’esame obiettivo e il contatto fisico. Questi elementi possono essere emotivamente impegnativi ma, oltre a migliorare la qualità della cura, possono pure prevenire il burnout tra i medici, arricchendo il loro lavoro anche sul piano umano. y

A cura di Angelica Salvadori

Medica di medicina generale

Consigliera OMCeO Torino

Perché un medico decide di andare in pensione?

“Perché vai in pensione, Lennie? Hai solo 64 anni”. Avevo 40 anni, lavoravo in un affollato ambulatorio di cardiologia in un ospedale di comunità appena fuori Boston. Lennie era un internista vecchio stile, un praticante solitario; era come uno zio amato dalla comunità. I suoi archivi erano scarni, ma il suo istinto era profondo. Quando Lennie mi mandava qualcuno per una visita e non riuscivo a fare una diagnosi, lo riesaminavo da capo. Invariabilmente, c’era qualcosa che Lennie aveva percepito e che a me era sfuggito. La decisione di Lennie di andare in pensione mi sorprese. Sapevo che aveva avuto qualche problema di salute, ma gestiva ancora da solo uno studio impegnativo. All’epoca, la sua risposta mi lasciò ancora più perplesso. Disse: “Le malattie dei miei pazienti stanno iniziando a pesarmi”.*

Intervista a

Neil Berman

Cardiologo in pensione

Nel suo articolo “A Reason to Retire?” pubblicato sul New England Journal of Medicine, lei racconta di Lennie, un medico che a 64 anni aveva deciso di andare in pensione. È comprensibile che a un certo punto le malattie dei propri pazienti possano diventare un “peso”?

All’epoca non capivo bene cosa Lennie stesse cercando di dirmi. Ero immerso nella mia carriera e riuscivo a mantenere una certa distanza dai miei pazienti e dalle loro malattie. Ma con il passare del tempo, ho capito cosa Lennie intendesse. Diventa sempre più difficile

mantenere quell’oggettività professionale che ci permette di affrontare la malattia senza esserne sopraffatti emotivamente. I miei pazienti e i loro problemi sono diventati più difficili da separare da me. Ho iniziato a sentire gli aspetti “extra-medici” delle loro malattie in modo molto più acuto rispetto a quando ero più giovane: l’ingiustizia della malattia, l’inevitabilità dell’età e il degrado del corpo. Ora c’era una dimensione in più nel curare i miei pazienti: ciascuno di loro mi ricordava dove avrei potuto trovarmi un giorno. Mi identificavo con loro su un nuovo livello, percependo ogni progressione della loro malattia in un modo personale che non avevo mai provato prima. Mi sono trovato a sentire la malattia dei miei pazienti in modo più personale, e questo peso emotivo ha avuto un impatto sulla mia decisione di andare in pensione, come era successo a Lennie.

L’obiettività mi aiutava a far fronte allo stress di affrontare situazioni di vita o di morte dei miei pazienti. Mi permetteva di vedere il mio lavoro in una luce più razionale e meno emotiva. Ho fatto la diagnosi giusta?

Ho scelto il miglior trattamento? Ho spiegato la condizione al paziente e alla famiglia in modo chiaro?

Invece di domandarmi: come affronta la perdita della propria indipendenza? Come sopravvive la sua famiglia senza un capofamiglia? Come si sente sapendo di avere solo pochi mesi di vita?*

Lei parla dell’importanza di mantenere una certa distanza dai pazienti per essere un buon medico. Tuttavia, nel corso della sua carriera, ha anche sviluppato relazioni profonde con molti di loro. Come concilia queste due dimensioni?

È vero, gran parte della mia efficacia professionale dipendeva dal mantenere una certa distanza dai miei pazienti. C’era un certo egalitarismo in questo approccio: tutti i pazienti venivano trattati allo stesso modo, indipendentemente dalla gravità della loro situazione. Come mi era stato

insegnato, ho sempre cercato di evitare di identificarmi troppo con i miei pazienti, poiché essere sopraffatto dalle loro emozioni avrebbe compromesso la mia lucidità nel prendere decisioni terapeutiche. L’empatia non era considerata “professionale”, ma penso che la vera ragione per cui ci insegnavano ad evitarla fosse che indeboliva le nostre difese contro la delusione di fallire nella nostra missione di curare la malattia. Tuttavia, nel tempo ho scoperto che le relazioni con i pazienti sono una parte fondamentale della soddisfazione che traevo dal mio lavoro. È un equilibrio complesso: da un lato, dobbiamo essere distanti per proteggere noi stessi e rimanere obiettivi, dall’altro, quelle stesse relazioni ci danno un senso di realizzazione.

Durante la pandemia di covid-19, molti medici hanno vissuto il burnout. Lei ha accennato che il rischio di infettarsi ha reso tutto più difficile anche a livello personale. Come ha vissuto quel periodo?

La pandemia è stata un periodo estremamente difficile per tutti i medici. L’idea che potessi ammalarmi gravemente mentre cercavo di curare i miei pazienti ha portato una nuova dimensione di rischio personale che non avevo mai sperimentato prima. La mia obiettività, che mi aveva sempre protetto, sembrava meno efficace di fronte a questa nuova minaccia. Era un momento in cui non solo curavo persone affette da una malattia grave, ma dovevo anche fare i conti con il fatto che io stesso avrei potuto contrarre la malattia. Questo ha aggiunto un ulteriore livello di stress al lavoro. Durante la pandemia, il rifugio dell’obiettività non è mai stato così fragile. La vulnerabilità all’infezione personale era un altro modo in cui bisognava affrontare le proprie paure e ansie.

Lei ha menzionato che nelle ultime visite, prima della pensione, gli incontri con i pazienti erano più personali e carichi di emozioni. Come ha vissuto quel cambiamento?

Riconosco che ciò che mi ha maggiormente sostenuto durante la mia carriera sono state le relazioni professionali costruite con i miei pazienti: li ascoltavo e visitavo, spiegavo quale fosse la loro condizione, prescrivevo gli esami più appropriati e suggerivo le migliori opzioni per il loro

Le nostre relazioni con i pazienti sono complicate.

Da un lato, la mancanza di tempo, il numero di pazienti e il carico amministrativo associato alla cura interferiscono con la nostra relazione, contribuendo all’insoddisfazione lavorativa e al burnout. Dall’altro lato, però, quando queste relazioni diventano più personali e intense, il nostro lavoro può diventare più stressante, poiché si aprono brecce nella nostra corazza di obiettività.*

trattamento. Mi era stato insegnato che dovevo condividere il meno possibile della mia storia personale. Scopo delle interazioni con i pazienti era affrontare i loro problemi, non i miei, quindi conoscevo molto di più delle loro vite di quanto loro sapessero della mia. Con l’avanzare dell’età, diventando io stesso più vulnerabile alle condizioni contro le quali avevo combattuto per tutta la mia vita professionale, la corazza di obiettività diventava sempre più porosa. Paradossalmente, ciò permetteva relazioni più appaganti con i miei pazienti, ma anche più stressanti. Circa sei mesi prima di andare in pensione, avevo scritto una lettera ai miei pazienti spiegando che stavo per ritirarmi dal lavoro e condividendo con loro, in modo piuttosto personale, cosa significasse per me essere il loro medico. Dopo aver scritto quella lettera, le visite con i miei pazienti sono diventate più intime e cariche di emozioni. Quei momenti mi hanno permesso di vedere la mia carriera sotto una luce diversa, più umana. Anche se le visite erano emotivamente più impegnative, mi hanno dato una soddisfazione profonda che in passato avevo forse sottovalutato.

Si è mai chiesto se avrebbe dovuto sviluppare relazioni più personali con i suoi pazienti fin dall’inizio?

Ora sì, ci penso. Limitare la relazione con i propri pazienti alla sola dimensione medica ha certamente dei vantaggi per il medico, e forse anche per il paziente.

Tuttavia, la gratificazione di un coinvolgimento più personale nella relazione, che accresce enormemente la soddisfazione del lavoro, non è da sottovalutare. Credo che, se dovessi ricominciare da capo, sarei meno obiettivo e più coinvolto personalmente nelle relazioni con i miei pazienti, anche se questo potrebbe finire per essere più stressante: la ricompensa ne varrebbe la pena. y

* I testi sono estratti dall’articolo

“A Reason to Retire?” di Neil Berman pubblicato sul New England Journal of Medicine, il 7 ottobre 2023.

All’origine della sindrome di burnout

Negli ultimi anni si discute molto del burnout tra medici e operatori sanitari. Diversi sondaggi evidenziano una crescente incidenza della sindrome del burnout, che comporta esaurimento psico-fisico e perdita di lucidità; un fenomeno che si è accentuato con la pandemia covid. “Non c’è dubbio che oggi i medici siano più soggetti al burnout rispetto a dieci anni fa”, spiega Adam Cifu, medico internista e professore di medicina all’università di Chicago, in un’intervista a il punto, interrogandosi sui diversi cambiamenti avvenuti negli Stati Uniti a partire dalla formazione dei medici e del modo in cui devono lavorare e in cui vedono la propria professione.

Come cambia il rapporto dei giovani medici con il proprio lavoro

Guarda l’intervista

a Adam Cifu

Di fatto la medicina occidentale moderna ha subito una rivoluzione significativa negli ultimi decenni, da più punti di vista; sono cambiati gli orari di lavoro, le procedure e la natura stessa della professione medica. La digitalizzazione ha portato e sta portando enormi vantaggi, come la riduzione del tempo necessario per ottenere i risultati delle analisi o degli esami radiologici, nonché la possibilità di visitare il paziente a distanza. Tuttavia, questa evoluzione tecnologica non ha comportato un aumento del tempo dedicato ai pazienti, anzi in molti contesti lo ha ridotto. Sia i medici che gli studenti di medicina trascorrono spesso quasi la metà del tempo di fronte allo schermo di un computer per esaminare cartelle cliniche o compilare documenti. Un’altra parte importante del tempo lavoro serve per prendere contatti telefonicamente o via email con colleghi specialisti o altre figure professionali,

Intervista a
Adam Cifu University of Chicago medicine
video

spesso senza un confronto diretto. Già nel 2016, sul NEJM, altri due medici internisti statunitensi – David I. Rosenthal e Abraham Verghese – sottolineavano, in un articolo dal titolo “Meaning and the nature of physicians’ work”, che il loro lavoro ormai si svolge lontano dal letto del paziente e che nella pratica clinica si sta perdendo quel senso di lavoro di squadra e di comunità. Da un lato aumenta il carico di lavoro e delle responsabilità, dall’altro il contesto professionale si sta inaridendo Quello del medico non è un “mestiere” come gli altri: i risvolti positivi di una scelta professionale (o meglio di vita) di questo genere sono tanti ma almeno altrettanti sono quelli negativi. E lo sono ancor di più oggigiorno in un contesto organizzativo complesso in cui il medico deve sempre cercare un punto di equilibrio tra pratiche

burocratiche da smaltire, turni di lavoro estenuanti, responsabilità professionali e consenso informato, contatto con il dolore e la sofferenza, perdita del contatto fisico con il paziente e con i colleghi, e – non da ultime – esigenze di vita personale. “Sono cambiati i doveri. Sono cambiati i turni di lavoro. Ed è cambiato il setting sanitario, con più équipe di medici che seguono i pazienti”, considera Cifu. Ma è possibile che questi cambiamenti da soli siano responsabili del fenomeno del burnout dei medici e della compassione fatigue?

Cifu aggiunge che “forse ad essere cambiato è anche il rapporto dei medici con il proprio lavoro”. Rispetto al passato, la professione medica viene vissuta non tanto come una vocazione dedicata alla cura del paziente e come una professione totalizzante, quanto piuttosto come un impiego da svolgere nell’orario di lavoro. E anche per il solo fatto stesso che il paziente viene preso in carico da più figure professionali, il medico percepisce di non avere più un ruolo cruciale.

Cifu mette l’accento anche sui cambiamenti generazionali che sono fisiologici: i giovani oggi pensano al loro posto di lavoro come a un percorso temporaneo che può essere abbandonato per intraprenderne un altro, per fare carriera e per rispondere ai propri bisogni personali che hanno un diverso peso specifico rispetto al passato. Non sono pochi i medici (anche nel nostro Paese) che dichiarano di essere disposti a cambiare lavoro per avere più tempo libero e uno stipendio più alto, e questa esigenza è ancora più marcata tra i giovani che hanno scelto la professione medica con un’altra visione del lavoro del medico e con altre esigenze.

“Ma la medicina è ancora organizzata come un tempo e ci si aspetta che i medici siano sempre presenti per i loro pazienti. Questa organizzazione, che potrebbe non essere la migliore, non si adatta alle nuove generazioni di medici e alle loro aspettative di carriera, e certamente porterà al burnout”. y

Foto di Chait Goli / CC

Violenze contro i medici.

Costruire uno spazio comune sicuro

In questa pagina raccogliamo alcuni estratti di una lettera aperta scritta da un anestesista di Bologna, pubblicata sul portale della FNOMCeO, per riflettere insieme a Mauro Doglio, counsellor e presidente dell’Istituto Change, sulla violenza verbale contro i medici. Partendo dalle esperienze vissute in prima persona dai professionisti sanitari e dalle loro emozioni, vogliamo esplorare più a fondo questo delicato tema.

Intervista a

Professor Doglio, quali sono, a suo avviso, le principali cause che alimentano i comportamenti aggressivi, sia verbali che fisici, da parte di pazienti e caregiver nei confronti degli operatori sanitari? Possiamo considerare questi atteggiamenti come un riflesso di una società sempre più in crisi e sofferente, che perde fiducia nelle istituzioni e nelle persone?

«È sempre delicato allargarsi ad un’interpretazione generale dello stato della società, volendo comunque provarci, a me sembra che sia presente nel nostro quotidiano quella che potremmo definire una tendenza alla disgregazione. Da diversi anni si è creata una sorta di spinta che, come una reazione a catena, mette le persone e i gruppi gli uni contro gli altri, sia a livello macroscopico della grande politica sia a

Ogni giorno mi trovo a vivere episodi di aggressione, fisica e verbale, da parte di utenti che considerano i medici, nella migliore delle ipotesi, degli incompetenti che commetteranno errori a prescindere e, nella peggiore, dei veri criminali, meritevoli di denunce che vengono minacciate ad ogni occasione.

quello microscopico delle famiglie e dei gruppi amicali. In certi casi questa tendenza è addirittura incentivata da forze che ricavano vantaggi dalla frammentazione della società, come abbiamo visto nei casi di QAnon e del movimento Novax. Questa spinta disgregante produce ovviamente degli effetti su tutti gli ambiti della vita, e in particolare agisce sulle principali strutture di potere nelle quali si articola la società: il potere culturale della scuola, il potere medico della sanità, il potere giurisdizionale della magistratura. Tutte queste strutture sono sottoposte a forte pressione, messe continuamente in discussione, contestate. Ma la fragilizzazione delle strutture di potere, il loro mancato riconoscimento, la continua messa in discussione di ogni autorità portano ovviamente con sé una logica, ma inquietante, conseguenza: l’aumento esponenziale dei conflitti in ogni settore della vita sociale.

Vi è ormai la convinzione che l’assenza di guarigione debba essere in qualche modo risarcita, come se parlassimo di un vestito cui il sarto ha sbagliato la riparazione.

In questo contesto, crede che ci sia spazio sufficiente per costruire un dialogo rispettoso con i pazienti, un confronto rispettoso in cui i medici possano spiegare i limiti e le incertezze che inevitabilmente caratterizzano la medicina?

Nella sua domanda lei tocca un elemento fondamentale: la comunicazione con i pazienti come dialogo rispettoso. È un’esigenza primaria, perché per la maggior parte le persone non sono dei facinorosi che cercano la rissa, ma pazienti e familiari che hanno bisogno di comprendere cosa sta loro avvenendo e di essere aiutati a fare delle scelte. E tutto questo all’interno di un contesto come quello che abbiamo descritto sopra, dove l’autorità non è più tendenzialmente riconosciuta ma, anzi, è pregiudizialmente sospetta. Da qui l’enorme importanza di attivare da parte del personale sanitario una comunicazione capace di raggiungere gli obiettivi pro-

fessionali e che i pazienti possano sentire rispettosa; il che significa, per fare un esempio, accogliere il fatto che un paziente possa fare delle obiezioni “scriteriate” a quello che il medico dice senza che il colloquio si trasformi in un braccio di ferro. Molte volte, in situazioni di questo tipo, il problema reale non è la cosa di cui si sta parlando, ma il tipo di relazione che si instaura. Per usare le riflessioni che abbiamo sviluppato nella risposta precedente: nel contesto in cui ci troviamo, dobbiamo aspettarci che si aprano spesso questioni relative al potere anche in uno studio medico o in una corsia d’ospedale; a quel punto, ovviamente, utilizzando un certo tipo di comunicazione aumentano le probabilità di trovare una via d’uscita, diversamente, contrapponendosi immediatamente in modo duro, si scivola verso il conflitto. Aggiungo una cosa di cui sono profondamente convinto: quando un paziente ha un’esperienza positiva in sanità (o un genitore ha un’esperienza positiva nella scuola) si crea una piccola barriera alla violenza. La violenza infatti raramente esplode in modo subitaneo, ma è come un incendio che cresce lentamente, fino a divampare, e cresce nei luoghi dove le persone si parlano: facendo la coda ai negozi, dal parrucchiere, sui mezzi di trasporto. Una persona che ha fatto un’esperienza positiva probabilmente lo racconterà e, a fronte di un interlocutore che demolisce tutto e tutti, è possibile che dica: “però non sono tutti così, quando a marzo ho portato mio figlio al pronto soccorso...”.

Ci mortifica che i familiari arrivino con la convinzione che non faremo bene il nostro lavoro, come se non fosse nel nostro interesse ottenere risultati positivi, come se non avessimo tutti un obiettivo comune, il ripristino dello stato di salute e la guarigione del paziente.

Il colloquio tra medico e paziente dovrebbe essere uno spazio di reciproco ascolto, ma quanto il contesto attuale e le difficili condizioni di lavoro del medico influiscono negativamente sulla possibilità di dedicare tempo al dialogo? È davvero possibile garantire uno spazio adeguato al confronto in queste circostanze?

Purtroppo i professionisti si trovano spessissimo di fronte ad una “presunzione di colpevolezza”, alimentata nei più svariati modi. Credo, anche se può apparire assurdo, che il personale sanitario dovrebbe tenersi pronto a questi atteggiamenti; intendo dire che non ci si dovrebbe stupire di incontrare diffidenza e, paradossalmente, questo essere preparati potrebbe diminuire la reazione di (legittimo) stupore e mortificazione che il medico esprime nella lettera aperta, permettendo di investire da subito tutte le energie in una comunicazione che tenga conto della complessità e della problematicità che abbiamo descritto sopra. Aggiungo un’altra considerazione: nella mia esperienza formativa in campo sanitario, mi sono reso conto che il risultato di un’interazione è sempre il punto d’incontro tra le condizioni contestuali e le competenze professionali. Anche in situazioni contestuali non ottimali, una buona competenza comunicativa permette di gestire una comunicazione efficace. Ovviamente anche a questo principio c’è un limite, dovuto al fatto che, anche l’operatore più preparato, se sottoposto a turni sfibranti e costretto a fronteggiare un’organizzazione che sembra non tenere minimamente conto delle esigenze legate al proprio lavoro, sarà più esposto a commettere errori comunicativi e ritrovarsi in situazioni conflittuali.

In che modo gli operatori sanitari possono difendersi da una comunicazione aggressiva e violenta? Quali strategie si possono adottare per ridurre l’aggressività dei pazienti e caregiver? Una solida formazione universitaria e post-universitaria sarebbe sufficiente per affrontare il problema?

Credo sia necessario e doveroso iniziare a dire ad alta voce “basta”, a far sentire il nostro forte disagio. Perché chi tace diventa complice.

Siamo di fronte ad un problema talmente grande e articolato che è molto difficile pensare a delle soluzioni che non partano da una visione d’insieme. Si tratta certamente di alleggerire le strutture sanitarie più gravate, in modo da permettere agli operatori di dare risposte più rapide ed efficaci, di proteggere chi lavora, che non può essere esposto a continui pericoli, e anche, certamente, di fornire ai professionisti delle competenze che permettano di gestire nel modo più protettivo possibile le comunicazioni. Uso il termine “protettivo” non a caso: le relazioni sono un campo pericoloso, dove è facilissimo farsi male e far male agli altri, in particolare se ci troviamo in ambiti, come quello sanitario, dove la posta in gioco è alta. Una delle cose che ripetiamo più spesso agli operatori che frequentano i nostri corsi è: “Si possono sempre peggiorare le cose”. Nelle situazioni più drammatiche, di cui siamo purtroppo testimoni quasi quotidianamente, l’obiettivo dovrebbe essere prima di tutto questo: di non peggiorare, di non incanalarsi seguendo una corrente polarizzante che conduce al conflitto. Per farlo ovviamente ci vogliono strumenti, che possono essere acquisiti con un’adeguata preparazione. Una cosa certamente utile è pensare che, nella maggior parte dei casi critici, esiste uno spazio preconflittuale dove è ancora possibile, utilizzando la comunicazione in modo appropriato, dirigere le cose verso un altro esito. Se ci riusciamo, abbiamo protetto noi stessi, gli altri e lo spazio comune che abitiamo. Se non ci riusciamo, avremo almeno la certezza di aver utilizzato tutte le competenze disponibili e di aver agito in modo professionalmente inappuntabile. y

La lettera aperta del medico di Bologna

Quella violenza subita e vissuta, verbale e fisica

Le narrazioni e testimonianze dei professionisti sanitari

Quel turno di notte da sola

Era la fine di febbraio del 2017 e lavoravo nel Servizio di continuità assistenziale, quello che tutti conoscono come guardia medica, in provincia di Taranto. Ero di turno in un ambulatorio dove si lavorava da soli, senza infermieri, ausiliari o servizi di vigilanza. Ogni notte il medico di guardia era completamente solo, e quella notte toccava a me.

C’era un paziente che conoscevo bene, un detenuto agli arresti domiciliari. Si presentava quasi ogni giorno chiedendo la prescrizione di analgesici, in particolare di un oppiaceo da cui era dipendente. Io e le mie colleghe ci trovavamo in difficoltà. Non aveva mai fornito documentazione medica adeguata per giustificare l’uso continuativo di questi farmaci, e alla fine decidemmo di comune accordo di smettere di fornirgli le ricette. Gli comunicammo la nostra decisione, e lui reagì aggredendoci verbalmente.

Una sera, mentre ero di turno, glielo dissi di nuovo: “Non ti farò più quella ricetta”. Fu allora che iniziò a urlare, a minacciar-

mi. La paura mi assalì. La notte successiva, il paziente si presentò ancora, bussando violentemente alla porta, nel tentativo di sfondarla. Quando tornai al lavoro, ero terrorizzata. Decisi di farmi accompagnare da mio marito, una cosa che non avevo mai fatto in tanti anni di guardia medica. L’uomo era già lì, ad aspettarmi. Entrò in ambulatorio e si sedette di fronte a me, cominciando a urlare, pretendendo ancora la sua ricetta. Cercai di mantenere la calma, gli spiegai che non potevamo continuare a prescrivere quegli analgesici, che lo facevamo per il suo bene. Gli dissi anche che le mie colleghe erano stanche di questa situazione e che, se non avesse smesso, saremmo state costrette a denunciarlo. Mi guardò con un sorriso beffardo. “Non ho niente da perdere”, disse, ridendo. “Non tornerò mai in carcere”. Poi, lentamente, aprì la giacca e mi mostrò una pistola infilata nella cintura. Rimasi paralizzata dalla paura. In sala d’attesa c’erano altri pazienti, e forse fu quello a salvarmi. Richiuse la giacca e se ne andò, ma non prima di aver incrociato mio marito nel corridoio. “Ah, stasera ti sei portata anche tuo marito”, commentò sarcasticamente, prima di uscire.

Qualche settimana prima, lo stesso uomo mi aveva lasciato dei biglietti in ambulatorio, con allusioni non professionali nei miei confronti. Mi sentivo doppiamente minacciata. Fortunatamente, quell’episodio non si trasformò in violenza fisica, ma l’esperienza mi segnò profondamente. Lavorare da sola, soprattutto in un contesto di guardia medica notturna, ti fa sentire vulnerabile, esposta. Il rischio è sempre dietro l’angolo, perché sanno che sei sola, e non c’è nessuno a proteggerti.

Il problema della sicurezza in guardia medica è reale. Non bastano videocamere o dispositivi di sicurezza: è fondamentale avere un collega, una guardia giurata, o essere collocati in strutture più sicure. Solo così si può ridurre il rischio di aggressioni, che spesso sono premeditate proprio perché gli aggressori sanno di avere campo libero.

C’è poi la questione della comunicazione violenta di genere. Come donna, soprattutto se giovane, ti trovi spesso a dover affrontare battutine o allusioni. La domanda di routine è sempre la stessa: “Dottoressa, lei è signora o signorina?” Con i medici uomini, invece, l’approccio è molto più professionale. La violenza, fisica o verbale, può colpire tutti, ma per una donna sola, magari appena laureata o in corso di specializzazione, la situazione può diventare imbarazzante o persino offensiva. Eppure, nonostante tutto, dall’altra parte c’è sempre un paziente. C’è una relazione di cura da mantenere, e si cerca di immedesimarsi nella persona o nel familiare angosciato. Ma ci sono regole che devono essere rispettate, per la nostra sicurezza e serenità. Non è possibile che in ospedale o in pronto soccorso si presentino intere famiglie. Certo, i familiari hanno bisogno di conforto, ma il medico deve poter lavorare in serenità, senza essere continuamente messo sotto pressione. L’aggressività, in qualsiasi forma, è sempre deleteria. Formarsi per affrontare queste situazioni è essenziale. Ricordo un corso di Massimo Picozzi sulle tecniche di de-escalation e il convegno sui gruppi Balint organizzato dall’Omceo di Bari con il gruppo Agapanto donne medico dell’Ordine (a cui appartengo). È importante avere strumenti teorici e pratici per gestire l’aggressività, ma è altrettanto cruciale lavorare in ambienti che garantiscano sicurezza. Prevenire è importante, ma bisogna essere pronti ad affrontare l’imprevedibile, perché l’aggressività può scoppiare all’improvviso, e in quei momenti dobbiamo essere tutelati.

Ombretta Silecchia

Medica di medicina generale, Bari

È l’ora della

coesione

Non ho nessuna verità in tasca, ma ho vissuto un’esperienza che non posso ignorare. Sono psicologo, ora in pensione, continuo a lavorare su progetti legati alla prevenzione e alla promozione della salute mentale.

Viviamo in una società dove la violenza e la paura viene rappresentata sotto molti aspetti: guerre, disastri climatici, episodi di cronaca nera. Il mondo si racconta come luogo di sofferenza, i media indulgono nel mostrare violenza e sofferenza. Non sorprende che la violenza si insinui anche nei luoghi in cui medici e operatori sanitari si impegnano per il benessere degli altri. È un disagio sociale profondo, che mia moglie Paola, psichiatra, conosceva bene. Lavorava nel quartiere Libertà di Bari, una zona difficile, con alti tassi di disoccupazione e problemi legati all’immigrazione. Paola amava il suo lavoro.

Parlare di violenza verbale e fisica contro i medici e gli operatori sanitari ci deve portare a riflettere e ad intervenire sulle fragilità della sanità pubblica a partire dal peso delle carenze di personale sanitario. In questi anni stiamo assistendo a una migrazione di medici, infermieri e psicologi dal pubblico e dal privato e al conseguente sovraccarico di lavoro e liste di attesa sempre più lunghe. Questo inevitabilmente aumenta le tensioni e nervosismo, anche tra gli operatori stessi. Non giustifica la violenza, certo, ma aiuta a capire come un ambiente di lavoro meno coeso possa esporre il personale sanitario a maggiori rischi.

Quando Paola è stata uccisa da un suo paziente, molti mi hanno chiesto se la presenza di una guardia giurata avrebbe potuto salvarla. È una domanda a cui non posso rispondere in modo banale. Forse, se quel giorno ci fosse stato qualcuno a proteggere Paola, sarebbe ancora qui con me. Dopo la sua morte, è stato avviato un processo per capire le falle nelle misure di sicurezza, e sono stati organizzati incontri sulla protezione degli operatori sanitari.

Ma finché la sanità pubblica continuerà a essere depauperata, temo che questi episodi non faranno che aumentare.

Abbiamo bisogno di una narrazione che trasformi la visione del finanziamento per la salute da una spesa a un investimento in una società sana

La questione, per me, non è solo avere più vigilanza o protocolli di sicurezza. Ci vorrebbero più operatori, più risorse, e soprattutto più coesione tra i membri del team. Quando un gruppo lavora bene insieme, si crea un ambiente più sicuro, sia per i pazienti che per i medici. Paola non aveva paura del suo lavoro: sapeva come affrontare i pazienti difficili, come disinnescare una situazione tesa. Solo una volta mi aveva parlato di una persona che le ave-

va fatto paura, ma non posso dire con certezza che si trattasse del suo assassino. In fondo, mi resta la convinzione che siamo arrivati a un punto di non ritorno. Finché la sanità pubblica continuerà a essere trattata come una voce di bilancio da tagliare, gli operatori sanitari continueranno a lavorare in condizioni di rischio. Abbiamo bisogno di una narrazione che trasformi la visione del finanziamento per la salute da una spesa a un investimento in una società sana, altrimenti la violenza, purtroppo, non smetterà di colpirci.

Vito Calabrese

Psicologo in pensione

Marito di Paola Labriola, psichiatra morta accoltellata da un paziente del 2013

Una ferita ancora aperta

Al di là della mia grave esperienza personale che ha lasciato dei segni, noto con dolore che la rabbia e la frustrazione sono due nemici che fanno scatenare in maniera molto pericolosa azioni che non possono essere in alcun modo giustificabili. La mia esperienza vissuta di aggressione fisica è ormai datata, ma ha lasciato dentro di me dei segni indelebili. È come una ferita che non è guarita. Fanno molto male le ricorrenti notizie, ormai quotidiane, di colleghi aggrediti; le aspettative si sono ingigantite in questi ultimi anni. È necessaria una maggiore chiarezza con i pazienti e la comprensione da parte dei pazienti che l’attività sanitaria diventa sempre più impegnativa con le difficoltà legate anche a un numero insufficiente di sanitari. Non sono in grado di scrivere una soluzione del problema. Forse un po’ più di dialogo e fiducia tra pazienti e medici può essere utile.

L’aggressività nasce spesso nell’immediato, in primis dai pazienti e a seguire dai familiari preoccupati. Senza capire che dall’altra parte ci sono persone che fanno il massimo per loro

Presi di mira

Sono uno di quelli che vengono etichettati come “virus star” perché mi sono esposto pubblicamente durante la pandemia. Questa ha portato con sé una certa visibilità e molte difficoltà. Ognuno di noi ha affrontato situazioni complesse, la pandemia ci ha messi in prima fila rispetto a scelte che, in molti casi, non sono state piacevoli. Alcune decisioni hanno avuto anche conseguenze economiche, e ci sono state contestazioni. La maggior parte delle persone sono state solidali alla mia posizione oppure neutrali. Ma c’è una minoranza che ha dimostrato verbalmente anche in modo estremo il proprio disaccordo. Per esempio, circa un mese fa, a Barletta, alla presentazione di un libro che per altro non era sulla pandemia, la giornalista mi ha chiesto qual era la situazione covid. Improvvisamente dal pubblico mi è arrivata una sassata. Non mi ha colpito, ma è stata comunque un’esperienza che mi ha fatto riflettere. Ho iniziato a notare altri episodi di intolleranza, di aggressioni verbali e insulti. Oggi non mi sento più sicuro e, per questo, ho smesso di prendere la metropolitana. A tutto questo si aggiungono i commenti violenti online degli haters che – ancora oggi – scrivono sui miei canali social, criticando le decisioni prese durante la pandemia e gli effetti negativi di quelle scelte. Questa polarizzazione, nata in quei momenti, si fa ancora sentire. Credo che questi comportamenti violenti siano figli delle difficoltà che i miei colleghi, specialmente in pronto soccorso, si trovano a dover gestire. Da direttore sanitario dell’ospedale Galeazzi Sant’Ambrogio di Milano, assisto quotidianamente a un aumento della conflittualità e delle intemperanze negli spazi dedicati alla cura. Un tempo la gente si limitava a prendersela con i computer o con oggetti di poco conto. Oggi, invece, il clima di violenza è palpabile, soprattutto nei servizi di emergenza. Nella maggior parte dei casi, l’aggressività nasce nell’immediato, in primis dai pazienti che pretendono di essere curati e a seguire dai familiari insoddisfatti e preoccupati. Senza rendersi conto che dall’altra parte ci sono persone che stanno facendo il massimo per loro. y

Fabrizio Pregliasco

Università di Milano

Direttore sanitario di azienda dell’Irccs Ospedale Galeazzi – Sant’Ambrogio di Milano

Nelle società occidentali, la consapevolezza e la sensibilità nei confronti dell’infanzia si sono manifestate ben prima che la pediatria si affermasse come branca della medicina nella seconda metà del diciannovesimo secolo. La preoccupazione per le afflizioni dei bambini, in particolare per le malattie che li conducevano, spesso prematuramente, al decesso, è avanzata in maniera parallela ai progressi scientifici che ne hanno permesso trattamenti sempre più efficaci. Nel corso degli ultimi cent’anni, si è assistito a una trasformazione nell’approccio dei medici nei confronti dei bambini affetti da patologie gravi e potenzialmente letali, pervenendo allo sviluppo di cure palliative sempre più avanzate e alla predisposizione di spazi dedicati alla loro applicazione, seguendo diverse tappe di evoluzione che verranno esplorate nell’articolo.

La nascita degli hospice per i bambini: una storia recente che parte da lontano

Giancarlo Cerasoli

Scuola di storia della medicina, OMCeO di Rimini

Niccolò Nicoli Aldini

Sara Patuzzo

Dipartimento di scienze chirurgiche, odontostomatologiche e materno-infantili

Università di Verona

Nel mondo occidentale il “sentimento dell’infanzia” era presente molto prima del consolidarsi della pediatria, avvenuto nella seconda metà del diciannovesimo secolo, e l’attenzione verso le sofferenze dei bambini, in primis le malattie che li portavano rapidamente alla morte, è progredita di pari passo con le scoperte della scienza medica che ne permettevano cure efficaci.1

L’assistenza al bambino negli hospice.

Cosa è cambiato in un secolo di storia

Negli ultimi cento anni l’atteggiamento dei medici verso i piccoli colpiti da malattie gravi che mettono a rischio la loro vita è passato da un’autentica trascuratezza allo sviluppo di cure palliative sempre più efficaci e all’allestimento di luoghi destinati alla loro messa in pratica, attraversando alcune fasi, che saranno analizzate nell’articolo. La strage degli innocenti: fino al 1920 Prima del ventesimo secolo anche in Italia la mortalità nel primo anno di vita era tra le più elevate in Europa: tra il 1874 e il 1883 era di 208 decessi ogni mille nati vivi e nei primi cinque anni di vita moriva un bambino su due.2 Questa vera e propria “strage degli innocenti” iniziò a declinare cento anni fa, salvo due transitorie recrudescenze in corrispondenza delle guerre mondiali.3

All’inizio dello scorso secolo le cause del decesso dei bambini erano in prevalenza condizioni morbose a carattere infettivo o legate a problemi nutrizionali, quindi in generale a decorso acuto e, nel caso, fatale in tempi abbastanza rapidi.4 Questo non significa che non fossero presenti anche altri tipi di affezioni in cui il decesso seguiva un periodo più o meno lungo di aggravamento, che tuttavia, sia per la loro incidenza sia per le limitate risorse diagnostiche e terapeutiche, non si proponevano all’attenzione in modo così manifesto. Se ne ha l’evidenza negli indici di due dei trattati pediatrici più importanti che circolavano in Europa tra la fine del diciannovesimo e gli inizi del ventesimo secolo, nei quali la rilevanza data alla trattazione delle patologie oncologiche era molto ridotta rispetto a quella delle malattie infettive. Tra i capitoli dedicati ai tumori, quello più vasto riguardava le leucemie, ma erano prese in esame anche le neoplasie di: midollo spinale, cute, osso, laringe, trachea, tiroide, timo, peritoneo, cuore, fegato, testicoli, reni, surreni e vescica.5 Minor spazio era lasciato a queste patologie, verso le quali allora erano disponibili poche cure efficaci, nei manuali rivolti ai medici dei bambini, dove erano trattate soprattutto le leucemie e i tumori cerebrali.6

L’età dell’ignoranza:

dagli anni Venti agli anni Sessanta dello scorso secolo

Con il tempo le patologie pediatriche letali non di origine infettiva trovarono sempre maggior evidenza nei convegni e sulla stampa specializzata pediatrica, mentre l’interesse degli oncologi verso i bambini sembra sia più tardivo.7 Dopo il 1945 l’avanzamento delle tecnologie mediche, soprattutto con gli antibiotici, le infusioni endovenose e i supporti respiratori, permise ai bambini colpiti da malattie gravi una maggiore sopravvivenza che però ne prolungava le sofferenze.8 Fino ad allora, a un livello più generale ed esteso a tutte le fasce di età, non esisteva una vera cultura delle cure palliative, e gran parte degli ammalati in condizioni terminali trascorreva la fase avanzata della malattia in condizioni assolutamente precarie e con un gravosissimo carico per la famiglia. Nel 1927, in occasione del Primo convegno nazionale della Lega italiana per la lotta contro il cancro, Luigi Mangiagalli (18501928) sottolineava la difficolta di un’assistenza domiciliare nei pazienti con neoplasia in fase avanzata, mentre dieci anni più tardi Benedetto Morpurgo (1861-1944)

si pronunciava per l’istituzione di sezioni apposite per questi ammalati in ambito ospedaliero.9

In quel momento il concetto di sofferenza era diverso da quello attuale, ossia un complesso stato di disagio che non comprende soltanto sintomi individuali ma tiene conto di altre variabili. Nel 1955, per esempio, uno studio compiuto da psicologi prese in esame il comportamento dei bambini che stavano morendo concentrando l’attenzione sull’ansia delle madri e dei piccoli e mettendo in luce l’impatto negativo su entrambi delle limitazioni dell’accesso dei genitori nei reparti.10 Anche le ricerche allora compiute da James Robertson, divulgate nel nostro Paese da Maccacaro, avevano messo in luce che la separazione dei bambini ricoverati dai genitori, quali che fossero le loro patologie, causavano spesso gravi modificazioni del loro comportamento giudicate quali ansia, aumento della irritabilità, passività e regressione, oggi interpretabili come depressione.11

Gli psicologi utilizzarono l’ansia come strumento per analizzare il comportamento dei piccoli ammalati ed espressero la convinzione che in realtà essi non avessero la consapevolezza dell’avvicinarsi ›

Foto di Markus Spiske / CC BY

della morte e perciò non fossero depressi. Nel 1963 un assistente sociale compì uno dei primi studi su bambini destinati a una morte precoce e mise in luce un alto livello di ansia valutato dal punto di vista verbale, comportamentale (ritiro dai pari, gioco regressivo), corporeo (nausea, scarso appetito) e del gioco simbolico.12 In quegli anni i clinici che si occupavano dei bambini destinati a una morte certa ne sottovalutavano non soltanto le condizioni psicologiche ma anche il dolore fisico. Essi erano però ben consapevoli delle proteste dei piccoli malati per le procedure invasive, che provocavano negli operatori sanitari una grande frustrazione.

Gli anni Sessanta: curare il dolore con gli oppioidi

Solo negli anni Sessanta alcuni oncologi iniziarono a prescrivere gli oppioidi per lenire il dolore dei bambini in fase terminale. Essi andavano coraggiosamente contro il sentire comune che presumeva che il bambino provasse poco dolore e si abituasse facilmente a tollerarlo. Alla base dello scarso uso degli antidolorifici vi era anche il timore di usare dosaggi capaci di causare effetti collaterali e assuefazione nei bambini trattati, cosa che spesso portava all’uso di bassi dosaggi con scarsa o nulla efficacia. La stessa resistenza era presente nella cura degli adulti dove si fece largo inizialmente la convinzione che per ridurre le sofferenze dei malati terminali si potessero utilizzare farmaci per ridurre il dolore dati a intermittenza, ossia soltanto quando le sofferenze erano al culmine. Cicely Saunders fu tra le prime a mettere a punto al St Christopher’s Hospice la somministrazione “proattiva” e continuativa di farmaci contro il dolore a malati terminali, invece del “trattamento reattivo” soltanto al bisogno.13 Per lei era necessario ottenere una riduzione costante della sofferenza e gli sforzi dei curanti andavano diretti verso il controllo e l’annullamento del “dolore totale” dei malati, termine che includeva la sfera fisica ma anche quella mentale, sociale e spirituale, tutte meritevoli di atten-

zione e cure. Per far fronte a tutte queste necessità era quindi necessario che l’assistenza ai malati e alle loro famiglie non fosse lasciata soltanto a un unico medico ma che a farsene carico fosse un insieme di persone con competenze diverse. All’inizio degli anni Settanta queste idee trovarono diffusione anche in Nordamerica: Balfour Mount a Montréal coniò il termine “cure palliative” e nel 1974 in Connecticut Florence Wald fondò il primo hospice.14

In quegli anni i clinici che si occupavano dei bambini destinati a una morte certa ne sottovalutavano non soltanto le condizioni psicologiche ma anche il dolore fisico

Gli anni Settanta del Novecento. Dall’adulto al bambino: rendere visibile la sofferenza dei piccoli Nel corso del successivo ventennio la nuova teorizzazione del “dolore totale”, la messa in opera della terapia analgesica “proattiva” e dell’assistenza multidisciplinare trovarono finalmente applicazione anche in campo pediatrico. Questo risultato fu favorito dallo sviluppo delle tante “specializzazioni” della pediatria che avevano a che fare con il dolore del bambino (oncologia, pediatria d’urgenza, farmacologia, ecc.) e dall’affermarsi dell’anestesiologia e della rianimazione.

Nei primi anni Settanta alcuni psicologi indagarono non soltanto l’ansia dei bambini in fase terminale ma anche l’alterazione del loro concetto di sé, della loro integrità fisica e psichica, la difficoltà nella relazione interpersonale e le modificazioni sui loro progetti per il futuro. Spinetta e colleghi dimostrarono nel 1973 che questi bambini avevano la precisa consapevolezza del loro futuro infausto, che glielo si dicesse o meno, e che pertanto era meglio avere con loro un approccio aperto, piuttosto che negare l’evidenza.15 Altri invece, come l’antropologa Myra Bluebond-Lan-

gner, preferirono l’approccio “protettivo”16 e molti adottarono la pratica della “finzione reciproca”, termine introdotto da Barney Glaser e Anselm Strauss.17

Al termine degli anni Settanta ormai molti dei cardini dell’assistenza agli adulti con malattie in fase terminale erano stati fatti propri dai pediatri. Nel 1979 Smith e colleghi descrissero l’approccio di total care per piccoli con patologie oncologiche nel quale un gruppo multidisciplinare affrontava e gestiva in maniera coordinata i bisogni fisici ma anche emozionali, sociali e finanziari delle famiglie dei malati.18 Tutti gli operatori del “cancer team” erano coinvolti nelle cure e tra loro dovevano intercorrere rapporti gerarchici di tipo orizzontale e non verticale.

Gli anni Ottanta: dai tumori alle altre patologie inguaribili a prognosi infausta

Nel 1983 Lewis comprese che i principi seguiti nel curare i bambini con patologie oncologiche in fase terminale e nell’assistere le loro famiglie potevano e dovevano essere estesi all’assistenza dei bambini colpiti da mali gravi non oncologici anche se non mettevano i pazienti in pericolo di vita.19 La nuova sensibilità sviluppata dai gruppi di curanti portò anche a limitare allo stretto necessario le manovre invasive (accessi venosi centrali e periferici, rachicentesi, prelievo del midollo osseo, biopsie cutanee, muscolari, epatiche, renali, ecc.) e a ricorrere alla sedazione per ridurre il dolore durante la loro messa in opera. Per alcuni interventi chirurgici che prima venivano fatti senza ricorrere all’anestesia, come la toracotomia per la chiusura del dotto di Botallo nel neonato, divenne necessario il ricorso all’anestesia.20 Dagli anni Ottanta anche nei testi di riferimento per lo studio della pediatria trovò spazio la trattazione delle cure rivolte ai bambini in fase terminale e, in alcuni casi, anche la testimonianza dei piccoli pazienti.21In Inghilterra, Frances Dominica Ritchie, un’infermiera e suora anglicana, mise in evidenza che per molti bambini

con malattie terminali non erano sufficienti le cure somministrate a domicilio, ma erano necessari ricoveri in ospedale. Questo portò nel 1982 all’apertura della Helen House, il primo hospice pediatrico.22 A differenza che negli hospice dedicati agli adulti in fase terminale, che vi sostavano fino all’exitus, i bambini potevano essere accolti all’hospice pediatrico soltanto per brevi periodi, per permettere alle loro famiglie di trovare cure e sollievo nei periodi acuti.

Nel 1986 l’oncologo e pediatra Goldman mise a punto il primo gruppo multidisciplinare per le cure palliative di bambini ricoverati che aveva il compito di seguirli durante tutto lo sviluppo della patologia.23

In Inghilterra, Frances Dominica Ritchie mise in evidenza che per molti bambini con malattie terminali non erano sufficienti le cure somministrate a domicilio, ma erano necessari ricoveri in ospedale

Dagli anni Novanta: la lenta diffusione delle cure palliative pediatriche

Anche se le basi per prestare cure palliative efficaci all’infanzia, sia a domicilio sia in ospedale e nell’hospice, erano già state gettate e collaudate, dagli anni Novanta a oggi la loro applicazione pratica è risultata molto limitata seppure si sia cercato di estenderla al di fuori delle patologie oncologiche, come le gravi cardiopatie, le pneumopatie e i danni neurologici.

Nel 1996 uscì la prima edizione e dell’Oxford Textbook of Palliative Medicine, con una sezione dedicata alle cure palliative pediatriche, nello stesso anno il Journal of Palliative Care, pubblicò un numero speciale dedicato a questo argomento e negli Stati Uniti le cure palliative pediatriche furono definite come specifico settore di studio, con un proprio codice specifico.24

Secondo la definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), le cure

palliative pediatriche costituiscono l’attiva presa in carico globale del corpo, della mente e dello spirito del bambino e comprendono il supporto attivo alla famiglia. Hanno come obiettivo il miglioramento della qualità della vita del piccolo paziente e della sua famiglia e il domicilio rappresenta, nella stragrande maggioranza dei casi, il luogo scelto e ideale di assistenza e cura. Le cure palliative pediatriche non sono le cure della terminalità (riferite alla presa in carico di bambino e genitori solo nel periodo strettamente legato all’evento della morte), ma prevedono l’assistenza precoce all’inguaribilità: iniziano al momento della diagnosi, non precludono la terapia curativa concomitante e continuano durante tutta la storia della malattia, prendendosi carico della risposta ai molteplici bisogni che la situazione comporta. Si differenziano per molti ambiti dalle cure palliative rivolte al paziente adulto: devono infatti modularsi alle peculiarità biologiche, psico-relazionali, cliniche, sociali, etiche e spirituali del paziente pediatrico e rispondere a una tipologia e quantità dei bisogni del tutto peculiari che condizionano scelte e azioni dedicate e specifiche. Lo spettro di patologie potenzialmente eleggibili alle cure palliative pediatriche è eterogeneo e ampio (malattie neurologiche, muscolari, oncologiche, respiratorie, cardiologiche, metaboliche, cromosomiche, sindromico-malformative, infettive, post anossiche, ecc.) come lo spettro dei bisogni che innescano e delle modalità di presa in carico necessarie.25 Secondo l’Oms nell’hospice viene fornita un’assistenza al fine vita da professionisti della salute e volontari che offrono supporto medico, psicologico e spirituale. L’obiettivo dell’assistenza è quello di aiutare le persone che stanno morendo a farlo in pace, in modo dignitoso e confortevole. I caregiver hanno il compito di permettere al paziente di controllare il dolore e gli altri sintomi per rimanere coscienti e a proprio agio il più possibile. I programmi dell’hospice sono d’aiuto anche alle famiglie dei malati.26 Nel 2000 l’American Academy of Pediatrics ha

Anche se le basi per prestare cure palliative efficaci all’infanzia erano già state gettate e collaudate, dagli anni Novanta a oggi la loro applicazione pratica è risultata molto limitata

stabilito le norme per le cure palliative e per il fine vita dei bambini, rivolte non soltanto ai bambini che hanno patologie oncologiche ma anche per quelli affetti da malattie che minacciano la vita di carattere neurologico, neurodegenerativo, metabolico o di origine genetica.27

Nel 2022 sono state riviste le linee guida europee sugli standard internazionali per le cure palliative pediatriche che definiscono anche che nella comunicazione con il paziente e la sua famiglia si debba tenere un approccio onesto e continuo tramite una comunicazione aperta sulla diagnosi e la prognosi del malato, tenuta in un setting appropriato, che tenga conto del grado culturale e delle convinzioni etiche della famiglia.28 Anche se le cure palliative pediatriche sono state riconosciute fra i diritti umani dalla Oms, tuttavia forti disparità rimangono nella loro accessibilità:

nel 2011 si riteneva che solo in un terzo dei paesi del mondo esistesse tale possibilità, mentre in Europa fra 2018 e 2019 meno del 40 per cento dei Paesi disponevano di personale all’uopo specializzato, e inoltre le possibilità di formazione specifica erano limitate.

Nel 2011 su questa stessa rivista compariva un articolo che metteva in evidenza le principali problematiche e gli aspetti peculiari dell’assistenza al bambino con malattia non guaribile, con riferimento in particolare alla situazione italiana e alla normativa vigente.29 Un altro contributo evidenziava nel 2015 quanto fossero ancora scarse le conoscenze dei pediatri italiani su questo argomento.30 Altri utili articoli, editi su Quaderni acp nel corso del 2021 e 2022, hanno permesso ai pediatri di conoscere come affrontare alcune delle patologie che affliggono i bambini eleggibili a cure palliative dando loro modo di seguirli con più competenza a domicilio.31 Il primo hospice pediatrico italiano è sorto a Padova nel 2007 con quattro posti let-

Bibliografia

to32; in uno studio recentemente pubblicato33 risultano oggi attivi in Italia 19 centri specializzati nelle cure palliative pediatriche, distribuiti in 12 Regioni. In questi ultimi decenni si è reso sempre più evidente che il team multidisciplinare non dovrebbe limitarsi alle cure terminali, ma essere di supporto in ogni fase della malattia, dalla diagnosi ai primi cicli di trattamento, in fase terminale e nel periodo del lutto.34 Infine si è posta l’attenzione, da parte di Ida M. Martinson docente alla School of nursing dell’University of Minnesota, sulla possibilità di organizzare e praticare cure palliative e terminali domiciliari anche nel bambino come nell’adulto.35 Prima di questo momento l’ospedale era considerato il luogo del morire per la maggior parte dei casi. Gli studi della Martinson hanno dimostrato come le cure domiciliari risultino possibili, e non comportino disagio ai famigliari e agli stessi medici curanti. In questa ottica il fine vita a domicilio di un bambino risulta fattibile e può essere proposto alle famiglie. y

1 Cunningham H. Storia dell’infanzia. XVI-XX secolo. Bologna: Il Mulino, 1997.

2 Pozzi L. La lotta per la vita. Udine: Forum, 2000.

3 Istat. La mortalità dei bambini ieri e oggi in Italia, anni 1887-2011.

4 Golden J, e al. Children and youth in sickness and in health. Santa Barbara (Usa): Greenwood Press, 2004.

5 Gehardt C. Trattato completo delle malattie dei bambini. Napoli: Jovene, 1886.

6 Sisk B, et al. Pediatrics 2020; 145: e20191741.

7 Morpurgo B. Assistenza e trattamento dei carcinomatosi poveri incurabili. IV Congresso Lega italiana per la lotta contro i tumori. Torino, 8-9 ottobre 1938.

8 Bozeman MF, et al. Cancer 1955; 8:1-19.

9 Robertson J. Bambini in ospedale. Milano: Feltrinelli, 1973.

10 Morrissey J. Soc Work 1963; 8: 81-8.

11 Saunders C. Vegliate con me. Hospice Un’ispirazione per la cura della vita. Bologna: Edb, 2008.

12 Clark D. J Palliat Med 1998; 1: 73-81.

13 Spinetta JJ, et al. Pediatrics 1973; 52: 841-5.

14 Bluebond-Langner M. The private worlds of dyng children. Princeton University Press, 1978.

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Quaderni acp dell’Associazione culturale pediatri e qui riproposto nell’ambito della collaborazione tra Quaderni acp e il punto per affrontare insieme, con un taglio interdisciplinare e dialettico, le tematiche nell’ambito della salute materno-infantile.

15 Klinzing DR, Klinzing DG. Il bambino in ospedale. Firenze: La Nuova Italia, 1977.

16 Smith SD, et al. J Kans Med Soc 1979; 80: 113-40.

17 Lewis IC. Child Abuse Negl 1983; 7: 413-9.

18 Walco GA, et al. N Engl J Med 1994; 331: 541-4.

19 Collip PJ. Pediatrician’s Manual. Science Pubblication, 1977.

20 Burne SR, et al. Br Med J (Clin Res Ed) 1984; 289: 1665-8.

21 Goldman A, et al. Arch Dis Child 1990; 65: 641-3.

22 Ministero della salute. Documento tecnico sulle cure palliative pediatriche.

23 Whpca - Who. Global atlas of palliative care, 2nd edition, 2020.

24 Adams RC, Tapia C. Pediatrics 2013; 132: e1073-88.

25 Benini F, et al. Quaderni ACP 2011; 18: 216-20.

26 Benini F, et al. Quaderni ACP 2015, 22: 273-5.

27 Benini F, et al. Riv It Cure Palliative 2021; 23: 20-6.

28 Benini F, et al. Ital J Pediatr 2024; 50: 55.

29 Goldman A, et al. Arch Dis Child 1990; 65: 641-3.

30 Martinson IM, et al. Res Nurs Health 1986; 9: 11-6.

Come rendere le sale operatorie più sostenibili

Ottimizzare le risorse e ridurre i rifiuti per un ambiente chirurgico più sostenibile

Le sale operatorie hanno un impatto ambientale significativo. L’alto consumo di risorse come acqua ed energia, l’uso intensivo di materiali monouso come plastica e altri polimeri, e la produzione di rifiuti biologici e chimici contribuiscono alla loro elevata impronta ecologica. È necessario, quindi, mettere a fuoco e acquisire consapevolezza dell’impatto ambientale della chirurgia e delle sale operatorie, identificando possibili soluzioni senza compromettere la qualità delle cure.

L’impatto ambientale

L’impatto ambientale delle sale operatorie è dovuto soprattutto all’elevata quantità di emissioni prodotte, all’utilizzo di farmaci anestetici difficili da smaltire e, dato anche l’ambiente protetto, alla necessità di sterilizzare gli strumenti e di utilizzare quelli monouso.

Ma vediamo questi aspetti più nel dettaglio.

Emissioni. Secondo uno studio uscito nel 2017 sul Lancet Planet Health, un’operazione chirurgica produce in media, a seconda del tipo di operazione e di paziente, tra i 146 e i 232 kg di CO₂,1 causati soprattutto dal rilascio di gas anestetici nell’atmosfera, dall’utilizzo di apparecchiature mediche ad alta intensità energetica e dall’illuminazione. Si aggiungono, poi, le emissioni generate indirettamente attraverso il

trasporto dei rifiuti nei luoghi destinati allo smaltimento, l’incenerimento dei rifiuti e il rilascio di gas metano dalle discariche.2

Farmaci anestetici. Per quanto riguarda le emissioni legate al rilascio nell’atmosfera di gas anestetici, alcuni studi mostrano come i gas a maggior impatto siano il desflurano e il protossido di azoto, seguiti dall’isoflurano e il sevoflurano. È consigliabile cercare sempre strategie anestetiche alternative, come l’anestesia totale per via endovenosa o, quantomeno, evitare i gas con l’impatto più alto.3

Un altro problema da non trascurare riguarda i farmaci preparati e poi scartati, dato anche il loro costo elevato e il loro essere

rifiuti ad alta contaminazione ambientale. Basti pensare che i farmaci preparati prima dell’operazione “in caso di emergenza” – soprattutto efedrina, succinilcodina e lidocaina –rimangono inutilizzati oltre il 50 per cento delle volte.2

Gli strumenti monouso. L’utilizzo di strumenti monouso è molto cresciuto negli anni, sia per la facilità d’uso sia per ridurre il rischio di infezione. Si tratta, però, di un argomento controverso, poiché per alcune attrezzature, come i teli monouso, non è stato dimostrato che riducano il rischio di trasmettere infezioni rispetto a quelli riutilizzabili. Allo stesso tempo, le evidenze hanno mostrato come la diminuzione dell’uso di materiali monouso permetta di risparmiare sui costi e riduca i rifiuti: due aspetti da non sottovalutare.2

Sterilizzazione. La maggior parte delle volte i vassoi sterili di strumenti chirurgici standard vengono aperti per ogni operazione e, una volta aperto, l’intero vassoio deve essere sterilizzato nuovamente prima di poter essere riutilizzato. Spesso, tuttavia, viene utilizzata

solo una parte di strumenti sterilizzati. Uno studio – che ha seguito per tre mesi sei chirurghi di un reparto di chirurgia vascolare statunitense, che utilizzavano due diversi set di strumenti – ha mostrato come siano stati utilizzati solo 30 strumenti su 131 (22,9 per cento) e 19 su 152 (12,5 per cento).3 Anche in questo caso, secondo le evidenze a disposizione, riducendo il numero di strumenti in eccesso nei vassoi, si ottengono risparmi economici non trascurabili: un reparto statunitense di chirurgia plastica ha risparmiato 163.800 dollari in un anno riducendo il numero di strumenti nei set operatori. In termini di impatto sull’ambiente, però, il quadro è più sfumato ed è necessario condurre ulteriori ricerche.4

Cosa si può fare in pratica?

Molti interventi mirati alla riduzione dell’impatto ambientale delle sale operatorie dipendono principalmente dai decisori politici e sanitari, dai fornitori di dispositivi medici. Tuttavia non si può pensare che chi lavora nella chirurgia non abbia il potere di incidere positivamente. Ecco

alcune azioni che si possono mettere in pratica.5

{ Valutare sempre l’impiego di anestesia locale o loco-regionale, possibile anche in interventi di ernia inguinale e di artroprotesi di anca e ginocchio. Quando l’anestesia totale è necessaria preferire quella per via endovenosa. { Occorre limitare l’utilizzo del protossido di azoto solo in casi specifici e, se utilizzato, è bene verificare l’assenza di perdite dai tubi.

{ Se si utilizza l’anestesia per via inalatoria, è necessario scegliere il farmaco meno dannoso (il sevoflurano, ad esempio, ha un impatto minore dell’isoflurano e del desflurano).

{ Iniziare ad usare prodotti tessili riutilizzabili, tra cui i copricapo chirurgici, i camici sterili, i teli per i pazienti e le coperture per i carrelli. Infatti, non esistono prove certe che l’utilizzo dei dispositivi monouso riduca il rischio di infezioni.

{ Ridurre il consumo di acqua e di energia: dopo il primo lavaggio chirurgico delle mani con acqua e saponi antisettici della giornata, è possibile utilizzare solo la soluzione alcolica per i lavaggi pre-operatori successivi.

{ Riciclare gli imballaggi quando possibile oppure smaltirli come rifiuti assimilabili a quelli domestici, così come è bene differenziare la raccolta di metalli e batterie.

{ Ottimizzare i kit chirurgici comporta benefici sia per i pazienti sia per i medici, come la riduzione dei tempi operativi e del tempo necessario per il conteggio obbligatorio degli strumenti alla fine dell’intervento. Per ottenere benefici ambientali, è necessario ottimizzare i set utilizzando vassoi più piccoli o aumentare la disponibilità di strumenti confezionati singolarmente, da aprire solo quando necessario.

Tutte le persone che lavorano in area chirurgica possono, insieme,

apportare cambiamenti significativi e importanti. Analizzare criticamente i modelli organizzativi e pratici permette di modificare i comportamenti così da ottenere maggiori benefici sia per i pazienti sia per l’ambiente.

Essendo le sale operatorie una delle aeree ospedaliere più energivore ed essendo responsabili dell’utilizzo di grandi quantità di risorse, le strategie volte a diminuire l’impatto ambientale di queste aree possono contribuire in modo sostanziale e significativo a migliorare la sostenibilità dell’intero settore ospedaliero.

La rubrica “Scelte consapevoli. Per una sanità ecosostenibile” è realizzata da il punto in collaborazione con Isde Italia – Associazione medici per l’ambiente

Bibliografia

1 Macneill AJ, Lillywhite R, Brown CJ. The impact of surgery on global climate: a carbon footprinting study of operating theatres in three health systems. Lancet Planet Health 2017; 1: e381-e388.

2 Blough CL, Karsh KJ. What’s Important: Operating Room Waste: Why We Should Care. J Bone Joint Surg Am 2021; 103: 837-9.

3 Sherman J, Le C, Lamers V, Eckelman M. Life cycle greenhouse gas emissions of anesthetic drugs. Anesth Analg 2012; 114: 1086-90.

4 Robb HD, Winter Beatty J. Sustainable practice: Optimising surgical instrument trays. BMJ 2023; 383: e076274.

5 The Intercollegiate Green Theatre Checklist. Pubblicata a novembre 2022.

Le tre azioni pratiche per una sanità ecosostenibile: leggi la scheda

La nuova Dichiarazione di Helsinki

Le novità nella raccolta di articoli del JAMA

1. La nuova Dichiarazione

Voluta dall’Associazione medica mondiale per rispondere ad abusi e violenze commessi con il pretesto di condurre ricerca scientifica, la Dichiarazione di Helsinki (DoH) è stata la prima di una serie di documenti di riferimento sui principi etici che dovrebbero guidare la ricerca medica che coinvolge partecipanti umani. Nell’anno del 60esimo anniversario della DoH, l’Assemblea generale dell’Associazione medica mondiale, i cui membri costituenti rappresentano più di 10 milioni di medici in tutto il mondo, si è riunita nuovamente a Helsinki e ha adottato all’unanimità una serie di revisioni. Innanzitutto, l’Associazione medica mondiale ha voluto sostituire in tutto il documento il termine “soggetti” con “partecipanti”. L’obiettivo è sottolineare la necessità del rispetto dei diritti dei cittadini e l’importanza della persona come partner nell’attività di ricerca. Allo stesso modo e in linea col punto precedente, la nuova terminologia adottata nel paragrafo 6 richiede “un impegno significativo con i partecipanti potenziali e arruolati e con le loro comunità (...) prima, durante e dopo la ricerca medica”, riconoscendo il ruolo essenziale come co-produttori di ricerca dei partecipanti allo studio. È stata posta particolare attenzione a eliminare passaggi nel testo che potessero richiamare discriminazioni di genere e, in generale, il documento è ora più inclusivo rispetto alle precedenti versioni. “I principi dovrebbero

essere sostenuti da tutti gli individui, le équipe e le organizzazioni coinvolte nella ricerca medica” commenta Jack S. Resneck Jr della università di California San Francisco, “poiché sono fondamentali per il rispetto e la protezione di tutti i partecipanti alla ricerca, compresi i pazienti e i volontari sani”. Il punto 6 della Dichiarazione affronta nuovamente il tema della giustizia distributiva e globale, invitando i ricercatori a “considerare attentamente come vengono distribuiti i benefici, i rischi e gli oneri della ricerca”. Non è una questione di parole, ma un’importante integrazione al documento perché dà enfasi alla convinzione che la generazione di nuove conoscenze – oltre ad approfondire la comprensione delle malattie e migliorare gli interventi – dovrebbe in ultima analisi far progredire la salute individuale e pubblica. È chiara l’intenzione di scoraggiare la ricerca futile che non ha l’obiettivo di chiarire l’incertezza su questioni davvero rilevanti per la salute delle persone. La revisione mantiene la propria attenzione anche su uno degli aspetti fondanti del documento: il rischio di subire un torto o un danno da parte di chi è vulnerabile e raccomanda tutele particolari per le popolazioni considerate a maggior rischio. Per quanto riguarda il consenso informato, la nuova versione della DoH richiede il consenso libero e informato per la raccolta, l’elaborazione, la conservazione e l’uso secondario prevedibile di materiale e dati biologici, nonché

l’approvazione e il monitoraggio dell’attività delle banche dati e biobanche da parte dei comitati etici. Anche questo è un punto chiave e molto “contemporaneo” anche perché riconosce di fatto che il consenso per la ricerca secondaria non inizialmente prevista sui dati conservati è talvolta impossibile da ottenere. Altre integrazioni alla DoH rafforzano le parti dedicate alla sostenibilità ambientale, alla progettazione rigorosa degli studi per evitare sprechi nella ricerca e alla centralità dell’integrità scientifica.

2. La scelta del confronto

Sebbene la dichiarazione si sforzi di affrontare la ricerca medica in tutti i contesti, rimangono molti interrogativi, sostiene in una Viewpoint del JAMA Barbara E. Bierer, del Department of medicine,

Brigham and women’s hospital and Harvard medical school di Boston. Bierer punta il dito sulla questione della scelta del comparatore negli studi clinici. “La dichiarazione 2024 consente l’uso del placebo solo in condizioni attentamente controllate in cui non esiste un’alternativa sicura ed efficace, ma per il resto richiede l’intervento per il quale esistono le prove migliori.” Un comparatore diverso dal migliore è consentito solo se i partecipanti non sono esposti a ulteriori gravi rischi di danno. Tuttavia, questa logica non tiene conto della disponibilità dell’intervento “best proven” in contesti con scarse risorse o per i partecipanti che non hanno un accesso immediato all’assistenza sanitaria. “Se il comparatore non è disponibile o accessibile al di fuori della sperimentazione – si chiede Bierer – deve essere offerto nel

contesto della sperimentazione?”. “Ad esempio, uno studio clinico oncologico per valutare un agente sperimentale orale potenzialmente efficace dovrebbe essere consentito solo se confrontato con il migliore intervento; ma che fare se questo migliore intervento è una car-T che richiede una produzione ad alta intensità di risorse secondo le buone pratiche di fabbricazione? Anche se i risultati della sperimentazione possono essere rilevanti solo per quelle comunità, la decisione non dovrebbe essere presa dalla comunità locale?” Bierer suggerisce che in alcune situazioni potrebbe essere etico e logico utilizzare in modo appropriato un comparatore disponibile nel contesto in cui viene condotta la ricerca. Come minimo – scrive – la dichiarazione potrebbe consentire eccezioni guidate dal processo.

3. Con gli occhi del cittadino

JAMA offre uno spazio di commento anche a una rappresentante dei pazienti, Lara Bloom, della EhlersDanlos association. Bloom mette l’accento sulla maggiore protezione dei dati del partecipante alla ricerca e sulla trasparente intenzione di incentivare un processo decisionale condiviso tra ricercatori e partecipanti. “Si tratta di uno sviluppo promettente, ma c’è ancora molto lavoro da fare per garantire che questi principi siano applicati nella pratica, in particolare quando si tratta di assicurare un accesso equo agli studi clinici per le popolazioni emarginate” scrive Bloom. “La globalizzazione delle sperimentazioni cliniche offre possibilità entusiasmanti per la ricerca medica, ma solleva anche preoccupazioni etiche riguardo all’accesso equo e al potenziale sfruttamento delle popolazioni vulnerabili”. Insomma, anche con gli occhi del cittadino la nuova versione della DoH rappresenta “un passo avanti fondamentale nell’etica della ricerca medica, in particolare per il riconoscimento dei pazienti come partecipanti attivi al processo di ricerca”. Tuttavia, spiega Bloom, il successo di queste nuove raccomandazioni dipende dall’efficacia della loro diffusione e attuazione. Educando i pazienti, collaborando con i politici e garantendo comportamenti responsabili nelle attività di ricerca, le organizzazioni di difesa dei pazienti possono contribuire a costruire un panorama più etico e incentrato sul paziente. “Insieme, possiamo garantire che il futuro della ricerca medica rispetti ed elevi le voci di coloro che cerca di servire”.

4. La Dichiarazione di Helsinki e nuove frontiere digitali

Un intero articolo – molto critico – è dedicato dal JAMA alle implicazioni della nuova DoH in relazione

all’intelligenza artificiale (IA). Secondo James T. Shaw dell’università di Toronto, “in primo luogo, l’attuazione della DoH deve confrontarsi con la realtà dei regimi giurisdizionali di governance dei dati”. In altre parole, la nuova DoH afferma, al paragrafo 10, che i ricercatori devono “considerare le norme e gli standard etici, legali e normativi per la ricerca” nel luogo in cui la ricerca ha avuto origine o viene svolta. “Tuttavia, quando si tratta di governance di set di dati sanitari esistenti – spiega Shaw – le norme divergono in modo sostanziale tra le varie giurisdizioni a livello internazionale. Quali entità debbano avere accesso ai dati sanitari – e in quali circostanze –continua a essere una questione influenzata da realtà sociali, culturali e politiche”. L’autore prende come esempio l’Unione europea che ha implementato il Regolamento generale sulla protezione dei dati nel 2016, quando ancora negli Stati Uniti manca una legislazione federale sulla protezione dei dati e la regolamentazione è sempre più frammentata nei singoli Stati. “Esiste una serie di posizioni divergenti sulla questione della protezione della privacy rispetto alla condivisione dei dati in nome della solidarietà, ognuna delle quali deve navigare tra le complesse aspettative sociali e legali in giurisdizioni specifiche”. In secondo luogo, secondo Shaw la messa a terra della DoH deve riconoscere la variabilità dell’alfabetizzazione in merito all’intelligenza artificiale sia all’interno delle giurisdizioni che tra di esse. “È ampiamente riconosciuto – sostiene – che le competenze limitate in materia di IA rappresentano una sfida per i comitati etici in tutto il mondo, interferendo con le loro capacità di prendere decisioni informate sulla ricerca che coinvolge l’IA”. Terzo, l’attuazione della DoH dovrà

riconoscere l’incertezza sui danni presenti e futuri dell’IA legata alla salute. Shaw cita a questo proposito i conflitti di interesse presenti ma non trasparenti in questo settore, in un campo in cui l’industria è molto potente e assai dotata di risorse. “Le implicazioni dei potenziali conflitti di interesse relativi a questi intrecci nello sviluppo e nella diffusione dell’IA in campo sanitario sono appena emerse e i danni potrebbero evolversi insieme alla tecnologia nel corso del tempo”. In definitiva, non mancano le sfide importanti per l’applicazione della DoH anche riguardo le questioni relative all’IA nella salute e nella ricerca clinica.

5. Etica della ricerca e pubblicazioni scientifiche

Un editoriale degli editor del JAMA Kirsten Bibbins-Domingo, Linda Brubaker e Greg Kurfman sintetizza e commenta i punti salienti della DoH. “La raccolta di articoli in questo numero di JAMA – scrivono gli autori – offre una ricca rassegna delle problematiche contemporanee della ricerca medica. Nel loro insieme, si riaffermano i principi etici fondamentali necessari per la protezione dei partecipanti umani alla ricerca biomedica, che hanno informato la regolamentazione dell’impresa di ricerca per sei decenni. Questi articoli fanno progredire ulteriormente la discussione, affermando il ruolo e il valore di una ricerca ben condotta, eticamente corretta e incentrata sul paziente, per generare le prove che informano le cure mediche e la pratica della salute pubblica. Nell’articolare l’importanza della ricerca per guidare l’assistenza ai pazienti e la salute della popolazione, l’insieme dei lavori di questo numero di JAMA è un invito a tutti noi ad adattarci ai cambiamenti dinamici del panorama biomedico, attuando al contempo i principi etici delineati nella Dichiarazione di Helsinki”. Benissimo, ma manca qualcosa: il

ruolo delle pubblicazioni scientifiche – dai grandi journals alle riviste predatrici – è fondamentale sia per filtrare la buona dalla cattiva ricerca sia per incentivare comportamenti eticamente irreprensibili. Nell’editoriale del JAMA manca una riflessione autocritica sul comportamento di editor e publisher scientifici, che negli ultimi anni hanno tollerato – se non favorito – che una ricerca incurante dei bisogni della popolazione fosse ben disegnata, condotta e comunicata.

I cinque articoli

1 Resneck JS Jr. Revisions to the Declaration of Helsinki on Its 60th Anniversary. JAMA 2024;19 ottobre.

2 Bierer BE. Declaration of Helsinki— Revisions for the 21st Century. JAMA 2024; 19 ottobre.

3 Bloom L. Revisiting the Declaration of Helsinki—A Patient-Centered Perspective. JAMA 2024; 19 ottobre.

4 Shaw JT. The Revised Declaration of Helsinki—Considerations for the Future of Artificial Intelligence in Health and Medical Research. JAMA 2024; 19 ottobre.

5 Bibbins-Domingo K, Brubaker LB, Curfman G. The 2024 Revision to the Declaration of Helsinki. Modern Ethics for Medical Research. JAMA 2024; 19 ottobre.

Comportarsi da medici in tempo di guerra

“Campo di battaglia”, il nuovo film di Gianni Amelio, è ambientato nei “vecchi tempi” e più precisamente nel 1918 in un ospedale militare italiano. I protagonisti sono due medici e un’infermiera. I medici sono amici di lungo corso ma assumono posture molto diverse rispetto alla guerra e a come interpretare all’interno di essa il proprio ruolo di medico. Stefano (Gabriel Montesi) è convinto che la sua missione di medico sia quella di rimandare al più presto i feriti al fronte e di sgamare i disertori che attraverso automutilazioni e simulazioni cercano di sfuggire all’orrore della guerra. Giulio (Alessandro Borghi) invece, di nascosto ma con il consenso dei diretti interessati, aggrava la loro sintomatologia, procurando così diagnosi invalidanti a chi non vuole più combattere. Tra i due, dal punto di vista sia professionale che sentimentale, si trova Anna, interpretata da Federica Rosellini, un’infermiera che ha studiato

medicina insieme a loro ma con difficoltà, dovute alla discriminazione di genere, che le hanno impedito di laurearsi.

I feriti parlano negli svariati dialetti, non si capiscono tra di loro e noi li capiamo solo grazie ai sottotitoli. Tuttavia la loro sofferenza condivisa fa sì che alla fine “si capisce tutto”, come afferma uno dei soldati

Un altro protagonista è il gruppo dei pazienti feriti e mutilati, incarnazioni della realtà bellica spogliata da ogni retorica eroica, che viene così smascherata per quello che è: un dispositivo di potere finalizzato all’inebetimento di massa. I feriti parlano negli svariati dialetti (siciliano, napoletano, sardo, veneto, piemontese, friulano e altri ancora), non si capiscono tra di loro e noi li capiamo solo grazie ai sottotitoli. Tuttavia la loro sofferenza condivisa fa sì che alla fine “si

capisce tutto”, come afferma uno dei soldati. Una barriera linguistica che accomuna il nemico e il commilitone: per il soldato siciliano risulta incomprensibile non solo il tedesco ma anche il veneto o il friulano dei suoi compagni. Un fatto che sicuramente ha contribuito, insieme all’inutile massacro a cui assistono e che compiono quotidianamente, alla sensazione di estraniamento, di assurdità degli eventi, che porta molti dei ragazzi alla decisione di tentare la diserzione attraverso atti di automutilazione. In una delle prime scene conosciamo Stefano mentre fa il giro del reparto (con il camice bianchissimo sopra la divisa militare). Si ferma al letto di un ragazzo con una ferita da arma da fuoco al piede. Dopo aver ascoltato il racconto del paziente si fa mostrare i suoi stivali (intatti) e lo mette di fronte alla scelta: ritorno immediato al fronte o la fucilazione. Una scelta che non viene concessa da Stefano in un’altra occasione nella quale il “simulatore” viene inviato direttamente al plotone di esecuzione che lo fucila alla presenza del resto dei pazienti radunati sotto il motto “Per la Patria e l’Umanità”. A metà film irrompe la Spagnola che aggiunge un’ulteriore dimensione, un altro “campo di battaglia”, sul quale vediamo poi Giulio cercare di farsi quell’onore che è impossibile guadagnare su quello della guerra.

Le tirate ultranazionaliste e belliciste di Stefano sembreranno grottesche allo spettatore odierno, ma riflettono probabilmente la postura di buona parte della classe medica di allora. Agostino Gemelli per esempio, il celebre frate francescano, medico e psicologo e futuro fondatore dell’università Cattolica, offrì allo Stato maggiore durante la guerra “la propria competenza di psicologo per motivare le truppe ad andare incontro alla morte senza particolari resistenze e per

Un frame del film “Campo di battaglia” | © 01Distribution

realizzare su larga scala un condizionamento di massa fino all’elaborazione della teoria della catechesi del cannone”, afferma Sergio Tanzarella, ordinario di Storia della Chiesa presso la Facoltà teologica dell’Italia meridionale ( La grande menzogna. Dissensi Edizioni, 2018). Il “volto religioso della guerra” affiora solo marginalmente nel film ma emerge con forza “la rappresentazione totalmente opposta alla realtà delle trincee” dei discorsi, delle immaginette e dei santini ad uso dei soldati dove anche i morenti sono “integri e senza ferite, assistiti dal cappellano o dallo stesso Cristo che ne viene a raccogliere l’ultimo respiro”. Il film non lascia alcuno spazio alla glorificante retorica dell’estremo sacrificio per la Patria compiuto dai “caduti” e si colloca nel solco di capolavori del cinema antimilitarista come “Orizzonti di gloria”, “Niente di nuovo sul fronte occidentale” o “Uomini contro”.

Gli spunti per la riflessione sull’attualità o sulla storia più recente offerti dal film sono numerosi e importanti. Gli obblighi del medico costituiscono un tema molto dibattuto anche nell’ambito della “lotta al terrorismo”, dove per alcuni il medico è chiamato a difendere in primo luogo la “nazione” e non più il diritto alla salute dei suoi assistiti. Un altro dilemma etico, incontrato dai medici statunitensi in Iraq, era il respingimento della popolazione irachena in cerca di aiuto, soprattutto per problemi di natura pediatrica (Gawande A. NEJM 2004; 351: 2471-5). Un aspetto che emerge anche nel film in una scena nella quale un gruppo di donne con bambini malati cerca aiuto all’ospedale militare e viene respinto ai cancelli sotto la minaccia delle armi. Una efficace allegoria del drenaggio di risorse da parte del settore militare a svantaggio di sanità, istruzione, cultura e politiche sociali.

Gli obblighi del medico costituiscono un tema molto dibattuto anche nell’ambito della “lotta al terrorismo”, dove per alcuni il medico è chiamato a difendere in primo luogo la “nazione” e non più il diritto alla salute dei suoi assistiti

Ma il pensiero va ovviamente soprattutto alla guerra in Ucraina che sempre più spesso viene definita “di logoramento” paragonabile al primo conflitto mondiale. Per quanto riguarda i temi affrontati dal film, “secondo il Parlamento ucraino – scrive la Cnn – nei primi quattro mesi del 2024 i procuratori hanno avviato procedimenti penali contro quasi 19.000 soldati che hanno abbandonato i loro posti o hanno disertato”. Relativamente alla cura dei feriti, è interessante notare che nel caso di assistenza sanitaria all’estero di soldati ucraini feriti il Paese ospitante deve garantire di riportare in Ucraina i pazienti non appena curati e di nuovo abili al combattimento. Una regola che pone i medici di quei Paesi esattamente nella situazione descritta nel film di Amelio e nella quale si trovano ovviamente anche i medici ucraini (e russi). È anche la ragione per la quale la Svizzera si rifiuta di accogliere soldati feriti nei propri ospedali. “Se c’è la necessità di trasferirli (i feriti) all’estero, anche uno Stato neutrale può accoglierli attraverso un accordo, ma violerebbe la propria neutralità se questi poi tornassero a combattere”, spiega Paola Gaeta, professoressa di diritto internazionale a Ginevra (La Svizzera non cura soldati ucraini. RSI News, 18 luglio 2022).

Quindi che fare e cosa dire della condotta di Giulio, che fa ammalare o aggravare i pazienti pur di non doverli rimandare al fronte? Anche Giulio viola la deontologia medica, ma “a fin di bene”, si potrebbe essere tentati di aggiungere. Ma così facendo Giulio mette in pratica (e

noi approveremmo) la massima de “il fine giustifica i mezzi”, una impostazione deleteria che non si discosta in linea di principio da quella seguita da chi permette deroghe alla deontologia in difesa della nazione. Quindi mentre siamo dalla sua parte non possiamo comunque approvare fino in fondo il suo agire ed emerge invece con forza la necessità di adoperarsi affinché non ci si trovi mai in una situazione nella quale si è messi di fronte a certi dilemmi dai quali è poi difficile uscire.

Le persone che si rifiutano di continuare a partecipare alla guerra, così ben descritte nel film, meriterebbero di essere sostenute

Per noi oggi significa impegnarsi, in quanto operatori sanitari, contro il militarismo e la guerra e per la pace, da raggiungere e mantenere con mezzi pacifici che non sono in contraddizione con il fine umanitario perseguito. Da questo punto di vista, la dichiarazione delle società scientifiche sanitarie a favore della pace è un esempio da valorizzare.

Le persone che si rifiutano di continuare a partecipare alla guerra, così ben descritte nel film, meriterebbero di essere sostenute, per esempio garantendo a tutti i disertori, russi e ucraini e di qualsiasi altra nazionalità, l’accoglienza e un permesso di soggiorno di protezione internazionale nei Paesi dell’Unione europea. Se questo non avverrà avremo una ragione in più per dubitare che “i vecchi tempi” siano veramente passati.

Pirous Fateh-Moghadam Responsabile Osservatorio epidemiologico

Dipartimento di prevenzione

Azienda provinciale per i servizi sanitari Provincia autonoma Trento

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